Astri di paura

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Associazione Servizi Culturali promuove l'iniziativa "Un aiuto a colpi di penna" .

"ASTRI DI PAURA" di Federica D'Ascani

Titolo: ASTRI DI PAURA Autore: Federica D'Ascani Genere: Horror Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Selezione Pagine: 120 Prezzo: 12,10 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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FEDERICA D’ASCANI

ASTRI DI PAURA

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com

ASTRI DI PAURA 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Federica D’ascani ISBN 978-88-6307-200-6 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2009 da Digital Print Segrate - Milano


PREFAZIONE

Scrivere horror non è assolutamente cosa facile: non basta riempire un romanzo o un racconto di figure demoniache o mostruose; non basta infarcire il testo di sangue e morti violente o ambientare la storia in una casa infestata o in un antico castello maledetto… quello che servono sono: l’atmosfera giusta, il pathos, il giusto intercalare di tensione e momenti di calma, in un’alternanza di attimi preparatori in cui tutto potrebbe succedere ma non accade nulla. Servono colpi di scena che sappiano destabilizzare il lettore per indurlo a spaventarsi, fino a costringerlo a guardarsi all’interno, scavando nel subconscio e riuscendo a solleticare e portare alla luce le sue paure più profonde. Scrivere horror, come dicevamo, non è assolutamente cosa facile, ma a Federica D’Ascani riesce molto bene; sa calarsi perfettamente nella mente del lettore e, sapientemente, lo guida, mano nella mano, attraverso un turbinio di orrori che (non per maschilismo, ma semplicemente per luoghi comuni), non ci si aspetterebbe da una donna. Eppure tante sono le figure femminili che, oggi come oggi, scrivono horror: e ben venga questa nuova ondata di autrici che hanno saputo dare al genere quel tocco in più; finalmente una pennellata femminile che ha permesso a questo tipo di letteratura di tentare strade nuove, differenti e, permettetemi di dirlo, più spaventose che mai. Del resto, se l’archetipo della donna è sempre stato quello della categoria del genere umano che più si fa sorprendere dalla paura, chi meglio di una donna potrebbe incutere timore e inquietudine? E Federica D’Ascani questo lo sa bene! Dunque, che siate uomini o donne, fate attenzione quando spegnete la luce dopo aver letto i suoi racconti, perché l’orrore si nasconde proprio lì, nella vostra stanza,


sotto il letto, nell’armadio, sul comodino insieme al vostro libro preferito‌ che potrebbe aprirsi inaspettatamente mentre dormite e vomitarvi addosso tutte le paure che si celano nel buio! Davide Longoni Webmaster www.lazonamorta.it


La Caduta dello Stolto

Gli occhi serrati avverto quella perla solcare la pelle il dolore si spande nello spazio ed è capace di piangere anch'esso Il buio mi sotterra ma risalgo dall'oscuro ancora sono il tuo esempio puoi seguirmi, se desideri La morte è un'amica sembra esserlo ma può apparire come un oblio difficile soccombere al nulla La brama della fine è troppa e non posso non voglio cadere dovresti anche tu Ma il sangue tuo è denso e copioso per cercare la salvezza allora lasci che quelle mani avide ti trattengano Fino alla fine l'aria mancherà sulle tue labbra ora, sul dirupo della vita e il cuore sarà ghiaccio


Il termine è giunto? non ancora non ora forse domani...

Federica D'Ascani


Con un ringraziamento speciale ai siti www.sognihorror.com www.lapennablu.it www.lazonamorta.it

Grazie agli scrittori e lettori che mi hanno aiutata e supportata‌ MP Black Barbara Risoli Alessandra Paoloni Davide Longoni Matteo Mancini Federica Allegrini Carla Cassago E tutti gli altri‌



FEDERICA D’ASCANI

ASTRI DI PAURA



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In vita come nella morte

Si avvicinò alla cucina, rischiarata solo dal chiarore della televisione accesa, e si arrestò sulla soglia, ascoltando il silenzio e scrutando il buio. Il rumore che aveva avvertito doveva provenire da lì, ne era certa. Stava seguendo il suo telefilm preferito, quando aveva sentito i passi di qualcuno camminare per il corridoio. Aveva tolto il sonoro con il telecomando e, afferrato l'ombrello che teneva sempre accanto per le situazione di emergenza, si era incamminata silenziosamente, uscendo dal salone. In punta di piedi, scalza, aveva poggiato una mano sul muro bianco del corridoio e, con l'altra, aveva puntato l'ombrello verso il buio della cucina, porgendo l'orecchio verso l'interno per carpire qualcosa. Silenzio. Aggrottò la fronte e portò un dito all'interruttore. La luce al neon invase la cucina e Grazia sobbalzò. Era così forte la paura di vedere qualcosa, che aveva avuto timore del suo stesso gesto. Portò una mano alla fronte, a detergere il sudore freddo che stava sgorgando dai pori della pelle, e mosse un passo in avanti. I capelli corti le si rizzarono sulla nuca e brividi di angoscia la percorsero dai glutei ai piedi. Cominciò a stringere le gambe una contro l'altra, come un bambino che sta per farsi la pipì addosso, e si voltò di scatto, impaurita. Aveva il terrore di trovarsi il vuoto dietro, con la sensazione che qualcuno potesse afferrarle le spalle, improvvisamente. Passi. Cominciò a respirare affannosamente, la sensazione netta di essere braccata, ed entrò nella cucina, con la schiena attaccata al muro. L'ombrello caduto a terra per lo spavento, avvertiva il freddo della


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porcellana contro i palmi delle mani tremanti. Pregò che l'asma non tornasse ad affacciarsi, come una scomoda amica, proprio in quel momento: sarebbe morta! Era sola in casa, suo marito era morto il mese prima e il dolore ancora le attanagliava il cuore stretto. Cominciò a rimpiangere l'aver rifiutato di trasferirsi a casa dei suoi genitori. Aveva voluto essere lasciata in pace di abitare in casa sua, libera di disporre della sua esistenza, nel ricordo del suo unico amore. Dannato orgoglio! Una lieve brezza le scostò una ciocca di capelli, facendola trasalire come mai le era accaduto in tutta la sua vita. Era aperta una finestra da qualche parte? E come? Aveva chiuso tutto, ne era certa. Fuori pioveva a dirotto e, per evitare di trovarsi l'acqua ai piedi del letto, il mattino dopo, era stata costretta, due ore prima, a sprangare casa e mettere stracci asciutti e spessi sotto il legno delle finestre. “Chi c'è? Ti prego, esci fuori!” Nessuno rispose alla sua richiesta e il silenzio tornò a permeare la casa, carica oramai di tensione. I passi, Grazia, li aveva sentiti distintamente e il vento le aveva davvero scostato i capelli. Ansimando, si accasciò a terra, la testa tra le mani. Avesse raccontato a qualcuno di essere stata preda di un intruso invisibile, come minimo, le avrebbero dato della folle psicopatica. Provò l'impulso di sorridere a quell'idea, ma in quel momento un rumore dalla camera da letto le fece arrivare il cuore in gola. La cena si mescolò nello stomaco, per il terrore, e le gambe sembrarono reticenti nell'obbedire al comando di sollevarsi. I battiti ancora irregolari, la donna si rialzò da terra, portandosi davanti al tavolo da pranzo; le mani sul legno, parve affogare nell'aria. Cercò un coraggio di cui sembrava del tutto priva e tornò sulla soglia della cucina, raccogliendo l'ombrello. Si recò, guardinga, in salotto e si sedette, le ginocchia rigide, sulla poltrona, pregando il buon Dio di risparmiare la sua giovane vita. Aveva ventinove anni, già un lutto sulle spalle e un' intera vita da ricostruire sul suo cammino. Sollevò il capo, stranamente dimentica del resto, e si guardò attorno,


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spaesata. Aveva investito tutto il suo futuro in quel matrimonio, e un banalissimo incidente di auto le aveva distrutto ogni sogno idealizzato. Ora, senza Luca, era costretta ad affrontare i giorni in solitudine, nel continuo ricordo dei loro momenti e dei loro gesti. Sarebbe mai riuscita a riemergere da quel lago salmastro di tristezza? Prese a fissare le immagini della televisione, priva di audio, ma senza vederle sul serio. I rumori erano cessati di colpo ma era sicura di ciò che era avvenuto e tutto il corpo continuava a rimanere in allarme, pronto a scattare in qualsiasi istante. E quello fu l'istante. Un passo dietro di lei la fece urlare e voltare, portando istintivamente l'ombrello davanti agli occhi. Non vide nulla, anche se un alito di vento prese ad accarezzarle la pelle, come se si fosse infranta una finestra proprio davanti al suo volto. Rabbrividì e si alzò dalla poltrona, questa volta determinata ad andare fino in fondo. Era sola, non l'avrebbe salvata nessuno quella sera, chiunque avesse fatto irruzione in casa. La stavano facendo impazzire, immaginando cose impossibili nella realtà, e non poteva accettare quel prendersi gioco di lei. Doveva morire? Bene, se proprio necessario almeno avrebbe combattuto! Voltò l'ombrello dalla parte della punta, affilatissima, come fosse stato un coltello, e si recò verso la sua camera da letto, accendendo tutte le luci. Avvertì una sorta di coraggio scaldarle le membra e muovere le sue gambe. Come se i suoi passi fossero guidati non dal suo volere, ma da una personalità positiva in grado di farla sentire più forte di ciò che era; si fermò davanti alla camera, immersa nel buio. Vide la lampada, sul comodino, accendersi d'un tratto, senza che nessuno si trovasse lì accanto. Cosa stava accadendo, lì dentro?


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Era stata presa in ostaggio da un fantasma? Le venne da sorridere ma la bocca non si mosse. La finestra della camera prese a sbattere contro il muro, portando il vetro a infrangersi. Grazia esclamò un urlo, presa in contropiede dal fenomeno improvviso. Fece per entrare nella stanza, portando le dita all'interruttore, ma qualcosa la spinse, facendola cadere a terra pesantemente. L'ombrello volò lontano e la finestra continuò a sbattere rumorosamente contro il muro, oramai fradicio di pioggia. Ansimante, cercò di rialzarsi, combattendo contro l'asma che le comprimeva i polmoni. Si raggomitolò su se stessa, portando le mani al petto, mentre fuori infuriavano i tuoni, coprendo i suoi rantoli persi nel vuoto. La luce si spense e si riaccese, il terrore le accartocciò la lingua e Grazia prese a lacrimare, nello sforzo di recuperare fiato. Morire in quel modo era da stupidi; non poteva permettersi una fine così banale. Fece appello a tutta la sua forza di volontà e si mise in ginocchio, poggiando le mani sul pavimento gelido. Sollevò le gambe malferme e aprì il comodino lì accanto, cercando freneticamente il medicinale che avrebbe allargato i polmoni compressi. D'un tratto il flaconcino si innalzò, levitando nell'aria e davanti ai suoi occhi imploranti, a portata di mano. Grazia sollevò la mano destra, mentre la sinistra stringeva i seni nel disperato tentativo di arginare il vuoto. Avrebbe afferrato il flacone, avrebbe aspirato quell'aria pura, colma di canfora, e sarebbe sopravvissuta alle sue paure. Lo avrebbe fatto, sarebbe riuscita nell'intento. Il flacone venne scaraventato lontano, verso la finestra aperta e infranta. La donna osservò, gli occhi lucidi, il suo medicinale compiere il volo e uscire dalla stanza, nell'aria bagnata della notte. L'asma riprese incessante e Grazia si accasciò a terra, sfinita, sperando solamente che la fine arrivasse presto, allontanando la


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sofferenza che la stava uccidendo. La gola prese a chiudersi, stretta nella morsa dell'apnea e due occhi la fissarono, scaltri e cattivi. Due occhi azzurri, due occhi glaciali... Gli occhi di suo marito. Grazia affinò lo sguardo, nell'ammanco d'aria, e vide il fantasma ritto davanti a lei, sorridente. “Perché?” Non seppe mai se quelle parole uscirono davvero dalle sue labbra, ma suo marito continuò a sorridere, avvicinandosi al suo capezzale. Lo osservò, oramai immobilizzata dal dolore, abbassarsi nella sua trasparenza spettrale e portare una mano grigia verso la sua gola. Grazia chiuse gli occhi e attese la fine. La pelle rabbrividì, al contatto con le ossa fredde di Luca, e la sua fine galleggiò nelle labbra del defunto, raggiante di agghiacciante felicità. Avrebbe avuto di nuovo sua moglie, avrebbe sfiorato nuovamente la pelle candida e si sarebbe immerso nel corpo della donna per l'eternità. Grazia smise di respirare, la finestra si chiuse e la lampada sul comodino si spense. Nel buio delle stanze risuonarono i passi sinistri del fantasma, pronto a ricongiungersi nella morte con la donna della sua vita.


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Il chiarore della luna

Era ferma, in piedi accanto al palo della luce, e non riusciva a staccare gli occhi dai due, avvinghiati nella macchina. La pioggia scrosciava e l'aveva oramai inzuppata fino le ossa. Le gocce di acqua si mescolavano al pianto, mentre i suoi lineamenti si piegavano in una maschera di tristezza assoluta. Tiziano era lì, davanti ai suoi occhi, abbracciato in maniera inequivocabile a Lisa. Completamente dimentico della loro storia, in piedi da otto anni, baciava la sua migliore amica come a volerla possedere in strada. Insensibile al freddo, e all'acqua battente e fastidiosa, rimase lì a osservare il tradimento che l'uomo della sua vita le stava infliggendo, come avesse ricevuto una pugnalata lenta e inesorabile nello stomaco. Un singhiozzo le scosse le spalle, ma non la distolse dal guardare. E guardare. E guardare ancora. Era masochista? No, voleva vedere, voleva scrutare i loro movimenti e saziare la sua bramosia di curiosità. Lo avrebbe distrutto una volta tornata a casa, ma ora voleva godere della scena continuando ad avvertire la punta di eccitazione diffusasi tra le sue gambe. Portò una mano a stropicciare un occhio, che una goccia di pioggia aveva irritato, e si ricordò del mascara e della matita con la quale aveva disegnato il contorno delle palpebre. Doveva oramai essere ridotta a una maschera orribile e immaginò il suo volto macchiato di trucco sbafato e sfatto. Scosse impercettibilmente la testa, socchiuse gli occhi, come a voler allontanare quei futili pensieri, e concentrò la sua attenzione nuovamente ai due in macchina. La mano di Tiziano non era visibile dal finestrino aperto, ma il


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braccio si muoveva in basso e intuì la sua meta sul corpo della donna. Lisa si faceva toccare e baciare come una puttana lasciva e, completamente inerme e abbandonata al sedile, apriva di tanto in tanto gli occhi a guardare l'uomo. Sorridevano, complici e dimentichi della strada e le persone. Pioveva e, in fondo, erano le otto di sera... Nessuno avrebbe badato a una macchina ferma nel parcheggio, con quel tempo (con i finestrini abbassati e sotto la luce di un lampione)... Sfrontati. Clarissa avvertì il volto indurirsi nella rabbia e lo sguardo assottigliarsi, nella pioggia sempre più fitta. La lingua frenetica leccò le labbra e le gambe tremarono. Furore ed eccitazione stavano combattendo contro la repulsione del pensiero. Avrebbe dovuto correre contro la macchina, scagliarsi contro il finestrino e afferrare i capelli di lei, lunghi e setosi, con un artiglio dilaniante; avrebbe dovuto insultare pesantemente il suo compagno, ammazzare di botte quella cagna, trascinandola a terra, e farle leccare la strada sporca. Avvertì le scariche di adrenalina partire dallo stomaco, sfrecciare a rapidità impressionante lungo le braccia ed emozionare infine le dita, chiuse ora a pugno. La bocca si aprì e, involontariamente, emise un urlo di tensione. Stupida. I due si scostarono di scatto, guardando insieme (sempre insieme) nello stesso punto. La sorpresa era stata rovinata dalle sue stolte e insulse corde vocali. Distinse con chiarezza ogni frammento, ogni singolo movimento e percepì l'aumentare dei battiti cardiaci dei due bastardi. Il fiato grosso, inspirava ed espirava, tenendo il tempo con il tacco a terra e continuando a guardare la causa del suo furore con estremo odio e rimpianto. Rimpianto di non aver compreso prima per evitare il danno futuro. Gli occhi di Tiziano si allargarono, lucidi di piacere e stupore; le sue mani erano state prontamente spostate dalle gonne di lei, a proteggere ciò che era già stato visibile. Ignorava avesse visto tutto?


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Imbecille senza pudore. Il vento sferzò improvvisamente i capelli di Clarissa; la pioggia mutò direzione e, infiltrandosi all'interno dei finestrini della macchina, cominciò a bagnare i due amanti. Lisa, muta e statica, giaceva sul sedile, con lo sguardo colpevole fisso a terra. Non aveva il coraggio di guardarla in faccia? Sbagliato! Un alito gelido le penetrò nell'animo; un brivido le scosse la pelle e una certezza, chiara e limpida, come i fulmini che solcavano il cielo quel pomeriggio, le danzò nella mente, visibile e musicale. Lei era speciale. Era la luna che le stava parlando... e aveva ragione. Sorrise nell'acqua, mentre Tiziano, destatosi dallo stupore iniziale, scendeva dalla macchina. Voleva raggiungerla, tentare di chiarire, di parlare... Il sorriso fu ghigno, ma nessuno ancora comprese. Clarissa chiuse gli occhi e avvertì un potere, immenso e oscuro, pervaderle le membra; una violenza sublime si scatenò nelle sue vene, esplodendo nel riso soddisfatto del vincitore. Tiziano arrestò il suo cammino e rimase, il cuore forsennato nel petto, a fissare la sua compagna. Il vento si quietò improvvisamente, la pioggia si fece più intensa e il fumo della sua potenza si levò dall'asfalto. Una luce rossastra attraversò lo sguardo, demoniaco, della donna mentre la macchina, dove Lisa ancora sedeva inerme, prendeva inspiegabilmente fuoco, silenziosamente, celata nello scrosciare dell'acqua battente. Tiziano, ignaro, riprese a camminare verso la sua compagna, l'acido della colpevolezza nella bocca. La macchina esplose e Clarissa, in quel mentre, sorrise gaudente. Balzò indietro, volando per quattro metri, ma Tiziano non se ne rese conto: l'uomo fu gettato a terra dalla violenza della deflagrazione, colpito da innumerevoli detriti, e rimase cosciente per miracolo. Il fuoco scoppiettava, alimentato dal cherosene, nel parcheggio del supermercato, e Clarissa, soddisfatta nel suo tailleur grigio, avanzò


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verso i resti di quell'insulso insetto. Tiziano sollevò a fatica il capo, ustionato dall'esplosione, riuscendo solamente a urlare dal dolore. L'occhio buono (l'altro, dimenticato, era rotolato fuori dall'orbita) fissò, tra le grida, la donna. La stava implorando in silenzio. La strega sollevò un ginocchio e, concedendogli ancora un ultimo, fugace scintillio di lacrima, piantò il tacco a spillo nel suo foro oculare, permettendo al sangue di schizzare sulle calze e sull'asfalto. Stava perdendo i sensi. No. Urlava ed era ancora cosciente. Doveva esserlo. Doveva soffrire. Sollevò il corpo dell'essere insulso, con il quale aveva convissuto; con una sola mano, come stesse spostando una lattina di chinotto, lo gettò contro il palo della luce, (lo stesso accanto al quale aveva sostato fino a pochi istanti prima) e lo guardò ruzzolare pesantemente a terra. Si avvicinò nuovamente al bozzolo informe e, chinandosi verso il suo volto ancora agonizzante, gli leccò le labbra con la soddisfazione perversa di essere l'ultima persona a possederne il controllo. Un accesso d'ira e tutto scomparve. Il corpo di Tiziano si unì alle macerie infuocate della macchina, sfrigolando accanto ai resti martoriati della puttana. Clarissa rimase a guardare la scena, gli occhi lucenti di gioia e il sorriso dipinto sulle labbra impeccabili. Si voltò e, allontanandosi dal parcheggio, camminò sotto la pioggia, verso casa. L'acqua avrebbe lavato via il marcio, restituendo alla terra i semi per un nuovo frutto. Ravviò i capelli indietro con le mani, guardando la luna. Era speciale, ora lo sapeva. Chi avrebbe più osato tradire la sua fiducia? Solo uno stolto... o uno stregone! Rise di gusto, tra le vie della città.


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Passaggio sotto la pioggia

“Anche la pioggia... Dio si è messo proprio d'impegno! Non bastava la macchina rotta, stamattina, e la traversata fino a Genazzano... Ci voleva anche il temporale!” Alfio, in sella alla sua moto, guardò il cielo plumbeo, ascoltando il rombo del tuono. Le prime gocce di pioggia gelida arrivarono poco dopo, crescendo notevolmente d'intensità, a ogni secondo. Il freddo si fece pungente, mentre l'acqua continuava a scendere impetuosa. “Ecco, lo dicevo io! Devo fermarmi assolutamente prima di perdere il controllo della moto...” Alfio, completamente fradicio, continuò ad avanzare lentamente sulla strada, sul lato destro, costeggiando il muro di cinta che circondava tutta San Vito. “Ci siamo, finalmente... per poco non arrivavo a casa!” L'uomo si infilò, decelerando, in una rientranza nella pietra e discese dalla moto, togliendosi il casco dalla testa. “Piove che Dio la manda oggi, eh?” Alfio si voltò, al suono della voce amica, e riconobbe Ascenzo. Era appoggiato con le spalle contro il muro opposto. “Ti sei riparato anche tu, vedo... Già, piove troppo... Mi sono dovuto fermare per evitare qualche incidente...” “Dove stai andando? In paese?” “Si...” Alfio si guardò intorno e notò che il suo amico era lì, solo e senza un mezzo per muoversi. “Appena spiove un poco, ti do un passaggio. Ho un casco in più sotto la sella.” “Magari! Grazie Alfio, sei un amico. Allora, da dove vieni?”


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“Sono dovuto andare a Genazzano... Sai, le scorte sono quasi finite e ho fatto l'ordine allo spaccio. La macchina si è rotta questa mattina, quindi domani, una volta sistemato il motore, torno in paese a prendere tutto... Tu? Che ci fai da queste parti senza neanche la bicicletta?” Ascenzo sorrise prima di rispondere, poi, sporgendosi un poco dalla rientranza a scrutare il cielo, si voltò verso l'amico. “Volevo fare una passeggiata a piedi. Con le mie gambe posso andare ovunque voglia, ormai...” “Beh, è una bella camminata da casa tua a qui... Stiamo a metà strada tra San Vito e Genazzano...” Alfio era stupito. Ascenzo non si era mai spostato da casa sua senza bicicletta, neanche per andare al bar della piazza. “Beh, camminare dicono faccia bene e alla mia età devo cominciare a muovermi... sai le ossa... Poi sono due giorni che mi fanno malissimo. Sembra che mi sia passato sopra un treno!” “E allora dovresti riposare invece di andare a zonzo sotto la pioggia. Questi si chiamano reumatismi, vecchio mio! Ehi, ha spiovuto... Andiamo!” “Grazie. Fermami davanti al bar, devo comperare il latte.” “Va bene... Salta su.” I due si misero in sella e risalirono pigramente la salita verso il paese. Entrambi in silenzio, non incontrarono nessuno per la via. Giunti davanti al bar, Ascenzo discese dalla moto e salutò, ringraziando l'amico. “Vienimi a trovare qualche volta, mi farebbe piacere. Anzi, perché non vieni a cena, domani? Ricordi come cucina Gina, no?” “Certo che lo ricordo! Tua moglie è una gran cuoca, ma devo rifiutare, a malincuore. Non posso domani, ho un impegno che non posso proprio rimandare. Ti verrò a trovare, però... Di tanto in tanto...” “Va bene, e mi raccomando, riguardati!” “Grazie ancora per il passaggio.”


