Giorni senza luce (horror), di Francesco Borrasso

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"GIORNI SENZA LUCE" di Francesco Borrasso

Titolo: GIORNI SENZA LUCE Autore: Francesco Borrasso Genere: Horror Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Opera Prima Pagine: 236 Prezzo: 14,50 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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FRANCESCO BORRASSO

Giorni Senza Luce

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com

GIORNI SENZA LUCE 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Francesco Borrasso ISBN 978-88-6307-173-3 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2009 da Meloprint – Il Melograno Cassina Nuova - Milano


A Mio Padre Il mio angelo Domenico, nel mio cuore nella mia mente, per sempre nell’immensità!

“Dentro quella torre brulicante, uomini, donne e bambini erano tutti ciechi. Vedevano solo attraverso gli occhi della città, erano incapaci di pensare, salvo i pensieri della città. E si consideravano immortali, nella loro impacciata, implacabile forza. Enormi e pazzi e immortali.” Clive Barker, Infernalia.

“Potrebbe, dopotutto, essere la brutta abitudine Dei talenti creativi quella di investire se stessi in estremi patologici, che consentono di raggiungere profonda conoscenza ma non vita lunga a chi non riesce a tradurre le proprie ferite psichiche in arte o pensiero significativi” Theodore Roszak, In search of the miraculous

“La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto” Howard Phillips Lovecraft



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1. LUNA DANZANTE PUNE (INDIA)

Gli scavi stavano procedendo bene, in realtà Luca sapeva che una volta ottenuti i finanziamenti necessari, tutto sarebbe filato liscio. Il sole durante la giornata aveva riscaldato la terra tanto da farla sembrare una piastra incandescente. Erano un po’ di giorni che Luca non mandava notizie a Caserta, ma sapeva di avere la massima fiducia dei suoi colleghi, nonché grandi amici. Si trovava seduto su di una sedia, aveva le gambe intorpidite a causa dell’enorme mole di fatica che il giorno gli aveva regalato. Stava scrutando il cielo, privo di nuvole, privo di cattivi presagi. Si stava perdendo in quel mare di stelle, lasciando cadere i suoi pensieri, di tanto in tanto, su ciò che avrebbe potuto portare una grande scoperta nella sua vita. Si mossero le foglie di un albero vicino, ma solo per qualche istante. Luca poté riconoscere tra gli alberi un uccello che aveva deciso di spiccare il volo. Luca Rossi era un uomo con il cognome più comune del mondo, ma con il lavoro, forse, che pochi gli avrebbero invidiato. Era un archeologo, di quelli tosti, di quelli che vanno sul campo a respirare a pieni polmoni la terra alzatasi dopo ogni colpo di pala. Era la sua grande passione fin da bambino, quando con i suoi inseparabili amici andava nel cimitero, convinto che scavando avrebbe trovato antichi reperti. Aveva 35 anni e tutto sommato se li portava male. Una notevole calvizie si faceva largo sulla sua perennemente affaticata fronte. I chili di troppo non lo affliggevano più di tanto, aveva imparato a trascurare il suo aspetto fisico, visto che quasi ogni giorno si trovava sommerso di terra, quando gli andava bene. Lavorava sempre con Raul e Samuel, i suoi inseparabili amici, sin da quando erano poco più che quindicenni. Samuel era, come tutti e tre del resto, un archeologo, molto meno “praticante” di Luca, in quanto impegnato nell’insegnamento presso l’Università di BENI CULTURALI. Raul era il più giovane dei tre con le sue 29 primavere, a cospetto delle 35 di Luca e delle 34 di Samuel. Il lavoro sporco, in poche parole, toccava sempre a lui. Era stato mandato, con una spedizione finanziata dall’Università, a Pune, un piccolo paesino dell’India. Era giunto sul posto con un gruppo di


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ricercatori, con la convinzione che in quel piccolo paese ci potessero essere reperti che potevano e dovevano essere recuperati. La mente dell’operazione era, come al solito, Samuel. Solo grazie a lui l’università aveva deciso di finanziare una così costosa operazione. Luca si era perso per qualche secondo tra il buio che lo circondava e le mille stelle che lo richiamavano, sembrava come ipnotizzato in particolare da una stella, che brillava in cielo più forte e più costantemente delle altre. Il suo stato di ipnosi fu rotto da una voce <<Luca? Luca?>> Per un attimo pensò che quella voce potesse essere il frutto di quello che gli stava capitando. Ma la voce giunse alle sue orecchie più e più volte. Luca rispose. <<Dimmi Ramirez!>> <<Luca… abbiamo trovato qualcosa… vieni!>> Il viso dell’archeologo si illuminò di luce propria. Una luce che probabilmente aveva trattenuto per troppo tempo e che adesso aveva deciso di sprigionare. Si alzò dalla sedia in modo talmente lento che sembrava quasi non riuscire a muoversi. Aveva deciso di vivere quel momento nel modo più lento che potesse. Forse sarebbe stato l’ennesimo abbaglio, l’ennesima bufala. Ma se non era così, voleva gustarselo attimo per attimo, fino in fondo, come quando sorseggi un buon bicchiere di vino e sai che la bottiglia è vuota. Luca si avvicinò agli scavi. <<Cosa c’è Ramirez?>> Il ricercatore, di origine messicana, fece un gesto con la mano, come a dire “vieni giù”. Luca fece uso di alcuni scalini che avevano costruito artigianalmente per scendere nella profonda conca che avevano scavato. Era profonda, tanto da non riuscire a vederne la fine. La sua profondità si prostrava man mano che si percorrevano gli scalini. Avevano scavato tantissimo e Luca, scherzando, aveva affermato che se avessero scavato un altro po’ si sarebbero trovati dall’altra parte del mondo. Giunse alla fine della scalinata artificiale. Ad attenderlo c’erano Ramirez e quattro ragazzi, dovevano essere dei giovincelli che si stavano facendo le ossa. Quando Luca giunse in quella conca che somigliava tantissimo ad una gola nera senza fondo, ebbe come l’impressione che fosse giunto il suo momento. L’oscurità che ricopriva le pareti celava ogni forma che viveva in quel pozzo nero. Luca si diresse verso Ramirez.


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<<Dammi una buona notizia!>> Furono le prime parole che riuscì a pronunciare. <<Abbiamo trovato una cosa… anzi più di una cosa!>> <<Roba pesante?>> <<Guarda tu stesso!>> Luca si fece spazio tra i giovani archeologi. L’unico punto illuminato di quella caverna sotterranea, era il posto dove stavano ultimando gli scavi. <<Salve, ecco quello che c’era in culo al mondo!>> Fu l’ironico commento di un ragazzo verso il suo superiore. Gli occhi di Luca cercarono di combattere il buio, si fecero aiutare dalla fioca luce che attraverso dei cavi era stata portata sin laggiù. L’archeologo si inginocchiò, incurante delle conseguenze che avrebbero sicuramente riportato i suoi pantaloni. Prese tra le mani qualcosa di incredibilmente pesante. Sembrava un masso gigante. La sua visuale fu notevolmente agevolata quando giunse Ramirez con una torcia. <<Che ne pensi?>> Disse il messicano. Luca non rispose, facendo solo un rapido cenno con il capo. La luce aveva reso vivo il reperto che si trovava tra le sue mani. Era una tavola di pietra, grossa e massiccia. Luca stava cercando di decifrare tutti i milioni di simboli che erano stati incisi, ma decise di passare questo compito ad un secondo momento. <<Cosa sono… per te?>> Disse Luca <<Non ne ho idea! Penso si tratti di antiche tavole indiane… anche se non tutte sono di questo posto!>> All’affermazione di Ramirez, Luca sembrò titubante. <<Cosa vuoi dire?>> <<Le tavole in tutto sono quattro!>> <<E quindi?>> <<Tre sono sicuramente scritte in indiano antico…>> <<Continua!>> <<L’ultima che abbiamo riesumato è scritta con incisioni Maya, con un disegno che raffigura una specie di uomo!>> Incisioni Maya? In india? <<Avete trovato qualcos’altro?>> <<Queste tavole è tutto quello che c’era in questo buco di merda!>>


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<<Ok… è gia tantissimo! Portatele su… e mi raccomando, massima attenzione!>> Luca diede tutte le direttive affinché le tavole fossero portate nella sua tenda. Lui rimase in quella gola, nelle arcane profondità dell’India, ancora per qualche minuto. Non sapeva che cosa avevano realmente scoperto, ma sicuramente non si trattava di niente di banale. Qualsiasi cosa ci fosse stato scritto su quelle pietre lui e i suoi amici ne avrebbero preso il merito. Finalmente, pensò! Aveva trascorso anni e anni alla ricerca di qualcosa che gli desse la soddisfazione di affermare ”ora posso dirlo… sono un “archeologo”. <<Luca! Sali?>> Esclamò il messicano. <<Rimango qualche altro secondo qui…>> <<Ok… attento!>> Ramirez si incamminò verso l’oscurità e dopo qualche istante, Luca ne perse l’immagine, un brivido gli percorse la schiena, il messicano sembrava improvvisamente scomparso, come se il buio lo avesse inghiottito. L’archeologo indirizzò il suo sguardo verso l’alto, alla fine di quel tunnel verticale c’era un blu profondo, cosparso di miliardi di puntini luminosi. Come diavolo era finita una tavoletta Maya in India? Era la domanda che stava percorrendo le strade distorte della sua mente. Si passò una mano sui pantaloni con l’intento di far cadere la terra che ne aveva preso possesso. Passò la mano sinistra sulla fronte, nonostante la notte portava con se il gelo, Luca stava sudando! L’emozione aveva invaso il suo corpo. Un sorriso comparve sul suo viso quando immaginò come avrebbero potuto reagire Samuel e Raul alla notizia. Forse stava correndo troppo! Ma non gli importava! Decise di divenire preda del buio e di sparire agli occhi del mondo che in quell’instante lo stava osservando come non mai! Giunse alla sua tenda con il fiato a pezzi, colpa del tabacco, pensò! Quando entrò nella sua “abitazione”, Ramirez lo attendeva. <<Finalmente… pensavo ti fossi perso!>> Luca accennò un sorriso. Scrutò fugacemente le tavole che erano state poste sul possente tavolo di ferro. Le guardò distrattamente solo per avere la certezza che non era un sogno. Si diresse in bagno, girò il pomello e aspettò con impazienza che l’acqua gelida percorresse quei vecchi tubi. Si sciacquò il viso, nel lavandino si stava posando tutta la terra che aveva albergato per l’intera giornata sul viso di Luca.


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Gettò un occhio fuori dal bagno per constatare che cosa stesse facendo Ramirez. Il messicano stava passando degli strofinacci bagnati sulle tavole con il fine di far sembrare quelle incisioni più chiare possibili. “Bravo Ramirez!” pensò l’archeologo. <<La maggior parte di questi simboli non riesco a decifrarli!>> Disse Ramirez. <<Si… già quando eravamo giù mi ero reso conto che si trattava di tradurre qualcosa di strano>> <<Che intendi?>> <<Siamo entrambi d’accordo nel definire quelle incisioni indiano antico?>> <<Si!>> <<Ma quelle frasi sono in codice!>> <<Cosa?>> <<In codice, se traduciamo simbolo per simbolo possiamo starci anche tutta la vita non ne ricaveremo nulla!>> <<Cazzo… questa non ci voleva!>> <<Dobbiamo portarle in Italia>> <<Chi potrebbe aiutarci?>> <<Vedremo, Samuel conosce tanta gente all’Università. Cosa mi dici della tavoletta Maya?>> <<Vuoi sapere com’è finita qui?>> <<Possibilmente!>> <<Non ne ho idea!>> <<Cosa raffigura?>> Ramirez scostò le tavole che si trovavano sopra e portò in primo piano la tavoletta Maya. Sulla tavoletta era raffigurato uno strano essere. Era completamente nero e chiunque sarebbe stato concorde a dire che non era un uomo. Aveva il cranio notevolmente allungato orizzontalmente, sembrava privo di occhi, aveva un corpo che in proporzione al capo era molto snello, le mani avevano solo tre dita che finivano con delle lunghe unghie. Questo strano essere sembrava stare al comando di qualcosa di meccanico. <<Che diavolo è?>> Fu il commento di Luca. <<Una divinità?>> <<E questa specie di sala comandi?>> <<Scartiamo la divinità. Cosa può essere?>> <<Uno scherzo?>>


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<<Le tavole indiane sono autentiche! Questa si trovava con loro, ma ti rendi conto a che profondità le abbiamo recuperate?>> Disse Ramirez. <<Mi sembra la sala comandi di un astronave, come se ne vedono nei film… ma non pensò che i Maya avessero la tv!>> Ramirez sorrise e si incamminò verso l’uscita. <<Ci penseremo domani! Godiamoci la scoperta.>> <<Notte!>> Rispose Luca. Se non era uno scherzo e quasi certamente non lo era, si trovavano di fronte a qualcosa di grosso. Qualcosa che avrebbe potuto cambiare la storia? No, un pensiero troppo grande… l’indomani sarebbe stato un giorno importante, uno di quelli unici, che ognuno spera di poter vivere almeno una volta, lui c’era e l’avrebbe vissuto.


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2. L’INIZIO CASERTA (ITALIA)

Il vento stava accarezzando l’asfalto macchiato da una luce giallastra. Gli alberi stavano scuotendo i rami in cerca di riparo. Era una notte piena di rabbia quella che stavano vivendo gli abitanti del casertano. Le strade erano vuote, quasi a non voler sfidare la forza che il vento gelido stava incutendo ad ogni oggetto inanimato di questa città. Alcuni cani ululavano in modo forsennato, sembravano lupi in preda ad isterici attacchi di sonnambulismo. La piccola Valery stava guardando quel grosso cagnaccio che abbaiava fuori dalla sua villetta. Ma lei si sentiva al sicuro, c’era un cancello e il suo fedele Bobby che la proteggevano da quel mostro. <<Papà?... Papy?>> <<Dimmi amore?>> Rispose Samuel. <<Quel brutto cane è ancora lì!>> <<Stai tranquilla, non può farci niente!>> Rispose Samuel dalla stanza da pranzo. <<Sicuro?>> Disse con un velo di spavento Valery. <<Sicuro piccola! Perché non lo lasci in pace e vieni da papà?>> <<Vengo!>> Urlò dolcemente Valery. Aveva 3 anni e per la sua età era quasi un prodigio. Sembrava uno di quegli angioletti che si vedono per televisione. Solo che lei aveva i capelli neri e il viso dolce, che celava un caratterino niente male. Tutto sua madre ripeteva continuamente Samuel. La madre, nonché sua moglie, si chiamava Simona. Era una donna estremamente bella e femminile. Capelli neri, occhi verdi e portava i suoi 33 anni con una disinvoltura invidiabile. Poi c’era lui, Samuel un uomo garbato e solare come ce n’erano pochi. Capelli castani, occhi neri e sguardo magnetico. Aveva scelto la facoltà di archeologia all’unisono con Raul e Luca. Poi, era diventato un professore universitario e da questo, lui e i suoi amici, ne avevano tratto notevole vantaggio, in quanto, di tanto in tanto l’università sborsava ingenti somme di denaro per finanziare delle spedizioni in paesi stranieri.


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La cena era passata serenamente, ora Simona stava ultimando la pulizia della cucina, mentre Samuel si stava rilassando davanti alla tv dopo una giornata di estenuante lavoro. <<Amore… metti tu la piccola a letto?>> Simona aveva fortemente sperato nella clemenza del marito per la consueta battaglia del sonno con Valery. <<Tranquilla, ci penso io!>> Samuel si diresse nel salotto. La loro villa era molto bella e probabilmente era lo specchio del loro benessere economico. All’esterno si presentava con un grande cancello verde, a protezione di un enorme giardino. La vernice dell’abitazione, all’esterno, era bianco panna, con il tetto che si accostava ad un grigio cenere. Possedeva il classico stile delle ville americane, peccato che si trovasse a Caserta, non lontano dal centro. Nel garage si potevano riconoscere due macchine: una RANGE ROVER nera che era la macchina di Samuel e un’ALFA 147 che era il mezzo di trasporto di Simona. Nel giardino regnava Bobby, un pastore tedesco, che i due coniugi avevano preso prima che nascesse Valery. All’interno la villa era formata da un enorme salotto, rigorosamente rosso, pieno di oggetti molto costosi, una cucina grande più del dovuto, due camere da letto, tre bagni, un ripostiglio(che per chiunque sarebbe potuto essere un’altra camera) lo studio di Samuel e la cantina, casa di vini pregiati. Una casa costosa, ma meritata, soprattutto da uno dei migliori archeologi che c’era in circolazione. Samuel si avvicinò a Valery che stava ancora ad osservare incantata fuori dalla finestra. <<Amore, è ora di andare a letto!>> <<Aspetta! Un’altro po’!>> Aveva sentenziato la piccola. <<Cosa devo aspettare?>> <<C’è quel grosso cane che continua ad abbaiare!>> <<E’ tardi, domani c’è scuola! Andiamo!>> <<Ma io ho paura!>> <<Di cosa?>> <<Del cane nero! Perchè non va a dormire?>> <<Scommetto che se ti togli di qui, non ti vede più e va a nanna anche lui!>> <<Ok!>>


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Aveva risposto dolcemente Valery. Samuel aveva rimboccato le coperte alla piccola e proprio quando pensava di averla avuta vinta… <<Papà?>> <<Dimmi tesoro>> <<Mi lasci senza la favola della buona notte?>> Samuel raccolse tutta la buona volontà che lo aveva sempre contraddistinto ed incominciò a narrare storie di draghi e principesse. Finalmente, Valery, si lasciò catturare dal sonno, lasciando la principessa ancora nelle mani del re cattivo. Samuel aveva lasciato la sua piccola Valery in un mondo puro e incantato e sapeva che almeno lì nessuno le avrebbe potuto fare del male. Si diresse in camera da letto sperando di trovare Simona e possibilmente ancora sveglia, ma le sue speranze si infransero contro il faticoso respiro della moglie, tipico di chi si trova in stato di sonno profondo. Decise di spegnere delicatamente la televisione che era rimasta accesa, probabilmente, per fare compagnia alla moglie. Alzò il pesante piumone e cercò di mettersi sotto nel modo meno scomposto possibile. <<Amore?>> Niente da fare, Simona aveva aperto gli occhi. <<Dormi amore, scusa se ti ho svegliata!>> <<Ti amo!>> <<Anche io…>> Il volto dell’archeologo sembrò rilassarsi improvvisamente. Avrebbe passato una notte più serena, la donna della sua vita le aveva appena confessato il suo infinito amore e lui aveva ricambiato con una frase che all’apparenza poteva sembrare povera ma che in realtà era gonfia d’affetto. Il vento aveva smesso solo per un attimo di far vibrare le finestre, sarebbe tornato molto presto e con una collera anche maggiore. Le nuvole, nel cielo livido, sembravano aver intrapreso un forsennato inseguimento che non avrebbe visto nessun vincitore. Mille foglie volteggiavano nell’aria assumendo di volta in volta forme di coni e cerchi volanti. Caserta, di notte, somigliava ad una città fantasma, strade che di giorno pullulavano di auto impazzite e gente chiassosa, ora sembravano lo specchio della desolazione. Il mondo dei sogni, in cui era entrato Samuel, quella notte era costellato da immagini sfocate di esseri che gli provocavano angoscia. Durante l’arco della nottata ebbe modo di aprire gli occhi almeno due volte, per rendersi conto che stava solo sognando.


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Il sonno di Simona fu molto più sereno, non capì esattamente che cosa stesse sognando, ma era qualcosa che le aveva fatto fiorire un dolce sorriso sul viso. Il sole, quella mattina, aveva fatto solo da comparsa, oscurato più volte da potenti nuvoloni neri che al minimo contatto avrebbero scatenato un inferno di pioggia. Ci fu un trillo continuo e assiduo, quando Samuel aprì gli occhi, in un primo momento, pensò potesse essere la sveglia, ma quando si era reso conto che mancava ancora mezz’ora al suo richiamo capì che il telefono stava gia suonando da un pezzo. <<Pronto!>> Rispose Samuel, che ancora doveva capire se era uscito dal sogno che stava facendo. <<Samuel! Sono Luca!>> Erano le 7.00, che diavolo voleva Luca? Samuel si fece un rapido conto e capì che lì, a Pune, dovevano essere all’incirca le 15.00. <<Luca! Finalmente ho notizie di te! Dimmi!>> <<Ci sono novità!>> <<Che tipo di novità?>> <<Samuel, io sto dormendo!>> Aveva, energicamente, sbottato Simona. <<Un attimo Luca, prendo in cucina!>> Samuel si era alzato e i piedi nudi al contatto con il gelido pavimento lo avevano messo ancora più di cattivo umore. Mentre si accingeva a raggiungere la cucina si fece una serie infinita di ipotesi su che novità ci potessero essere. Pensò a cose banali ma anche a notizie serie, pregò fortemente che la situazione potesse propendere verso quest’ultima ipotesi. <<Pronto Luca, ci sei?>> <<Sono qui!>> <<Dimmi!>> <<Abbiamo trovato qualcosa!>> <<Stupendo! Racconta!>> <<Sono delle tavole, con delle strane incisioni!>> <<La lingua?>> <<Tre in lingua indiana, sembrano codificate!>> <<Capisco!>> <<L’ultima è una tavola Maya!>>


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<<Tavola Maya?>> <<Si, sono rimasto stupito quanto te!>> <<Che diavolo ci fa una tavola Maya nel cuore dell’India?>> <<Si amico, è quello che ci siamo chiesti anche io e Ramirez!>> <<Hai decifrato il codice?>> <<Non ne vengo a capo e poi dovresti vedere il disegno raffigurato sulla tavoletta Maya!>> <<Di che si tratta?>> <<Preferisco farti vedere tutto di persona! Qui non c’è più nulla, stiamo per tornare, in tarda serata o al massimo domani sarò da te!>> <<Ok amico, hai avvertito Raul?>> <<No, parlaci tu!>> <<Sei grande Luca, grande…>> <<A presto Samuel!>> La conversazione si era interrotta. La linea era morta improvvisamente così come improvviso era stato il suo trillo nel bel mezzo della mattinata. Samuel era rimasto impassibile, seduto vicino al tavolo della cucina, con una tazza di caffé sorretta dalla sua tremolante mano destra. Finalmente, dopo anni e anni di spedizioni, di rimproveri, di buchi nell’acqua, sembrava essere giunto il loro momento. Il momento dei tre ragazzi che andavano a scavare nel cimitero, in cerca di misteriosi reperti. Una tavola Maya in india? “Vedremo!” pensò. Nel frattempo la sveglia “reale” era suonata e in cucina era sopraggiunta un’ assonnatissima Simona. <<More? Tutto ok?>> <<Ci sono novità!>> <<Davvero? Dai racconta!>> Samuel prese qualche secondo prima di raccontare gli avvenimenti che gli erano stati narrati da Luca. <<Vedrai che questa è davvero la volta buona!>> Disse Simona, con l’intento di iniettare una massiccia dose di incoraggiamento nei pensieri del marito. <<Lo spero proprio!>> Fu l’unico commento di Samuel. La moglie era scesa qualche secondo prima per accompagnare la piccola Valery a scuola, ma Samuel era sicuro che sarebbe rimasta ugualmente imbottigliata nel traffico di via Roma.


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Era una strada percorribile agevolmente solo nelle tarde ore notturne. Era la tipica strada che l’impaziente non può e soprattutto non deve intraprendere. Samuel si era vestito in modo estremamente elegante, d’altronde era una sua prerogativa. Giacca nera, jeans e camicia rosa. Era un tipo alla moda, se lo si voleva inquadrare in un preciso contesto. Prima di scendere aveva chiamato Raul, portandolo alla realtà dopo un traumatico risveglio. Era andato all’Università con la consapevolezza che tra qualche giorno i più scettici e i più critici, forse, lo avrebbero guardato diversamente, senza quel velo di pessimismo che accompagnava ogni spedizione organizzata da lui. Avrebbe passato tutta la mattina a bere caffé e ad aspettare che il suo cellulare squillasse. Avrebbe fatto lezione, parlato e dialogato, ma solo apparentemente, dentro, nella parte più nascosta della sua mente pensava e ripensava alle parole di Luca e immaginava quanto sarebbe potuto essere liberatorio il suono del suo telefonino quando l’amico l’avrebbe chiamato. Forse era giusto pensarci o forse no, ma lui voleva farlo, perchè anche se fosse stata solo un’illusione, beh… l’avrebbe voluta vivere intensamente, fino in fondo.


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3. PORTATORE DI SOGNI PUNE (INDIA)

Il freddo che aveva assalito le ore notturne, ora aveva lasciato spazio ad un afa che rendeva faticoso qualsiasi movimento. I reperti erano stati custoditi come l’antico tesoro di un vecchio re. Erano stati ripuliti per bene, affinché lo strato di terra e di “vecchio” che li ricopriva potesse sparire e farli ringiovanire. Luca era rimasto sveglio per gran parte delle ore notturne, per poi crollare quando il sole già aveva iniziato a scaldare il globo terrestre. Le 16.00 battevano in cielo con tutto il loro soffocante calore. Ramirez stava dirigendo i ragazzi, i camion per la partenza verso l’aeroporto erano quasi pieni. Sarebbero partiti verso le 18.00, con la speranza di arrivare in Italia verso le 13.00. Luca aveva aperto gli occhi a causa del continuo frastuono che si poteva percepire intorno alla sua tenda. Ogni cosa, in quel piccolo puntino di terra, era in fermentazione. I motori rombanti rendevano l’aria ancora più irrespirabile. Quando Luca mise piedi fuori dalla tenda incrociò gli occhi del messicano. <<Dormito bene?>> <<Dormito poco… più che altro!>> Ramirez accennò un leggero sorriso. I camion in movimento verso l’aeroporto stavano alzando delle dense nubi di polvere. Il cielo, questo pomeriggio, non mostrava alcun segno di tristezza. Il solo brillava con tutta la sua potenza e sembrava talmente in forma che nessuna nuvola lo avrebbe potuto impensierire. <<Sono impaziente di giungere a casa!>> Commentò Luca. <<Piacerebbe anche a me tornare di tanto in tanto in Messico!>> Affermò Ramirez. <<Ma dai… ormai sei un casertano di adozione!>> Ramirez viveva a Caserta da circa 5 anni! Aveva frequentato la facoltà di archeologia a Santa Maria Capua Vetere, un paese in provincia di Caserta. E lì aveva stretto una forte amicizia con Luca e i suoi compagni. Erano praticamente inseparabili, quando si trattava di scoprire, studiare, approfondire, loro erano sempre in prima linea e probabilmente erano i migliori. Proprio loro quattro, qualche mese prima, avevano ricevuto un premio dalla comunità europea come miglior gruppo archeologico europeo. Spesso erano costret-


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ti a dividersi, uno qua uno là, ma sempre per esigenze lavorative. Ora si sarebbero recati in Italia, avrebbero portato le tavole a Samuel e le avrebbero studiate da cima a fondo, a costo di passare notti insonni e giorni infernali. Era la loro più grande passione e niente li faceva sentire vivi come quello che facevano. La luce stava accarezzando i volti stremati dei “pivelli” che si stavano massacrando sotto gli ordini del severo Ramirez. Pune era un piccolo pezzo di terra, piccolo ma ricco di vegetazione. Sembrava quasi finto per quanto fosse incontaminato. Quando avevano incominciato gli scavi, i pochi abitanti del posto, li guardavano con sguardo incuriosito e stupefatto. Non erano indigeni, ma non erano nemmeno persone socialmente sviluppate. <<Luca? Che facciamo con la buca?>> Chiese Ramirez. <<La copriamo?>> L’archeologo rispose con un’altra domanda. Ramirez, che si trovava distante da Luca, gli si avvicinò. <<Potrebbe tornarci utile!>> Disse il messicano. <<Potremmo coprirla con un tendone di metallo e mettere un cartello di pericolo!>> <<Si può fare?>> <<Non credo che qualcuno di questi abitanti possa protestare!>> <<Lo faremo!>> Ramirez lasciò la sua postazione di fianco a Luca e corse urlando come un forsennato verso i giovani archeologi, intimandoli di recuperare un tendone e di ricoprire la buca. Questi poveri ragazzi sembravano più dei muli che degli archeologi, ma in fondo, ogni buon archeologo che si rispetti era passato sotto un estenuante gavetta. La buca, dopo alcuni minuti, fu ricoperta del tutto. Sul viso di Luca affiorò un leggero segno di soddisfazione. Avevano scavato quasi per un mese, sarebbe stato un peccato ricoprire tutto. L’ultima tenda che sarebbe stata smontata era la sua. Le tavole erano state poste in alcune borse imbottite, che venivano usate per trasportare reperti estremamente fragili, anche se quelle tavole di fragile non possedevano gran ché. I mezzi pesanti si stavano dirigendo verso l’aeroporto, il campo che fino a qualche secondo prima pullulava di vita ora sembrava una tavola vuota, come se qualcuno avesse cancellato tutto quello che c’era sopra, o quasi. Gli occhi di Luca erano fissi sull’orizzonte, definirlo spettacolare poteva essere come sminuirlo. <<Ci siamo Luca, finalmente torniamo da eroi!>> Commentò Ramirez.


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<<Eroi? Che parolone… torniamo con qualcosa e già questo suona come una novità!>> Quello scambio di battute aveva trovato il suo finale in una chiassosa risata che aveva contagiato anche i giovani e stremati muli. I passeggeri dei veicoli sobbalzavano di tanto in tanto a causa della strada dissestata. <<Non ti vedevo così vivo da tanto!>> Disse Ramirez rivolgendosi a Luca. <<Amico, abbiamo trovato qualcosa di importante dopo anni e anni di fatiche inutili!>> <<Già, cerco di mascherare la mia emozione, ma penso che non ci sto riuscendo tanto bene!>> <<Potrebbe davvero essere la svolta, potremmo davvero essere ricordati per quelli che hanno scoperto qualcosa di importante!>> <<Da film!>> <<Hai detto bene, da film!>> <<Ti sei fatto un’idea della codificazione delle tavole?>> Luca, prima di rispondere, bevve un piccolo sorso d’acqua, quasi a voler guadagnare tempo contro una domanda alla quale non avrebbe saputo rispondere. <<Niente amico, buio totale!>> <<Per quanto riguarda quel disegno Maya, io ho pensato a due o tre cose!>> <<Dimmi!>> <<Qualcuno, circa 3500 anni fa ha portato quella tavola Maya dal Messico all’India…>> <<Continua!>> <<Un viaggio, che affrontato a piedi o anche su elefanti, si può definire a dir poco massacrante, anzi impossibile!>> <<Impossibile, credo sia la parola più adatta!>> Ramirez sembrava indeciso sul da dirsi, ma poi riprese. <<Ci troviamo di fronte a qualcosa che forse non conosciamo, qualcosa che mai nessuno ha saputo scoprire!>> <<Cosa intendi?>> <<Tutto o niente, non lo so amico, ogni volta che penso di aver capito qualcosa, tempo due secondi e ripiombo nel nulla.>> Luca fece un cenno di assenso con la testa. Per lui era la stessissima cosa. Decisero che il loro dialogo aveva tutte le carte in regola per terminare in quel momento. Nessuno dei due aveva più voglia di parlare. L’unica cosa che riuscivano a fare era pensare, pensare!


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Il sole calante si rifletteva contro la pelle nera di Ramirez creando un gioco di luci di inebriante bellezza. Quei veicoli che li stavano trasportando, agli occhi di Luca, assunsero le forme di enormi elefanti in marcia verso ignote mete. Un pensiero infranse l’ipnosi di cui era caduto vittima guardando il tramonto. Avrebbe desiderato con tutto se stesso di poter tornare nel passato. Avrebbe voluto vedere con occhio passivo cosa era realmente accaduto 3500 anni prima in quel piccolo pezzo di pianeta. Era la cosa più impossibile del mondo e proprio per questo la più desiderata. Erano quasi giunti alla fine di Pune. Sarebbero dovuti uscire dal quel piccolo paesino per raggiungere l’aeroporto. Luca si girò, per osservare l’orizzonte che si amalgamava con la terra che, forse, avrebbe stravolto la sua vita. Si sentì assalito da un soffio di malinconica tristezza. Era il momento che tante volte aveva sognato, lasciare un posto dopo averne scoperto i frutti più arcani. Ma si sentiva triste, provò a capirci qualcosa, ma tutto quello che riuscì a fare fu perdersi nell’affascinante gioco di luci e ombre che il mondo stava facendo con la vegetazione di quel posto. <<Italiano… sembra che tu abbia avuto la più tremenda delle delusioni!>> <<Scusa Ramirez, non so, questo posto mi sta incupendo!>> <<Hai ragione, quando il sole sta lì, giusto per morire, questo paesaggio diventa uno spettacolo per pochi fortunati!>> <<Ma mette tristezza!>> <<Si… forse un po’si!>> <<Quanto manca!>> <<Ci siamo quasi!>> <<Ho fame di scoperte!>> <<Abbiamo tra le mani qualcosa, ma non sappiamo cos’è! Cosa c’è di più frustrante per un archeologo?>> <<Forse niente…>> <<Mi rispondo da solo, sicuramente nulla!>> <<Mi sa che giungeremo a Caserta in tarda serata!>> <<Luca! Devi rilassati! La scoperta è nostra! Questione di ore e poi sotto con tutto quello che si dovrà fare!>> <<Hai ragione, non so che cosa mi stia succedendo. Quando aspetti un momento così tanto ti chiedi sempre come potresti reagire. Beh, ora lo so!>> La conversazione cadde, abbattuta dal fastidioso ticchettare dell’orologio del messicano. Durante il tragitto si ripeterono più e più volte gli stessi gesti, segno di un’impazienza che si stava impadronendo dei veicoli e dei suoi passeggeri. Storia o non storia, gloria o non gloria, era un qualcosa di nuovo e di incredibilmente enigmatico. Qualcosa che forse li avrebbe spinti verso


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ignote conoscenze! Verso un mondo che mai come questa volta poteva essere scoperto in tutta la sua interezza, in tutto il mistero del suo recondito passato. Luca vagava verso l’aeroporto solo in modo fisico, la sua mente si trovava in tutt’altri posti con tutt’altre persone. Uno dei ragazzi, con l’aria sveglia, i capelli a spazzola neri e due occhi furbi, fece una domanda a Luca. <<E’ la prima scoperta importante per voi?>> Avrebbe voluto mentire, avrebbe potuto mentire, ma che senso avrebbe avuto? A ognuno i proprio meriti, giusto? <<Si, diciamo di si!>> <<In quanti anni?>> Controbatté il ragazzo. Ancora quella voglia matta di mentire, ma questo non era un interrogatorio, né tanto meno un esame, era solo la curiosità di un giovane archeologo. <<Sei, sette… più o meno!>> <<E’ un lavoro che da poche soddisfazioni!>> Intervenne un altro ragazzo, quello che sembrava il più giovane di tutti, che si presentava con un cappellino che ombreggiava su migliaia di lentiggini. <<Ascoltatemi ragazzi…>> Disse Luca. <<Tante, troppe volte, vi capiterà di scoprire cose che vi potranno sembrare importanti, salvo poi rivelarsi un grosso abbaglio…>> I ragazzi pendevano dalle labbra affaticate di Luca. <<Mille volte vi troverete ad affrontare cocenti delusioni che vi potrebbero segnare nel profondo del vostro animo…>> Il silenzio che regnava a salvaguardia del monologo di Luca era interrotto sola dal rumore delle ruote, quando inavvertitamente finivano in qualche fosso. <<Ma quando vi capiterà la volta buona, beh… ne sarete certi! Questo è un lavoro in cui devi ostentare pazienza ad ogni passo, non devi mai mollare, potreste lavorare un intera vita senza scoprire nulla che sia importante, ma se amate questo lavoro, se è la vostra vita… credeteci, contro tutto e tutti, perché non c’è niente che si può mettere alla pari con una scoperta che mai avresti pensato di poter fare!>> <<Lei parla così solo perché ha trovato quelle tavole!>> Disse il ragazzo pieno di lentiggini. <<Allora mi dici che cavolo ci facevo da un mese in quel dannato campo? E mi spieghi come mai, dopo sei anni di tonfi e sfottò, non ho mai mollato? Mio caro ragazzo se pensi questo ti consiglio vivamente di trovare un lavoro che ti possa gratificare!>>


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Il monologo di Luca si era acceso sempre più fino a culminare in grida di collera verso chi stava buttando fango sulla cosa a cui lui, fino ad allora, aveva dedicato la vita. Il silenzio che ci fu, dopo lo sfogo dell’archeologo, sembrava quasi irreale e si andava ad accostare perfettamente con l’irrealtà che suscitava quel paese così tanto lontano dall’Italia. Quando giunsero all’aeroporto, gli aerei che li avrebbero condotti in patria erano perfettamente pronti. La notte era calata e Luca era ormai certo che sarebbe giunto in Italia e l’avrebbe trovata con il consueto costume notturno. La luna stava specchiando il suo pallore sulla vernice consumata dell’aereo. Il cielo era talmente pieno di stelle che dava l’impressione di poter crollare da un momento all’altro a causa dell’eccessivo peso dei suoi puntini luminosi. Era un cielo che forse Luca e Ramirez non avrebbero mai più visto, un cielo che li stava osservando da veri archeologi, di quelli che tornano a casa con squilli di trombe e tesoro nel sacco. Prima di salire sul velivolo, i peli sul corpo dell’archeologo si drizzarono improvvisamente, un brivido gli aveva dolcemente attraversato la pelle. Lo prese come un segno, un presagio che forse lì, un giorno, ci sarebbe tornato. Magari con una gran fama e tanti di quei soldi da poter comprare Pune e i suoi pochi e derelitti abitanti.


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4. L’ATTESA CASERTA (ITALIA)

Il pranzo era scivolato via tra un tramezzino e un sorso di coca-cola. Samuel si trovava nel suo ufficio all’Università e tra un occhiata al telefono e un’altra al cielo stava attendendo l’arrivo di Raul. Aveva fatto ricorso alla sua scorta di sigarette d’emergenza. Aveva smesso di fumare ormai da due anni, ma di tanto in tanto, quando il caso, la tensione e lo stress lo richiedevano si lasciava andare e si accendeva, con non poca soddisfazione, una Merit. Il fumo che fuoriusciva dalle sue narici aveva preso possesso della stanza, andandosi armoniosamente a posare sui suoi vestiti, Simona se ne sarebbe accorta ma probabilmente avrebbe capito, il momento lo richiedeva. Si accorse quasi distrattamente che il vetro dell’ufficio era bagnato, la pioggia era incominciata a cadere copiosamente dal cielo. Samuel si era in qualche modo voluto anticipare. Stava adoperando il computer e con esattezza si era immerso in una ricerca su internet. Aveva digitato nel motore di ricerca le parole “INDIA” e “MAYA” con l’intento di trovare qualcosa che potesse giustificare il ritrovamento di un reperto Maya in India. Google aveva trovato tantissimi siti inerenti all’una o all’altra parola, ma nulla che potesse avvicinarsi a quello che stava cercando. La sua mano destra era estremamente impegnata con il mouse a scorrere le molteplici pagine che si erano rivelate dinanzi ai suoi occhi. Samuel si trovava a Santa Maria Capua Vetere, in quanto l’Università di Archeologia si trovava in quella città. Si era laureato in quel paese e dopo il dialogo finale con il suo professore Roberto aveva ricevuto l’offerta di rimanere lì come professore, offerta che naturalmente Samuel prese al volo. L’archeologo notò che il suo tavolo aveva uno strato piuttosto sostanzioso di polvere, avrebbe reclamato con l’impresa di pulizia. Stava pensando che forse avrebbe avuto bisogno, in seguito e solo se si fosse trattato realmente di qualcosa di importante, dell’aiuto di Roberto, il suo maestro, il suo professore nonché grande amico. Mentre stava vagando nelle più improbabili ipotesi sentì un rumore, come se qualcuno stesse bussando alla sua porta. <<Avanti!>> Entrò Raul, barba incolta, occhi azzurri, il latin lover del gruppo, da sempre. Si era laureato qualche anno dopo Samuel e con Luca erano quelli che più


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di tutti intraprendevano viaggi fuori dall’Italia. A volte toccava all’uno e a volte all’altro, spesso chi dovesse partire lo decideva Samuel. <<Allora! Lo facciamo il botto?>> Esordì Raul. <<Calma amico, fin quando non ho il materiale sotto gli occhi sono scettico!>> <<Il tuo solito, palloso, stancante pessimismo!>> <<Quante volte ci siamo esaltati per poi rimanere come dei coglioni?>> Fu la domanda, un po’ seccata, di Samuel. <<Hai ragione, scusa!>> <<Niente scusa, solo che mi sembra davvero la volta buona e non voglio rimanerci male solo perché abbiamo cantato ai quattro venti la nostra bravura.>> Raul abbassò il capo. <<Posso sedermi?>> <<E’ una domanda da fare?>> <<Non sapevo che dire, ti ho fatto arrabbiare!>> Samuel si lasciò andare ad un rilassante sorriso, probabilmente per allentare leggermente la tensione. <<Dimmi, cos’à in mano Luca?>> Disse Raul stufo del mistero. Samuel fece un piccolo e intenso respiro con la consapevolezza che avrebbe dovuto attentamente misurare le parole. <<La buca che stavano scavando a Pune ha raggiunto una profondità incredibile…>> <<Samuel? Non tergiversare, cosa ha scoperto?>> <<Delle tavole, tre incise in indiano antico, una… beh, una è Maya, con uno strano disegno e alcune scritte!>> <<Maya? Com’è…>> <<Possibile? Non lo so, stavo appunto cercando su internet, ma niente!>> Raul passò la mano sulla sua barba, quasi a voler constatare quanto lunga fosse e se era giunto il momento di darle una scorciatina. <<Ha incominciato a tradurre le tavole?>> Chiese Raul. <<E’ questo il punto, sono incisioni criptate!>> <<Vuoi dire che sono in codice?>> <<Esatto, pazzesco ma vero!>> Raul si incantò ad osservare la scultura che si trovava fuori dalla finestra. Era stata messa nel bel mezzo di una rotonda, che si trovava sulla sinistra


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della facoltà. Quella struttura non era stata sempre un università, parecchi anni prima era un carcere, l’unico in zona. E solo quando tutti i detenuti furono trasferiti in una nuova struttura fu deciso di offrire al paese la possibilità di avere un’università. <<Ci sei?>> Chiese Samuel. <<Scusami, stavo cercando qualche risposta!>> <<E’ inutile farci scoppiare la testa. Luca dovrebbe arrivare in tarda serata, appena sarà qui ci riuniamo e vediamo di capirne qualcosa!>> <<Il tempo non passerà mai!>> Commentò Raul. <<Concordo amico, concordo in pieno!>> Raul aveva abbandonato l’ufficio dell’amico e si stava dirigendo al bar che si trovava dall’altro lato della strada. Aveva messo un giornale sulla testa per evitare di bagnarsi, visto che il cielo non dava cenni di cedimento. Gli alberi spogli e bagnati davano l’impressione di essere terribilmente tristi. Se fossero stati musica sarebbero stati delle note intrise d’angoscia. Quando mise piede nel bar i suoi occhi si posarono all’unisono su Lisa, il suo grande amore. Era stato lasciato qualche mese prima, a causa delle sue difficoltà economiche che per lei rappresentavano un futuro senza sicurezze. Lisa era senza alcun dubbio una bella ragazza, capelli marroni tendenti al biondo, occhi verdi un viso minuto e dolce e un nasino all’insù tanto francese. Lei si trovava seduta su un divanetto rosso e stava parlando con un’altra ragazza che doveva essere qualche sua amica. Raul cercò di non farsi vincere dalla voglia di andare da lei, non voleva fare la figura del cretino, di quello che sta male. Fermò il suo moto al bancone. <<Un caffé, per piacere!>> Dopo alcuni istanti fu servito, ma il ragazzo del bar dovette dargli un piccolo colpetto per fargli capire che la miscela era pronta, si era incantato, i suoi occhi erano stati rubati da Lisa. Raul bevve il caffé, incurante del fatto che scottava, tutto d’un fiato. La sua pelle assunse una tonalità rossa, la bevanda era bollente. Non resistette, non poté. Si avvicinò alla postazione che stava occupando la ragazza. <<Ciao!>> Disse Raul, timidamente, quasi senza farsi sentire. Lisa si girò e quando incrociò gli occhi di Raul fece assumere una stana espressione alla sua faccia. <<Raul!>> Fu la prima parola che usci dalla bocca della ragazza.


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<<Ciao Lisa, Come va?>> <<Che ci fai qui?>> Disse Lisa. <<Che ci faccio… ero andato all’università da Samuel e avevo pensato di prendere qualcosa al bar!>> <<Raul… non voglio che mi segui!>> Mentre Lisa stava parlando, l’amica si era alzata con la scusa di andare in bagno e aveva ceduto il suo posto a Raul. <<Ma cosa diavolo hai in quella testa? Io ti seguo?>> <<Neanche per sbaglio sei entrato qui e coincidenza, c’ero anche io!>> Raul sembrava notevolmente spazientito. <<Sentimi bella, non ho certo bisogno di mettermi a seguire te!>> <<Va bene, lasciamo perdere! Come va?>> Lisa aveva dato l’impressione che quel dialogo la stesse infastidendo, stava cercando il modo per tagliare corto. Raul inizialmente cercò di rimanere impassibile di fronte alla delusione che stava provando. <<Come va? Mi manchi… io e te avremmo potuto avere un futuro!>> Lisa alzò gli occhi, vide la sua amica che si trovava sulla porta e la stava aspettando. <<Ma mi stai ascoltando?>> Sbottò Raul. <<Che cazzo vuoi? Me lo dici? Avremmo avuto un futuro pieno di sofferenza e disagi… non c’era futuro tra noi!>> <<Perchè? Voglio che mi dici perché?>> <<Ancora?>> <<Si ancora!>> Lisa si alzò decisa a raggiungere l’amica. <<Sei un sognatore e un bambino, trovati un lavoro valido che ti porti in tasca i soldi a fine mese… smettila di sognare!>> Lisa andò via, come se un pezzo della sua vita non si trovasse al tavolo con lei. Era giunto il momento, Raul aveva deciso di dare un netto taglio al suo passato e quello che aveva toccato poco prima era il punto più basso della sua vita. Cercò di trattenere il più possibile le lacrime, ma la più testarda riuscì a solcargli il viso. Lui l’aveva amata e ancora l’amava, ma lei non lo meritava. Era un bambino? Un sognatore? Almeno avrebbe avuto qualcosa in cui rifugiarsi quando tutto andava a rotoli. Rimase qualche altro secondo al tavolo, tanto era il dolore da avere quasi rimosso dalla sua mente che qualcosa si stava muovendo, finalmente! <<Prego signore, vuole qualcosa?>>


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Disse un cameriere che si era trovato a passare di lì. <<No grazie, sto andando via!>> Disse Raul, con una voce che aveva rotto la patina di sofferenza che avvolgeva la sua anima. Poteva sentire ogni singola goccia di dolore scendere dal suo cuore e depositarsi nella sua pagina di ricordi… oramai, lei, era questo, l’ennesima foto in un mare di volti sorridenti. Quando si trovò fuori dal bar notò, quasi distrattamente un piccolo cane, completamente bagnato, che si trovava poco distante da lui. <<Piccolo, tutto ok?>> Il cane scodinzolò, per poi correre via, probabilmente alla ricerca di una nuova avventura. Raul si rivide, per un attimo, in quel cane, lui, in quel momento, era bagnato e sofferente, ma una nuova avventura lo avrebbe aspettato dietro l’angolo di ogni posto di questo vecchio pazzo mondo. Quell’accostamento lo rincuorò a mala pena, ma abbastanza da fargli tornare un piccolo sorriso, che spuntò sotto la barba decisamente da tagliare. Si era incamminato verso casa sua che non distava molto dalla facoltà, del gruppo lui era l’unico che non abitava a Caserta. La sua casa si trovava a Santa Maria Capua Vetere, nei pressi dello stadio di calcio e con esattezza a via Giovanni Palo I. Aveva acceso una sigarette, l’ennesima sigaretta. Fumava Raul, fumava tanto, troppo! Ma affermava che le sigarette gli facevano compagnia. Il fumo che fuoriusciva dai suoi polmoni ogni qual volta boccheggiava una sigaretta lo faceva sentire più vivo. Mentre stava percorrendo la strada che fiancheggiava la villa comunale vide che il sole, con le sue braccia forzute, si era fatto spazio in quell’opprimente massa di nuvole amalgamate, lo prese come l’ennesimo segno, poteva e voleva aggrapparsi alle piccole cose e nessuno glielo avrebbe impedito, lui era un sognatore. Il suo telefonino emise un breve trillo, un messaggio. <<Lasciami in pace Raul! Tra noi è finita… ti ho amato, ma ho bisogno di qualcuno che possa darmi sicurezze! Addio… non cercarmi mai più, ti prego fallo per te… cancellami!>> Il primo impulso fu quello di rispondere, magari con un numero di parolacce da guinness dei primati, ma non lo fece. La cancellò, aprì il file con il suo nome e lo cestinò, con dolore, con un pizzico di disprezzo, ma con la certezza che era quella l’unica cosa giusta da fare. Sarebbe andato a casa, avrebbe mangiato, guardato un film, bevuto una birra e aspettato impazientemente che il telefono squillasse e questa volta non per Lisa. Samuel era rincasato presto e aveva trovato la moglie alle prese con la preparazione del pranzo. <<Gia a casa?>>


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Aveva esclamato Simona. <<All’Università non avevo corsi e poi non ne potevo più. Preferisco stare qui e aspettare!>> <<Lo sai che così puoi impazzire?>> Aveva scherzato la moglie. <<Amore, potrebbe essere la telefonata che aspetto da una vita!>> <<Lo spero proprio per te!>> Il loro discorso fu interrotto da un intenso bacio che i due coniugi si scambiarono. <<Papà, lascia stare la mamma!>> Li aveva interrotti Valery. <<E tu da dove salti fuori?>> Rispose Samuel. <<Stavo giocando di là!>> L’archeologo prese la piccola in braccio. Questo era uno di quei momenti in cui riusciva a percepire quanto realmente era fortunato. Una moglie stupenda, un angioletto come figlia, tutto perfetto in un mondo tremendamente imperfetto. Dopo aver mangiato, Samuel si era rintanato nel suo immenso studio. Era una stanza enorme che probabilmente non avrebbe sfigurato nemmeno se fosse stato adibito a salotto. Tutte le pareti della stanza erano bianche. C’era tanto spazio per permettere a Samuel di portare lì i reperti. Poi, naturalmente, c’erano tanti macchinari e composti chimici che servivano per “ringiovanire” quello che ritrovavano. Su di una parete c’era un immensa libreria, composta da libri di storia e vocabolari di ogni tipo. Non c’era dubbio, quella stanza pullulava di cultura. Quando Samuel si rinchiudeva lì a nessuno era permesso di disturbarlo, tranne alla piccola Valery naturalmente. Mentre l’archeologo aveva intrapreso un pericoloso e lungo viaggio nei meandri della sua memoria, un terreno rumore lo riportò al suo studio, il telefono. <<Pronto?>> <<Samuel! Sono Raul!>> <<Dimmi bello!>> <<Posso raggiungerti a casa? Non ce la faccio a fremere da solo!>> <<Sicuro, vieni ti aspetto!>> La conversazione cadde. Sarebbe sopraggiunto Raul. Meglio, il loro dialogare li avrebbe distratti dall’immagine fissa di un telefono che prima o poi avrebbe dovuto squillare.


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5. L’ARRIVO CASERTA (ITALIA)

Le lancette dell’orologio, che si trovava comodamente adagiato sulla parete di fronte alla libreria, stavano abbattendo i secondi con un ritmo incessante, ma per i due osservatori era estremamente lento. Erano le lancette più dispettose del mondo, più i due le osservavano, più loro facevano di tutto per rallentare il loro moto. C’era un’aria che fermentava spasmodicamente nell’ufficio di Samuel. <<Ricordi quando da bambini trovammo quelle ossa nel cimitero?>> Disse Raul cercando di trasportare la loro attenzione in un momento lontano anni luce da quello che stavano vivendo. <<Come potrei dimenticarlo! Luca incominciò a correre all’impazzata!>> <<Già, pensavamo di aver scoperto chissà cosa!>> <<Erano le ossa di un cane! Giusto?>> Chiese Raul. <<Si le ossa di un cane, solo le ossa di un cane!>> <<Quanti abbagli abbiamo preso da allora!>> Disse un po’ a malincuore Raul. <<Tanti, forse troppi!>> <<Ci rifaremo amico, vedrai ci rifaremo! Faremo ricredere anche le persone che ci hanno dato dei falliti!>> <<Ti riferisci a Lisa?>> Chiese docilmente Samuel. <<Si, oggi l’ho incontrata… è finita bello… finita!>> <<Quella donna non ha mai capito la nostra passione!>> <<Quella donna non ha mai capito me… ma in fondo è un bene… voleva delle sicurezze? Non le basta l’amore? Puttana!>> Il viso di Raul assunse i colori della tristezza. <<Dai…>> Lo esortò Samuel. <<Lì fuori ce ne sono di molto meglio!>> <<Pienamente ragione… ti do pienamente ragione!>> La loro conversazione si infranse contro lo squillo di un telefono che mai avevano voluto udire con così tanta impazienza. <<Pronto?>>


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Rispose quasi timorosamente Samuel. <<Samuel? Sono Luca>> <<Dimmi tutto!>> <<Sono appena atterrato a Napoli! Dammi un’ora e sono da te!>> <<Ti aspettiamo, c’è anche Raul.>> <<Salutamelo!>> Luca stava arrivando, il momento tanto atteso si stava prostrando. Quell’orologio bastardo l’avrebbe avuto vinta su di loro ancora per poco. Stava scandendo il ritmo delle 3.00. La notte avvolgeva, con tutta la sua desolante bellezza, la villa di Samuel. Con l’aiuto di bevande altamente eccitanti i due archeologi stavano attendendo l’arrivo del loro, primo vero, forse importante, ritrovamento. <<Sta accadendo Samuel?>> <<Manca poco e vedremo cosa ci propone Luca!>> Furono quelle le uniche battute che scandirono il tempo che li divideva dall’arrivo delle reliquie. Era notte inoltrata, all’incirca le 4.26 quando Luca e Ramirez varcarono la porta dello studio di Samuel. I due che stavano attendendo si fiondarono verso i due che erano arrivati. <<Alla fine sei arrivato? Pensavo che il volo fosse caduto!>> Disse Raul con tono scherzoso. Luca non rispose, era indaffarato a sorreggere, con l’aiuto del messicano, degli enormi blocchi di pietra. <<Poggiali qui!>> Disse Samuel. Poggiarono le tavole su un rilievo di cemento che era stato fatto apposta per fare da letto alle reliquie. <<Ecco qualcosa di caldo!>> Disse Raul dando a Luca e Ramirez una bevanda bollente. <<Queste sono le tavole!>> Disse Luca, spostando i teloni che le avvolgevano. Gli occhi di Samuel, alla vista di quei reperti, incominciarono a brillare, era tutto vero, sotto i suoi occhi c’erano tavole che mai nessuno aveva tradotto. <<Ci mettiamo a lavoro?>> Li spronò Samuel. <<Sono esausto! Siamo esausti! Se vuoi incominciare a dare un’occhiata, noi ci aggiorniamo a domani!>> Disse Luca. Lui e il messicano andarono via, seguiti dopo poco da Raul.