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I due si congedarono e Alfio si rimise in moto verso casa. Il cielo minacciava nuovamente pioggia e non desiderò altro che un buon piatto di minestra bollente e il suo letto riscaldato dal corpo, ancora florido, di sua moglie. *** Il giorno dopo si destò, sorridente, con il sole alto e il cielo terso. Una bella aria frizzante colpì il suo volto, non appena mise il naso fuori la porta, e Alfio respirò a pieni polmoni quella sferzata di vita. Si recò a piedi verso il meccanico, per recuperare la macchina; nel pomeriggio sarebbe andato nuovamente a Genazzano. Le scorte erano agli sgoccioli, oramai, e se non avesse provveduto Gina lo avrebbe ucciso. “Ciao Romolo, allora, la macchina è pronta?” “Ciao Alfio... Si, è qui. Pronta! Ho già fatto il giro di prova ed è tutto apposto. Aspetta che ti faccio la fattura. Ieri, poi, sei andato a Genazzano?” “Si, ho potuto solo ordinare però... Ci torno oggi pomeriggio e prendo tutto. I soldi che partiranno questo mese... E' meglio non pensarci! Ieri ho incontrato Ascenzo, sulla via, ed era completamente zuppo, come un pulcino in una pozzanghera!. Gli ho dato un passaggio fino al bar e gli ho chiesto di venire a cena da noi stasera, ma ha detto che aveva un impegno urgente che non poteva rimandare... Era da tanto che non lo vedevo, ma non l'ho trovato molto in forma, a dire la verità... Stava anche senza bicicletta! Ecco, quello è stata la cosa più strana di tutte... ” Si accorse in quel momento che Romolo si era fermato davanti al cancello e lo fissava, stupito. “Cosa c'è? Che ho detto?” “Chi hai incontrato, ieri?” Il meccanico aveva deglutito... sembrava spaventato? “Ascenzo!” “Credo tu ti stia sbagliando...” Era addirittura impallidito! Alfio non riusciva a capire il motivo di tutta la confusione dipinta


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sul volto dell'amico. “Io sono sicuro di quello che dico. Vuoi che non sappia a chi ho dato un passaggio sulla mia moto?” “Ti dico che ti stai sbagliando...” “E perché?” Impulsivo com'era, avvertì gli artigli del nervosismo cominciare a farsi le unghie lungo le pareti del suo stomaco. Il volto doveva essere diventato rosso vermiglio, c'era da scommetterci! “Alfio, Ascenzo è morto due giorni fa, lo hanno investito... Oggi fanno i funerali...” Non comprese subito e fece fatica a realizzare la pesantezza delle parole appena pronunciate “Ma che cosa stai dicendo? Io ci ho parlato, l'ho visto, io l'ho...” D'un tratto il calore abbandonò le sue guance e un freddo penetrante si insinuò nelle vene invecchiate. Impallidì. “Sembra che mi sia passato sopra un treno!” “Tua moglie è una gran cuoca ma devo rifiutare, a malincuore. Non posso domani, ho un impegno che non posso proprio rimandare. Ti verrò a trovare, però... Di tanto in tanto...” “Oh mio Dio...”


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Il Clochard

Sostava ogni giorno sotto il tunnel della metropolitana, fumando nazionali. Era sporco, i capelli lunghi, unti e brizzolati, chiedeva l'elemosina ai pendolari. Ogni giorno. Ogni notte. Ma Ragno non aveva mai visto il becco di un quattrino, neanche da parte di quelli così moralisti da sedersi in salotto, la sera con gli amici, disquisendo sulla povertà vergognosa che popolava la città. Ipocrisia. I signorotti che sorseggiavano vino, prendevano pasticcini e tè alle cinque del pomeriggio, sempre agghindati a festa dal mattino alla sera... Le signore dai bei capelli acconciati e profumati, i trucchi variopinti e i capi firmati che indossavano... Quella era la feccia della società, individui da scrutare dal basso verso l'alto con espressione disgustata. Infagottato nelle notti d'inverno, nei suoi cartoni, aveva adibito a dimora un hotel abbandonato, nel bel mezzo di un quartiere frequentato dagli stessi ricconi che tanto lo disprezzavano. Con il calare delle tenebre, quando tutti erano rintanati nelle loro case, al caldo tepore del camino, Ragno si armava di liquore forte e andava a coricarsi nella sua reggia, lontano da occhi indiscreti. A volte riusciva a portare con sé qualche amica, per passare il tempo o solo per dar sfogo alle sue voglie represse di uomo di strada. L'aspetto che aveva non pregiudicava il fatto che fosse un ottimo amante e fortunatamente le puttane di strada non si formalizzavano davanti all'odore o alla sporcizia: a quelle cagne bastavano i soldi. E di quante storie era venuto a conoscenza durante i suoi incontri a pagamento...


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I potenti, che ricorrevano alle loro mercanzie, o i ricchi, con la facciata di uomo onesto e fedele alla propria moglie, avevano menti perverse e violente... Il sorriso si allargava sulle sue labbra ogni volta che ascoltava un aneddoto su questo o quello: un sorriso di amarezza, invidia e rivalsa. I soldi non erano mai stati un problema; certo, non poteva attribuire la sua fortuna all'elemosina, ma non era neanche nella posizione di potersi lamentare. Ogni mattina, accanto al suo fagotto di stracci, trovava un fascio di banconote pronte per essere spese. Se avesse messo da parte tutti quei soldi, di giorno in giorno, avrebbe certamente avuto tra le mani una piccola fortuna. E qualcosa aveva, nel doppio fondo degli scarponi: una piccola riserva nel caso al suo misterioso benefattore capitasse qualcosa. Povero sì, stupido... No di certo! Una mattina si era svegliato, intorpidito dal troppo liquore scolato la notte precedente, e aveva trovato i soldi accanto, senza neanche un bigliettino. Nessun riferimento a persone o motivazioni. Non ci aveva pensato molto, comunque; aveva intascato le banconote e si era concesso un bel bagno di vino per festeggiare. Prima o poi, il suo benefattore avrebbe chiesto un tributo per la sua generosità? A volte Ragno pensava a quella eventualità, ma per paura liquidava il suo lambiccare con “quando capiterà si vedrà...” *** Erano le nove di sera e le strade erano completamente deserte, essendo inverno e buio pesto. Era una settimana, poi, che i lampioni non volevano saperne di accendersi e nessuno, ancora, era venuto ad aggiustare la centrale elettrica. Camminò a lato della strada, attento a non farsi investire da qualche pirata, e raggiunse la sua dimora. Sbadigliò al vento, sguaiatamente, senza pensare a nulla, solo con la voglia di dormire sodo. Quella mattina aveva avuto a che fare con un teppista, quello che si


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definisce un neonazista. E di neo aveva di sicuro il cervello. Lo aveva pestato a sangue, per gioco o per odio - non sapeva – e poi se ne era andato, non prima di avergli sputato addosso insulti e saliva. Dopo un tempo interminabile, era arrivata la polizia; lo avevano raccolto da per terra e portato in ospedale, dove era stato ripulito e medicato. Era stato portato in centrale, poi, per le solite formalità del cazzo e, infine, lasciato libero. Ad avere almeno venti anni in meno, lo avrebbe ucciso come un cane, quel figlio di puttana. Gli doleva tutto, non c'era parte del corpo che non gridasse dal dolore. Ora, però, era davanti casa e si sarebbe sdraiato nel suo letto di cartone, dormendo il sonno del giusto. Entrò e salì le scale a chiocciola; arrivò in quella che aveva deciso fosse la sua stanza e si arrestò di colpo, i brividi lungo tutto il corpo. C'era un uomo in piedi, accanto alla finestra senza vetri. Un uomo con una bombetta. In controluce, la sua figura era alta, snella e avvolta in una lunga veste. L'uomo si mosse e ruotò nella mano un bastone appuntito, uno di quelli da lord. Chi era quel cane che aveva osato violare casa sua? Ragno strinse i pugni, ma si rese conto che il dolore era troppo intenso anche per quel semplice gesto. Si arrese. Si sedette su uno sgabello, accendendo una lampada a petrolio, e si voltò verso l'intruso. Lo fissò. Era un bell'uomo, con dei baffetti curati, capelli neri, lisciati dalla brillantina, e uno sguardo ironico con cui lo rimirava. Il vestito nero classico, le scarpe, classiche anche quelle, e un mantello dall'imbottitura rossa. Surreale. Ragno lo guardò a lungo, senza proferire parola, e senza che l'intruso desse segni di impazienza. “Chi sei?”


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La voce, resa roca dal troppo liquore bevuto, era uscita corredata da sputacchi di saliva rossa. Ragno si pulì col dorso della mano, senza smettere di fissare l'uomo. “Ti sei curato? Quel ragazzino te le ha date di santa ragione, oggi!” Che voce... accattivante! Il barbone rimase interdetto e non riuscì a rispondere. “Non sai chi sono, dunque... eppure hai incassato il denaro che ti ho offerto senza problemi...” Il sorriso sardonico a increspargli le labbra, l'uomo pose entrambe le mani sul bastone da passeggio. “Eri tu, allora? Io non ti ho chiesto niente... Grazie...” “Oh, non c'è di che... L'importante è che tu ti faccia rispettare, caro... Io sono in grado di aiutarti. Ancora.” Il momento del tributo era arrivato, dunque. “E come? Mi ci vorrebbero venti anni di meno...” “Oh, ma è proprio questo a cui mi riferivo... e nel tuo ANIMO sai che posso farlo...” L'adrenalina si sciolse nelle vene e aumentò, di mille, i battiti del cuore di Ragno. La prospettiva di vendicarsi lo eccitò e gli fece rizzare i peli sulle braccia. Un timido sorriso si affacciò sulle labbra, ma una fitta gli ricordò i tagli profondi nelle gengive. L'uomo si avvicinò al barbone, che non si ritrasse, e gli impose una mano sul capo. Il contatto bruciò. Il riccone, poi, indietreggiò, e Ragno avvertì un gran sollievo ovunque, come se si fosse destato da poco. Prese una lastra di vetro, lì di fianco, e vi si specchiò alla luce della lanterna. Esclamò un urlo di gioia nel vedersi bello, giovane e senza un graffio. Voltò il capo verso l'intruso, gli occhi scintillanti e lacrimosi, non conoscendo parole per esprimere la propria gratitudine.


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“C... come hai fatto? Ma chi sei tu, un diavolaccio?” “Ci sei quasi, ma rimandiamo a dopo le presentazioni, Ragno... Ora abbiamo da fare, no?” Si guardarono e Ragno cominciò ad avvertire una punta di agitazione, che comunque scacciò via specchiandosi, nuovamente, nel vetro. “Cosa vuoi in cambio?” “Non parliamo ora di affari, caro... Non credi sia il caso di vendicarti di quel ragazzino? Magari l'effetto della mia magia potrebbe svanire in poco tempo...” “Potrebbe accadere davvero?” “E chi lo sa...” Ragno si alzò di scatto, rallegrandosi ancora una volta per l'agilità nelle sue nuove gambe giovani. Era deciso, doveva trovare quel tremendo figlio di puttana e fargliela pagare; gli avrebbe fatto ingoiare la lingua con la quale lo aveva insultato. “So io dove trovare chi cerchi, Ragno. Andiamo?” Il barbone si fidò e prese la mano dell'uomo nella sua, lasciandosi guidare fuori dall'hotel. Camminarono a lungo, vicini e complici, senza parlare. Giunti che furono davanti al tunnel, dove sostava Ragno di giorno, l'uomo si arrestò bruscamente e si voltò verso il barbone in trepidante attesa. “È qui.” Ragno, eccitato, non rispose nulla e si lanciò di corsa nella stazione della metropolitana, scavalcando la transenna con la quale era stata chiusa. Ed eccolo lì, il piccolo topo di fogna. Rideva con i suoi amici, la testa rapata alle luci delle loro torce, e fumava uno spinello incurante del pericolo. Quella notte, sarebbe stato il più grande incubo di quell'imbecille. Il barbone si avvicinò cautamente alla piccola combriccola, ascoltando i discorsi deliranti circa ebrei e froci. Piccoli bastardi figli di papà. Con uno scatto felino, si portò dietro al corpo del ragazzo e gli sferrò


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un pugno alla nuca. Colto di sorpresa, il giovane si accasciò a terra, la vista annebbiata dal dolore e le lacrime negli occhi. In un attimo barbone e teppista furono soli. La comitiva di piccoli topolini si dileguò in un secondo, spaventata da chissà cosa. Ragno osservò il ragazzo riacquistare lucidità e rialzarsi, in guardia, voltando il capo dalla sua parte. Lo scrutò, livido in volto, sorridendo di rabbia a quell'insulso viziato. Il giovane osservò il suo aggressore e cominciò a digrignare i denti, fino a urlare in maniera bestiale, il sudore freddo incollato alla giacca. “Stai zitto, stronzo!” Ragno si mosse rapidamente e tirò un calcio tra le gambe del ragazzo che si accovacciò a terra, stupito. Senza pensare, ascoltando solamente una voce nella mente, flebile ma nitida, il barbone sferrò un'ulteriore pedata sulla bocca aperta del teppista, che sputò tre denti inghiottendone altri quattro, tra urla e gemiti. La colluttazione continuò a senso unico finché il barbone, ancora galvanizzato dalla violenza, prese la lingua sporca e scivolosa del ragazzo e cominciò a tirare. Oramai esanime e completamente coperto di lividi e sangue, la vittima riprese conoscenza e cominciò a divincolarsi, terrorizzata e con i pantaloni bagnati di urina. Gli occhi infuocati dal furore cieco, Ragno strappò la lingua, facendo sprizzare sangue ovunque, e la ricacciò, con un sorriso folle, nella bocca del giovane, svenuto dal dolore e accovacciato a terra. Ma a Ragno non bastava: voleva vederlo soffrire e soffocare con gli occhi fuori dalle orbite. Lo schiaffeggiò a lungo, finché questo non riprese un minimo di conoscenza. Al sapore del proprio muscolo molle e insanguinato tra i denti, la vittima ebbe i primi conati di vomito acido. “Troppi spinelli, bastardo... e troppa birra.” Il barbone chiuse con una mano sudicia la bocca al ragazzo, ora


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impossibilitato a sputare la sua stessa lingua, e il naso con l'altra, impedendogli così di respirare in qualsiasi maniera. Lo vide diventare rosso in volto, mentre strabuzzava gli occhi dall'incredulità, e osservò il fiotto di bile che fuoriusciva dalle labbra sigillate. Lo vide morire nelle più atroci sofferenze e accolse quel trapasso con un sorriso largo e soddisfatto, privo di rimorso e colmo, invece, di pazza eccitazione. “Allora... Ti sei vendicato... Ti senti meglio?” Ragno sobbalzò e si voltò fulmineamente, fissando lo statico uomo distinto che gli aveva fatto dono, poco tempo prima, della forza e della giovinezza. Lo guardò, addolcì i lineamenti e rise di gusto, annuendo. “Bene, molto bene. Ora veniamo a noi... Avvicinati.” Ragno, sempre sorridente, si alzò, non riuscendo, però, a staccare lo sguardo dal corpo esanime del giovane. Era veramente soddisfatto della sua vendetta e del modo in cui era stata compiuta. Da tempo non si sentiva così in forma. E doveva tutto a quello strano ospite. Si avvicinò all'uomo, pulendosi la bocca col dorso della mano e lisciandosi i capelli, unti e sporchi di sangue fresco. “Mi devi la tua anima, Ragno.” Il sorriso scomparve dalle labbra del barbone che cominciò a tremare, fingendo di non aver compreso la frase. “S... scusa? Non ho capito bene...” “Hai capito, Ragno, hai capito molto bene... altrimenti il tuo cuore non avrebbe perso un battito e le tue mani non avrebbero cominciato a sudare. Mi hai chiesto se ero un diavolo... Io sono il Diavolo. Hai avuto la tua vendetta, sei tornato giovane per una notte e hai riacquistato la forza perduta. Lo avevi desiderato dopotutto, no? Io ho espresso il tuo desiderio e tu ora mi devi qualcosa. E io voglio la tua anima.”


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Il demone sorrise sornione, mentre Ragno tremava e piangeva. “Ti prego, fammi tornare vecchio, fammi apparire di nuovo le ferite... Torna indietro nel tempo, hai i poteri, puoi farlo, no?” “Oh, io potrei ma... non ne ho voglia!” L'uomo distinto, dalla bombetta stravagante, agitò il suo bastone da passeggio e lo puntò verso Ragno. Il barbone, gli occhi sgranati al semplice chiarore delle torce ancora accese dei ragazzi, cominciò a pregare un dio in cui non credeva. Tutto pur di salvare la sua anima nera. Nera. Tutto a un tratto, una risata cristallina, e quasi infantile, invase il tunnel della metropolitana e una nebbiolina bianca e densa si disunì dal corpo del barbone accorpandosi al bastone da passeggio. Il barbone cadde, ansimante, mentre il Diavolo sorrideva, soddisfatto. Agitò una mano e una piccola fiammella comparve ai piedi di Ragno. Prima che lui stesso ne potesse prendere coscienza, il suo corpo cominciò a bruciare come cosparso di benzina. Arse tra le urla, avvertendo ogni singolo lembo di pelle avvizzire sotto il potere del calore. Il Diavolo osservò divertito la scena; quando Ragno si accasciò definitivamente a terra morto, si avvitò su sé stesso e scomparve. Il mattino seguente il capostazione trovò un vecchio arso dal fuoco, sotto il tunnel della metropolitana . Del ragazzo nessuna traccia.


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Incubo in pieno giorno

Cos'era quella moria di persone? Erano giorni, ormai, che si ascoltavano, in continuazione, notizie angoscianti di gente morta ammazzata senza motivo. Addirittura bambini, nelle loro culle e nei loro lettini, uccisi senza remore, in ogni angolo del globo. L'isteria di massa stava cominciando a prendere il sopravvento e i governi, per tentare di spiegare quello strano e macabro fenomeno, avevano ricominciato con la solita litania del terrorismo. Ma nessuno credeva più ai kamikaze, pronti a far fuori l'intera popolazione mondiale... Perché non erano state trovate prove, perché gli assassini sembravano entrati nelle case passando dal nulla. Dal nulla erano arrivati e nel nulla avevano condotto le loro vittime. Senza lasciare traccia. Seduta alla scrivania dell'ufficio, Ester ascoltava le notizie alla radio con lo sguardo enigmatico e stupito, fissando suo padre. “Comincio a preoccuparmi, sai pa'? Qui continuano a morire persone, senza motivo e dappertutto. A proposito, hai sentito mamma?” “Veramente ho provato a chiamarla poco fa, ma non mi ha risposto al telefono. Starà a lavoro e non lo ha sentito... Comunque stai tranquilla e non ci pensare. Senti, invece, scendi a prendermi un caffè alla macchinetta? Stanotte non ho dormito quasi per niente, con tutti i rumori che hanno fatto i vicini. Sembrava volessero demolire casa. Sicuramente litigavano. Le urla saranno arrivate fino in paradiso!” “Va bene, ne approfitto e ne prendo uno anche io... Ho un sonno...” “Tu hai sempre sonno...” “Infatti non ti ho detto che qualcuno mi ha tenuto sveglio... non ho


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bisogno di scuse IO...” Sorrise della sua insinuazione, guardando di sottecchi suo padre. “Senti, muoviti vai, sbrigati che qui il lavoro si accumula...” “Brucia la verità, vero? Dai, dammi i soldi, ci metto due secondi...” “Potresti anche offrire tu, ogni tanto!” Antimo prese il portamonete, estraendo una manciata di spicci, e lanciò scherzosamente i soldi verso sua figlia; le monete caddero a terra nello stesso momento in cui l'allarme cominciava a lanciare il suo grido. Ester sobbalzò e suo padre fece cadere, per lo stupore, il portamonete a terra. “Cos'è?” “Non lo so, ma mi hanno fatto prendere un colpo. Sarà il solito allarme antincendio che scatta da solo. Fosse mai venuto qualcuno a ripararlo…” Ester annuì, tappandosi istintivamente le orecchie. Il suono era molto alto e sembrava volerli mettere, sul serio, in guardia da qualche pericolo. “Va bene, io vado.” Ester uscì dal suo ufficio, ascoltando la sirena incessante martellarle i timpani. Discese le scale e giunse davanti alla macchinetta del caffè, il corridoio silenzioso di brusii e invaso solo da quel suono assordante e fastidioso. Sbuffando, tolse le mani dalle orecchie e ordinò i due caffè, battendo il tacco a terra nell'attesa. Si voltò verso il corridoio e corrugò la fronte. Nessuno usciva dai propri uffici, nessuno parlava o discuteva come ogni giorno. Il palazzo sembrava deserto. Strano. Il suono della macchinetta segnalò l'uscita dell'ultimo caffè. Ester afferrò i due bicchieri, stando attenta a non scottarsi, e prese a risalire le scale... quando avvertì i suoi peli rizzarsi dalla paura. Si immobilizzò e ascoltò. Suo padre stava urlando. E non di collera, ma di paura folle.


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Si lanciò per le scale, senza pensare, salendo le ultime due rampe con tutta la velocità di cui poteva essere capace e, gettando i caffè a terra, si riversò nel corridoio. Il padre continuava a urlare il suo nome, disperatamente, come se quella fosse l'unica cosa che riuscisse a fare in quel momento. Si arrestò bruscamente, però, tutto a un tratto ed Ester, che non era ancora piombata in ufficio, si immobilizzò, inchiodando con i tacchi, accanto alla porta. Il cuore batteva nel petto, tanto da farle male e da sentirlo nella gola. Le mani tremavano, sudate, sulla maniglia e la ragazza ricercò nel suo animo la forza del coraggio. Doveva aiutare suo padre, doveva salvarlo. Da cosa? Da chi? Un rumore la spaventò, facendola voltare di scatto. E vide ciò che non poteva esistere. Una donna, in veste di lino bianca, stava risalendo lungo il muro del palazzo. Stava salendo su un muro! Come il vampiro di Bram Stoker! Una donna. No, non era una donna. Era uno scheletro con dei capelli, simili a lanetta, attaccati al cranio. La pelle, coriacea, penzolante a brandelli dalle ossa, era grigio topo e la sua bocca, priva di labbra, nera come la notte. Ester stropicciò gli occhi, combattendo contro i brividi freddi lungo la schiena e le scariche elettriche, di autentico terrore, nei piedi. La donna era sempre lì, fuori al vetro della finestra, in bilico su una lastra di acciaio, ancora intenta nella sua scalata. Poi si voltò verso di lei e la vide. Ester la fissò e avvertì i sensi abbandonare il suo corpo, vedendo quella strana creatura assumere le sembianze di suo padre. E ora era suo padre arrampicato su una lastra di acciaio, a più di venti metri dal suolo. Ora era lui che la osservava con i suoi occhi liquidi, amorevoli. Stava impazzendo? Evidentemente si.


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Imponendosi di non lasciar correre troppo la mente, strinse la sua mano attorno alla maniglia e aprì la porta dell'ufficio. Il grido le morì in gola e lacrime di dolore le allagarono gli occhi, spalancati nell'orrore. Antimo era riverso sulla scrivania, in un bagno di sangue, con la bocca aperta in una maschera di terrore e le mani aperte verso l'alto. Singhiozzando rumorosamente, Ester si avvicinò cauta, alla scrivania di suo padre, e vide ciò che non avrebbe mai immaginato. Si accasciò all'improvviso, scossa da conati di vomito sempre più violenti. A suo padre mancavano dei pezzi di labbra e gli occhi non erano più nelle loro orbite, ma in fondo alla gola bagnata di sangue denso. Non riusciva a calmarsi, lo stomaco era totalmente in subbuglio e il cuore continuava a dolerle. Dimentica di ciò che era accaduto, e del pericolo imminente, rimase seduta, cercando di non rimettere fuori la colazione. Si sarebbe svegliata... Oh, si, si sarebbe svegliata presto... Improvvisamente un urlo la riportò alla realtà e i suoi occhi si ingrandirono; un terrore tentacolare la pervase, bruscamente, afferrandole i piedi come si trattasse di un esercito di formiche nelle scarpe.. Si alzò, gettando nuovamente lo sguardo sul corpo martoriato di suo padre. Avvertì lo scoramento della perdita, ma non ebbe il tempo di piangere sul suo corpo, deturpato, ancora a lungo; il grido nell'ufficio accanto si intensificò, diventando un lamento continuo. Si mosse cautamente verso il corridoio, cercando di non fare rumore e di non farsi scorgere da essere alcuno. Fece capolino, con il volto, e vide suo padre trascinare per i capelli Federico, il collega della stanza accanto. Suo padre, di nuovo. Si voltò, il cuore in gola, e vide il cadavere. Com'era possibile? Si sporse nuovamente sul corridoio e impallidì. Suo padre, o qualunque cosa fosse, si stava avvicinando. Si ritrasse cautamente e afferrò la sua borsa, le chiavi della macchina


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in una mano e il cellulare nell'altra. Prese il coraggio a due mani e cominciò a correre, lanciandosi come un proiettile fuori l'ufficio. Un grido lacerante accompagnò la sua fuga, spingendo le gambe di Ester a muoversi con intensità maggiore. Giunse davanti alla porta, che dava sulle scale e scese, gambe in spalla, non arrischiandosi a voltare il capo neanche una volta. Il sudore le imperlava la fronte mentre, con tutta la forza che possedeva, attraversava il piazzale che portava al parcheggio. Le strade erano disseminate di macchine ferme e da cadaveri dagli occhi cechi. Ester continuò a correre, urlando di paura, e arrivò alla macchina con il fiato corto e la mente affollata di immagini da dimenticare. Armeggiò con la serratura, poiché le sue mani tremavano troppo per riuscire a centrare il nottolino con facilità. Entrò e si sedette al posto di guida, chiudendo la serratura e abbandonando il capo allo schienale. Chiuse gli occhi abbandonandosi a un pianto liberatorio. Ansimava forte, lasciando che l'ossigeno riempisse i polmoni e il cervello. La testa girava, ora, e doleva da impazzire. Non si sarebbe mai calmata... Era impossibile calmarsi davanti a scene del genere... Cosa diavolo stava accadendo? Un tonfo sordo, improvvisamente, la ricondusse bruscamente al presente ed Ester si voltò, il cuore in gola. Federico la stava raggiungendo, correndo verso la sua macchina. Federico? No... Più vicino, più vicino, ancora un po'... Lo fissava, attonita, cercando di capire. Era davanti a lei ora; lo scrutò per un tempo che parve interminabile e vide la luce nera degli occhi cavi. Allora urlò nell'abitacolo, destandosi improvvisamente, e, avviando il motore in un lampo, ingranò la retromarcia e fece manovra maldestramente. Uscì sgommando dal parcheggio e afferrò il cellulare, componendo con difficoltà il numero di telefono di sua madre. Primo squillo.


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Secondo squillo. Terzo squillo. Nulla. Quinto squillo. “Cazzo mamma, rispondi!” Settimo squillo. Entrò in funzione la segreteria telefonica ed Ester interruppe la comunicazione. Si guardò attorno e non vide nessuno. Le macchine erano ferme ai lati delle strade, abbandonate con gli sportelli aperti oppure, semplicemente, vuote. La vista della ragazza si annebbiò e le lacrime presero nuovamente a sgorgare copiose dagli occhi. “CHE SUCCEDE, OGGI? CHE SONO QUESTO SCHIFO DI CREATURE?” Sferrò un pugno al volante e la macchina sbandò verso destra, rischiando pericolosamente di andare contro il guardrail. Riprese prontamente il controllo della vettura, i brividi lungo la schiena, e afferrò nuovamente il cellulare. Non si sarebbe arresa! Compose il numero di telefono di suo marito e attese, con ansia, che Tiberio rispondesse. Al secondo squillo, quando già lo sconforto si stava impadronendo di lei, l'uomo rispose, sorridendo. “AMORE DOVE SEI?” “Eh, tesoro, cosa urli? Sto a casa con Francesco e Salvo. Che succede? Stai bene?” “Chiuditi in casa, io ho le chiavi. Sto tornando. Non aprire a nessuno per nessun motivo e stai attento.” “Amore, di cosa stai parlando? Ti sei impazzita?” “FAI COME TI DICO E NON FIATARE! FIDATI DI ME E DAMMI RETTA!” Visibilmente sollevata dalla voce di Tiberio, Ester pigiò con forza sul pedale dell'acceleratore e sperò di far ritorno in casa per tempo. Da lì avrebbe chiamato e avvertito tutti i suoi parenti e amici su ciò che stava accadendo. Ecco spiegate le stranissime morti che avvenivano, oramai da giorni,


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nel mondo. Era tutto talmente surreale che stentava a credere non si trattasse di un terribile incubo. Il cuore continuava a battere, come amplificato da casse di sproporzionate dimensioni, nel petto, cominciando a dolerle percettibilmente. Stava rischiando un infarto? Svoltò sulla destra, imboccando la strada principale di Fiumicino. Era quasi arrivata a casa, finalmente. Prese la traversa di casa sua, respirando a fondo, nel tentativo di calmarsi, e parcheggiò davanti al cancello. Spense il motore ma non scese. I peli si rizzarono sulle braccia e i capelli formicolarono sulla cute. C'era qualcosa che non quadrava e il suo corpo la stava mettendo in all'erta. Si guardò attorno e vide la sua vicina uscire di casa, voltandosi verso di lei. Si fissarono e Clara alzò la mano, salutandola. Le sorrise e cambiò bruscamente direzione, camminando verso la sua macchina. Ester, non sapendo neanche perché, girò la chiave nel quadro riavviando il motore. Stava ancora ingranando la retromarcia, quando Clara cominciò a mutare d'aspetto. I capelli, da nero corvino, ingrigirono sotto i suoi occhi, e i vestiti si lacerarono; lo sguardo della creatura divenne un unico foro, nero come la pece. Ester tolse il freno a mano e girò il volante, terrorizzata. Uscì dalla strada e riprese, disperata, la sua fuga. Afferrò nuovamente il cellulare cercando nella memoria il numero di suo marito. Il telefono squillò a lungo ma nessuno rispose. Ester, piangendo e singhiozzando, scaraventò l'apparecchio sul sedile di fianco, urlando di dolore e di rabbia. “Cazzo! Non posso credere che stia accadendo sul serio! Dove vado ora?


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DOVE?” Nessuna macchina ostacolò il suo passaggio, nessun pedone attraversò le strade e i semafori continuarono a scattare dal rosso al verde senza che qualcuno vi badasse. Ester giunse sotto casa di sua sorella e scese di corsa della macchina, pregando che almeno lei e suo nipote fossero stati risparmiati da quelle creature. Salì le scale con il fiatone e bussò alla porta blindata con le nocche. Nulla. Pigiò con il palmo della mano il campanello. Nulla. “NO! Non potete farmi questo, non potete. Vi state moltiplicando con i miei affetti, bastardi! Non è possibile...” Si arrese contro la porta, dopo aver sferrato un pugno sul legno, e ricominciò a piangere. “Zia... “ Ester alzò lo sguardo, asciugandosi le lacrime, e si voltò verso il bambino. Mattia, suo nipote, era fermo davanti a lei, nel suo pigiamino blu di cotone e l'orsacchiotto Pogghi tra le braccia. I piedi scalzi, stava in piedi sulle scale e la guardava. “Tesoro! Oh mio Dio, allora sei ancora vivo!” “Mamma dov'è?” Ester si precipitò verso il bambino e lo abbracciò, prendendolo in braccio e baciandolo sul capo. “A... adesso la cerchiamo tesoro. Non ti preoccupare, ora ci sono io con te, piccolo.” “Ma io non ho bisogno di te, zia...” Ester si irrigidì e scostò il bimbo liberandolo dal suo abbraccio. Lo guardò e quello sorrise, innocente. La ragazza deglutì ma il nodo, della consapevolezza, alla gola, glielo impedì. Arretrò di qualche passo mentre suo nipote mutava. “No, ti prego, no...” Il ghigno, privo di labbra, si allargò sul volto della creatura e denti


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affilati si fecero strada, attraversati da una lingua rossa sangue biforcuta. La veste bianca, leggera come lino, sfiorò la pelle di Ester che urlò di ribrezzo. Aveva ancora margine, aveva ancora modo di scappare. E indietreggiò, di due passi ancora, quando... Due mani la afferrarono alle spalle immobilizzandola, e un respiro gelido e fetido le raggiunse le narici. La ragazza esclamò di stupore, mentre la creatura davanti a lei si avvicinava, sporgendo i denti e sorridendo. Pregustava la sua carne? E chi avrebbe ucciso lei, una volta divenuta come loro? Chi avrebbe divorato con lo stesso stratagemma? Erano furbe, quelle creature; lei sarebbe diventata ancor meglio di loro? Più famelica, forse? La creatura si avvicinò e i suoi denti gelidi la sfiorarono. Ester urlò. Ester gridò.

Spalancò gli occhi, nel suo letto, madida di sudore mentre Tiberio cercava di consolarla. “Amore, è solo un sogno, stai tranquilla. L'avevo detto io che non dovevi vederti quel film da sola, ieri sera... Hai fatto un incubo, tesoro...” Ester ansimava ancora, nel tentativo di tornare lentamente nella realtà del presente; non riusciva ad allontanare, dalla mente, l'immagine di suo nipote sorridente. Si voltò verso Tiberio e si accoccolò contro il torace di suo marito, tremante. Era stato un sogno, molto reale, ma un sogno. Sorrise, infine, e si rilassò tra le braccia dell'uomo. Nessuno era morto, nessuno le avrebbe fatto del male, nessuno avrebbe ucciso i suoi cari. Chiuse gli occhi e si riaddormentò. Seduta alla scrivania, sobbalzò al suono dell'allarme antincendio. Portò istintivamente le mani alla borsa mentre suo padre alzava lo


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sguardo, il ghigno senza labbra che si allargava e gli occhi ciechi fissi su di lei. “Vuoi cominciare a scappare, piccola mia?�


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La teca delle anime

“S... sicura di volerlo fare?” “Certo, tu no? Non era ciò che volevamo?” “Si ma, ragiona, non ci metterà nei guai?” “No, è la mia più grande aspirazione, non posso che sperare nel meglio. Abbiamo trovato questo libro, mentre eravamo alla ricerca della Grande Dea... è un segno del destino! Desiderano insinuarci nel loro mondo, investirci dei poteri a cui bramiamo e renderci immortali e bellissime, proprio come loro.” “Non ti sembra strano che ci abbiano fornito un libro antico, con le precise parole di iniziazione? Secondo te è normale dover pronunciare il Padre Nostro al contrario? Cosa c'entra Dio con la religione Wiccan?” “Fai troppe domande, Sandra... devo credere che il tuo desiderio di essere strega non sia abbastanza forte? C'è scritto a chiare lettere sulla prefazione. Dobbiamo seguire, passo passo, ciò che è narrato, per giungere alla gloria della Grande Dea.” “I... io preferisco lasciar perdere, Guenda. Non mi piace questa storia.” “Come desideri, ma se è così, vai via. Non voglio averti fra i piedi, mentre pronuncio le parole in grado di rendermi immortale.” Le due ragazze si fissarono. Erano compagne di classe, fin dalle scuole elementari, e amiche inseparabili da quando rammentavano di esistere. Nessuna delle due si muoveva senza che l'altra non fosse lì di fianco, l'una dipendente dall'altra. Questa, però, era la seconda grande frattura che rischiava di separare le loro strade. La prima era stata superata, nonostante il fantasma, di ciò che era accaduto, avesse continuato ad aleggiare tra le loro vite, fluttuante e


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trasparente. “Guenda, cosa stai dicendo?” “Secondo te, solo perché non desideri diventare strega come me, dovrei rinunciare al mio sogno?” “Ma ragiona! Ti rendi conto che c'è una preghiera sacra da pronunciare al contrario? Credi sia nei fondamenti della religione amorevole della Dea prevaricare il credo di altri? Non è questo ciò che ci è stato insegnato. Rammenta perché ci siamo votate ai riti sacri della religione Wiccan, ricorda il motivo per il quale...” “VATTENE! Voglio rimanere sola, io e il MIO libro.” “Guenda... per favore...” “HO DETTO VAI VIA!” Sandra osservò il volto arrossato dell'amica e concluse che non c'era più nulla che potesse dire o fare per persuaderla dai suoi intenti. Si voltò e, inoltrandosi nella boscaglia, scomparve sotto lo sguardo violaceo dell'amica. “Stupida vigliacca che non sei altro! Io sono differente da te e, quando noterai i miei poteri, ti renderai conto di ciò che hai perduto come una povera stupida.” “Guenda, aiutami, ti prego. Non riesco a nuotare...” Afferrò il libro e lo rimirò a lungo, prima di aprirlo. Voltò la copertina, rossa carminio, e lesse le due righe riportate sulla prima pagina. Ti appartengo per la vita. Mi apparterrai per l'eterno. “Ti prego Guenda, sento freddo” Corrucciò la fronte, imperlata di sudore freddo nel vento pungente del bosco, e voltò pagina. La carta era ingiallita dal tempo, porosa e profumata di antico, con gli angoli molto affilati. Guenda, nel voltare la terza pagina, si tagliò l'indice e una goccia di sangue macchiò la pagina.


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“Aiutami, aiutami...” Portò il dito alle labbra, imprecando sottovoce per il dolore sottile e penetrante, e leccò il sangue che sgorgava copioso. Seduta a terra, con le gambe incrociate, portò il libro sulle ginocchia e osservò la goccia rossa rivolare lungo il bianco sporco della pagina, formando con il suo passaggio una sorta di “g” in corsivo. Sorrise. “Ora è mio sul serio... c'è la mia iniziale... questo è il DESTINO!” Si sedette meglio sul fogliame secco, proteggendo il collo con il bavero del cappotto, e riprese a sfogliare il libro. “Grazie Guenda, grazie sorellina...” Gli occhi lucidi di emozione, giunse a quella che sembrava la formula d'iniziazione alla sacralità della magia. Wiccan o non Wiccan, sarebbe diventata una strega. Bianca, nera, marrone, azzurra... la magia era magia e non faceva differenza da che luogo provenissero i poteri invocati. “Strega...” Le labbra si arricciarono e il cuore prese a battere dall'emozione, assieme ai brividi freddi che le correvano tra i capelli e scendevano giù, tuffandosi tra le scapole e insinuandosi sotto i vestiti. “Cosa fai? No, ti prego, salvami!” “Ci sto provando, te lo giuro!” Lesse per la prima volta quella formula, avvertendo un dolce alito di vento sfiorarle un ricciolo caduto sugli occhi. Guidami per la strada della conoscenza Guida il mio volere e rendi il mio desiderio REALE Ho cercato le prove


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Ho ascoltato gli indizi Ho scrutato nei cieli Per raggiungere il POTERE Domanda la mia anima perché la dono e la rimetto nel tuo REGNO Lesse una seconda volta, poi una terza, la voce alta e squillante, il sorriso disegnato sulle labbra. Voltò pagina, la sesta, e riconobbe ciò che aveva così atterrito la sua amica. “Guenda... mi uccidi...” “No, ti giuro...” Determinata, e priva di remore, lesse ad alta voce la preghiera di Dio al contrario. Avrebbe raggiunto i suoi obiettivi e sarebbe giustamente stata rispettata da ogni essere umano. Non avrebbe subito più le sofferenze, della solitudine e dell'incomprensione, correndo per scappare dal fantasma di... *** Era una giornata asfissiante, e il lago era uno specchio che le rimirava dalla strada polverosa. Scesero dalle biciclette, correndo per la ripida discesa, che separava le rive dalla via principale, e si spogliarono in tutta fretta, rimanendo in costume da bagno. Guenda e Katia, dodici anni la prima e dieci la seconda, si gettarono, ridendo e rabbrividendo, nell'acqua dolce e pesante del lago. Rimasero a lungo a giocare, schizzandosi a vicenda, nella distesa liquida che, a poco a poco, diveniva più calda e confortevole. In un momento, inaspettato e improvviso, IL FATO creò la frattura nella quale sarebbero precipitate per la vita, entrambe.


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Katia, a distanza di almeno due metri dalla sorella, prese a urlare, invocando aiuto. Stava cadendo, stava precipitando, stava morendo. Guenda, paralizzata dal terrore, osservò la bambina, non sapendo pensare con lucidità e continuando ad ascoltare le grida disperate di aiuto. Cosa stava accadendo? Qualcosa la stava risucchiando negli abissi del lago? E perché si allontanava da lei come stesse nuotando? Ma non stava nuotando Katia, urlava a squarciagola, gridava, con tutta la forza necessaria, e piangeva. Piangeva. Guenda rimase ferma al suo posto, imbambolata nell'acqua, finché un ultimo grido la destò. Allora prese a nuotare, ansimante, verso sua sorella. C'era ancora speranza? La testa era ancora a pelo d'acqua e poteva intravedere gli occhi semichiusi. Qualcosa la sfiorò e la ragazza urlò, irrigidendosi sul posto, a poche bracciate dalla bambina in fin di vita. “Aiutami, Guenda, ti prego, aiutami...” “C'E' QUALCOSA, C'E' QUALCOSA QUI! NON POSSO!” “Guenda... mi uccidi...” “NO! TI GIURO CHE...” E Katia scivolò negli abissi, inghiottita nell'oscurità del profondo, senza più parlare, senza più sorridere. Smise di respirare e tutto rimase statico per molto tempo. Dopo l'ambulanza, dopo i pianti, dopo le colpe e le ingiustizie, dopo la solitudine e la freddezza dei genitori... Dopo tutto il dolore, ogni sentimento rimase immutato nel cuore di Guenda; lo sguardo di odio della bambina, a incolparla di una morte crudele, e la sua codardia davanti all'ignoto. *** Fu improvviso e fulmineo. Un lampo cadde tra gli alberi accanto e un vento gelido le frustò il volto. Guenda spalancò gli occhi e rise, soddisfatta . La Dea l'avrebbe salvata dall'agonia dei suoi giorni, l'avrebbe resa speciale. Un uomo le si figurò dinanzi, un essere straordinariamente bello, dai folti capelli lunghi.


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La fissò, fiero e spavaldo, con una singolare luce negli occhi, neri e catalizzanti. “La Dea dov'è?” La voce era controllata, autoritaria, sgarbata. “Sei arrogante, ragazzina. Per questo ti ho prescelta” proferì l'uomo, con un sorriso. Il vento divenne ancora più violento, quasi a voler disperdere la ragazza tra le foglie morte. “Cosa significa 'ti ho prescelta'? Chi sei tu?” L'uomo le si avvicinò; il gelo aumentò di spessore e le penetrò nelle ossa. Le gambe presero a tremare e un terrore sordo la pervase. “Mi uccidi...” Prese a camminare indietro, cercando di non inciampare in qualche ramo secco. “Non sai chi sono, Guenda? Eppure il libro era un mio regalo per te!” “Chi... chi sei?” “Aiutami...” Perché sorrideva? Perché era così terribilmente bello da provare l'istinto di abbandonarsi in quella radura, inerme ai suoi voleri? Deglutì a fatica e le lacrime presero a colare giù dagli occhi. Il trucco, pesante, le macchiò le gote, rendendo il suo volto una maschera di terrore. “Avresti dovuto dar retta alla tua amica... Le preghiere vanno rispettate. Ma tu non sei in grado di provare rispetto e compassione, Guenda. Per questo mi piaci. Per questo e perché hai ucciso. Qualcuno lo sa? La tua sorellina, sotto l'acqua, ancora ti chiama...” Ancora quel terribile, bellissimo sorriso sulle labbra. “STAI ZITTO! NON NE SAI NULLA! ZITTO! Non ho ucciso nessuno, non ho...”


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“Non è forse morta davanti ai tuoi occhi, nel lago? E tu non l'hai lasciata cadere, senza muovere un dito? Eri gelosa, vero? Così gelosa da lasciarla soffocare nell'acqua, mangiata, come un esca, dai pesci. Sei perfetta per la mia collezione.” “ZITTO!” Continuò ad arretrare, i piedi indecisi uno dietro l'altro, finché la sua incauta fuga non fu arrestata da un grande albero secolare. “Meriti di morire.” “No... Aspetta, io non ho ucciso Katia. È morta, c'era una buca, io non ho... ASPETTA!” L'uomo impose la sua mano verso il capo della ragazza, attivando un flusso di energia, violaceo e intenso. Lentamente, Guenda avvizzì sotto l'influsso magico, fino a perdere la vita. Non esisteva più, coperta oramai dalle foglie gialle e secche. Un piccola, fragile farfalla si innalzò in volo, accanto al corpo della vecchia distesa nel bosco. “Saluta Katia senz'anima, Katia dell'oscuro colma di odio, Katia ubriaca di rancore. È lei che ti ha scelta, lei che ti ha seguito in questi anni, lei e nessun altro. Mi ha chiamato, mi ha invocato, dal regno dei morti, e mi ha assoldato. La vendetta... siete così cattivi voi umani, anche da morti. Ora, la sua anima mi appartiene, la tua mi apparterrà...” L'uomo afferrò il libro, dalle braccia ossute della vecchia, e si voltò. Si incamminò nel fitto del bosco e scomparve, dimentico e dimenticato, in una grande lingua di fuoco.

*** Una farfalla si librò nell'aria, libera nel cielo plumbeo, e seguì una ragazza dai capelli corvini, lunghi e lisci. Il trucco leggero e le lacrime negli occhi, la fanciulla camminava sola come solitaria era la sua esistenza.