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Il cielo tra un po’ avrebbe partorito l’alba e Samuel non aveva intenzione di adagiare il capo sul cuscino. Andarono tutti via, dandosi appuntamento nello stesso posto il giorno dopo. Samuel rimase lì, immobile, ormai era tardi, meglio affrettarsi a studiarle che farsi due ore di sonno. Diede una rapida occhiata alle tavole indiane ma con suo grande stupore tutto quello che c’era inciso non aveva un senso logico. Aveva ragione Luca, erano incisioni codificate. Perchè? Si chiese Samuel. L’unica risposta che nacque fu la più semplice, quelle tavole dovevano contenere nella loro illeggibilità qualcosa di estremamente importante. L’archeologo decise di passare alla tavola Maya, per quelle indiane avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di un genio, probabilmente di Roberto. Il suoi occhi erano pesanti come se dei grossi goccioloni d’acqua si fossero posati sulle sue palpebre, ma quando vide la tavola Maya, la stanchezza che si stava impossessando del suo corpo lasciò spazio a una incontrollabile curiosità. La raffigurazione che c’era su quella tavola era tutt’altro che normale. Samuel cercò di accostare la figura di quell’essere nero a qualcosa di sensato ma ogni tentativo fu vano, che cosa diavolo rappresentava quella figura? Una divinità? No, lui conosceva benissimo tutte le divinità Maya. Secondo e non meno importante interrogativo, che cosa rappresentava quella specie di sala comandi in cui si trovava quell’essere? Balzò ai suoi occhi una piccola incisione che si trovava sul disegno. 22 DICEMBRE 2012. Ci fu un attimo di rallentamento nei pensieri di Samuel. Il 22 Dicembre 2012 era indicato dai Maya come la data della fine del mondo. Avevano calcolato che in quel giorno ci sarebbe stato un allineamento tra il sole e il centro della Via Lattea. Secondo dei loro studi la terra in quel giorno avrebbe smesso di girare, almeno per qualche ora, causando dei cataclismi a livello meteorologico. Ma i Maya parlavano di un nuovo inizio affermando che il mondo avrebbe comunque continuato il suo moto ma, stavolta, in senso inverso.


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Questa data e queste informazione era gia conosciute da Samuel, ma cosa avevano a che fare con quello strano disegno? Con quella piccola data che si poteva scrutare solo con una sofisticata lente non avevano scoperto nulla di nuovo. Un piccolo raggio di luce infranse l’oscurità che aveva fatto compagnia all’archeologo. Era arrivato il sole. Samuel diede un occhiata all’orologio della parete, le 7.00. Aveva trascorso una notte insonne senza venire a capo di niente. Fece mente locale per cercare di ricordare se questa mattina aveva delle lezioni all’università, la drammatica risposta fu, si. Chiuse con cura il suo studio e si diresse in cucina. Con suo grande sollievo Simona era gia in piedi e dall’odore che regnava in quella stanza stava preparando il caffé. <<Amore, hai la faccia stravolta!>> <<Non ho chiuso occhio!>> Simona gli pose una tazzina colma di miscela bollente. <<Almeno hai scoperto qualcosa?>> <<Zero, come un grande buco nero. Le tavole indiane sono criptate. Quella Maya… non ho avuto il tempo di tradurla!>> Samuel sorseggiò con calma la bevanda nera. <<Vedrai che lì ci sono scritte cose importantissime!>> <<Lo spero proprio!>> Fu il commento del marito, seguito da uno sbadiglio palesemente pieno di voglia di dormire. Samuel quella mattina raggiunse la facoltà, fece lezione cercando di mostrarsi il meno sfinito possibile, non ci furono commenti sul suo aspetto fisico, ma solo per educazione. Raul aveva passato la mattinata a dormire, sognando, forse Lisa o forse la notorietà. Luca aveva dormito poco, pochissimo. Avrebbe aspettato il ritorno di Samuel per venire a capo dei mille e più enigmi. Ramirez sarebbe partito il giorno dopo per il Messico, pesante attacco di nostalgia, avrebbe rivisto parenti e amici con la certezza che da un giorno all’altro sarebbe potuto diventare famoso. Quando l’ultima lezione, in quella calda mattina, era terminata, Samuel si diresse nell’ufficio di Roberto.


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I suoi passi erano stanchi, avrebbe dormito molto volentieri e probabilmente, se non ci fosse stato tutto questo in gioco, avrebbe sposato la causa del cuscino gia da un pezzo. Bussò alla posta. <<Avanti!>> Disse con una rauca voce Roberto. Samuel entrò molto lentamente. <<Ragazzo mio, sembra che hai preso un treno in pieno volto!>> Fu il commento di Roberto. <<Sto bene Roby, solo tanto sonno!>> <<Non pensi che con una famiglia e un posto come questo dovresti smetterla con le notti brave?>> <<Si… magari, una notte brava!>> Sorrise Samuel. Roberto percepì in quel sorriso di Samuel qualcosa di nuovo che raramente aveva visto. <<Dimmi ragazzo cosa ti porta da un vecchio brontolone?>> <<La tua immensa simpatia!>> Rispose Samuel. <<Avanti, dimmi!>> Lo intimò l’anziano. Roberto aveva all’incirca 65 anni, amava vestire quasi sempre con giacca e cravatta e il suo viso era perennemente ornato da una folta barba bianca. Sarebbe stato perfetto nell’incarnazione del classico babbo Natale. Era un professore di archeologia in quell’università da tantissimi anni e il suo rapporto con Samuel era stato ottimo sin da quando lui era il professore e Samuel il suo allievo. Era un uomo estremamente colto e dotato di una pazienza fuori dal comune, cosa che lo aiutava moltissimo nel lavoro che lo accompagnava nella vita. <<Ricordi quella spedizione a Pune?>> Disse Samuel. <<Quella che ti ho aiutato a far finanziare?>> <<Esatto!>> <<Avete trovato qualcosa?>> Samuel prese qualche secondo prima di dar fiato alle sue parole. <<Si, più di qualcosa!>> L’espressione sul viso dell’anziano archeologo assunse la forma della curiosità. <<Come posso esserti utile?>>


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Volle sapere Roberto. Samuel notò un pacchetto di sigarette che regnava tra la polvere sulla scrivania di Roberto. <<Mi offri una sigaretta?>> Chiese Samuel. <<Ma non aveva smesso?>> <<Chiunque riprenderebbe in questa situazione!>> Roberto aggrottò le sopracciglia, estrasse una snella stecca di tabacco dal pacchetto e la pose con delicatezza tra le mani di Samuel. <<Vuoi dirmi di che si tratta?>> <<Luca ha portato nel mio studio delle tavole incise!>> <<Fantastico!>> Si fece sfuggire Roberto. <<Ci sono dei problemi!>> <<Che tipo di problemi?>> <<Tre tavole sono in indiano antico, ma sono codificate!>> Quelle parole avevano stupito e non poco l’ascoltatore. Come era possibile che degli abitanti di 3500 anni prima conoscessero la scrittura in codice? Era questo che stava balenando nella mente di Roberto. <<Che mi venga un colpo, ma sei sicuro?>> <<Si!>> <<E l’altra?>> <<E’ qui che la cosa si fa ancora più interessante…>> Roberto stava assimilando ogni parola che usciva dalla bocca di Samuel, tra se e il mondo esterno aveva creato una sorta di barriera, era quasi in uno stato di ipnosi. <<…l’altra è una tavoletta Maya!>> <<Pessimo scherzo!>> Disse infastidito Roberto. <<Fidati, nessuno scherzo!>> <<Mi devi portare a vederle!>> <<E’ per questo che sono venuto qui, mi serve il tuo aiuto!>> Roberto accettò istantaneamente di aiutare Samuel. Si erano dati appuntamento nella “sala reperti archeologici” di Samuel nelle prime ore del pomeriggio, orario in cui si sarebbero ritrovati anche Luca e Raul. Il primo dei due si era alzato leggermente stordito e con una fottuta voglia di rimanere ancora a letto. Aveva notato che il sole regnava alto nel cielo di Caserta. La visuale che gli offriva quotidianamente la sua finestra era abbastanza caotica, la sua abitazione affacciava su corso Giannone, zona


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perennemente in subbuglio del casertano. Volente o nolente, la mattina file di macchine lo accompagnavano nel più traumatico dei risvegli. Portò il suo stanco corpo in bagno con il fine di far entrare, la sua dormiente pelle del viso a contatto con dell’acqua gelida. L’impatto fu devastante ma efficace, tornò subito alla realtà conscio che tra qualche ora il lavoro avrebbe intrapreso il tragitto finale. Raul, nel frattempo, stava passeggiando per via Mazzini, era giorno, ma durante questo periodo quella era una strada che con i primi segni dell’oscurità si riempiva di una luce artificiale che la faceva somigliare ad una piccola strada di un quadro esposto nella città degli artisti. Stava consumando la sua sigaretta nervosamente, la mente stava scorrendo, molto lentamente, tutte le persone che sarebbero andate da lui a dirgli “Complimenti, ottima scoperta!”, la sua voglia era di rispondere a tutti con un amplificato “Vaffanculo!”. Stava osservando la vetrina di un negozio, la sua immagine era parzialmente riflessa nelle vetrate, se quell’immagine fosse stata vista dall’alto, come in un film, sarebbe potuta essere la classica ultima scena di quando il protagonista rimane affranto nella solitudine della sua vita. Quando si camminava per strada la gente, in questa piccola città che a volte veniva erroneamente scambiata per qualcosa che non era, sembrava quasi evitarti, deviare il suo tragitto alla minima possibilità di entrare in contatto con persone sconosciute. Quando il sole illuminava le strade faceva da maschera alla tristezza che si respirava, all’indifferenza totale che albergava, qui ma in fondo un po’ dovunque. Ma in quelle fredde giornate quando i raggi del sole perdevano il duello con le nuvole in collera… beh, cadeva il velo di falsità che cullava questo posto e lasciava spazio ai veri colori di questa città, i colori di un posto che accettava solo il benessere e girava il viso di fronte alla sofferenza. Era questo il fiume di pensieri che stavano percorrendo i canali della mente di Raul.


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6. ENIGMI CASERTA (ITALIA)

Il cielo si stava lentamente impregnando dei colori del crepuscolo. Una sottile aurea rossastra regnava su un circolo vizioso di anime e carne. Dall’alto le persone davano l’impressione di tanti burattini impegnanti nell’ennesima rappresentazione di un opera teatrale. Il copione non cambiava mai, le stesse pagine si leggevano e rileggevano all’infinito, in un vortice di routine che non lasciava spazio all’improvvisazione. Se qualcuno cercava un gesto istintivo rischiava l’ira del “regista” e la conseguente espulsione dalle persone ”per bene”. C’erano domande a cui dare delle risposte, c’erano enigmi da svelare, pagine da scrivere, lacrime da versare, c’era la collera da sfogare e amore da donare ma soprattutto c’era la vita che poteva cambiare in un anno, un attimo, un bacio. Samuel era appena giunto a casa seguito da Roberto. Quando entrarono nella villa, la piccola Valery corse calorosamente ad abbracciare il papà e lo zio Roberto. Dopo una piccola pausa la loro direzione fu lo studio. Quando misero piede nella stanza un soffio di aria fredda li colpì in pieno volto. <<La stanza più fredda della casa!>> Aveva commentato Samuel. <<Senza alcun dubbio!>> Aveva prontamente risposto l’anziano professore. Samuel aveva acceso la luce, visto lo scarso aiuto che dava il giorno che stava morendo. Tolse i panni che si trovavano sopra le tavole, prese la prima e la mise su un robusto piedistallo in modo da poterla studiare senza il fastidio di stare inginocchiati in terra. Durante il lavoro di preparazione, Roberto era rimasto immobile, quasi a voler conservare tutta la sua energia per quei reperti. <<Ecco, questa è la prima tavola!>> Disse Samuel, leggermente affaticato per lo sforzo che aveva fatto. Roberto fece un lieve cenno con la testa e nulla più. Posizionarono una lampada molto forte quasi a contatto con la tavola in modo da evidenziare ogni minimo particolare. Si adoperarono di lenti e vocabolari e decisero di intraprendere il viaggio. Nel frattempo erano giunti anche Luca e Raul, servivano


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le conoscenza di tutti e forse non sarebbero nemmeno bastate. Lo spazio intorno alla prima tavola era occupato quasi totalmente da Roberto, che stava cercando di far prendere vita a quelle scritte che sembravano indecifrabili. Scosse il capo. <<Che succede?>> Esclamò Raul. <<Questo codice è bello tosto!>> Scuotendo ulteriormente la testa. <<Con calma Roberto, abbiamo tutto il tempo del mondo!>> Disse Samuel. Luca si trovava distante dagli altri, dava come l’impressione che lui il suo l’avesse già fatto e ora toccava agli altri, ai professori, ai colti, lui era un uomo di terra. Roberto aveva deciso di fermarsi alla prima incisione e aveva ordinato a Samuel di fornirsi di quanti più libri potesse. L’immagine che si poteva vedere era piuttosto simpatica, c’erano Raul e Samuel in equilibrio precario sotto il peso di molti e pesanti libri. La prima parola che Roberto riuscì a portare alla luce fu: VIMANAS Dopo svariati tentativi erano riusciti ad accostare quell’incisione ad un vocabolo. Il termine VIMANAS era traducibile letteralmente con SPAZIO-VEICOLO, ma il senso pratico di quella parola era AERONAVE SPAZIALE. <<Che cosa?>> Disse Luca, sempre distante, seduto su una sedia. <<Aeronave spaziale? Non ha senso!>> Commentò, poco dopo, Raul. Roberto inizialmente non mutò l’espressione del suo viso neanche di un millimetro, sembrava quasi paralizzato. <<Roberto?>> Chiamò Samuel. <<Dimmi ragazzo!>> Rispose l’accigliato professore. <<Siamo sicuri che sia quello il vocabolo giusto?>> <<Si, di questo sono sicuro ma…>> <<Cosa?>> Chiese Luca


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<<Se volessimo formare un periodo seguendo le incisioni è impossibile!>> <<Proviamo a tradurre la seconda incisione!>> Esortò Samuel. Dal secondo simbolo venne fuori la parola: MOHANASTRA Il senso di quella parola era ARMA PARALIZZANTE. L’oscurità era calata, così velocemente da non dare alle persone il tempo di abituare gli occhi al buio. Avevano tradotto solamente due incisioni e avevano speso la bellezza di tre ore. Era risultato più complicato e più stancante del previsto, ma per loro che vivevano di queste cose ne valeva la pena. <<Una pausa cena?>> Aveva proposto Raul. <<Andiamo a prendere delle pizze!>> Rispose Luca. E così fu, i due uscirono e lasciarono Samuel e Roberto ai loro tormenti. <<Questa parola dovrebbe significare… non né ho idea!>> Disse Roberto. La parola in questione era AGNEYASTRAS. Passò circa mezz’ora, durante la quale Samuel si immerse in letture che mai avrebbe pensato di riprendere e Roberto in enigmi che mai avrebbe pensato di trovare. <<Ci siamo!>> Esultò Samuel. <<Seguendo l’incisione, l’unico possibile accostamento è CANNONE CILINDRICO!>> Roberto sembrò estremamente turbato da quello che stava venendo fuori. <<Giusto, o almeno credo!>> Rispose Roberto che si era lasciato andare ad un piccolo momento di sconforto. <<Ci sono cose che non potremmo mai tradurre?>> Chiese Samuel. <<Pensavo di no, credevo che con tutta la conoscenza che c’è nulla sarebbe stato così difficile e poi tante difficoltà per celare cosa?>> Sbottò Roberto.


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<<Ce la faremo, cosa nascondono queste tavole lo sapremo solo perdendoci l’anima!>> Disse Samuel, visibilmente stanco, ma deciso a non concedersi pause. <<Mi sembra una cosa assurda, stiamo traducendo delle tavole di 3500 anni fa e vengono fuori delle parole tanto attuali da poter essere anche future!>> Sintetizzò Samuel. Bisognava assolutamente identificare il tipo di codificazione che possedevano quelle tavole, non avrebbe avuto alcun senso tradurre simbolo per simbolo. Era sin troppo complesso per essere così antico, ma il passato spesso ci fa capire che è lui il nostro più grande enigma. Nel frattempo erano tornati i ragazzi, avevano fatto chi più e chi meno una pausa pizza, ma ora era tornato il momento di mettersi all’opera. A Luca e Raul era stato affidato il compito di tradurre simbolo per simbolo le incisioni, mentre Samuel e Roberto dovevano a tutti i costi rilevare che tipo di codificazione era stata applicata a quelle tavole. Il tempo stava sfuggendo come inseguito da incubi indicibili, ma gli archeologi sapevano che per vedere dei frutti avrebbero dovuto buttar via gli orologi e concedersi in tutta la loro interezza a quelle tavole. I due addetti alla traduzione trovarono altre strani parole, termini come CARRO CELESTE, PROIETTILE, LASER, facevano sembrare quelle tavole come delle cose che erano state scritte ai giorni nostri invece di migliaia di anni prima. Nel frattempo Roberto aveva notato che delle tre tavole indiane solo due erano codificate, la terza era chiaramente leggibile da qualunque conoscitore della lingua ma parlava solo di usi e costumi di quel periodo, nulla di importante. <<No… non posso cederci!>> Esclamò Raul. <<Che succede?>> Chiese Samuel. <<Ho trovato una parola, MERCURIO ROSSO, ancora oggi non si sa se esiste davvero!>> Rimasero tutti per qualche secondo in assoluto silenzio. <<Roberto, cosa abbiamo trovato?>> <<Non lo so, ma effettivamente questi sono termini prettamente moderni, non si può escludere nulla!>> <<Ci troviamo di fronte a qualcosa di enorme!>> Disse Luca. <<Frena, ora non si può capire granché, dobbiamo aspettare!>>


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Il discorso finì lì, tutti ripresero i loro compiti. Samuel aveva notato che qualche volta Valery faceva capolino dalla porta per vedere che stesse facendo il padre, era dolcissima. Ora le sue piccole visite erano terminate, probabilmente stava sognando, visto che la notte era subentrata prepotentemente. <<Pezzo di merda!>> Urlò Roberto. <<Che è successo?>> Chiesero contemporaneamente Raul e Luca. <<L’ho fregato, ho trovato il senso!>> <<Dici davvero!>> Disse Samuel. <<Bisogna far seguire il simbolo 1 del primo rigo dal simbolo 5 del secondo rigo, il simbolo 2 del primo rigo dal simbolo 4 del secondo rigo, il simbolo 3 del primo rigo dal simbolo 6 del secondo rigo!>> <<Che figlio di puttana!>> Disse Samuel con il sorriso stampato sul viso. <<E una sequenza, la stessa cosa vale per il terzo e quarto rigo, e così via!>> Quel vecchio volpone aveva trovato il giusto amalgama a quei simboli, adesso era giunto il momento di dare un senso a tutto quell’ammasso di strane parole che aleggiavano in quella stanza spinte fuori dal fiato dei traduttori. La notte stava avanzando inesorabilmente, incurante delle esigenze dei comuni mortali. <<Procediamo!>> Ordinò Samuel con voce ferma. Roberto incominciò la traduzione della prima tavola: UN SOLO E IMMENSO PROIETTILE SQUARCIO’ IL CIELO, ILLUMINANDO CON IL SUO CANDORE LA BUIA NOTTE. FUOCO E FUMO FACEVANO DA TETTO AD UN MONDO SCHIAVO DELLA COLLERA DEI PROPRI DEI. UN’ARMA MAI VISTA, ERA L’IRA DEGLI DEI SCESI IN TERRA… L’ira degli dei scesi in terra? Se tutta questa storia era uno scherzo, era sicuramente di pessimo gusto. <<Ciò che stiamo traducendo non è possibile!>> Disse Luca. <<Concordo in pieno!>>


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Lo seguì Raul. <<Sto traducendo quello che c’è scritto, né più né meno!>> <<Andiamo avanti!>> Li esortò Samuel …L’INTERA RAZZA DEI VRISHNIS E DEGLI ANDIZAKS SPAZZATA VIA. CORPI FUMANTI COME CARBONI ARDENTI… <<E’ lo specchio di una qualche guerra!>> Disse Samuel <<Penso che su questo punto concordiamo tutti!>> Domandò Roberto. Tutti fecero un leggero cenno con il capo. Ma tutti si chiedevano come fosse possibile immaginare una guerra 3500 anni prima, con cannoni, proiettili etc. <<Potrebbero essere metafore?>> Intervenne Raul, cercando di dare dei toni più reali a quello che stavano leggendo. <<Anche se fossero metafore…>> Rispose Roberto. <<…come potevano essere a conoscenza di termini come proiettile o aeronave spaziale?>> Fu una domanda lanciata con troppa violenza, in un momento troppo difficile, si perse nella mente degli ascoltatori senza trovare alcuna meta. …MASSE DI GUERRIRERI, ELEFANTI, POPOLI SPAZZATI VIA COME FOGLIE SECCHE. GRANDI NUVOLE CHE SI APRONO L’UNA SOPRA L’ALTRA, IMMAGINI DI FUNGHI FUMOSI… <<Funghi fumosi?>> Esclamò Luca. <<Se vogliamo andare per assurdo potrebbe essere l’esplosione di una bomba atomica!>> Disse Samuel. Cadde il silenzio nella stanza, così pesante che sembrava dovesse durare per sempre. Che cosa diavolo avevano tra le mani?


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Era realmente possibile che miliardi di anni prima c’erano astronavi che oggi ancora non esistevano? …LA GRANDEZZA MEDIA ERA DI 3 CUBITI E 6 PIEDI. TERRE, MARI, MONTAGNE TREMARONO, I DIECI DELL’ORIZZONTE FURONO COPERTI DA FUMO NERO…

PUNTI

<<C’è qualcosa che non torna!>> Disse con voce stanca Roberto, in rottura del silenzio che si era adagiato sulle labbra degli archeologi. <<Non torna niente!>> Disse Luca, seguito nello stesso commento da Raul e Samuel. Un piccolo pezzettino di stanza prese vita spronato da una fioca luce, stava sorgendo un nuovo giorno e loro erano completamente impreparati ad affrontarlo. Sarebbe stato un giorno passato a letto, per assumere energie e una notte, se fosse stato il caso, ancora più dispendiosa di quella. Avevano cose importanti in mano, cose strane e per questo ancora più avvincenti. <<Ci troviamo domani, nel pomeriggio!>> Disse Samuel. La stanza che aveva visto strane parole riempirla ora aveva lasciato posto al vuoto, che faceva compagnia a quelle strane tavole provenienti da chissà quale arcano passato. Il percorso che avevano intrapreso stava mutando il ritmo delle loro vite, ma a loro non importava, era un piccolo, irrilevante dettaglio di fronte a quello che ogni pezzo di quell’antica pietra poteva donare ad ognuno di loro. Ogni archeologo andò ad adagiarsi sul proprio cuscino con la convinzione che quello che stavano portando alla luce era un enigma che mai nessuno aveva affrontato. Era come uno di quei colori forti, come uno di quei sapori unici, come una di quelle occasioni che capitano solo una volta nella vita e nemmeno a tutti. Era quello che tanto avevano atteso, ed ora c’erano, più caparbi e decisi che mai.


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7. TRAGITTO CASERTA (ITALIA)

La mattinata era passata come da routine, incurante degli eventi che si stavano, di volta in volta, rivelando assurdi. Ci sono degli avvenimenti che hanno il preciso scopo di deviare il tragitto che ogni uomo è destinato a compiere. Ci sono dei piccoli particolari che possono sembrare irrilevanti ma che finiscono per essere l’unica cosa sicura. Quando Raul aprì gli occhi, per un attimo, non capì in che parte della giornata si trovasse e soprattutto che cosa gli fosse capitato di tanto stancante la sera precedente. L’unico vago ricordo era stato il trascinare la sua stanca figura a letto. Ma si… giusto, le tavole, la loro scoperta! Quell’improvviso pensiero ebbe un effetto eccitante sul suo corpo che da intorpidito divenne elettrico. Scese dal letto e con molta calma preparò la sua bevanda preferita, fatta con miscela nera e acqua bollente. Il giorno aveva fatto luce in un abitazione che si trovava molto più a suo agio quando era celata nella più totale oscurità. Era un appartamento solo, in quanto era quasi sempre vuoto, salvo di notte, quando Raul rincasava. Oggi era un giorno speciale, era un freddo pomeriggio sammaritano, fatto di macchine chiassose e gente in collera con il mondo e Raul era in casa, accompagnato dalla luce naturale, mentre aspettava di inondare la sua gola di caffé bollente. Quella stessa luce che aveva provato a strappare dalle braccia di Morfeo, Luca. Ma, lì, c’era stato davvero poco da fare. Luca era ancora a letto, ogni tanto apriva un occhio per sincerarsi dell’orario, per poi richiuderlo conscio di poter oziare ancora per qualche minuto. La casa di Luca era la tipica casa da single. Frigorifero pieno di cibi precotti, piatti e bicchieri di carta e una donna delle pulizie che ogni tre giorni passava a “purificare” il terreno. La memoria, a volte, non lo aiutava e oggi era il giorno di Matilda, la signora cilena, che si occupava di tenere in ordine il suo appartamento. La signora aveva le chiavi di casa e quando Luca sentì la sua porta aprirsi capì che era arrivato il momento di mettere i piedi giù dal letto. Quella luce così densamente dolce era andata a trovare anche Roberto, che per la sua età avrebbe dovuto evitare le ore piccole. Si era risvegliato molto prima di quanto si potesse pensare, aveva dormito poco, su per giù quattro ore. Si trovava immobile davanti al vetro della sua finestra che rifletteva l’immagine di un uomo stanco, ma sereno. Boccheggiava fumo aspirandolo dalla sua pipa, se si rimaneva fissi ad osservarlo a volte si aveva


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l’impressione che il fumo che entrava nel suo corpo non uscisse mai, salvo poi prendere bizzarre forme fuoriuscendo dalle sue narici. Aveva decodificato quelle maledette tavole, ma erano piombati in qualcosa che, nonostante il senso, non aveva alcun senso. I suoni che giungevano dalla strada erano vestiti da un rumore ovattato di tristezza. Roberto, in quelle poche ore di sonno che si era concesso, aveva avuto un incubo, si trovava in una stanza vecchia e semivuota e il mondo intorno a lui era privo di colori, tutto ciò che i suoi occhi percepivano erano il bianco e il nero. Mentre si disperava in questa stanza morta avvertì il pianto di qualcosa, si girò molto lentamente e vide su un vecchio comodino un piccolo essere che si contorceva e si lamentava. Si avvicinò ulteriormente, ogni suo passo corrispondeva ad una folata di vento, l’aria sembrava tanto densa da poter essere toccata. Quando giunse nelle vicinanze di quello strano essere gli venne una tremenda voglia di piangere, quello che vide era uno spettacolo allucinate, era il cucciolo di chissà quale essere immondo ed era stato abbandonato lì, di fianco a lui, malato e bisognoso di cure. Quando Roberto aprì gli occhi ringraziò Dio di non far parte di quello che aveva vissuto qualche attimo prima. Aveva ripensato molto a quella figura, quell’essere sembrava quasi un miniatura di quel disegno che si trovava sulla tavola Maya. Coincidenze, suggestione, pensò. Si erano dati appuntamento quel pomeriggio, con la convinzione di giungere ad un qualche, anche se minimo, risultato. Nell’aria, della lucentezza pomeridiana, c’era ben poco. L’oscurità stava già togliendo vita a gran parte del cielo e presto l’avrebbe soffocato del tutto togliendogli il respiro e di conseguenza facendolo divenire livido. Samuel si trovava già nello studio e nell’attesa dei suoi compagni di viaggio stava riassumendo quello che avevano tradotto la notte prima. Quella tavola narrava di astronavi, di armi, proiettili, Dei che giungevano dal cielo… cose molto attuali, anzi forse cose che anche oggi sarebbero potute essere inverosimili, eppure si trovavano lì, incavate nella vita di quella pietra secolare. Passò al setaccio di tutto quello che si poteva riportare a quelle traduzioni, mentre nella sua mente entravano e uscivano mille pensieri impazziti, uno più deciso degli altri si fermò ed impose l’attenzione a Samuel, era possibile che 3500 anni prima una forma di vita aliena fosse scesa sulla terra? Una domanda da un milione di dollari, anzi forse anche qualcosa in più. La prima automatica risposta che si formulò nella sua mente fu la classica “non è possibile”, e allora cosa stavano a significare quei termini? Probabilmente più si sarebbe andato avanti con le traduzioni, più sarebbero venuti fuori termini riconducibili a questa ipotesi. Samuel si sentì come un


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ragazzino, ma si impose di non cadere nell’assurdo, mio caro Samuel, Babbo Natale, gli alieni, i Gremlins e l’uomo nero non esistono, smettila di delirare, si disse. I suoi pensieri furono distratti da un forte rumore che proveniva dalla porta, qualcuno stava bussando chiedendo permesso. <<Avanti!>> Disse Samuel. Entrò Roberto, con un viso per nulla riposato, ma con due occhi pronti all’ennesima sfida. <<Sono il primo?>> Samuel rispose con un breve movimento del capo. <<Cosa c’è ragazzo? Qualche novità?>> Chiese Roberto. <<Nessuna, a parte qualche interpretazione personale!>> Rispose Samuel. Roberto in un primo memento non fece caso alle parole di Samuel, i suoi occhi si erano immobilizzati sulla tavola Maya e su quella visione che lo aveva accompagnato durante il sonno. <<Cosa fissi?>> Chiese Samuel. <<Niente… stanotte ho avuto un incubo e dentro c’era qualcosa che assomigliava a quella strana figura sulla tavoletta!>> Indicò la tavola. <<Siamo tremendamente coinvolti!>> Asserì Samuel. <<Stavi dicendo… riguardo a delle interpretazioni personali?>> <<Stavo pensando ai termini sin qui tradotti!>> <<Si!>> <<Ma… così… lasciamo perdere!>> Disse Samuel. <<Voglio sapere, ora sono curioso!>> Gli rispose Roberto. <<Niente… ho pensato che tutto questo può essere un riferimento a qualche forma di vita non terrestre che milioni di anni fa è entrata in contatto con la terra… banalità!>> Roberto rimase immobile come se qualcuno lo avesse colpito con una freccia dritto al cuore. <<Roberto?>>


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Chiese Samuel che aveva notato l’inespressività del volto del suo interlocutore. <<La scarteresti?>> Disse Roberto. <<Cosa?>> Rispose Samuel. <<Quest’ipotesi, la scarteresti?>> Il viso di Samuel divenne improvvisamente più luminoso per poi lasciare spazio ad un timido sorriso. Si sentiva come quando aveva visto INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO, pieno di voglia di scoprire e sapere. <<Non lo so… siamo nel campo delle più assurde ipotesi!>> Rispose Samuel. Roberto accese la luce per fare chiarezza sulla tavola che avevano tradotto. <<Potrebbe essere l’unica ipotesi!>> Samuel non rispose, voleva che il discorso terminasse lì, era inutile fare ipotesi, avrebbero continuato la traduzione. Il sole fuori aveva smesso di battere, la sua ultima diapositiva era rimasta su una morta foglia autunnale, figlia di un albero secolare che sicuramente ne aveva viste e ne sapeva più di loro quattro messi insieme. Raul si stava dirigendo in tutta fretta verso casa di Samuel. Il traffico avrebbe sfidato chiunque a prendere la macchina e infatti Raul si trovava su un bus diretto a Caserta. Le macchine che formavano tantissime, disordinate, file indiane, rombavano tutta la loro collera per il tempo perso. Ormai il mondo, la vita di ogni persona era schiava del tempo, un minuto per questo, un’ora per quest’altra cosa, il tempo consumava lentamente la vita di ogni singolo essere umano e naturalmente era bravo a nascondersi. Quando il bus arrestò la sua corsa e Raul poggiò il piede sull’asfalto umido si poteva avvertire un freddo pungente che aveva la strana abilità di graffiare la pelle. L’ultimo, breve, tratto di strada Raul l’avrebbe fatto a piedi. Mentre era ormai giunto in prossimità della villa dell’amico notò le particolari tonalità che aveva assunto il cielo, un denso nero si mescolava con un pizzico di sofferente rosso, avrebbe voluto scattare una foto per immortalare il cielo che forse non avrebbe rivisto mai più così tetro. Passarono pochi minuti e tutti e quattro gli archeologi erano a lavoro nello studio di Samuel. <<Stiamo viaggiando al buio?>> Domandò Raul. <<Che vuoi dire?>> Rispose prontamente Samuel, mentre ricercava l’ennesimo simbolo su uno dei suoi libri.


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<<Non mi dite che nessuno di voi ha formulato qualche ipotesi?>> Disse Raul. Per un attimo Samuel fu tentato di rispondere, ma decise che sarebbe stato più saggio andare avanti con la traduzione e lasciare i dibattiti successivamente. <<Sicuro… ma pensiamo a lavorare, avremo tempo di ipotizzare tutto ciò che vogliamo!>> Raul non disse niente, anche se la risposta di Samuel non gli piacque nemmeno un po’. <<E se fosse tutto un’enorme burla?>> Disse Raul, rivolgendosi verso Luca a voce bassa. <<Non pensarlo nemmeno, ho analizzato le tavole, sono all’incirca di 3500 anni fa… niente burla amico!>> Raul si sentì incredibilmente rassicurato e si lasciò andare ad un piccolo sospiro di sollievo. Quella stanza brulicava di cultura e di voglia di emergere. Se i muri avessero potuto apprendere dopo quelle ore sarebbero stati degli ottimi professori, ma purtroppo il mattone e la pietra erano oggetti morti, privi di anima e fiato, se avessero potuto anche solo fare dei piccoli cenni ora quegli uomini indaffarati nella stanza avrebbero saputo sicuramente tante cose in più, magari avrebbero abbandonato le strade delle ipotesi per giungere a certezze indissolubili. Erano riusciti a tradurre tutta la seconda tavola e il risultato era stato una specie di poema che narrava di astronavi e guerre. Si stavano chiedendo se fosse il caso di esporre tutto ciò che ognuno di loro pensava, anche se avevano la netta sensazione che i loro pensieri, almeno questa volta, si sarebbero trovati perfettamente d’accordo. Decisero di riassumere tutto ciò che era nato da quella tavola: UN SOLO E IMMENSO PROIETTILE SQUARCIO’ IL CIELO, ILLUMINANDO CON LA SUA LUCE LA BUIA NOTTE DEI TEMPI. FUOCO E FUMO, FUMO E FUOCO, URLA DI DOLORE ERANO IL TETTO DEL MONDO SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO… CI FU UNO SQUACIO NELL’OSCURITA’ CHE CI CIRCONDAVA… ERANO LORO… UNA NAVE MAI SCESA DAL CIELO. CON LEI UN’ARMA MAI VISTA… SI… ERA L’IRA DEGLI DEI SCESI IN TERRA. POPOLI E RAZZE INTERE FURONO SPAZZATI VIA PER MANO DELLA LORO IMMENSA COLLERA.


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LA RAZZA DEI VRISHNIS E DEGLI ANDIZAKS VOLARONO VIA COME FOGLIE AL VENTO. VISIONI DA INCUBO CHE SI MOSTRAVANO NELLA REALTA’… CORPI FUMANTI COME ARDENTI CARBONI… MASSE DI ELEFANTI, GUERRIERI, POPOLI DISSOLTI NEL NULLA… DONNE E BAMBINI NON FURONO RISPARMIATI. TUTTI I CIBI ERANO INFETTI… LA MORTE ASPETTAVA TUTTI NOI. GRANDI NUBI CHE SI APRIRONO L’UNA SOPRA L’ALTRA, I CIELI DIVAMPARONO E L’ORIZZONTE SCOMPARVE… FORSE PER SEMPRE. Quando Roberto rilesse il tutto, dandogli un preciso senso logico, nella stanza calò un silenzio irreale rotto dal flebile rintocco del piccolo orologio che respirava sulla parete della stanza. I loro sguardi si incrociarono più e più volte, cercando forse conforto o forse approvazione sui loro pensieri. Passarono pochi secondi di silenzio, ma per ognuno di loro sembrarono ore. <<Questa è la seconda tavola!>> Disse Roberto, in modo da rompere quello strano incantesimo che era sceso su di loro. <<E’ inutile che continuiamo a guardarci in faccia come tanti stupidi… le parole sono chiare… qui si pala di forme aliene!>> Disse Samuel, rompendo gli indugi. <<Ferma ragazzo…>> Disse Roberto. <<…aspetterei la traduzione dell’altra tavola indiana e di quella Maya!>> <<Io credo che se si parla di navi scese dal cielo e di dei venuti sulla terra o è il racconto di un folle genio vissuto miliardi di anni fa, oppure è, o meglio, era la loro realtà!>> Disse Raul, deciso a far valere il suo pensiero. Le carte erano state scoperte e quello che loro avevano in mano era senza ombra di dubbio il punto che ogni grande giocatore avrebbe voluto giocare. La loro fortuna era la loro irrazionalità… qualsiasi persona con una mente rinchiusa in freddi schemi avrebbe scartato a priori quell’ipotesi di vite aliene. I giochi erano fatti! Avevano deciso fermamente di seguire quel filone di idee, essendo tutti d’accordo che quello che avrebbero scoperto sarebbe rimasto tra loro, almeno per il momento!


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C’erano ipotesi che non si potevano condividere con il mondo, non ora che avevano scoperto qualcosa di veramente importante. <<Ci sono dei cenni di vita aliena in altre scritture?>> Chiese Raul. <<Si… c’è qualcosa, ma è stato sempre un argomento minimizzato e guardato con severo scetticismo!>> Rispose Roberto. <<Dovrebbero vedere queste tavole… gli scettici!>> Fu l’ironico commento di Luca. Le luci dei lampioni che illuminavano le tetre strade di Caserta assomigliavano a tanti piccoli fuochi, intenti a regalare calore. Dominavano nel buio con il loro caldo colore rossastro e rassicurante, cercando di far ritrovare la via a chiunque stesse vagando in quel mare di incertezze che è la vita. Roberto posò accuratamente la tavola che avevano appena analizzato in terra e decise che era maturato il tempo di scoprire che cosa celava la terza tavola indiana. <<Passiamo a questa?>> Chiese Samuel. Roberto diede un rapido e fugace sguardo all’orologio sulla parete. <<Incominciamo…>> Fu il suono che prese il fiato dell’anziano professore, molto simile ad un comando. La terza tavola era notevolmente più piena, rispetto alle altre due, segno che il materiale da riesumare era davvero tanto. Erano sopraggiunti dei momenti morti, durante i quali Simona aveva portato da mangiare nello studio seguita dall’immancabile Valery. I quattro si erano cibati a sazietà, ed ora sembravano pronti ad intraprendere l’ennesimo tortuoso enigma. <<Che ore sono?>> Domandò Luca. Samuel gli fece un cenno con la mano destra, ad indicare l’orologio che gli aveva fatto compagnia con il suo continuo moto, fino a quel momento. Erano le 22.35, un intero pomeriggio accompagnato da una leggera spruzzata di sera, era volato, passato via come una breve ed intensa folata di vento. Avevano dato un senso alla II tavola, un senso che li aveva condotti a delle ipotesi suggestive e allo stesso tempo spaventose. Per i quattro studiosi il tempo si arrestò nell’istante in cui incominciarono la traduzione della 3° tavola. Il tempo si arrestò come un fermo-immagine di un lungo nastro che ancora non aveva mostrato il suo finale. In un’altra stanza Simona stava cercando in tutti i modi di mettere a letto la piccola. <<Amore… ti prego, fai la nanna!>>


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Valery aveva risposto con un deciso cenno del capo, no! <<Voglio papà, mi deve raccontare la favola!>> Aveva risposto, indispettita, la piccola. <<Te la racconta la mamma?>> Aveva tentato Simona. <<No… no… e no!>> La risposta della piccola peste. La battaglia era proseguita per un’altra abbondante mezz’ora, per poi terminare con la resa di entrambi i duellanti. Simona aveva preso posto accanto alla figlia ed entrambe stavano dormendo nel piccolo letto di Valery. Viste dall’alto sembravano una chioccia che teneva sotto la sua attenta protezione il prezioso frutto del suo amore!


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8. CIO’ CHE FU… CASERTA (ITALIA)

Fare le ore piccole era diventato un optional di poco conto. Le lancette battenti dell’orologio lasciavano cadere i secondi nel varco temporale che guida la nostra vita. Non avrebbero tradotto tutta la tavola, non oggi, il tempo correva troppo veloce e loro avevano pur sempre bisogno di riposare. Quando Luca guardò fuori si accorse di quanto fosse tremendamente spettrale Caserta nelle ore buie, quando l’incedere di auto e passanti impazziti terminava, per le strade si poteva respirare una solitudine che trasmetteva un profondo disagio. Alcune strade, prive delle luci artificiali, si cibavano della luce lunare per assumere l’aspetto di zone pallide al ridosso dell’ignoto. Erano pochi i bar che accompagnavano i viaggiatori della notte, quelli che non si lasciavano stare, quelli che si pizzicavano per capire se erano ancora vivi. Era Caserta, una città non tanto grande, ma comunque piena di stili di vita e mentalità diverse. Samuel stava fissando la tavola che avevano tradotto la sera precedente, osservava quella pietra e pensava come fosse possibile che su quel masso c’erano cose cosi “strane”. Roberto aveva intrapreso, l’ormai solita, decodificazione del testo. <<Cominciamo… ma penso che a stento riusciremmo a tradurre i primi righi!>> Commentò Roberto. La sua stanchezza si faceva sentire e gli arrossati occhi avevano incominciato a bruciare in cerca di un riparo dalla luce artificiale della lampada. Samuel e gli altri preferirono non rispondere, facendo di volta in volta, dei cenni di assenso. La stanchezza gravava sulle spalle di tutti e nonostante l’eccitazione, la lucidità stava andando a farsi fottere. I secondi si inseguivano all’impazzata, scoprendo il tempo del suo velo, mostrandolo in tutta la sua dannosa realtà. Le lancette percorrevano l’ora del diavolo, le 3.00, l’ora per dormire, per fare fandonia, per divertirsi e per scoprire un passato non così lontano da come voleva sembrare. Le prime frasi cominciarono a nascere e ad acquisire un senso:


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GLI DEI ERANO IN COLLERA… SCESERO CON LE LORO MACCHINE LUMINOSE DALL’ABISSO DEI CIELI… <<Le macchine luminose? Le astronavi?>> Disse Raul. Fu l’ennesima domanda che non ottenne risposta, non perché fosse inutile, ma per la sua quasi veridicità. Stavano pensando tutti la stessa e identica cosa… ma nessuno voleva sbilanciarsi, decisero di continuare, almeno un altro po’: …PIU’ VOLTE AVEVANO FATTO VISITA A NOI… LORO NOSTRA VITA… Loro nostra vita? Che diavoleria voleva stare a significare quella frase? Loro nostra vita… il senso di queste parole era tanto insufficiente quanto strano. <<Questa non l’ho capita!>> Disse Samuel. <<Forse acquista un senso… se proseguiamo!>> Commentò Roberto, un po’ spazientito dalle troppe interruzioni. La traduzione riprese a fluire: …LORO FATTO NOI… NOI SICURI, LORO PROVE, LORO DICONO FATTO NOI… LORO ESSERI SUPERIORI… DEI… Quelle frasi che si stavano delineando nella stanza avevano uno strano sapore, come di nuovo, ma piuttosto sgradevole. Si erano fermati per forza di cose. Avevano cercato uno stretto dialogo, senza riuscire a scovare un senso logico. <<Che cosa vuol dire?>> Disse Luca, visibilmente irritato da quello che stava venendo alla luce sotto i suoi occhi. Le risposte che ottenne non furono per niente soddisfacenti e lo portarono a chiudersi nel suo ego, a cercare risposte che sapeva di non conoscere. <<Roberto… continua, finiamo il pezzo… poi ci aggiorniamo a domani!>> Disse Samuel.


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Roberto lo ascoltò mentre si strofinava rovinosamente gli occhi, facendoli diventare rossi, sembravano incandescenti. Attorno alla tavola si era formato un piccolo cerchio composto da quattro persone, viste disinteressatamente, potevano sembrare dei fanatici alle prese con una seduta spiritica, intenti a mettersi in contatto con chissà quale anima inquieta. Ma, in fondo, era quello di cui avrebbero avuto bisogno. Nacque l’ennesima frase: …NOI CERCAMMO UNA RIBELLIONE, STANCHI DI ESSERE, DI VOLTA IN VOLTA, RAPITI E TORTURATI. Furono le parole non dette le più veritiere di quella situazione. Gli indugi potevano essere dichiarati rotti, il testo parlava chiaro, rapimenti e torture, si stava parlando di forme di vita aliena, ma il tutto stava assumendo degli strani contorni, molto cupi e bui. <<Frena… frena… non ci capisco più nulla!>> Commentò Samuel. <<Ci hanno fatto? Ci hanno dato la vita? Che cazzo significa?>> Disse Raul, in preda ad un leggero attacco d’ira. Roberto stava stringendo forte i pugni, senza fiatare, ma con una tromba vorticosa di strani pensieri che gli torturavano il cervello. <<Ragazzi! Calma… rischiamo di dare significato a frasi che con la traduzione potrebbero cambiare!>> Rispose Roberto. <<Potrebbero cambiare? Qui si parla di alieni e le parole che stanno venendo fuori non mi piacciono per niente!>> Rispose Raul, con gli occhi rossi, coperti da una patina di lacrime. L’aria era diventata improvvisamente molto tesa. Gli animi si erano surriscaldati e la paura era subentrata tra le mura di quello studio. La paura dell’ignoto, di frasi che stavano rivelando cose che non stavano né in cielo né in terra. Il senso lo avevano capito tutti, ma nessuno aveva avuto il coraggio di espellere, tramite la cavità orale, i propri pensieri. Si crede che non dicendo una cosa, questa, possa fare meno paura. Più e più volte si incrociarono gli sguardi in quella fredda camera. <<E’ ora di andare… domani, a mente fredda, potremmo fare conclusioni più verosimili!>> Disse Roberto. <<Ascoltate! Giù in cantina c’è uno stanzino con delle brande… rimanete qui!>> Disse Samuel


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<<Troppo disturbo!>> Rispose Luca. <<Ma che disturbo! Stiamo scoprendo l’inimmaginabile, il tempo è oro, rimanete!>> Quasi ordinò Samuel. La stanchezza che pesava sulle loro gambe e il sonno che gravava sulle loro palpebre li fece propendere per quella comoda soluzione. Avrebbero avuto molto più tempo se fossero rimasti tutti lì. Tolsero la vita allo studio spingendo l’interruttore della luce. All’indomani Samuel avrebbe chiamato in facoltà annullando tutte le sue prossime lezioni. Furono sistemati su alcune brande. Mentre Luca e Raul si trovavano stesi, Roberto aveva i gomiti poggiati sul piccolo davanzale di una finestra che si trovava sulla rampa di scale che immetteva alla cantina. Mentre fumava ansiosamente la sua pipa, contemplava il cielo. Il manto di stelle che ricopriva il tetto del mondo, questa notte, era luminoso più che mai. Le stelle brillavano con tutta la forza che riuscivano ad infliggere alla loro luminosità. Roberto, per la prima volta, stava osservando quello spettacolo con un occhio diverso… non erano soli… lì… lontano… tra quelle stelle e dentro quel tunnel abissale che è lo spazio in tutto il suo ignoto, c’era qualcun altro, che un tempo era assiduo frequentatore del “piccolo” pianeta terra… o forse anche qualcosa in più. Raul e Luca stavano cercando di lasciar andare i loro mille quesiti nel denso mare del sonno che li stava aspettando al varco, ma, a volte, le domande prendevano inevitabilmente vita. <<Che pensi?>> Chiese Luca. <<Vorrei non pensare a niente!>> Rispose Raul. <<Ma?>> <<Ho paura di ciò che non riusciamo a comprendere!>> <<Strana storia quella del “LORO HANNO FATTO NOI”>> <<Già, più penso a quelle parole, più rabbrividisco!>> Disse Raul. <<Prese letteralmente dovremmo pensare che ci ha creato qualcun altro?>> Chiese Luca, a voce bassa, quasi a non voler farsi sentire. <<Cazzo Luca! Non mi va di parlare di queste stronzate!>> Il discorso cadde lì, sulla suscettibilità di Raul e sulla paura di Luca che aveva assunto le vesti di una domanda. Prima di abbandonarsi al sonno Luca rimembrò dolcemente gli anni in cui aveva sgobbato duramente sui libri con la speranza, un giorno, di scoprire qualcosa di importante, momento che era


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giunto. Raul si era perso nel pericoloso tragitto che portava al suo amore, che lo aveva lasciato e trattato a pesci in faccia, ”Pensa a fare qualcosa di concreto!”, beh… mia cara, pensò lui, sto cambiando il mondo. Commento forse grossolano, ma a lui non importava, si stava sentendo importante, uno di quelli che finiscono nei libri di storia e per il momento, questo gli bastava. Samuel aveva condiviso il letto con una terribile solitudine. Aveva baciato dolcemente sulla fronte Simona e la bambina, ed era andato nella sua camera a dormire in un letto freddo. Era il prezzo, piccolo, per quello che stava facendo, ci può stare, pensò. E fuori c’era Caserta, palcoscenico di fatti che stavano nascendo contro ogni previsione e con l’obbiettivo primario di cambiare la cognizione di passato… e chissà forse anche di futuro. Quella notte il mondo aveva lo sguardo rivolto verso quella villa del casertano, dove quattro archeologi stavano affrontando i propri incubi. Archeologi che presto avrebbero avuto la loro notorietà. L’asfalto, per strada, brillava sotto la tenue luce di una maestosa luna piena, che si ergeva, dominando la notte e vegliando su chi, la notte, la viveva. Un delirante vento rombava, pieno di collera, contro le vetrate degli appartamenti, dando l’impressione di poter entrare da un momento all’altro. Nel caos che dominava il pianeta alcune pedine errano state mosse con successo, c’erano vite non terrestri, c’era la solitudine che andava scomparendo, c’era il sospetto che intorno a noi ci potesse essere qualcuno, notevolmente più evoluto, che ci osservava da millenni. Con una panoramica dall’alto su Caserta, si potevano distinguere i tossici che avevano litigato con la vita e cercavano di disprezzarla ad ogni nuovo buco, si potevano osservare famiglie serene mentre dormivano sogni di miele, ma soprattutto si poteva osservare l’indifferenza delle persone di fronte ad un mondo che con tutti i suoi abitanti cadeva a picco. Erano buoni? Le forme di vita più evoluta, erano buoni? Cosa volevano? Perché erano spariti? Domande che disturbavano assiduamente il sonno dei quattro archeologi e che avrebbero trovato nuovi ingredienti nella traduzione dei versi che ancora erano arcani. Quando gli occhi erano stati chiusi e il sonno era prossimo alla venuta, tutti, all’unisono, avevano sperato che quella notte sarebbe potuta volare via nel più breve tempo possibile, per dare nuova linfa alle loro domande e soprattutto per dare pace alle loro risposte. Ma quella notte aveva deciso di non essere clemente, di non voler sentire ragioni. Aveva deciso di passare nel


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modo più lento possibile, assumendo un ruolo da protagonista nelle vicende che stavano sbocciando, sicuramente, non per la prima volta. Quello che stava accadendo, per la terra, non era niente di nuovo, se le tavole corrispondevano al vero. Il mondo, in 3500 anni, era certamente mutato, ma sotto la corteccia era rimasto sempre lo stesso, mari, terre, monti e cielo. Samuel ebbe un infinito tormento durante le poche ore concesse al riposo del suo corpo. Si era girato e rigirato tra le lenzuola, sperando di trovare conforto, ottenendo però, solo incubi. Roberto era riuscito ad andare “in pace” quasi subito, salvo poi scoprire a poco a poco l’inferno celato nella sua mente. Inferno formato da strani esseri, navi spaziali e supreme torture. Raul aveva nominato, più volte, il nome del suo amore e riso altrettante volte, forse, per quello che stava maturando, di giorno in giorno, sotto i suoi occhi. Luca sembrava il più tranquillo e ogni tanto i suoi pensieri erano accompagnati dalla figura di Ramirez, chissà cosa stava facendo quel vecchio volpone, pensava. Chi non aveva bisogno di rassicurazioni erano Simona e Valery. Strette in una morsa di calore, fotografate da un tenero abbraccio che le donava gioia e amore. Era un mondo strano quello che stava vivendo lì fuori e con il passare delle ore la stranezza avrebbe assunto i colori della paura. Quando il sole sarebbe giunto a riscaldare le vetrate che avevano lottato duramente contro il gelido vento, sarebbe stato l’evidente segno d’inizio di un’altra giornata contornata da libri e fame di sapere. Ogni giorno poteva essere quello buono per dare un senso compiuto alle loro traduzioni e soprattutto per cercare di capire che cosa nascondeva un passato mai così recente. C’era ancora qualche piccola luce artificiale che cozzava distintamente contro le prime luci di un freddo mattino. Quella luce avrebbe cercato di illuminare il tortuoso percorso che si cela nella ricerca della verità. Sarebbe stato un giorno pieno, pieno di passione, di delusioni, di sorrisi e gesti accorti, pieno di notizie su quello che il mondo era stato e su quello che sarebbe diventato e quel giorno avrebbe portato con se la paura di nuove e temute scoperte.