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Sandra giunse alla macchina, voltandosi un'ultima volta verso il bosco. Ogni anno, da quattro anni, tornava nella radura dove per l'ultima volta aveva visto la sua amica viva. Nessuno ne aveva più avuto notizie, ma lei avvertiva la sua colpevolezza nel cuore. Non avrebbe mai dovuto lasciarla sola, quel giorno. “Voglio rimanere sola, io e il MIO libro.” “Guenda... per favore...” Deterse le lacrime, con il dorso della mano, e avviò il motore della sua Jeep. Avrebbe mai perdonato sé stessa per aver abbandonato la sua amica? Non riusciva a concedersi una risposta, ma le parole, urlate quel pomeriggio nel bosco, risuonavano ancora limpide e chiare nelle sue orecchie, ogni mattina al risveglio. Si allontanò dal viale alberato e percorse la strada principale, guidando per tornare a casa dai suoi figli e suo marito. Dimenticò la sua tristezza e distese i lineamenti; avrebbe vissuto la vita traendo vantaggi dagli errori del passato. *** Erano passati anni, ma Guenda non aveva dimenticato. Fece dono della sua anima e decise la meta. Era pronta una nuova vittima, una variopinta farfalla per la vasta teca del Diavolo. La teca della vendetta. La teca delle anime.


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La Casa dei Picche

Quella casa l'aveva sempre spaventata. Passava lì davanti, ogni giorno, per tornare a casa da scuola, e provava sempre la stessa sensazione: brividi freddi di terrore in tutto il corpo. Anzi... sembrava che una frotta di insetti le camminasse tra i capelli e scendesse giù, fino ai piedi. Quante volte si era grattata il capo, pensando davvero di trovare degli animaletti, inviati da chissà quale entità lì presente? Si vociferava fosse una villa infestata dagli spiriti. Daria non lo sapeva, ma era quasi certa che qualcuno la fissasse, da una di quelle finestre rotte. La casa era abbandonata, con un grande giardino tutto intorno, incolto e devastato dal tempo e dagli animali randagi. Grande quasi quanto due ville messe insieme, aveva le finestre sporche o direttamente distrutte; aveva disegnati, sulle pareti esterne, tutti i segni delle carte da gioco: picche, fiori, cuori, quadri. Era inquietante, specialmente per quei picche neri che sembravano inglobare la serenità dei passanti. Nessuno degli adulti prestava molta attenzione a quella struttura, camminando per quella strada, ma, Daria ne era certa, quando era piccola aveva sempre avvertito la stretta di suo padre farsi più vigorosa transitando lì davanti. Aveva avuto da sempre il divieto di entrare in una qualsiasi di quelle stanze e, a detta dei suoi genitori, perché gruppi di ragazzi satanisti compivano riti con tanto di pentacolo e sacrifici umani. Terrorizzata, aveva sempre detestato passare davanti la “Casa dei Picche”, nonostante fosse costretta ogni giorno a percorrere proprio il tragitto che portava alla villa. E ora eccola lì, truccata di nero, con i capelli biondi, appena freschi


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di piastra, fluttuanti al vento e con uno spinello in bocca a far finta di ridere alle battute della sua comitiva. Erano entrati nel giardino della villa con i motorini, grazie a un'apertura nella rete metallica che recintava tutta la struttura. Guardò Roberto e cercò di calmare il battito del suo cuore. Era semplicemente bello, i capelli ondulati, corti e neri, occhi verde bottiglia e una fossetta sulla guancia destra a ogni sorriso. Uno schianto... e lei ne era innamorata da secoli. Portò lo spinello alla bocca, distogliendo lo sguardo dal suo idolo, e rispose con un sorriso a una battuta bruttissima e assai poco simpatica di Francesco circa la personale difficoltà di vivere con i suoi genitori. Beh, certamente vivere costantemente nella bambagia, adorato e servito da parenti serventi, e vestire solamente capi firmati... doveva comportare il suo bel disagio. Era entrata in quel gruppo al secondo anno di superiori e da due anni, oramai, usciva con loro ogni sera. Erano quattordici sbandati in tutto, follemente innamorati della vita e disperatamente alla ricerca di risposte. Come ogni adolescente, del resto. Sollevò il capo, a guardare le stelle nel cielo terso di fine settembre. Sospirò, continuando il suo solitario, e si distese con le braccia lungo il manubrio del suo motorino, gli occhi sempre fissi al firmamento. “A che pensi, Daria?” “Che questo posto mi mette i brividi...” Distolse lo sguardo dal cielo e fissò nella direzione di Rino. La luce delle loro torce spandeva sul vasto giardino della villa, permettendo a Daria di poter vedere i suoi interlocutori in tutta tranquillità e il suo segreto amore di sottecchi, ogni volta lo desiderasse. “Non mi piace questa casa, è inquietante. Ho sentito tante di quelle storie che solo passare qui davanti mi mette i brividi...” “Dai, non esagerare. E' solo una casa abbandonata, inquietante certo, ma una villa fatiscente. I miei, per esempio, mi hanno sempre raccomandato di tenermi alla larga da qui perché cade a pezzi e


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potrei rimanere sepolto sotto i detriti...” Roberto ascoltava; Daria lo vide assorto, e silenzioso. “A me, invece, hanno sempre detto che qui c'erano gli spiriti che mi avrebbero ucciso se solo fossi entrata...” Rino esplose in una risata spontanea, risuonando nel vuoto come un rombo. “Appunto, Sara, i fantasmi non sono altro che i pezzi di una casa che potrebbe crollare da un momento all'altro...” Sara rimase in silenzio, meditando sulla bugia che i suoi le avevano raccontato e alla quale lei aveva sempre creduto, comunque con un certo scetticismo. “Invece a me è stato detto che qui ci sono delle sette...” Silenzio. Rino smise di ridere e rimase in ascolto, agitato. Tutti si voltarono verso Daria e rimasero in ascolto. Tutti tranne Roberto, ancora assorto, con gli occhi rivolti al giardino. “Mio padre ha detto che qui ci sono delle persone, che adorano Satana o chissà cosa, che fanno sacrifici umani e cose... misteriose.” “Daria, non puoi creder...” “Beh, ti vedo agitato, quindi non far finta di nulla. Non è il caso di sdrammatizzare. Anzi... Possiamo andare via?” I ragazzi non risposero subito ma un rumore li fece sobbalzare all'unisono. Roberto si alzò dal suo motorino e si sgranchì le gambe. “Bene ragazzi, dopo tutte queste storielle su spiriti e satanisti vari, io mi vado a fare un giro nella casa...” Rino lo fissò, preoccupato, ma non disse nulla. Nessuno fiatò e Roberto si incamminò, sicuro e serio, verso l'interno della villa. D'un tratto Daria avvertì un alito di vento muoverle i capelli e una voce le penetrò nella mente. Fermalo I brividi lungo tutto il corpo, la ragazza si irrigidì, indecisa se


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muoversi verso Roberto o rimanere lì, al sicuro tra i suoi amici, nel giardino. Il vento divenne più intenso e crebbe in un momento. I ragazzi cominciarono a parlottare, guardandosi spaventati. “E se davvero c'è qualcosa lì dentro? Qualcuno dovrebbe fermarlo...” “Sentite, io non fermo proprio nessuno, anzi... Sapete che vi dico? Io me ne vado. Questo posto comincia a darmi sui nervi.” “Si, vengo anche io, hai ragione. Se vuole fare l'indagatore del mistero, Roberto, che se la vedesse da solo. Io non ho tutta questa voglia di sfidare la sorte. Poi domani mi devo anche svegliare presto...” Uno dopo l'altro, i ragazzi avviarono i loro motorini, incuranti di Roberto che oramai aveva raggiunto la porta d'entrata fatiscente della villa. “Aspettate! Non possiamo lasciarlo da solo!” Daria, spaventata, ma determinata a non abbandonare il suo amico, si rivolse a Rino, afferrandolo per un braccio. Il ragazzo si voltò verso di lei, notando la sua espressione contrita, e strattonò la spalla liberandosi dalla presa. “Senti, tanto lo sappiamo tutti che ne sei innamorata cotta. Vacci tu da lui... Ah... mi sento buono, comunque. Tieni... Una torcia...” Era astio quel sentimento che aveva notato nella sua voce? Era gelosia? Cos'era? “Che stupido!” Si voltò, agitata e nervosa, verso la casa. Lo avrebbe fermato da sola, se fosse stato necessario. Ma Roberto era già entrato. Respirò a fondo due volte, si portò i capelli, scossi dal vento, dietro le orecchie e si lanciò di corsa verso la casa, rallentando sulla soglia. La porta era di legno nero, con dei fori in alcune parti e delle bruciature in altre. Il muro, ingiallito dal tempo, era eroso dalla pioggia e macchiato in più punti. La casa sembrava viva. Daria avvertì il peso della paura comprimerle i polmoni e il respiro farsi più flebile ogni secondo trascorso.


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“Roberto?” L'eco della sua voce risuonò nel buio antro del corridoio; era impossibile che non l'avesse sentita! Si addentrò, tremante, all'interno, sporgendo la torcia, che aveva appena acceso, davanti ai suoi passi. Sentì uno squittio alla sua sinistra e puntò fulmineamente il fascio di luce in quella direzione, scorgendo una piccola ombra nera in terra dileguarsi. “S... sarà un topo... Roberto?” Il silenzio continuò a coprire i suoi pensieri e le sue speranze. Innervosita, avanzò e si trovò dinnanzi a una grande scalinata che portava al piano superiore. “Beh, una cosa è certa. Qui le sette non ci sono, almeno non oggi. Mi avrebbero già presa, altrimenti...” Si fermò ai piedi delle scale e ascoltò il vento imperversare fuori alle mura della villa. Nonostante il buio, quella casa sembrava solamente abbandonata. “Forse ha ragione Rino... Si, fatto sta che di Roberto neanche l'ombra...” Abbandonò il corrimano della scalinata e camminò verso sinistra, dove troneggiava una porta a vetri, leggermente rischiarata dalla luce della luna. Afferrò la maniglia e la girò, lentamente e in maniera di gran lunga più calma rispetto a pochi minuti prima. Si affacciò solo con la testa, per poi spalancare il vetro, ed entrò completamente nella stanza. Era una cucina, oramai in disuso, con due rubinetti arrugginiti e un tavolo di legno tarlato. Nulla fuori dalla norma. Respirò, rinfrancata dalle scarse scoperte della sua esplorazione, quando avvertì un rumore di passi al piano superiore. Istintivamente portò il fascio di luce verso il soffitto, illuminando un vecchio lampadario in cristallo. Strano che nessuno fosse mai entrato a saccheggiare i resti della villa, strano sul serio. Perplessa e un poco agitata, si mosse verso le scale e cominciò a


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salirle, avvertendo scricchiolare le assi di legno, polverose e unte, a ogni passo. Il respiro si fece corto e il cuore prese a battere velocemente nel petto. Qualcosa non andava e gli squittii crebbero, come se tutta la casa fosse divenuta, d'un tratto, un grosso ratto grigio. Scostò le dita dal corrimano , con ribrezzo, e giunse alla fine della salita. Voltò a sinistra e destra il fascio di luce, quando anche la torcia la abbandonò con un ronzio sordo. “Cazzo! Non mi abbandonare ora, ti prego! ROBERTO?” Prese a urlare il nome del suo amico, terrorizzata e al buio. Non poteva correre, non sapeva cosa avrebbe trovato e se veramente, come aveva detto Rino, quella casa cadeva a pezzi, rischiava di inciampare e cadere in qualche falla del pavimento. Alla sola idea di rimanere sepolta viva, esclamò un urlo di orrore e si appoggiò al muro che sapeva essere di fronte le scale. Qualcosa le sfiorò le gambe e mille brividi la percorsero, facendole sgorgare calde lacrime dagli occhi azzurri. “ROBERTO? ADESSO BASTA! DIMMI DOVE SEI!” Nulla ancora. Non osò sedersi a terra e decise di tornare al piano inferiore, pregando di riuscire a uscire dalla villa, sana e integra. Allungò due dita verso il corrimano, non trovandolo. Corrugò la fronte mentre una mano le afferrò la nuca. Daria urlò, colta di sorpresa, e cercò invano di divincolarsi. “Sei stata brava, tesoro... Finalmente sei venuta a trovarmi. Sai da quanto attendevo questo momento?” Conosceva quella voce. Impallidì. “C... cosa stai facendo, Roberto? Io voglio andare via, lasciami andare via!” “Vuoi andare via? Ma tu mi ami... non è vero?” “Voglio uscire di qui, ti prego, Roberto!” “Sono anni che ti vedo passare qui davanti... Desideravo da tanto poter toccare la tua pelle candida, baciare la tua bocca calda... e...” Il sudore colava pietosamente dalla fronte, mescolandosi alla


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lacrime rapprese sulle guance. Cosa stava dicendo? “Tu non sei Roberto, chi sei?” La voce era flebile, quasi impercettibile, mentre la mano dalla nuca si spostava sulla carotide, stringendo mortalmente le dita. “Io sono Roberto, io sono ogni persona, io sono l'eterno... sono tutto e sono niente...” Daria cercò disperatamente di non perdere il controllo, abbandonandosi a un pianto disperato, e parlò ancora. “Chi sei?” “Io?” Il ragazzo sorrise, mentre, immobilizzando totalmente con il corpo la sua vittima, la sfiorò con le labbra, baciandone la pelle madida di sudore. “Io sono uno spirito... Io sono un serial killer, io sono nato nel 1901 e da allora attendo di averti.” Daria chiuse gli occhi, scossa dai singhiozzi irrefrenabili partoriti dai polmoni stretti. “Io ti voglio e ti avrò, poi... Poi non esisteremo più, né io né te.” Daria scivolò a terra, avvertendo gli squittii della casa avvicinarsi, e pregò. La mano dell'omicida le tappò la bocca mentre i topi le mordevano le gambe a sangue. La luna fu oscurata dalle nubi e un buio denso calò sulla villa scossa dai mugolii della morte. Lo spirito saziò i suoi istinti e Daria non riuscì a gridare. Mai più.


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Il Carillon

Gli occhi chiusi e un‘espressione colpevole, Chiara guardava il soffitto, nel buio della sua camera, distesa nel proprio letto e coperta da uno spesso piumone bianco latte. Erano le due e un quarto di notte e il silenzio aveva invaso le strade della campagna, così come la densa nebbia, che d’inverno imperava in quelle zone rurali. Poche anime abitavano quei luoghi e ancor meno forestieri facevano capolino dalla ripida salita, che distanziava Borgo Piano di almeno trenta chilometri dall’autostrada. Rare volte, però, capitava di scorgere facce nuove galleggiare nel freddo pungente del paese, volti sconosciuti che non si aveva neanche il tempo di memorizzare perché velocemente di passaggio. Solitamente si trattava di famiglie in viaggio, alle prese con guasti meccanici o solamente alla ricerca di un bagno lungo il loro tragitto vacanziero. Di solito era così, ma non quella sera e Chiara era ancora scossa dagli avvenimenti che l’avevano coinvolta. *** Era spuntato dalla pineta all’improvviso e il suo ragazzo non aveva neanche avuto il tempo di sterzare. L’uomo era stato investito in pieno e, riverso sulla strada, non si era più mosso. La macchina aveva sbandato, ma Franco era riuscito a mantenere il controllo del volante per non andare a collidere contro un albero. Aveva spento il motore, agitato. Chiara aveva chiuso gli occhi, la gola in fiamme per il grido lanciato durante l'impatto, e aveva tentato di riportare nuovamente il respiro a un ritmo regolare. Il cuore batteva freneticamente contro il petto e gli arti erano pesanti e tremanti nel contempo. “Stai bene?”


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Aveva avvertito la nota di preoccupazione nella voce del suo ragazzo, ma non aveva risposto, sollevando solo una mano per dire che si, era tutto ok. “Dobbiamo fare qualcosa, non possiamo lasciarlo lì. Credo sia morto.” Una morsa le aveva stretto lo stomaco e la realtà l'aveva investita, come la loro macchina aveva fatto, qualche istante prima, con quel povero cristo. Aveva dischiuso lentamente gli occhi, trovando il volto di Franco a pochi centimetri dal suo, stravolto e stanco. Sembrava invecchiato di dieci anni in pochi minuti. Chiara si era spaventata ancora di più ed era scesa dalla macchina in fretta e furia, cadendo a terra e vomitando l'acido della paura. Avevano ucciso un uomo e il loro futuro era stato compromesso. Un semplice errore di distrazione avrebbe condotto le loro vite nel baratro della reclusione. Si era pulita la bocca con il braccio e, alzatasi a fatica, aveva raggiunto barcollante il suo ragazzo. I capelli incollati, dalla bile e dal sudore, aveva osservato, insieme a Franco, il cadavere dell'uomo, senza proferire parola e rimanendo inerme davanti alla morte. Delle lacrime cocenti le erano salite agli occhi, ma le aveva deterse prima che scendessero giù, con la manica della camicia: la stessa manica con la quale si era pulita il volto poco prima. Il terrore si era impadronito del suo petto. Aveva cominciato a tremare e mugolare al buio, i fumetti di nebbia bianca che fuoriuscivano dai denti. “Cosa facciamo, ora?” “Lo seppelliamo, che altro?” Si erano fissati, per un lungo momento, incapaci di dire altro. Avevano ucciso e, aldilà di qualsiasi discorso morale, ciò che bruciava era l'essersi giocati il resto della vita, e la tranquillità di esistere, in un solo, insignificante momento. “Dammi una mano: dobbiamo portarlo dentro il bosco, tra gli alberi, il più lontano possibile dalla strada e seppellirlo. Non c'era nessuno con lui, forse è arrivato qui da solo...”


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“Si, o forse era uscito a farsi una passeggiata e la moglie lo aspetta da qualche parte...” “Falla finita, adesso, e aiutami. Non mi sembra il momento di fare del sarcasmo, non credi?” “Non faccio del sarcasmo, Franco. Ho una fottutissima paura! Ti rendi conto di che abbiamo fatto?” Franco l'aveva fissata, stralunato e impaziente, con l'impeto nelle mani di schiaffeggiarla. “Stai zitta e aiutami!” Il terrore aveva guidato le loro mani alle gambe e alle braccia dell'uomo; l'adrenalina aveva reso i loro movimenti più forti e veloci e la fretta li aveva riportati a casa, ognuno a riflettere sull'accaduto. Non si erano salutati, come d'abitudine, e a malapena si erano scambiati il solito bacio della buonanotte. La morte era entrata nella loro storia e forse non ne sarebbe mai uscita.

*** Ferma, nel caldo del suo letto, ripensava agli avvenimenti e ancora rabbrividiva. Il sangue fresco sul volto dell'uomo, i suoi arti scomposti, l'odore di terra acre che ancora pungeva il suo naso... Avrebbe voluto piangere, ma il cadavere impresso nella sua mente le procurava solo ondate continue di brividi freddi. Chi era? Neanche aveva cercato di scoprirlo. Lo avevano sollevato di peso, lei e Franco, e lo avevano seppellito, con la vanga dietro al cofano. Torse le dita attorno al piumone, ascoltando il suo cuore ancora agitato. Il suo corpo la stava mettendo in guardia e una paura sorda le si insinuò sotto la pelle, i peli irti dal terrore. Il carillon scattò bruscamente e prese a suonare la sua triste nenia antica, che a Chiara era sempre piaciuta. Sobbalzò nel buio, il cuore scoppiettante, le mani frenetiche e tremanti. Fissò, immobile, la luce fioca del carillon, ascoltando la musica che una volta le aveva fatto anche dire 'Quando muoio voglio questa musica al mio funerale!' tanto la emozionava. Ma era stato per


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giocare, una frase buttata lì, senza senso e senza spessore... no? Rimase rigida e tesa per alcuni minuti, cercando di carpire suoni, o rumori, traditori di un intruso nella stanza. Nulla. Sorrise nel buio, ancora scossa, e si alzò per chiudere a chiave il carillon. Scostò il piumone e mise un piede scalzo a terra, rabbrividendo al contatto con il gelo del marmo. Faceva molto freddo, fuori dalle coperte, e si impose di sbrigare l'incombenza in meno di un battito di ciglia... tutto pur di tornare al sicuro, e al caldo, sotto la sua bianca trapunta. Si avvicinò al carillon e fece per chiuderlo, quando vide delle macchie più scure attorno ai bordi. Portò il carillon davanti gli occhi, accendendo la abat – jour, e ispezionò le IMPRONTE. Dita insanguinate. Il cuore perse un battito e una sensazione, simile a un pugno in pieno stomaco, la pervase. La testa cominciò a girare vorticosamente, mentre si imponeva di rimanere lucida e pensare razionalmente agli eventi. Sicuramente era stata lei stessa a macchiare il gioco, al ritorno dal funerale improvvisato. Aveva ucciso un uomo, lo aveva toccato, si era sporcata di sangue e terra, lo aveva seppellito... Il cuore, nello stupore di Chiara, continuava a battere forsennatamente contro le costole, nonostante una spiegazione plausibile la ragazza l'avesse fornita, al suo provato, piccolo, senso del pericolo. Si voltò, come una pazza, e decise di dormire con la luce accesa mentre correva verso il letto. Saltò sul materasso, si coprì con il piumone fin sopra alla fronte e, trattenendo il fiato, pregò di riuscire a dormire e dimenticare quella storia. Il carillon fece uno scatto e la musica riprese il suo lento corso a molla. Chiara non si mosse, la saliva che colava dalle labbra e le lacrime miste al sudore.


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Strinse i lembi del piumone tra le dita e lo abbassò, cauta, sbirciando il chiarore aranciato della stanza. Nulla. Era il senso di colpa, forse, che la stava facendo impazzire? Eppure il carillon suonava davvero e, questa volta, era certa di averlo chiuso, assicurato con la serratura di ferro battuto. Come poteva essersi aperto da solo, nuovamente? La testa incassata nelle spalle, voltò lo sguardo verso la scrivania e... Lo vide. Era lì, in piedi, con un sorriso verde e brulicante di vermi, le mani appoggiate sul carillon e lo sguardo, pus e rosso, fisso su di lei. Un urlo le salì in gola ma, prima che potesse emettere suono, la mano del morto era già sulla sua bocca a zittirla. La lingua sfiorò, per un breve attimo, la pelle grigia e rugosa del cadavere e Chiara avvertì un forte conato di vomito spumarle tra i denti. L'acido e la bile le entrarono nelle narici e furono inghiottite nuovamente, ostacolate dalle dita di acciaio del cadavere. E quello ancora sorrideva, con i suoi insetti tutt'intorno e la puzza di sterco, che aveva soppiantato l'aria calda e profumata della cameretta. “Il carillon suona... Vuoi morire?” Di nuovo il sorriso privo di denti. Chiara scosse freneticamente la testa, cercando anche di divincolarsi. Ma la stretta era troppo forte e non riusciva a muoversi. Sbarrò gli occhi, lacrimosi, e vide il suo assassino chinarsi sul suo corpo. Avvertì la bocca marcia dilaniare la carne – com'era possibile senza denti? - gli odori di sterco e di vomito intensi nella testa e il fiotto di sangue che calò, lentamente, il sipario sulla sua vita. Gli occhi aperti ancora, seppe di essere morta mentre, piano, il suo assassino si allontanava dalla camera per discendere negli inferi dal quale era resuscitato. Per vendetta. La ragazza rimase, sporca di vomito e sangue, sdraiata sul letto con gli occhi fissi al soffitto, i capelli imbiancati e le mani chiuse ad artiglio.


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Il suono del carillon si smorzò, tutto a un tratto, e il coperchio si richiuse. La messa era finita.


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Vuoi dormire?

Dammi fuoco! No, no, sul serio: dammi fuoco, Patty! Una più stupida di me non esiste, ne sono quasi sicura.” “Dai, finiscila. Io intanto me ne vado, tu chiuditi in casa, accendi il televisore e sintonizza qualche canale... che fa ridere...” “La notte di Holloween? E tu credi, sul serio, che qualcuno trasmetta un programma comico, questa notte?” “Non hai una videocassetta? Qualcosa... Mamma mia, Bea, sei incredibile! Hai una paura che ti si porta via, eppure hai solamente film dell'horror! Quasi quasi, ti do fuoco sul serio...” “Appunto! Davvero, Patrizia, rimani a dormire qui, ti prego!” “Lo sai che non posso, non insistere... mi fai sentire anche in colpa, così. Mio padre mi uccide se rimango fuori anche oggi; è una settimana che dormo da Luigi... In più, penso di non essermi regolata con tutte le cose che ho mangiato stasera. Se la ginecologa dovesse venire a sapere di come mi sono rimpinzata, altro che latta di benzina addosso... Il bambino si starà rivoltando nella pancia! Su, sto anche facendo tardi... Buonanotte!” Con un bacio sulla guancia, la ragazza si congedò in tutta fretta, liberandosi dalla morsa tremante dell'amica e sgattaiolando oltre la soglia. “Se chiudi gli occhi ti addormenti subito, fidati!” Beatrice la vide correre verso il cancello e, sbuffando e rabbrividendo al freddo notturno, chiuse la pesante porta blindata, voltandosi verso i due occhi arancioni che la guardavano dal tavolo in salotto. Rimase a guadarli, in piedi e con le spalle al muro, meditando su cosa fare di tutte le zucche intagliate e accese per quella notte di festa. Festa, già... Una banda di ragazzi rinchiusi in una casa, a guardare film horror a


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suon di pizza e schifezze varie, seduti sul divano o sdraiati in terra. Beh, se non era stata una festa quella... Altro che morti di ritorno nel mondo dei vivi; con tutte le cose di cui si era rimpinzata quella sera, era talmente piena da scoppiare. Forse, pensò, i film che avevano guardato per l'intera nottata non erano stati di grande aiuto per la nausea spumeggiante piazzatasi in fondo alla gola. Si diresse verso il tavolino, calciando qui e lì carte e bicchieri di plastica vuoti, e accese il televisore. Era tardi ma abitare in una villa indipendente aveva i suoi bei vantaggi: nessun vicino molesto. Prese a raccogliere i resti delle gozzoviglie, ravviandosi una ciocca di capelli miele dietro l'orecchio, e si diresse in cucina, spegnendo nel contempo le zucche che trovava lungo il tragitto. Accese la luce con il gomito, abbassandosi un poco per centrare l'obiettivo, e gettò tutta l'immondizia nella pattumiera, immergendo il naso all'interno del secchio per evitare di far cadere qualcosa. Sorrise. I suoi genitori sarebbero tornati la settimana dopo dalle vacanze quindi, fortunatamente, non doveva preoccuparsi di mettere in ordine subito. Uno scricchiolio nel giardino la destò dai suoi pensieri, facendola sollevare di scatto, e un pezzo di pizza al prosciutto cadde da uno dei cartoni, rovinando a terra. Il suo cuore prese a martellare furiosamente ma impose alla sua ragione di rimanere calma. “Tutta colpa di questi cavolo di film! Dai, Bea, non è niente!” Facendosi coraggio, con la sua stessa voce, si diresse verso la finestra, chiusa, e scrutò il buio esterno scostando un lembo di tenda. Vide un ombra vicino al cancello di entrata e immaginò fosse Patrizia alla ricerca, solita, delle chiavi della sua macchina. Rimase di vedetta; dopo pochi secondi, vide i fari della macchina accendersi e ascoltò il rombo del motore avviarsi. Un grido... Un' allucinazione di sicuro. Lasciò le tendine, voltandosi e sbuffando, gli occhi al cielo. “Appunto! Io sono un'emerita deficiente! Se mi fossi organizzata per tempo... Invece adesso mi trovo da sola dentro casa, con Freddie


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nella testa e Jason sotto il letto...” Rabbrividì, saltellando sul posto, e prese un tovagliolo per raccogliere la pizza da terra.

***

Le coperte tirate fin sotto al mento, sporse un braccio fuori le lenzuola per cercare, con il telecomando, un programma in grado di distrarre la sua paura. Si era lavata velocemente, una volta corsa per le scale, con la luce del corridoio accesa e la porta del bagno aperta. Era ridiscesa al piano inferiore, trafelata come se inseguita da chissà chi, e aveva acceso tutte le luci, chiudendo la porta e tutte le finestre. Il risultato, ora, era la casa illuminata a festa e nuvolette di fumo galleggianti nell'aria. Beh, il giorno dopo avrebbe spalancato tutto per far respirare la casa... il giorno dopo, con il sole ad accecarle gli occhi e i morti belli e sepolti nelle loro bare! Finalmente trovò la replica di Striscia la Notizia e prese a guardarla, assorta. In pochi minuti dimenticò zombie e vampiri, immergendosi nelle notizie e nelle battute dei due conduttori. I rumori sinistri divennero, quindi, allucinazioni, il terrore una flebile ombra tra i ricordi e il sonno la mano che le chiuse gli occhi poco tempo dopo. *** Si svegliò di soprassalto, il televisore spento, al suono di qualcosa infranto. Si alzò dal letto, scostando le coperte, e calzò le ciabatte, avvertendo i primi morsi del freddo. Incrociò le braccia e prese a camminare, abituando gli occhi al buio. Le luci erano spente. Aggrottò la fronte, spaesata, e prese a discendere le scale portando le


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dita al corrimano. Aveva lasciato tutte le luci accese, ne era certa. “Black out... e ti pareva strano? Certo che ho una fortuna, io... Mi ero anche tranquillizzata... Mannaggia ad Halloween, mannaggia!” Giunse in salotto e cercò a tastoni una accendino sul tavolo. Un alito di vento le accarezzò la nuca e qualcosa cigolò. La ragazza, incassando la testa nelle spalle, si voltò e vide la finestra accanto alla porta dischiusa. Una lampadina, delle plafoniere affisse al muro, era infranta a terra. “Che palle, ero sicura di averle chiuse tutte!” D'un tratto, la finestra si spalancò e la corrente che entrò fece aprire anche le altre accanto. Beatrice si voltò, il petto dolorante dei battiti forsennati, e portò una mano alla bocca, dimenticando la ricerca dell'accendino. Corse a chiudere le finestre, una a una, cercando di non cedere il passo al terrore. Si guardò attorno, gli occhi aperti e lucidi al riverbero della luna, e si mise a correre verso le scale. L'unico pensiero era il suo letto, le sue coperte e il televisore acceso. Voleva rumore, voleva luce. Afferrò il telefono cordless dal comodino e si gettò sotto il piumone, tremante, con le mani incrociate sul petto. “Ti prego, ti prego, ti prego Dio, fa che tutto sia finito... Ti prego, ti prego, ti prego...” La coperta prese a scivolare lungo il fondo del letto, e prima che se ne rendesse conto o avesse il tempo di trattenerla, si ritrovò scoperta al buio. La ragazza urlò, scalciando nel vuoto, e si mise freneticamente in ginocchio nel tentativo di riprendere il piumone. Ansimava, i polmoni accartocciati dall'inspiegabile, e pensò che se avesse dovuto chiedere aiuto in quel momento non sarebbe mai riuscita nell'intento. Afferrò un lembo della coperta ma perse l'equilibrio e cadde, rovinando con la schiena sul pavimento e un piede aggrovigliato nel resto della coperta. Le mattonelle erano fredde, glaciali, e Beatrice avvertì i primi


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brividi rizzarle i capelli sulla cute. Cercò di alzarsi ma faticò a districare il piede dalle coperte; sempre più in agitazione, tentò di aiutarsi con le mani. La luce si accese improvvisamente e lei urlò di nuovo, colta di sorpresa. Si guardò attorno e, portando una mano al petto, prese a respirare con una cadenza più regolare, calmandosi, a poco a poco. Sorrise, rossa in volto, e liberò facilmente il piede dalle coperte. Si alzò da terra e fece un giro su sé stessa, contemplando la sua stanza. Era tutto nella norma. “Si, io sono davvero un caso clinico! Ma vaffanculo, per poco non morivo di infarto!” Prese il piumone e lo sistemò nuovamente sul letto, continuando a insultarsi sotto voce per la sua stupidità. “Guarda un po' se a venti anni devo essere così deficiente d'aver paura del buio!” Osservò il lampadario, indecisa se lasciare la luce accesa o meno. “Ok, facciamo così, Bea... Oggi tieni la luce accesa ma da domani si cambia registro!” Si infilò sotto le lenzuola, le labbra arricciate in un ghigno ironico, e assunse la sua posizione congeniale al sonno. Socchiuse gli occhi, pregustando il succoso tepore del piumone, quando le luci si spensero e la televisione prese a vociare ad alto volume. “ADESSO BASTA! VOGLIO DORMIRE IO! NON È POSSIBILE!” Si alzò a sedere sul letto, visibilmente agitata e incollerita, con gli occhi incollati allo schermo. Le immagini, accecanti, danzarono davanti al suo sguardo, lucido di stupore; il fermacarte sulla scrivania, nel frattempo, prese a sollevarsi, fluttuando nell'aria come se sorretto da dita deboli e bambine. Beatrice avvertì un sibilo provenire dal fondo della stanza e si voltò in quella direzione, impallidendo in un attimo. Gocce di sudore freddo le accarezzarono i corti capelli della nuca mentre il fermacarte si posizionava con la sua punta verso la fronte della ragazza.


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Deglutì a fatica e si alzò dal letto, cauta, con lo sguardo fisso verso l'oggetto affilato e minaccioso. Si accostò alla porta, le mani aderenti all'intonaco rosato della stanza, e arrischiò un piede oltre la soglia. Cercò di rimanere calma, di razionalizzare la situazione, ma una voce nella mente gridava forsennatamente. Mosse un passo verso la soglia e una mano le afferrò la caviglia, facendola esclamare di paura. Il suo sguardo puntò dritto in terra e, in quel momento, il televisore e la luce si spensero nuovamente, sprofondando la camera nel buio. “Basta, basta, BASTA!” Sconvolta, prese a saltellare su un piede e a gridare a squarciagola, piangendo. Tra le lacrime, mentre tentava disperatamente di liberarsi dalla morsa di quella stretta viscida e gelida, vide una macchia lattiginosa accanto alla finestra. Una sorta di nube grigio – bianca galleggiava accanto al vetro, nello stesso punto dove la ragazza continuava a distinguere nitidamente il fermacarte a mezz'aria. “FERMI! FERMI! ODDIO, AIUTO!” La mano prese a risalire lungo il polpaccio, lasciando una scia gelatinosa sulla pelle a contatto. La ragazza ricominciò a scalciare come un invasata, cercando di liberarsi, gridando come mai aveva fatto in vita sua. Cadde a terra, sbattendo la testa contro lo stipite della porta, mentre la mano sconosciuta continuava a risalire, ora sulle cosce fredde. Impazzita dal terrore e dal dolore, cominciò a mugolare, con il sangue che le colava dalla testa, appiccicandole il caschetto, di riccioli miele, alla cute. “Vuoi dormire, Bea?” La ragazza impallidì, al suono della voce, mentre un peso corporeo le risaliva il busto. Un alito freddo e fetido le colpì le narici, torcendole lo stomaco. Improvvisamente ebbe un flash e collegò ciò che poche ore prima aveva ignorato.


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“Mi hanno ammazzato davanti ai tuoi occhi e non hai fatto nulla... Ma andava bene... Mi avevi chiesto di rimanere con te e io sono rimasta; stavo giocando, Bea... Ma tu vuoi dormire e allora provvediamo subito...” Le lacrime scesero dagli occhi di Beatrice, percorsero le tempie e si tuffarono nei capelli tremanti. “Patty, ascolta... Io non potevo sapere che...” “Vuoi dormire, Bea?” “Patty, ti prego ascolta, aspetta un attimo... PATTY!” Le mani strisciarono sui seni e la bocca rugosa dell'amica le sfiorò il collo. La gola cominciò a restringersi sotto la pressione delle dita forti e fredde della morta; il fermacarte, sibilando, sfrecciò nella camera e si piantò nel torace della ragazza, trapassando, come fosse burro, il corpo della defunta. Beatrice urlò di dolore, strisciando con la schiena lungo il pavimento. La morsa sulla gola era troppo forte, l'aria nei polmoni rarefatta e gli occhi oramai striati rosso sangue. Avrebbe potuto comprendere, soffermandosi con occhio più attento, cosa realmente si stava manifestando fuori casa, qualche ora prima? Avrebbe potuto immaginare, vedendo i fari tondi della macchina accesa, che in verità la sua amica era caduta vittima di un omicida? Avrebbe sul serio potuto comprendere? “Io non potevo sapere Patty, non potevo immaginare...” “Dormi, Bea... dormi!” La ragazza tentò in ogni maniera di divincolarsi dall'abbraccio e il bacio mortali dell'amica; le mani erano distese, inermi, sotto la pressione glaciale del corpo fluttuante. La carne fu dilaniata, strappata alle ossa con una precisione chirurgica, e il sangue prese a soffocare i morbidi riccioli color miele della ragazza esanime.


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Un ultimo grido pervase la camera, come un finale annunciato in una notte, tanto misteriosa, quanto fatale. Le ombre si gettarono sulla casa, come famelici avvoltoi, e ogni strumento elettrico della casa venne animato; luci e suoni pervasero ogni stanza, dando continuo a una festa ormai terminata da ore. Il fermacarte si fermò sull'inguine, ebbro di sangue e perversione, così come la mano incorporea che lo aveva guidato durante la pratica. ***

Patty si alzò da terra, fluttuando a diversi centimetri dal suolo, e rimirò la sua vendetta sulla distrazione umana. Era morta per mano di due balordi, già debitamente uccisi dopo l'ingresso nella notte dell'oblio, e nulla avrebbe mai sfamato la sua collera verso il genere umano. L'oscurità stava divenendo lentamente chiara, ma aveva comunque potuto gustare le gioie della terra morta prima di chiunque altro... non appena defunta e colma di energia. Si voltò, alla ricerca del suo bambino, e sorrise al suo sguardo soddisfatto. Un vita spezzata, un anima senza esperienza alcuna: in cerca, come lei, di vendetta verso la stoltezza dell'uomo. Si incamminarono, lanciati a velocità folle, verso il varco del loro mondo, mano nella mano e consci e soddisfatti delle loro prime scorribande nell'universo dei vivi, uniti per sempre nella morte. Sarebbe giunto un nuovo anno, il passaggio fra le realtà parallele avrebbe visto nuovamente luce e i defunti avrebbero dissetato la rinnovata bramosia di sangue. ***

La luna cedette il passo ai primi chiarori dell'alba, e ogni oggetto


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tornò inanimato nella casa di Beatrice. Le tende si aprirono, fresche di mattino, al soffio gelido dell'inverno e le ombre, padrone del crepuscolo, cercarono rifugio negli anfratti piÚ nascosti, in attesa della notte. Nel silenzio innaturale delle strade giallastre, il vento fu libero di cantare la sua messa funebre tra le fronde degli alberi spogli. Halloween era terminato e il corpo di una ragazza, disteso nel rosso della sua fine, salutò, senza voce, il primo giorno di novembre. Altrove, in un punto imprecisato del mondo, Beatrice dischiuse gli occhi ciechi tra i vagiti della sua nascita, piangendo ma contenta della sua nuova vita. Una vita che avrebbe vissuto fino al novembre successivo.


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Panta Rei

Fece ritorno da scuola, di corsa e con un gran sorriso sulle labbra. Aveva trascorso l'intero pomeriggio del giorno precedente a studiare Eraclito, ma l'otto in filosofia era valso tutto il tempo buttato sui libri. Lo zaino in spalla, aprì il cancello con le mani unite e si precipitò sulla porta con le nocche. Rideva come una pazza e gli occhi brillavano alla luce scintillante del sole di inizio maggio. La madre arrivò trafelata, borbottando accigliata, e le aprì la porta con le mani bagnate. “Ho preso otto all'interrogazione!” Lo sguardo era completamente assente e privo di interesse. “Muoviti, il pranzo è pronto. Ah, voglio che metti immediatamente in ordine la tua camera... sembra sia scoppiata una bomba lì dentro! Vengono i colleghi di tuo padre a cena questa sera e non vorrei dover tenere sigillate le porte di casa per impedirgli di visitare questa o quella stanza.” “No, scusa, vengono i colleghi di papà e devono entrare in camera mia?” “Ti ho detto di mettere immediatamente la tua stanza in ordine e non voglio sentire storie!” “Grazie per i complimenti, comunque.” “Hai fatto poco più del tuo dovere, Melissa, è ora che cresci. Matteo, tesoro? Hai finito con i colori? Dai, metti apposto e vai sul divano a vedere i cartoni animati.” Melissa rimase di sasso a guardare sua madre voltarle le spalle e far ritorno nel suo habitat naturale che era la cucina. Lacrime di cocente delusione allagarono le iridi e rigarono le guance, ancora accaldate dalla corsa. Un nodo alla gola le impedì di deglutire la saliva che, copiosa, si era formata in bocca, assieme alla bile della rabbia che montava. Camminò fremente e risoluta, rossa in volto e le nocche


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strette a pugno, sbiancate dalla tensione. Sua madre, intenta a parlottare con suo fratello minore Matteo, aveva una delle sue solite, sdolcinate, espressioni da 'mamma deficiente'. La ragazza osservò sua madre e concluse di odiarla con tutte le proprie forze. Aveva speso i suoi anni nel cercare di renderla fiera di lei e tutto ciò che aveva guadagnato, sempre, erano stati sguardi di pietà e di non sopportazione malcelata. Era stanca di una situazione logorante come quella, stanca di non avere il conforto di nessuno nella sua famiglia. Suo padre era inesistente, sua madre una stronza e aveva una vita schifosa. Le lacrime continuarono a scendere, impietose, e Melissa prese ad ansimare forte. Fissava sua madre, l'odio negli occhi lucenti, e respirava a fondo, avvertendo i primi vuoti nella testa. Questa volta non si sarebbe fermata, questa volta sarebbe andata fino in fondo. La madre si voltò e la guardò, seccata, come se solamente la sua presenza le desse fastidio. “Ti vuoi muovere? Sai cosa ti dico? Per punizione neanche pranzi. Vai direttamente a mettere in ordine la tua camera; uscirai di lì solo quando avrai terminato. Siamo intesi?” Osservò sua madre afferrare il piatto di pasta e gettarlo nella pattumiera, notò il sorriso infantile e cattivo di suo fratello, avvertì il petto squarciarsi e il fuoco divampare, dilaniandole i polmoni. I capelli di Melissa presero a vorticare, frustati da improvvise sferzate di gelo; i suoi occhi divennero più grandi e sempre più neri e infossati. La madre, ancora ignara, sorrise a suo figlio, mentre afferrava un bicchiere di vetro riempendolo di acqua. Melissa, irriconoscibile nella sua veste nera, prese a cantilenare una filastrocca che lei stessa aveva ideato giorni prima, le labbra rosso sangue e il sapore della vendetta sulla lingua. Fu in quel momento che sua madre si voltò e impallidì; fu allora che Matteo cominciò a piangere nel vedere la creatura ritta davanti ai suoi occhi.


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*** Tornò da scuola raggiante, lo zaino in spalla, con il sorriso dipinto sulle labbra martoriate dal nervosismo. Bussò alla porta con le nocche, le mani erose dalla dermatite. “Ho preso otto all'interrogazione!” Rita la guardò, la voce tremolante di pianto. “Melissa non hai preso le tue pasticche, questa mattina. Le ho trovate nell'immondizia.” L'entusiasmo negli occhi della ragazza si spense e le occhiaie tornarono, vivide, ad affacciarsi sul volto bianco cera. “Melissa, sai benissimo che devi prendere tutti i giorni la medicina, altrimenti...” La frase rimase sospesa in aria, l'espressione di Melissa contrita e incapace di capire. “Ho preso otto all'interrogazione, non ti interessa?” “Melissa, tesoro, non c'è stata nessuna interrogazione. Sei stata al centro...” La donna portò una mano alla bocca, cercando di contenere il pianto che, prepotente, stava per esploderle nel petto. Era un'agonia costante vedere Melissa peggiorare di giorno in giorno, ascoltarla inventare mondi e vivere in essi con naturalezza disarmante. Gli infermieri osservavano la scena dal loro furgoncino con l'espressione in volto della solita, fastidiosa compassione. Rita li guardò, stizzita, e fece cenno loro di poter andare via, a continuare il loro giro di 'riconsegna pacchi'. Tornò a guardare sua figlia, tremante di ansia e collera contro i dottori che non avevano saputo controllare il suo umore. Non si erano accorti, dai suoi atteggiamenti, che la loro paziente non aveva assunto i medicinali, quella mattina? Che razza di medico è uno sprovveduto che pensa soltanto a sé? Ma era normale, in una specie di manicomio... perché i dottori credevano che Melissa fosse solo pazza, non immaginando, neanche per un momento, quanto la situazione fosse diversa.


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La ragazza stava cambiando rapidamente e Rita impallidì nell'osservare gli occhi oramai blu oltremare e le labbra rosso magenta. Esclamò un sospiro carico di paura e prese per un braccio sua figlia, conducendola in cucina con forza, spaventata ma ancora perfettamente lucida nei pensieri. Matteo, suo nipote, stava colorando su un libro di disegni e lo vide sollevare gli occhi, sorridendo a sua cugina. “Tesoro, perché non vai a vedere i cartoni animati sul divano? Vai, ci penso io a mettere in ordine il tuo libro.” Aveva sbagliato, non avrebbe dovuto far venire il bambino in casa, non quel giorno che ricorreva l'anniversario della morte di suo marito. Lanciò un'occhiata verso la foto della sua famiglia, ritratto scattato quattro anni prima, e si rese conto della frattura nel vetro. Era tardi, era troppo tardi... “Matteo, dai retta a zia, vai a guardare i cartoni, ti chiamo io, dopo...” Le lacrime presero a scendere, ma Rita si impose di rimanere calma, mentre la mano di sua figlia nella sua si faceva più fredda e liscia. Aprì il rubinetto del lavandino riempiendo un bicchiere di vetro, le mani tremanti per l'agitazione, e gettò un'occhiata verso il bambino, ignaro. “Ecco, prendi la tua pasticca, tesoro; prendila prima che sia troppo tardi.” Nessuno sapeva, e nessuno avrebbe mai saputo. Ma era oramai troppo tardi: si leggeva a chiare lettere, nell'espressione folle di Melissa che afferrò il bicchiere e lo scaraventò a terra. Un grido lacerò il silenzio e istintivamente Rita corse da suo nipote, prendendolo tra le braccia; la ragazza prese a mutare nell'essere mostruoso che albergava nel suo corpo, cantilenando una strana e sconosciuta filastrocca. Odiare è bello odiare è tutto


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odiare è ciò che mi resta dopo la fuga dell'affetto Allora vi odio se è una maniera d'amore Allora vi odio e capirete perché Sempre sola lacrima che scende nel vostro sguardo vuoto annegherete La ragazza, oramai una creatura infernale, osservava la donna con odio cieco, col suo sguardo nero e nella veste che l'avvolgeva totalmente. Un vetro si infranse, sotto la pressione del grido lacerante della Furia; la donna, preda del terrore, afferrò suo nipote per un braccio e si riparò lontano da sua figlia, piangendo e pregando per la loro salvezza. “Ti prego, tesoro, torna in te... Ti voglio bene, amore, ti prego non farti del male.” La ragazza urlò nuovamente, sporgendo i denti affilati fuori dalle labbra, il corpo arcuato verso l'alto. La Furia, il fumo tutto intorno, digrignò i molari, mentre le braccia materne della donna cingevano il corpicino del bambino; la sua rabbia esplose in un nuovo e rinnovato grido, che devastò ogni cristallo e ogni vetro nella casa. I timpani della donna presero a sanguinare, mentre Matteo divenne sordo a ogni rumore. La creatura si avvicinò lenta e inesorabile, scrutò con i suoi buchi neri i due e si leccò le labbra lucide e carnose, famelica. “Tuo figlio morirà con te.” Rita trascolorò e comprese che tutto era perduto. Il mondo, che Melissa aveva creato nella sua mente, non sarebbe mutato per nessun motivo, almeno fino alla fine di ogni cosa, e non ci sarebbe stato suo marito, quel giorno, a salvare la famiglia.