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9. RIVELAZIONI CASERTA (ITALIA)

Due grossi corvi neri erano a guardia del maestoso giardino che addobbava perfettamente la casa di Samuel. Una notte di pensieri burrascosi era trascorsa, trascinando con se tutte le incertezze che erano state partorite. Il cielo, stamane, sembrava una vecchia pellicola colorata, presentava un intenso blu, accompagnato da piccole macchie bianche (le nuvole) e da squarci rossastri, ultimi respiri di un’alba che stava morendo. Caserta si era svegliata presto, o forse era stata svegliata da strani personaggi che girovagavano per le sue strade, convinti di avere qualche scopo che non c’era. Ogni città subisce sempre, volente o nolente, il peso dei propri abitanti e Caserta doveva fare i conti con una popolazione non certo di prim’ordine. Il cinguettio dei pochi uccelli che ornavano il cielo somigliava ad una triste melodia di un vecchio disco, rotto di tanto in tanto, dal fracasso di una battuta persa. Se il mondo, in quel momento, avesse fermato il suo moto perpetuo, si sarebbe scontrato, in un'inevitabile boato, con l’incapacità delle persone di accettare che qualcosa di molto bello e di unico, stava per finire. Quando Luca diede luce ai suoi occhi, notò una figura in piedi, dinanzi al suo letto, circondata da nuvole nere, pensò ad un incubo, ma quando ebbe modo di abituarsi alla luce riconobbe Roberto che riempiva il suo corpo di sostanze cancerogene. Raul aveva ripreso i sensi poco dopo e i loro primi secondi, del nuovo giorno, ebbero come sottofondo un imbarazzante silenzio, rotto, di tanto in tanto, da decisi respiri. <<Dormito bene?>> Chiese Roberto ai due, mentre ultimava la pulizia della sua pipa. Raul rispose con una smorfia. La sua non doveva essere stata una gran notte. <<Abbastanza… ma la voglia di giungere presto a stamattina era immensa!>> Rispose Luca. Il sorriso di Roberto fu interpretato come un “anche io, puoi giurarci”. Il sole imponeva le 11.00, tutti avevano dormito poco, ma avevano abbastanza entusiasmo da spaccare il mondo. Si udirono dei passi che stavano percorrendo velocemente le scale. Giunse Samuel.


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<<Sveglia… dormiglioni! Sopra ci sono i cornetti, affrettiamoci che il lavoro ci attende!>> <<Non dovevi!>> Disse Roberto. <<Basta con i complimenti e sotto con le tavole!>> Fu la risposta di Samuel accompagnata da un sorriso. Mentre i tre ultimavano la vestizione, sopra, Samuel stava esprimendo le sue mille incognite alla moglie. <<In quelle tavole si parla di vita aliena, ma ti rendi conto?>> Si sfogò Samuel. <<Da non crederci… quante tavole avete tradotto?>> Chiese Simona. <<Due, manca la terza indiana e quella Maya!>> <<Amore, io sono qui, qualsiasi cosa sai che puoi contare su di me!>> Fu l’incoraggiamento si Simona. Samuel le aveva parlato, aveva rivelato degli alieni, ma non le aveva detto tutto, non poteva, non ancora. Giunsero tutti in cucina e trovarono Samuel immerso fino alla gola in un denso groviglio di pensieri. <<Sveglia… hai avuto tutta la notte per dormire!>> Disse scherzando Raul. Samuel si riprese da quella specie di torpore che lo aveva afflitto. <<Mangiate, ci attende un duro lavoro!>> L’unico che ancora doveva dare vita alle sue corde vocali era Roberto, sembrava più serio che mai. Avevano cercato di evitare, almeno durante la colazione, l’argomento delle traduzioni. Ma su tutti loro aleggiava un velo di paura per quello che li poteva attendere. Avevano immaginato e l’immaginazione a volte spinge troppo lontani, ma forse, questa volta non era riuscita nel suo intento, non aveva superato la realtà, neanche minimamente. Fu una colazione rapida, in quanto dopo pochi minuti tutti e quattro erano ai loro posti di combattimento. Avrebbero avuto l’appoggio della luce naturale per molto tempo, ma la buona vecchia lampada sarebbe stata, per forza di cose, indispensabile. In questo momento c’erano due mondi, divisi e uniti allo stesso tempo. C’era il mondo esterno che mandava avanti la sua classica routine nel modo più prevedibile possibile senza possibilità di variazioni e poi c’era il mondo che, un po’ alla volta, stava crescendo in quello studio che per tanto tempo era stato solo un inutile stanza di una lussuosa villa. Erano due mondi che, a


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tratti, si scambiavano il posto, facendo rimanere immutate le loro caratteristiche. I quattro cavalieri erano posizionati e pronti <<Avevamo terminato con la parola “TORTURATI”, giusto?>> Chiese Roberto, conoscendo gia la risposta, in cerca di rassicurazioni. <<Si… proseguiamo!>> Rispose Luca. Ripresero la traduzione e dopo un bel po’ di tempo composero le prime frasi. Una volta scoperto quella diavoleria di codice, la traduzione risultava molto più scorrevole e sensata. TESTIMONIANZA DI RAPIMENTO Fu la prima, piccola, frase tradotta. <<C’è un netto stacco con ciò che abbiamo tradotto ieri!>> Disse, dubbioso, Roberto. <<Sembra quasi un diario, o come giusto abbiamo tradotto, una testimonianza!>> Asserì Raul. Testimonianza di rapimento, la cosa diventava spregiudicatamente accattivante, l’ipotesi “alieni” prendeva sempre più vigore e anche gli scettici sarebbero caduti in qualche colossale dubbio. <<Quella che segue è la cronaca diretta di qualcuno che è entrato a stretto contatto con loro!>> Disse Samuel. <<Strettissimo… direi!>> Aggiunse Raul. I simboli ricominciarono a prendere significato: MI TROVAI IMPOSSIBILITATO A COMPIERE MOVIMENTI, ANDAI A LETTO CON MIA MOGLIE E MI RITROVAI QUI: MANI E PIEDI LEGATI CON CORDE DI UN MATERIALE SCONOSCIUTO… Il racconto, o meglio, la cronaca di quell’avvenimento, accaduto secoli prima, stava diventando serratissimo. La rauca e tremolante voce di Roberto conferiva a quelle parole un enfasi particolare. Si sentivano osservatori curiosi di un mondo che mai avrebbero immaginato così sconvolgente. Loro, quattro “signor nessuno”, stavano ap-


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prendendo cose che se avessero scoperto nell’AREA 51, Dio solo sa quello che poteva accadere. Avevano tradotto davvero poco, ma già il sole indicava che il pomeriggio era prossimo alla venuta. Tra un vocabolo e l’altro avevano rimpinzato le loro pance con alcuni panini che gentilmente Simona aveva portato. Tutti invidiavano Samuel per la sua dolce metà, una donna fantastica, amorevole, gentile e soprattutto una donna intelligente, che capiva le cose e appoggiava Samuel sempre e comunque. Stavano traducendo la cronaca di un rapimento alieno, che già di per sé era una cosa straordinaria, ancora più impensabile in quanto si trattava, circa, di 3500 anni prima. Le parole, di quella lingua dimenticata, fecero cadere la loro maschera e ripresero a mostrarsi sotto il loro reale significato. …VIDI TRE DI LORO, AVEVANO LA PELLE NERA E LUCENTE, ALTI ALL’INCIRCA DUE METRI, FORSE ANCHE QUALCOSA IN PIU’. I LORO STRIDULI VERSI CAUSAVANO TORMENTO AL MIO FRAGILE UDITO. STETTI MOLTO TEMPO IMMOBILE, MENTRE LORO MANEGGIAVANO STRANI STRUMENTI LUCENTI. POTEI OSSERVARE CHE OGNI MANO ERA COMPOSTA DA TRE DITA, LUNGHE E SOTTILI, CHE TERMINAVANO CON UN APPUNTATISSIMA UNGHIA. IL LORO CORPO ERA SNELLO E AGILE… MA LA TESTA… ERA LUNGA, ORIZZONTALMENTE, LEGGERMENTE RICURVA ALL’INGIU’ E FACEVANO PAURA… Roberto, volutamente, interruppe quella cronaca piena di terrore. Un terrore che chiunque avrebbe potuto respirare attraverso quelle parole che vestivano di una sofferenza angosciante. Tutti pensarono la stessa identica cosa, mai e poi mai avrebbero voluto trovarsi in una situazione come quella di cui stavano apprendendo. <<Vi rendete conto? Le reali testimonianze di un rapimento alieno… sono reali!>> Ripeté, più volte, Luca. <<A me questa storia sta facendo venire i brividi!>> Commentò Samuel. <<Tutto questo non deve assolutamente uscire da queste quattro mura, almeno finché non ci capiremmo qualcosa in più!>> Ordinò Roberto. Furono tutti d’accordo, tutti convinti che sapevano ancora troppo poco.


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Ripresero il viaggio …SI AVVICINARONO… ARMEGGIANDO UNO STRANO STRUMENTO, CHE CAUSAVA UN ASSORDANTE RUMORE, DELLA BAVA PUTRIDA MI CADDE SUL VISO… AVEVO PAURA… NON RIUSCII A CAPIRE CHE STRUMENTO FOSSE, IN QUANTO ERO STESO ORIZZONTALMENTE, MA IL DOLORE CHE PROVAI QUANDO, LENTAMENTE, INCOMINCIARONO A TRAPANARMI IL CRANIO FU UNA DURA PUNIZIONE INFLITTA PER UN MALE CHE NON AVEVO COMMESSO… AVREI AVUTO BISOGNO DI TUTTE LE STELLE DEL CIELO PER DESCRIVERE LA LANCINANTE SOFFERENZA CHE INVASE IL MIO CORPO… <<Cazzo!>> Esclamò Raul. <<Che razza di cosa è mai questa?>> Continuò. Roberto lo guardò con un aria severa, ma percepì negli occhi del ragazzo e degli altri due un particolare disagio. Disagio che lui stava nascondendo bene, ma che prima o poi avrebbe reso visibile. <<Quello che sta venendo fuori è strano, forse terrorizzante, ma noi, ora, siamo degli osservatori e dobbiamo mantenere la calma!>> Disse Roberto, facendo quasi una ramanzina ai suoi ragazzi. …MI INFLISSERO DEI TAGLI SUL CRANIO, LA MIA CALOTTA CRANICA FU APERTA, ED IO ERO ANCORA IN VITA, PUR DESIDERANDO UNA MORTE VELOCE… Brutti bastardi, pensò Samuel. Pensiero che si manifestò sotto altre forme anche negli altri. Il sole stava cedendo, era ancora alto, ma la sua luce aveva assunto i classici toni caldi del tramonto. Avrebbe retto ancora per poco, lasciando spazio alla “donna di casa”. Corso Giannone era un brulicare di macchine, vigili fischiettanti e furbi automobilisti, in cerca del posto per scendere da Blockbuster, per trascorrere una serata emozionante e fuggire dalla routine , che affliggeva, soffocava e assumeva le sembianze di un circolo vizioso. Nel frattempo, tra le mura segrete, la traduzione proseguiva


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…SEMBRAVA STESSERO RIDENDO, MA NON NE ERO SICURO… NON ERO SICURO DI NULLA. SENTII, IMPROVVISAMENTE, PUNGERE SUL MIO CERVELLO “NUDO” CON DEGLI STRUMENTI APPUNTITI… LE LACRIME CHE ACCAREZZARONO IL MIO VOLTO STRAZIATO FURONO LE UNICHE TESTIMONI DEL BARBARO ORRORE CHE STAVO VIVENDO… MI RITROVAI A CASA, SENZA CAPIRE NE’ COME, NE’ PERCHE’. RAPIRONO MOLTI DI NOI… QUASI QUOTIDIANAMENTE. Quella specie di cronaca diretta dall’inferno era terminata. Aveva lasciato nell’aria uno strano sapore di amarezza che si amalgamava alla perfezione con la tensione che si poteva percepire al tatto. Lo spettro di un passato oscuro e mai così ignoto si era imprigionato delle menti dei quattro archeologi, trasportandoli, attraverso dei binari immaginari, in luoghi sconosciuti della mente. Quel chiassoso silenzio, che aveva disturbato e non poco, fu rotto da Samuel. <<Quanto manca alla fine della tavola?>> <<Non molto, calcolando che stiamo sgobbando da più di nove ore, non molto!>> Rispose l’anziano professore. <<Terminiamo, lasciamo tutti i commenti a dopo!>> Proseguì Samuel. Bussarono alla porta, era Simona. <<Vi siete fossilizzati?>> <<Amore, mi dispiace, ti sto trascurando ma…>> Simona arrestò il moto delle labbra di Samuel con una mano. <<Tranquillo… volete mangiare?>> Le loro inequivocabili facce furono un enorme SI. La casa di Samuel era diventata un albergo, almeno in questi giorni, ma a lui faceva solo piacere. Ripresero, per giungere alla fine CI RIBELLAMMO, CONSAPEVOLI DELLA NOSTRA INFERIORITA’ DI FRONTE AI NOSTRI CREATORI… I nostri creatori? Ci fu un momento di sorpresa misto a terrore quando quelle parole si levarono nell’aria e presero vita.


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<<Stop… stop… questo me lo dovete spiegare!>> Sbottò Raul, accompagnato da cenni di assenso, con il capo, da Luca. Roberto, per la prima volta, sembrò indeciso sul da farsi, privo di una qualsiasi risposta. <<I nostri creatori? Questa è bella!>> Commentò Samuel. <<Stiamo scoprendo una cosa più grande di quello che pensavamo… e forse era meglio non scoprirla!>> Le parole di Roberto fecero tremare le mura dello studio, per via della loro, tagliente, serietà. Erano parole assurde, quelle delle tavole, ma cosi assurde da essere, forse, spaventosamente vere. <<Andiamo avanti! Andiamo!>> Disse Roberto a voce alta, tanto che probabilmente il suo suono giunse anche all’orecchio della piccola Valery, intenta nella battaglia del sonno. CI HANNO FORMATO… CREATO E MESSI IN UNA GABBIA CHIAMATA PIANETA TERRA, MA CI AVEVANO TORMENTATO TROPPO… FU UN MASSACRO… QUANDO CAPIRONO CHE NOI, DEBITORI A LORO DELLA NOSTRA ESISTENZA, CI STAVAMO RIBELLANDO, NON ESITARONO A STERMINARCI, POCHI SOPRAVVISSERO, TRA CUI IO… MA AVREI PREFERITO MORIRE CHE ASSISTERE A TUTTO CIO’. La terza tavola era terminata e con essa era terminato anche il via vai di parole che si stavano scontrando nello studio. Qualcosa si era mosso! Qualcosa stava cambiando! Un qualcosa che forse sarebbe stato meglio non sapere!


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10. STELLE INFRANTE CASERTA (ITALIA)

Le parole che stavano girovagando in cerca di riparo erano rimaste completamente nude e indifese, non esisteva risposta che poteva conseguire a quel fiume in piena di domande che tartassava le loro menti. Il freddo poggiava delicatamente la sua sofferenza sui volti delle persone che correvano all’impazzata per le strade di Caserta. Osservando i visi della gente, attentamente, davano l’impressione di sapere già tutto, di conoscere da dove venivano, dove erano e dove andavano, conducendo una vita senza misteri, consci di possedere delle cose che in fondo non avevano mai avuto. Il vecchio Bobby abbaiava ad ogni folata di vento più forte che ululava all’ingresso della sua cuccia. Era una notte per dormire, per starsene accoccolati sotto caldi piumoni, e trovare la pace pensando al gelo che si respirava appena fuori dalla finestra. Si dice che la notte porta consiglio, ma quella notte aveva portato con se una marea di enigmatiche perplessità, in balia di quattro menti alle prese con confessioni troppo pesanti per giungere così velocemente. Qualcuno, questa notte, stava filmando una delle scene più importanti di un film di fantascienza e il set era un modernissimo studio che rifletteva la sua eleganza sugli straziati volti dei quattro protagonisti. Le parole, i simboli che avevano tradotto erano stati spaventosamente chiari, avevano provato a tradurre e ritradurre, ma il risultato non si discostava dal primo. Ciò che avevano tradotto era ciò che una persona aveva voluto mettere al servizio del mondo 3500 anni prima. Bisognava incominciare a fare i conti con tutto questo, era una cosa mai pensata, mai detta, una cosa impossibile, tremendamente irreale, ma palesemente scritta. Era inutile continuare a girare intorno ad una frase che nessuno aveva il coraggio di scandire, l’uomo non era stato creato da Dio, il sommo creatore non esisteva, non era mai esistito. L’uomo, la sua razza, era stata creata da esseri, abitanti di un altro pianeta, l’uomo era un loro esperimento, un loro miscuglio genetico. <<Siamo roba loro?>> Chiese, con voce tremolante, Luca. Il movimento della testa di Roberto, per rivolgere l’attenzione verso Luca, fu molto lento, forse volutamente. <<Ragazzo… abbiamo letto insieme, ne so quanto te!>>


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<<Se ci pensiamo attentamente è una cosa pazzescamente possibile!>> Affermò Raul. In effetti era così, era possibile, forse anche qualcosa in più di una semplice possibilità. <<Porca puttana…>> Esclamò Samuel. <<…e allora la storia di Gesù? Gli apostoli? Giuda? Dio?, tutte colossali stronzate?>> Roberto avrebbe voluto rispondere “no, assolutamente no!”, ma non poteva, per suo grandissimo rammarico, non poteva. <<Tutto questo ci ha fatto intraprendere un tragitto di cui non conosciamo la strada! Se è vero tutto ciò, vuol dire che probabilmente, per tutto questo tempo “loro” ci hanno osservato e ancora lo stanno facendo!>> Fu il monologo di Roberto, pronunciato a voce bassa. Erano somme troppo facili da tirare, era davvero tutto così scientifico? Niente Dio! Niente Paradiso o inferno! Niente di niente… Solo carne, fiato e suoni… La morte era la fine… nessun ultimo viaggio! Una lacrima cominciò a scorrere sul viso di Raul. <<Amico… dai, che cosa piangi?>> Disse Samuel. Raul pose la sua mano sinistra sul viso e levò quella dannata lacrima che era uscita senza chiedere permesso. <<Non posso reggere tutto questo… io credo, con tutto me stesso, in Dio. Senza Dio non c’è speranza, non c’è niente…>> La sua frase non finì e questa volta mille lacrime fuoriuscirono con il benestare dei suoi occhi. <<Raul? E’ ancora tutto da verificare!>> Disse Samuel. <<Potrebbero essere le fandonie di un pazzo! Vero Roberto?>> Quanto avrebbe voluto rispondere di si, quanto avrebbe voluto mettere la parola fine a quelle errate supposizioni. Roberto rispose con un lungo silenzio, terminato con un abbassamento del capo, quasi in segno di resa. Non ci fu risposta alla domanda di Samuel, né di Roberto, né di nessun altro. Decisero che il momento di riposare era giunto, con la consapevolezza che per tutti sarebbe stata un notte buia e silenziosamente triste.


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Quando tutti andarono via e spensero la luce, quello studio sembrava che si stesse chiedendo il perché di tanto scalpore, chi l’aveva detto che la storia del Dio buono e misericordioso era reale? Qualcuno aveva dato delle garanzie? Qualcuno ci aveva messo una mano sul fuoco? Qualcuno, per caso, aveva portato prove assolutamente inconfutabili? No! No! No! Leggende, favole, storie, che si stavano disastrosamente scontrando con una cruda, sconvolgente, realtà. Erano andati a poggiare i pensieri su un freddo cuscino, riproponendo il giuramento di non dire niente ad anima viva. L’unica parte di mondo che in quella tetra notte era cambiata, era quello studio, in quanto cosciente delle nuove e scottanti verità. Il resto di quello che ruotava intorno a quella casa sembrava proseguire il suo viaggio con un’inalienabile certezza di sapere già tutto. Quattro pazzi affermavano che Dio non esisteva e che l’uomo era stato creato da una razza superiore… Sarebbero stati rinchiusi in un manicomio e scomunicati a vita. Quando Samuel aprì la porta della sua camera vide la moglie che aveva chiuso gli occhi e fingeva di dormire, pessima attrice, pensò. Indossò il suo caldo pigiama felpato e diede al suo corpo infreddolito il sollievo di un soffice piumone. <<Amore? E’ inutile che fingi di dormire!>> Disse Samuel. <<Uffa! Con te non riesco a fingere!>> Rispose Simona. <<Perché sei ancora sveglia?>> <<Non riuscivo a dormire!>> <<Come va la piccola? E’ un po’ di giorni che sono assente!>> <<Ok… stanno preparando una recita a scuola, lei farà il diavoletto!>> Samuel sorrise, un sorriso che divenne amaramente pesante. Il diavoletto? Certo… e poi magari c’erano anche gli angeli e Gesù! Frutto di un immensa fantasia di qualche folle scrittore. Una finta rappresentazione della finzione, pensò. Simona vide il viso del marito visibilmente turbato. <<Ehi… tutto ok?>>


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Samuel prese tempo. <<Si… solo mi spiace, vi sto trascurando!>> Ottima risposta. <<Stai tranquillo… come va con le traduzioni?>> Ecco, il tasto dolente era stato toccato e i meccanismi erano stati messi, rumorosamente, in moto. Non poteva dirle niente. <<Tutto bene, ma siamo ancora in alto mare!>> <<E dai… anticipami qualcosina, sono curiosa.>> Pessima situazione. <<Te l’ho detto, niente di ché!>> Disse Samuel, poco convinto. <<Se non vuoi dirmelo basta che me lo dici!>> Rispose Simona, un po’ infastidita dall’atteggiamento del marito. <<Abbiamo scoperto delle cose, ma ci siamo ripromessi di non dirle a nessuno, almeno per il momento!>> <<A nessuno?>> <<A nessuno amore, mi spiace!>> La loro conversazione terminò con quel “mi dispiace”. Simona cinse un braccio intorno al corpo di Samuel e si addormentarono accoccolati come dei piccioncini, o meglio, si addormentò. Perché Samuel, di dormire, non ne avrebbe avuto la possibilità, visto il mondo che si era improvvisamente capovolto e che aveva velocemente falsato tutti i capisaldi su cui si era retta la storia dell’umanità. Roberto aveva effettuato la solita sosta di fronte alla finestra, nell’intento di saziare, i suoi polmoni, di fumo e questa volta a fargli compagnia, in questo rituale di morte, c’era Raul. Il ragazzo era quello che era uscito più scosso dalle traduzioni. Scoprire, di punto in bianco, che tutto quello in cui si è sempre creduti è una favola e che devi la vita a dei mostriciattoli neri, non era una cosa che accadeva tutti i giorni. Le stelle, in questa notte densa, sembravano affogare la loro lucentezza in quel lugubre mare che era il cielo. In quei giorni avevano fatto miliardi di passi all’indietro nel tempo, per poi ritrovarsi più avanti di quanto avrebbero potuto immaginare. Il fumo che usciva dai loro polmoni sembrava gia conoscere la strada da intraprendere, filava via, fuori dalla finestra, come un fiume che segue il suo quotidiano corso.


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I pensieri di Roberto si fermarono saldamente sulla tavola Maya, l’unica ancora avvolta dal mistero. Cosa racchiudeva? Ci si poteva aspettare delle conferme? Ma di che tipo? Sotto quale forma? La sua ultima folata di fumo sembrò volare via come un fantasma in cerca di qualcuno da spaventare. Gli sguardi dei due fumatori si erano fossilizzati su quell’enigmatico cielo. Mai, come stanotte, quel cielo racchiudeva tutte le domande senza risposta, rappresentava la strada asfaltata di pazzesche astronavi. <<Ci pensi… noi guardiamo su e loro guardano giù!>> Disse Raul, mentre con lo sguardo stava bruciando il cielo. <<Se davvero ci stessero osservando?>> Domandò, accigliando il volto, Roberto. <<Che vuoi dire?>> <<Se sapessero quello che facciamo?>> <<Continua!>> <<Avrebbero scoperto che noi sappiamo di loro!>> Fu una frase a cui Raul non era preparato per rispondere. <<E cosa dovremmo aspettarci? Una loro visita?>> Commentò, ironicamente, Raul. <<Non lo so, ma penso sia inutile riderci su, proprio inutile!>> Rispose Roberto, lasciando Raul solo, di fronte alla finestra che in quel momento affacciava sul più assoluto ignoto. Raul si sentì improvvisamente indifeso, solo, con la sua sigaretta, quasi ripudiandola, ma allo stesso tempo godendo per il fumo intenso che gli aveva saputo regalare. I suoi incubi presero vita ed incominciarono a camminare su un immaginario parquet composto da luci e ombre. Gli avrebbe fatto molto comodo dormire, ma il sonno lo avrebbe ripudiato perché infetto da una strana forma di elevata eccitazione. Per una frazione di secondo, lungo quasi il battito d’ali di un pennuto che aveva incrociato la visuale della finestra, Raul pensò alla sua vita, alla somma dei suoi molteplici errori ed al disastroso totale che sarebbe pesato sul suo intero futuro. Si disse, quasi convincendosene, che non poteva essere tutto vero. Che Dio non poteva scomparire da un giorno all’altro. Che gli alieni potevano essere tranquillamente una colossale burla.


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Ma poi, un accecante bagliore di realtà spazzò via, come polvere al vento, tutti quei confortanti pensieri. Quell’incubo si stava specchiando nella realtà e rifletteva la sua immagine, per quanto tetra e incomprensibile potesse essere. Il mondo era come un fiore che stava perdendo i suoi petali, costretti a cadere da un peso troppo eccessivo per essere sostenuto. Quando gettò la cicca fuori dalla finestra, uno scossone di vento la accolse tra le sue braccia e la trascinò lontano per cercargli una degna sepoltura. Raul, prima di giungere in camera, diede un’ultima occhiata verso il cielo, quasi a voler controllare che nessuna astronave stesse per squarciare il tetto del mondo. Quando giunse vicino alla sua brandina ebbe un’improvvisa nostalgia del suo letto, delle sue comodità, ma lì si stava scoprendo la storia, pensò, e cercò di infilarsi a letto causando il minor fastidio possibile. <<Raul?>> Era Luca, ancora, perfettamente, funzionale. <<Ehi, ancora sveglio!>> <<Si… acceso come una lampadina!>> Intanto Roberto sembrava un bambino beato che si stava lasciando cullare dalle braccia di Morfeo. <<Roberto dorme?>> Chiese Raul. <<Si… appena si è steso è partito!>> Ci fu qualche secondo di silenzio, rotto da una domanda di Luca. <<Come va amico?>> <<Che intendi?>> <<Ti ho visto un po’ scosso!>> Ribatté Luca. <<Sai com’è… nel giro di pochi minuti ti dicono che tutto ciò su cui hai fondato la tua vita è una farsa…>> <<Brutta storia… brutta stoia…>> Commentò Luca, più volte. Più in là, nel cuore di quella notte, in cui si percepiva una densa aria di novità, un piccolo ma terrorizzante pensiero andò a trovare Raul. Nei suoi incubi, ci si infilò senza chiedere permesso. Ci rimase per il resto della nottata. E se “loro” ci stavano realmente osservando? Se stavano organizzando una spedizione, per scendere “giù” e punire loro quattro?


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Un pensiero, che nonostante lo colse nel sonno, lo fece rabbrividire. C’era un mondo d’incognite pronte a balzare alla gola di ignari passanti. Era una novità troppo remota per esserlo realmente. Sarebbe passata l’ennesima notte, per far posto all’ennesimo giorno e questo si sarebbe ripetuto più e più volte… Si… Ma ancora per quanto in questa normalità che stava per essere spodestata?


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11. GABBIA DI TERRA CASERTA(ITALIA)

Quando il giorno decise di tornare, facendo riemergere un pallido sole coperto da uno strato di desolazione, Caserta dormiva ancora, dormiva sogni tranquilli, sogni beati, sogni che erano la conseguenza di menti sgombre da ogni, traumatico, pensiero. Il sole aveva trascinato con se un cielo plumbeo, imbottito di grossi nuvolosi neri, a loro volta imbottiti da schegge di pioggia taglienti. Il pianeta terra non era pronto per essere sconvolto, ma probabilmente non lo sarebbe mai stato. La reggia era illuminata da un fioca luce e dava l’impressione che dinnanzi al sole ci potesse essere un qualche filtro per catturare i raggi positivi e far passare solo il male. C’erano state le notti irrequiete dei quattro archeologi, notti passate girandosi e rigirandosi, vagando, con l’ausilio della mente, verso luoghi oscuri, schiavi di un ignoto padrone. Non era trascorso molto tempo da quella notte stellata in cui Luca aveva scoperto le tavole. Quello era un mondo che lasciava presagire orizzonti di gloria, questo era un cielo che si stava riempiendo, di volta in volta, di tutte le tonalità più tristi che possedeva, come a voler presagire che il tempo delle emozioni e della gioia doveva essere messo da parte. Il piccolo chiosco situato davanti alla reggia, questa mattina, aveva avuto molte difficoltà a tirare su i battenti, una feroce ondata di pesanti gocce di pioggia aveva invaso le strade e i consueti quotidiani che addobbavano il suo negozietto erano rimasti al coperto, privi di luce. I soldati della vicina caserma stavano battendo gli scarponi in gelide pozze d’acqua, contornati da una scrosciante pioggia. Non era una giornata serena, almeno il mondo non lo era affatto. Via Roma sembrava una fila impazzita di animali che a tutti i costi stavano cercando di scappare da un inevitabile macellazione. E intanto la pioggia, con il suo ritmo continuo e melodioso cercava di purificare il mondo, panchine arrugginite, automobili in movimento, cani pulciosi, case confortevoli.


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Gli unici a non voler essere purificati erano le persone, arrogantemente sicure di non aver bisogno di purificazioni, nascoste sotto grossi ombrelli colorati che visti dall’alto formavano un pazzo mosaico senza senso. Era stato l’aroma del caffè ad accompagnare il risveglio di Samuel. Aveva aperto stancamente gli occhi e aveva messo a fuoco la figura di sua moglie che reggeva, tra le mani, un vassoio. <<Addirittura colazione a letto!>> Disse Samuel, ancora insicuro di essere uscito dal mondo dei sogni. <<Te lo meriti! Ma non prenderci l’abitudine!>> Rispose, sorridendo, Simona. Ora era ufficiale, era sveglio, si era dolorosamente scottato le labbra con quella dannata bevanda bollente. Il caffè sembrava amaro, ma forse era la conseguenza dell’amarezza a cui si era lasciato andare la notte precedente. La moglie lo lasciò solo nella stanza e Samuel, dopo aver salutato la figlia diretta a scuola, decise di restare qualche secondo in più a letto. Facendo una breve analisi mentale, oggi sarebbe potuto essere il giorno più importante. Avrebbero tentato la traduzione dell’ultima tavola, quella diversa dalle altre, quella che era stata trovata ingiustificatamente in India, quella Maya. Posò delicatamente lo sguardo su un crocifisso che capeggiava sulla parete alle sue spalle. Il suo sguardo fu una dolorosa lotta tra sofferenza e speranza. Ci sei? Si chiese tra sé e sé. Era probabile… avevano scoperto la più grande stronzata del mondo… Ma allora la chiesa? Il matrimonio? Io e Simona? Pensò. Stava uscendo fuori strada, le sue domande lo stavano trascinando attraverso stretti passaggi che sbocciavano su una dimensione la cui aria era formata da gas allucinogeno. Poggiò entrambi i piedi in terra e avvertì il gelo che il pavimento aveva intrappolato tra le sue mattonelle. Aveva sempre sostenuto che la camera da letto doveva essere meno sfarzosa possibile e così era stato. La sua era semplice, come di quelle, gia composte, che si vedevano sui cataloghi dell’IKEA.


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Avrebbe indossato, alla rinfusa, degli abiti e sarebbe sceso per condurre i suoi compagni sul cantiere, dove stavano costruendo le basi della storia del genere umano. Gli occupanti della camera degli ospiti erano già tutti svegli. In quella stanza c’era una luce naturale che piombava su ogni persona e la rendeva incredibilmente livida. <<Roberto… oggi, forse, avremmo delle risposte? >> Chiese Raul. <<Spero di si… anche se non ho idea di cosa racchiuda quella tavola!>> Rispose. <<Già e nemmeno come diavolo sia potuta finire lì!>> Aggiunse Luca. <<Si amico… hai perfettamente ragione! Roberto? Tu ti sei fatto qualche idea?>> Domandò Raul. Roberto catturò alcuni secondi e li portò dalla sua parte per avere il tempo di riflettere sul da dirsi. <<So solo che il disegno Maya può essere, quasi sicuramente, collegato alle tavole indiane!>> Fu questa la risposta di Roberto. Il dibattito che stava proseguendo a ritmo incessante fu interrotto dall’apertura della cigolante porta d’ingresso. <<Ragazzi? Siamo pronti?>> Era Samuel, che si era presentato portante la colazione, con l’intento di spronarli a fare in fretta, ma non ne aveva avuto bisogno, erano tutti pronti all’appuntamento con la storia. La durata della colazione era scesa nella clessidra del tempo, ad una folle velocità, quasi come se i minuscoli granelli di sabbia fossero stati spinti giù da una ventata di consapevole fretta. Lo studio aveva ripreso a battere il suo ritmo forsennato. I testi per la traduzione erano cambiati, fino a quel momento avevano usato testi indiani, ora si trovavano dinanzi a scritte e simboli che appartenevano ad un’altra civiltà. Il primo passo fu quello di far luce su quello strano ed enigmatico disegno. Ormai tutti concordavano che quella strana figura nera fosse un alieno. Rasentava un essere in una sala macchine, forse, più propriamente era uno di “loro” a comando di un’astronave. Il disegno era notevolmente sbiadito e a tratti era stroppiato e sconnesso, ma quello che si poteva vedere era ineccepibilmente chiaro.


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<<Bestiaccia del cazzo!>> Disse Raul. Il suo commento non trovò approvazione, ma di contro, non trovò disapprovazione. La frase si infranse in una infinita moltitudine di sillabe che si persero e divennero aria e vennero respirate ed assorbite dagli altri componenti dello studio. <<Ecco! Qui incominciano i simboli e le parole!>> Disse Roberto. Questa tavola aveva una codificazione differente. Ad ogni simbolo, seguiva una parola e per trovarvi un senso bisognava unire il significato del simbolo con la traduzione della parola. Lavoro arduo e intenso, ma sicuramente allettante, almeno per loro. La traduzione prese vita lentamente, secondo dopo secondo… LA DESOLAZIONE SI POSO’ SUI CORPI INCENERITI DI SFORTUNATI INNOCENTI, I CORPI NERI EMANAVANO UN TANFO DI MORTE. QUEL RICORDO MI AVREBBE ACCOMPAGNATO PER IL RESTO DEI MIEI STANCHI GIORNI. Era un’altra specie di diario. Ma questo portava anche una strana firma, all’inizio della tavola. KOMPKOS Il significato era “VENTO DI GUERRA”, doveva essere il soprannome del “testimone”. <<Questa tavola ripercorre il dopo catastrofe che avevano descritto le tavole indiane!>> Disse, molto sicuro di sé, Roberto. In effetti aveva ragione, sembravano indissolubilmente collegate. Era impossibile! Fu il primo pensiero che affollò le menti dei quattro. Ma, ormai, nulla era impossibile. Nulla! Roberto riprese a comporre quel miscuglio di simboli e parole, li mise in un grosso pentolone che era la sua mente e li girò e li mescolò fino a farli diventare un tutt’uno.


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QUELL’ODORE DI PUTREFAZIONE MI CAUSO’, INCESSANTE, LA VOGLIA DI VOMITARE. IL CAOS ERA SCOMPARSO, LASCIANDOCI FIGLI DI UNA CALMA SPAVENTOSAMENTE INNATURALE, FRUTTO DI UNO STERMINIO CHE AVEVA NOTEVOLMENTE DESTABILIZZATO IL GENERE UMANO. Tutto stava proseguendo bene, le mille supposizioni che erano note stavano trovando il loro riscontro in quelle frasi. Era una scena apocalittica, che si poteva avvicinare ad una ipotetica pre-fine del mondo. <<Perché non ci hanno sterminati tutti?>> Chiese Samuel. <<Forse perché altrimenti avrebbero perso il giochino!>> Disse, sarcasticamente, Luca. Fu una risposta che non piacque a nessuno. Forse perché era l’unica che si avvicinava crudamente alla realtà. ANDARANO VIA… DOPO AVERCI PUNITO, STRAZIATO… DOPO AVERCI FATTO PASSARE LE PENE DI UN INFERNO INESISTENTE. ANDARONO VIA, PERCEPIMMO CHE NON SAREBBERO TORNATI TANTO IN FRETTA… QUELLO CHE CI FECE PROPENDERE PER QUESTA IPOTESI E’ PRESTO SVELATO… Il silenzio di quello studio era accompagnato dalla rauca voce di Roberto, dalla quale stava prendendo vita la tavola. La serie interminabile di scoperte che quelle tavole stavano procurando non era prevista nemmeno nelle più rosee aspettative. E poi quella dannata tavola Maya… Come era finita in India? Come era possibile che trattasse gli stessi argomenti delle altre tavole? Erano delle domande su un passato sconosciuto, di un mondo che aveva fatto cadere il velo che fino a quel momento aveva falsificato il suo reale aspetto. Il pranzo, quest’oggi, era stato un fastidio a cui cercarono di dare il minor tempo possibile. Secondo queste tavole gli alieni sarebbero tornati. Tutto ciò aveva forse a che fare con i numerosi avvistamenti di cui, quotidianamente, si sentiva parlare?


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Ogni domanda che veniva scoccata dall’arco della curiosità non centrava mai il suo bersaglio. Roberto fece una breve analisi interiore di alcune righe. <<Silenzio… ascoltate!>> Disse, interrompendo una delle discussioni che era nata. ANDARONO VIA… AFFIDANDO AL PIU’ SAGGIO UN DIABOLICO AGGEGGIO. DI UNA TECNOLOGIA INVEROSIBILMENTE AVANZATA. SEMBRAVA UN CERCHIO LUCENTE MOLTO DOPPIO. ALLE DUE ESTREMITA’ AVEVA DEI PULSANTI. PREMUTI SIMULTANEAMENTE IL CERCHIO SI DIVIDEVA IN DUE PARTI ED ACQUISIVA UNA FASTIDIOSISSIMA LUCE. ALLUNGANDOSI, AL SUO INTERNO, SI FORMAVANO DELLE ASSI, CHE SI INCROCIAVANO, FACENDO ASSUMERE, A QUELL’OGGETTO, LA FORMA DI UNA CLESSIDRA. Ci fu un notevole stupore che stava regnando sui loro volti, stupore che era, esageratamente, giustificato. <<Di che diavolo stanno parlando?>> Chiese Raul. <<Agli scavi? Siete sicuri che c’erano solo queste tavole?>> Disse Samuel, rivolgendosi verso Luca. <<Si… ci metterei una mano sul fuoco!>> Rispose Luca. <<Cosa può mai essere?>> Disse Samuel. <<Proseguiamo, forse, se siamo fortunati, lo scopriremo più avanti.>> CI DISSERO CHE LORO CI AVEVANO CREATO E CHE UN GIONO, SE QUALCUNO LI AVESSE CHIAMATI, TRAMITE QUESTA “CLESSIDRA”, SAREBBERO SCESI SULLA TERRA, PER CONTROLLARE LE LORO CREATURE E PER RISTABILIRE UN EQUILIBRIO CHE FORSE, ERA STATO PERSO. SIAMO DEBITORI A LORO DELLA NOSTRA VITA. <<Non sarò mai debitore ad un mostro nero della mia vita!>> Sbottò Raul. Non era una cosa di poco conto.


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Il concetto degli alieni, come nostri creatori, era stato rimarcato per l’ennesima volta. Erano concetti espressi dalle tavole indiane me sottolineati da quella Maya. Stavano assumendo la forma della verità. Tanto scomoda, quanto spaventosamente reale. <<Basta! Mi sto facendo sotto dalla paura!>> Disse Luca. <<Io non posso crederci, tutti questi anni passati nella bugia, com’è possibile che nessuno, dico nessuno, sapeva niente?>> Esclamò Roberto, in preda ad un notevole attacco di collera. Qualcuno, nel passato più remoto, aveva voluto nascondere la vera storia dell’uomo, abbindolandoci stupide e grossolane favole. Tutto quello che li circondava sarebbe stato guardato con occhi differenti. Con occhi pieni di rabbia. Verso un mondo che non era più così tanto bello. <<Roberto? Quanto manca alla fine della tavola?>> Chiese Samuel. <<Ci siamo quasi. Hai ragione, continuiamo!>> “DIARIO” HANNO TROVATO LA TERRA E HANNO PENSATO CHE POTESSE ESSERE UN OTTIMO POSTO PER FAR CRESCERE E MOLTIPLICARE “NOI”, LE LORO CREATURE. C’ERANO I DINOSAURI, LI HANNO SPAZZATI VIA E CI HANNO REGALATO QUESTA GABBIA DI TERRA E ACQUA. Ecco spiegata, in modo veritiero, anche la scomparsa dei dinosauri. Niente stravolgimenti ambientali. Annientati per mano dei nostri creatori. Tutto quello che fino a qualche fulmine istante prima rappresentava la certezza dell’umanità, stava crollando come un castello di sabbia in balia di una tempesta di taglienti rivelazioni. I libri di storia sarebbero serviti per interminabili falò. Il mondo stava scoprendo il male. Il male stava togliendo all’essere umano tutto ciò a cui si era sempre aggrappato nei momenti di burrasca. Forse era troppo! Ma forse, era giusto!


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12. PENSIERI CASERTA (ITALIA)

Quando il mondo ancora doveva rendersi conto della sua smodata potenza! Quando c’era un incontrollato bisogno di ascoltare i suoni di un universo che stava cercando l’immagine riflessa di se stesso! Quando la terra era un unico dedalo di illusori pensieri! C’era qualcosa di inspiegabilmente orrendo, di chiassosamente disumano. Immaginare la terra solo come una “gabbia”, soffiare via tutto ciò in cui si è sempre creduto o almeno si è tentato di credere, era un viaggio pindarico, un tragitto costellato di buie ed inconsce dimensioni. La terra rappresentava un oggetto, colmo di una miriade di notizie, storie, informazioni che era stato improvvisamente e frettolosamente capovolto, perdendo nel mare dell’immenso ignoto tutto ciò che conteneva. Pensandoci bene era una situazione che donava una smodata rabbia. Mille e più leggende erano state raccontate, favole fantastiche erano state decantate, la storia del Gesù miracoloso era solo una di queste, né più né meno. Gli animi in quella villa si erano trasformati in un groviglio di vorticosi pensieri. Oggi era quello studio il centro del mondo, un mondo che era più falso di quanto si potesse immaginare. Quante preghiere erano state fatte ai nostri defunti? Quante sofferenze erano state affrontate sperando in un aiuto divino? Quanti Natali a festeggiare la nascita di una puerile favola? Si sarebbe potuto andare avanti all’infinito, formulando una serie illimitata di squallidi interrogativi, che avevano come fine ultimo quello di sbeffeggiare l’umanità per tutto il tempo perso correndo verso “boreali” miti. L’unica domanda che poteva trovare un senso era… dove si voleva arrivare? Quale sarebbe stato il punto d’arrivo di quel fantasmagorico viaggio? La più inaccettabile delle verità? Domande innaturali, che avevano trovato la loro naturalità negli avvenimenti che stavano mostrando la loro reale identità. Tre gironi e tre notti erano passate con una spasmodica velocità.


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Samuel, Luca, Raul e Roberto aveva studiato, cercato di comprendere, urlato, pianto e sbraitato in cerca di conferme su quell’allucinante strumento descritto sulla tavola Maya. Quei giorni erano trascorsi pieni di varie ipotesi che avevano cercato di farsi strada, giorni in cui il mondo e tutte le sue richieste erano stati chiusi fuori con l’intento di risalire alla fonte di un arcano passato. Luce e oscurità si erano succedute nell’incessante ritmo del mondo, donando, di volta in volta, perfette atmosfere a quei serratissimi dialoghi. Sigarette mai spente avevano riscaldato il gelo che era calato tra i pensieri dei quattro archeologi. Qualsiasi mente lucida avrebbe avuto un totale black out di fronte a rivelazioni tanto scottanti quanto drammaticamente reali. Erano giunti ad una conclusione, la “clessidra” esisteva e tutto quello a cui stavano pensando era trovarla. <<Sarebbe assurdo, dopo tutto questo che abbiamo scoperto, non tentare di recuperarla!>> Disse Samuel. <<Luca! Per l’ennesima volta, sei sicuro che dove avete scavato c’erano solo queste tavole?>> Chiese Roberto. <<Al prossimo che mi fa questa domanda non rispondo! C’era solo quello che ho portato! Solo queste tavole.>> Rispose Luca, un po’ spazientito. <<Forse dobbiamo cercare lontano dall’India!>> Propose Raul. La sua affermazione colse tutti di sorpresa. Ma colpì nel segno, lasciando libera la più fervida immaginazione. <<Lontano dall’India?>> Chiese Roberto. <<Si… lontano dall’India, non è scritto da nessuna parte che questa sottospecie di clessidra si debba trovare per forza dove abbiamo trovato le tavole!>> I tre interlocutori ascoltarono interessati l’idea di Raul. <<Tipo? Secondo te dove si potrebbe cercare? Il mondo è immenso!>> Disse Samuel. <<Proviamo in Messico!>> Propose Raul. <<Sarà come cercare un ago in un pagliaio, non è mica Caserta, il Messico!>>


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Disse Roberto. <<Proviamo a capire in quale parte del Messico possiamo cercare! Studiamo la tavola Maya nei minimi dettagli!>> Li spronò Raul. I suoi discorsi colsero nel segno. I quattro incominciarono una frettolosa e minuziosa analisi della tavola. Avevano deciso di seguire una particolare pista, avrebbero contattato Ramirez, che si trovava in Messico e gli avrebbero chiesto di cercare qualche tempio che possedeva dei testi traducibili con la tecnica di decodificazione usata per la tavola Maya. Sarebbe stato difficile, il tempo sarebbe sembrato sempre troppo poco, ma avrebbero tentato, era una cosa che dovevano al mondo. Passarono diversi giorni, non fu semplice mettersi in contatto con Ramirez, alcuni problemi con le linee telefoniche avevano notevolmente rallentato il loro arduo piano. Quando finalmente riuscirono a mettersi in contatto con il Messico, a Ramirez non dissero tutto. In verità non dissero niente, giustificandosi per la difficoltà nel tradurre le tavole e passando per persone poco preparate. Chiesero a Ramirez di trovare quei templi e gli assicurarono che il suo compito era di un’importanza vitale. In un primo momento la richiesta che proveniva dall’Italia gli era sembrata quasi assurda, salvo poi farsi convincere almeno a tentare. <<Amico quando saprai il perché ti pentirai di tutti i tuoi dubbi!>> Gli disse Luca. Il desolante nulla che cominciò con la fine di quella telefonata assunse i marcati toni di un’ingombrante odissea d’attesa. Un attesa che sarebbe stata un flagello nelle menti degli archeologi. Avrebbero aspettato una telefonata che sarebbe potuta non giungere mai, “vi avverto se trovo qualcosa”, erano state le ultime parole di Ramirez. I loro pensieri erano un pottiniccio di idee. La loro ingombrante attesa sarebbe potuta durare un giorno, o un mese e i frutti di una così logorroica pazienza si sarebbero potuti non vedere mai. Si trovavano in balia di un mare che li avrebbe condotti, in un ardua navigazione, verso mete inesplorate, luoghi innominabili, dove sole e luna si confondevano in un lugubre gioco di disperazione. Il loro viaggio avrebbe superato ogni cosa scibile. L’ignoto avrebbe rivelato il suo vero volto.


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Era imbarazzante l’indifferenza che Caserta stava donando a questi rumorosissimi eventi. Ogni singolo pezzo d’asfalto di quella chiassosa città provava una irrilevante indifferenza messo dinanzi ad una storia che si stava stravolgendo, non nel finale, ma nel principio, il primo importantissimo capitolo. Piazza Potesti, come ogni notte, era popolata da strani individui in cerca di un motivo per dannarsi la vita. Urla di gioia si univano a silenzi di dolorosa solitudine in quel marasma di vite umane prive di reali obbiettivi. La fioca luce di lancinanti lampioni conferiva a quella piazza una triste maschera che andava ad addobbare la rabbiosa arroganza di persone che ostentavano una sicurezza priva di qualsiasi fondamento. Era un panorama che avrebbe gettato nella più cupa malinconia anche il cuore più luminoso. Ci si poteva spostare nei cieli ignoti di quella città e scorgere le stesse maschere indossate da diversi personaggi in ogni angolo buio, in ogni strada, su ogni panchina. Caserta era una città tumefatta e il putrido tanfo della sua anima vagava per le strade in cerca della prossima vittima da infettare. Era sicuramente il centro di un universo che stava ruotando a caso, in preda ad un insensato caos di malinconiche bellezze. Le vie dell’ignoto si erano disposte a mò di IKEBANA (arte giapponese di disporre i fiori secondo particolari intendimenti estetici e morali). Era un mondo che stava plorando la sua essenza. Tutti decisero che era giunto il momento di rincasare, appena ci sarebbe stata qualche notizia il telefono di casa Samuel avrebbe cominciato a lagnare e tutti sarebbero stati avvisati. Quando il suo studio si svuotò, Samuel provò un senso di impotenza che mai aveva percepito in vita sua. Tutti questi giorni massacranti e ora siamo in mano a Ramirez, sospesi su un oceano che alla nostra caduta potrebbe aprirsi e farci cadere nell’assoluto nulla, pensò. Si diresse in cucina e trovò un piccolo biglietto vicino alla cena infreddolita, “MANGIA AMORE, IO E LA PICCOLA SIAMO A NANNA! TIAMO”. Il senso di colpa lo assalì immediatamente, con costanti vampate di torrido calore. Mangiò una cotoletta che il freddo aveva fatto diventare incredibilmente dura.


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Quella cucina era sempre stata colma di calore, che solo una famiglia serena poteva emettere, ma quella notte c’era solo lui, come la notte precedente e quella prima ancora. Ne valeva la pena? Si chiese mentre stava sorseggiando una birra ghiacciata. Certo, se il loro percorso non si fosse interrotto, se avessero raggiunto i confini di quella conoscenza così estrania all’umanità, allora si… ne sarebbe valsa la pena. Quello che turbava Samuel era l’eccessivo uso di tutti quei “se”. Avrebbero tentato, magari avrebbero gettato in pasto al tiranno tempo lunghe giornate, ma la durata sarebbe bastata, di questo ne era sicuro. Comparve, improvvisamente una figura sul ciglio della porta. <<Mangiato bene?>> Era Simona, in tutta la sua colossale bellezza. <<E’ possibile che le mie notti insonni debbano disturbare anche il tuo sonno?>> Rispose Samuel, con un’altra domanda. <<Tranquillo! Stavo dormendo, mi ha svegliata un brutto sogno!>> <<Cosa ti ha disturbato?>> Intanto Simona aveva raggiunto Samuel e si era seduta delicatamente sulle sue ginocchia. <<Uno strano sogno… vedevo davanti a me tutto completamente nero, ogni tanto c’erano come delle interferenze che assumevano un colore che si avvicinava molto al verde…>> <<Continua!>> Disse Samuel. <<E poi all’improvviso ho sentito un rumore fastidiosissimo e avevo l’impressione che la mia testa potesse scoppiare da un momento all’altro.>> Samuel rimase qualche secondo perplesso. Quel sogno non gli era piaciuto. <<Amore? Era solo un sogno!>> Lo spronò Simona, vedendolo notevolmente accigliato. La notte si era trascinata dietro i mille sporchi giochi di altrettanti indiavolati infatuatori. Raul stava percorrendo l’asfalto bagnato di una delle tante, ingombranti, strade di Santa Maria Capua Vetere, prima di rincasare si era fermato vicino ad un distributore di sigarette. Inserì la moneta per sfamare quel mostro meccanico, quando improvvisamente, si sentì toccare alle spalle.


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Quando si voltò vide Lisa, quella ragazza che era riuscito a mettere da parte, almeno in quei frenetici giorni. <<Raul? Come va?>> Disse Lisa. Il viso di Raul avrebbe voluto dire molte cose, alcune offensive, altre meno, ma proprio quell’impazzito afflusso di pensieri gli fecero formulare stanche e stonate parole. <<Come sto? Bene… meglio di prima!>> <<Ancora in collera con me?>> Chiese Lisa. Mentre Raul stava per rispondere, avvertì il suono di un clacson non distante da loro. Un uomo sulla quarantina, posizionato in un BMW da urlo, stava intimando Lisa di fare in fretta. <<Cosa fa lui? Il miliardario? Il politico? Cosa fa? Con lui hai delle sicurezze? Fanculo!>> Fu il suo piccolo monologo. Quel vaffanculo lo liberò di troppi fantasmi che giacevano ancora dentro di lui. Si sentì meglio, non bene, ma meglio. La lasciò lì, con troppe parole strozzate in gola da quella corda d’odio che Raul le aveva stretto al collo. Corso Giannone, anche a tarda notte, brulicava di ragazzi in cerca di un’adrenalina che il giorno non poteva donare. Luca, ondeggiando tra i suoi pensieri, stava provando a tornare in India. C’era qualcos’altro in quel buco che avevano scavato? Fu un dubbio che lo assalì per pochi secondi. No! Ne era sicuro. Avrebbe fatto accompagnare le sue ore di riposo da un televisore acceso. Impose un fermo immagine tra le mille pagine che la sua mente stava sfogliando, il momento della scoperta delle tavole. Roberto si era già conciliato con il sonno. Un pasto veloce, un buon vino lo avevano accompagnato a letto. Era il più serio di tutti, ma soprattutto quello che flagellava la sua testa con le incognite più disparate che ci potevano essere. Almeno, nel sonno, non avrebbe pensato. Forse…


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13. LONTANO… CASERTA (ITALIA)

Ci sono dei luoghi che sarebbe meglio non scoprire mai! Per lasciare che rimangano incontaminati del loro puro terrore! Nonostante l’uomo si senta così forte ed invincibile è indubbio che ci siano delle cose per le quali non è pronto e probabilmente non lo sarà mai. Alcuni confini fanno da scudo a visioni che farebbero impazzire anche il più lucido scienziato. Siamo degli impercettibili puntini e guardati dall’alto, dallo spazio profondo, passiamo quasi inosservati. Ci sono soli che nascono a mezz’asta e muoiono affogando tra i misteriosi picchi di minacciose ed irreali montagne. Alcuni miraggi possono incantare a tal punto da sembrare belli, unici, incontaminatamente desolati, ma all’imbrunire possono assumere bizzarre forme di antichi terrori. Si respirava una strana aria in quei giorni di delirante attesa. Un’aria anormale, quasi come se non appartenesse al nostro caro pianeta, un’aria che giungeva sino a noi, sbuffata via dall’ignoto spazio profondo, da un luogo invisibile e minacciosamente bello, dove l’uomo, si sperava, potesse non giungere mai. I giorni erano trascorsi con un’apparente veste di routine, ogni protagonista di quella stupefacente vicenda aveva ripreso il ritmo quotidiano della normalità. Samuel aveva ripreso i suoi corsi all’università. Roberto aveva ricominciato i suoi studi su Roma. Luca stava riprendendo l’attento esame di un antico vaso greco e nel suo lavoro si stava facendo aiutare da Raul. Tutto stava procedendo in modo paradossalmente normale, ma dietro le finte maschere di coinvolgimento in quello che stavano facendo, i quattro archeologi percorrevano, nella loro mente, lo stesso circolare percorso, quello che girava intorno alla benedetta telefonata dal Messico. Le giornate volarono via troppo lentamente, il vento soffiava delicatamente tra i rami degli alberi casertani e assumeva i toni musicali di una lugubre, ma allo stesso tempo, armoniosa melodia.


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Samuel era rincasato presto e piuttosto abbattuto, era trascorsa una settimana dalla famigerata telefonata e la cornetta era muta come un pesce. <<Ciao piccola! Vieni da papà!>> Aveva esclamato Samuel, alla visione della piccola Valery. <<Papy, lo sai che abbiamo fatto la recita? Io ero il diavoletto!>> Disse, dolcemente, Valery. <<Ma davvero? Adesso che ci faccio caso, hai ancora una piccola corna che ti spunta fuori dai capelli!>> La piccola aveva riso a crepapelle. Il sereno clima famigliare era finalmente tornato, ma questa volta Samuel l’avrebbe velocemente barattato con la voce di Ramirez. Era un denso tramonto rossastro quello che stava morendo dietro la colossale regia. Era un’imponente struttura architettonica, ed incredibilmente maestosa, ci si poteva perdere tra le sue vorticose stanze e il dedalo dei mille sentieri del suo immenso giardino. Più volte era stato scenario di imponenti produzioni filmiche hollywoodiane. Raul si trovava a Caserta e si stava dirigendo, a passo lento, verso Piazza Mazzini. Avrebbe cenato a casa di Luca e insieme avrebbero visto un film, che lui stava andando ad affittare. I passi del giovane archeologo erano stanchi e sembravano pesanti, quasi come se vicino alle caviglie avesse un invisibile peso che gli rallentava notevolmente i movimenti. Stava fiancheggiando gli alberi della piazza, nel punto che facevano da angolo al primo incrocio, venendo dal corso. Il giorno aveva ormai perso i suoi raggianti colori ed era stato dipinto con delle tonalità eccessivamente scure, quelle della notte. Quando Raul giunse davanti alla luminosissima vetrina di Blockbuster, dovette attendere qualche secondo prima di entrare. Era in procinto di mettere fine alla vita dell’ennesima sigaretta che si stava, a poco a poco, consumando tra le sue dita affusolate. Una carrellata da destra verso sinistra avrebbe fatto sembrare Raul un’insicura figura priva di colori che cercava di confondersi con il bagliore delle festose luci del negozio di film. Quando decise che era giunto il momento di entrare, aveva accusato che delle piccole gocce d’acqua erano appena incominciate a venire giù dal cielo.


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Una volta dentro ebbe un piccolo cenno di assenso con Alessio, uno dei ragazzi che lavorava lì. Raul era un abitudinario del posto, amava quasi ossessivamente il cinema, aveva un infinita collezione di DVD che custodiva gelosamente, ed ogni momento libero lo dedicava alla settima arte. Il tempo non era stato clemente, non aveva perdonato gli illusi personaggi che erano usciti senza ombrello, tra questi c’era Raul, che nonostante tutto, sapeva che avrebbe passato molto tempo lì dentro e la scrosciante pioggia che stava facendo da sottofondo a quella serata, non lo preoccupava. L’indecisione primaria era: un grande classico o una novità? Lui avrebbe optato per qualcosa di profondamente artistico e non per i soliti filmacci senza anima. Si aggirava tra le file di DVD come un segugio in cerca della preda da sbranare. Era trascorsa, in modo innaturalmente veloce, un’ora, tempo in cui Raul aveva fatto un elenco mentale di film… ora doveva scegliere. ARANCIA MECCANICA Indiscusso capolavoro del grande maestro Stanley Kubrick. Film che narrava le gesta di un giovane delinquente che passava la vita a compiere atti illegali con i suoi drughi, ma una volta arrestato si presterà ad un programma per la riprogrammazione della mente, il programma Ludwing. Un film per pochi, che tutti avrebbero dovuto vedere. ALIEN L’apice del genere horror-fantascientifico. Film diretto da un Ridley Scott in erba, ma forse, mai cosi ispirato. Narra delle vicende di un gruppo di astronauti, equipaggio della nave Nostromo, che si incammina verso un pianeta desolato, spinto da una strana trasmissione . Qui una forma di vita aliena li attende. Film stupendo, che forse era il più a tema, per loro, in questo momento. SCARFACE Il miglior film di Brian De Palma, con un interpretazione magistrale del più grande Al Pacino di tutti i tempi. Narra le gesta di un piccolo trafficante di droga cubano che diventa il re incontrastato del traffico di cocaina.


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Film violentissimo, ma assolutamente impedibile nella sua unicità. SHINING Il primo film epico del genere horror. Tratto dal romanzo di Stephen King e diretto dal genio Stanley Kubrick, è una pietra miliare del genere horror. Minacciose ambientazioni, carrellate oniriche e un’interpretazione magistrale di Jack Nicholson. Nicholson è Jack Torrance, giunto nell’elegante e isolato Overlook Hotel come custode invernale. Accompagnato da moglie e figlio. Il resto è puro delirio. PREDATOR Altro film epocale che verteva sul tema degli alieni. Diretto dal semi-sconosciuto (all’epoca) John McTiernan e interpretato da un ottimo Arnold Schwarzenegger. Narra le vicende di un gruppo reclutato dalla CIA per salvare gli ostaggi in mano a dei guerriglieri. Ma il loro avversario più pericoloso sarà un temibile alieno:Predator. Il ripetersi continuo dei suoi pensieri partorì un frutto tanto inaspettato, quanto logico. La scelta cadde su ALIEN, ed il perché non lasciava spazio a tante discussioni. Quando decise di abbandonare quell’immenso deposito di opere d’arte, si accorse che il cielo era stato clemente, non pioveva più e il tragitto che lo separava da casa di Luca era davvero minimo. Mentre il suono del campanello si infiltrò tra i suoi pensieri, Luca stava sorseggiando un bicchiere di vino, aveva aperto un ottima bottiglia, COLLE DELLE STEGHE - MONTEPULCIANO D’ABRUZZO. Il campanello dovette rumoreggiare più volte per distogliere il suo sguardo dal cielo innevato di solitudine che stava osservando. <<Allora? Cosa mi dovrò sciroppare questa sera?>> Disse Luca, in critica al gusto di cine-maniaco di Raul. <<Ho preso un film che, per noi, è assolutamente perfetto!>> Raul aprì la busta e diede luce al titolo del film. <<Alien? Devo averlo visto quando ero un ragazzo… non lo ricordo affatto! Comunque… tanto per rimanere in argomento… no?>>


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Disse Luca. <<Già, almeno non distoglieremo il pensiero da ciò che ci affligge.>> Rispose Raul, scherzando. La visione del film fu preceduta da un ricco piatto di penne con panna e funghi, una specialità di Luca. Pasto che era stato gradito così tanto che obbligò Raul a concedersi il bis. Quando decisero, finalmente, di sostare dinanzi al televisore, appollaiati sul divano, le loro mani erano impegnate da due calici colmi di un inebriante vino rosso. Il film prese il via con il suo classico ritmo lento, ma incominciò a creare le prime tensioni quando Ripley( la protagonista) stava impedendo l’accesso alla nave Nostromo, ad alcuni colleghi che erano usciti in ricognizione. Mentre Luca era stato completamente rapito dal film, Raul sembrava donare a quell’ambiente solo la sua presenza fisica. <<Ehi… ci sei?>> Chiese Luca. <<Si, scusa… sai che ho incontrato Lisa? Era con un riccone del cazzo!>> <<Ancora a pensarla?>> Disse Luca. <<Tu sei alle prese con la più grande scoperta dell’uomo e ancora pensi a lei?>> Continuò. Raul sembrò acconsentire alle parole di Luca con il capo. Il discorso si infranse contro l’entrata in scena dell’Alien, terribilmente spaventoso. Quando i titoli di coda erano stati partoriti e stavano scorrendo velocemente sullo schermo, i due viaggiatori filmici avevano oltrepassato il buco nero del sonno e il mondo delle visioni oniriche li aveva inglobati nella sua camera ardente. Avevano trascorso una serata parlando il meno possibile delle tensioni a cui erano soggetti. Una serata in compagnia di un buon vino, un capolavoro cinematografico e un amico sincero. La patina di ignaro terrore che poggiava dolcemente la sua essenza sul cielo aveva ripreso a rigettare acqua malsana. Era una notte che avrebbe costretto al pensiero anche chi cercava di non confrontasi mai con i propri fantasmi.


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Lassù, nello spazio profondo divorato da una desolante e inconsapevole solitudine, si stavano intercambiando labirinti di strade ignote, che si intersecavano in un dedalo di puro terrore. Quando sarebbe giunta una dannata voce dal Messico? Ma più di questo, urgeva un altro interrogativo… Cosa sarebbe accaduto poi? Erano taglienti pensieri che stavano facendo vacillare la lucidità di Roberto. Era una notte che si prestava a mò di sfondo per incalliti pensatori e lui era uno di questi. Due divorzi sulle spalle, tre figli visti di rado, una vita sola che gli donava un grande dolore. Ma ora c’era qualcosa di più importante. Lui ne era certo, quel dannato tempio sarebbe stato trovato. Roberto aveva la vivissima sensazione che ci sarebbe potuto essere un radicale cambiamento. In meglio? In peggio? Un cambiamento che avrebbe sconvolto l’umanità, come già aveva sconvolto, parzialmente, la vita di loro quattro. Lui, questa sera, era un cacciatore di risposte. Risposte che giocavano a nascondino nell’immensità del buio e giocavano dannatamente bene. Erano trascorse settimane senza nemmeno un accenno di notizia da parte di Ramirez. Quando avrebbero cominciato a mettersi l’anima in pace? A che punto si sarebbero arresi? Avrebbero detto basta… e avrebbero cominciato a pensare a tutto fuorché a quella dannata telefonata? Forse presto… forse mai! La luna, in cielo, stava dando i primi cenni di cedimento, erano le 5.00, notte fonda, o prima mattina, dipendeva dai punti di vista. Il telefono, nella stanza da letto di Samuel, incominciò a suonare all’impazzata. Samuel rispose, vestito ancora da un sonno profondo. <<Pronto?>> <<Scusa l’orario… il tempio… l’ho trovato… è solo uno… si trova a Tampico, vi aspetto!>> Disse Ramirez. <<Si… verremo… uno di noi voglio dire!>>


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Quella telefonata tanto desiderata era giunta nel momento meno lucido. Poche ore dopo si ritrovarono tutti e quattro. La loro decisione fu frettolosa e semplice. Sarebbe partito Raul! Sarebbe andato lui verso quel tunnel di conoscenza che era ancora privo di luce.


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14. TRAGITTO TAMPICO (MESSICO)

I posti della mente, dove spesso si cerca di non entrare, sono quelli che racchiudono le più recondite paure. Sono quelli che hanno pareti solide e incandescenti, quelli che contengono spazi illimitati e proprio per questo sconosciuti. Sono i luoghi dove finisce chi perde la ragione, chi ha un gravoso cedimento psicologico, ci si addentra chi cerca risposte a cui sarebbe meglio non fare domande. L’aria che si respira, in quei luoghi, è rarefatta e putrida, è pesante e grossolanamente secca. Quando si giunge in quei posti, vi si giunge per non uscirne più. Vi si giunge per impazzire al soave suono di una folle melodia. Sono angusti spazi che provocano terrore e angoscia, sgomento e fredda disperazione. Luoghi dove regna il buio, dove non c’è luce, dove il caos si ciba della ragione. Sono posti che si trovano dentro ognuno di noi, ma che teniamo ben lontani da noi, che teniamo ben chiusi con lucchetti di metalli indissolubili, buttando le chiavi, con la speranza che tutto ciò possa bastare a tenerli chiusi e lontani per sempre. E’ l’ignoto che regna nella più piccola parte della nostra mente e che ci guardiamo bene dal raggiungere. Era il posto dove, troppe volte, avevano cercato di entrare gli archeologi e per loro fortuna, nessuno ancora, vi aveva avuto accesso. L’aereo che stava squarciando il cielo era quello sul quale stava viaggiando Raul. Era stato scelto per andare in Messico, era stato responsabilizzato, lui il più piccolo, sentiva la pesante fiducia di tutti sulle sue gracili spalle e non voleva deluderli, per niente al mondo. Mentre Raul stava sorseggiando una bottiglina d’acqua gelida, osservava estasiato le meraviglie che erano vive sotto di lui. Il territorio del Messico è in gran parte montuoso e sotto il suo sguardo si succedevano una serie infinita di colline, monti e maestose montagne.


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Sembravano parti del terreno che volevano avere una vita indipendente e per questo, avevano deciso di alzarsi dal livello della terra. Facevano eccezione alla parte montuosa l’isola dello YUCATAN e le coste sul Golfo. Il cielo era parzialmente sereno e questo permetteva a Raul di scrutare un roseo orizzonte che si andava mescolando ad un verde dolciastro proprio delle gigantesche catene montuose. Diversi rilievi superavano i 4.000 metri o addirittura i 5.000 m. Vide sotto di lui una montagna che dava quasi l’impressione di toccare il cielo, alta più o meno 5.700 m, era la cima del CITLALTEPLETL. Le principali catene montuose erano la SIERRA MADRE OCCIDENTALE e la SIERRA MADRE ORIENTALE, tra le quali si estendeva L’ALTOPIANO CENTRALE, in cui sorgeva la capitale, CITTA’ DEL MESSICO. La prima cosa che era balzata ai suoi occhi era che, sicuramente, il Messico era in netta prevalenza montuoso, ma Raul notò un lungo intersecarsi di fiumi, che dall’alto davano l’impressione di tanti labirinti che si incrociavano gli uni con gli altri. Tra i numerosi fiumi il più importante era il RIO GRANDE, che tracciava il confine con gli STATI UNITI e sbocciava nel Golfo del Messico. Raul, prima di partire, aveva cercato di leggere almeno qualcosa sul posto dove sarebbe andato. La cosa che si ricordò, facilmente, era che il Messico includeva due penisole: YUCATAN e la BASSA CALIFORNIA. Il volo era quasi giunto a destinazione e Raul, che aveva passato poco tempo sonnecchiando, era già pronto a dar vita alle mille emozioni che quel viaggio gli stava donando. Avevano scelto lui, l’avevano voluto responsabilizzare o più verosimilmente, conoscevano la sua passione per i templi Maya Quando mise i piedi fuori dall’aereo, il primo impatto fu di un soffocante caldo. Il sole regnava alto in cielo e donava al posto ben 32°. Quel caldo gli aveva dato l’impressione di essere in vacanza, al mare, sotto una palma, con lo scrosciare delle onde in sottofondo. Giuse fuori dall’aeroporto e potè percepire all’olfatto tutti gli odori di una nazione immensamente caliente come il Messico. Era “sbarcato” a Città del Messico e fuori, alla fermata dei taxi, c’era Ramirez che lo stava attendendo in un denso mare di sudore. Raul e Ramirez si conoscevano bene, in quanto il messicano aveva una casa a Caserta e facevano parte dello stesso gruppo di lavoro.


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Quando Raul scorse il messicano tra un groviglio di persone che affollavano chiassosamente quella strada, attirò la sua attenzione con il suo classico fischio, che sicuramente Ramirez avrebbe riconosciuto. <<Ehi… amico! Fatto buon viaggio?>> Furono le parole di Ramirez, accompagnate da un confortante sorriso. <<Ottimo viaggio… venire in Messico per me è stato un enorme piacere!>> Rispose Raul. I due entrarono in una vecchia jeep sgangherata e si diressero verso la loro meta. Le persone, in Messico, sembravano sempre estremamente serene, sempre piene di voglia di vivere e gioiose, sempre con un enorme sorriso stampato sulla faccia. La loro jeep stava percorrendo un tratto d’asfalto che fiancheggiava il mare. Si potevano osservare dei grossi gabbiani che accarezzavano quelle tenui onde. Quella tavola d’acqua capace di far smarrire i suoi osservatori nelle migliaia di tonalità diverse che aveva da offrire. Si poteva nuotare fino all’orizzonte e avere l’impressione di perdersi tra cielo e mare, in quel punto che fa svanire ogni tipo di confine. Sarebbe passato nella mente di chiunque il desiderio di rimanere lì, di lasciare tutte le cose irrisolte e tutti i problemi e perdersi in quella laguna incantatrice, capace di abbracciarti con una rara serenità. <<Allora! Mi dici cosa avete scoperto?>> Chiese Ramirez. Era la domanda che Raul si aspettava, una domanda alla quale, almeno per ora, bisognava rispondere con una bugia. <<Le tavole indiane non siamo riuscite a decodificarle, per il momento, vogliamo provare almeno a comprendere quella Maya!>> Ramirez non rispose. Ma il suo viso sembrò quello di una persona alla quale stavano raccontando un enorme balla. <<Come va con Lisa?>> Pessima domanda. Ramirez era rimasto a quando Raul e Lisa stavano serenamente insieme e pensavano al matrimonio. La serenità che stava albergando sul viso di Raul si spense, come fulminata. <<Finita! E’ finita… sai, voleva sicurezza, o più propriamente soldi a palate!>> Fu la fredda e concisa risposta di Raul.


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Se c’era un tasto che non andava premuto, era quello. <<Mi dispiace amico…>> <<E’ ok…>> Lo interruppe Raul. <<…non potevi saperlo!>> La loro conversazione proseguì, parlando del più e del meno e il loro discorso, cadde di tanto in tanto, sulle tavole che il messicano e Luca avevano recuperato in India. La vettura guidata da Ramirez aveva abbandonato Città del Messico e si stava dirigendo verso TAMPICO. Era una piccola città, il posto in cui era stato trovato il tempio che li premeva visitare. Tampico conteneva, all’incirca 294.000 abitanti ed era situata nello stato di TAMAULIPAS. Possedeva i tipici paesaggi da cartolina, con un clima subtropicale e una temperatura media di 24°. <<Dove ci stiamo dirigendo?>> Chiese Raul. <<Tampico! Vedrai… un piccolo angolo di paradiso.>> <<Tampico? Che strano nome!>> <<Il suo nome deriva dalla lingua huastec. Il prefisso TAM -significa “il posto dove” e PICO “cani d’acqua”, ossia le nutrie che abitavano la regione in epoca precolombiana!>> Disse, dettagliatamente, Ramirez. <<Il posto dove… neanche a farlo a posta!>> Rispose, ridendo, Raul. <<Puoi dirlo forte! >> Il loro viaggio proseguì con poche soste, giusto per usufruire dei bagni e per mangiare qualcosa in qualche assolata tavola calda della costa. <<Adesso capisco perché, in ogni momento libero, torni qui.>> Disse Raul. <<E’ il paradiso… e qui ci sono nato!>> Era il paradiso, o almeno, ci si avvicinava tanto. Si ma quale paradiso? Si usava dare questo nome al posto in cui gli uomini buoni sarebbero giunti nell’aldilà. Ma quale aldilà? Era un posto che gli uomini diligenti si erano creati per vivere meglio. Per vivere in pace.


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C’era bisogno di accettare che era tutto una burla, drammaticamente reale. Il sole morente emanava dei deboli raggi, e vista la sua posizione, sembravano venir fuori dalla profondità del mare. Con lo sguardo, ritto verso il cielo ci si poteva perdere in quel colore roseo rossastro, dannatamente suggestivo. Erano quasi giunti a destinazione. Il viaggio era stato lungo, ma per niente stancante. Merito della miriade di meraviglie che si potevano osservare in ogni dove di quel luminosissimo posto. Quando il motore della vecchia jeep smise di rombare, erano giunti al capolinea. Si fermarono dinanzi ad un caratteristico hotel, si riusciva a malapena a leggere il suo nome che sostava su un vecchio pannello di legno, illuminato dalla poca luce che stava abbandonando il mondo… ma solo per qualche ora. “LA BAIA DEL SOL”, era questo il nome che sembrava chiedere più luce per non morire e poi rinascere con il nuovo sole. <<La Baia del Sol… suggestivo!>> Disse Raul. <<Anche bello e confortevole… alloggeremo qui, è abbastanza vicino al tempio!>> Rispose Ramirez. Quando entrarono, la prima impressione fu quella di un ambiente molto accogliente. Era fatto quasi esclusivamente di legno, con il pavimento composto da un vecchio parquet cigolante. Alla reception c’era una vecchia e grossa signora con un sorriso che avrebbe donato serenità a chiunque avesse incrociato il suo stanco sguardo. Ebbero rispettivamente la camera 4 e 5, non erano comunicanti, ma si trovavano l’una dinanzi all’altra. La fresca brezza serale accompagnò, come una dolce musica, la cena dei due. La serenità che aveva preso possesso della mente di Raul, l’aveva quasi portato a dimenticare il motivo per il quale era giunto fin lì, ma era bastato un crocifisso appeso su una legnosa parete a farlo ripiombare nello sconforto che aveva caratterizzato i suoi ultimi giorni italiani. <<Cosa c’è? Ti vedo turbato!>> Chiese Ramirez. Raul cercò di rispondere con una colossale, ennesima bugia.


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<<Niente… per un attimo ho ripensato a Lisa!>> <<Amico… le donne sono come i soldi, più li desideri più si allontanano! Beviamoci su!>> Aggiunse Ramirez. Brindarono con un’ottima tequila. Brindarono alle donne, alla fortuna, alle future scoperte e soprattutto alla vita, affinché potesse essere assaporata in tutta la sua breve dolcezza. Fu una notte serena quella che trascorse nel piccolo paese messicano. Mentre Ramirez era piombato nel sonno molto celermente, Raul si trovava steso sul suo letto e mentre consumava una sigaretta ancora giovane, si stava chiedendo dove lo avrebbe portato quel viaggio e soprattutto dove sarebbero giunti. Avrebbero attraversato quei confini invalicabili? Quelli che è meglio non oltrepassare? Era mai possibile che ci potesse essere qualcosa che era meglio non scoprire? No… la cosa migliore era essere coscienti di quello che si stava vivendo… I sogni sarebbero serviti a poco… a niente! Contava reagire! E lui… loro… ci stavano provando!


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15. GELIDI SPIFFERI TAMPICO (MESSICO)

Le luci di un mattino scintillante illuminarono un soffice cuscino occupato dalla testa di Raul. Un’anta della finestra era rimasta socchiusa e aveva dato modo alla luce di entrare a disturbare il suo sonno. La serenità che donava quel posto lasciava i cattivi pensieri ad altre situazioni e ad altri luoghi. Alcuni uccelli si trovavano sul davanzale della finestra di Raul e sembravano cinguettare appositamente per svegliarlo. La prima immagine che poteva venire in mente pensando al Messico era sole e mare… beh erano sensazioni giuste. Non si erano mai visti giorni colmi di sole come in quella culla di pace. Quando Raul decise di dar vita ai suoi assonnati occhi, la poca luce che illuminava il suo viso, gli causò un tremendo fastidio, come se le sue pupille fossero passate da una condizione di buio totale ad una luce accecante. Si mise seduto e cercò di recuperare i sensi che aveva lasciato sul cuscino. Il primo gesto istintivo della giornata fu accendersi una sigaretta e fumarsela lì, nel mezzo di quel letto dalle bianche lenzuola, illuminato da una naturalissima luce solare. Le prime due o tre boccate di fumo lo ripagarono del riposo che aveva, involontariamente, donato ai suoi giovani polmoni. Mentre si trovava immerso in un lugubre vortice di fastidiosi pensieri sentì bussare alla porta di legno della sua stanza. Scese dal letto con un ritmo decisamente lento, se i muscoli facciali avevano già ripreso il loro movimento di routine, il resto del corpo era ancora maledettamente intorpidito. <<Chi è?>> Chiese Raul, rivolgendosi verso la porta. <<Signore, sono Manuela, la donna della reception!>> O Dio, pensò. Era la donna abbondante che aveva attirato la sua attenzione per via del rasserenante sorriso. <<Cosa desidera?>> Domandò gentilmente, Raul. <<Il signor Ramirez mi ha dato ordine di portarle la colazione e di dirle che una volta finito lui l’aspetta vicino alla jeep!>>


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Raul pensò che fosse giunto il momento di aprire la porta e dar volto alla voce della sua interlocutrice. Quell’enorme facciona che esprimeva un’inebriante sorriso fu la certezza che a questo mondo si poteva essere felici anche possedendo poco o niente. <<Grazie signora!>> Esclamò Raul, prendendo il vassoio dalle mani della signora Manuela. La signora lo salutò calorosamente ed andò via trascinando il suo pesante corpo su per quelle scale che sembravano tenere a mala pena quei pesanti passi. Sul vassoio c’era una spremuta d’arancia, una torta al cioccolato e una tazzina di caffè, niente a che vedere con il caffè italiano, ma pur sempre un valido tramite per la seconda sigaretta giornaliera. La torta era ottima e altrettanto la spremuta, dolcissima. Il caffè, come da previsione, era palesemente disgustoso, ma sarebbe stata una siringa energetica in previsione della giornata che lo aspettava. Raul poggiò sulla sua pelle una maglietta a maniche corte che, comunque, non gli avrebbe impedito di soffrire sotto le mani del torrido caldo che lo attendeva. Quando decise di scendere aveva l’immancabile sigaretta tra le labbra, se voleva vivere poco, stava percorrendo una delle migliori e più rinomate strade. Vide Ramirez nei pressi della jeep. Stava parlando con un tizio di altura piuttosto bassa e anche abbastanza anziano. Prima di avvicinarsi, Raul gettò la sigaretta. <<Ok amico… io ci sono… andiamo?>> Fu l’esordio di Raul. <<Aspettavo te… questo è Ludo… ci porterà sul posto!>> Raul strinse la mano rugosa di quello strano vecchio di nome Ludo. Aveva l’aria di uno che ne sapeva una più del diavolo e chissà, probabilmente, era proprio così. Presero posto in tre su quella jeep, che nelle loro intenzioni li avrebbe condotti verso un piccolo tassello di un enigmatico puzzle. I freschi colori del mattino furono lo sfondo di quel breve tragitto che erano destinati a compiere. L’asfalto, straziato dai raggi solari, dava l’impressione di potersi sciogliere istantaneamente ed inghiottire tutto ciò che sostava sulla sua superficie. Abbandonarono la piccola città per addentrarsi in un groviglio di alberi e strade contorte. Il tempio si trovava semi-disperso, era stato scovato e posto all’attenzione di Ramirez solamente grazie a Ludo.


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Il vecchio era un abitante del posto e conosceva quella selva che contornava la città come fosse casa sua. Si diceva in giro che fosse un vecchio stregone e che bazzicasse nei meandri delle discipline occulte, questo a Raul non interessava, lo avrebbe condotto dove desiderava e per lui garantiva Ramirez. La breve visita guidata nelle lande sperdute del Messico regalò a Raul molte immagini da copertina. Aveva adocchiato, nella fitta fauna, animali che aveva visto solo grazie alla televisione. Scenari immensi e cascate in miniatura si erano mostrate in tutto il loro splendore e il ragazzo sarebbe stato ore ed ore ad osservare estasiato le soavi forme della natura incontaminata. Per l’ennesima volta, da quando era in Messico, gli erano passate dalla mente le sue frustrazioni e il suo reale scopo. <<Quanto manca?>> Chiese Raul. Ramirez parlò in lingua madre con Ludo e rispose. <<Ci siamo, dietro quegli alberi c’è il tempio!>> Buona a sapersi, pensò. Le molteplici irregolarità del terreno gli avevano provocato una leggera nausea e non sapeva quanto altro tempo avrebbe resistito prima di liberare il suo corpo dall’abbondante prima colazione. Quando superarono gli già citati alberi si aprì dinanzi a loro un lungo sentiero che si arrestava davanti ad uno stranissimo tempio. Sembrava quasi che gli alberi facessero da recinzione all’antica struttura. Superati gli alberi c’erano metri e metri di nulla e al centro di questo vuoto era posta questa strana struttura che differiva vistosamente dalle classiche costruzioni Maya. Differiva a tal punto che più volte, mentre si avvicinavano, Raul chiese se si trattava realmente di un tempio Maya e se erano sicuri che non fosse una burla di qualcuno in cerca di divertimento. Le rassicurazioni che giunsero a placare le sue domande non lo calmarono definitivamente, ma almeno lo portarono ad allontanare, almeno momentaneamente, l’idea di uno scherzo di cattivo gusto. Quando il sentiero fu terminato il motore della jeep si arrestò improvvisamente, facendo risaltare i mille e silenziosi suoni della natura in quel pezzo di nulla assoluto in cui si trovavano. L’assurdità di quella costruzione aveva assunto dei lineamenti imponenti nella mente di Raul.


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<<Adesso mi dici cos’è questo?>> Disse Raul, rivolgendosi verso Ramirez. Dopo un rapido colloquio con Ludo, Ramirez rispose alla domanda dell’italiano. <<E’ una costruzione che è stata tenuta segreta dagli abitanti del posto, per paura di una maledizione che vige su queste pietre!>> <<Si… ma siamo sicuri che si tratta di una struttura di 3500 anni fa?>> Ci fu l’ennesimo breve dialogo con il vecchio. <<Ludo ha detto che non vuole rimanere qui molto tempo, entriamo, le domande le lasciamo al viaggio di ritorno!>> Raul acconsentì con il capo. La smania di scoprire cosa racchiudevano quelle mura era incredibilmente forte. <<Ma Ludo resta fuori?>> Domandò Raul, vedendo che i loro passi non erano seguiti da quelli dell’anziano stregone. <<Lui non entra… muoviamoci!>> Rispose Ramirez. Le pietre, che incastonate, formavano quella struttura, allo stesso tempo imponente e arcana, erano quasi totalmente coperte di muschio e di ogni tipo di erbaccia selvatica. Ma, nonostante tutto, le sue forme non erano nascoste da alcun tipo di maschera. Il tempio si presentava molto alto, ma non abbastanza da sovrastare gli altissimi alberi che circondavano la sua area. Aveva in basso, alle due estremità, due gradi pietre tondeggianti, e si sarebbe potuto discutere a lungo sulla natura di quei massi. Al centro c’era una scalinata che conduceva verso l’alto e quindi verso l’entrata. La porta d’accesso somigliava ad una grossa bocca ed aveva una struttura ad arco. Qualche metro sopra l’entrata, rispettivamente, a destra e a sinistra c’erano delle fessure a forma di occhio e sotto questi occhi c’erano tante piccole aperture che somigliavano a una molteplice quantità di piccolissime ciglia. La struttura, che in basso aveva una forma rettangolare, cambiava con se ci si avvicinava all’entrata. L’edificio si stringeva, dando l’impressione di una piramide.


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Impressione fulminea, perché la struttura, verso l’alto, all’esterno delle fessure ad occhio, assumeva nuovamente una forma rettangolare per culminare nuovamente con un aspetto piramidale. Al centro della piccola piramide situata all’estremità del tempio c’era uno strano disegno, che somigliava ad un piccolo turbine. Il resoconto finale era quello di una struttura mai vista e mai, nemmeno lontanamente, immaginata. Raul e Ramirez si fermarono qualche istante dinanzi all’entrata, scrutando accuratamente il buio che li attendeva una volta varcata quella soglia, per molte leggende maledetta. Tutta la luce che abbagliava il tempio e lo rendeva bugiardamente sfavillante perdeva i suoi poteri all’ingresso di quello stranissimo complesso di elementi. Sembrava quasi che la luce non volesse entrare in quel posto, sembrava quasi che cercasse di evitare ogni contatto con quella malsana oscurità che viveva all’interno di quelle mura. Le loro paure verso quella tenebra erano, sicuramente, scaturire dalle mille voci che avevano sentito su quel posto. Possedevano torce e strumenti che li avrebbero dovuti far sentire al sicuro, ma avevano tremendamente paura dell’ignoto che li stava aspettando. Ci fu un lungo respiro da parte dei due ed entrarono, sparendo, abbracciati dalle nere tenebre di quella fantasmagorica entrata. Appena dentro diedero immediatamente vita alle loro torce. Si trovarono in un lunghissimo e strettissimo corridoio. Sulle mura che opprimevano i loro respiri non c’era alcun ché. La loro prima reazione fu di stupore. Dov’erano i disegni e le scritture che dovevano somigliare a quelle della tavola? I due si guardarono per un attimo senza parlare, quasi per paura di essere sentiti e di risvegliare chissà cosa. Dovevano continuare per quell’unica strada che gli era stata offerta. Proseguirono per circa cinque minuti per quelle claustrofobiche mura e la fine del tunnel si stava incominciando finalmente a mostrare. <<Eccolo… quel muro è la fine del tunnel!>> Disse Raul, a voce bassa, indicando il muro che stava nascendo, di volta in volta, sotto la luce delle torce. Era una cosa stranissima ma allo stesso tempo elettrizzante. Tutto ciò che c’era in quella struttura era quel lungo corridoio e quel muro dal quale, ormai, non erano lontani.


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Giunsero dinanzi a quella parete che racchiudeva tutto ciò che celava quell’enigmatico tempio. Quando Raul diede vita, con la luce, al muro, rimase qualche secondo senza fiato, completamente esterrefatto. Vide un disegno che gli sembrò subito comune, quello di uno strano essere dal colore nero, l’alieno che aveva visto sulla tavola Maya, lo stesso disegno che aveva visto anche Ramirez alla scoperta delle tavole. <<Raul! Tutto ok?>> Chiese Ramirez, sempre a voce bassa, vedendo il compagno notevolmente impallidito. <<Si… si… lasciami solo qualche secondo!>> Rispose Raul, quasi balbettando. Raul decise di partire con l’illuminazione del muro, da sinistra verso destra. Il primo elemento che scrutò fu lo stesso alieno della tavola Maya. Quest’alieno aveva tra le mani una specie di seme e sul seme c’era una piccola scritta che stava a significare: uomo! L’ennesimo concetto ribadito, l’uomo creato dagli alieni. Proseguì nel suo percorso sul muro. Comparvero dinanzi ai suoi occhi degli strani oggetti, sembravano delle astronavi, o almeno erano degli oggetti volanti di 3500 anni prima. Proseguendo vide alcuni oggetti ingranditi, sembravano delle pistole che anche nei nostri giorni sarebbero state definite futuristiche. Raul non aveva tempo di pensare, tutto quello che poteva fare era immagazzinare tutte quelle immagini nel più breve tempo possibile. Mentre avanzava con la luce illuminò alcuni disegni che raffiguravano degli uomini in fuga. Sembrava quasi la raffigurazione di ciò che era scritto sulle tavole indiane. La luce si immobilizzò improvvisamente quando incrociò uno strano disegno, sembrava una specie di clessidra, composta da una miriade indescrivibile di colori. La clessidra! Il famoso mezzo attraverso il quale contattarli! Ebbe un gelido fremito, le ipotesi stese da loro stavano diventando qualcosa di più. Nel frattempo Ramirez cercava di analizzare, a suo modo, quegli oscuri disegni, ma presto, avrebbe dovuto sapere. Raul notò una specie di freccia che seguiva la clessidra. La freccia indicava delle gigantesche montagne sotto le quali c’erano degli uomini che indossavano degli strani vestiti, simili ad imbottite coperte.


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Le enormi montagne erano completamente bianche, doveva essere neve. Giunse quasi alla fine del muro ed incontrò una scritta notevolmente sbiadita e rovinata. <<Ramirez… cosa vuol dire per te?>> <<Non si legge… non saprei!>> Improvvisamente si udì una rauca voce, molto simile ad uno stridulo verso, che squarciò il silenzio che li stava accompagnando in quel claustrofobico viaggio nel passato. Ci fu un momento di assoluto panico che si tramutò in una delirante attesa. Raul illuminò alle spalle di Ramirez e dal nulla nacque un volto spaventoso, era Ludo. Ci fu quasi una mezza risata per allentare la tensione che si era creata. <<Puoi ripetere?>> Chiese Ramirez, al vecchio. Ludo ripeté quella strana parola. <<Cos’ha detto?>> Chiese Raul. <<Quella parola sul muro… vuol dire Antartide!>> Fu una sorpresa generale. Notarono, subito dopo quella scritta, un disegno somigliante ad un grosso punto interrogativo. Ludo era andato a chiamarli, dovevano andare via e abbandonare quell’oscuro posto. Avevano visto tutto quello che c’era da vedere. Ramirez volle delle spiegazioni e Raul, durante il ritorno, gli raccontò, con molto tatto, quello che avevano scoperto a Caserta. Se la sua interpretazione era giusta, quello che cercavano si trovava nel gelo polare dell’Antartide. Di sfuggita, mentre stavano abbandonando il tempio, Raul notò delle coordinate e un nome abbastanza leggibile: MONTAGNE TRANS ANTARTICHE. Forse, le montagne più alte del mondo. Le montagne che regnavano nei cieli dell’antartico. Probabilmente, quelle raffigurate nei disegni. Ramirez reagì malissimo alle notizie di Raul. Ma a freddo cercò di ragionare e decise di seguire Raul nel suo ritorno in Italia.


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Sarebbe stato, probabilmente, un passaggio verso il luogo dalla notte dei tempi definito il più oscuro per l’uomo, il più inesplorato, il più misterioso, l’Antartide.


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16. VESPRO CASERTA (ITALIA)

Non c’era stata una telefonata che aveva disturbato i sogni di Samuel. Non c’era stato nessun avvertimento, nessun tipo di segnale. Da quando Raul era partito, le sue notizie non erano pervenute a nessuno dei tre archeologi. C’è un ponte che si crea tra realtà e immaginazione, un ponte che solo raramente si fa carico dei densi colori della tangibile concretezza. Quel ponte era stato costruito da Samuel, da Luca, da Roberto e naturalmente da Raul. Era stato edificato quasi spontaneamente, quasi come se tutto quello che stavano vivendo era già scritto, già segnato nei loro destini. Parlare di destino, a volte, può essere scomodo, a volte irreale… ma se esiste un destino, esiste per tutti, per ogni cosa e soprattutto per la terra. Beh… la svolta che avevano preso le loro vite era strettamente collegata alla svolta che di lì a poco avrebbe potuto prendere il mondo. Per i tre che erano rimasti a Caserta, sarebbe stata l’ennesima giornata di dubbi e incertezze, di domande a cui le uniche risposte erano silenzi assordanti. Quando Samuel aveva incrociato lo sguardo di Simona, in cucina, aveva abbassato la maschera protettiva che si era imposto fino a quel momento. <<Amore? Se oggi non mi dici che cosa la notte ti tiene sveglio, giuro, non ti faccio andare a lavoro!>> Disse Simona, protagonista passiva delle notti bianche del marito. <<Bene… perché oggi, di lavorare, non mi va proprio!>> Samuel rispose con una battuta, ma non funzionò. <<Adesso basta!>> Urlò Simona. <<Hai un amante? Hai dei problemi? Cazzo… mi dici cosa ti tormenta?>> Simona, in un attimo, aveva perso tutta la sua femminilità, ma il tutto era pienamente giustificato. <<Calmati… prima di tutto! Ti ho gia detto che abbiamo scoperto qualcosa! Non posso parlartene, almeno finché non ci saranno dei riscontri reali!>> <<Me ne fotto dei riscontri… voglio sapere che cosa sta cambiando così radicalmente la vita di mio marito!>> I toni si stavano accendendo.


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<<Simona!>> Disse Raul, trattenendola per il braccio. <<…fidati, non vorresti saperlo!>> <<Cosa non vorrei sapere!? Cosa?>> Urlò la moglie. Urlò dannatamente forte. <<Perché urlate?>> Era sopraggiunta Valery. <<Niente piccola, vieni da mamma!>> Disse Simona, prendendola in braccio. <<Adesso ti porto a scuola!>> Poi il suo sguardo si fece più severo quando incrociò quello del marito. <<Il discorso non finisce qui!>> Disse la moglie, con tono fermo. Samuel decise di rispondere con il silenzio e osservò le sue donne scomparire dietro la porta d’ingresso. Adesso la situazione era diventata totalmente insostenibile. Colpa sua! Molto probabilmente, colpa sua, che non era riuscito a sopportare il peso del fardello che gravava su di loro. Mentre capì di essere completamente solo si rifornì dalla sua scorta segreta di sigarette e cercò, invano, di placare le sue ansie in una boccata di nicotina. Quando Roberto giunse all’università si accorse che Samuel era in ritardo, il suo ufficio era ancora vuoto. I giorni pieni di ignoti pensieri avevano colpito anche l’anziano professore, che dopo la scoperta, aveva abbandonato tutti i progetti a cui stava lavorando in precedenza. Era troppo convinto che con quello che avevano scoperto avevano superato il famigerato punto “buco nell’acqua”. Qualsiasi cosa gli avrebbero riservato i futuri eventi, qualcosa di palesemente considerevole era stato già portato alla luce. Roberto stava sostando davanti al distributore automatico del caffè, pessima miscela, ma pur sempre caffeina. Rammentò che la sera precedente, mentre stava sorseggiando un ottimo vino, gli balenò nella mente la sensazione che avrebbe potuto provare con il ritrovamento di questa fantasmagorica clessidra. Esisteva realmente? Oppure si stava inseguendo l’ennesimo “Sacro Graal”?


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Fu un fugace e velocissimo pensiero, che fece percepire tutto il suo dilagante, ignoto, nulla. Mentre stava per bere il caffè, qualcuno inavvertitamente, posò una mano sulla sua spalla e per poco Roberto non rovesciò il contenuto di quel bollente bicchiere di plastica, in terra. Era Samuel. <<Come va?>> Chiese Il neo arrivato. <<Se mi facevi cadere il caffè addosso sarebbe andata malissimo!>> La semi-battuta del professore non smosse nemmeno di un centimetro i marmorei muscoli facciali di Samuel, niente sorriso, nemmeno lontanamente accennato. <<Cos’hai ragazzo?>> Chiese Roberto, stupito dalla sua reazione. <<Questa situazione sta diventando pesante! Oggi ho litigato con Simona!>> <<Perchè?>> Chiese Roberto, nonostante già conoscesse la risposta. <<Ha capito che qualcosa mi turba!>> <<E non sei bravo a nasconderlo!>> <<Già… ma oggi mia moglie ha sbottato, le pesa vedermi insonne tutte le notti, le pesa il mio cattivo umore e il mio essere completamente assente!>> Roberto bevve finalmente il caffè. <<Quello che sappiamo è più importante di qualsiasi cosa! Ne abbiamo già parlato!>> Disse Roberto. <<Lo so… lo so, ma non pensi che potrei metterla al corrente…>> <<No!>> Lo interruppe il professore. <<Sarebbe uno shock per lei! Un punto a nostro svantaggio. Non possiamo allertare nessuno… intesi?>> Samuel non rispose. <<Intesi?>> Ribadì Roberto. Samuel annuì con il capo. <<Lo so che è difficile, lo so che questa storia ci ha stravolto, ma ormai ci siamo dentro… fin troppo!>> Già, c’erano dentro fin troppo! Fin troppo!


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<<Notizie di Raul?>> Chiese Roberto. <<No… silenzio assoluto!>> <<Perché non chiama?>> <<Non lo so amico… non lo so!>> Rispose Samuel, con un apparente demoralizzazione in atto. Le loro strade si erano divise, almeno per ora. Samuel era andato a tenere una lezione, mentre Roberto si diresse velocemente al suo ufficio, alla ricerca di qualcosa che lo potesse distrarre, almeno parzialmente, dalla scoperta più importante che l’uomo avesse mai fatto. Luca si stava godendo la rara giornata di sole, assoggettata da un cielo puramente azzurro, da raggi splendentemente accecanti e da nuvole mai così assenti. Si trovava a Via Mazzini, nel cuore pulsante delle attività casertane, la via per lo shopping, la via frequentata dai fighetti convinti, alla ricerca del costoso capo all’ultima moda. Era appena uscito da un bar, in cui aveva consumato una veloce colazione, composta da cornetto alla crema e un ottimo cappuccino. Stava cercando qualche maglioncino particolare, ma più veritieramente, stava cercando di distogliere la sua mente dal peso che lo assillava. Lui, più di tutti, era il principale artefice di quello che stava accadendo. Aveva trovato le tavole, con l’aiuto di Ramirez, lui aveva riportato quel terribile segreto alla luce e lui aveva coinvolto i suoi amici. C’erano tutti dentro, ma lui più di tutti! Aveva preso decisamente male la decisione di mandare Raul in Messico. Per quei viaggi era stato sempre scelto lui e, per lo più, il suo rapporto con Ramirez era ottimo. Era andata così e il suo unico pensiero era non pensare! Gli odori della città, quando c’era l’aria fresca del mattino, erano forti e chiassosi, erano odori di persone, macchinari, automobili, voci e suoni, erano odori veri, reali, tangibili. La sua indecisione momentanea era: il maglioncino verde o quello nero? Due colori opposti… uno raggiante, pastello, gioviale… L’altro cupo, triste, elegante… Avrebbe scelto il nero. Il suo stato d’animo doveva pur sempre essere rispettato. Quando uscì dal negozio in possesso del capo che più rispecchiava il suo stato d’animo, sentì qualcosa vibragli nel giubbone, era il telefonino. <<Pronto?>>


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<<Luca… sono Raul! Mi trovo a Napoli, all’aeroporto di Capodichino, sono arrivato da un’oretta, sono con Ramirez!>> Ramirez? Che cosa centrava Ramirez? <<Finalmente ti sei fatto vivo! Novità?>> Chiese Luca. <<Venite a prenderci, poi parliamo!>> <<Ehi… cosa nascondi?>> <<Luca… per piacere, venite a prenderci, non abbiamo tempo da perdere!>> La voce di Raul era stranamente severa. Per quale dannato motivo non aveva tempo da perdere? Qualcosa aveva scoperto… sicuro… e lui moriva dalla voglia di saperlo. <<Contatto gli altri e siamo da te!>> Confermò Luca. La conversazione cadde, forse a causa di una mancanza di campo. Luca preferì non perdere tempo e compose il numero si Samuel. <<Pronto?>> Rispose Samuel. <<Ehi… Raul è all’aeroporto, dobbiamo andarlo a prendere! Ha scoperto qualcosa, non so cosa ma lo sapremo pesto. Vado io?>> Passarono alcuni secondi prima della risposta, durante i quali Samuel pensò a tutto quello che stavano vivendo e ci pensò tanto intensamente e tanto velocemente che gli incominciarono a tremare le mani. <<Ok… vi aspetto all’Università!>> Luca sfrecciò sull’autostrada, senza rispettare nessun limite di velocità, senza rispettare nessuna legge, con la voglia di mandare a fare in culo tutto ciò che era fastidiosamente ordinario. Tutte le dannate regole che contornavano la vita di ogni essere umano perdevano ogni senso di fronte agli avvenimenti che stavano nascendo, a poco a poco, come un sole alle prime luci del mattino, tumultuoso o sereno che esso possa essere. Giunse al luogo stipulato, salutò calorosamente Raul e Ramirez e si diressero con la solita, spasmodica, velocità verso Santa Maria Capua Vetere, verso l’università, verso decisioni che sarebbero dovute essere prese per dare una radicale svolta a tutte le credenze che avevano vissuto, fino ad allora, con l’uomo. C’era una concreta possibilità che i libri di storia e quelli di archeologia sarebbero dovuti essere riscritti… sempre se ci fosse stato tempo.


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Raul, narrò, durante la folle corsa, tutto ciò che avevano scoperto, tutte le sue idee che si trovavano perfettamente in accordo con quelle del messicano ed ora anche con quelle di Luca. Si! Decisamente! La situazione doveva essere studiata attentamente e risolta il prima possibile. Quando giunsero dinanzi all’università, il posto per l’auto era un miraggio. Parcheggiarono davanti al cancello della segreteria. Fanculo a tutti… pensò Luca. Si ritrovarono, poco dopo, nell’ufficio di Samuel. Tutti e quattro più Ramirez. Fecero pindarici voli di fantasia, ebbero fantasmagorici pensieri… ma tornarono velocemente sulla terra. C’era davvero poco da fare… avrebbero cercato a tutti i costi di ottenere dei finanziamenti per organizzare una spedizione nell’Antartide. Ci vollero polemiche, bestemmie, ci volle opera persuasiva e ferma convinzione. La spedizione, composta da loro cinque più quattro esperti di escursioni “glaciali” sarebbe partita dopo due giorni. Ufficialmente per cercare una galleria sommersa dalla neve, ma il vero scopo, pesante e forse anche maledettamente illusorio, era la clessidra! L’oggetto degli “DEI”! Cosa avrebbero fatto se l’avessero realmente trovata? Tutti, chi più chi meno, ci aveva pensato, ma nessuno aveva voluto farne un dibattito, almeno finché quel miraggio non fosse diventato realtà. Ognuno di loro abbandonò qualcosa… Samuel si trovò improvvisamente sull’orlo del divorzio! Roberto mise a repentaglio la sua salute cagionevole! Raul abbandonò ogni sua attività e soprattutto la speranza di tenere d’occhio Lisa! Luca vinse il suo terrore per quelle montagne, dove aveva perso la vita il padre! Tutti ci misero tutto! Per quel viaggio che avrebbe potuto cambiare, non solo le loro vite, ma il moto quotidiano del pianeta terra!


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17. IGNOTO ANTARTIDE

C’è una zona di questo mondo oscura… Una zona più volte definita l’ultima scoperta dell’uomo! C’è un posto dove crollano le barriere, cadono le sicurezze. Ci si sente al centro di un glaciale nulla, privi di qualsiasi difesa! Si può rimanere abbagliati dal candore che ricopre ogni dove dell’Antartide, ci si trova davanti a palcoscenici mozzafiato, e maestose montagne sovrane che accarezzano il cielo con le loro punte imbiancate. Mille storie narrano di esploratori non più tornati da quei dedali di ghiaccio. Loro… avevano il dovere di provarci! Avevano la necessità di trovare un aggancio con una realtà che faticava ad essere accettata. L’Antartide è una delle otto ecozone biogeografiche della terra. Ha una superficie propria di 13 milioni di Km quadrati, è il quinto continente del mondo per estensione. Si presenta come il continente più alto del mondo, ma senza la mole enorme di ghiacci la sua elevatezza si ridurrebbe drasticamente. Osservato dall’alto ha vagamente una forma di pera. Il suo territorio è diviso in due parti: Antartide Orientale e Antartide Occidentale. Senza i ghiacciai l’Antartide ci apparirebbe come un’unica massa di terra composta da una serie di arcipelaghi montuosi. Ma neve e ghiacci con grande maestria unificano e amalgamano il tutto. Le due metà del continente risultano divise dalle maestose e spaventose Montagne Trans antartiche. Le stesse scovate sul graffito del tempio Maya. Le cime più alte superano i 5.000 metri. E’ la catena più importante, estesa per una lunghezza di circa tremilacinquecento chilometri. Ma vi è una catena montuosa ancora più imponente, quasi invisibile, per via del candore biancastro che la ricopre, i Monti Gambursten. L’Antartide è caratterizzato da un clima freddo. Nelle sue acque bastano pochi secondi per perdere la vita.