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Gianfranco era l'unico in grado di contenere i problemi comportamentali di loro figlia, essendone il padre naturale. “Ti prego amore, torna in te... sono io, mamma.” “Io non ho madre.” Volteggiò due dita verso i fornelli, che presero a rilasciare mortale e asfissiante gas; con un semplice battito di ciglia, due corde si mossero dal fondo di un cassetto, cominciando a legare stretto i corpi dei prigionieri; lo sguardo della Furia era impassibile. Un silenzio irreale guadagnò tempo per un momento lungo una vita e fu lacerato dal singhiozzo straziante della prigioniera, disperata al pensiero dell'ineluttabile destino. Questo bastò a scatenare l'ira di Melissa. Le urla invasero il quartiere ma nessuno se ne rese conto; fuori imperversava l'improvvisa tempesta. La creatura morsicò e dilaniò, inghiottendo sangue a fiumi; leccò il dolce sapore della vendetta e sorrise allo scempio dei suoi familiari finiti. Si scostò dai corpi gettati in terra, esanimi, e li contemplò estasiata. Una scintilla prese fuoco dall'unica lacrima sgorgata dai suoi occhi e in un momento lo scempio del genocidio fu cancellato dalla memoria di chiunque. La casa esplose e la Furia scomparve tra le nubi rosse dell'incendio divampato. Nessuno trovò mai i resti di Melissa tra le macerie, solo la sua voce è ancora perfettamente udibile nel fluttuare del vento gelido dell'inverno. Tutto scorre.


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Per uno spicchio di agrume

Fermo, accovacciato con i gomiti sulle ginocchia, sudava e ansimava, preda dello spasmo serale. Fissava lo spicchio di pompelmo sulla tavolata nera della notte, mentre la mente andava ,via via, svuotandosi. Bella la luna. Quella sera, poi, era particolarmente affascinante. Arancio, disegnata per metà dalla sapiente mano di un dio invisibile, era attaccata al telo scuro e privo di stelle alla stregua di un post - it . Un brivido gli attraversò la spina dorsale e i denti ghignarono di vita propria. Saliva e sudore divennero un tutt'uno e il bollore si fece insopportabile. Avrebbe voluto urlare, ma si trattenne. Non ancora. Un rombo, in lontananza, gli diede la conferma della realtà nella quale era precipitato. Le labbra si incurvarono in un sorriso ironico e rassegnato, le spalle scosse da irrefrenabili conati di vita. Le bombe... Gli spari... Uno schifo... O faceva più ribrezzo ciò che la sua persona rappresentava per gli altri? Forse non lo avrebbe mai scoperto, ma anche un mostro, come lui, sapeva che la vita umana era di una meschinità senza eguali. Per metà animale, non riusciva a concepire la violenza fine a sé stessa. Per metà uomo, godeva all'idea della vendetta e della realizzazione di questa. Il dualismo prendeva vita, nel suo animo, tutte le sere; un dolore così latente e penetrante da riuscire a perforare un pezzo di cuore a ogni attacco mentale. Moriva un pezzo per volta, cedeva un istante dopo l'altro e la rabbia cresceva, giorno dopo giorno. Gli occhi, dilatati come due fori di cannone, fissarono nuovamente l'agrume in cielo, colmi di lacrime salate e cocenti. Era vero che il pianto poteva


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somigliare a gocce di limone... Bruciava sul volto e doleva da impazzire. O forse era il sangue bollente a mandarlo fuori di testa? Non riusciva a comprendere... Ma le gocce salate continuavano inesorabili a spargere il loro veleno sulla pelle, lasciando alla rabbia il compito di infervorare i sensi, giĂ provati, del suo corpo. La prima volta era stata un mese prima. Aveva riso, in un primo momento, poi era subentrata la vergogna della sua differenza, del suo aspetto. Per ultimo si era insinuato il dolore per l'omicidio compiuto. Solo per ultimo. Questo era l'essere umano: prima sĂŠ stesso e, poi, il resto del mondo. La gente parlava di licantropi come di lupi pelosi e agghiaccianti per fattezze. Farneticazioni atte a celare la veritĂ , ancor piĂš rivoltante della finzione. Il sangue aveva preso a ribollire nelle vene, quella sera. Clara era stata presa, a soli cinque anni, da alcuni soldati, fieri e gagliardi del loro compito. Era stata afferrata e spogliata, davanti ai suoi occhi di ragazzo sedicenne. Le corde erano strette e la fuga era rimasta un utopia... Ma la collera aveva cominciato a gorgogliare nel corpo, la saliva era scesa lenta dai denti, neanche fosse stato colto dalla rabbia canina, e le mani erano divenute agili come le zampe laboriose di un castoro. Dal profondo del petto era nato quel grido agghiacciante, un lamento insistente che aveva distolto i due uomini dal loro appagamento perverso. Odorare la paura era stato galvanizzante, osservare con occhi differenti il loro terrore era stato esaltante. Le corde si erano spezzate in un momento e dei due era rimasto solo sangue e brandelli di carne. Il riso si era impossessato del suo volto, mentre Clara scappava dal mostro. Un mostro... questo era. Meglio vedere la superficie abrasa di una cosa che la reale natura della cosa stessa. Era una belva e per tale era stato trattato. Alla stregua di un criminale, bandito dalla societĂ per la quale si era trasformato, era stato additato e condannato per la vita. Le bombe continuavano a echeggiare tra i vicoli del paese, mentre le lacrime si essiccavano sulla pelle coriacea del licantropo. Si erano ritrovati nel mezzo di una guerra, senza motivo, sbattuti da un rifugio all'altro,come fossero stati messi al soldo di un bambino viziato. Bel modo di vivere, bel modo di morire. E se bisognava perire, tanto valeva combattere.


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*** “MATTIA! CLARA! SCAPPATE! ANDATE VIA, SUBITO!” Il fiato corto e il pianto grosso... Quanto aveva cercato di liberare sua madre dalla trave del soffitto! Le schegge di legno erano penetrate fino nel profondo della carne, mente la donna lo insultava pur di mandarlo via dalla catapecchia che era stata casa loro. La sorella piangeva, il muco incrostato sotto le narici, la pelle coperta di sporco e polvere. Non gli importava. Le dita artigliate a quella dannata trave caduta, troppo grande e troppo pesante per i suoi muscoli acerbi, aveva continuato a tirare, a spingere, a smuovere, a gridare per lo sforzo. Gli occhi erano volati, poi, sul volto materno e la mente aveva preso coscienza delle azioni e del futuro prossimo. Aveva afferrato Clara e , mettendosela in braccio, aveva cominciato a correre, nelle strade invase di rumori, foschia, nebbia, polvere e morte. Non c'era stato tempo per lo sgomento, per il pianto o la paura. Aveva corso, convinto dei suoi ideali, e aveva raggiunto il posto di polizia. Lì avrebbe trovato riparo, lì avrebbe salvato sua sorella. Lì aveva trovato i due soldati. Strano il mondo. Strano anche il modo errato di pensare. La mente umana non era fatta per stare al mondo. Un cervello creato alla stregua di un computer sofisticato e prezioso, mai utilizzato se non per il raggiungimento del proprio ego. Il mondo era popolato da idioti, lui compreso, e Dio aveva permesso a tutti loro di aggirarsi indisturbati su una terra costruita e creata, lasciando che il suo errore di percorso si autodistruggesse. L'utopia, tanto agognata dai giusti, o dai deboli secondo i punti di vista, era non solo impossibile da raggiungere ma pericolosa quasi quanto il suo opposto. L'uomo, stupido e scaltro, non sarebbe mai stato in grado di governare il positivo senza cadere nella natura negativa del suo essere. Ecco l'errore del Signore nel crearli. L'essere umano era come una macchina per uccidere, atta solo a quello. E chi moriva senza versare sangue, era solamente perché non gli si era presentata l'occasione in vita...


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*** Era tempo di agire, tempo dell'ultimo atto della sua esistenza bizzarra e, per certi versi, sbagliata. Forse era stato proprio Dio ad aver creato la bestia nel suo animo; forse erano state le sfere celesti, così distanti, ora, dal cielo nero che li sovrastava, ad aver idealizzato un mostro sanguinario come lui. Con ogni probabilità, la leggenda dei licantropi era nata sulla falsa riga di altri suoi simili, che, creati in momenti assurdi come quello, avevano dato prova di crudeltà, apparentemente fine a sé stessa. Ma, fatalità, ogni volta il mondo era rinato, era vissuto di nuovo, ed era piombato nell'oscurità e nella malvagità. Era un ciclo inesorabile e continuativo. Impossibile una variazione, una speranza. Tutto scritto e definito per l'uomo cattivo e solo. Un cane si morde la coda, ma alla fine arriverà qualcuno a destarlo dal proprio gioco. L'essere umano, con la sua stessa vita, crea il fenomeno della storia e nessuno può permettergli di correggere le proprie azioni. Dio non prende parte nella vita terrena, di conseguenza nessuno potrà mai evitare la fine e l'inizio di tutto. Si guardò attorno, la luna sempre davanti al suo corpo martoriato, come uno spettro infernale. Sarebbe stato quello spicchio di pompelmo rosato a decretare la fine del conflitto. Sarebbe stato il bisbetico astro a decidere la sorte del sedicenne licantropo, scelto nel mazzo come un jolly. Avrebbe vinto? Avrebbe ceduto sotto l'eco delle pallottole? Inghiottì saliva, sempre accovacciato sul tetto della casa materna, lasciando che gli umori scivolassero a terra. Il ghigno prese a salire dalla gola, chiamando inconsciamente altri simili. C'erano esseri uguali a lui? Forse... Cani, di sicuro. La pelle prese a squamare, arsa dal sangue troppo caldo che si agitava nelle vene deboli. Le urla nacquero in petto e sfogarono il loro furore tra i denti. La bocca spalancata al cielo nero, il grido di tragedia esplose, unendosi all'ululato lamentoso e rassegnato del mondo. La natura si sarebbe ribellata, avrebbe sovvertito gli schemi decisi agli albori da un dio inesperto. Gli umani avrebbero ceduto il passo a una reale utopia, quella dell'essere animale concepito per


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vivere nel rispetto dell'altro. Per quanto un uomo possa credere di essere intelligente e giusto, non avrà mai una vita priva di ingiustizie commesse o torti arrecati. L'animale uccide per mangiare, copula per istinto, e forse anche per piacere, crea gerarchie per una sana convivenza sul suolo terreno. L'uomo aveva avuto la possibilità, durante tutti i secoli della sua comparsa, di essere migliore e non l'aveva sfruttata. Avrebbe pagato. Vide avanzare i soldati, i mitra e i fucili da cecchino in spalla, nella vegetazione ai limiti della città. Odorò l'aria carica di odio e sangue. Gli occhi sporti nel sudore, la pelle ridotta a un ammasso sanguinolento e gorgogliante di carne, si lanciò con un salto verso la strada. Forse non avrebbe ottenuto nulla, forse sarebbe morto e basta, costretto al suicidio dalle circostanze e, probabilmente, le sue idee per il mondo erano state, da sempre, errate e visionarie. Avrebbe tentato comunque. Corse, ansimante e colmo di determinazione, certo della morte. Avrebbe portato con sé anche altri e i cani lo avrebbero aiutato. Li sentiva zampettare accanto, come se non stessero correndo ma solo passeggiando, guardinghi. I sensi acuiti dal potere innaturale che lo aveva pervaso, si gettò su un uomo in divisa e lo finì nel termine di una manciata di secondi, strappando pelle e ossa con la mascella potente. Il gruppo di animali si riversò tra gli alberi e le case, dilaniando e finendo la popolazione, senza alcuna distinzione. Bisognava chiudere un capitolo per cominciarne un altro. Avrebbero creato un prototipo vecchio, un modello già visto ma... Se questo era il dolore del vivere, almeno avrebbero creato un piccolo sistema utopico di accettabile durata. Per qualche tempo nessuno avrebbe ucciso apertamente e tanto bastava. Cadde esausto nella vegetazione, la pallottola di un ventenne piantata in pieno petto. Uno scorcio di cielo gli mostrò lo spicchio di agrume, alto nel cielo. Sorrise e chiuse gli occhi, mentre gli animali continuavano a riappropriarsi dei loro territori. Esisteva una speranza dopo la morte? Esisteva una realtà meno difficile da sopportare? Una vita poteva rappresentare una fortuna


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tale da essere vissuta in maniera discreta? Lo avrebbe scoperto, un giorno. Per il momento si limitò a esclamare il primo vagito della sua nuova esistenza, a distanza di chilometri dalla guerra, a distanza di decenni dalla sua ultima battaglia... La notte era avviata e la luna, ridotta a uno spicchio simile a un pompelmo rosato, lo salutò, inquietante e saggia.


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Presa!

Correva, voltandosi di tanto in tanto, i capelli al vento. Gli occhi ciechi, nel buio rischiarato appena dalla luna, ascoltava il suo respiro pesante e affaticato e il calpestio tra le foglie del bosco. L'avrebbero presa, ne era cosciente, ma avrebbe lottato. "Strega... eccoti qui!" Un ghigno, una scintilla e fu il fuoco. Urlò, squarciando il silenzio, gli occhi strabuzzati e il fiato corto che premeva i polmoni, accartocciandoli. Non era ancora finita e Nera continuò a volare, con i suoi piedi, sul manto autunnale del bosco. Il volto rigato di pianto, la determinazione di salvarsi, scartò alberi, saltò radici e scostò il fogliame che ostacolava la sua fuga. Era accaduto tutto troppo in fretta e, la sola colpa di aver fatto nascere un bambino, non poteva valere la sua morte. *** Delia era entrata in casa sua, gli occhi stralunati dal dolore, pronta a partorire. Era sola, la pancia stretta tra le mani tremanti, e continuava a parlare a tratti, tra i sospiri delle contrazioni. Si era prodigata nel farla sdraiare sul suo giaciglio, si era premunita di acqua calda e bende, per prendere il bambino una volta nato, e aveva respirato con lei a tempo, finché il dolore era esploso nel primo grido di liberazione. Un vagito aveva salutato la sera, nel sorriso della levatrice e nell'espressione enigmatica della donna, ancora convalescente. La porta si era spalancata e il ghigno orribile e perverso di Giosa avevano reso casa sua l'inferno da cui scappare. Strega.


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STREGA. Aveva fatto nascere un bambino ed era tacciata di stregoneria? Aveva sorriso tra le lacrime, alzandosi da terra, ed era arretrata verso la porta sul retro. Delia aveva guardato, colpevole, la levatrice, il neonato tra le braccia, piangendo sommessamente per l'inganno. “Perché? Ho fatto nascere tuo figlio, Giosa.” “Oh si, Nera, hai ragione e ti ringrazio. Ma ho bisogno di soldi per poterlo crescere in questo mondo e il Prete scuce parecchi soldi per voi...” “Per voi? Voi chi, Giosa? Credi davvero che io sia una strega? E se domani una tua vicina decidesse di liberarsi di voi e vi denunciasse alle autorità?” L'uomo, la barba ben fatta e il vestito della domenica inamidato addosso, aveva sorriso, rivelando i denti mancanti. “Non lo faranno, Nera. Li ho in pugno, i miei vicini. Nessuno oserà mai tradire la mia famiglia. Hanno tutti qualcosa da nascondere e sanno benissimo che non sarebbe la mossa più saggia quella di tradire, me o la mia donna, a quelli della chiesa, per soldi. Nossignore, non mi denunzieranno mai e tu, invece, morirai sul rogo. Troveremo una nuova levatrice, giù in paese.” “E farete uccidere anche lei?” “Chi lo sa... le vie del fato sono indefinite...” Un nuovo sorriso, più malvagio e quasi famelico, si era affacciato sulle labbra dell'uomo, devastate dal sole, e Nera aveva compreso che per non impazzire sarebbe dovuta fuggire. Le mani dietro alla schiena, frugando tra gli ostacoli della veste, avevano trovato la maniglia della porta sul retro e, inforcatala con vigore, avevano spinto il legno con ogni forza. La levatrice era caduta a terra, sbattendo i denti e mozzandosi la lingua nell'impatto, terrorizzata e con il fuoco negli occhi. I tizzoni delle torce erano entrati in casa e il suo tentativo di fuga aveva dato il via libera allo scempio dei suoi averi. “Dove vuoi andare strega? Morirai com'è giusto che sia. Invoca il diavolo, ora, e chiedigli aiuto. O lo chiami solo per scoparci?” Giosa


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aveva riso, con la sua bocca sdentata, cattivo e ignaro. Ignaro del fatto che Nera possedeva un istinto di sopravvivenza più alto, e nobile, di sua moglie. La levatrice si era alzata sulle gambe tremanti e, voltatasi, era fuggita nel buio. *** Nera aprì gli occhi, ansimante. Il sudore le aveva incollato addosso la camicia da notte, bianca e a fiorellini rossi, che sua madre le aveva regalato due giorni prima, al ritorno dal mercato. Un incubo in piena regola, uno di quei sogni da rendere il risveglio, nella realtà, lento e surreale. Si alzò dal letto, i polmoni ancora agitati, e scostandosi i capelli dietro le orecchie, si portò davanti alla finestra. Il buio, nonostante la luna alta nel cielo, permeava la notte e il fienile era appena visibile, ad appena cento metri di distanza da casa. Erano mesi che quel sogno la rincorreva. A volte moriva sul rogo, a volte riusciva a scappare (per sempre) ma era costantemente braccata; la sua corsa sembrava destinata a non esaurirsi mai. Sogno dopo sogno, le forze la stavano abbandonando e grandi occhiaie avevano preso a cerchiarle gli occhi, tanto che sua madre aveva cominciato ad allarmarsi. Portò una mano alla tenda e la spostò, ammirando le poche stelle lucenti. La luna era troppo grande e il suo alone troppo luminoso per permettere a occhi umani di poter ammirare il firmamento, quella notte. Apri la finestra e unisciti a me, Nera. Sobbalzò a quelle parole e la voce rise di una tonalità cristallina e delicata. Incuriosita, girò le mani sulla maniglia di ottone e sporse il volto nel gelo notturno.


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Un gatto, ai piedi del fienile, miagolò insistente, chiamandola a sé. La ragazza si sporse, con rinnovata curiosità, finché una mano non comparve, dal nulla, a offrire l'aiuto necessario per uscire sulla terrazza di pietra. Nera si lasciò guidare dall'uomo senza volto, una lieve increspatura di piacere dipinta sulle labbra, e si inoltrò nel fitto della boscaglia adiacente al fienile. Un vivido fuoco la attendeva e decine di donne nude ballavano al suono di tamburi, celati nell'oscurità. Nera osservò rapita i loro corpi, i loro gesti fluidi e le chiome morbide fluttuanti nel vento, rosso e caldo, in quello che appariva come un ulteriore sogno. Un sogno sublime dal quale, questa volta, desiderò non destarsi più. Una voce la chiamò a sé, senza suono, e un uomo dalla bellezza sconvolgente e divina le sorrise. Un calore le pervase il cuore e le membra. Un incendio tra le gambe le infiammò i pensieri e, con i piedi leggiadri, galleggiò verso quel volto rassicurante. Accadde in un momento anche se, nell'animo suo, sapeva di non dover cedere alla forte tentazione dell'unione carnale. Non resistette e si lasciò travolgere dai tocchi sapienti dell'uomo, dalle bocche avide delle donne, dai membri protratti verso di lei di animali e uomini sconosciuti. Un piacere immenso la pervase e un potere sovrannaturale cominciò a scorrerle tra le mani e le braccia. I capelli crebbero, le vesti si fecero più cangianti e le forme del suo corpo maturarono. La strega venne condotta lontano dalla sua casa natale, in groppa alle capre dei demoni, alla ricerca di un nuovo luogo dove insediarsi e vivere una vita prosperosa e soddisfacente. *** I tizzoni ardenti erano ovunque e il suo nome riecheggiava nel bosco. Gli uomini della chiesa la cercavano a gran voce e il rogo era stato già predisposto nella grande piazza del paese, pronto ad ardere nello


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sfrigolio del suo corpo nella brace. Scappava lontana dalle voci, tremando di terrore e invocando il nome del suo signore. Nessuno rispose alle sue richieste, solo grida infuriate degli uomini dell'inquisizione a darle la caccia. Due braccia la ghermirono e la gettarono in terra, voltandola con il seno verso l'alto. Si divincolò e cercò di pronunciare le formule magiche, che sapeva esserle d'aiuto in quel frangente, ma non riuscì nell'intento e un telo di stoffa le coprì la bocca, zittendola. Avrebbe gridato e l'uomo ne era pienamente cosciente. Un uomo di chiesa. Un uomo dall'animo puro e casto... La donna tentò di liberarsi, gli occhi indemoniati, dalle gambe e le braccia di acciaio del suo aggressore, senza successo alcuno. Venne posseduta brutalmente ma non pianse e non gridò. Non fornì soddisfazione all'uomo, che non comprese il suo orgoglio, e che interpretò la sua espressione in altro modo: piacere. “ Allora, strega, ti piace essere scopata, eh? Brava puttana, ma adesso, dopo aver goduto, muori!” Il suo sorriso riecheggiò, nelle orecchie della donna, fino ai piedi del rogo, le vesti strappate e sporche di terra. L'oblio l'avvolse, fortunatamente, prima del rosso supplizio, e Nera cadde esanime, priva di protezioni. Due artigli la afferrarono e la gettarono nell'orrore del fuoco mentre il male guardava, il sorriso sulle labbra, la sua fine.