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Il piccolo aereo che trasportava gli archeologi aveva degli spaventosi sbandamenti, causati dal tagliente e travolgente vento glaciale. Erano giunti sul posto in un momento poco propizio. Una piccola bufera stava scatenando l’ira dei fortissimi venti dell’Antartide e la loro forza fatta d’aria e neve sottometteva tutto ciò verso cui si abbatteva. Più di una volta Raul ebbe la netta sensazione che l’aereo stesse per abbandonare il cielo e cadere a perdifiato sulle gelide montagne. Tutti, dal finestrino, avevano osservato lo stesso spettacolo e tutti avevano espresso con il viso lo stesso stupore. Quel posto donava al volto degli osservatori un miscuglio di paura e meraviglia. Rasentava un deserto bianco, dove al posto della bollente sabbia viveva una rigida neve. I cinque archeologi avevano scambiato poche parole con la troupe che li avrebbe dovuti guidare. Non avevano nessun tipo di piano. Quando sarebbero atterrati avrebbero indicato agli “esploratori” il luogo dove sarebbero voluti giungere. Ramirez aveva un viso profondamente segnato dal paesaggio che lo circondava. Per una persona nata e cresciuta in una culla di mare, ritrovarsi nel ventre del signore gelo non doveva essere una cosa di poco conto. Si udì un urlo dal pilota che aveva individuato la zona per l’atterraggio. Avvertì tutti che non sarebbe stato semplice, ma allo stesso tempo raccomandò a tutti di non agitarsi e farsi prendere dal panico, sarebbe filato tutto liscio. Quando l’impatto con la neve fu quasi ufficiale, il viso di Raul divenne bianco, quasi a voler simulare la padronanza incontrastata che quel luogo assumeva su ogni cosa. L’atterraggio avvenne nei pressi dei Monti Trans antartici, il luogo che suscitava il maggior interesse per i cinque. Quando gli uomini che avrebbero guidato la spedizione scesero, l’aria tagliente che sostava fuori dall’aereo si impadronì dei loro volti. Erano tutti perfettamente infagottati, ma nonostante ciò il caldo era ben lontano. Si lottava contro un nemico quasi invincibile, il gelo. Il vento rombava talmente forte da destabilizzare l’equilibrio dell’equipaggio. Quando Luca, con un enorme scarpone, mise piede sulla neve, potè percepire quanto fosse resistente quell’ammasso di acqua ghiacciata.


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Tutti misero il naso fuori e si resero immediatamente conto che il tempo per scherzare era definitivamente terminato, era giunto il momento di fare sul serio, il gioco diventava duro. Un freddo paralizzante si era impossessato dei loro arti e sorretto da un turbinoso vento rendeva tremendamente difficile ogni singolo movimento. <<Certo… accoglienza migliore non potevamo riceverla!>> Urlò Samuel, per farsi sentire. <<Hanno detto che questo non è niente in confronto alle tempeste che ci sono da queste parti!>> Rispose Raul, sempre urlando, per coprire l’ululato del vento. Il più sofferente del gruppo era Roberto. La sua età e le sue condizioni fisiche non avrebbero accettato quest’esposizione troppo prolungata alle intemperie. Più volte Samuel e gli altri avevano cercato di convincerlo a rimanere a casa, ma non c’era stato modo. Potrebbe essere la più grande scoperta dell’uomo e io devo esserci, aveva detto, cercando una mera giustificazione. Alla fine era giusto così, era un viaggio che sin dall’inizio li aveva visti assoluti protagonisti, era giusto che ci fossero tutti. Dopo poche ore, con l’aiuto della troupe, avevano allestito un piccolo campo che li avrebbe protetti almeno parzialmente dal freddo polare che ululava tutta la sua collera come un forsennato. Era impressionante la desolazione che si poteva avvertire girandosi intorno, chilometri e chilometri di assoluto nulla che assumeva un colore ben delineato: il bianco… Il bianco delle vesti di un angelo… Il bianco della purezza… Il bianco che a tutto ti fa pensare… tranne che al male. Era un luogo che non aspettava altro che una distrazione per colpire in modo letale e deciso. Ramirez cercava di far divenire quegli scenari familiari ai suoi occhi, un’impresa che si stava rivelando più difficile di quanto si potesse lontanamente immaginare. <<Conviene uscire il prima possibile, secondo le previsioni la bufera è destinata a peggiorare!>> Disse una delle guide. Quando Samuel guardò fuori, per un attimo pensò che forse avevano sbagliato tutto, che come bambini si erano lasciati attrarre da nuvole di mera fantasia. Non era il posto per loro… non quello.


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Fu un fugace pensiero, ma gli causò una sconfortante ondata di pessimismo. <<Ragazzo… sei pronto?>> Roberto, rivolgendosi a Samuel. <<Si… per quanto possa esserlo… si!>> Brutta risposta, alla quale Roberto non volle dare un seguito. Erano talmente imbottiti che se avessero avuto uno scontro con una squadra di football americano non avrebbero avvertito alcun tipo di dolore. Ma nonostante tutto avrebbero sofferto il freddo, che avrebbe simulato una lama tagliente sulla loro pelle. Se le spaventose montagne avessero avuto degli occhi, avrebbero visto tanti piccoli puntini, intenti ad incamminarsi verso di loro, in modo goffo e indeciso. Quel luogo sembrava aver stravolto ogni cognizione di tempo e di spazio. Non si riusciva a capire se fosse giorno o se fosse una notte appena accennata. <<Abbiamo un’idea di dove dirigerci?>> Chiese Roberto a Raul. Il ragazzo sembrò un po’ indeciso. Le Montagne Trans antartiche… sicuro! Ma dove esattamente? Come un flash nella sua mente affiorò un piccolo e minuzioso dettaglio, delle coordinate che aveva intravisto in quell’infernale tempio: 23°ovest, 17° nord. Raul superò velocemente i suoi amici con il fine di avvicinarsi ad una delle guide. <<Dobbiamo raggiungere questo punto!>> Disse, indicando con un dito sul foglio le coordinate che aveva segnato. <<Dobbiamo salire un po’! Non sarà semplice!>> Rispose la guida. Raul gli fece un cenno di assenso. Erano giunti fin lì e se fosse stato per lui sarebbero potuti andare avanti fino ai confini del mondo… se non c’erano già arrivati! Raul rallentò il passo per permettere a Samuel di affiancarlo. Erano divisi in questo modo: le guide si trovavano davanti, seguite da Raul e Samuel e alle loro spalle c’era il gruppetto formato da Roberto, Luca e Ramirez. Il vento aveva deciso di incutere più forza al suo moto, stava diventando insopportabile per potenza e gelo. Il gruppo stava scalando uno scivolosissimo tratto di montagna.


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Tutti gli archeologi erano agganciati a dei cavi a loro volta collegati a picchetti incastonati, di volta in vola dalle guide, nella roccia. La cosa che era stata maggiormente raccomandata era stato di non guardare in basso, per nessun motivo. Il percorso si stava rivelando più lungo e tortuoso del previsto e più volte a Raul sorse il dubbio di aver sbagliato qualcosa. Il buio stava calando e quel luogo aveva assunto le sembianze della tenebra più fitta, se mai essa avesse avuto qualche sembianza. Il penultimo della fila verticale degli scalatori era Roberto. Sotto di lui era situato Luca, ultima ruota di quella fila indiana. Luca, per un attimo, guardò giù e pensò istintivamente a quando suo padre, esploratore, aveva perso la vita proprio su quelle montagne, quando lui era poco più che quindicenne. Improvvisamente fermò il suo moto, appartandosi in una stanza segreta della mente ed estraniandosi da tutto ciò che stava vivendo. Si udirono delle urla, il peso che gravava sulle spalle delle guide, di Samuel e di Raul era diventato, improvvisamente, eccessivo. <<Che cosa succede lì sotto? Che cosa succede!>> Aveva urlato una delle guide. Raul aveva abbassato lo sguardo verso Ramirez. <<Cazzo Ramirez… controlla sotto, tutto ok?>> <<No… no… io sotto non guardo!>> <<Messicano… vedi se è tutto ok! Il peso è toppo forte, tra un po’ finiamo tutti a puttane! Vedi!>> Ramirez chiuse gli occhi per darsi coraggio e li riaprì solo quando la sua visuale si era spostata verso il basso. Sotto di lui c’era Roberto. <<Roberto?>> Urlò Ramirez. Non ottenne nessuna risposta. Percepì nel buio che stava prendendo possesso del posto e nel bianco che lo dominava, la figura di Roberto, posta in uno strano modo. <<Raul?>> Urlò Ramirez. <<Qui c’è qualcosa che non va!>> <<Cosa?>> Rispose Raul. Roberto sembrava un sacco appeso, sembrava un corpo privo di vita tenuto su per le spalle dalle corde.


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Sembrava morto! Si udì un altro urlo dall’alto. <<Stiamo perdendo stabilità, dobbiamo fare qualcosa, rischiamo di cadere!>> <<Ramirez? Che cazzo succede?>> Sbottò Raul. <<Un attimo… Roberto?! Roberto?!>> Il vecchio professore non dava nessun cenno di risposta. <<Non mi risponde cazzo… non mi risponde… sembra morto!>> Disse, piangendo, Ramirez. <<Che puttanate dici? Che cazzo dici!? Urlò Raul. <<Luca? Luca?>> Chiamò Ramirez. <<Si… sto raggiungendo Roberto!>> Luca cercò di farsi forza, non era il momento di fossilizzarsi sui ricordi traumatici della sua infanzia… non era il momento… soprattutto se aveva voglia di poter ricordare ancora. <<Cristo Santo!>> Urlò Luca. <<Che succede?>> Ramirez. <<E’ morto, sembra morto!>> Sembrava morto, o più propriamente lo era. Problemi cardiaci lo affliggevano da tempo e lui più di chiunque altro sapeva che quel viaggio sarebbe potuto essergli letale. Improvvisamente dall’alto caddero dei massi. Gli uomini al comando stavano cedendo. <<Samuel… Roberto è morto!>> Urlò Raul. Qualcuno coprì il grido di Raul. <<Slegatelo… dovete slegarlo, altrimenti finiamo tutti male!>> Disse una guida. Samuel, con una lacrima rivestita di ghiaccio che dipingeva il suo dolorante viso, fece un cenno d’assenso con il capo. Non potevano morire tutti! Almeno questo glielo dovevano! Andare avanti, soprattutto per lui! La notizia devastò gli già esagitati animi del gruppo.


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Tra pianti e urla disperate l’arduo compito toccò a Luca. Dopo suo padre, su quelle montagne, doveva dire addio anche ad un suo amico… destino infame! <<Addio vecchio mio!>> Disse Luca a voce bassa. <<Spero che sia tutto una grande cazzata e che tu possa vivere in eterno… magari in paradiso, te lo meriti!>> Luca lo liberò dalle imbracature. Il peso che gravava su di loro scomparve frettolosamente. Per raffigurare al meglio quell’avvenimento ci sarebbe voluto un magistrale campo totale, con il corpo senza vita di Roberto che affondava il suo peso nella gravità che il vento muoveva. Dopo pochi secondi il corpo del professore fu inghiottito dal buio e divorato dalle tenebre. Si infranse contro un muro di silenzio e la neve attutì quello che sarebbe stato un fragoroso tonfo. Roberto rimase inerte, lì nel nulla di quel tumultuoso deserto bianco, pronto ad essere ricoperto e celato da quella pura e spettrale neve. Recupereremo il corpo, questo volle pensare Samuel. Per darsi coraggio! Per andare avanti! Per non pensare che una delle figure più importanti della sua vita non c’era più! Era morto per la scoperta più importante dell’umanità… ma niente sarebbe valso la sua vita. Sei pregata di esistere maledetta clessidra, pensò. Altrimenti sarà stato tutto inutile! Giunsero, uno ad uno, su un altopiano. Era il luogo “coordinato” da Raul. Il forte vento sballottava la neve da tutte le parti e scrutare qualcosa era diventato difficile. Poi, dal buio pesto misto a turbinosi squarci di neve, si udì una voce. Una delle guide. <<Qui c’è qualcosa, una specie di grotta!>> Urlò. I corpi straziati dalla fatica e dal dolore si accesero improvvisamente di vigore. Forse c’erano!


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Sui loro volti, dove la pelle non era coperta, c’erano della macchie rossastre simili a scottature. Il freddo li aveva ustionati! Fecero dei piccoli passi in avanti per superare la barriera che la bufera aveva creato tra loro e la grotta. Quando giunsero all’entrata ci fu qualche secondo di assoluto silenzio musicato dal costante ululato del minaccioso vento. L’entrata si presentava come un buco nero, di dimensioni abbastanza minute. <<E’ questa la galleria?>> Chiese una delle guide. Già… la galleria. <<Dobbiamo entrare qui!>> Disse Samuel, senza esitare nemmeno per un secondo. <<Andremo avanti noi e cercheremo di illuminare parzialmente il tragitto!>> Concluse la guida. La situazione che stavano vivendo pareva tremendamente irreale, sconosciuta, priva di qualsiasi fondamento. Roberto era morto, poco prima. Il suo corpo era stato inghiottito dalle montagne e loro erano sul picco di una montagna con l’intento di entrare in una cavità inesplorata. La grotta si illuminò a mala pena quando gli uomini che li avevano condotti fin lì incominciarono ad ispezionarla. Tutti e quattro si trovarono sulla soglia di quella tenebrosa cavità, che secondo le loro intuizioni, doveva possedere la chiave del mondo. <<Ci siamo!>> Disse a voce bassa Raul. Per quanto possibile, cercarono di guardarsi gli uni con gli altri. Decisero di infondersi coraggio, ma soprattutto consapevolezza che tutto ciò che stava accadendo, tutto quello che si stava stravolgendo sotto i loro occhi era giusto, era tutto ciò che andava fatto. <<Entrate… c’è qualcosa!>> Una voce dall’interno della grotta aveva rotto il silenzioso lamento del vento che stava accarezzando il tremolio dei quattro archeologi. Entrarono nella caverna quasi in punta di piedi, quasi con timore. Il vento non spingeva più. Ed era possibile parlare senza dover urlare. La cavità, ora, era abbastanza illuminata.


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Si trovavano all’interno di una grotta abbastanza piccola e completamente vuota. C’era solo una parete che si differiva dalle altre, in quanto possedeva uno strano disegno. Samuel e Raul avanti, seguiti da Ramirez e Luca giunsero di fronte alla parete. <<Qui non c’è nemmeno una galleria, solo questo strano disegno!>> Affermò il capo della spedizione. Samuel preferì non rispondere. Chiedendo solo di illuminare quanto più possibile quella parete. I momenti che trascorsero tra la morte e la vita di quel muro furono gonfi di trepidazione. Quando il disegno prese vita la prima espressione fu quella di Luca, cazzo… disse. C’era una lastra di ghiaccio che ricopriva il graffito e gli addetti stavano provvedendo a distruggerla con degli strani picconi. Quando il ghiaccio cadde a terra emise un rumore come di vetri andati in frantumi. Il disegno si mostrò ancora meglio e soprattutto in tutta la sua maestosa complessità. Vi era raffigurata una grossa e strana figura completamente nera, figura ben nota ai quattro, era un alieno. Accanto all’alieno vi era un pianeta, molto probabilmente la terra. Il graffito, molto accurato e bello per essere così vecchio, si completava con una frase che ricopriva quasi tutta la parte sottostante il disegno. <<Non riesco a tradurla!>> Disse, in preda allo sconforto, Samuel. Ramirez chiese spazio. Riconobbe quelle lettere come un antichissimo dialetto messicano. <<Gesù mio!>> Esclamò Ramirez. <<Dicci cosa c’è scritto!>> Lo spronò Raul. Ramirez lesse: COLUI IL QUALE PENSA DI ESSERE TANTO IMPORTANTE DA RISVEGLIARE IL SOMMO SONNO DEGLI DEI FACCIA PRESSIONE AL CENTRO DELLA TERRA.


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Le parole avevano trovato il loro senso. Ma cosa diavolo volevano dire? Era una specie di indovinello? Per giungere alla clessidra? <<Calma!>> Disse Raul. <<Ragioniamo… noi abbiamo solo il disegno, quindi il centro della terra può essere il centro della raffigurazione del pianeta che c’è sul muro… il centro del mondo!>> Era stato risolto in fretta, contro ogni previsione. Ci fu un acceso dibattito su un punto della frase: “…PENSA DI ESSERE TANTO IMPORTANTE…” I dubbi furono scacciati via, come da copione, sarebbero andati fino in fondo. <<Samuel! Premi al centro del mondo!>> Lo esortò Raul. In quell’istante il tempo per Samuel si fermò. Improvvisamente tutte le persone che lo circondavano, sparirono. Rimase solo con se stesso, con la sua titubanza, con la sua fottutissima paura. Quei pochi attimi di fermo-immagini si ruppero, Samuel fece pressione al centro del graffito raffigurante la terra. Spinse con tutta la sua forza spinse per Roberto… pace all’anima sua. Spinse per Simona e Valery, per la gente che aveva il sacrosanto diritto di sapere. Ci fu un secco rumore. La parete dinanzi ai loro occhi cadde in mille pietre, fragorosamente. Le guide si allertarono spasmodicamente, e credendo in un crollo della grotta spronarono tutti ad abbandonare la cavità. Furono pochi secondi seguiti da un silenzio folgorato solo dal flebile vento che si poteva udire in lontananza. Quando la polvere cessò di volare si mostrò ciò che per troppi anni era rimasto celato dietro quel muro. C’era un piccolo altare, sembrava forgiato da un materiale pregiato, simile all’oro, ma non era oro. La loro attenzione fu catturata da quello che troneggiava sull’altare. Era proprio lui… almeno per quello che ne avevano letto.


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La clessidra! Il richiamo! La chiave che avrebbe spalancato le porte della verità! Era identica alla descrizione trovata sulle tavole. Solo che, naturalmente, non era attiva. Lo sguardo di Samuel divenne flebile e i suoi occhi si riempirono di uno specchio d’acqua che si sarebbe presto rotto in mille lacrime… Povero Roberto, c’era andato così vicino! I momenti successivi furono usati per recuperare l’oggetto con la massima cura e per cercare di abbandonare quel luogo infausto, padrone e tomba di uno di loro. Il corpo del vecchio professore non fu ritrovato, disperso nei meandri di quegli ignoti ghiacciai. Presero il volo qualche ora dopo. Straziati dal freddo, distrutti dalla fatica, ma soprattutto vogliosi di giungere a casa e scoprire che cosa il destino gli aveva riservato. Il loro velivolo sorvolò le temute montagne. Avevano scoperto quanto potesse essere subdola e terrificante la natura. Quanto potesse essere spaventosamente dura la realtà. Nessuno di loro sapeva che cosa sarebbe accaduto… Ma tutti sapevano che le loro vite non sarebbero state più le stesse… mai più. E intanto Samuel cercò con lo sguardo gli inferi delle montagne… fece cadere tre lacrime… “Addio professore… e grazie di tutto!”


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18. REALTA’ CASERTA (ITALIA)

Delle volte, alcuni ritorni possono fare del male. Altri possono far disperare, nell’angoscia di aver abbandonato quel posto. Altri ancora possono donare un sorriso in memoria dell’orrendo posto ormai lontano. Il loro ritorno in Italia era come il risveglio da un incubo, nero, un risveglio che non li lasciava sfuggire dai loro fantasmi. Avrebbero dovuto accettare e soprattutto spiegare la morte di Roberto. Avrebbero dovuto piangerla, tanto e intensamente. Possedevano l’oggetto misterioso, l’oggetto tanto desiderato quanto temuto. Samuel sperava solo una cosa, che ne sarebbe valsa la pena. Un mondo inimmaginabile avrebbe schiuso i suoi cancelli di fronte a loro, quattro illustri impreparati. La perdita del professore, per Samuel, era come un taglio sul cuore che non si sarebbe più rimarginato. Chissà! Se avesse insistito… se lo avesse convinto ad attenderli a Caserta! No! Troppo cocciutamente testardo! La colpa non era sua, né di nessun altro, ma stava cercando di farsi del male per abbandonarsi, corpo e mente, allo straziante dolore che lo attanagliava. Dio… com’era cambiata la loro vita! Com’era paurosamente mutata negli ultimi mesi. Come si era evoluta, come si era fatta pesante, quasi insostenibile… si, Dio… ma quale Dio? Un delirante pensiero nacque dal nulla in cui aveva dimorato fino ad allora: questi fantomatici alieni su quale dannato pianeta vivevano? In quale angolo dell’universo alloggiavano? Una domanda inutile! Senza alcun tipo di risposta. Una domanda che si spense tanto facilmente quanto una fiammella al vento. Quando giunsero a destinazione mancava qualcosa… si, certo, un corpo su cui piangere, su cui versare lacrime, su cui parlare con la sicurezza di essere ascoltati.


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La clessidra fu quasi dimenticata, messa da parte! Trascorsero due giorni, durante i quali tutte le persone interessate furono avvisate dei funerali. Si… che razza di funerali, senza il festeggiato, pensava continuamente Samuel. Simona cadde in lacrime alla lacerante notizia e diede gran parte della colpa al marito. Colpa tua e dei tuoi dannati reperti archeologici, aveva urlato Simona. Aveva raccolto la sua roba e la piccola Valery e si era poggiata, momentaneamente, a casa della mamma. Al ritorno di Samuel c’era stata un’accesa discussione e Simona aveva espresso il desiderio per qualche settimana, di alloggiare dalla madre! Quello che stava accadendo alla sua vita privata non lo scuoteva più di tanto. Sembrava quasi incantato, chiuso e difeso da una barriera che all’interno possedeva tutto il delirio che stava vivendo. Il fantomatico “oggetto” fu adagiato nello studio di Samuel. Rimase lì, coperto da un telo nero. Restò lì, immobile, come se avesse dovuto continuare la sua secolare inattività, solo in un altro luogo. Vi avrebbero posto attenzione dopo i funerali, così era stato deciso. Era un venerdì, di una fredda giornata di Marzo. La chiesa pullulava di volti noti e meno noti, di amici, conoscenti e illustri sconosciuti. C’era l’ex moglie di Roberto, c’erano le figlie, c’erano tutti quelli che lo avevano voluto bene e probabilmente, tutti quelli che lo avevano odiato. Il duomo di Caserta era avvolto da un rumoroso e melodioso vento che trasportava con se acqua e sofferenza. La strada che sostava dinanzi al duomo era stata chiusa al traffico e vigili un po’ annoiati stavano cercando di far circolare le poche macchine dei residenti in zona. L’acciottolato era livido e coperto da un velo di densa pioggerellina. La giornata si era presentata con una pioggia scrosciante, salvo poi mutare in un ombroso giorno vestito di gelida pioggia fastidiosa. Prima che incominciasse la funzione una delle figlie di Roberto, Lena, la più grande, aveva fermato Samuel. <<Voglio sapere solo una cosa, perché e morto papà? Voglio dire, almeno ne è valsa la pena?>> Chiese con il viso dipinto di fredde lacrime. Samuel piombò in uno stato di autentico e buio sconforto.


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La guardò negli occhi, la fissò con tutta la buona volontà che aveva, ma dovette abbassare lo sguardo e rispondere con uno sconfortante e penoso, non lo so! Samuel andò via, lasciò Lena al suo posto e uscì fuori dall’edificio. Nei passi che lo dividevano dalla porta aveva incrociato gli sguardi dei suoi compagni di viaggio, aveva incrociato, ma solo per un attimo, gli occhi cupi e tristi di Simona e il sorriso contagioso di Valery che ancora non comprendeva la gravità della situazione. All’esterno si sedette su una sporgenza figlia delle scalinate e casa di un piccolo lampione. Il duomo casertano era privo di vita e oggi più che mai. Possedeva un colorito particolarmente tenebroso, scuro, tetro, si… decisamente, aveva una pessima cera. Samuel, incurante del mondo e dei problemi, si accese una fragorosa sigaretta e se ne stette lì, adagiato quasi fosse un barbone, con i capelli che s’inzuppavano d’acqua e il pantalone notevolmente bagnato dopo essere venuto a contatto con l’umido suolo. Estrasse dalla tasca un foglietto. Erano le righe che avrebbe dedicato al vecchio professore e intanto la leggera pioggia si stava tramutando in un pesante acquazzone. Incominciò a leggerlo nella sua mente, mentre i suoi panni si riempivano d’acqua sempre più: ECCOCI AMICO, ECCOCI PROFESSORE, ECCOCI MAESTRO. INCROCIAI IL TUO SGUARDO QUANDO ERO ANCORA UN RAGAZZINO E TU UN RUDE OMACCIONE, SEVERO ED INFLESSIBILE. DA TE HO APPRESO TANTO, CON I TUOI INSEGNAMENTI MI HAI MOSTRATO COME SI VIVE, COME SI AGISCE, COME CI SI DEDICA ANIMA E CORPO ALLE PROPRIE PASSIONI. IL GIORNO DELLA MIA LAUREA MI DESTI UN’OCCASIONE UNICA, QUELLA DI AFFINACARTI NEL TUO LAVORO ALL’UNIVERSITA’. MI RIEMPISTI LA VITA DI GIOIA E PER ANNI ABBIAMO LAVORATO, MANGIATO, STUDIATO, FIANCO A FIANCO. ABBIAMO RISO, LITIGATO, GIOITO. ERI PARTE DELLA MIA FAMIGLIA E NE RESTERAI UN INDELEBILE RICORDO. MOLTI HANNO STORTO IL NASO QUANDO SIAMO PARTITI PER L’ULTIMO VIAGGIO, BEH… VORREI URLARE AL MONDO INTERO CHE SI SBAGLIAVANO, MA ANCORA NON POSSO FARLO, NON ANCORA.


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UN GRANDE DOLORE E’ STATO NON POTERTI RIVEDERE PER L’ULTIMA VOLTA. MA COME MOLTI DICONO, IL CORPO E’ SOLO UN MEZZO, UNA SPECIE DI APPARTAMENTO… A questo punto la scritta sul foglio diventava piuttosto nervosa e lo stesso Samuel faceva fatica a capirla. Stava toccando un punto delicato. Quello che riguardava l’anima, Dio, l’aldilà… Beh, riguardava tutto quello a cui avevano donato gli ultimi mesi e soprattutto il corpo di Roberto. MIO CARO AMICO, TU RIMARRAI SEMPRE UNO GROSSO PEZZO DEL MIO CUORE. FARAI PARTE QUOTIDIANAMENTE DEI MIE PENSIERI E DELLA MIA VITA, FARAI PARTE DI ME, DI TUTTO CIO’ CHE AVRO’ E SCOPRIRO’. UNA VOLTA MI CHIEDESTI COSA AVREI VOLUTO SCOPRIRE, COSA AVREBBE RAPPRESENTATO PER ME IL SOGNO, LA SCOPERTA DELLE SCOPERTE, BEH… ORA POSSO RISPONDERTI… VORREI SCOPRIRE LA VITA DOPO LA MORTE E ESSERE SICURO CHE TU SIA LI’ AD ASCOLTARMI E A GUIDARMI ANCORA, COME HAI SEMPRE FATTO. MA NON POSSO SAPERLO! Già, tutto quello che stavano scoprendo li aveva portati lontani anni luce da quella fantastica scoperta, da quel lontano e orami quasi impossibile sogno. Due erano le possibili soluzioni: o c’era la vita dopo la morte e quindi tutto quello per cui avevano lottato fino ad allora era solo una folle illusione… Oppure era tutto reale, c’erano esseri di pianeti sconosciuti, non c’era Dio, non c’era l’aldilà e soprattutto non c’era più Roberto… O almeno ci sarebbe stato, ma solo nei loro ricordi… TI PROMETTO CHE VERREMMO A CAPO DI TUTTO, CHE IL TUO SALTO NEL BUIO NON SARA’ STATO VANO E CHE PRESTO AVREMO UNA RISPOSTA. HAI LASCIATO IL VUOTO, CHE PORTERO’ DENTRO PER SEMPRE, PER IL RESTO DEI MIEI GIORNI! TI VOGLIO BENE ROBY SAMUEL.


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Il foglio era diventato pesantissimo a causa dell’acqua che ne aveva invaso ogni angolo. Il funerale era prossimo all’inizio e Samuel era uno straccio sia psicologicamente che fisicamente. Sembrava essersi fatto un bagno completamente vestito. Ripiegò con cura il foglio, lo introdusse nella tasca della giacca, si alzò e si diresse dalla parte opposta al duomo. Non avrebbe assistito al funerale, no! Non avrebbe letto, avrebbe tenuto tutte quelle parole solo per loro due. L’immagine dei suoi passi indecisi e tremolanti sotto lo scrosciare di una pioggia di incandescente candore era l’allontanamento dalla realtà, la realtà che l’uomo pensa di conoscere. Si stava incamminando verso l’orizzonte… L’orizzonte degli eventi che gli avrebbe mostrato la verità. In così poco tempo la sua vita era stata sfasciata. Moglie e figlia lontane per pausa di riflessione. Il miglior amico e padre archeologico via per sempre. Rimaneva solo tutto quello per cui si era sacrificato. L’assenza di Samuel fu notata solo dai diretti interessati, ma i tre rimasti reagirono quasi come se si aspettassero un comportamento del genere. La moglie non ci fece caso o forse non volle farlo. Roberto… se lui c’era ancora oppure no, l’avrebbero scoperto molto presto. Mentre Samuel si allontanava a passo lento, dal duomo risuonavano tristi note di compianto, un uomo non c’era più e la musica stava accompagnando quel lugubre momento. Quando si perde qualcuno, qualcuno di caro, qualcuno a cui pensavi potesse essere impossibile rinunciare, cerchi di farti forza, di guardare avanti con la ferma convinzione che quella persona ti guardi ancora, che vive ancora, anche se non fisicamente. Samuel non poteva cullare il suo dolore nemmeno su quest’idea. No! La vita di Roberto si era spenta come una flebile fiamma che mai più sarebbe stata accesa e per sempre avrebbe vagato tra bianche tenebre di solidi ghiacciai. Quando la cerimonia giunse al termine Raul incrociò lo sguardo di Simona, mentre in una silenziosa fila tutti i partecipanti stavano abbandonando la chiesa. <<Non credo che serva questo a Samuel!>> Disse Raul.


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<<Io stento a riconoscerlo… mi nasconde delle cose, passa sveglio tutta la notte… sparisce per giorni… questo fa male anche a Valery!>> Raul fece un piccolo cenno di assenso e sul suo viso comparve un piccolo e amaro sorriso. <<Se non vuoi crederlo guarda noi, siamo tutti nelle stesse condizioni!>> Rispose Raul. <<Cosa siete andati a fare in Antartide? Raul?! Che cosa sta succedendo?> In un attimo passò nella mente di Raul il film di tutto quello che avevano vissuto, la risposta giusta non sarebbe stata la migliore, non ora. <<Non posso dirtelo!>> <<Basta!>> Urlò Simona. Tutte le persone che si trovavano ancora all’interno del duomo volsero la loro attenzione verso i due. Quell’urlo aveva rotto il rispettoso silenzio che dominava quelle sacre mura. Simona si allontanò frettolosamente con le braccia occupate da Valery. Raul rimase nella sua posizione, dopo poco gli si affiancarono Luca e Ramirez. Era orrendo! Il peso devastante di quello che celavano gravava tremendamente sulle spalle di ognuno di loro. Rimaneva ancora una cosa da apprendere! Poi, magari, si sarebbe studiato il da farsi! Il cielo stava accompagnando il triste evento con una subdola pioggia che batteva pesantemente contro l’asfalto viscido. Risuonava come tanti piccoli pezzi di vetro che si infrangevano simultaneamente contro il vecchio acciottolato. <<Non si può tornare indietro?>> Chiese Ramirez, quasi puerilmente. <<No amico! E ti dico una cosa, se si potesse io non vorrei… ora voglio sapere, brutta o bella che sia, tutta la verità!>> La risposta di Luca fu decisa, quasi gelida. Sembrava un dottore che mostrava al paziente la cartella clinica. <<Che facciamo?>> Domandò Ramirez. <<Andiamo da Samuel, dobbiamo affrettarci, è il nostro momento… dobbiamo assumerci le nostre responsabilità!>> Disse Raul. Sarebbero andati alla villa di Samuel.


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Villa vuota, abbandonata da Simona e Valery. Avrebbero condiviso quello spazio con Samuel, almeno avrebbero dato a quelle mura un aspetto diverso dalla solitudine. Il tragitto che li divideva dalla villa non era lungo, soffermandosi sui volti degli archeologi, si poteva notare come ognuno vivesse la tensione a modo proprio, e come ognuno era impaziente di mettere la parola fine a quella terribile e arcana situazione. Perdite e dolori si sarebbero specchiati in quegli attimi che li dividevano dalla clessidra. Con la certezza che il tempo per tornare indietro era ormai giunto al temine!


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19. PIOGGIA CASERTA (ITALIA)

Il tempo che li aveva separati da quel momento era trascorso denso, lento, come se avesse cercato di passare attraverso una fessura troppo stretta per permettere il suo normale fluire. Era così strano, proprio ora che si trovavano tanto vicino alla soluzione, avevano una sfrenata voglia di mandare tutto all’aria. Erano stanchi, sia fisicamente che psicologicamente, ma cercavano di accendere le loro emozioni cibando i loro pensieri con le immagini del favoloso reperto di cui erano entrati in possesso. Ognuno di loro era rimasto conquistato dal fascino e soprattutto dalla responsabilità che era entrata a far parte delle loro vite. I giorni che trascorsero furono una specie di pausa di riflessione. Ogni protagonista di quel viaggio li aveva usati per capire quanto in là volessero spingersi e se, arrivati a questo punto, ne valesse davvero la pena. La luce che filtrava dalla finestra era povera. Era l’abbaglio di un piccolo lampione situato nel giardino. Era l’unica luce che ravvivava la cucina di Samuel. Si trovava lì, immobile, con dinanzi un tavolo malamente apparecchiato. Si lasciava accarezzare dalla povera luce che possedeva il buio di quella stanza. La barba stava facendo più del dovuto sul suo stanco ed invecchiato volto. Il fumo di una sigaretta morente in un posacenere stava danzando come un fantasma in cerca della sua perduta destinazione. Avrebbero cominciato quella sera! Il velo che ricopriva la “clessidra” sarebbe caduto e l’oggetto sarebbe stato studiato. Avrebbero cercato di farlo funzionare? Si sarebbero spinti tanto oltre? Era questa la domanda che aveva ipnotizzato Samuel. Fosse stato per lui, avrebbe fatto tutto ciò che era possibile, aveva perso troppi pezzi in questa storia per fermarsi ora, sul più bello… sarebbe stata una resa troppo amara. La signora sigaretta aveva consumato la sua breve vita tra fumo e cenere. L’unica cosa viva che rimaneva era il respiro di Samuel.


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Dio mio, pensò. Quanto gli mancava Roberto! Quanto sentiva la mancanza di sua figlia, di sua moglie. A Simona non dava nessuna colpa. Lui era cambiato tanto… troppo e a lei non aveva dato nessuna spiegazione. Mai! Samuel, stancamente, prese il telefono e nella memoria del cordless fece scorrere l’elenco numerico. Cessò il suo moto sul numero di casa di sua suocera. Quanto erano silenziosi e pieni di tristezza quei bip che lo separavano dalla risposta. <<Pronto?>> Rispose una voce fredda. <<Salve, sono Samuel, potrei parlare con Simona?>> Ci fu un attimo si silenzio durante il quale la madre di Simona stava riflettendo sul da farsi. <<Un attimo!>> L’attesa fu snervante, soprattutto nelle condizioni in cui si trovava. <<Si?>> <<Amore?>> <<Cosa c’è?>> Rispose Simona. <<Volevo solo chiederti scusa… scusa per quello che ti ho fatto passare, credimi… quello che nascondo non ha nulla a che fare con la nostra vita privata! Se tutto andrà come deve, te ne renderai conto tu stessa!>> Il breve monologo di Samuel terminò. <<Mio Dio Samuel, parli come un pazzo… amore, cos’è che ti tormenta?>> <<Ciao Simona!>> Samuel mise giù la cornetta. Si era sfogato, almeno in parte. Ma la verità era che le aveva detto, per l’ennesima volta, le stesse cose e non si sorprendeva se sua moglie lo credeva un uomo poco sano di mente. Se il vivere quotidiano, se la vita di ogni singola persona, dopo la loro scoperta, sarebbe cambiata, forse ne valeva la pena. E forse, Simona, un giorno, avrebbe capito. Rimase ancora nell’oscurità, avvolto come da un mantello. Aveva dato vita all’ennesima sigaretta che simulava una lucciola arancione nelle tenebre che accompagnavano i suoi pensieri. Avrebbe atteso i tre e tutto sarebbe cominciato.


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Quelle maledette montagne, pensò Luca, dovevano essere la culla del demonio. Il percorso che li separava dalla villa, ma più propriamente dalla “clessidra”, era breve, ma abbastanza lungo da donare ad ognuno di loro tempo per rimembrare e se mai maledirsi. Luca, su quelle dannate vette, aveva perso il padre e adesso anche un suo amico. L’unica cosa di cui era certo era che lì, nel regno dei ghiacci, non ci sarebbe tornato, mai più. L’animo di Raul sembrava quasi meno tumultuoso dei mesi precedenti. Tutto quello che stava accadendo somigliava ad un film d’avventura o un libo fantastico, ed era stato un grande aiuto per distrarlo da Lisa. Da quando aveva cominciato questo fantomatico viaggio nei meandri dell’oscura conoscenza aveva riacquistato un vigore che sembrava perso. Forse, più che agli altri, quest’avventura aveva giovato a lui. Indirettamente sperava di diventare famoso. Uno dei più famosi. Di diventare ricco da far schifo e di rifiutare quella “povera” donna quando sarebbe tornata da lui. Una buca lo fece sobbalzare e infranse il lago di pensieri che si stava prosciugando nella sua mente. Mancava poco, il traffico che li teneva inchiodati all’asfalto era quello di Via G. M .Bosco, una delle strade principali di Caserta. Era una via molto lunga fiancheggiata da locali di ogni tipo. Andando verso Corso Giannone, sulla destra si potevano riconoscere una banca ed una scuola, mentre sulla sinistra c’era un via vai continuo di persone dovuto ad un rinomato bar affiancato ad una sala di scommesse sportive, la migliore in zona. Nevrotici piloti di macchine scadenti cercavano un posto auto per entrare nel loro paese dei balocchi e scommettere su cavalli e partite, cercando una fortuna e uno scudo per difendersi dallo spettro del fallimento, che a loro insaputa, già li aveva inghiottiti nel suo limbo di dramma e solitudine. Si dice che nella vita per essere qualcuno bisogna dare qualcosa. Che niente è per niente. Beh… loro avevano dato… Avevano dato una vita, avevano dato del tempo, la loro quotidianità era stata rapita da tutto quello che li stava circondando. Quando questa storia era iniziata gli istinti di tutti loro avevano acceso le loro luci sulla possibile fama e sui possibili guadagni. Ora, tutto quello che chiedevano, era un po’ di verità, un po’ di chiarezza in quel buio pesto attraverso il quale stavano vagando sperduti.


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Le luci avevano abbandonato le strade e l’oscurità si era adagiata comodamente sul fiume di persone intente a cercare cose indefinite. Si ritrovarono dinanzi alla villa di Samuel. Tutti e tre di fronte al cancello che una volta supertao avrebbe svelato arcani segreti. Ebbero un lungo momento di esitazione, tutti, nello stesso istante. Come se avessero paura d’entrare, paura di scoprire, paura di non poter tornare. Luca posò il suo dito tremolante sul pulsante del citofono. Un cielo che grondava solitudine li possedeva in una morsa di spasmodica attesa. <<Si?>> La voce di Samuel si fece spazio nel citofono. <<Siamo noi!>> Rispose deciso Luca. Il cancello automatico si aprì, emettendo una strano cigolio, che ebbe l’abilità di trasmettere un’inquietudine ancora maggiore. Ogni cosa che sarebbe accaduta da lì fino alla fine del percorso sarebbe potuto essere stato preso come un segno. Positivo o negativo? Questo spettava a loro deciderlo. Il giardino della villa sembrava il letto della morte, la luce che non c’era, il vento che non soffiava, il silenzio che non si rompeva. Bobby, il cane di casa, se ne stava muto, nella sua cuccia, con la coda tra le gambe e la paura di abbandonare il suo porto sicuro. Gli animali percepiscono la negatività prima degli esseri umani, questo era decisamente un segno negativo. Quando s’accostarono all’entrata, la porta era semi aperta e Samuel con mezzo volto percettibile, li stava attendendo in silenzio. Sembravano quattro cavalieri in procinto di salvare il mondo e chissà, forse, lo erano! Samuel li esortò ad entrare con un silenzioso cenno della mano, non volò una parola, un rumore, un soffio d’alito. Quasi come se parlare fosse vietato, come se parlando si potesse infrangere la sacralità di quel momento. Il tetto del mondo era nero, come un mare d’odio che si agitava durante una tempesta di collera. Tra quelle mura si trovavano in quattro, come in fondo erano sempre stati, solo con un piccolo e doloroso cambiamento: il messicano per il vecchio professore.


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I loro gesti, il loro incedere, era lento, quasi irritante, come se volessero ritardare quanto più possibile la soluzione finale. Era un comportamento strano. Quasi un controsenso. Le possibili motivazioni erano due: o avevano paura di quello che si sarebbe potuto scatenare… oppure il timore di una smodata delusine era uno spettro troppo forte per essere scacciato. I panni che indossava Samuel erano malmessi e sgualciti, un jeans e una felpa nera lo addobbavano con tutte le loro irregolarità. Probabilmente il risultato della mancanza di Simona, o più propriamente, la voglia da parte di Samuel di lasciarsi andare, di non pensare, di non curare niente, eccetto i suoi pensieri. Il sottofondo fatto di parole non dette, di pensieri imprigionati… Fatto di passi strascicati e flebili, stava regnando sul loro moto. Era come se tutto il rumore causato da quella serie di eventi fosse cessato d’improvviso, incappucciato da un tempo che ormai era giunto in prossimità del precipizio finale. <<Entriamo!>> Disse Samuel, rompendo quella sorta d’angosciante incantesimo e segnalando con un braccio proteso, la porta dello studio. C’erano! Finalmente c’erano! Le nuvole che pesavano sul cielo rincorrevano paesaggi fantastici, inneggiando mondi sommersi. Sulla tomba di Roberto il vento rumoreggiava come spinto da insana follia. Gli alberi del cimitero, con maestria, stavano solfeggiando, con i loro rami, macabri suoni di un posto lontano. La villa era circondata da un silenzio irreale, figlio di un’atmosfera di trepidante attesa che sembrava, tutt’un tratto, coinvolgere il mondo intero. Poco distante da quel luogo, una donna stava contemplando il cielo adagiata alle inferriate di un balcone. Il vento non scoraggiava la sua guardia. Una piccola lacrima cominciò a soffermarsi sui lineamenti del suo viso. In principio fu una lacrima, seguita da una seconda, una terza… E via via tante altre! Il suo volto sembrava una maschera di sofferenza abbellita da mille perle di dolore che lasciavano il loro posto per precipitare nel nulla.


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Quella donna triste, sola, quella donna che mostrava fatica anche solo a reggersi in piedi… era Simona. Pensava ininterrottamente a Samuel. Cosa nascondi amore, pensava. D’un tratto si sentì chiamare. Simona si voltò e i suoi occhi si riempirono della piccola Valery. <<Ma papy quando torna? E’ un sacco di tempo che non mi legge la favoletta della buonanotte!>> Aveva detto la piccola. Presto amore, presto, avrebbe voluto rispondere Simona. Ma tutto quello che potè fare fu baciarla, stringerla forte e distrarla. Lei avrebbe pianto ancora, perché voleva farlo, perché la sua vita in pochi mesi si era stravolta, perché suo marito era sfuggente e aggressivo, perché, ne era convinta, niente sarebbe stato più come prima. Si lasciò andare coperta dal cielo spettrale di una notte bellicosa. Il vento aveva dato nuova spinta alle sue folate e i capelli di Simona, ora, danzavano nell’aria una danza di sofferenza, una danza fredda, senz’anima. In quella scultura tenebrosa un ballo di sensi, di lacrime, di capelli al vento, di vestiti malmenati dal freddo, di mani doloranti, di paura, di bugie… Di giorni, ormai, senza luce!


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20. TENEBRA CASERTA (ITALIA)

La vita è fatta di attimi, di momenti, di decisioni semplici e dolorose. Avversità, ingiustizie, gioie e successi sono i punti cardine di ogni esistenza su questo pianeta. La vita è fatta di scelte, che ti portano verso sentieri impercorribili, lungo steccati morenti, con il pericolo di essere assalito da esseri innominabili ad ogni passo indeciso. C’erano pezzi di tenebra, c’erano tanti piccoli pezzi di tenebra nei cuori dei quatto archeologi. Era giunto il momento che tanto avevano sognato all’inizio del loro percorso. Era giunto, facendosi attendere a lungo, portando con la sua venuta molto più dolore che gioia, molte più lacrime che sorrisi. Forse, quel criptico oggetto, aveva dei debiti verso di loro, o forse no, era solo il regolare corso degli eventi, che aveva seguito gli spaventosi piani del destino. Caserta era in fermento, come ogni notte, ma a quest’imbrunire le strade si erano affollate più che mai, e i viziosi esseri umani avevano sfogato tutta la loro voglia disperata di libertà. Case e luci accese rappresentavano persone in collera con quelle vite, persone desiderose di dormire, ma impossibilitate a farlo a causa degli eccessivi schiamazzi provenienti dall’esterno. Luce diffusa parzialmente da lampioni isolati donava all’asfalto un aspetto malato, rendendo le strade simili a correnti acquose di ricordi in putrefazione. Poteva sembrare un giorno come tanti, un giorno come un altro. Probabilmente lo era per tutte le persone inconsce, che vagavano nell’oscurità dell’ignoranza, ma non per loro… no. Non per chi aveva lottato e sofferto per una scoperta che avrebbe potuto cambiare le carte in tavola, per sempre. Quello studio, che per un po’ di tempo era rimasto all’oscuro, aveva ripreso vita, aveva ripreso a fermentare supposizioni e considerazioni, speranze e paure.


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Il volto di Samuel era teso, sembrava una maschera pietrificata dalla desolazione, ma non era troppo diverso dagli altri volti, privi di luce, privi di tutte quelle certezze che avevano contraddistinto il loro lavoro. C’era una luna in cielo che splendeva da ovest verso est, c’era un puerile vento che si strofinava contro gelide vetrate. C’era il momento, il loro momento, ed era giunto. <<Dobbiamo decidere ora…>> Disse Samuel, con voce severa, rompendo il silenzio che li aveva accompagnati dal loro ingresso nella villa. <<…se ci sarà la possibilità di mettere in moto quest’oggetto, lo faremo?>> Fu una domanda secca, decisa. Samuel non cercò giri di parole, non di nascondersi dietro falsi proclami, dipinse la realtà su un telo di concretezza e la pose davanti agli occhi dei suoi compagni. In quell’istante il battito dell’orologio da parete dello studio sembrò cessare il suo assiduo ticchettio. Il tempo non si fermò, ma simulò di farlo, molto bene. <<Hai davvero intenzione di…>> <<Si!>> Rispose Samuel, interrompendo la domanda di Luca. <<Forse hai ragione… siamo giunti fino a questo punto, tutti noi abbiamo perso qualcosa o qualcuno! L’unica cosa che ci può appagare è solo arrivare fino in fondo!>> Reagì Raul. <<Non possiamo prendere una decisione che riguarda il mondo intero! Se tutto questo è vero… pensi che riguardi solo noi?>> Disse, urlando, Luca. <<Siamo due contro uno, Ramirez? Tu che dici?>> Chiese Samuel. Il volto del messicano sarebbe stato quello decisivo, o forse non sarebbe valso a niente. Samuel sembrava troppo convinto per potersi tirare indietro. A costo di farlo da solo, avrebbe dato nuova vita alla “clessidra”. <<Facciamolo!>> Disse Ramirez. <<Luca? Facciamolo… sarebbe insensato tiraci indietro proprio ora!>> La sentenza era stata emessa. Se quell’oggetto era realmente la chiave di razze e mondi sconosciuti, l’avrebbero scoperto presto.


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Senza paura. Solo con la voglia di dare un senso a tutti i sacrifici che erano stati fatti. <<A volte con voi ragionare è inutile! Vediamo quello che succede!>> Disse, rassegnato, Luca. Samuel fece scorrere il telo che ricopriva l’antico oggetto. Lo fece scorrere in modo lento e delicato e quando il telo toccò terra si percepì appena un ovattato rumore di plastica. Si alzò una leggera polvere, creò un po’ di suspense, in quanto rese la visuale dell’oggetto, leggermente poco chiara. La polvere si placò in pochi istanti e la “clessidra” si mostrò in tutto il suo arcano mistero dinanzi ai suoi riesumatori. Era la prima volta che la rivedevano da quando l’avevano recuperata tra i ghiacciai. Era la prima volta che si trovavano a pochi centimetri da quel leggendario e complesso oggetto. Avrebbe avuto bisogno di una ripulita, ma ciò che balzò immediatamente agli occhi fu l’elemento con cui l’oggetto era formato. Era un materiale strano, simile all’acciaio, ma sembrava brillare nonostante lo sporco che regnava sulla sua superficie. Si, era una specie di combinazione tra acciaio e argento, forse oro bianco, o forse un materiale sconosciuto, proveniente da chissà quale galassia. C’era fermento nell’aria, mille sensazioni si stavano scontrando negli animi degli archeologi. <<Prima di iniziare…>> Disse Samuel. <<…voglio dedicare questo momento a Roberto! Caro amico, che tu ci sia o non ci sia, tutto questo è soprattutto merito tuo!>> Tutti si unirono a quella specie di preghiera. A quel ricordo, a quel finto parlargli. Se quello che stavano cercando di capire era la realtà non c’era nessun Roberto, non più. Volarono delle ore in cui l’oggetto fu ripulito e lustrato. Per capire con che materiale avessero a che fare, cercarono di farlo reagire alle sostanze più disparate, ma niente… era qualcosa di non classificabile, dovevano arrendersi all’evidenza, per l’ennesima volta. Luca e Ramirez incrociarono i loro sguardi, insieme, contemporaneamente, ritornarono a Pune, ritornarono agli scavi, all’afa che li abbatteva, all’emozione per la scoperta.


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Alla fin fine, tutto quello che stava accadendo era una conseguenza delle loro azioni. Provarono una forte sensazione, non seppero distinguere se fosse soddisfazione o chissà ché, ma era una sensazione bellissima, irripetibile. L’orologio adagiato sulla parete dello studio, che aveva fatto da testimone a tutti gli sviluppi che c’erano stati, segnava le 3.40, notte fonda, notte buia e dannatamente macabra. Il viso di Raul era tirato, ogni suo movimento era teso, quasi come se avesse difficoltà a muoversi. Soffriva della sindrome del tennista, che quando si trova con il punto partita in mano si perde in un vortice di emozioni che lo portano a sbagliare. La situazione era ben più seria di una partita di tennis, ma le sue emozioni gli stavano regalando un brutto scherzo. L’unica figura impassibile, che si muoveva con sicurezza e con ferma decisione era Samuel. Non un’esitazione, non un momento d’indecisione Rasentava un chirurgo alle prese con l’operazione del secolo. <<Ci siamo! Raul, prendi gli appunti dove Roberto aveva tradotto il passo della “clessidra”>> Ordinò Samuel. Raul si avvicinò ad un’impolverata fila di libri, ne estrasse uno, quello con la copertina rossa e al cui interno si potevano riconoscere degli estranei fogli di carta. Lo aprì e riconobbe, immediatamente, la sua scrittura. Mentre Roberto traduceva, lui aveva avuto il compito di trascrivere le frasi pronunciate dal vecchio professore. Estrasse il foglio dov’era stato riportato il passo che interessava. <<Ecco!>> Disse, porgendo il foglio impregnato d’inchiostro, a Samuel. All’esterno un forte vento aveva incominciato a scuotere gli alberi del giardino. Li scuoteva talmente forte che a volte Raul, guardando fuori, aveva avuto l’impressione che quei tronchi, sotto quel turbinio di solido vento, potessero cedere. La luna in cielo era offuscata da cumuli di nuvole che stavano raggiungendo un punto d’incontro per scatenare un temporale epocale. Alcuni flash di luce bluastra cominciarono a prendere vita all’interno delle nere nuvole. Caddero, dapprima, poche gocce d’acqua che divennero miliardi di pesanti goccioloni che sembrarono, per un attimo, far tremare la terra.


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Quelle lettere nere, incollate su quella carta impolverata, parlavano di un meccanismo d’apertura soggetto a due pulsanti, situati alle due estremità del cerchio. <<Qui ci parla dei pulsanti!>> Affermò Samuel. <<Cerchiamoli!>> Continuò. Diedero più luce alla stanza. Illuminando l’oggetto con una lampada particolare, usata appositamente per dare una maggiore luminosità ai reperti archeologici. La loro posizione intorno alla “clessidra” assunse la forma di un rombo, di cui loro erano i vertici. Nel centro del rombo era situata la chiave da studiare, il richiamo per qualcosa a cui, forse, nessuno era realmente pronto. Le strade stavano affogando sotto lo scrosciare di una pioggia in collera, i sentieri asfaltati si erano svuotati, non c’era posto per personaggi bizzarri, non c’era strada per macchine in fuga, no… la strada era dell’acqua e l’acqua del cielo. <<Secondo le tavole i pulsanti si trovano all’estremità del cerchio!>> Disse Raul. I quattro ispezionarono quell’oggetto tondeggiante molte volte, ma questi fantomatici pulsanti non davano cenni di presenza. Accuratamente studiarono quella rotondità per circa un’ora, ma tutto quello che trovarono fu polvere. <<Porca troia! Questo cerchio non serve a un cazzo… nemmeno per fare l’hula hop>> Gridò Raul. Gli animi si stavano perdendo, i personaggi che fino a quel momento si erano mostrati così sicuri stavano cadendo in preda a buie gallerie di totale sconforto. I pulsanti descritti così dettagliatamente nelle tavole, sembravano essere improvvisamente spariti, o forse mai esistiti. Era tutto qui? Si erano già fermati? No, Samuel non ci stava, non ci poteva stare. Riprese ad analizzare minuziosamente quel cerchio forgiato da un materiale sconosciuto.