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Sergio, il mostro

Li fissò, con sguardo fiero e per nulla intimorito, avanzare. Erano otto. Un bel drappello, considerando la situazione. Era finalmente giunto il momento e lo scontro era, tanto inevitabile, quanto necessario. Non poteva continuare a scappare in eterno e la serenità della sua promessa sposa dipendeva dall'esito di quella battaglia. Essere un 'diverso' non aveva mai giovato alla sua sopravvivenza, ma aver scoperto una persona totalmente identica a lui... Metteva seriamente a repentaglio il suo futuro. Era accaduto tutto velocemente, dato il quadro completo della sua esistenza. Aveva duecento anni, tondi tondi, tutti vissuti in completa solitudine e caratterizzati dal tedio sconfinato delle sue giornate lunghe e senza sonno. Non dormiva... Come mai? Non era dato di sapere... Sembrava preda di quel libro... Insomnia... Solo che lui non rischiava di morire per la perdita di sonno, non vedeva auree, non era costretto a trovare un modo per sopravvivere. Da quando era 'mutato', nulla era stato modificato nel suo stile di vita, si annoiava semplicemente di più. Per carità, i primi anni erano stati galvanizzanti, eccitanti come mai avrebbe sperato. La notte, infinita, offriva mille modi di divertirsi; dai pub ai bordelli, sembrava che il mondo si adattasse perfettamente alla sua condizione di mostro... Si, un mostro. Che altro? Un uomo incapace di dormire, con occhi striati di rosso, e non per stanchezza, che aveva sviluppato strane capacità di 'adattamento' non poteva essere definito altri che un mostro. Chi aveva mai visto un umano bere sangue di propri simili? Si, si... Sangue denso, viscoso, caldo e vitale. Quante volte si era trovato a sorridere delle macchinazioni cinematografiche che i registi moderni compivano per spiegare l'ignoto... I vampiri, i loro denti affilati e il veleno per mutare altri esseri umani. Le figure 'infernali', senza anima né dimora ( beh almeno su questo avevano


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ragione... pagare l'affitto di una casa per duecento anni di filato avrebbe destato qualche piccolo sospetto...) Le stronzate si sprecavano... Lui era un vampiro? Mica male come 'genere'... Però non pittoresco come i libri di Stoker. In più, neanche uccideva, se non strettamente necessario... Nei bordelli, in giro per il mondo, era pieno di donne da far ubriacare e drogare. Non era corretto, ma almeno non doveva commettere omicidi per un piccolo prelievo di sostentamento... “Eccoti, finalmente... Dov'è quell'abominio della tua donna? La stai proteggendo? Credi, sul serio, di essere in grado di poterci sconfiggere, mostro? Non siamo solo quelli che vedi... Siamo molti di più...” Troppo vicini, troppo numerosi... E Giglio era lì a pochi passi, con Tara in braccio... Mio Dio, era difficile resistere al loro fascino. Avvertì le ginocchia cedere, mentre i Ruidi lo fissavano con i loro occhi azzurri. La setta nera della purezza. Il clan del Diavolo al completo. I loro poteri erano fortissimi, troppo anche per i suoi... Chiuse gli occhi, cercando di allontanare lo sguardo ipnotico. Inutile. Erano nella sua mente, nei suoi pensieri... come un piccolo virus informatico, avevano attecchito in ogni cellula della sua materia. A terra, le mani tremanti sul terreno, ansimò, sfiancato e timoroso. La sua spavalderia e coraggio, dov'erano finiti? A dormire, forse, per ironia della sorte. “Morirai prima tu, poi il tuo clan...” Clan? Sorrise, malgrado tutto... I libri e il cinema mietevano sempre più successo, nonostante quelle dovessero essere persone informate sui fatti... “Quella è la mia famiglia... QUELLA È LA MIA FAMIGLIA!” Aprì gli occhi, d'improvviso, sopraffatto da una rabbia cieca e fulminea. Come una scossa elettrica, si era sentito attraversare il cervello da una furia devastante, una furia in grado di annientare quello sguardo azzurro cielo... Erano davanti a lui, le lance di piombo in una mano, le candele, pure, accese nell'altra. Lo avrebbero finito in poco tempo, con un bel sorrisino sulle labbra, scarne ed erose dal tempo. Non poteva permetterlo. Si erano autoproclamati soldati di Dio, con


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i poteri del Diavolo... Strano giro, anche per lui... Chiuse gli occhi e le vene sulle tempie si gonfiarono nello sforzo. Avvertì il sibilo, del primo coltello, sollevarsi sul suo capo. Strinse i pugni e gridò. Nello stesso momento un vento gelido si levò da terra, un vento quasi solido... Il muro di ghiaccio si interpose tra lui e i Ruidi, con un rumore secco e fastidioso. Sergio si alzò in tutta fretta, voltandosi nel contempo, e si dissolse. Ah, i poteri, degli esseri come lui, erano favolosi. Rise di gusto, pensando di dover anche ringraziare proprio quel gruppo di 'satanici incoscienti', come li chiamava lui. Loro gli avevano detto che non era l'unico della sua specie. Loro lo avevano informato delle numerose estirpazioni ancora da compiere sulla terra... Ed era stato grazie alla loro caccia se, durante il suo vagare nello spazio e nel tempo, aveva conosciuto Giglio. L'aveva riconosciuta subito, dagli occhi striati e dall'incarnato quasi trasparente, e se ne era innamorato immediatamente. Non erano creature infernali, loro, ma esseri dotati di un'anima. E se ne era convinto totalmente, davanti agli occhi neri e lucidi di loro figlia. Erano umani come chiunque altro, certamente più normali dei Ruidi. Questo era sicuro! *** “Sbrigati amore, stanno arrivando! Il ghiaccio non terrà per molto... Dobbiamo salvare Tara!” Irruppe nella stanza trafelato, con il fiato corto e i capelli davanti agli occhi. Notò lo stupore di Giglio e non comprese. Tremava? “M... ma come hai fatto? Io... io ti ho visto cadere in ginocchio davanti a loro e... Come ti sei salvato?” “Ti hanno sentita?” La voce era divenuta improvvisamente sottile, penetrante... Giglio annui, gli occhi rossastri annacquati. “TI AVEVO DETTO DI NON INDAGARE NELLO SPAZIO! TE LO AVEVO DETTO! Non mi dai mai retta... Abbiamo ancor meno tempo, allora. Hanno avvertito sicuramente la tua intrusione e con ogni probabilità ti hanno già individuata e rintracciata. Muoviamoci!” “Devo prender...”


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“NO! PRENDI SOLAMENTE TARA E ANDIAMO! Ci rifaremo strada facendo!” Sergio afferrò un braccio di Giglio, tenendola saldamente, e chiuse gli occhi. Avrebbe tratto in salvo la sua famiglia, fosse stata l'ultima cosa... Sarebbe potuto anche morire, dopo averle salvate... “Papà, lo sai che lo dici sempre e poi cerchi sempre di salvarti...!” Spalancò lo sguardo, stupito.. Era stata Tara? La fissò. La bimba gli sorrise. “Si, papà, lo sappiamo che non ci libereremo di te neanche dopo...” Era impressionante. Il fiato circolava nei polmoni? Giglio era viva? La guardò, di sottecchi, e si rese conto del suo pallore improvviso, se possibile ancora più marcato. Loro figlia gli aveva parlato... Col pensiero... “La nostra piccola è una di noi, allora...” Chiuse gli occhi, sorridendo della scoperta recente. Fino a quel momento non avevano mai saputo, con certezza, se la piccola sarebbe stata umana oppure 'una diversa' come loro. Scomparve, un sorriso sardonico tratteggiato sulle labbra fine. I Ruidi li avrebbero cercati ancora, non avrebbero smesso mai. Ma sarebbero sopravvissuti. Era una promessa. Era una certezza.


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Il riflesso del male

Non fu in grado di trattenere le lacrime. “Dai, me lo avevi promesso! Vedi che non ci si può fidare di te? Sei di un confortante...” “Su, non ti arrabbiare.” Tosca cominciò a respirare affannosamente, portando una mano allo stomaco, nel tentativo di calmare le sue risa. “Non è colpa mia se... Se il parrucchiere ha deciso di farti diventare come la protagonista di Apocalypto!” “Ancora? La fai finita?” Ma il sorriso si stava già facendo largo, sgomitando, tra le labbra di Rosaria. Era impossibile non abbandonarsi all'ilarità, quando c'era Tosca nei paraggi... E ora eccola lì, con un'accettata fra capo e collo, ad attendere una mano dal cielo. “Voglio morire... Guarda cosa mi ha combinato quel deficiente... Adesso mi dici come vado in giro? Mi dovrei tagliare la testa!” “Beh, il parrucchiere ti ha dato una bella mano...” Tosca riprese a ridere sommessamente, tra i borbottii indignati di Rosaria, mentre una debole pioggia prese a cadere sulla strada deserta. “Ecco, ci mancava solo l'acqua... Così, con i capelli ricci che ho, sai che bel porcospino divento? Fortuna che non c'è nessuno in giro... Anzi... Ma oggi c'è qualche sciopero?” Tosca si fermò un momento, smettendo di ridere, e si guardò attorno, prendendo con i suoi occhi azzurri tutto l'isolato. “Che io sappia no, ma è strano, effettivamente, questo 'assenteismo'... Non saprei cosa dirti. Una cosa è certa. Se ci si avvicina qualcuno, con quel casco di banane che hai in testa, scappa a gambe levate! Mamma mia, Rosaria, che ti ha combinato... Dovresti fargli causa!” Lo sguardo, quasi schifato, della sua amica, le fece montare una rabbia quasi indomabile. “LA VUOI FAR FINITA? SCHERZARE VA BENE, MA COSI' È TROPPO! TI RENDI CONTO CHE CI


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DEVO ANDARE IN GIRO IO CON QUESTO COSO IN TESTA? CHE CAZZO CONTINUI A PRENDERE IN GIRO?” “Ehi, datti una calmata... Anche perché, così, non è che migliori la situazione... Guarda che i cappelli fanno miracoli...” Il sorriso a trentadue denti, Tosca era incorreggibile. Impossibile portarle rancore per più di due minuti. “Vaffanculo, vai...” “Ricresceranno, Rosaria. Non fartene un problema, sul serio. Non ti stanno tanto male. Tutto sta nel farci l'abitudine...” Giunsero davanti al portone di casa di Tosca in silenzio e, prese le chiavi, salirono le scale. “Ti faccio compagnia... Ma solo finché non arriva Luigi. Se non torno a casa per tempo, mi tocca uccidere mia madre. Lo sai com'è fatta. Puntualità sopra ogni cosa... Prima però uccido te...” “Si, lo immagino... Però lo sai che non sopporto di stare in casa da sola... Accenditi il televisore, vado un momento in bagno. Ah... Mi so difendere bene, io! ” Rosaria si adagiò sul divano, sprofondando nei cuscini morbidi e caldi, e prese a fare zapping tra un canale e l'altro. Le sei del pomeriggio e come al solito, nulla di interessante... Sbuffò e, afferrato il pacchetto di sigarette, ne accese una meccanicamente, per semplice noia. Chiuse gli occhi e, senza rendersene conto, si addormentò. Plink. Plink. Plink. Aprì gli occhi. Era in piedi, vicino al divano, la sigaretta spenta. Titubante, aggrottò la fronte. Un vuoto di memoria... Che strana sensazione... Le gocce provenivano dal bagno. Stranamente le distingueva nitidamente, nonostante fuori stesse diluviando. Seguì il rumore, appoggiando le mani tremanti lungo il muro candido. Si voltò, avanzando verso la stanza, e si accorse della lunga scia di sangue sull'intonaco. Il cuore perse un colpo, ma il terrore non arrivò, come aveva immaginato. Si sorprese tranquilla.


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Continuò a camminare, ora sicura, e aprì la porta del bagno semichiusa. La vide. Il sangue sgocciolava copioso dagli occhi di Tosca, distesa nella vasca asciutta. Occhi... Non li aveva più. Rosaria la fissò, avvertendo l'acido salirle in gola, ma non gridò. Se lo aspettava. Perché? “Ma che cazz...” Portò una mano alla fronte e tastò una ruga. A quel punto la paura si fece largo. Una ruga... Come era possibile? A vent'anni, una ruga? Il cuore batteva furiosamente nel petto. Sembrava volesse esplodere. Si catapultò sul lavandino, cercando lo specchio, dai bordi gialli, dell'amica. Si vide riflessa e fu lì che l'urlo nacque potente e imponente. Un grido agghiacciante, che percorse in poco tempo l'intero palazzo e infranse i vetri del salotto. Cos'era diventata? I denti affilati, gli occhi infossati e rossi, il volto completamente deturpato... Cos'era quel mostro? Si voltò, guardando i lineamenti dolci di Tosca, e una rabbia cieca la pervase. Non poteva essere bella, lei che era morta. Cosa se ne faceva della bellezza, una persona che era capace solamente di prendere in giro gli altri? Lei sarebbe dovuta essere bella... Lei, e nessun'altra! Contemplò le proprie mani, intrise del sangue della ragazza, e notò gli artigli. Sorrise, perversa. Bene... I capelli non sarebbero più ricresciuti, perché si sarebbe uccisa prima, ma quella stronza avrebbe avuto un funerale ancor peggiore. Sarebbe diventata una senza – volto... Si gettò sul corpo esanime di Tosca, squartando, con tutta la forza sovrannaturale di cui era capace, e ne dilaniò i tratti distintivi. Strappava, mordeva, gridava e rideva... Rideva di gusto come mai aveva fatto... Una volta terminato avvertì la calma riprendere il proprio posto nel suo corpo. Ansimava ancora, ma sempre più lentamente. Si voltò verso lo specchio, pronta a gridare. Vide la sua immagine e delle lacrime le rigarono le guance... Rosaria la contemplava dal vetro, sorridente e giovane... e comprese... Chiuse gli occhi e consentì la trasformazione.

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Si chiuse la porta dietro le spalle, toccandosi i capelli corti con le dita, sorridendo, dopotutto. Ci stava giĂ facendo l'abitudine... Il suo doppio sarebbe riemerso un giorno, forse... O forse no...


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Gli Ortopolis

Seduta alla sua scrivania, lavorava febbrilmente al nuovo racconto. Aveva ricevuto l'ispirazione giusta da un sogno e appena sveglia, le quattro di notte, aveva acceso prontamente il computer, prima che l'idea svanisse con l'alba. La lingua sporta di lato come in un fumetto, ticchettava sulla tastiera, l'espressione assorta e lo sguardo perso nelle immagini che la mente le forniva. Solitamente Italia scriveva come in trance, ponendosi davanti al video e lasciando che la storia si sviluppasse autonomamente, quasi vivesse di vita propria. Questa volta la dinamica si era svolta in maniera totalmente diversa. Aveva sognato una fata e stranamente l'immagine di lei era, ancora adesso, vivida e perfetta nella sua memoria, come avesse ammirato una foto per tutta la notte. La creatura le aveva rivelato, tra le lacrime, di vivere in una valle abbandonata, di essere l'ultima sopravvissuta di una stirpe regale distrutta e spazzata via da una dinastia antica e potente. La valle, dove Dublib e la sua famiglia abitavano da generazioni, era stata prescelta a nuova capitale del regno di questa nobile casata, gli Ortopolis, creature prepotenti per natura. L'intera cittĂ di quella fatina era stata rastrellata al suolo e di tutta la popolazione, oramai, non rimaneva che lei, costretta a reinventare una nuova vita. In viaggio con le poche cose intime che era riuscita a racimolare, la dolce creatura avrebbe ricercato una cittadina ospitale nella quale ricominciare a vivere. Una storia non proprio originale, per la veritĂ , ma di un'intensitĂ tale da necessitare un resoconto dettagliato. C'era qualcosa che Italia sapeva di dover scovare, un piccolo e significativo particolare da ricercare tra le parole della fata. Un


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demone si aggirava in quello scenario, anche se rimaneva ancora avvolto nell'oblio del ricordo. Si era svegliata, le lacrime agli occhi dalla tristezza, e aveva deciso di non lasciare che quella storia andasse perduta tra i miasmi della notte. Si era alzata in tutta fretta e aveva cominciato a stilare una sorta di trama, in modo da non dimenticare nessun particolare utile. Viveva sola in casa, per fortuna, quindi non doveva rendere conto a nessuno delle proprie improvvisazioni notturne. Il giorno seguente, inoltre, sarebbe stata di riposo dal lavoro e quindi avrebbe dormito fino a tardi, fosse stato necessario. Prese a scrivere freneticamente nomi, luoghi, descrizioni di personaggi e i loro rispettivi caratteri. Più scriveva e più si immergeva nel mondo fatato che stava creando, o meglio, che sembrava essere stato creato appositamente per essere descritto. Le parole si susseguivano sulla tastiera, non lasciando fiato a Italia, sciorinando dialoghi possibili o situazioni imprevedibili. Catturare l'attenzione del lettore era affare duro per uno scrittore e non sempre l'impiego di parole semplici e lineari bastavano per far si che un racconto arrivasse al cuore del lettore più esigente. A volte bisognava ricorrere all'ironia, altre alla simpatia pura, altre ancora far leva sul sentimentalismo al limite della tristezza. Non era semplice creare mondi paralleli e conversazioni interessanti anche se per Italia la continua ricerca dell'originalità aveva sempre funzionato da sprono. Un modo in più per migliorarsi. Scrittrice di successo oramai da cinque anni, tentava in ogni romanzo di elevarsi rispetto al manoscritto precedente. Correre verso la perfezione era un dovere per il bene del lettore affezionato. D’un tratto, mentre era intenta a descrivere minuziosamente il carattere della fata Tuigghi, un nuovo contatto di Msn si illuminò sulla videata del computer, catturando la sua attenzione. Ortopolis. Arricciò le sopracciglia con un tuffo al cuore.


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Un hacker... Doveva essere per forza un hacker , anche se non comprendeva come questo fosse possibile. Non aveva aperto nessuna mail, da quando aveva acceso il computer,e su msn non era collegato nessuno dei suoi amici. Nessuno, tranne quel tizio. Cliccò con il mouse nella finestra di conversazione e scrisse. “Chi sei?” Il cuore in tumulto, attese la risposta che arrivò prontamente. “Sai chi sono. Il nome dovrebbe chiarirti le idee, umana.” Dopo un breve momento di disorientamento, Italia cominciò a innervosirsi. “Potrei risalire al tuo IP, lo sai, vero? Non puoi immetterti nel mio computer e rubare le mie idee.” “Credo tu non abbia compreso la mia natura, umana. Sono la figlia del Re Ortopolis. Ho deciso che la tua terra diverrà presto il mio nuovo regno.” Italia si infuriò per l’arroganza con la quale quel fottuto bastardo si stava prendendo gioco di lei. Sarebbe passata da stupida solo se avesse voluto. E a quell'ora era l'ultimo dei suoi pensieri! Non sapeva a chi rivolgersi, ma quel genietto da strapazzo l’avrebbe pagata cara. “Esci immediatamente dal mio computer o avverto la polizia.” Le mani tremavano per la collera e il fiato si fece corto. Stava cercando di reprimere la sua rabbia in ogni modo ma era quasi impossibile. Non poteva permettere che le sue idee venissero trafugate in un modo tanto subdolo. “Sei una stupida, umana. Non ci arrivi da sola? Eppure quella lacrimevole fata, questa notte, ti ha messo in allerta. Mi vedo costretta a chiudere in fretta la partita. Addio.” La finestra si chiuse e il computer cominciò ad aprire pagine di internet a caso. Italia urlò in preda ad una furia cieca. Non aveva ancora salvato nulla e se avesse spento il computer avrebbe certamente perduto ogni dato. Quel bastardo le aveva inviato un virus e lei non se ne era


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neanche resa conto. Ancora seduta, si accorse di una piccola icona lampeggiante, in fondo alle pagine. Non veniva sovrapposta dalle altre che si aprivano in continuazione, bensì rimaneva fissa, come un faro nella notte cieca. Fidarsi? No. Ma non aveva nessuna maniera di interrompere il flusso di follia che aveva invaso il suo portatile. Decise di cliccare sull’immagine e attese. Apparve un cerchio bianco su sfondo nero e Italia si perdette. Lo sguardo vitreo, rimase per un tempo indefinito a contemplare quel semplice cerchio bianco, mentre tutto intorno a lei continuava a vivere nell’usuale trascorrere del tempo. Apparvero dei profondi solchi sotto i suoi occhi verdi, la pelle ingrigì e la carne smagrì. A poco a poco il corpo della donna divenne scarno e debole, le braccia inerti lungo i fianchi della sedia. La bocca dischiusa, un rivolo di saliva defluì dalle labbra e cominciò a discendere lungo il mento. Quando quello cadde a terra, Italia spirò. Il computer si spense d’un tratto e prese fuoco in una deflagrazione inaspettata. I vetri cominciarono a volare in ogni centimetro della stanza ma non scalfirono in alcun modo il corpo d’Italia, che sembrava protetto da uno scudo invisibile. Fu in quel momento che una sottile linea di fumo, dal computer, penetrò nel corpo della scrittrice, donandole perversamente nuova vita. Pian piano, la pelle si colorì di un intenso rosa, i capelli svolazzarono nell’aria, rinvigoriti e folti e gli occhi si schiusero al buio in uno splendente verde bottiglia. Italia tornò. Italia. “Bene, è ora di lavorare.” La donna si alzò e inforcò la porta, uscendo di casa, le ali nascoste


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sotto la giacca.

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Da un tradimento

Quegli occhi erano così magnetici, le sue mani così invitanti... Si abbandonò alla lussuria sfrenata, non pensando alla morale, godendo solo della sua bocca, della sua lingua molle sulla pelle liscia... Si perdette nel suo sguardo, lasciandosi cullare nei suoi lunghi capelli corvini, addentando il suo corpo freddo e annegando nella sua forza. Sorrisero entrambi, complici, riemergendo dal crepuscolo l'una, immergendosi nella notte l'altro. ***

“Cosa ti senti? Parla, per cortesia, dimmi cos'hai...” Accarezzandole la fronte, Paolo, contemplò sua moglie con occhi di amorevole compassione. La vedeva soffrire, raggomitolarsi sul letto e stringersi lo stomaco con entrambe le mani. Erano giorni che non mangiava, giorni che non dormiva e piangeva ininterrottamente. E non parlava. Non aveva più proferito parola da quando era tornata dal parco due settimane prima, distendendosi sul divano e muovendosi di lì solo per andare in bagno o nel letto. “Dimmi cosa ti senti, amore, ti prego...” La donna si voltò, la guancia destra squamata da un infezione della pelle, con le lacrime rapprese nelle ciglia, singhiozzando di autentico dolore. Non rispose e, scostando in malo modo il marito, si posizionò con il viso rivolto verso lo schienale del divano, ignorando volutamente l'uomo in pena.


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Paolo si alzò, spossato e incollerito, passandosi una mano tra i capelli radi e, sbuffando rumorosamente, prese le chiavi di casa e uscì. Non poteva continuare così. Erano due settimane che, per stare accanto a lei, aveva abbandonato il lavoro; erano stati giorni di apatia totale, passati a tentare di instaurare un rapporto, dal risultato inesistente, con la donna della sua vita. Cosa diavolo stava accadendo in quella casa? Quale malattia aveva colpito sua moglie in maniera tale da deturparne la bellezza e inasprirne il carattere? Afferrò il portone, aprendolo con forza, e lo lasciò sbattere contro il muro del condominio, incurante del rumore assordante rimandato dell'eco. Salì in macchina, piangendo, e avviò il motore senza pensare a una meta precisa. Voleva scappare da lì e dimenticare la pena dei suoi occhi davanti allo specchio.

***

Gaia si alzò, una mano grigiastra su un fianco, ansimando, con i capelli spettinati sul volto. Si recò in bagno, piagnucolando lamenti di dolori sparsi, e si specchiò, ravviandosi i capelli indietro. Vide lo scempio, i cui sintomi aveva notato già i giorni precedenti, e le lacrime crebbero con maggior intensità negli occhi. Cosa aveva combinato? Si portò le mani al volto, gridando, e lo vide. Impallidì al bianco neon del bagno, guardando il suo ventre pulsare ritmicamente come se qualcosa o qualcuno volesse fuoriuscirne. Cadde a terra, perdendo equilibrio sulle gambe malferme, e prese a urlare con quanto fiato aveva in gola, fissando con occhi allucinati il bozzolo crescere inverosimilmente. Portò una mano sulla pancia, cercando stupidamente di contenere quel mostro nel suo corpo, e notò dei brandelli di pelle cadere dalle sue dita. Le gride le morirono in gola, quando si rese conto che lei stessa si


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stava sfaldando, mentre il bozzolo cresceva e pulsava sempre di più. Era questa la punizione per aver tradito suo marito? Meritava una fine simile? Forse, ma faceva male, faceva troppo male. Mise le mani tra i capelli, fini e castani, e li tirò via a ciocche, senza avvertire il minimo dolore nel cavarli fuori dai bulbi. Li fissò come in trance, le mani tremanti, mentre uno schizzo di sangue sprizzava dal pigiama, madido di sudore. Pianse mentre spirava, gridò mentre partorì sé stessa, morì guardandosi fissare dai suoi stessi occhi. Chiuse gli occhi, cosciente di aver dato vita a una creatura infernale, sorridente e con denti affilati e bianchi.

***

Paolo entrò in casa, sentendo il peso della colpa soppiantare i polmoni e la coscienza. Aveva abbandonato sua moglie nel momento del bisogno, nonostante le promesse scambiate sull'altare un giorno di cinque anni prima, perché troppo vigliacco per affrontare la realtà. Si recò in salotto, deciso ad aiutare con ogni mezzo la donna che amava, e che (sperava) avrebbe avuto al suo fianco fino alla morte. Il divano vuoto, tutto indicava una colluttazione e ferite da taglio; il sangue era schizzato sulle pareti, come se qualcuno si fosse divertito con una pistola ad acqua a irrorare il bianco dell'intonaco. Un nodo alla gola, e la bile che reclamava di affacciarsi, Paolo cominciò a camminare, con passo malfermo, verso il bagno. La luce accesa del neon spandeva le ombre dell'ignoto sulle mattonelle di porcellana, il sangue ben visibile dalla soglia. Paolo si arrischiò a guardare in terra, ma non trovò nulla. Preso dal panico, cominciò a correre da una stanza all'altra, invano, nella disperata ricerca di sua moglie. Prese il capo grondante di sudore tra le mani, macchiate dal sole , e cominciò a piangere, incapace di comprendere il da farsi. Aveva fallito, aveva


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abbandonato sua moglie nel momento del bisogno e ora non era in grado di stabilirne le sorti. “Cosa ti succede, caro? Perché piangi, amore?” Gli occhi annacquati, Paolo alzò di scatto il volto alla ricerca di quella voce familiare. Il nodo si riallacciò in fondo alla carotide, impedendogli di parlare, mentre le pupille si restringevano nello stupore. Gaia era lì, stupenda ed eterea, a fissarlo: completamente nuda. Senza riuscire ancora ad articolare parole, Paolo si alzò dal divano, pronto a raggiungere la dea che aveva sposato, colmo di amore. Gaia sorrise, senza però dischiudere totalmente le labbra, e sollevò le sue braccia invitando l'uomo a raggiungerla, con occhi magnetici e catalizzanti. Il sangue sulle pareti. Nulla parve allarmare i sensi dell'uomo, nulla lo destò dal raggiungere sua moglie, bella come mai prima d'allora. Caos in terra, brandelli di tessuti nel lavabo. La raggiunse e la abbracciò, affogando le sue labbra ardenti nella piega dei suoi seni, nuotando con le sue mani tra le curve del corpo, suadente e freddo, di lei. I denti, quei denti... La donna si lasciò prendere dalle braccia possenti di lui, sempre con un dolce, ma contenuto, sorriso tra le labbra, e avvertì il caldo del pavimento a contatto con la sua pelle fredda. Il pavimento è gelido, gelido, gelido. Paolo si distese sul corpo solido della donna, cominciandosi a spogliare nel contempo, pregustando il dolce oblio negli anfratti misteriosi del piacere quando...


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Artigli, le unghie sono artigli... La donna, una luce perversa nello sguardo, affondò nel suo collo, affondò nella giugulare, affondò nella schiena... Lacerò con i denti e con le unghie il corpo dell'uomo, leccando ogni goccia fuggiasca, mordendo con accanimento gli strati spessi di pelle, come fossero gelato succoso e fresco da assaporare in una giornata assolata. L'uomo, incapace di parlare, continuò per poco a muoversi su di lei, incurante del dolore sparso che gli stava arrecando. Poi, al morso mortale, bloccò i suoi movimenti e pianse. Le ultime lacrime si fermarono sulla piega del labbro inferiore; morì incosciente, totalmente ignaro e preda del terrore e della colpa. Fosse rimasto con sua moglie, forse... Gli occhi ancora aperti, vide il buio e smise di ascoltare il reale. Galleggiò nel suo sangue, dilaniato ed esangue. Un paio di denti affilati, l'ultimo ricordo.


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L'alba del terrore

La goccia di sangue compì il suo percorso, dalla cute lungo la fronte; disegnò l'incavo del suo occhio destro e discese, raccogliendosi, tremolante, nella parte superiore delle labbra rosee. Non osò dischiudere la bocca neanche per un secondo; i conati di vomito le stavano sconquassando lo stomaco e non voleva immaginare cosa le sarebbe accaduto una volta uscita allo scoperto. I capelli, lisci e neri, respiravano assieme al suo petto, incollati per metà alle tempie, per metà al legno spezzato del suo nascondiglio. Desiderò piangere, urlare, dormire e distendersi sotto le ombre filiformi degli alberi, per scorgere le stelle tra gli scorci di cielo sopra il suo capo. Immobile. Respirava quasi affannosamente, ma senza emettere suono. Nella sua mente le urla continuavano a squarciarle le orecchie, ma fuori dal suo corpo, tutto rimaneva silenzioso e statico e così sarebbe stato fino all'arrivo dell'alba. La salvezza della luce. Una lacrima sgorgò dalla fragile barriera di ciglia e si unì al rivolo di sangue, per discendere fin sotto al mento. Serrò gli occhi, imponendosi il controllo, mentre altre fuggiasche perle bianche rotolavano lungo le guance e sembravano volerle urlare: “È tutto reale, siamo qui, ci senti? Piccola idiota, morirai anche tu come Liam; te ne rendi conto o vuoi continuare a giocare al gatto e il topo?” Le parve di sentire l'eco dei loro freddi sorrisi. Un brivido le corse dietro la schiena. Portò freneticamente una mano al volto e deterse le guance bagnate, quasi a volerle scarnificare.


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Stava impazzendo. Le gocce di sangue continuavano a inzupparle i capelli, sebbene si fosse portata ancor più sotto la porta rotta, riversa a terra. L'uragano aveva devastato ogni cosa e, di casa sua, non rimaneva altro che una massa di travi di legno informe. Poi c'era Liam. Liam al centro della stanza. Liam, al centro della stanza, con la gola squarciata e PENZOLANTE a un metro da terra. Le sue ferite aperte sembravano non volersi arrestare nello sgocciolare sostanze, e la pazienza di Tracy era giunta oltre il limite della sopportazione. Sarebbe morta prima ancora di combattere contro quell'essere indefinito che le dava la caccia, ormai, da tre ore. “Tesoro... so dove sei! Non ti sei ancora stancata di giocare con me?” La voce fredda e verde le si insinuò sotto ai vestiti, accarezzò i suoi capelli fradici, le leccò la pelle e le esplose nella testa, facendola rantolare di dolore. L'essere agguantò il corpo inerme del ragazzo e lo squartò, come fosse stato un biscotto. Tracy pianse sommessamente, la segretezza del nascondiglio oramai compromessa, aveva la resistenza sbriciolata, come le ossa rotte del suo ragazzo gettato sotto i suoi occhi. Accadde in un istante e la porta, sotto cui si era riparata, fu sbalzata all'altro capo della camera. Un urlo le seccò la gola; pattinò con i piedi sulla terra, cercando la stabilità delle gambe, senza riuscire a trovare il controllo per attuare il proposito. Il ghigno sommesso dell'essere incombeva sul suo capo, mentre tentava invano di fuggire dai denti, aguzzi e avorio, tanto affilati da tagliare la carne umana come fosse burro. Le urla si confondevano con i singhiozzi, il sudore con il pianto, la paura con l'istinto di sopravvivenza. “Adesso basta giocare ragazzina, mi sono stancato. Voglio mangiare prima di dormire...” Un sorriso attraversò le sue parole, infantile e


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giocoso... terribile. Tracy voltò lo sguardo lucido verso i crateri gialli ai lati di quell'orrido scheletro, che era il vampiro, e notò l'aurea polverosa che lo circondava. Affinò lo sguardo e comprese, esultando. Gli occhi si allargarono illuminati dall'alba, appena fiorita, e la speranza cominciò a galoppare con il suo cuore, il sorriso appena accennato sulle labbra. Ma Lui non si mosse né parve scomporsi. La mente vacillò e le labbra si accartocciarono in una maschera di autentico terrore. “Non mi fa nulla bimba, il sole non mi fa nulla...” La creatura si abbassò e le lisciò i capelli corvini, annusò l'aria, le si avventò addosso. Il buio calò con improbabile lentezza, il sangue defluì dal collo, percettibile ai sensi di Tracy quasi come lo vedesse da spettatrice esterna; le lacrime, secche e silenziose , nacquero negli occhi ma non discesero, rimanendo a imperlarle le ciglia per sempre. La creatura saziò il suo bisogno affannoso, leccò i resti e sorrise, ergendosi al disopra del corpo esanime della ragazza. Il sole inondò la stanza mentre spire di tenebre avvolgevano la massa informe del vampiro, che chiuse gli occhi e si dissolse. La nube, nera fumo, scomparve, e in terra, al suo posto, rimase un bambino rannicchiato e tremante.

***

I soccorsi scovarono la casa dopo ore di ricerche e trovarono il bimbo, spaventato e sporco, tra le macerie e i detriti della devastazione NATURALE. “Mio Dio, erano i tuoi fratelli, piccolo?” Il bambino non rispose, limitandosi a fissare i resti della casa e i suoi interlocutori. “Andiamo, ti porto in un posto dove potrai riscaldarti e


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mangiare tutto ciò che desideri!” Il ragazzino fissò il vigile del fuoco, che lo aveva preso tra le braccia, e sorrise. “Nascerà un nuovo uragano...” “No, non preoccuparti, è tutto finito, basta uragani...” “Nascerà un nuovo uragano e io mangerò ancora...” L'uomo, perplesso, fissò il bambino studiandolo, poi scoppiò in una fragorosa risata. “Mangerai ogni volta che vorrai da Tiffany, basta chiedere! Anzi, sono certo che con quei tuoi occhioni, striati di giallo, e il sorriso contagioso, farai innamorare mia moglie!” Un sorriso infantile e giocoso pervase il silenzio e il bambino si adagiò sui sedili posteriori della jeep, i capelli scossi da improvvise raffiche di vento e gli occhi accesi nel bagliore del giorno sul viale del tramonto. Nascerà un nuovo uragano... E io mangerò ancora...


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La falena

Buio. Era tutto troppo buio e l’ansia prese a crescere nello stomaco, gonfiando i polmoni a più riprese. Portò istintivamente una mano davanti a sé, a tastare l’immaginario. Vuoto. Esclamò un lamento e mosse un piede in avanti, alla ricerca di un punto di riferimento inesistente. Mosse il secondo passo, incontrando alcun ostacolo oltre il terrore. Si immobilizzò sul posto e sgranò gli occhi, cercando di abituare la vista all’oscuro dei suoi pensieri. Nulla era visibile e solamente il battito del suo cuore, oramai palpabile, continuava a risuonare nell’eco dello spazio, apparentemente indefinito. Portò una mano alle labbra, tentando di contenere un singhiozzo appena nato, e avvertì il viscido di un liquido. D’istinto, sputò a terra, non riuscendo a decifrare con cosa fosse venuto a contatto, e pulì la mano sui jeans. Era nudo. Sentì il freddo della sua pelle e il contatto delle sue dita sulla coscia. Il tremore, irrefrenabile, si unì all’eco di tutti i pensieri in fuga davanti alla ragione. Aprì la bocca e urlò. Non udì nulla, solo il ronzio del silenzio nei suoi timpani. Una goccia di sudore gli imperlò la fronte e le mani, chiuse ad artiglio, si avvinghiarono alla gola priva di corde vocali. Tirò fuori la lingua fino a toccare il mento, non sentendo la saliva defluire sulla pelle. Al buio, nudo come un verme, cominciò a temere per la sua vita, non riuscendo a capacitarsi dell’incubo che stava vivendo. Portò un dito ai denti e, prima che le due parti del corpo potessero incrociarsi, un frullio di ali invase il palmo della mano. Mosche. Cominciò a soffocare, la gola invasa dagli insetti, e prese a tossire,


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cercando di espellere gli intrusi. D’un tratto, nello spasmo di vivere, avvertì un ghigno di soddisfazione accanto al suo orecchio. Lo riconobbe e strabuzzò gli occhi, incredulo davanti alla realtà agghiacciante. L’aveva conosciuta pochi giorni prima e nulla aveva avuto più senso, nulla aveva più acquisito colore dalla sua comparsa. Il prisma di colori che aveva rappresentato, per una notte sola, era valso la gioia di una vita intera.

*** Seduto al tavolino del bar Remodi, osservava il palloncino giallo volteggiare nell'aria invernale. Le idee, per il romanzo, erano un grumo di pensieri sconnessi e a nulla serviva passeggiare all'aria frizzante di dicembre. Nulla. Tirò un pugno sul piano di ferro del tavolino, facendo sobbalzare il bicchiere di succo d'arancia. Era oltremodo irritato per l'apatia che lo aveva pervaso. “Cazzo! Non si può andare avanti così... Se non riesco a incastrare due stronzate in fila, Gianna mi taglia i fondi! Perché deve essere così difficile essere originale?” Mise la testa fra le mani, i ricci neri abbarbicati fra le dita lunghe e affusolate. La disperazione stava correndo per l'autostrada delle sue vene a velocità folle. Mancavano due settimane al termine della commissione ed era riuscito a imbrattare la bellezza di trenta misere pagine. Niente, praticamente! Raddrizzò la schiena sulla sedia e tornò a fissare il cielo. Il palloncino era ancora lì, un poco più lontano, ma sempre visibile. King si era inventato IT... chissà se anche lui si era imbattuto in un palloncino giallo, o rosso, o verde... Come poteva, uno scrittore con più di venti libri all'attivo, scrivere ancora storie colme di mordente e attrattiva? Come? Avrebbe voluto scoppiare in un pianto irrefrenabile, tanta era la


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stizza di non riuscire in quello che sarebbe dovuto essere il suo lavoro. Ma si trovava in un luogo pubblico... Non poteva... E il palloncino intanto si era, via via, allontanato dalla sua visuale, come il barlume di idea che era guizzato per un momento nell'antro dei suoi pensieri. Afferrò il succo d'arancia e ne scolò i resti, ingollando il dolce e soppesando l'amaro della sua vita. Si accinse ad alzarsi dalla sedia quando, senza preavviso, una mano gli si posò sulla spalla destra. Una donna, dalla bellezza sconfinata, gli si figurò davanti, il sorriso dipinto sulle labbra rosse e piene, e si sedette al suo fianco. Bruno aggrottò la fronte, interdetto e stupito, mentre quell'incanto di dea si metteva comoda sulla sedia. “Non fare quella faccia, Bruno... Non credo di essere tutto questo scempio di persona, no?” Di nuovo quel sorriso ammaliante. “N... no, veramente io... Scusi ma lei... Chi è?” “Lei... Bruno dammi del tu, per cortesia! Allora... Cominciamo con le presentazioni, com'è d'obbligo tra le persone civili. Io sono Isabella e faccio parte di un gruppo di persone molto simili a te, per carattere e ideali. So che stai attraversando un periodo difficile...” “Come sai tutte queste cose di me?” Nonostante fosse in allarme, Bruno non riusciva, per nessun motivo, a staccare gli occhi dall'essere divino che gli stava parlando. Era semplicemente incantevole, nel suo tailleur bianco panna. Guardandola un momento di più, si chiese se non avesse freddo, coperta solo da uno spolverino, bianco anch'esso. “Perché impieghi tanto tempo nel ricercare risposte inutili, invece di indagare ciò che più ti sta' a cuore? Non vorresti essere felice? Non vorresti avere quell'ispirazione adatta a far di te uno scrittore affermato e ricco? Non vorresti essere circondato da bellissime donne, disponibili e pronte in ogni momento: solo per te? La risposta è si, ne sono certa... Perché non vieni con me? Posso indicarti la via per essere felice...” Il sorriso... quel sorriso così invitante... Bellissime donne? Bruno desiderava solo il corpo di quella silfide, solo la sua pelle tra le


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mani... Già sognava e bramava le sue forme scorrere sotto le mani affusolate, mentre lentamente si alzava e la seguiva. Cosa poteva essere la luce, in confronto a una bellezza accecante? Cosa, un buon libro e la fama, a paragone con la femminilità pura? Isabella, lei sarebbe stata la sua musa... Giunsero davanti a una villa, ma se Bruno avesse dovuto descrivere la strada per arrivarci, non avrebbe mai potuto. Aveva seguito la donna come un'automa, incapace di proferire parola... incapace di esistere al suo cospetto. Sembrava come una falena attorno alla luce di un lampione... Accecato dal brillare insistente della sua bramosia. Entrarono attraverso una porta in radica e furono inghiottiti nell'oscuro di un ingresso barocco. Quante persone popolavano il salone? Non riusciva a contarle, ma erano tante. Una miriade di formiche stipate in pochi metri quadrati. A quel punto la mente vacillò e la fantasia prese a galoppare lungo la prateria del suo desiderio. Le mani di Isabella indugiarono tra le sue gambe e il fuoco lo invase. Avrebbe fatto tutto, pur di averla. “Tutto, Bruno? Noi siamo una comunità... Dovrai condividere con noi ogni cosa... Anche il tuo cuore, anche il tuo corpo...” Non si chiese come conoscesse i suoi pensieri, pensò solo a spogliare, a baciare, a guardare le donne e gli uomini, della comunità, andargli incontro, con il suo stesso sguardo dipinto nel volto. “Tutto! Condividerò tutto!”

***

E ora, ne avrebbe pagato le conseguenze. Nel peggior modo possibile. Nessuno avrebbe saputo più nulla di lui, e tutti avrebbero continuato a cercarlo, per il resto dei loro giorni. I vermi gli ghermirono le caviglie e un ragno uscì da un orbita, schizzando via l’occhio dal suo alloggio. Il sangue prese a defluire, gorgogliante, dalla gola e dal naso, unendosi al muco violaceo dei


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due fori che non avrebbero più visto luce solare. Il dolore divenne un pallido ricordo e, senza rammentare la propria identità, Bruno si abbandonò al crepitare del fuoco appena acceso, pronto ad ardere delle sue carni.

***

“Certo che questa villa cade a pezzi! Che peccato... Ma nessuno ha mai pensato di prenderla e ristrutturarla?” Tamara si tirò i capelli dietro alle orecchie e sorrise, sotto i baffi. “Si vede proprio che sei nuova di qui... Questa è una villa stregata...” “Stregata? Ma dai, fammi il piacere!” “Non sto scherzando, Gioia! A parte gli scherzi; qui, si vocifera, sia vissuta una specie di santona. Dicono fosse bellissima, ma con una cattiveria inaudita. Mio nonno ancora ne parla, quando passa qua davanti. Si faceva chiamare Isabella, ma nessuno ha mai capito se fosse il suo nome vero o no. Quello che sanno con certezza, è che aveva creato una sorta di setta pagana... A quale dio facessero riferimento, non lo so... Però sono tutti morti, i suoi adepti.” Gioia si voltò nuovamente verso la costruzione fatiscente, avvertendo i primi brividi di disagio. “Si dice” continuò, seria Tamara” che facessero orge e sacrifici... Sai come nei film? Mi sa che qualcuno ha visto troppi film horror, da queste parti... Anche se...” “Ok, mi hai convinto. Andiamocene. Continuerai a farmi da guida in qualche altra parte della città!” “Che è, adesso hai paura? Non eri tu quella che non credeva nell'esoterismo?” “Si, ma in queste leggende metropolitane, di solito, c'è sempre qualcosa di vero...” “Mi stai dicendo che credi esista un fantasma della strega?” “No... Senti, lasciamo perdere tutta questa storia, va bene? Andiamo via.” “Perché... Se entrassimo un momento a dare un'occhiata? Non ci


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sono mai entrata da sola... Magari con te prendo coraggio!” “Non ci penso proprio! Hai deciso di fare gli esperimenti sulla mia pelle? Guarda che hai la responsabilità sulla mia vita, per questa settimana!” “Esagerata... Sulla tua vita... Sei grande, grossa e vaccinata, dopotutto...” “Appunto! Proprio perché sono in grado di intendere e volere, ancora, voglio allontanarmi da questa casa” “Villa, prego” “Va bene, villa... Ce ne andiamo?” D'un tratto un urlo, o l'eco del vento, le fece trasalire. Mille spilli, simili a un nugolo di formiche, punzecchiarono veloci sulla cute e sotto ai piedi, disperdendosi poi in tutto il corpo. Gioia osservò Tamara. Tamara osservò Gioia. “Che cos'era?” “S... sarà stato il vento...” “Ce ne andiamo, Tamara?” Gioia cercò un fare disinvolto, ma l’intento non riuscì del tutto. “Direi proprio di si!” Era stata troppo precipitosa? Si era capito il suo terrore? Girarono l'angolo, quasi correndo, ma cercando di non dar a vedere all'altra la paura latente, e abbandonarono ai ricordi l'assurdità dei racconti di paese. Assurdi ma inquietanti. Inquietanti e quasi reali.


UN AIUTO A COLPI DI PENNA &

IL CLUB DEI LETTORI Grazie! TI RINGRAZIAMO PER AVERE ACQUISTATO QUESTO LIBRO, con il quale hai contribuito ad aumentare il fondo di “UN AIUTO A COLPI DI PENNA”, che a fine anno sarà devoluto a scopo benefico a favore di ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUS terapia ricreativa per bambini con patologie gravi e croniche (www.dynamocamp.org) Vota! INOLTRE, SE VOTERAI ONLINE QUESTO LIBRO parteciperai gratuitamente al concorso IL CLUB DEI LETTORI (www.clubdeilettori.serviziculturali.org) Soddisfatto o “Sostituito” Se la lettura di questo libro non ti avrà soddisfatto, potrai sostituirlo con un altro libro che potrai scegliere dal nostro vastissimo catalogo. (informazioni su www.ilclubdeilettori.com)

Le iniziative sono promosse da: => Zerounoundici Edizioni (www.0111edizioni.com) => ASSOCIAZIONE SERVIZI CULTURALI, che promuove la letteratura italiana emergente ed esordiente (www.serviziculturali.org)



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