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Quando gli altri sembravano già aver mollato, in preda a crisi isteriche, lui era ancora lì, a far roteare i suoi occhi sulla superficie di quell’enigmatico strumento. Sembrava che anche lui dovesse arrendersi e dichiarare terminato quel viaggio su cui tanto avevano fantasticato. Ebbe un attimo di esitazione, un secondo, il tempo del lento incedere di una lancetta d’orologio. Notò qualcosa, a cui nessuno aveva fatto caso, classificandola come puro elemento decorativo. All’estremità del cerchio c’erano due mezza sfere, che sembravano dello stesso materiale con cui era fatto il cerchio. Avevano un puro aspetto ornamentale, ma si trovavano proprio nei punti in cui si sarebbero dovuti trovare i pulsanti. Calma Samuel, si disse. Prese un piccolo cacciavite, di quelli che usavano per scalfire lo sporco e la polvere dalle antiche superfici. Mentre si stava impegnando, gli altri si trovavano vicino alla libreria, con gli sguardi persi nel vuoto e una rassegnazione che aveva, ormai, preso il sopravvento. Samuel, con il piccolo cacciavite, fece pressione alla base di una delle due mezze sfere. Avvertì un piccolo cedimento che lo indusse a spingere con più forza. La mezza sfera si ruppe in tanti miliardi di pezzi, come se fosse stato toccato il suo punto debole. Come se Samuel, insistendo in quel punto, avesse trovato la chiave di un piccolo enigma. Quando la semi sfera si ruppe, comparve il pulsante, ricoperto di polvere. Aveva lo stesso colore del cerchio, quasi a cercare una mimetizzazione, sembrava fatto di un materiale differente, più morbido, ma pur sempre sconosciuto. Un urlo di gioia sorprese gli afflitti archeologi. Quando Raul alzò lo sguardo, incrociando gli occhi di Samuel, capì che qualcosa si stava muovendo. <<Ragazzi, vi conviene venire qui!>> Fu tutto quello che riuscì a dire Samuel. Non era il solito abbaglio, no! Quello era un pulsante e sotto l’altra semi sfera si trovava il secondo tasto da premere.


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Raul fu il primo ad avvicinarsi alla “clessidra”, vide con i suoi occhi quello che Samuel aveva riportato alla luce. <<Da dov’è saltato fuori questo?>> Disse, indicando il pulsante passato a nuova vita. Samuel spiegò tutto il processo che lo aveva indotto a forzare quella specie di scudo e mentre stava giungendo al termine del suo monologo anche Luca e Ramirez aveva raggiunto l’oggetto, al centro dello studio. <<Li hai trovati, brutto bastardo, li hai trovati!>> Esclamò Luca, in preda ad un entusiasmo giustificato. Si! Li aveva trovati! Non si era arreso alle apparenze, aveva cercato di andare più a fondo, sotto la corteccia. Con l’aiuto di Raul fece saltare anche il secondo, tondeggiante, scudo. Ora, i due leggendari pulsanti erano ben visibili, per chiunque. Al di là della barriera, costituita dalle vetrate, la tempesta continuava ad imperversare, senza sosta, senza cenni di fatica, senza l’intenzione di voler andare via. La terra del giardino si era trasformata in un ammasso di fanghiglia e nonostante la cuccia, il povero Bobby era completamente bagnato. Le immagini che si susseguivano sembravano quelle di un proiettore impazzito, che stava facendo scorrere miliardi di fotogrammi ad una velocità impressionante. La notte si era spostata nella sua più totale profondità, il vento nutriva collera e avvolgeva la tenebra con il suo ghiacciato abbraccio di morte. Le 4.00 era un orario per dormire, o al massimo per far baldoria in qualche locale notturno. Loro stavano tentando di dare una netta sterzata alla storia dell’umanità e forse, in quel momento, niente era più importante. Ci fu un ritmico incrocio di sguardi tra i quattro, un amalgamarsi di sensazioni, un marasma di emozioni che culminò con la voce di Samuel. <<Siamo arrivati a questo punto, perdendo tanto! Abbiamo incominciato quasi per curiosità, una curiosità che man mano si è trasformata in paura e poi in dovere! L’unica cosa che possiamo fare è andare avanti, chi pensa che sia un errore o chi pensa che sia ingiusto… esca da questa stanza, su di lui non graverà nessuna responsabilità!>> Era stata la sentenza di Samuel. Si era assunto la responsabilità del gesto che avrebbe compiuto e accanto a lui avrebbe voluto solo gente convinta.


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Il suo tono di voce era stato severo e deciso e in alcuni punti aveva ricordato il modo di parlare del vecchio professore. Era stato chiaro, chi non era d’accordo, poteva andare via! Ma adesso… o mai più! Un manto di silenzio scese sui tre coinvolti nella scelta. <<Io ci sto!>> Disse Raul. Facendo una specie di passo in avanti. Lui doveva esserci, voleva esserci. Quasi all’unisono, i restanti due, acconsentirono, erano stati un gruppo sin dall’inizio e sarebbero continuati ad esserlo. Quando tutti presero la loro decisione il cielo sembrò quasi accorgersene. Cessò il moto perpetuo della sua pioggia e rimase immobile strattonando le nuvole in movimento. Sembrò che in quell’istante tutto il pianeta si fosse fermato ad osservare i loro gesti e le loro azioni. Le macchine sembrarono immobilizzate, l’orologio fermo e privo del suo incedere, il vento sembrava aver dato pausa alla sua collera, l’umanità sembrava ferma a veglia di quel fatidico istante. Durante gli ultimi preparativi Ramirez si fece il segno della croce, inneggiando, a voce bassa, alcune preghiere. <<Sei convinto che non succeda nulla?>> Gli chiese Raul. <<Perché?>> <<Beh… stai pregando, se c’è qualcuno da pregare, tra qualche istante non accadrà nulla!>> La frase di Raul aveva notevolmente incupito Ramirez. Il suo era stato l’istintivo gesto di un cattolico praticante. <<Ognuno faccia ciò che reputa idoneo!>> Aveva sentenziato Samuel. L’unico che ancora doveva aprire bocca era Luca. Non un suono era uscito dalle sue corde vocali. <<Luca… se vuoi puoi andare!>> Aveva detto Samuel, vedendolo molto agitato e timoroso. <<Ci sto! Solo sbrighiamoci… l’attesa mi snerva!>> Samuel fece un cenno di assenso con il capo, seguito da Raul e Ramirez. Mentre il mondo esterno attendeva i loro passi, loro si avvicinavano alla verità.


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Alzarono l’oggetto e lo tennero fermo. Samuel avrebbe premuto il pulsante di destra e contemporaneamente Raul avrebbe pigiato quello di sinistra. Un’attesa spasmodica si stava cibando di quella stanza. Avevano deciso di spegnere tutte le luci, restando sotto la luminosità dell’enorme lampada che illuminava la “clessidra”. Era un’unica luce che decorava quel pezzo di abisso verso il quale si erano avviati. <<Ok… ora Raul!>> Disse, con ferma decisione, Samuel. Il loro movimento fu di una sincronia quasi magica. Impressero la stessa forza, nello stesso momento e probabilmente con la stessa speranza. L’oggetto divenne, improvvisamente, incandescente e dovettero simultaneamente levare le mani dalla sua superficie. La “clessidra” non cadde, ma con un crescendo stupore sui volti dei quattro, incominciò a librare nell’aria e ad emettere uno strano suono, molto simile ad un ronzio. L’oggetto si era allontanato dal tavolo di circa quaranta centimetri e continuava il suo perpetuo sibilare, immobile, sorretto dall’aria. In pochissimi attimi da quel cerchio ne fuoriuscì un secondo che ad una velocità non di questo mondo si spostò a pochi centimetri dalla sua fonte, ancora librando sul tavolo. Il silenzio, rotto dal flebile ronzio di quell’oggetto, stava possedendo gli animi degli archeologi. Non ci fu tempo di reagire, né di parlare, ma solo di sorprendersi e rimanere stupefatti. Tra i due cerchi immobili nell’aria si formarono delle linee di un colore simile al verde, che attribuirono a quell’oggetto l’affascinate aspetto di un’enorme clessidra. L’opaco rumore che stava emettendo divenne, improvvisamente, molto più forte, tanto che gli archeologi, di tanto in tanto, dovettero tapparsi le orecchie con le mani. All’interno della clessidra incominciarono a delinearsi dei piccolo filamenti fluorescenti che assumevano, di volta in volta, i colori più disparati, colori sconosciuti alla logica. Gli osservatori si trovarono seduti sul pavimento, atterriti ed incollati a quella diabolica immagine. La luce emessa dalla clessidra aumentò la sua intensità e lo studio fu invaso da abbaglianti flash coloriti da una moltitudine di tonalità impressionanti.


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Toni mai visti da occhio umano andavano a dominare il buio assiepato tra quelle quattro mura. La clessidra emise un suono, forte, fortissimo! I vetri della finestra andarono in frantumi e gli archeologi caddero all’indietro straziati da quell’urlo d’odio. A quel terrificante suono ne seguirono degli altri, accompagnati da bagliori incandescenti di luce fredda. Più e più volte si ripeté quell’arcano rituale. Culminò con un’esplosione di luce blue che trascinò con se il grido disperato di chissà quale essere immondo. Poi… fu buio totale, squarci di ignoti abissi. La clessidra assunse nuovamente l’aspetto di un cerchio di metallo e cadde, inerte, sul tavolo. La luce della lampada si era fulminata e il manto dell’oscurità spadroneggiava ricoprendo l’intero studio. Celando i corpi svenuti dei quattro atterriti osservatori. Folle e caotica pioggia invase lo studio, agevolata dalla mancata protezione della finestra priva delle sue lastre, andate in frantumi poco prima. Il cielo aveva ricominciato a tuonare più forte di prima e sul mondo, nella densità composta da mille nuvole amalgamate, lampi di luce impazziti di colori iniziarono a prendere vita. La tenebra veniva squarciata da bagliori spettrali di desolati, mistici, sentieri. Sembrava che la terra fosse diventata, improvvisamente, il soggetto di una miriade di fotografie, scattate ad una velocità supersonica, e da una mano tanto tremenda quanto abominevole. Le forme irregolari delle case erano incastonate nel nero che il cielo sapeva offrire. Foglie indifese erano violentante da un gelido vento che sembrava non avere né mittente, né destinazione. Tutto il mondo era un tappeto di buie galassie, in preda al delirio, una fossa contenete orrende visioni. Il cielo stava cambiando. Ambasciatore di qualcosa che i suoi lugubri bagliori lasciavano solo presagire!


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21. L’ALBA PONTELATONE (CASERTA)

L’alba stava accarezzando l’erba sporca di una rugiada tremendamente gelida. Una forte tinta rosa primeggiava nel cielo di quel giorno che stava nascendo lento e silenzioso. Si percepiva una sensazione di morte apparente, tutto in quelle lande desolate oggi sembrava privo di vita, tutto sembrava spettrale, lugubre, chiaramente immobile. Un ultimo volatile si apprestava a lasciare l’albero di sua proprietà per sconfinare verso mete sconosciute. Ma mancava qualcosa quella mattina, mancava la vita, il cinguettio di stormi dominatori del cielo, i rintocchi della campana giù in paese, i primi macchinari al lavoro negli immensi spazi colmi di verde. Pontelatone, a quello scintillio di sole rasentava una paese deserto. Non una forma di vita che si apprestasse a compiere il suo dovere quotidiano. Era un piccolo paesino in provincia di Caserta, un migliaio di abitanti era il suo cospicuo bottino. Un luogo dove primeggiava l’agricoltura e in giro si potevano scorgere trattori e contadini alle prese con le fatiche quotidiane. Ma non oggi, non in queste prime ore di un gelido mattino. Pontelatone era andato a dormire all’imbrunire conscio di possedere una vita interiore non invidiabile, ma reale. Aveva riaperto i suoi vecchi occhi accorgendosi di aver perso qualsiasi forma di attività, che fosse umana o animale. La piccola piazzetta del paese, che aveva un aspetto circolare ed era formata da un bar, un giornalaio e il piccolo comune, era mossa solamente da uno spettrale vento. Si accingeva a spostare oggetti inanimati, a graffiare i pochi palazzi decrepiti. Il paese aveva una forma verticale, era pieno di piccoli viottoli acciottolati e culminava il suo percorso di presentazione nella piccola piazza. Qua e là, quando ci si addentrava nelle campagne, si poteva scorgere qualche grossa villa fornita di piscina, simbolo della ricchezza di qualche forestiero, che aveva scelto quelle immense distese di terra come valvola di sfogo dal tam tam quotidiano.


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Ma anche quelle case, occupate da personaggi che non avevano niente a che fare con i nativi di quei luoghi, erano spente, erano prive di moto, prive di luce. Non c’era nessuno che si stesse chiedendo il perché di quella desolazione, perché, per l’appunto, non c’era nessuno… I ruscelli, incastonati tra antiche rocce, continuavano il loro percorso secolare, senza badare alla povertà che improvvisamente li aveva circondati. Erano l’unica cosa, insieme al vento, che desse un qualche movimento a quelle pazze ore di abbandono. Un piccolo sentiero, contornato da alberi di ogni tipo, da fogliame, da una fauna fittissima, portava ad altri immensi spazi. Un sentiero difficilmente percorribile, a causa dell’eccessiva presenza di rami e cespugli che inimicavano il passaggio. La luce che aveva dato vita a quel giorno faceva fatica ad intrufolarsi e rendere luminoso quello strano percorso. Il sole, oramai, aveva preso a dominare il cielo, non c’erano nuvole a minacciarlo, era solo nell’immensità di quel cielo azzurro che avrebbe donato gioia a qualunque osservatore, ma che posto su Pontelatone, donava una tristezza senza eguali. Illuminava la non vita che si respirava, illuminava l’acqua piovana ammassata sull’asfalto, illuminava l’erba e il fango che danzavano folli melodie, ma non c’era pelle umana illuminata da quella luce. Sembrava come se d’improvviso qualcuno o qualcosa avesse strappato la vita all’uomo e in modo così silenzioso e letale da dare a quell’ambiente gli stessi tratti somatici che aveva sempre posseduto. Una leggera nebbiolina era incominciata a venir giù dal cielo, quasi senza motivo. Non era un posto abitualmente occupato dalla nebbia, ma quest’oggi, con un sole in cielo mai così luminoso, una fastidiosissima nebbia stava prendendo possesso di qualcosa che aveva perso i suoi secolari proprietari. Qualcosa, in quel sentiero così difficilmente percorribile, si mosse, qualcosa scosse i rami causando la caduta di alcune foglie che avevano mancato l’appuntamento con il terreno a causa del vento che non le aveva lasciate toccare suolo. Poi ancora, altri rami presero a muoversi, le foglie cominciarono a tremare, e dalla gola di alcuni altissimi cespugli la polvere mista alla nebbia cominciò a levarsi, quasi a voler celare qualcosa. Strani rumori ruppero il silenzio che aveva contornato le prime ore di quella mattina senza linfa.


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Un veloce movimento di qualcosa o qualcuno squarciò un cespuglio, un’immagine nera si mosse a velocità febbrile dando la certezza che finalmente qualcosa di vivo era stato rilevato. Fu solo quell’istante, quell’attimo, poi più nulla, Pontelatone tornò nella sua silenziosa desolazione, nella sua culla di non vita, nel suo stupore causato dalla solitudine che si percepiva. La nebbia stava diventando sempre più fitta e andava ad accarezzare le case prive di luce che improvvisamene erano state abbandonate. Un rumore di motore in avvicinamento si percepì dopo alcuni istanti, infrangendo il lento e struggente moto della nebbia. Un furgoncino, in pessime condizioni, si stava dirigendo in piazza proveniente da Formicola, altro piccolo paesino delle vicinanze Percorse lentamente il sentiero che lo stava conducendo in piazza, passando dinanzi al supermercato, l’autista rimase stupito dal silenzio che primeggiava in quel luogo. Diede un’occhiata all’orologio dell’auto e si accorse che nonostante fossero le 7.30, tutto era ancora privo di via, tutto era ancora spento. Non si fece domande, ponendo la sua attenzione solo al tragitto che stava compiendo. Arrivò in piazza dopo pochi minuti, il suo furgoncino bianco era quasi invisibile, coperto da un eccessivo manto di gelida nebbiolina. Sul fianco sinistro del furgone, se non ci fosse stato l’ostruzionismo della nebbia, si sarebbe potuto leggere “LATTE E FORMAGGI”, e l’autista era vestito di bianco, come ogni fattorino che si rispetti. Pensò cha tutta quella nebbia era davvero strana, percorreva giornalmente la strada che aveva fatto quella mattina e mai aveva incontrato niente di simile, al massimo, nelle giornate uggiose, una leggera foschia addobbava le distese verdi che fiancheggiava durante il suo percorso. Arrestò la sua corsa in piazza, ma con grande stupore notò che il bar, al quale doveva fare rifornimento di latte, era chiuso. Come il giornalaio, come ogni dannato negozio di quel posto. Ma la cosa che più lo fece rimanere senza fiato fu la desolazione che sembrava circondarlo, non un’anima aveva incontrato, non una singola persona, non un animale, niente, il nulla. Nico, questo era il nome dell’uomo, si avvicinò alla serranda del bar, nel caso fosse solo abbassata e non chiusa. Provò a fare un po’ di forza, ma niente… la serranda era chiusa con un possente catenaccio. E’ possibile che oggi nessuno abbia avuto voglia di svegliarsi? Pensò Nico.


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Dovette arrendersi all’evidenza e a quella dannata nebbia che rendeva difficile anche la più vasta visuale. Nico decise di rientrare nel furgone e di dirigersi alla villa di un ricco uomo d’affari, che aveva costruito in quelle terre e che ogni mattina riforniva di latte e formaggi, il suo mestiere. La villa si trovava dopo il paese, in un posto notevolmente isolato. Percorse il tragitto cittadino, imboccò una strada che lo avrebbe condotto fuori paese, tra le stupende distese d’erba che riempivano quel luogo. La nebbia rendeva difficile il percorso, e più volte dovette rallentare per paura di non poter vedere una macchina che potesse venire dalla parte opposta, lui non poteva sapere che quel mattino quel pezzo di mondo si era svegliato deserto. Nico arrivò in prossimità di un fitto sentiero, inaccessibile se non a piedi, e oltre l’arduo percorso si trovava la casa verso la quale era diretto. Faceva quel viale a piedi ogni mattina e il proprietario della villa lo ripagava a peso d’oro per il disturbo. Scese dal veicolo e si incamminò verso il suo tragitto giornaliero. Ebbe un attimo di esitazione, la fitta vegetazione era già un bel problema, ma stamane la nebbia rendeva il tutto ancora più difficile. Con una sacca piena di formaggi a tracollo e un cesto colmo di bottiglie di latte, Nico si incamminò verso la villa. Ebbe qualche difficoltà a superare alcuni cespugli, ma rimase stupito dall’assenza assoluta di animali, non c’erano i consueti uccelli che cinguettavano e volavano in cielo, non c’erano api, mosche, addirittura mancavano le formiche, gli sembrò come se fosse passato qualcosa e avesse sterminato ogni forma di vita esistente. Si stava impressionando troppo, pensò. Quando giunse alla villa notò che il grande cancello che faceva da barriera alle meraviglie dell’interno era chiuso. Ennesimo strano avvenimento, quel cancello era aperto ogni mattina, altrimenti lui non sarebbe mai potuto entrare. Nico, per la prima volta, decise di usufruire del citofono, doveva consegnare il materiale e poi aveva ancora tante consegne da fare. Pigiò ripetutamente con il dito sul pulsante ma non ebbe alcun tipo di risposta. La casa sembrava vuota, disabitata. E poi c’era quella dannata nebbia che rendeva ogni piccolo particolare poco chiaro. Un’assordante rumore assalì i timpani di Nico, un forte suono, un sibilo paurosamente grave colpi l’udito del fattorino.


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Nico cadde in terra senza avere nemmeno il tempo di capire che cosa stesse accadendo. Il suono cessò d’improvviso, così com’era venuto. Il fattorino si rialzò ancora lievemente stordito, decise di tornare al furgone, tutto quello che stava accadendo non gli piaceva assolutamente, voleva abbandonare quel posto, prima possibile. Si riaddentrò freneticamente nel lugubre sentiero, ma il suo moto era frenato da rami e piante che gli ostruivano il passaggio, rallentandolo notevolmente. Il fragoroso sibilo si ripeté nuovamente, ma questa volta solo per una frazione di secondo. Nico si immobilizzò quasi a metà percorso, che cosa diavolo stava succedendo? Si chiese, impaurito. Il suono si ripeté altre tre o quattro volte, ma solo per pochissimi secondi, era un rumore innaturale, sembrava quasi un grido o una specie di richiamo. Qualcosa si mosse alle spalle del fattorino, così velocemente da alzare un debole vento che andò a scompigliare la sua povera chioma castana. Nico continuò a restare immobile, avrebbe voluto correre via, ma la paura aveva deciso di tenerlo incatenato lì. Si girò molto lentamente, dietro di lui c’era solo nebbia e polvere in movimento. Quando cercò di girare lo sguardo dinanzi a lui, avvertì nuovamente il passaggio di qualcosa, tutto quello che riuscì a scorgere fu una macchia nera che lo aveva sfiorato ad una velocità pazzesca. Questi velocissimi passaggi incominciarono ad aumentare e Nico non faceva in tempo a girarsi e rigirarsi che folate di vento lo avvertivano del passaggio di qualcosa. Il fattorino fece cadere in terra le bottiglie di latte che a contatto con l’asfalto andarono in frantumi. Le gambe incominciarono a tremare, seguite dalle mani e dal sudore che discendeva sulla stanca pelle del suo viso. Si sentiva un animale in gabbia, come se qualcosa o qualcuno lo avesse cerchiato e stesse giocando con lui. <<Chi cazzo c’è, chi cazzo c’è!>> Urlò Nico. L’unica risposta fu un ennesimo movimento d’aria che lo aveva sorpreso alle spalle. Il fattorino spostò il suo sguardo verso il basso, fu un attimo, ma quando rialzò il capo vide qualcosa che lo fece cadere in un turbine di delirio.


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Un’enorme figura nera troneggiava dall’alto della sua mostruosità, sembrava un animale, un rettile, ma a Nico fu subito chiaro che quello che aveva davanti non era niente che apparteneva a questa terra, nessuna creatura di Dio. I suoi muscoli facciali si bloccarono all’unisono, ebbe solo la forza di far roteare gli occhi, si accorse che era circondato da quelle strane creature, erano tre, forse quattro. Quella che si era mostrata per prima fu la sola che ebbe modo di scrutare per bene: era alta più o meno due metri e forse anche qualcosa di più, era completamente nera, possedeva solo tre dita per ogni mano, ma ogni dita era lunga e culminava con un’unghia enorme e decisamente massiccia, aveva il cranio allungato orizzontalmente che sporgeva davanti e dietro, la bocca era una piccola fessura imbottita da tanti piccoli denti appuntiti e cosparsa di una strana sostanza somigliante ad una gelatina trasparente. Era un orrore, una visione abominevole, che sarebbe stata una violenza per qualsiasi occhio umano. L’unico movimento che riusciva a fare il fattorino era tremare… Tremava, forte e spasmodicamente. La creatura che gli ostruiva la visuale emise degli strani versi, forse rivolti alle altre creature. Non fu un vero e proprio discorso, una serie di suoni inarticolati e più o meno forti si alzarono nell’aria circondando l’esterrefatto Nico. L’essere alla sua destra aprì la bocca facendo fuoriuscire un’enorme quantità di quel materiale gelatinoso che addobbava quella putrida fessura. <<Chi siete… che cosa volete?>> Furono le uniche banali parole che il fattorino riuscì a mettere insieme. Le creature continuarono il loro particolare dialogo, ed ogni nuovo suono rendeva le orecchie di Nico come vergini. Erano suoni e sonorità sconosciute su questa terra, striduli versi che avrebbero causato scatti di pura isteria in qualsiasi ascoltatore sano di mente. Furono attimi durante i quali Nico capì, che comunque sarebbe andato a finire quell’accerchiamento, lui non ne sarebbe mai uscito, e quelle visoni avrebbero straziato il resto della sua vita. Dopo pochi secondi Nico decise di agire, avrebbe tentato una fuga, la sua fine sarebbe stata comunque segnata. Scacciò tutto il terrore e l’angoscia che gli avevano reso difficile ogni singolo movimento. E partì, veloce come un fulmine, in una corsa sfrenata che purtroppo non ebbe mai inizio.


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La creatura dinanzi a lui l’afferrò per il collo con una velocità e una potenza inaudita, Nico sentì le ossa del collo scricchiolare, come strette in una morsa d’acciaio. Il fattorino si trovava sollevato da terra, a più o meno mezzo metro, il collo gli faceva un male incredibile e in quegli ultimi secondi capì che stava per morire. L’essere lo avvicinò alla sua cavità orale, mise in mostra i suoi denti, completamente affogati in quella strana melma che colava in terra come lava. Con un movimento fulmineo squarciò la gola di Nico, tanto velocemente che sul viso del fattorino rimase stampata un’espressione tutt’altro che sofferente. Nonostante il fattorino fosse morto, quegli esseri continuarono a straziare il suo corpo, martoriandolo, e infliggendogli mutilazioni di ogni tipo, riducendolo in un orrore indicibile. Scomparvero, come rapiti dal vento, e con loro trascinarono anche le parti restanti del povero fattorino. La nebbia regnava ancora, dominando le vallate riscaldate da un sole pieno e in preda ad uno strano furore. Qualcuno aveva privato quel luogo della vita, qualcosa si era preso il diritto di cancellare, di distruggere, di dominare. Era un piccolo paese… Ma presto sarebbe potuto essere il mondo intero!


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22. RISVEGLIO CASERTA (ITALIA)

Un mattino con una tonalità inebriante di colori aveva invaso ogni angolo oscuro, ogni penombra, ogni cosa celata dall’incertezza. Un punto incandescente di fuoco che sostava nel cielo, privo di qualsiasi pericolo, rendeva le strade piene di vita, piene di luce raggiante, pronta ad invadere case e volti. Caserta si era risvegliata sotto un sole accecante, sotto un cielo intensamente azzurro, sotto un tetto che donava allegria e scacciava brutti presagi. Un flebile vento soffiava da est verso ovest, era caldo e tanto dolce da simulare carezze sui volti degli ignari passanti che vi si scontravano. La serenità che si poteva percepire aveva consentito a molte persone di lasciare le automobili ferme nei loro parcheggi e di camminare sotto questa cocente palla di fuoco, immaginando di essere proiettati già verso una calda estate. Quella che li aveva preceduti era stata una notte burrascosa, chiassosa, una notte bagnata, piena di collera, di rabbia. Aveva regalato un mattino gioioso, ma sull’asfalto auto impazienti increspavano pozze d’acqua acquattate in milioni di irregolarità. Le foglie degli alberi, che addobbavano piazza Mazzini, erano pesanti a causa della rugiada mista ad acqua pura che vi si era posata la notte precedente e che ancora doveva togliere il suo gravoso disturbo. Le rade nuvole in cielo sembravano un disegno geometrico fatto da una saggia mano di qualche bizzarro architetto. Il vorticoso moto perpetuo che il vento e la pioggia avevano messo in mostra la notte precedente aveva lasciato segni facilmente riscontrabili sulla vegetazione e sulle cose inanimate. La stessa piazza Mazzini era invasa da rami spezzati di ogni tipo, da ammassi d’acqua putrida che rendevano le verdi piazzole come piccoli laghi artificiali. Le strade più consumate del casertano possedevano un asfalto già asciutto a causa del moto perpetuo di gomme roventi. Un cielo scintillante metteva in bella mostra i classici frutti della quiete dopo la tempesta… Una tempesta che forse ancora doveva giungere.


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I vetri in frantumi sparpagliati sul pavimento, sotto i raggi del sole, assumevano dei bizzarri colori, che misti con l’acqua non ancora completamene prosciugata, simulavano un perfetto mini-arcobaleno. Il giardino della villa era colmo di fanghiglia e la cuccia del povero Bobby mostrava notevoli cenni di cedimento. Le vetrate dello studio erano le uniche che avevano ceduto sotto il delirio che si era scatenato la notte precedente. La luce testarda continuava a imprimere tutto il suo calore sul volto dormiente di Raul, steso in terra, svenuto, o forse ancora addormentato a causa dell’eccessivo stress che aveva subito poche ore prima. La pelle del viso si era riscaldata a tal punto, a causa dell’eccessiva esposizione, che un leggero senso di bruciore aveva causato il suo rinvenimento dal torpore che lo stava cullando. Il ragazzo aprì docilmente gli occhi, quasi per timore di potersi trovare dinanzi chissà quale incubo strisciante. Si guardò goffamente intorno e con una mano tentò una vana protezione dal cocente sole, ci volle qualche istante affinché riprendesse pieno possesso delle sue capacità. Vide i suoi amici riversati in terra, dormienti, con i volti sudaticci e possessori di strani espressioni. Bastò qualche attimo e si ricordò tutto, la clessidra, il richiamo, i rumori strazianti, quelle luci mirabolanti e poi il nulla… probabilmente da quando era svenuto. Cercò di mettersi a sedere, con dei lenti movimenti riuscì nel suo intento, nonostante dei forti dolori alla schiena a causa del letto non proprio comodo che lo aveva accolto quella notte. Riconobbe anche lui, riflessi nei vetri in frantumi, i colori di un docile arcobaleno e una stupenda sensazione di sereno lo colpì improvvisamente, inspiegabilmente e proprio per questo fu una sensazione indescrivibile. Il cielo era talmente logoro di sole che sembrava essere sul punto di bruciare. Raul diede uno scossone alla sua testa, quasi a volersi riprendere dall’ intontimento che lo teneva prigioniero. La sua attenzione fu catturata dal cerchio, composto da quello strano metallo, che si trovava sul tavolo dello studio. Sembrava un ammasso di ferro senza vita, il pezzo di qualche macchinario vecchio di secoli. Si accorse che accanto a lui stava rinvenendo anche Samuel. Si portò verso di lui trascinandosi in terra e gli diede una mano a rimettersi seduto.


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<<Ci siamo!>> Disse Raul, con la flebile voce che possedeva. Samuel scrutò l’ambiente che lo circondava, come se anche lui non avesse ricordato subito gli avvenimenti dalla notte trascorsa. Poi però, come da routine, tutto gli fu chiaro. <<C’è un gran casino qui dentro!>> Affermò Samuel, con un sorriso quasi accennato. Raul non rispose, preferendo fare un cenno d’assenso con il capo. <<Avrà funzionato?>> Chiese Samuel riferendosi a quello che avevano tentato. Raul prese del tempo, gli sembrava tutto dannatamente uguale a prima, ma forse le cose sarebbero cambiate, pensò. <<Non ne ho idea amico… in questo momento riesco a pensare solo a questo pazzesco mal di testa che mi sta straziando!>> Samuel fece un cenno di assenso. <<Già, anche la mia testa sembra essere sul punto di esplodere! Colpa di quegli assordanti rumori di ieri, forse anche di quelle luci!>> Pochi minuti passarono e rinvennero anche Luca e Ramirez. Tutti con il medesimo mal di testa, e tutti con gli occhi fissi su quel metallo senza vita che li aveva trascinati fin lì. I quattro archeologi si rimisero in piedi, commentarono, pulirono, si guardarono intorno. Cercarono novità, cambiamenti, provarono a ricordare dettagliatamente, rabbrividirono quando riuscirono a rimembrare il suono esatto che li aveva assaliti, accompagnato da quelle festose e folli luci. Mentre Samuel provvedeva a eliminare il vetro dal pavimento, guardò fuori, notando che il giardino, nonostante il sole cocente, era ancora colmo d’acqua, che mista alla terra aveva assunto i chiari toni del pantano. E’ caduta tutta l’acqua del mondo, pensò. Misero in ordine lo studio in poco tempo e quando giunse l’ora di mangiare qualcosa, avevano terminato le loro faccende. <<Ragazzi, se volete potete andare, io credo che passerò qualche oretta a riprendere la piena funzionalità del mio corpo. Fate un giro per Caserta, notate se c’è qualcosa di strano, insomma fate quello che volete, ci risentiamo in serata!>> Concluse Samuel. Quando abbandonarono la casa, lo fecero a passi lenti, quasi con il timore di uscire all’esterno. Ma poi, vinti dalla normalità che si respirava, percorsero il resto del tragitto a passo spedito e attesero il taxi.


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Samuel osservò a lungo i suoi compagni di viaggio mentre abbandonavano il forte, quando furono lontani corse verso il telefono e compose frettolosamente un numero. <<Pronto?>> Rispose una rauca voce. <<Signora… salve, sono Samuel, posso parlare con Simona?>> <<Buongiorno Samuel, no, Simona non c’è, puoi provare a rintracciarla sul telefonino!>> La madre di Simona non ebbe nemmeno il tempo di terminare la frase che la linea cadde in tanti, assillanti, beep. Samuel digitò, nervosamente, l’ennesimo numero. <<Si?>> Risuonò una voce, poco chiara, a causa del fragore che circondava il destinatario della telefonata. <<Simo? Sono Samuel!>> La risposta si fece attendere alcuni secondi. Poi un piccolo sorriso apparve sul viso della moglie, le mancava, le mancava tanto. <<Samuel… come va… io…>> Il marito l’interruppe. <<Amore come stai? Tutto bene? La piccola?>> Una raffica veloce di domande colsero Simona di sorpresa. <<Samuel, cos’è quest’agitazione? Tutto bene, ma mi sembra che di te non si possa dire altrimenti!>> <<Io sto bene, solo dopo il temporale di stanotte ho avuto degli strani incubi, amore mi mancate, tornate qui!>> Il chiassoso moto di un mezzo di trasporto in avvicinamento rese difficile ogni forma di dialogo. <<Samuel, parliamo stasera, con più calma ok?>> La voce di Simona aveva tradito una dolcezza che, probabilmente, aveva rivelato i suoi piani. Samuel la conosceva bene, e prese quella frase quasi come una liberazione, durante quel dialogo non esistevano alieni, né clessidre, né scoperte, né domande, solo sua moglie e sua figlia. <<Ok amore, a stasera!>> Il dialogo terminò lì, ma rincuorò Samuel più di quanto avesse realmente sperato. Tra mille pensieri sereni si intrufolò una sensazione di disagio che si impadronì del suo corpo. Dopo pochi attimi gli fu chiaro, per la prima volta,


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quello che realmente era accaduto quella notte che avevano appena trascorso. Avevano richiamato qualcosa... Avevano richiamato qualcuno, e le conseguenze sarebbero state imprevedibili! Sono un incosciente, pensò. Durante tutto il percorso che avevano condotto, la voglia di scoprire, di dare risposte aveva troneggiato su tutto… Ma ora, che il grosso era stato compiuto e tornare indietro era un’utopia, si sentì l’inutile tassello di un puzzle che il destino stava ricostruendo. Il fumo che accompagnava i suoi pensieri avvolgeva dolcemente la sua testa, la sua immagine vista da dietro era quasi comica, sembrava che gli stesse andando in ebollizione il cranio. Avvolto in quella nebbia artificiale, che aumentava ad ogni sospiro, Samuel rimembrava gli inizi di quell’assurda avventura, lo scetticismo generale che li aveva accompagnati, il doloroso pensiero del vecchio professore, avevano sempre dato una speranza a Dio… avevano sempre creduto che fosse tutto una montatura, almeno un po’. Pensieri contrastanti andavano ad infrangersi nella sua mente. E’ possibile che sia tutta una farsa? E la clessidra allora? I suoi suoni, le sue luci… a che pro? Lo scherzo imbecille di qualche fanatico… Si, perduta nei meandri dell’Antartico! Ok, e allora dove sono? Li abbiamo chiamati, ma io non vedo nessuno… Forse è presto, forse verranno… Calmo, devo stare calmo, perché mi sto facendo sopraffare proprio ora? Samuel spense la cicca nel posacenere con estrema forza, ogni pensiero aveva accompagnato un gesto, un sospiro, un’espressione. Ad ogni pensiero ne corrispondeva un altro, contrario, diverso… Alla luce, il buio… Si portò fuori dalla porta d’ingresso, ai piedi del giardino e vide con estrema serenità che Bobby gli si stava facendo incontro. Le prime ore di un raggiante pomeriggio conferivano al cielo degli stupendi colori pastello. Samuel osservò attentamente quel panorama, caldo come il centro di un sole. Mentre Bobby era intento a farsi coccolare, il professore aveva smarrito i pensieri in quei colori senza tempo che il cielo stava dipingendo.


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La città aveva levato le sue vesti bagnate, asciugata e ammorbidita da un tetto mai così speciale. Si percepì un velato rumore, Samuel si accorse che il suo stomaco brontolava, era arrivato il momento di mangiare qualcosa, anche controvoglia, se fosse stato necessario. Quando rientrò e si chiuse la porta alle spalle, quel cielo così diverso e così unico nella sua gamma di tonalità rimase immobile, come se adesso fosse il cielo ad osservare Samuel e la sua villa… Suggestione probabilmente, si… ma di chi? Girarono a lungo per la città, alla ricerca di qualche particolare, di qualche diversità, di una piccolezza che non c’era. Ogni singolo luogo di Caserta era uguale a se stesso, non c’erano novità, niente. Nessuno dei tre sapeva cosa aspettarsi, nessuno di loro aveva idea di quello che avrebbero potuto constatare, rimasero delusi, o per lo meno privi di quella speranza che spingeva forte nel loro cuore. Quella giornata che avrebbe potuto rappresentare una svolta stava scorrendo via come un fiume in piena, pieno della stessa acqua, degli stessi pesci, delle stesse correnti per cui si era contraddistinto in passato, nonostante gli archeologi, nelle loro intenzioni, ne avevano cercato di cambiare il corso. <<E’ possibile che sia tutto così normale?>> Chiese Luca. <<Forse è ancora presto!>> Rispose, cercando di arrampicarsi sugli specchi, Raul. Il messicano aveva scosso la testa, in palese segno di insofferenza. <<Abbiamo toppato… mi sa che abbiamo toppato!>> Disse sconsolato Ramirez. <<Ecco, iniziamo!>> Disse severo Raul. <<E quelle luci stanotte? Le hai viste anche tu… e i suoni… abbiamo sognato? No, io non credo proprio…>> Continuò. Si trovavano a corso Trieste, intenti a riportare la cronaca di un cambiamento che non c’era stato. La gente passava come sempre, si muoveva come sempre, piena di certezze che loro avrebbero dovuto far crollare. Un dolce pensiero sfiorò Luca, forse era giusto così, loro non avevano né il diritto, né il dovere di fare quello che avevano tentato, lui era stato sempre fermo sulla sua decisione, salvo cambiare idea per forza di cose.


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Sembravano tre figure immobili, incredule di specchiarsi in una normalità troppo spesso ripudiata e forse troppo frettolosamente messa da parte, certi delle loro convinzioni, forti della sicura vittoria che già pregustavano. Impassibili, come statue di cera, smossi da un vento che aveva perso il suo calore, abbandonati da un sole che aveva tirato i remi in barca. L’oscurità stava calando a brandelli, a spezzoni, senza dare fastidio, senza lasciare che la gente se ne potesse accorgere. <<E’ ora di tornare!>> Disse Luca. <<Dobbiamo andare da Samuel, dobbiamo…>> Raul fu interrotto da Luca. <<Andiamo a casa, a Samuel ci peso io, lo chiamo più tardi!>> Una voce colma di resa stava contraddistinguendo il loro dialogo. Samuel, colmo com’era di tutt’altri pensieri, non si sarebbe chiesto il perché dell’assenza di notizie. Avrebbero tentato di riposare, come tutti indistintamente, cosa che forse non erano mai riusciti a fare. Un giorno di stacco, un giorno di normalità nelle loro menti sarebbe stato fondamentale per affrontare qualsiasi cosa, delusioni comprese. Il mondo continuava il suo percorso quotidiano, conscio che già qualcosa era cambiato, ma abile a mascherarlo, fin quando possibile. La nera coperta della notte aveva avvolto le loro visuali, aveva ombreggiato sui loro dubbi, sulle mille incertezze. Intanto la nebbia aveva allargato i propri orizzonti, andando a contaminare altri posti, altre vite, altri sogni. La nebbia, che quella notte scese nei loro sogni, donando al loro riposo desolazione e solitudine, amarezza e paura. Tutti loro, indistintamente, sognarono la nebbia, sognarono esseri striscianti, cose talmente assurde da non poter essere né descritte, ne nominate. Fu una notte serena, piena di stelle e colma di buone premonizioni. Fu una notte tribolata, all’interno dei loro incubi, una notte piena di ansie e arcani richiami. Due notti, distinte, diverse, uguali.


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23. DESOLAZIONE CASERTA (ITALIA)

Una leggera foschia filtrava le tenui luci di un puerile mattino. Volgendo lo sguardo verso il cielo si poteva avere l’impressione di avere la vista sfocata, ma era l’effetto di quella fastidiosa figlia delle prime luci dell’alba. Strade ancora deserte accoglievano le poche automobili pilotate da autisti assonnati. Gli unici suoni che si potevano percepire erano quelli del vento tra gli alberi e il cinguettio, meno chiassoso del solito, di stormi di uccelli, che volteggiavano in preda ad un evidente delirio. Le nuvole in cielo erano rare e nonostante il colore ancora rosato della volta celeste, si poteva prevedere un mattino pieno di luce e colmo di inebriante luminosità. Il rumore di qualche saracinesca in lontananza faceva intendere che i primi negozi stavano dando vita alla loro attività giornaliera. Stava prendendo corpo l’ennesima giornata, l’ennesimo chiassoso mare di persone, intente a compiere il loro dovere quotidiano, sicure di un posto di rilievo, tra i propri santi, a vita conclusa. Quando Raul aprì gli occhi capì di essersi svegliato prima del solito e prima di quanto si aspettasse, visto l’enorme pressione che lo aveva sfinito nei giorni precedenti. Era rinvenuto con un forte scossone, segno di un incubo che lo aveva accompagnato fino a poco prima, una sensazione di disagio, un’ansia inspiegabile non gli aveva permesso di richiudere occhio. Guardò distrattamente l’orologio sul comodino, notando che da pochi minuti erano scoccate le 8.00, si accorse di un fascio di luce che filtrava da una tapparella non del tutto chiusa. Era un’altra giornata soleggiata, ma soprattutto era un’altra giornata, identica a troppe altre, monotona e pulita per chiunque, ma non per lui, non per loro. Decise di alzarsi e di dare più luce alle quattro mura che lo circondavano. La luce bruciò l’oscurità che fino a poco prima stava scivolando su ogni superficie di quella stanza.


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Le automobili per strada erano una piccola minoranza, la giornata permetteva rilassanti passeggiate e nonostante l’aria non fosse caldissima, alcune persone avevano sfidato il clima presentandosi in strada con maniche corte e vertiginose scollature. Raul amava particolarmente l’estate, amava il mare, il rumore delle onde, ma soprattutto le donne poco vestite e una maggiore libertà nel vestiario, bastava indossare una t-shirt e si poteva filare via di casa in un lampo. Un pensiero dimenticato spinse forte nella sua testa fino a farsi ascoltare, Lisa… cosa stava facendo? Con chi era? Ancora con quel pezzente da strapazzo? Ecco, adesso che l’attesa di qualcosa che faticava a mostrarsi lo stava snervando, cattivi, anzi, pessimi pensieri stavano tornando a primeggiare nella sua testa. No Raul, si disse, non è questo il momento… Si… facile a dirsi, ma alcuni pensieri nascono così forti, e si imprimono a fuoco nei nostri cuori che scacciarli equivale a tenerli per sempre nei meandri della nostra anima. Questo Raul lo sapeva bene, e combatteva ogni giorno per evitare di doverli subire. Diede una scossa alla sua testa, quasi a voler passare in modo brusco ad un altro pensiero. La voglia di caffé lo distrasse dal via vai di persone che si muovevano sotto la sua finestra. Una casa disordinata e priva di vita lo accoglieva ogni notte nell’intento di donargli calore, ma quante notti aveva passato in quella casa con Lisa, in quel letto, in quel modo? Il disordine rappresentava il suo interno, il suo animo, la sua vita, perennemente in subbuglio e in confusione, almeno da quando lei, Lisa, non c’era più. Aspirò la sigaretta con tanta foga da non riuscire a contenere tutto il fumo nei suoi polmoni, tossendo come un pivello fumatore. Non aveva saputo aspettare che salisse il caffé, aveva acceso una sigaretta, conscio del fatto che dopo ne avrebbe dovuta accendere un’altra, per forza. Era passata poco meno di mezz’ora e Raul si trovava in strada, nei pressi di piazza San Francesco, la piazza dove era situata l’Università di Beni Culturali. Uscito di casa senza una meta precisa, si stava dirigendo verso l’Università, con la speranza di incontrare Samuel.


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Passando dinanzi al chiosco del giornalaio il suo sguardo fu rapito da un quotidiano regionale che si trovava in bella mostra in una vetrinetta d’esposizione. Tra i tanti titoloni da prima pagina la sua attenzione era stata attirata da un piccolo trafiletto verticale, posto quasi ai piedi del foglio. PONTELATONE SI SVEGLIA NEL SILENZIO Questo era il titolo del piccolo articolo che continuava all’interno del giornale. Raul fu come catturato da quel titolo, a volte i titoli vengono creati appositamente per suscitare la curiosità della gente, ma Raul aveva deciso di acquistare il quotidiano e di leggere quell’articolo, senza saperne il motivo, spinto dalla stessa forza che lo aveva condotto fuori casa alle 8.45, senza una meta. Comprò il giornale e si adagiò sul muretto sottostante l’Università. Non gli importò di leggere i titoloni di prima pagina, né tanto meno posò lo sguardo su altre notizie. Come assorto in uno stato di ipnosi sfogliò il quotidiano fino alla pagina che gli interessava. Prima di incominciare la lettura si guardò intorno, come se solo ora si fosse reso conto di dove si trovasse e che cosa stesse facendo. Sentiva caldo, il muretto che gli aveva fatto posto era esposto al sole sin dalle prime luce del mattino e in quel momento ogni sua piccola superficie era rovente. Si accorse che l’articolo era abbastanza piccolo, e assumeva una forma orizzontale ai piedi della pagina n. 23, il piccolo titolo che lo presentava era: DOVE SONO GLI ABITANTI DI PONTELATONE? Qualche pensiero poco chiaro cercò di distrarlo ma Raul decise che era giunto il momento di leggere il testo: UNA FITTA NEBBIA E UNA SOLITUDINE INSPIEGABILE HA AVVOLTO PONTELATONE, UN PICCOLO PAESINO DI CAMPAGNA DEL CASERTANO, IERI MATTINA. IL PAESE SI E’ RISVEGLIATO VUOTO, PRIVO DI VITA, COME SE TUTTI AVESSERO DECISO DI ORGANIZZARE UN COLOSSALE SCHERZO. LA POLIZIA, CON L’AIUTO DI ALCUNE SQUADRE SPECIALI, HA ISPEZIONATO IL


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LUOGO, LE ABITAZIONI, MA NESSUNA FORMA DI VITA E’ STATA RILEVATA SUL TERRITORIO, NEMMENO UN ANIMALE. ALCUNI POLIZIOTTI INTERROGATI HANNO ASSERITO CHE PROBABILMENTE SI TRATTA DI UNO SCHERZO FATTO DALLA COMUNITA’, E CHE GLI ABITANTI SI TROVANO NASCOSTI IN QUALCHE CAMPAGNA DELLA ZONA. SARA’… MA LA FITTA NEBBIA, ELEMENTO NATURALE MOLTO RARO DA QUESTE PARTI, RENDE IL TUTTO ACORA PIU’ MISTERIOSO. Raul rimase qualche secondo immobile, con il giornale stretto tra le mani e alcune calde gocce di sudore che gli percorrevano il retro del collo. Che cosa centrava quell’articolo con loro? Forse niente, ma c’era qualcosa che lo aveva attirato. Fin dall’inizio, o meglio dalla fine del loro viaggio, avevano cercato qualche segno, qualche stranezza, qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che avrebbe potuto accendere dentro di loro una piccola fiammella di speranza. Chiuse il giornale e senza perdere nemmeno un secondo estrasse il telefonino e compose il numero di Samuel. Aspettò alcuni secondi e quando sembrava che la telefonata dovesse culminare nel silenzio una voce insonnolita rispose. <<Pronto?>> Rispose Samuel. <<Samuel, sono Raul!>> <<Grazie per la sveglia, chissà come mai ero riuscito a prendere sonno!>> Raul non fece caso al rimprovero dell’amico, non aveva energie da dedicare a niente che non fosse quello che aveva scoperto. <<Ho trovato qualcosa!>> <<Di che s tratta?>> Chiese Samuel, che sembrava essere ancora in uno stato di dormiveglia. <<Cercavamo qualcosa di strano no?>> <<Raul? Vai al punto!>> <<Stamattina ho comprato un giornale, c’è un paesino nei pressi di Santa Maria Capua Vetere in cui, da ieri, sembra essere sparita improvvisamente l’intera popolazione!>> Samuel prese qualche secondo prima di rispondere. <<Che vuol dire è sparita l’intera popolazione?>> <<Vuol dire che da ieri mattina è un paese fantasma, nemmeno un animale è stato rilevato sul posto… che cosa pensi?>> <<Cazzo Raul, non lo so…>>


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<<Ieri mattina amico, il giorno dopo che abbiamo dato vita alla clessidra. C’è un altro fattore strano, sul paese c’è una nebbia costante da circa due giorni, una nebbia fitta, che non tende nemmeno minimamente a diradarsi!>> Affermò Raul, parlando così in fretta da simulare un nastro registrato. <<Dobbiamo andare a dare un’occhiata, potrebbe essere la conseguenza che cercavamo!>> Affermò Raul, senza dare al suo interlocutore il tempo di rispondere. <<Ok, avverto gli altri, dove ti trovi?>> Domandò Samuel. <<Davanti all’Università!>> <<Saremo lì il prima possibile!>> Quando terminò la conversazione Raul rimase nella medesima posizione, sperando che tutta quell’eccitazione non si potesse tramutare in una svista colossale, magari scoprendo di persona lo scherzo che gli abitanti di quel luogo avevano organizzato per attirare l’attenzione e avere un po’ di fama. Il mattino aveva ormai preso pieno possesso delle sue qualità, era il secondo giorno di sole intenso, di luce piena e forte, di cielo azzurro senza nuvole, di un clima strano, quasi irreale. Raul notò due piccioni che amoreggiavano in uno squarcio nel muro, davanti all’Università, era la parete esterna di una vecchia pizzeria, dall’aspetto un po’ squallido, ma con una maestria a fare la pizza che da quelle parti avevano pochi. Passò circa un’ora, ma Raul quasi non ci fece caso, assorto com’era in una serie assurda di domande e risposte, di certezze, poche e incertezze, tante. Vide in lontananza una macchina nera, era Samuel, con tutta la compagnia. Fu Raul ad indicare il tragitto da compiere, Pontelatone era un luogo che conosceva, molte volte, quando era un ragazzino, in sella al motorino era andato a visitare quei luoghi contornati da campagne spettacolari. Attraversarono via Giovanni Paolo I e al semaforo che portava verso Capua voltarono a destra. Attraversarono Sant’ Angelo in Formis, un piccolo paese che rappresentava un passaggio obbligatorio per chiunque sarebbe voluto giungere in quelle zone dove erano diretti. Presero un enorme ponte, chiamato ponte di Annibale, per via di una marcia che costui vi fece sopra. Giunti a Triflisco, ennesimo paesino, presero finalmente la direzione Pontelatone.


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Raul sembrava abbastanza nervoso, che cosa avrebbero trovato una volta arrivati? Una voce ruppe il silenzio quasi totale che li aveva accompagnati fino a quel punto. <<Che cosa troveremo?>> Disse Luca, con una voce che inneggiava al timore. In un primo momento non rispose nessuno, probabilmente a causa della scarsa gamma di risposte che avrebbero potuto dare. Poi, Samuel, decise di esporsi. <<Potrebbe essere un buco nell’acqua, dobbiamo esserne consapevoli!>> Raul lo guardò incupito. <<Se sarà un buco nell’acqua, beh… allora vorrà dire che abbiamo fallito, o meglio, che abbiamo fatto delle belle scoperte archeologiche, forse anche importanti, ma niente di più!>> Samuel non rispose, ma Luca dovette dire la sua. <<Perché dici così?>> <<Sono due giorni che abbiamo usato quella specie di richiamo, avete notato qualche conseguenza? Io no, Ramirez… hai notato qualcosa di particolare, di strano!>> Disse Raul, coinvolgendo il messicano nel loro acceso dialogo. <<Io penso che se scopriamo il nulla vorrà dire che Dio esiste, non è una buona cosa?>> Quella di Ramirez fu una voce stonata, completamente fuori dal coro. <<Certo, allora Roberto è morto senza motivo, io sto mandando il mio matrimonio a puttane senza motivo, noi ci stiamo sconvolgendo la vita senza motivo… Ramirez, ma che cazzo dici!>> Sbottò, in collera, Samuel. Ramirez non rispose, preferì non farlo per non surriscaldare gli animi ancora di più. Lui la pensava così, aveva sofferto per la perdita di Roberto, e anche se ci aveva rimesso meno di tutti, anche la sua vita era drasticamente cambiata nell’ultimo periodo. Lui voleva poter credere ancora in Dio, sarebbe stata la più importante scoperta della sua vita, per lui, a livello personale, sarebbe stato il massimo. Giunsero nei pressi di un piccolo ponte, al di là di esso la visuale era pessima, quasi nulla, a causa di una nebbia bianca e fitta, erano giunti a destinazione. <<Ci siamo ragazzi, un po’ oltre il ponte si trova il nostro paese!>>


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Samuel e Raul si guardarono per qualche istante, qualsiasi cosa fosse accaduta lì era strana e spettrale. La macchina riprese il suo moto, ma questa volta con una cadenza quasi snervante. Non si vedeva nulla, bastava gettare l’occhio oltre un metro di distanza che un muro bianco ostruiva ogni tipo di visuale. Incrociarono un’indicazione, prima di giungere in paese, una freccia che indicava Formicola. <<Un’altro paese?>> Chiese Samuel. Raul fece un cenno d’assenso con la testa. <<Si trova vicino a Pontelatone, la strada si può prendere sia qui che in paese!>> Poi tutti e quattro arrestarono il vociarlo che viveva in quella vettura. Rimasero tutti in silenzio, incantai ad osservare qualcosa. <<Il giornale…>> Disse Luca. <<…non parlava di questa forte nebbia solo a Pontelatone?>> Continuò. Era così, almeno quello che aveva indicato il giornale. Ma ora la situazione era ben diversa. Il sentiero, o strada, che dir si voglia, era colmo di una sostanza densa e bianca, era una strana nebbia che sembrava protrarsi per molte, molte, miglia. Era la strada che portava a Formicola e sembrava invasa dalla stessa sostanza che primeggiava su Pontelatone. <<Ragazzi, ma siamo sicuri che si tratta di nebbia?>> Chiese, in preda alo scetticismo, Luca. <<Non lo so…>> Rispose Raul, senza distogliere lo sguardo dalla strada. <<…io di così fitta non ne ho mai vista!>> Terminò. Quello strano velo di solitudine sembrava ormai aver invaso anche i paesini nei dintorni, si stava allargano? Si stava espandendo? <<Andiamo a Pontelatone!>> Li spronò Raul, cercando di disincantarli. <<Mi sa che qui intorno è tutto pieno di nebbia, in qualsiasi posto decidiamo di andare!>>


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Rispose Samuel. <<Andiamo dove c’eravamo prefissi di andare, forza!>> L’automobile riprese il suo tragitto, sempre con estrema lentezza. La nebbia più fitta e più gelida che la natura avesse mai creato si trovava intorno a loro, e li avvolgeva come un manto tenebroso di spettrale desolazione. Intorno a loro poteva esserci qualunque cosa, qualunque essere vivente, loro non avrebbero visto niente, non potevano. La bruma sembrava viva, il suo compito era quello di celare qualcosa o qualcuno. Viveva, assumendo le più svariate forme, muovendosi avanti e dietro, a destra e a sinistra. Durante il tragitto Luca aveva provato ad abbassare il finestrino sporgendo una mano fuori. Se quella sostanza era animata, rappresentava qualcosa di morto per via del freddo che la riempiva. Con l’apertura del finestrino un po’ di caligine era entrata in macchina. <<No, questo è assurdo!>> Commentò Ramirez. La poca nebbia che era entrata rimaneva compatta, senza dare nemmeno per un attimo la possibilità a qualcuno di pensare che si potesse disperdere. <<Cazzo Luca, apri quel dannato finestrino e fai uscire quella roba!>> Urlò Samuel. Con un soffio di fiato la bruma fu spinta via, unendosi alla sua madre. A qualcuno parve di stare in un film dell’orrore, e i più esperi, come Raul, ricordarono THE FOG, di John Carpenter. Erano prossimi alla destinazione. Avrebbero dovuto abbandonare il veicolo. In auto, non avrebbero potuto osservare nulla. Sembrava il piano di una mente diabolica. Ma c’erano e più avanzavano e più si rendevano conto che quello che li circondava non era niente di naturale, niente di normale. Era presto per avere paura, per sperare o per dire “ci siamo”. Avrebbero ispezionato, studiato, cercato di capire… Alcune cose sono nate per non essere capite, ma questo piccolo particolare, a loro, in questo momento, sfuggiva…


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24. ABISSI PONTELATONE (ITALIA)

Le luci del cielo erano offuscate da strati di fredda desolazione. La bruma era densa, corposa, a tratti, se non la si osservava bene, poteva dare l’impressione di essere diventata solida. L’erba, gli alberi, le foglie, erano tutti ricoperti dallo stesso strato di sottile ghiaccio, come alle prime luci di una gelida aurora. La nebbia sembrava possedere un clima glaciale al suo interno, sembrava viva, poteva dare l’impressione di respirare ad ogni suo lento movimento. Qualsiasi cosa fosse accaduto in quel luogo, non era niente di normale, niente di naturale, niente di buono. La bruma si alzava, si abbassava, spostava il suo cadente moto in tutte le direzioni, non dilaniandosi mai, non perdendo mai il suo possente spessore. Un vento docile scivolava come morto sulle immobilità del luogo, filtrava nella nebbia, senza spostarla, penetrava al suo interno come una lama nel burro e le faceva assumere bizzarre forme. L’auto giunse a Pontelatone, la visuale era nulla e tutti loro percepirono il repentino abbassamento di temperatura che c’era in quella zona. Riuscirono ad arrivare in piazza solo grazie alla conoscenza della zona che aveva Raul. Si guardarono intorno, cercarono di capire se in quel fitto muro di gelo si potesse scorgere una figura, un suono. Tutto era immobile, tutto fermo, come se quel luogo fosse un deserto set cinematografico. Poteva essere un giorno come un altro, come tanti altri, ma non lo era, non per loro, non per il mondo, che stava mutando all’insaputa dei suoi abitanti. I loro sguardi si incrociarono più volte, cercare di capire cosa bisognava fare era di primissima importanza. <<Dobbiamo scendere!>> Disse, con voce decisa, Samuel. Dovevano scendere, dovevano entrare a far parte di quei dedali di bruma vischiosa. Quando Luca aveva messo il braccio fuori aveva notato che quella sostanza galleggiante lasciava sulle superfici una leggera condensa.


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Raul guardò per l’ultima volta i tre e con un movimento deciso aprì la portiera dell’auto. Fu un gesto veloce, ma la nebbia s’impossessò dell’auto ad una velocità sconosciuta ad ogni illustre matematico. I suoi piedi toccarono terra e percepì un asfalto umidiccio, altamente scivoloso. Avere una buona visuale era davvero un’impresa ardua, si trovava immerso nella bruma, con i vestiti inumiditi improvvisamente e il senso di disorientamento era totale. Avvertì il rumore di altre portiere che si spalancavano e si chiudevano, capì che gli altri avevano seguito il suo esempio ed erano entrati a far parte di quel mondo che presto avrebbero imparato a conoscere. <<Ci siete!>> Disse Raul, a voce alta. <<Si, siamo qui, non muoverti che ti raggiungiamo!>> Rispose urlando Samuel, quasi come se tra loro ci fosse una distanza enorme. Erano vicini, a pochi passi, ma quell’ammasso di gas ghiacciato non permetteva niente a nessuno, dall’alto della sua terrificante severità. I tre raggiunsero Raul, ma riuscirono a capirlo solo quando Samuel lo toccò con mano. <<Mai visto in vita mia una nebbia così fitta, giuro!>> Disse Luca. <<Fa freddo, ho la pelle ghiacciata!>> Esclamò Ramirez. In effetti, come già avevano constatato, in quella bruma che avvolgeva ogni oggetto di quella città fantasma il clima era glaciale, tagliente, conciso, malefico. <<Ok, fissiamo un tragitto e camminiamo in fila indiana!>> Affermò Samuel. A tutti parve una buona idea, nessuno voleva perdersi in quei labirinti gassosi, il solo pensiero avrebbe causato orribili incubi a chiunque di loro. Ispezionarono minuziosamente la piazza, vuota e fredda. Bar chiusi, negozi chiusi, case vuote, alberi privi di vita, tutto intorno a loro era morto. <<Che significa tutto questo?>> Chiese Luca. <<Non lo so, proprio non lo so… ma ce ne vuole per collegare tutto questo al nostro lavoro!>>


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Rispose Samuel, donando un tono severo alle ultime parole della sua frase. <<Il paese è vuoto, saliamo in auto e spostiamoci verso la campagna!>> Propose Raul. Misero in moto il veicolo e lasciarono quel centro inabitato, rigettandolo nel silenzio più assoluto. Che fine avevano fatto gli abitanti di quel luogo? L’ipotesi scherzo, ormai, non reggeva più, erano quasi tre giorni che quel paese si sveglia muto, solo, tetro. Il tragitto asfaltato che li stava conducendo in aperta campagna aveva la chiara ostruzione della bruma, ma non esisteva automobile che sarebbe potuta giungere dal senso opposto, e questo chi più chi meno l’avevano capito. Il cielo aveva perso la sua consueta luminosità, si stava spegnendo lentamente, dopo giornate piene di un intenso sole sembrava che le buie nuvole sarebbero tornate a dominare il tetto. L’auto procedeva con cautela a causa dell’asfalto scivoloso e soprattutto della scarsa visibilità. Quel percorso fu pieno di discorsi, allusioni, riflessioni. Gli archeologi fecero ipotesi, dalle più probabili, alle più inverosimili. Erano tutti d’accordo che nulla potesse spiegare il perchè di quella gelida nebbia e per di più in un luogo dove la nebbia esitava a venire, da sempre. Da quale immonda forza erano stati inghiottiti gli abitanti del paese? Erano sicuri che tra qualche giorno quella zona sarebbe stata del dominio della polizia e avrebbero cominciato ricerche forsennate. Loro dovevano anticipare tutti, onde evitare ostruzionismo di persone poco propense a credere alla loro storia. Si alzò un po’ di vento e gli occupanti del veicolo lo constatarono dallo strano movimento che aveva assunto la nebbia. La bruma si allargava e si stringeva, di rado sembrava quasi aprire delle piccole bocche che si richiudevano dopo qualche secondo. Il rumore delle gomme sull’asfalto impregnato di brina simulava uno strano squittio. Qualsiasi piccolo suono bastava a destare l’attenzione dei presenti. Quando i rumori cessavano e la natura si ammutoliva, una profonda angoscia e un senso di tristezza si accumulava nei loro cuori. Un senso di disorientamento e una voglia spasmodica di essere altrove stava contornando il loro percorso tra quelle terre cullate da un male tinto di bianco. Mentre procedevano ad una velocità moderata il silenzio cadde tra i loro discorsi. Una vettura era parcheggiata dinanzi a loro, apparentemente vuota.


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Si accostarono al veicolo che erano riusciti ad individuare, si trattava di un furgoncino bianco, doveva servire a qualche fattorino per la consegna del latte, lo dedussero dalla scritta che albergava su una delle fiancate. <<E’ vuoto?>> Chiese Raul. Samuel non rispose, aprì la portiera della sua auto e si avvicinò ulteriormente al furgoncino. Lo scrutò attentamente, non c’erano cenni di scasso, o di ipotetiche violenza, la vettura era stata chiusa dall’esterno, con delle normalissime chiavi. Chiunque fosse sceso l’aveva fatto di sua spontanea volontà. Raul abbassò il finestrino. <<Allora?>> Chiese, rivolgendosi verso il compagno che era sceso dall’auto. <<Tutto normale…>> Non terminò la frase, accorgendosi di alcune impronte che erano rimaste incastonate nella fanghiglia, che orami era diventata terra, erano impronte secche, pensò, probabilmente risalenti a qualche giorno prima. <<Scendete… vediamo dove porta questo sentiero!>> Ordinò Samuel, indicando un piccolo sentiero fitto di vegetazione e naturalmente di putrida nebbiolina. Assecondarono Samuel, si ritrovarono fuori dall’auto per la seconda volta, non c’erano caseggiati a proteggerli, non c’era cemento a far sembrare il luogo meno tetro. La difficoltà principale fu quella di scostare i rami che ostruivano il passaggio, il loro moto fu lentissimo, osservandoli dall’alto potevano dare l’impressione di non essere in movimento e di mantenere sempre lo stesso punto. <<Mi spieghi come ti è venuta la brillante idea di venire tra queste erbacce?>> Chiese, con un tono abbastanza alterato, Luca. Il professore preferì non rispondere. Raul notò dei vetri che si trovavano invischiati tra la terra, sembravano delle bottiglie andate in frantumi e della stessa opinione furono anche Samuel e Ramirez, mentre per Luca si trattava di vetri infranti di qualche specchietto retrovisore. La vegetazione, camuffata di bianco da un’ignota e fastidiosa nebbia, aveva assunto dei contorni malefici. Sembrava una scorciatoia per l’inferno.


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Il cammino era sempre molto lento e di tanto in tanto si fermavano per osservare il cielo, per cercare di captare qualche suono, qualche rumore che non fosse il loro. Quando i loro passi pesanti si fermavano regnava un silenzio talmente assurdo da sembrare finto, non un uccello, non una mosca, un’ape, un insetto, niente di niente. <<Dove diavolo sono finiti tutti?>> Si domandò ad alta voce Raul. Bella domanda, peccato che la risposta era talmente lontana da essere totalmente folle, almeno per delle menti umane normali, abituate ad una routine e a degli schemi che se infranti possono portare alla pazzia. Samuel cessò i suoi movimenti all’improvviso, tanto che Raul lo urtò inavvertitamente. <<Sccc… fate silenzio, zitti!>> Disse a voce bassa. Il cammino fu nuovamente interrotto. <<Che c’è?>> Chiese Ramirez. <<Silenzio!>> Replicò Samuel. Un sommesso rumore si avvertì nel silenzio che li circondava, qualcosa tra i rami si era mosso, qualcuno li stava spiando. Di nuovo il rumore, questa volta fulmineo e forte… Orami era sicuro, non erano soli. Il viso di Luca divenne pallido, quasi come la nebbia che li stava accompagnando. La loro reazione fu un silenzio ancora più denso, per un istante sembrarono fermarsi anche i loro respiri. Ok, pensò Raul, ecco i campagnoli che vengono fuori, bello scherzo, davvero un bello scherzo. Stavolta il rumore si avvertì in due direzioni contrapposte e quasi all’unisono. <<Chi c’è?>> Urlò Samuel, cacciando un grido quasi di collera, rompendo il silenzio che metteva paura. Il rumore di fogliame fu più forte e intenso di prima, fu più vicino, Samuel percepì qualcosa, qualcuno, gli sembrò di distinguere una figura nella nebbia che gironzolava intorno a loro. Cercò di strizzarsi gli occhi, quasi come se la colpa della scarsa visibilità fosse della sua vista e non della bruma.


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Un’indistinta figura nerastra era passata poco distante da lui, no… immaginazione, pura immaginazione, o un abbaglio, un enorme abbaglio agevolato dalla poverissima visibilità. Dopo quel violento schiamazzo che quasi li aveva toccati non si udì più nulla e tutti ripiombarono nel silenzio che li aveva accolti sin lì. Non dissero una parola, non una sillaba. Passarono molti minuti di silenzio assoluto. Durante i quali le orecchie erano tese in cerca di rumori e gli occhi vigili in cerca di figure. <<Sono andati via?>> Chiese con una voce tremolate Raul. <<Chi?>> Domandò Ramirez. <<Chiunque fosse, si… credo sia andato via… almeno per ora!>> Intervenne Samuel. Si ritrovarono impotenti, immobili, circondati dal nulla e dal terrore che li aveva stretti in una morsa feroce. Rimasero alcuni minuti cercando di captare i suoni che vibravano nell’aria, suoni che tardarono, che non arrivarono. Il silenzio che aveva regnato, la desolazione sonora che li aveva accolti aveva ricominciato a dominare la scena. Samuel fu il primo a muovere dei passi malfermi, ruppe quella sottile quiete che risuonava nella nebbia, il suo incedere fu seguito da Luca, poi da Raul e infine da Ramirez. Inconsciamente stavano facendo ritorno all’auto, avevano scorto qualcosa che li aveva terrorizzati. Aprirono le portiere quasi simultaneamente, dentro, si scossero gli abiti, quasi a voler far cadere quella dannata bruma che li aveva avviluppati. Il più frenetico nei movimenti fu Ramirez. Luca dovette quasi calmarlo, affermando che andava tutto bene e che non c’era motivo per agitarsi in quel modo. Non volò una parola, non ci fu un incrocio di sguardi, non un gesto a voler spiegare ciò che avevano condiviso. Ritornando lentamente verso il paese preferirono lasciare ogni ipotetico commento ad una situazione più calma. Poi, d’un tratto, mentre stavano imboccando la via del ritorno, Raul mosse la mano in direzione del volante, facendo frenare bruscamente Samuel. <<Cazzo, Raul, ma sei impazzito?>> Disse in un mix si rabbia e sorpresa Samuel. <<Aspetta, prima di tornare, facciamo un giro per Formicola, ispezioniamo la zona… ho un brutto presentimento!>> Affermò Raul, con gli occhi fissi verso di loro.


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Non ci fu risposta, solo una leggera retromarcia dell’auto e sui volti la consapevolezza che bisognava tentare tutto, niente doveva rimanere nel dubbio. Formicola era deserta, abitata dalla nebbia e dal silenzio. Non ci fu commento, solo un piccolo ghigno sul viso di Raul, come volevasi dimostrare, pensò. Ispezionarono lentamente i dintorni, tutto deserto, faceva davvero terrore, tutto era vuoto, l’asfalto era dell’asfalto, l’erba dell’erba, la terra della terra. Gli archeologi assunsero delle espressioni molto simili alla disperazione, con gli occhi pronti a lacrimare per l’angoscia che si poteva respirare in quella putrida e gelida aria. <<Che fine sta facendo il mondo?>> Chiese esterrefatto Ramirez. Fu una domanda fine a se stessa, che non pretendeva risposte, che forse, non voleva risposte. <<Sembrano tutti spariti nel nulla, tutti inghiottiti dall’ignoto!>> Commentò Raul. L’auto riprese la sua destinazione originaria. Tornare verso casa, verso Caserta. Tornare per fare cosa? Dovevano avvertire qualcuno? Chi li avrebbe creduti? Sarebbero stati ritenuti responsabili? Il ritorno fu scandito da mille interrogativi, privi di risposte. L’unica certezza era che non avevano certezze. Si trattava realmente di loro? Degli alieni? Non avevano prove…


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25. BUIO S. MARIA C. V. (ITALIA)

Un cielo plumbeo ricopriva con la sua drammaticità le fasi di quel ritorno verso casa. La luce era quasi sparita del tutto e mischiata perfettamente con la bruma rendeva l’oscurità ancora più impellente. L’auto avanzava, ma mentre all’andata avevano riconosciuto l’inizio del paese dalla nebbia, ora sembrava che la nebbia non avesse fine. Il ponte che segnava l’ingresso di Pontelatone era stato superato, ma la strada del ritorno sembrava improvvisamente essere mutata. La nebbia si protraeva, sembrava avanzare fino all’infinito. Un leggero soffio di panico a poco a poco sembrò impossessarsi del veicolo e dei suoi passeggeri. <<Non dovrebbe essere finita? La nebbia, intendo!>> Chiese, quasi come un bambino, Luca. Nessuno rispose. La domanda fu riproposta con un tono più acceso e severo. Questa volta rispose Raul. <<Si Luca, si… sembra che qualcuno ci abbia colto alle spalle facendoci questo brutto scherzo!>> Tutti notarono che l’ambiente che li circondava non solo era dominato dalla bruma ma era privo di vita. Avanzavano con l’auto, passando case, ville, macchine ferme in strada senza i propri passeggeri… era tutto vuoto, come Pontelatone, come Formicola, come tutto quello che si erano trovati dinanzi al loro arrivo. Qualcuno li aveva attesi, aveva aspettato il loro passaggio e aveva cancellato tutto quello che si trovava alle loro spalle. Era assurdo, ma era l’unica cosa che gli archeologi riuscivano a pensare. Più avanzavano, più tutto era pazzescamente uguale, ogni strada, ogni casa, ogni luogo che attraversavano aveva gli stessi segni particolari: vuoto, silenzioso, nebbioso, freddo. Un macabro pensiero colse tutti nello stesso momento, un fremito scosse le braccia di Samuel, gli occhi di Raul assunsero un tono glaciale, Ramirez e Luca si guardarono in preda allo sbigottimento, e se avessero trovato Caserta in quelle condizioni?


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Una bestemmia si formò nella mete di Samuel, non è possibile, non può essere, pensò, Simona… Valery! Erano quasi giunti in prossimità di Santa Maria Capua Vetere e il paesaggio che li aveva accompagnati fino a quel momento non mutava di una virgola. La vecchia Capua era diventata una città fantasma? Preda di morte e bruma vischiosa? La domanda non trovava ancora risposta… Ma la possibilità era molto reale! Stavano percorrendo la strada che li avrebbe introdotti in città, lo sbocco sarebbe stato via Giovanni Paolo I, uno dei luoghi più popolati del posto. L’auto giunse al semaforo che ordinava uno degli incroci della via, in quel posto la nebbia non era forte come negli altri luoghi, ma sembrava stesse prendendo possesso dell’aria, lentamente ma inesorabilmente. La visuale non era completamente ostruita, tanto da poter rendere chiaro che le auto in fila al semaforo erano vuote. Automobili in fila indiana aspettando un semaforo verde completamente vuote… <<Porca troia…>> Esclamò Raul. <<…queste auto davanti sono vuote, dove sono andati a finire tutti?>> Questa era la sua città, la città dove era nato, cresciuto, dove aveva studiato. I suoi pensieri cessarono per un attimo il loro impellente moto, i suoi genitori? Poi ancora, il pensiero a cui mai avrebbe voluto arrivare, Lisa… dov’era Lisa? <<Dobbiamo andare verso casa mia, devo assicurarmi che i mie stiano bene!>> La sua non fu una domanda di permesso, fu un ordine, scandito con voce dura e decisa. Non ci fu risposta, non ce ne fu bisogno. Nonostante il semaforo fosse rosso, Samuel superò quelle inanimate automobili in fila e all’incrocio, deserto come un iceberg dell’Antartide, svoltò a sinistra. Percorse un breve tratto e prima di svoltare a destra notò tutti i locali del posto aperti, aperti ma vuoti, come se improvvisamente qualcuno senza preavviso avesse deciso di cancellare l’uomo dalla terra. <<Lì c’è un negozio aperto!>> Disse Ramirez. <<Si, ance lì e lì, ma sono vuoti, tutti vuoti!>> Rispose prontamente Samuel.


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Quella fiammella di entusiasmo che si era accesa sul viso del messicano spense il suo ondeggiante moto, per ripiombare nella sua oscurità. L’auto svoltò a destra poi ancora a destra fino a giungere in via Jan Palach, subito dopo quella strada, sopra una cartolibreria c’era casa di Raul, o meglio il posto dove vivevano i genitori. L’insegna della cartolibreria, l’Angolo, si poteva distinguere difficilmente, la bruma stava aumentando. <<Ferma l’auto!>> Ordinò Raul, a voce alta. La non vita che si respirava in quel posto aveva allarmato Raul, ancor di più, ancora più intensamente, e dalla memoria un’immagine si staccò dalle altre. Lui piccolo e felice che correva verso il padre con un pallone tra i piedi, scena consumata nell’androne di quel palazzo. Raul scese dall’auto e per qualche secondo si sentì stranamente disoriento. La nebbia rendeva posti familiari, luoghi sconosciuti e terrificanti. La fine del palazzo bianco e grigio si perdeva tra la bruma che aveva creato un altro cielo, più basso e completamente bianco. Il mondo aveva un doppio tetto, ma il secondo sembrava opera del demonio. Uno dei luoghi più popolati della zona ora rasentava l’assoluto silenzio del nulla, le strade, i negozi ancora aperti, le auto ferme al centro delle carreggiate, scene di vita strappata, pensò Luca. Un telo bianco aveva ricoperto di desolazione ogni centimetro d’asfalto di quella città. Raul entrò nella cartolibreria, tutto era normale, tranne che per un fatto, altamente rilevante, mancavano gli uomini. Non c’erano segni d’alienazione o di caos, tutto tranquillo, nessuno dei personaggi che si trovava in quel locale aveva avuto la minima idea di quello che sarebbe successo. Raul esaminò dettagliatamente tutto quello che lo circondava, quasi come se avesse paura di giungere a casa dei suoi e trovarla vuota, magari con una pentola sul fuoco e una televisione accesa, in procinto di dare notizie sul pianeta terra. Qualcosa lo distrasse, un suono, una specie di voce. Era entrato solo nel locale, gli altri si trovavano fuori ad ispezionare, per quanto fosse possibile. Con dei passi titubanti si portò dietro il bancone, trovando un computer acceso e una fotocopiatrice in procinto di essere utilizzata. Ancora la voce, flebile, tremante, ma viva. Proveniva dall’ingresso che dava sulla strada posteriore. <<Ragazzi!>> Urlò.


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<<Ragazzi!>> Ancora. I tre entrarono correndo, allertati dal tono di voce di Raul. Quando lo trovarono perfettamente integro, ebbero quasi un’espressione di delusione. <<Merda Raul, ci chiami in quel modo senza motivo…>> Lo ammonì Samuel. <<Come minimo pensavamo di trovarti affettato o roba simile!>> Disse, smorzando i toni, Luca. <<C’è qualcuno oltre quella porta, ho sentito qualcosa!>> Si giustificò Raul. <<Sei sicuro?>> Chiese Samuel. <<Andiamo a vedere no?>> Rispose polemicamente Raul. Si avvicinarono velocemente alla porta, piccola e verde, ma persero la loro celerità nel momento in cui si trattò di aprirla. Poi ancora quel vocio, debole, quasi straziante. Samuel non esitò, non questa volta. Aprì la porta e si trovò immerso in un tunnel nebbioso, gelido e dai contorni demoniaci. Erano dall’altro lato del palazzo, in un viottolo quasi privo d’asfalto. Naturalmente a causa della bruma tutto era sfocato, difficilmente percettibile a occhio umano. La nebbia, che in un primo momento era poca, stava diventando una massa informe di inconsistente spessore. Orami anche questa città era stata inghiottita dall’obbrobrio, da un terrore invisibile e per questo diabolico. <<Aiut…>> Una voce strozzata zigzagò tra la bruma. <<Avete sentito?>> Domandò Raul. La risposta fu un celere movimento di testa. Camminavano nella nebbia come ciechi senza l’ausilio dei propri cani. Poi qualcuno urlò, era Samuel. <<Venite… ho trovato qualcuno!>> Come saette accorse intorno ad un corpo che a primo impatto pareva completamente privo di vita. Raul si accasciò, prese il capo dell’uomo tra le mani, accorgendosi che il corpo dell’uomo era gelido, causa della nebbia, pensò. Respirava, un sottile soffio di vita circolava nel suo corpo. L’uomo aprì degli stanchi occhi, poi del sangue grondò dalla sua bocca e un urlo strazian-


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te si levò al cielo. Solo ora avevano potuto notare che a quell’uomo era stato aperto il torace da qualche funambolico oggetto, gli avevano squarciato il busto all’altezza dello stomaco, se quell’uomo era ancora vivo, si trattava di un miracolo, che non avrebbe retto più di tanto. <<Cos’è successo, dove sono tutti?>> Furono le logiche e spontanee parole che uscirono dalla bocca di Raul. L’uomo cercò di parlare, ma altro sangue invase la sua bocca fino a fuoriuscire. Poi disse qualcosa, molto stancamente, ma parlò. <<C’è silenzio…>> Disse. <<…un freddo silenzio, loro non ci vogliono… qui non ci vogliono…>> Poi ancora un colpo di tosse seguito da conati di vomito rosso. <<…fa freddo… andate via… Alessia… ho paura…>> Disse infine guardando Raul, fisso negli occhi. <<…ho paura… sto morendo… c’è silenzio…>> Furono gli ultimi suoni che emise, poi si spense come un fuoco povero, come una tenue luce rotta dall’oscurità. Morì tra le braccia di Raul, sotto gli occhi di Samuel, Ramirez e Luca. <<Porca puttana ragazzi, è morto!>> Disse Raul. Ancora nessuna risposta, forse per commemorare un’anima che stava lasciando il suo corpo, diretta… Si, diretta nel paese dei balocchi, pensò sarcasticamente Samuel. Erano arrivati, la clessidra aveva funzionato, tutto vero, era tutto dannatamente vero. L’unica spiegazione possibile ai fatti che si stavano verificando era questa, ed era giusto così, pensò Samuel, per loro ma soprattutto per Roberto, niente fatica sprecata vecchio professore. Nebbia, umida, gelida, opprimente, claustrofobica… era la bruma che dominava quel posto, i paesi passati, e chissà, molto probabilmente anche Caserta. <<Dobbiamo andare, ho bisogno di raggiungere Simona!>> Disse Samuel. Aveva tentato di chiamarla ma le linee erano come scomparse, come gli orologi, fermi, irrimediabilmente fermi. Raul fece il giro del suo appartamento, trovandolo miseramente vuoto, e beffa finale, la tv era accesa.


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Pianse, intensamente, ma non fermò il moto del suo corpo, dovevano correre verso Caserta, chissà, forse gli alieni avrebbero cercato la clessidra, per capire chi li aveva richiamati. Incuranti della nebbia sfrecciarono a folle velocità sull’asfalto umidiccio. Raul notò una Lancia Y ferma nel bel mezzo della strada, naturalmente vuota. Assomigliava alla macchina di Lisa, stesso colore nero, stesso graffio sulla fiancata sinistra, stesso ciondolo penzolante dallo specchietto retrovisore, stessa targa, ecco, aveva smesso di assomigliare alla macchina di Lisa, perchè era proprio lei. <<Lisa!>> Urlò Raul. Dovettero trattenerlo per evitare che si tuffasse fuori dall’auto, impattando ad un’altissima velocità sull’asfalto coperto di gelo. Urlò ancora, pianse, si sbraitò. Maledisse un Dio, che per lui non esisteva più, avevano le prove, adesso le avevano. Incominciò a pensare che cosa avessero fatto a tutte le persone scomparse. Volle pensare che erano state solamente rapite, ma il pensiero, quest’autoconvinzione non resse tanto. Erano tutti morti, probabilmente erano tutti morti. Via nazionale Appia era un fiume in piena di automobili, alcune ancora con i motori accesi. Il fumo dei tubi di scappamento si andava ad amalgamare con la nebbia rendendo l’aria completamente irrespirabile. Una pompa di un’aria si sosta sgorgava benzina, come se qualcuno, fino a qualche secondo prima, stesse compiendo il suo quotidiano lavoro. Più avanzavano, più si avvicinavano a Caserta e più tutto era pazzescamente uguale, desolato, deprimente. Il silenzio era ripiombato nell’auto. Raul versava lacrime senza emettere alcun suono. Samuel fumava nervosamente, con un finestrino abbassato si lasciva accarezzare il volto dalla bruma schiumosa. Luca e Ramirez sembravano i più tranquilli, ma con uno studio più approfondito sarebbero stati scoperti come quelli che stavano per abbandonarsi a crisi isteriche di pianto. Erano soli. Soli e bisognosi d’aiuto per non annegare in un mare di disperazione. Stavano correndo a tutta forza verso Caserta. No, Simo e Valery no… non loro, Dio, ti prego, pensò Samuel. Poi qualcosa lo turbò profondamente, Dio? Ancora a sperare in un Dio?


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Non gli fregava di nulla, voleva solo rivedere sua moglie e la piccola principessa. Per tutto quello che avevano ottenuto aveva dato ogni cosa, anche la vita del suo maestro, ma non moglie e figlia, questo no! Anche se forse, inconsciamente, loro le stava perdendo da molto prima. Da quando era incominciata quella storia pazzesca. Quell’avventura in cui si era immerso a perdifiato e che lo aveva fatto sentire così dannatamente vivo. Da quando aveva dedicato anima e corpo a quella specie di missione, e non aveva voluto sentire storie quando Simona gli aveva fatto notare che si stava allontanando, il lavoro, diceva, questa è la più grande occasione della mia vita non posso, diceva. L’aveva snobbata, ammonendola, sgridandola, facendola piangere, costringendola, perché in fondo lui l’aveva costretta, ad andare a casa dei genitori. Lei lontano e lui cocciuto come un mulo sui libri, sulle tavole, L’Antartide, le notti insonni, i segreti. Da quanto tempo non vedeva Valery? In quella corsa sfrenata lo accompagnò una lacrima, stava per esplodere, quell’auto stava per precipitare in un pozzo di responsabilità troppo buio e profondo. Lui, Samuel, aveva una voglia matta di chiedere scusa, di implorare perdono, di urlare che era stato uno stronzo, un emerito idiota. Voleva chiederle scusa, e affogare nel visino di Valery. Forse quelle scuse doveva porgerle prima. Doveva pensarci prima. Ora poteva essere troppo tardi, per le scuse, per i baci, le mancanze, i perdoni, i sorrisi, troppo tardi per recuperare, ma anche solo per continuare. Troppo tardi per rivederle, per risentirle, troppo tardi per riviverle. Non le avrebbe riviste mai più, lo sapeva, quella vecchia canaglia lo sapeva, ma voleva sognare, sperare, per dare un senso a quella pazza corsa tra automobili in panne. Qualcosa lo distrasse, come riportò all’attenzione anche Raul e gli altri due. Il cielo si stava improvvisamente oscurando, gli orologi erano fermi, ma l’imbrunire doveva essere ancora lontano. La luce che fino a qualche secondo prima filtrava tra la nebbia stava scomparendo, come divorata da un’oscurità che sopravanzava impetuosa. <<Sta già facendo notte?>> Chiese Luca. <<Non dovrebbe.>> Rispose Ramirez. <<Ma poi la luce sta scomparendo ad una velocità vertiginosa, come se qualcuna stesse togliendo la corrente!>>


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Commentò Raul. Uno squarcio tra la bruma, il cielo fu visibile con chiarezza per qualche secondo e tutti gettarono lo sguardo in quel buco creato in mezzo alla nebbia. Le bocche aperte, i fiati trattenuti, i volti sconvolti, quello che videro li scosse a tal punto che andarono ad urtare un’auto sulla carreggiata senza nemmeno accorgersene. Mancava il fiato per fare commenti, mancava la serenità per cercare di scuotersi. Videro ciò che mai avrebbero immaginato. Sensazione dolorose e terrificanti entrarono a far parte della loro vita. Era una cosa impossibile, una cosa pazzesca, una cosa irreale, ma stava accadendo sotto i loro occhi, sotto il loro osservare esterrefatto. Avevano a che fare con qualcosa di immensamente potente, con qualcuno di un evoluzione nettamente superiore. Dei, o semi-Dei, o quello che cavolo erano, stavano scarnificando la speranza e l’entusiasmo degli archeologi. <<Non è possibile… giusto? Non è possibile?>> Chiese con parole morenti e sconfortate Raul. Le bocche aperte tardavano a richiudersi. <<Sta accadendo Raul, sta accadendo!>> Rispose ipnotizzato Samuel. In quello squarcio avevano notato che il sole, lentamente, si stava come spegnendo. Lo spettacolo che stavano osservando era molto simile ad un’eclissi. Ma l’evidenza non dava adito ad altri tipi di ipotesi. Un gigantesco disco, pilotato da mani esperte, stava ricoprendo il sole. Una cosa impensabile. Ma stava accadendo. Mostri terrificanti, intelligenti, potentissimi. Avevano un piano, la nebbia ne faceva parte, chissà come la producevano. Ora avevano deciso di privare la terra della sua fonte di luce primaria, il sole. Grazie anche alla temperatura che regalava la bruma, la terra sarebbe piombata in un gelo totale. Il sole sembrava un’enorme cerchio di fuoco incandescente e il disco sembrava un velo, intento a offuscare la luce, a renderla fioca, o addirittura a spegnerla totalmente. Ripresero il percorso. Caserta era vicina. Il sole era quasi sparito. Sarebbe incominciata una nuova era? Facevano sul serio, quegli esseri neri erano assetati di morte. Senza sole l’uomo era a rischio estinzione. Avevano risvegliato un orrore indicibile…


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Il sole stava morendo, Raul tentò di catturare il suo ultimo raggio, chissà quando lo avrebbe rivisto. Erano i responsabili? Si, forse si… Ma bisognava capire, era necessario, tutto quello che stava accadendo era necessario. I giorni e le notti si sarebbero succeduti nell’incertezza della loro unicità. Giorni bui, notti gonfie di nero inchiostro. <<Ci stanno togliendo il sole!>> Disse la tremolante voce di Raul. <<Si…>> Fu tutto quello che riuscì a rispondere Samuel. Ramirez e Luca piangevano. Samuel lo faceva dentro, strappandosi e uncinandosi il cuore. Raul era in coma, stordito, impallidito. Niente sole, niente caldo, solo nebbia e buio. C’erano, Caserta, nonostante la bruma, era visibile. La reggia sormontava anche la nebbia.


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26. …SENZA LUCE CASERTA (ITALIA)

Uno spicchio di sole cercava affannosamente di respirare. Tentava di donare luce ad un mondo che lo stava perdendo, forse per sempre. Un denso buio stava calando lentamente su nebbiose strade di vuote città. Quelle diaboliche mani che stavano guidando il disco erano sapienti, esperte, abituate a privare qualcuno o qualcosa della propria fonte vitale. Cosa ci sarebbe stato senza sole? Senza il suo calore, senza la sua luce? Le tenebre sarebbero scese tra le mura di ogni abitazione, sotto gli occhi di qualunque spettatore, sui mari che sarebbero rimasti gelidi per sempre. Presto al buio avrebbe fatto seguito la neve, alla neve le bufere, alle bufere il ghiaccio. Tutto il mondo sarebbe diventato un’enorme iceberg, pronto ad inglobare tutto ciò che si sarebbe trovato sulla sua strada. Potevano essere gli ultimi esili respiri di una luce che mai più avrebbe toccato la superficie della terra. Dall’alto si poteva notare come l’ombra si stesse impadronendo, lentamente e un poco per volta, dell’asfalto, delle case, delle piante, della vita. Ombra, nebbia, neve e desolazione sarebbero diventate il pane quotidiano. La macchina procedeva a velocità elevata, ma da quando avevano scoperto del disco e del sole la velocità della loro vettura era diminuita sensibilmente. Ancora non riuscivano a capacitarsi, a farsene una ragione, ad entrare in una realtà talmente fantasiosa da sembrare impossibile. Li stavano mettendo con le spalle al muro, quei bastardi stavano avendo la meglio, come sempre, come già avevano fatto. Un verso molto simile ad un pianto si avvertì nell’auto. <<E’ colpa nostra, è tutta colpa nostra, io l’avevo detto, non spettava a noi una simile decisione…>> Si sfogò Luca. <<E cosa avremmo dovuto fare? Arrivare fino alla linea d’arrivo e non oltrepassarla? C’eri anche tu quando abbiamo deciso di voler sapere, di rompere gli indugi! Tu come noi ti sei chiesto se c’era un Dio… beh ora lo sappiamo!>> La voce di Samuel risuonò dura, piena di collera, non verso il compagno, ma verso una situazione ignota.


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Ramirez stoppò la risposta di Luca. <<Basta… è inutile, cerchiamo solo di capire cosa possiamo fare, se c’è qualcosa da fare.>> Per giungere a corso Trieste optarono per la strada che passava dinanzi alla stazione, l’alternativa era il sottopassaggio, ma la nebbia e il buio lo facevano sembrare un pozzo vorticoso senza fondo. La via era intasata da auto in panne. Molte delle quali con i motori ancora rombanti. Si faceva quasi fatica a percorrerla a causa dei continui ostacoli da superare. Raul scorse il sole, o quel che ne restava, per l’ultima volta, ne rimaneva meno di uno spicchio, qualcosa gli si strozzò in gola, era la rabbia e l’impotenza per quello che stava accadendo. Quando giunsero alla metà di corso Trieste sembrava ormai notte fonda, anche se sarebbero dovute essere le prime ore di un pomeriggio soleggiato. Un’atmosfera ignota e tenebrosa raschiava con la sua ira le anime deliranti di quelli che sembravano gli ultimi esseri umani del casertano. Erano davvero rimasti solo loro? Davvero erano tutti spariti, inghiottiti come per magia? Nessuno di loro quattro aveva ancora avuto un incontro alieno, nessuno ne aveva visto uno, nemmeno lontanamente. Ma la loro presenza era percettibile al tatto, all’olfatto, ma soprattutto alla vista di tutto ciò che li circondava. La villa di Samuel era immersa nella bruma più fitta. Arrestarono il motore dell’auto. Il primo a scendere fu proprio il professore. Simona gli aveva detto che quella mattina sarebbe tornata a casa con la piccola Valery, se c’erano, dovevano trovarsi tra quelle mura. Freddo, un freddo intenso, quasi paralizzante accolse Samuel fuori dall’auto. Gli ricordò vagamente il clima dei ghiacciai, solo che le sue difese erano nettamente inferiori. Lo seguirono Raul, Luca e infine Ramirez, il più titubante di tutti a scendere dall’auto. Buio, nebbia e freddo accolsero l’ingresso nel giardino dei quattro archeologi. Samuel gettò distrattamente lo sguardo verso la cuccia di Bobby, addio cagnone mio, pensò… Bobby non c’era più. Arrivarono sulla soglia, con le scarpe completamente bagnate a causa del gelo che ricopriva l’erba ormai lasciata allo sbaraglio, del giardino. La macchina di Simona era al suo posto. Per un secondo Samuel pensò di pregare, poi con uno sdegno che si impadronì dei suoi occhi fece un amaro e misero sorriso. Il sottofondo musicale di foglie al vento, lo scroscio della pioggia che era incominciata a cadere dalla volta celeste, il cielo impercettibile a causa del


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muro formato dalla nebbia, il freddo che avrebbe presto tramutato la pioggia in nevischio e poi in neve. Uno scenario apocalittico, un paesaggio morto, in preda all’ignoto delirio di una spettacolare immaginazione. La porta d’ingresso era aperta. <<Restate fuori!>> Aveva ordinato con voce severa, Samuel. Una voce che non ammetteva obbiezioni. Aprì la porta, le tenebre che si erano impossessate delle mura domestiche erano fitte e nebbiose. Diede vita all’accendino. <<Simo!>> Urlò, ottenendo uno sconfortante silenzio come risposta. La piccola fiammella dell’accendino dava cenni di cedimento ogni qualvolta uno spiffero gelido si strofinava contro il corpo di Samuel. Non era casa sua, non questo tunnel di bruma, non questo mortorio, non questa casa di buio e male. Vide una luce provenire dal salotto, la televisione accesa. Che imbecille, pensò, confuso da chissà cosa aveva dimenticato che la corrente c’era e che quindi avrebbe benissimo potuto premere l’interruttore. Diede luce al salotto, maledicendosi più volte. Tv accesa, poltrona vuota. Un bicchiere di vino poggiato sul tavolino, in attesa di essere bevuto. Lacrime di disperazione, di angoscia, di una puerile paura incominciarono ad inondargli il viso, pallido come mai. Corse in camera di Valery. Accese la luce, un letto disfatto urlava la sua solitudine, la piccola stava dormendo, fino a poco prima. Samuel si sedette a terra, con il capo tra le mani e il pavimento invaso dalle sue lacrime. Avrebbe voluto urlare, sbraitare, rompere qualsiasi oggetto a portata di mano, ma tutto quello che riuscì a fare fu piangere… Sembrava un burattino animato, dondolava il suo corpo addolorato in avanti e in dietro, piangendo, senza mai urlare o causare eccessivo fastidio. Immobile nella sua disperazione capì che il suo mondo era finito lì, la sua vita non aveva il senso di prima, gli stimoli di prima e soprattutto possedeva un’aggravante, un peso enorme, il peso di non aver potuto chiedere scusa, di non averle detto ti amo per l’ultima volta, il peso di essere stato assente, il peso di non aver stretto forte Valery, percependo il suo odore di pulito, e il soffice candore dei suoi capelli. Il peso, massacrante, di qualcosa a cui non c’era soluzione. Il mondo stava perdendo i pezzi, si stava svuotando, come una diga con un’enorme falla.


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Gli occhi di Samuel erano incollati ad una bambola di pezza con cui spesso Valery amava giocare. Non ci avrebbe giocato, mai più. La mia piccola pensò, la mia piccola principessa. Il viso del professore sembrava un affresco decadente, rappresentate un’inumana sofferenza. Era consapevole che quando si sarebbe alzato e sarebbe andato dai compagni, quella parte della sua vita l’avrebbe dovuta rimuovere, per trovare la lucidità d’azione che sarebbe stata vitale. Ma voleva restare seduto nel parco giochi di sua figlia ancora per qualche istante, rubando ricordi sparsi e dolci parole sussurrate tra quelle quattro mura. Pioggia battente stava assumendo la solidità di una terribile grandine. I tre archeologi, che stavano attendendo all’esterno, cercavano riparo sotto il porticato. <<Sembra che il mondo possa crollare da un istante all’altro!>> Disse con una voce affranta Raul. Nemmeno un folle pittore, in possesso di una tavolozza diabolica e armato dei colori del demonio avrebbe potuto rappresentare il terrore, l’ignoto e la disperazione così come si stava mostrando. <<Presto la grandine diventerà neve!>> Disse, come una voce fuori dal coro, Ramirez. Poi una domanda incominciò a prendere forma nella testa di Raul, perché loro erano ancora lì, ancora vivi? Cosa diavolo stavano aspettando per far fuori anche loro? Avevano prosciugato l’intero casertano in un battito d’ali, cosa impediva la loro fine? Un’ipotesi si fece strada, loro avevano messo in moto la clessidra, erano stati loro a richiamarli, che questi esseri volessero un incontro con loro, per capire chi era stato l’artefice del richiamo? Poteva essere un’ipotesi attendibile, forse anche qualcosa in più, forse l’unica risposta alle sue domande. Nell’arco di poche ore la terra stava cambiando il suo consueto aspetto. La porta d’ingresso si aprì improvvisamente alle spalle dei tre archeologi, era Samuel. <<Entrate!>> Disse con una voce che da poco era stata rotta dalle lacrime. Non ci fu bisogno di domande, né di chiedere spiegazioni, Simona e Valery non c’erano più, come tutto il resto, come la fede, la gente, come la speranza. Samuel li aveva invitati dentro per metterli dinanzi ad un televisore acceso.


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Un telegiornale su alcune reti Mediaset stava annunciando una specie di stato di allerta. Si stava parlando dell’improvviso oscuramento del sole, del clima che stava diventando invivibile, tutti vagavano nel buio, nessuno sapeva darsi una risposta. Intanto avevano annunciato che altre città erano state svuotate dei loro abitanti, sia a nord che a sud di Caserta. I quattro fissavano il televisore come se stessero sentendo quelle notizie per la prima volta. Bocche spalancate dallo stupore si erano ormai chiuse. Nel notiziario ci fu una breve pausa, quando riprese, il presentatore con un viso pallido ed evidentemente terrorizzato stava dicendo che secondo alcune fonti, Roma si era svuotata, proprio così, la capitale dell’Italia, morta, invasa da una nebbia ignota che sembrava aver spazzato via ogni forma di vita. Poi accadde qualcosa durante la diretta, il presentatore sparì dall’obbiettivo delle videocamere, l’immagine tremò per qualche istante e un segnale di stad-by si impadronì dello schermo, il collegamento sembrava improvvisamente caduto, lo schermo era diventato completamente nero. <<Come fanno?>> Chiese Luca, infrangendo un silenzio che sembrava voler regnare per sempre. <<Come fanno ad annientarci in così poco tempo?>> Ripeté la domanda. Stavano spazzando via l’uomo come un pugno di mosche, con una facilità pazzesca, senza incontrare nulla che li potesse almeno rallentare. <<Presto il mondo sarò vuoto!>> Disse Samuel. <<Perché noi siamo ancora qui?>> Domando Raul. <<Vogliono vedere chi li ha richiamati, forse pensano che si tratti di qualche altra razza… io ho capito solo una cosa, vogliono sterminarci… forse per usare la terra… magari hanno qualcos’altro da crescere!>> Quelle parole di Samuel erano così piene di realtà che causarono un forte tremito negli animi degli ascoltatori. Un rumore di elettricità si unì ai loro affannosi respiri. La luce artificiale cadde, morta, svanita. La paura attanagliò gli arti inferiori degli archeologi. Il buio che stava dominando all’esterno aveva ricoperto i loro abiti, i loro volti e aveva scoperto, senza preavviso, le loro paure. <<Perché è saltata la luce?>> Chiese come un bimbo, Raul. <<Forse è stata la neve?>>


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Rispose Ramirez, riferendosi alla neve che ormai ricopriva ogni angolo del giardino. <<Io penso che qualcuno l’abbia staccata!>> Disse, freddamente, Samuel. <<Ci sono altri uomini per te?>> Domandò Luca. <<Chi ha parlato di uomini?>> L’ennesima domanda, usata da Samuel come risposta, fece traboccare il vaso, quasi vuoto, di speranza, che Luca stava custodendo gelosamente. <<Sono loro!>> Disse, in modo quasi cinico, Raul. Probabilmente mentre i più si occupano di sterminare la razza umana, altri cercavano i colpevoli, pensò Samuel. Andarono a passo svelto verso lo studio, avrebbero cercato la clessidra, gli alieni sarebbero stati attirati da quell’oggetto e loro si sarebbero fatti trovare pronti all’appuntamento. La bruma era talmente forte e possente che stava invadendo la casa attraverso le fessure delle maschiature, trascinando con se un freddo paralizzante. Nel buio totale dello studio si percepiva il respiro affannoso dei quattro, e nelle tenebre il loro respiro prendeva forma a causa del gelo che ricopriva il loro corpi immobili. La luce dei lampioni da giardino aveva creato nello studio una leggera penombra. Un tenue colore biancastro si annidava tra la nebbia e i loro corpi. Qualcosa smosse l’aria. Poi uno strano verso si fece spazio tra la bruma. Attoniti, i quattro, osservavano nell’oscurità qualcosa che a poco a poco si stava mostrando nella penombra di quello studio. La flebile luce lattiginosa diede vita a due piedi, neri, due gambe magre, nere. Nel silenzio più assoluto si sarebbe avvertito il loro respiro tremare vertiginosamente. La nebbia si aprì rendendo la penombra più chiara. Delle zanne, impasticciate di chissà quale sostanza, brillarono a pochi metri da loro. Mani scheletriche si muovevano freneticamente afferrando il vuoto che la nebbia conteneva. Alta più di due metri, una creatura dalla pelle lucente e nerastra torreggiava dinanzi agli scombussolati volti dei quattro archeologi. Ancora un verso, stridulo, fastidioso, tetro. Qualcosa ruppe la finestra, un’altra creatura, erano due… anzi tre, quattro… erano circondati da alieni, improvvisamente, da schifosissimi alieni. I versi aumentarono la loro intensità. Sembrava stessero comunicando tra loro. Emettevano quegli striduli versi e muovevano la testa in svariate direzioni. L’essere che era apparso per primo avanzò ulteriormente, abbando-


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nando l’indecisione creata tra luce e buio e rendendosi meglio visibile. Si avvicinò agli archeologi, allungò il collo e annusò Samuel, sembrava un predatore che stava per sferrare il suo attacco. Il professore non si mosse, impietrito, coperto da una schiuma gelatinosa che colava dalla bocca di quell’essere. Poi l’alieno scosse nuovamente il capo, emise l’ennesimo lamento, più forte e più assordante di prima. Ramirez cominciò ad urlare e cadde in terra muovendosi istericamente. I sui frenetici movimenti allertarono le creature e una di loro con un movimento fulmineo afferrò il messicano per la gola. Ramirez fu trascinato lontano dai compagni, la creatura lo teneva stretto per il collo con quelle tre dita che all’apparenza sembravano estremamente fragili. La presa era talmente dura che il messicano non riusciva nemmeno a strillare, l’unico suono che emetteva era un chiaro segno di soffocamento. Raul fece per muoversi, ma Samuel lo fermò con un veloce movimento del braccio. <<Fermo, fermo… non possiamo fare niente!>> Disse Samuel, con una voce talmente sottile da essere difficilmente percettibile. La creatura mosse la sua statuaria fisicità ancora qualche passo indietro, su quella testa allungata era difficile riuscire a scrutare degli occhi, ma chiunque di loro avrebbe potuto giurare che quella creatura, che possedeva Ramirez, li stava fissando. Un istante, un movimento talmente veloce da essere invisibile ad occhio umano, Ramirez fu tranciato in due parti, l’essere aveva usato una specie di coda che penzolava alle sue spalle. Il sangue misto alla salivazione della creatura invase la pavimentazione dello studio. Un urlo di collera non fu trattenuto da Luca. Gli alti due rimasero impassibili, freddi come ghiaccio. L’alieno che per primo si era mostrato si avvicinò a quello che sorreggeva il messicano per la gola. Estrasse da un fodero che portava all’altezza del ventre, uno strano aggeggio che messo in funzione sprigionò una serie infinita di colori. A quest’aggeggio erano collegati due fili, era un oggetto somigliante ad una torcia elettrica, ma completamente trasparente. Prese uno dei due fili e lo collegò alla sua testa, dopodichè prese l’altro filo e lo collego all’interno del corpo di Ramirez. Inserendo una delle sue zampe nelle membra del messicano. La creatura pigiò un pulsante e improvvisamente Ramirez ebbe un fremito che scosse ciò che restava del suo corpo. Le sue gambe tranciate in terra, il suo busto penzoloni in aria sorretto da una delle creature. Gli occhi del mes-


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sicano si accesero improvvisamente di una luce innaturale. Brividi di terrore invasero i cuori degli osservatori. <<Voi… voi… chiamato… chi voi… voi nessuno…>> Ramirez stava farfugliando qualcosa con una voce fredda e ignota, una voce che sembrava provenire dal profondo dell’abisso. <<Ramirez!>> Disse Raul. <<No… no… morto… io… dialogare con me…>> Non ci fu bisogno di traduzioni, né di spiegazioni, quello che stava accadendo era chiaro. L’alieno stava usufruendo del corpo del loro compagno per mettersi in contatto con loro. <<Voi è finito… uomo è finito… tempo terminato…>> Disse la creatura mascherata da Ramirez. Era un orrore indescrivibile osservare il messicano, privo delle gambe, rigettare fredde parole, perdendo sangue e osservando con un sguardo morto. <<Che volete… cosa cercate?>> Chiese Samuel, cercando di incanalare una conversazione. <<Voi basta… non permesso chiamare vostri Dei…>> Rispose una rauca voce. <<Palle, tutte palle, voi non siete i nostri creatori… >> Samuel fermò l’incedere verbale di Raul. <<Noi creatori di sporche creature… creature irriconoscenti… voi è fine…>> Dibatté l’alieno. All’esterno la neve continuava la sua continua caduta. Il mondo sembrava una fiammella sul punto di spegnersi. <<Cosa avete fatto agli altri umani?>> Chiese freddamente Samuel. <<Non utili… disabitare terra… disintegrati… non essere più…>> Le lacrime che i quel momento premevano contro i retro-occhi di Samuel erano dure e dolorose. Sua moglie e sua figlia non esistevano più. Il corpo straziato di Ramirez aveva allagato di sangue la stanza e il puzzo causato dalla salivazione di quegli esseri stava facendo barcollare i sensi dei tre archeologi. <<Chi è rimasto di noi?>> Chiese, rompendo il suo silenzio, Luca. <<Voi… terra gabbia vuota… gabbia da ripopolare…>>


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Freddo, una sensazione di freddo invase il corpo di Luca, erano gli unici essere umani rimasti sulla terra. A Raul venne in mente uno dei suoi libri preferiti IO SONO LEGGENDA, di RICHARD MATTHERSON, un piccolo pensiero che per un secondo lo distrasse da quell’orrore. Il libro narrava le gesta dell’ultimo essere umano rimasto su una terra popolata, ormai, solo da vampiri. Le creature che li circondavano si muovevano a scatti e in modo veloce. I loro movimenti non erano naturali, almeno per la concezione che ha l’uomo del movimento. Avevano colto alla sprovvista tutto il pianeta, avevano agito con una velocità inimmaginabile, tutto il mondo era stato preso di sorpresa, ogni essere umano era stato colto nel suo momento quotidiano. C’erano solo loro. Il tubicino collegato alla testa dell’alieno emanava, al suo interno, una strana luce gialla che tramite quell’oggetto veniva trasmessa al corpo inerte e storpiato di Ramirez. <<Perché non ci avete uccisi? Che volete da noi?>> Chiese, rompendo gli indugi, Raul. <<Noi cercare chiave di richiamo… volere chiave…>> Perché volevano la clessidra? Pensò Raul. <<Perché la rivolete?>> Disse Samuel. <<Nostra… dateci…>> Raul, con un movimento felino, prese tra le mani la clessidra che si trovava alla sua destra non lontano da lui. <<Dateci… dateci…>> L’essere, con la sua voce robotica, si smosse, agitandosi, notevolmente. <<Andate via, o la spacco, la rompo in due parti…>> Urlò Raul. Una delle creature cercò di avventarsi su Raul, ma l’alieno che sembrava il capo del gruppo lo fermò con un richiamo straziante per qualsiasi orecchio umano. <<Dateci…>> Ancora il capo. <<Via, o la distruggo!>> Urlò nuovamente, Raul, sentendosi forte improvvisamente. L’alieno scollegò i cavi che lo tenevano unito a Ramirez. L’altra creatura lasciò cadere il messicano al suolo in una pozza del suo stesso sangue. <<Via da questa casa!>>


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Urlò ancora Raul. Le creature, con passo felpato, abbandonarono lo studio, una ad una, uscendo dalla finestra. L’ultima ad abbandonare la stanza fu il capo, che con quegli occhi mimetizzati li scrutava diabolicamente. Scomparvero tra la neve e la nebbia, inghiottiti da un’oscurità di cui erano padroni. I tre si avvicinarono lentamente a Ramirez. Raul stringeva forte a se la clessidra. Perché la volevano? Quando lui aveva intimato di distruggerla erano sembrati tanti agnellini indifesi. Il giorno e la notte si erano uniti indissolubilmente. Le tenebre regnavano su un paesaggio decorato da una candida neve. La vegetazione era imbottita di nebbia. Un mondo oscuro aveva aperto le porte del suo inferno. Tre… solo tre esseri umani respiravano quell’angosciante preludio della fine. Le lacrime che versarono non si contarono, ma quasi ripulirono lo studio dal sangue del messicano. Erano incominciati dei giorni nuovi, drammatici… Dei giorni senza luce.


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27. URLA… CASERTA (ITALIA)

Esistono luoghi in cui urlare non serve. Posti dove la solitudine è l’unica cosa che può ascoltare i tuoi lamenti. Nessuno può sentire il tuo bisogno d’aiuto. Nessuno può ascoltarti. Niente è vivo al di fuori di te stesso. Lo spazio, l’universo è un immenso abisso colmo di ignote presenze, che mai si sono rivelate e che forse mai lo faranno. Qualcosa si era mosso. Il giocattolo perfetto pianeta terra si era rotto. L’uomo così arrogante, così sicuro dei propri mezzi da sentirsi invincibile stava salutando la sua era, affondando nell’estinzione. Era questo il termine adatto: estinzione. Un predatore più possente aveva preso il sopravvento, in un gioco di morte in cui sarebbe prevalso solamente il più forte e in questo caso non era l’uomo. Paradossalmente quando l’orario faceva intendere che il crepuscolo era sceso la luce dei lampioni prendeva vita, donando alle buie strade del giorno un’illuminazione almeno soddisfacente. Il mattino, le ore pomeridiane trascorrevano nel buio più assoluto. Era l’ennesimo cambiamento che si stava verificando, l’ennesima stravaganza a cui forse i pochi si sarebbero dovuti abituare. Di notte entravano automaticamente in funzione i lamponi delle strade. Di giorno i lampioni si spegnevano, lasciando il mondo in un denso abisso di tenebre. Samuel diede uno sguardo all’orologio della parete che stranamente sembrava ancora in funzione, 19.30, ci sarebbe stata luce sufficiente almeno per altre undici ore. Poi, con l’avvento del mattino la luce giallastra dei lampioni avrebbe lasciato posto ad un sole che ormai non c’era più, almeno per la terra. <<Perchè sono andati via quando abbiamo minacciato di rompere la clessidra?>> Chiese Luca. <<Io pensavo che fosse di un materiale difficilmente distruttibile!>> Commentò Samuel. Raul non aveva ancora preso parte al discorso, con quell’oggetto stretto tra le braccia, come se la sua perdita potesse rappresentare la loro fine.


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<<Sono andati via, Raul… puoi mollarlo!>> Aveva detto Samuel. Gli occhi del ragazzo scrutarono attentamente il professore, non voleva lasciarlo, aveva troppa paura. <<Deve essere più fragile di quanto pensassimo…>> Intervenne Raul. <<…ho minacciato di metterlo sotto i piedi e si sono spaventati come degli esseri indifesi!>> Continuò. Si erano spostati nel salotto. Lo studio era impregnato di odori vomitevoli, di sangue, di un corpo mutilato, di melma gelatinosa. Il loro primo contatto c’era stato. Più sconvolgente e più duro di quanto si sarebbero aspettati. Le tavole non dicevano tutto. Erano tornati per mettere fine alla stirpe dell’uomo. Non avevano alcuna intenzione di ragionare o di cercare un dialogo. Una riflessione tenne impegnata la mente di Samuel. Avevano parlato con uno di loro, il capo probabilmente. Che cosa brutale che aveva fatto quella creatura, usare il copro informe di Ramirez per dialogare. E noi saremmo stati creati da questi? Pensò sarcasticamente Raul. Si erano messi in un angolo. Illuminati dalla luce artificiale di un piccolo lampione del giardino. Per fortuna che la sua illuminazione entrava in funzione con i lampioni della strada e non aveva come fonte la corrente della villa, pensò Samuel. Acquattati nelle penombra di una luce artificiale, stretti intorno alla clessidra che sembrava rappresentare la loro unica ancora di salvezza, i tre archeologi avevano ripreso la ragione per i capelli e stavano cercando di portare a termine una riflessione senza tremare e soprattutto senza il continuo moto delle lacrime sui loro volti. Dovevano credere a quell’essere? Erano realmente gli ultimi esseri umani rimasti sulla faccia della terra? Probabilmente si, decisero che l’alieno aveva detto la verità. Non c’era vita intorno a loro e per osservare il paesaggio di morte che li circondava non ci voleva poi molto. Erano seduti a gambe incrociate, la loro posizione era simile a quella di un triangolo, con al centro l’antica chiave. Accanto a loro avevano recuperato tutti i testi su cui avevano lavorato. Tutte le traduzioni di Roberto e ogni sorta di materiale che sarebbe potuto essere utile. Raul diede un’occhiata all’orario, 21.45, il tempo stava scorrendo via in modo maledettamente veloce.


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Fuori, nel buio squarciato di tanto in tanto da un pallido lampione, nella nebbia portatrice di disperazione, la neve cadeva a grossi fiocchi, inebriando con un bianco candido tutto il mondo. Quella visione avrebbe dato una serenità indescrivibile a chiunque l’avesse osservata attentamente. Ma gli osservatori avrebbero dovuto dimenticare che la terra era nelle mani di predatori feroci intenti a sterminare ogni forma di vita che avrebbero incontrato. A Caserta non aveva mai nevicato, o almeno quasi mai. L’ultima volta era accaduto tanti anni prima, dei petali di neve erano caduti dal cielo in una notte di Gennaio e le scuole, impreparate, avevano dovuto chiudere per qualche giorno, per la gioia degli studenti. Era un dolce ricordo che stava accarezzando i pensieri di Raul. Lui era un adolescente, pieno di vita, di speranza e soprattutto pieno si sogni. Non era questo il momento di rimembrare, non era questo. Il vento stava suonando nell’aria la sua ennesima sinfonia, vento che vibrava tra i rami infreddoliti di alberi bianchi, vento che graffiava i tetti di case deserte, vento che trasportava un grido di terrore di persone che non avevano più fiato per lottare. <<Riesaminare tutto il materiale ci porterebbe via troppo tempo… tempo che non abbiamo… torneranno e lo faranno presto!>> Disse Samuel. Aveva ragione. Per riesaminare tutto quello che avevano fatto ci sarebbero volute più notti, visto che i giorni, a causa della mancanza di luce, erano da ritenere buoni solamente per cercare di assopirsi, se mai ci fossero riusciti. Intanto i fiocchi abbondavano, coprendo il mondo di una purezza che mascherava il terrore che lo stava dominando. <<Cosa speriamo di trovare?>> Chiese Raul, con il viso coperto da una calda luce. <<Non lo so… la verità, credo che se non abbiamo trovato nulla prima, dubito che possiamo trovare qualcosa ora!>> Disse Samuel, visibilmente sconsolato. <<Qualcosa ci deve essere, un punto… almeno un piccolo punto da cui partire!>> Provò a spronarli Luca. A volte c’erano delle piccole interferenze nella densità della luce, sembrava quasi che qualcuno li stesse fotografando. Ogni volta che la luce spariva per qualche istante, l’incubo che quei maledetti avessero spento la terra li attanagliava fino alla gola.


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Un bagliore di luce gialla svanì per poi tornare d’improvviso. Raul stava cercando di decifrare qualcosa che aveva scritto Roberto, una scrittura storpia, quasi indecifrabile. Quando Roberto aveva fretta scriveva in un modo assurdo, a volte lui stesso faceva fatica a capirsi, e puntualmente doveva metterci più tempo del dovuto per rileggere i suoi appunti. Ma il vecchio professore era ormai passato a miglior vita, o alla fine dei suoi giorni e basta. Non poteva tradurre la sua calligrafia, non poteva aiutarli, non questa volta. <<E’ assurda, la scrittura di Roberto è una cosa assurda!>> Commentò Raul. Le parole di Raul avevano avuto un solo ascoltatore. Samuel stava perdendo il suo sguardo sull’erba del giardino ormai completamente ricoperta di neve, lo spettacolo naturale che si stava prostrando era indescrivibile, anche perché, forse, di naturale aveva ben poco. Era chiaro, la nebbia la causavano loro, ma come? La neve era una conseguenza dell’abbassamento vertiginoso della temperatura, causato dalla bruma, ma soprattutto dalla scomparsa dei raggi solari. Che diavolo di materiale avevano usato per creare uno scudo che contrastasse il sole? Si chiese più volte Samuel. Loro possedevano conoscenze e materiali inimmaginabili. Si… ma non per questo l’avrebbero avuta vinta, pensò Samuel. <<In quest’appunto Roberto parla di quest’oggetto come di un richiamo!>> Con voce decisa Raul. <<E penso che la descrizione sia perfetta…>> Proseguì Luca. <<Samuel? Che tu sappia… non è che Roberto aveva degli appunti personali? Magari aveva svolto qualche piccola ricerca privata e magari li possiamo trovare a casa sua? Io ricordo che il vecchio ha sempre lavorato in questo modo!>> La serie di domande di Raul colpirono Samuel in pieno viso, illuminandoglielo, ci poteva essere qualcosa? <<In effetti Roberto era solito prendere appunti, diciamo privati… potrebbe essere!>> <<Se ci sono, dobbiamo trovarli!>> Esclamò Luca. <<Sono d’accordo!>> Proseguì Raul. <<La strada è abbastanza lunga, dobbiamo sperare che l’auto funzioni… comunque, in qualsiasi modo, dobbiamo giungere a casa sua!>>


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Fu quella di Samuel la parola finale. La casa di Roberto si trovava nei pressi del cimitero, ai confini con San Leucio. La loro posizione era quasi ai confini con Casagiove. A piedi ci sarebbe voluto tanto tempo e soprattutto tante forze. Ma con l’auto c’era un problema fondamentale che i tre non avevano calcolato, almeno finché non si trovarono all’inizio di via Roma. Le strade era impercorribili. Avevano pensato a tutto, persino alle catene che Samuel aveva montato. Ma quello che rendeva le strade impossibili da percorrere in auto non era nessun elemento climatico, bensì la conseguenza di aver annientato un’intera razza, senza preavviso, nel bel mezzo della quotidianità. Ciò voleva dire auto ferme in strada, dovunque, in qualsiasi posizione, inamovibili a causa del loro enorme peso. <<Cazzo, è impossibile con l’auto!>> Nessuno rispose al commento di Raul. <<Che stupido, che stupido!>> Disse Samuel, colpendosi il viso con degli schiaffi, ammortizzati dai pensati guanti neri che ricoprivano la pelle dal freddo. <<E’ inutile, l’auto può solo rallentarci!>> Proseguì Samuel. Tutti, a malincuore, dovettero dargli ragione. Misero la clessidra in uno zaino abbastanza grande per contenerla. La prese in spalla Raul. Dover lasciare l’auto era un bel disagio, soprattutto dal punto di vista psicologico. Il loro moto per ore sarebbe stato contornato da una pigra nebbia gelida, e le loro impronte si sarebbero destreggiate a fatica sul manto nevoso che non tardava ad aumentare il suo spessore. Tutti infagottati, scesero dall’auto. Una fredda luce metallica cercava di sopravvivere nelle tenebre, usciva dai lamponi in modo timido, come se potesse decidere di tornare indietro da un momento all’altro. Il paesaggio avrebbe rubato il fiato a qualunque spettatore. La carreggiata zeppa d’auto vuote, orami quasi camuffate dall’incedere impertinente della neve. Una nebbia bramosa di avvolgere i contorni del mondo con la sua fredda morsa. I lampioni, che mai erano stato così preziosi, emettevano i loro fasci di luce in modo discontinuo. Era un cartolina dall’inferno. La foto dell’apocalisse. Era un paesaggio che osservava irridente tre piccole figure che a fatica si muovevano cercando di difendere la loro stirpe. Fine di via Roma. Raul osservò l’orologio. Le 4.12, fra non molto le luci dei lampioni si sarebbero ritirate a riposare, e loro con tutto il resto del mondo sarebbero rimasti inghiottiti dalle tenebre.


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<<Dobbiamo trovare un riparo, qualcosa che ci dia almeno un minimo di protezione!>> Disse Raul. Osservarono le case che li circondavano. Tutte spente, prive di vita. Aprire i portoncini d’ingresso sarebbe stato massacrante. Poi Samuel fermò il suo lento camminare. <<Ci sono…>> Disse. <<…il parcheggio, quello del monumento dei caduti, lì c’è sempre luce elettrica, anche di giorno!>> Per un attimo Raul e Luca sembrarono dubitare. Ma poi le linee tese e contorte dei loro visi si distesero. <<Che figlio di puttana…>> Disse Raul, riferendosi a Samuel. Era stata un’ottima intuizione. Mille volte aveva usato quel parcheggio sotterraneo per andare alla libreria Mondadori, o più semplicemente per passeggiare tra i negozi di corso Trieste. C’era sempre luce artificiale, tutti ne erano convinti, lì sotto sarebbe stata il posto più sicuro dove sostare, o almeno l’unico dove lo spazio che li circondava non sarebbe stato un abisso di denso buio. Caserta era coperta da sette centimetri di neve, spessore che con il passare del tempo sarebbe aumentato se non avesse smesso di fioccare. I volti degli archeologi erano visibilmente segnati dal freddo. Tutti rossi, lievi ustioni ricoprivano ogni centimetro di pelle scoperta, lasciata libera di essere graffiata dal gelo. Movimenti goffi li stavano conducendo, con una lentezza impressionante, verso il parcheggio sotterraneo. Dall’alto, le loro impronte nella neve, sembravano la scia di tre piccole formiche intente a mettersi in salvo nel buco del muro. Se non erano formiche, erano talmente piccoli nei confronti di quello che stava accedendo che il loro grado di difesa era pressoché simile. Presero le scale, ed ebbero qualche difficoltà ad aprire la porta a causa della neve che ne impediva i normali movimenti. Un cielo nero guidava quei petali d’odio che cadevano per rendere invivibile il paesaggio. La neve sembrava aver quasi arrestato il suo incedere. L’ultimo fiocco di neve cadde su un’auto rossa, sostata nei pressi dell’Asl Caserta 1. La macchina aveva tutte e due le portiere aperte, segno inequivocabile che chiunque ci fosse stato aveva cercato di scappare, di sopravvivere… chiunque c’era aveva lottato e infine aveva ceduto.


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Il vento rombante creava delle increspature in quel deserto bianco di solitudine, di non vita. L’orologio digitale di una farmacia segnava le 6.12, passò qualche secondo e il mondo piombò nel buio. La neve bianca era quasi invisibile, ogni singolo, insignificante particolare era stato ricoperto dal mantello di tenebre. Il mattino era giunto portando buio e silenzio. La luce dei lampioni aveva mollato tutta nello stesso istante. Una luminosità bluastra immischiata con un nero fitto dominava il mondo, accarezzando con la sua nebbia le superfici vissute della terra. Nel chiaroscuro gli esseri avevano cominciato a muoversi a grandi velocità. Filtravano attraverso l’abisso squarciando la gelida aria e emettendo lamenti che avrebbero causato follia a chiunque li avesse ascoltati attentamente. Il crepuscolo calava con le prime luci del mattino… gli uomini avevano visto anche questo. Grida isteriche echeggiavano nell’aria, musicavano la bruma, si univano alle mille note sinfoniche emesse dai rami degli alberi diretti dal vento incollerito. Grida che giungevano nel parcheggio sotterraneo. <<Li senti?>> Chiese Raul. Sperando che quei lamenti potessero essere frutto della sua immaginazione. Samuel scosse il capo in segno di disapprovazione, quasi di resa. <<Si… sembra che ci stiano circondando, ma poi cos’avranno da gridare?>> Un soffice sorriso si fece spazio sul viso di Samuel. Un sorriso che contagiò dolcemente sia Raul che Luca. Si erano accucciati nel piccolo container, che veniva usato dal custode di turno per permettere agli automobilisti di pagare il parcheggio. Container addobbato con video-sorveglianza che rendeva possibile scrutare tutti i piani del parcheggio. C’era un bagno e un piccolo frigo bar. Nonostante avessero portato del cibo era sempre meglio non rischiare di rimanere digiuni. Un orologio digitale posto sulle televisioni per la videosorveglianza indicava le 9.00, le strade buie somigliavano a tunnel ignoti senza via d’uscita. Luca sedeva in terra, nella mano destra un panino e in quella sinistra una bottiglina d’acqua. Raul aveva già finito il suo pasto e stava mangiando a sbafo una tavoletta di cioccolata che avevano trovato nel frigo. Samuel era giunto agli ultimi morsi del suo pasto, un’aria stanca lo dominava, si trovava seduto a terra, con le spalle a muro e gli occhi che si chiudevano a tratti, come se facessero fatica a rimanere aperti. Le ustioni sui loro volti bruciavano, forse ci avrebbero dato attenzione dopo, ora il sonno prevaleva a qualsiasi pensiero. <<Dobbiamo riposare!>> Disse Luca.


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I cenni d’assenso da parte di Raul furono evidenti. <<Dobbiamo fare dei turni, uno dorme, gli alti due sorvegliano!>> Propose Samuel. Nessuno ebbe da obbiettare, era l’unica soluzione per non rischiare di essere presi di sorpresa. Il primo ad abbandonarsi al sonno fu Luca. Gli occhi di Raul erano incollati ai video per la sorveglianza. Tremava all’idea di scorgere una figura passare dinanzi a quelle videocamere. Samuel aveva gli occhi accesi come due lampadine, pensò a quello che era accaduto, alla serie di eventi che si erano scatenati. Rise, amaramente, avevano fatto la scoperta della vita e nessuno poteva congratularsi con loro. Nessuno poteva festeggiarli, nessuno poteva rendergli quanto di dovuto. Quanto tempo aveva fantasticato sul successo che li avrebbe accolti? Rise ancora. <<Samuel… posso sapere cosa hai da ridere?>> Chiede Raul, un po’ stizzito. <<Non c’è nessuno… nessuno ad accogliere la nostra scoperta… nessuno a congratularsi con noi… nessuno…>> <<Penso che il mondo già ci abbia reso tanto… le loro vite… è colpa nostra se il pianeta sta crollando!>> Disse Raul, con una voce rotta da una malinconica tristezza. <<Era meglio far restare tutto com’era? Tutto fermo? Era meglio galleggiare nelle storie che ci avevano inculcato da bambini?>> Samuel parlava mentre una lacrima pendeva dal suo occhio destro. <<Era meglio credere in un Dio che non c’è… credere in un’altra vita che non esiste… era meglio tutto questo?>> Concluse il professore. <<A volte e meglio non sapere, è meglio rimanere ignoranti davanti a misteri che ti potrebbero sconvolgere!>> <<Certo… adesso è facile parlare, dimmi una cosa, perché queste stronzate non le hai dette all’inizio? Perchè non hai provato a fermarci? Ah… scusa, dimenticavo… tu sei stato uno dei primi a voler andare avanti a tutti i costi…>> Samuel si interruppe, asciugandosi quella dannata lacrima che non aveva il permesso di uscire. Fece capire che non voleva risposte. Che risposte non c’erano. <<Scusa Samuel… scusa davvero, hai ragione!>> Capì Raul.


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Il professore non rispose. Chiudendosi in un malinconico silenzio. Pensando alla sua vita, a quello che c’era stato, due dolci ricordi, Simona e Valery… sperò solo che non avessero sofferto… Un urlo squarciò il silenzio del container. Raul, intento ad osservare i video, balzò spaventato e Luca si svegliò di soprassalto con il cuore a mille. Era Samuel, urlava e piangeva come un bambino indifeso. Raul gli si avvicinò e lo strinse forte tra le sue braccia, gesto seguito anche da Luca. <<No…>> Urlava Samuel. <<…io ho bisogno di loro, ne ho bisogno… non ho potuto nemmeno salutarle… non ho potuto, ah ah ah ah… fa male, quanto cazzo fa male…>> <<Sta calmo Samuel, sta calmo…>> Furono le uniche banali parole che Raul riuscì a dire. Passarono dei minuti in cui fecero addirittura fatica a mantenerlo. Samuel voleva uscire, voleva uccidere quei bastardi, diceva. Poi crollò esausto. Il secondo turno di riposo sarebbe toccato a Raul, ma le circostanze lo costrinsero ad attendere l’ultimo turno. Samuel si era sfogato, aveva abbandonato la sua glaciale indifferenza, aveva lasciato cadere quel velo di freddezza che lo aveva contraddistinto. Era crollato sotto i colpi di dolci ricordi. Aveva perso tutto. Tutti avevano perso qualcosa, ma forse lui più di tutti. Un amico, una moglie, una figlia… chiunque avrebbe dichiarato di aver perso la vita. Lui era stato forte. Quello sfogo gli avrebbe fatto bene, pensò Raul. Per il proseguo avrebbero avuto bisogno del miglior Samuel. Nonostante il container, il freddo era tagliente e pronto ad ustionare. Luca si era svegliato affamato e aveva mangiato del cioccolato. Raul stava quasi crollando dal sonno. Ore 12.34, ci sarebbe dovuto essere un sole pieno a dominare il cielo con la sua luce. C’era un cielo nero, imbottito di male, pervaso da un terrore indescrivibile, un cielo che aveva ricominciato a piangere neve, una neve che infilzava la bruma densa e spessa che poggiava la sua inconsistenza sulle strade biancheggianti del mondo. Figure nere si muovevano ad una velocità elevata intorno al parcheggio dove albergavano gli archeologi. Studiavano il posto, osservavano e si muovevano, erano perennemente in movimento. Il loro colore cozzava maledettamente con la colorazione che aveva assunto il paesaggio. Sembravano cacciatori che aspettano la preda.


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Sarebbero potuti entrare e sterminare la razza umana, uccidendo gli ultimi tre sopravissuti. Non lo facevano e per tutto il giorno non lo fecero. Passarono le ore a zigzagare nella neve e a urlare, ululare, echeggiando nell’aria con strazianti grida. Loro avevano il mondo‌ Era tanto importante quella clessidra? Tanto importante da fermarli?


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28. NELL’OSCURITA’ CASERTA (ITALIA)

Lampi di luce illuminarono la tenebra. Scoprendo passi furtivi e leggeri nella neve ancora fresca. I fiocchi bianchi avevano cessato di scendere dal cielo. Si potevano riconoscere grossi nuvoloni neri minacciare ogni dove. Il giorno aveva lasciato spazio ad un crepuscolo che portava luce. Molte volte il pensiero di non farcela. Un sintomo d’impotenza aveva colpito gli animi dei tre archeologi. Si erano addormentati. Per qualche minuto la clessidra era rimasta incustodita. Erano crollati. Una distrazione senza conseguenze, anche perché il lasso di tempo in cui tutti e tre erano dormienti fu davvero minimo. Aprì gli occhi Raul, con un sussulto, qualche dannato incubo era andato a disturbarlo. Strinse forte quell’oggetto di metallo. Una goccia di sudore attraversò verticalmente la sua fronte. Erano tutti addormentati, che stupidi che siamo stati, pensò. Guardò l’orologio, lasciando ancora riposare Luca e Samuel. I caratteri rossi indicavano le 20.03, i lampioni erano entrati in funzione da poco. Avrebbero dovuto sfruttare tutta la luce possibile. Diede uno scossone a Samuel. Urtò più volte Luca. Dopo pochi minuti erano pronti per abbandonare il parcheggio sotterraneo. Lo zaino che conteneva la clessidra era diventato improvvisamente più pesante. Il peso della fatica era quello che era aumentato. Risalirono le scale, con passi lenti e silenziosi. Quando arrivarono all’esterno si accorsero delle mille impronte nella neve che circondavano il parcheggio. <<Sono stati tutto il tempo qui intorno!>> Commentò Luca. Gli occhi di Raul stavano cercando di seguire quelle strane impronte nella neve. Tre dita lunghe e sottili si erano impresse nel manto bianco che ricopriva le strade. Si muovevano con un’agilità e una velocità tale da non affondare tutto il loro peso nella neve. Pazzesco, pensò Raul. <<Ci stanno osservando, in questo momento sono nascosti intorno a noi e ci osservano!>> Disse Samuel. <<Si… lo credo anche io!>>


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Continuò Raul. Si sentivano osservati, scrutati. Avevano la sensazione che se quelle creature avessero voluto, li avrebbero potuti eliminare in qualsiasi momento. La nebbia sembrava meno fitta del solito. Ma probabilmente era solo una loro impressione. Si stavano abituando a quel paesaggio nebbioso. I loro passi, dopo una breve ispezione di ciò che li circondava, ripresero un moto faticoso nella neve. Almeno la neve ha smesso di fioccare, pensò Luca. Usciti dal parcheggio fiancheggiarono un’area di servizio. Quando tutti erano stati colti di sorpresa qualcuno stava facendo benzina, una macchina era ferma dinanzi alla pompa del diesel. La pompa era caduta a terra e del liquido ghiacciato pendeva sulla fiancata della macchina, della quale non si riusciva a distinguere il colore a causa della neve che la ricopriva. Poverini, pensò Samuel, nessuno sapeva a che cosa stesse andando incontro. Nessuno di loro immaginava che sarebbe bastato un attimo per estinguere il genere umano. Ripresero la marcia. Probabilmente non erano nemmeno a metà strada. Avrebbero dovuto sfruttare tutta la luce di quella notte, non potevano permettersi il lusso di giungere a casa di Roberto il giorno seguente, perché nessuno di loro sapeva se ci sarebbe stato davvero un giorno seguente. Gambe dolenti spingevano pigri passi ostruiti da una neve dura e profonda. Ad ogni metro che percorrevano qualcuno di loro si guardava intorno per scrutare la nebbia, per scacciare la paura di essere perennemente circondati da quelle creature. Quando l’orologio di Samuel diceva 21.18, si trovavano all’altezza del Pinto, lo stadio di calcio di Caserta. Uno stadio che aveva vissuto la sua gloria quando la squadra della città militava in serie B. <<Guarda, il Pinto pieno di neve, sembra quasi un’allucinazione!>> Commentò Luca. <<Ah… quella Casertana…>> Disse Raul. <<Non mi sembra né il momento, né il luogo adatto per aprire questo dibattito mio caro sammaritano!>> Rispose Samuel. <<L’ultimo derby degno di nota l’abbiamo vinto noi, mio caro… ancora ricordo la doppietta di bomber Romano…>> Continuò Raul. <<Vorrei solo ricordarti che noi siamo stati in serie B, mentre tutto quello che voi del Gladiator siete riusciti a vedere è stata una misera serie C2>> <<Conta il presente mio caro… solo il presente…>>


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Non volendo Raul, aveva trasformato quella conversazione da bar, che per un attimo li aveva riportati a sorridere, nell’oggettiva evidenza che orami nel mondo non c’era più nulla. Il calcio, le squadre, le passioni, i tifosi… un abisso di nulla. Cosa che naturalmente valeva per qualsiasi altro sport, per qualsiasi altra attività. Il mondo era vuoto. Un concetto e una realtà difficile da immaginare e a cui nessuno dei tre era riuscito ad abituarsi. <<Scusate ragazzi, non volevo!>> Disse Raul, quasi imbarazzato. <<Tranquillo, è tutto ok!>> Lo incoraggiò Samuel. Aveva ripreso il controllo delle sue emozioni dopo il crollo che aveva avuto nel container del parcheggio. Aveva riacquistato quella freddezza che lo portava a prendere sempre la decisione migliore, che lo portava ad avere sempre parole confortevoli per i compagni in difficoltà. Non rendendosene conto si erano fermati. Ripresero subito il cammino e Samuel gettò un ultimo sguardo all’arena di tanti epici incontri. C’era un mondo privo di luce che li stava osservando. Un mondo disilluso, affogato nella disperazione. Ma in fondo chi l’ha detto che la terra è nostra? Chi l’ha detto che appartiene all’uomo? Pensò Samuel. I loro respiri affannosi prendevano sostanza nel freddo che li stordiva. A Luca tutto sembrò molto simile all’Antartide. A Raul tutto molto simile ad un inferno che mai avrebbe immaginato così. Ore 22.23, al loro fianco destro, completamente inghiottito dalla neve, un grosso centro commerciale rendeva il paesaggio ancora più desolato, a causa del vuoto che si percepiva al suo interno. I centri commerciali sono vita allo stato puro, bambini, bambine, donne, uomini, sono i posti d’incontro, di svago, ora erano i posti che avrebbero aiutato a capire che la vita non c’era più. <<Ci conviene entrare?>> Chiese Luca. <<Dici per il cibo?>> Rispose Samuel. <<Beh… qualcosa c’è rimasto, ma non so cosa faremo, non so se basterà!>> <<Entriamo, ma facciamo in fretta!>> Concluse Samuel. Ebbero qualche difficoltà ad entrare. Fecero forza sulla porta di ingresso ma non si smuoveva in nessun modo. Decisero di salire fin su, dove c’era un parcheggio e delle porte automatiche che avrebbero facilitato il loro accesso.


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Nel parcheggio, situato ai piani superiori, c’era un’infinita schiera di macchine, segno del pullulare di persone che ci sarebbero dovute essere all’interno. Le porte si aprirono come da copione e entrando si accorsero che l’aria era leggermente più calda. Le scale mobili erano ancora funzionanti. <<Andiamo diritti al supermercato, non abbiamo tempo per girovagare. Anche se casa di Roberto è vicina, non dobbiamo perdere tempo!>> Li avvertì Samuel. Casse deserte, carrelli abbandonati nel bel mezzo degli scompartimenti. In un reparto c’erano alcuni pacchi di pasta in terra, segno di una lotta per la sopravvivenza. In un altro c’erano tante lattine di birra sul suolo. Lattine che erano state poste all’inizio del reparto a forma piramidale, per sponsorizzare quella particolare marca di birra. Girovagarono tra i reparti riempiendo i carrelli. Anche Samuel si lasciò andare, sentendosi un bambino che usava il carrello per delle corse sfrenate tra i vari scompartimenti. Passarono dalla cassa con i carrelli pieni zeppi, ma la maggior parte della roba dovettero lasciarla. Uscirono con le borse più pesanti a causa del cibo che avevano prelevato. All’esterno notarono delle impronte fresche nella neve. <<Dannati bastardi, noi eravamo dentro e loro qui fuori ad aspettarci!>> Disse Raul. Una sagoma non definita, a causa della bruma, sbucò da dietro un’auto. L’altezza non lasciava spazio a dubbi, era uno di loro. Non si avvicinava, rimaneva lì, a scrutarli nell’oscurità. Quando i loro occhi ebbero la visuale ben a fuoco si accorsero che ce n’erano tantissimi. Creature nere, dall’andatura barcollante si erano mostrate ma non si avvicinavano, nemmeno di un centimetro. <<E’ finita!>> Commentò Luca. <<No… calma Luca, non si avvicinano, vedi… rimangono lì ad osservarci, non si avvicinano!>> Rispose Samuel. <<Che vogliono… perché rimangono lì, immobili, a guardarci?>> Chiese Luca. <<Credo che vogliano tenerci sott’occhio. In fondo sapevamo di essere spiati, sapevamo che li avevamo intorno!>> Disse Raul. <<E adesso, che facciamo?>> Ancora Luca.


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<<Proseguiamo, come se non ci fossero. Se ho capito bene il loro gioco non ci faranno niente, almeno finché avremo il possesso della clessidra.>> Proseguì Samuel. <<Dobbiamo camminare con queste teste di cazzo che ci osservano?>> Sbottò Raul. <<Che vuoi fare? Vuoi rimanere qui, aspettare che viene giorno e farci fregare dall’oscurità?>> Chiese Samuel. L’unica cosa da fare era proseguire senza guardarsi intono. Senza annusare il terribile puzzo della loro bava. Senza far caso ai loro fulminei movimenti e alle loro orribili sagome nella nebbia. Scesero dai piani alti con passo più svelto del solito, cercando di non inciampare nella neve. Sembrava che gli occhi invisibili di quelle creature fossero tutti per Raul ed il suo zaino. <<Osservano me, non mi tolgono gli occhi di dosso!>> Disse, notevolmente impaurito, Raul. <<Non guardarli amico, non guardarli!>> Lo spronò Samuel. Ad ogni movimento di Raul, corrispondeva un movimento di quegli esseri. Volevano la clessidra e sembravano stare aspettando il passo falso che prima o poi sarebbe arrivato. Ormai fuori dal centro commerciale, si stavano dirigendo verso il cinema di Caserta. Un’insegna completamente imbiancata indicava l’entrata. Nonostante la situazione di disagio che stavano vivendo il pensiero di Raul non poté che andare a quelle splendide serate passate dinanzi a magnetiche pellicole. Quante serate aveva passato in quel cinema? E quanti pomeriggi, quando ancora non gli era permesso di rincasare a tarda ora? Già, adesso anche il cinema è sparito, come tutto, pensò Raul. Facendo seguire a quei pensieri un beffardo sorriso, e una smorfia di totale insofferenza. I tre archeologi camminavano uno di fianco all’atro. Intorno a loro, ad una distanza non eccessiva, si muovevano gli alieni, si muovevano in fila indiana, con qualche sporadica eccezione. Ogni qual volta i tre si fermavano, arrestavano il loro incedere anche le creature. A volte, scrutando nell’abisso di nebbia, si poteva avere l’impressione che intorno non ci fosse niente, che le creature avessero abbandonato quel pedinamento. Ma bastava farsi cullare da quella speranza per qualche istante di troppo che qualche corpo nerastro sfrecciava nella bruma reclamando la propria presenza. Giunsero ad un se-


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maforo. Due macchine erano ferme nonostante il verde imprimeva i suoi comandi. <<Dobbiamo fermarci, ho il viso che mi fa un male cane… e i piedi, praticamente, non li sento più!>> Disse Luca. <<Sono le 23.53, e abbiamo da fare ancora un po’ di strada!>> Disse, quasi strigliandoli, Samuel. <<Dai… fermiamoci, almeno qualche minuto, fidati Samuel, saremo a casa di Roberto prima che albeggi!>> Intervenne Raul. <<Albeggi per modo di dire?>> Disse Samuel, accennando un timido sorriso. <<Si… naturalmente!>> Rispose Raul, ricambiando il sorriso. Rimasero fermi nel bel mezzo della carreggiata. Potevano farlo, non c’era il rischio di essere investiti, non più. La scena che videro li fece rimanere di stucco, rendendoli timidi spettatori di un orrore mai visto. Gli alieni assunsero una posizione a cerchio intorno a loro. Un cerchio enorme, distante da loro, ma che dava comunque l’impressione che fossero finiti in un’enorme trappola. <<Che diavolo stanno facendo?>> Chiese Luca. <<Non lo so…>> Rispose Samuel, completamente esterrefatto per quello che stava vedendo. <<Ci stanno circondando, a quale scopo? Se si avvicinano rompo il giocattolo e questo penso che lo abbiano capito!>> Si sfogò Raul. Non accadde nulla. Gli alieni in cerchio cominciarono ad urlare, a emettere dei versi orrendi, portatori di puro terrore. Versi che fecero piombare nell’angoscia i tre archeologi, versi che accesero delle luci sull’ignoto che dominava lo spazio. Versi, urla, ululati e poi niente più. Rimasero fermi, in cerchio, ad osservarli. Come avevano sempre fatto da quando erano usciti allo scoperto. <<Adesso voglio che qualcuno mi spieghi che cazzo stanno facendo questi fottuti stronzi!>> Disse urlando Raul. <<Ci stanno tengono d’occhio… , credo che vogliano spaventarci, rimaniamo calmi.>>


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L’invito di Samuel fu rivolto soprattutto a Luca, che tremava visibilmente e non per il freddo. La neve era ricominciata a venir giù dal cielo. Con più foga di prima, con più fretta, quasi volesse ricoprire l’intero mondo nel più breve tempo possibile. I tre archeologi giravano lo sguardo ogni istante, tremanti per il freddo e impauriti per quello che stava accadendo. <<Se volessero potrebbero ucciderci in una frazione di secondo!>> Commentò Raul, a voce bassa. <<Evidentemente quest’oggetto per loro è di vitale importanza! Dobbiamo solo scoprire perché ci tengono così tanto!>> Disse Samuel. Trascorsero appena cinque minuti. Ma il tempo in quel momento d’orrore sembrò immobilizzarsi, aiutato da una bruma sempre più malvagia. <<Forza, riprendiamo!>> Li spronò Samuel. Orami lo ascoltavano senza discutere. Soprattutto perché sembrava il più deciso sul da farsi. <<Come la mettiamo con gli alieni?>> Chiese Luca. <<Iniziamo a camminare, ci seguiranno come hanno fatto fino ad ora, né più né meno.>> Rispose Samuel. Quando cercarono di rimettere in moto le gambe, delle dolorose fitte ostacolarono i loro movimenti. Il gelo li stava straziando e il denso manto bianco rendeva difficilissimo anche il più piccolo movimento. Le parole di Samuel si esaudirono in pieno. Appena ripresero il tragitto, il cerchio formato da quegli esseri si aprì e tutti tornarono in fila, seguendo i passi degli archeologi. Somigliavano a degli zombi, a dei cadaveri che camminavano senza meta. A Raul ricordarono gli zombi di 28 GIORNI DOPO, film di Denny Boyle, uno dei suoi registi preferiti. Luca si chiese da quanto tempo non vedessero il sole, si accorse che gli mancava, maledettamente e capì che le cose vengono apprezzate realmente solamente quando vengono perse. Attraversarono una strada in cui c’erano palazzi che li fiancheggiavano a destra e a sinistra. Riconobbero, nonostante l’ostruzionismo della nebbia, tante teste nere che si affacciavano dalle finestre ad osservare il loro passaggio. Fu una sensazione di un’inquietudine infernale, indescrivibile. Ogni nuovo passo equivaleva ad una nuova apparizione da dietro una finestra socchiusa.


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Case, abitazioni che fino a qualche giorno prima erano dell’uomo, ora ospitavano, chissà per quale arcano motivo, quegli esseri blasfemi. <<Sono tutti nelle case!>> Commentò Luca. <<Non credo siano abituati a vivere come noi… stanno solo sfruttando le finestre come angoli di visuale aggiuntivi!>> Rispose Raul. <<Si, deve essere così!>> Ribadì il professore. Cercavano di sfruttare ogni angolo, ogni posizione, ogni posto acquattato per osservarli. Nascosti nella penombra più fitta, sembravano preparati a sbucare da un angolo buio, pronti ad assalirli. Ma non lo facevano e mai tentarono di farlo. Ore 2.56, erano omari giunti all’inizio di via Fuga. L’avevano presa dal lato opposto a dove alloggiava Roberto e quindi alla casa mancava un’intera, lunghissima strada. Durante il cammino riconobbero, sulla parte sinistra della strada, una scuola di danza, con l’insegna completamente rivestita di neve. A seguire l’ennesimo, vuoto, supermercato. Non avevano bisogno di cibo, proseguirono. Una volta in casa avrebbero mangiato a sazietà, i loro stomachi già brontolavano. Erano giunti a metà strada quando Raul girò lo sguardo verso sinistra, dove si estendeva un lembo di terra vuoto. Trasalì, tremò, senza aver forza per parlare strattonò il giubbotto di Samuel. <<Cosa c'è?>> Chiese il professore. Raul alzò il braccio sinistro ed indicò quel pezzo di campagna al loro lato. Passarono alcuni secondi in cui non vi furono commenti. Non vi fu certezza di essere sobri, la sensazione di una colossale allucinazione li colpì improvvisamente. Dovettero accettare quell’ennesimo atto ignoto di quegli esseri sconosciuti. Lo squarcio di terra sulla loro sinistra era pieno zeppo di alieni, nonostante la nebbia se ne potevano contare a centinaia. Uno sull’altro, mille occhi ad osservare gli archeologi. A tratti, gli esseri, sembravano un tutt’uno. Lì, immobili, a seguire i loro lenti movimenti. Erano troppi, pensò Raul, dannatamente troppi. Un oceano di esseri orripilanti riempiva un vuoto tenebroso. La nebbia sembrava passare attraverso i loro corpi, ricoprendoli, accarezzandoli, rendendoli invisibili e poi visibili.


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Quell’immagine li fece rimanere bloccati per qualche secondo. <<Andiamo, non facciamoci fregare!>> Disse Samuel. Pochi minuti e giunsero dianzi al cancello automatico che proteggeva il condominio di Roberto. Il colore principale dei palazzi era bianco, con alcune tinte di verde abilmente coperte dalla neve. A turno scavalcarono il cancello. All’interno del condominio regnava lo stesso silenzio irreale che aveva contraddistinto il loro tragitto. C’erano degli alberi appesantiti dalla neve, macchine coperte tanto da essere quasi invisibili, poi case vuote, silenziose. L’appartamento di Roberto si trovava a piano terra, almeno in questo erano stati fortunati. Samuel scostò una vecchia pianta grassa, sotto la quale si trovava la chiave dell’appartamento. <<Eccola, grazie Roby.>> Commentò Samuel a voce bassa. Il vecchio professore era solito lasciare la chiave sotto quella pianta, per non rischiare di perderla, cosa che gli accadeva con una frequenza spaventosa. Alla quarta mandata la porta si spalancò. Un odore di chiuso unito allo strano profumo che emanava la bruma li accolse nella casa. Alcuni lampioni cominciarono a spegnersi, quasi a turno. Raul diede uno sguardo all’orologio, 5.54, giusto in tempo, pensò. Chiusero la porta con tutte le mandate possibili, come se questo li avesse potuto proteggere dalle creature. Nonostante l’oscurità Samuel si sentì subito a suo agio, quella per lui era quasi una seconda casa. La porta d’ingresso si apriva su un lungo corridoi. All’inizio si trovava uno specchio intagliato nel legno e un antico portaombrelli. Proseguendo si giungeva nel salotto accogliente, formato da due poltrone rosse, ognuna di tre posti, un piccolo angolo bar, fabbricato con un legno costosissimo e una vecchia televisione. Le tende che addobbavano le finestre erano rosse e di un materiale piuttosto scadente. La casa si completava con una camera da letto quasi priva di arredamento, un bagno di ordinaria amministrazione e il suo studio. Studio che era la stanza più disordinata dell’appartamento. Cataste di libri generatori di polvere si trovavano in ogni dove di quella stanza. Era un ambiente caldo, il tavolo su cui mille volte Roberto aveva studiato era di un legno molto pregiato. Una sedia di pelle fornita di rotelle e prettamente nera rendeva comode le estenuanti notti del vecchio professore.


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Una piccola libreria, rigorosamente di legno, conteneva più libri di quanto potesse. Gli addobbi dello studio erano oggetti, preziosissimi reperiti qua e là in una vita passata tra la terra di miliardi di scavi. Una casa comoda, quasi nuda, una casa da singole. Ma era la casa di Roberto e quell’ambiente rischiò di scatenare in Samuel l’ennesimo sfogo emotivo. Fu bravo a placarsi. Pensandoci il meno possibile. Era troppo stanco. Si adagiarono pesantemente sui divani e prima che riuscissero a decidere i turni di veglia piombarono nel sonno.


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29. 1000 CORPI CASERTA (ITALIA)

Le nuvole danzavano in un cielo derubato della propria luce. Urla ignote echeggiavano nel nulla che dominava ogni angolo del pianeta. Era mattina, una mattina anomala, una mattina aliena. Un giorno senza luce, come il precedente e molto probabilmente come il successivo. La luminosità dei lampioni aveva terminato il suo compito notturno e per rispetto al nuovo giorno aveva lasciato spazio all’ombra. Una terra in cui un semplice passo, una semplice foglia caduta distrattamente sul suolo avrebbe causato un eco assordante. Un eco di disperazione a causa della sfera vuota in cui si era tramutato il pianeta. Le creature venute da chissà quale galassia ignota dell’universo si muovevano freneticamente, trepidavano, sfrecciavano veloci nella nebbia, causando buchi neri all’interno di quella sostanza gelida. Samuel si svegliò all’improvviso. Un piccolo urlo si sforzò per uscire dalla sua bocca, erano completamente immersi nelle tenebre. Sperò con tutta la forza che aveva dentro che quei dannati esseri non avessero staccato la corrente anche in quella casa, non potevano essere tanto astuti, pensò. Si alzò, toccando involontariamente il ginocchio di Raul. <<Che succede?>> Chiese Raul, ancora assonnato. <<Succede che ci siamo addormentati come degli imbecilli!>> Raul cercò di tastare, nell’oscurità, l’oggetto che li teneva ancora in vita. Il suo tremolio cessò quando potette stringerlo forte a se. <<Dove vai?>> Chiese Raul, sottovoce, cercando di non disturbare il sonno di Luca. <<Voglio affacciarmi alla finestra… sai, per vedere in che situazione ci troviamo!>> Rispose Samuel. Nella tenue luce azzurrognola che donava un minimo contorno ad ogni cosa, Raul riconobbe la sagoma di Samuel avvicinarsi alla finestra del salotto. <<Vedi qualcosa?>> Nessuno rispose alla domanda di Raul. Samuel stava cercando di abituare gli occhi a quella completa oscurità. Centinaia di ombre circondavano la palazzina in cui alloggiavano. Ombre che si muovevano ad altissima velocità, emettendo strani e diabolici versi.


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<<Ci hanno circondato!>> Conferì Samuel. <<Come stanno facendo da qualche tempo.>> Rispose Raul. <<Ci tengono d’occhio, siamo come degli animali che stanno studiando.>> Commentò Samuel. Raul si alzò quasi di scatto, avvicinandosi alla finestra. Notò che nella strada sulla quale affacciava la finestra c’erano tantissime figure nere immobili. Ferme per alcuni istanti e poi improvvisamente in un moto frenetico per scambiare le loro posizioni. Rimasero qualche minuto ad osservare i loro predatori. Quello fu il momento in cui per la prima volta capirono realmente quello che stava succedendo. Il momento in cui realizzarono a cosa avevano portato i loro gesti, le loro azioni. <<Stanno fermi lì, nelle tenebre, immobili per dei secondi e poi si muovono come dei forsennati… ma ci osservano, ne sono certo e anche se non riesco a vedere i loro occhi… beh, i loro sguardi mi danno i brividi.>> Disse Raul. Nella stanza si percepì uno stano ronzio. No, più che un ronzio, era più simile ad un ticchettio, si… Raul girò lo sguardo verso Luca, cercando di vedere attraverso un fittissimo buio. Poi ancora quel ticchettio, come un rumore d’unghie sul pavimento. Il sangue nella vene di Samuel si fermò improvvisamente. Lui e Raul rimasero pietrificati. Dal corridoio si stava avvicinando a passo lento, qualcosa. La loro reazione fu quell’improvvisa impotenza da cui furono colti. Nella penombra qualcosa fu distinguibile, qualcosa si differenziò dalle tenebre… una figura alta più di due metri si trovava a pochi centimetri da Luca, ma soprattutto a pochi metri dalla clessidra. Si erano lasciati distrarre dalle creature, gli alieni avevano uno scopo in tutte quelle pagliacciate che stavano facendo, volevano distrarli e ora c’erano riusciti. Che imbecilli, pensò Raul. Si sarebbero avventati sull’alieno, cercando di anticiparlo sulla clessidra… no era inutile, il pensiero fu subito scartato da Samuel, quell’essere era troppo veloce. <<Coglioni… siamo stati due coglioni, che stronzi.>> Si sfogò Raul. Samuel non rispose, incantato dalle movenze dell’essere. <<Che facciamo?>> Chiese Raul.


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Ancora nessuna risposta. Tra la creatura e la clessidra c’era Luca, ancora dormiente. La bruma che era entrata dalla porta d’ingresso rendeva i movimenti della creatura ancora più impercettibili. Il ticchettio delle unghie sul pavimento terminò. L’alieno emise un urlo spaventoso, sembrò quasi un grido di vittoria. Poi ancora un urlo in sincronia con un movimento del corpo. L’alieno allargò le braccia, gonfiando il suo esile petto per dare più sostanza al suo urlo. Luca trasalì. La prima cosa che distinse quando aprì gli occhi furono le figure di Samuel e Raul ferme sulla finestra. Li vide spaventati. Pietrificati. Sfregò gli occhi con le mani. Poi capì che qualcosa non andava. Girò lentamente la testa, senza che i due gli dicessero niente. Nonostante il buio, distinse una delle creature. Poteva avvertire l’infernale puzza della sua bava, poteva udire i flebili rumori del suo respiro. <<Luca, lentamente, vieni via!>> Lo esortò Samuel. <<La clessidra Luca, prendi la clessidra.>> Proseguì Raul. La sensazione era che appena avesse tentato anche un minimo movimento quell’essere si sarebbe scagliato contro di lui. Era come una partita a scacchi, l’uno aspettava le mosse dell’altro. Il problema era che il re scoperto l’avevano gli archeologi. Si avvertì il debole suono delle unghie sul suolo, l’alieno si stava muovendo. Luca si mosse a sua volta, lentamente, senza alzarsi. I due archeologi stavano cercando di osservare la scena per quanto fosse possibile. Il buio rendeva tutto meno chiaro. L’essere urlò nuovamente. Poi, dall’esterno, giunsero mille grida identiche. Raul e Samuel dovettero tapparsi le orecchie per via della loro vicinanza alla finestra. L’attesa era diventata snervante. <<Dai Luca, così… lentamente.>> Commentò Samuel. Luca si stava muovendo in modo così lento che il suo moto era quasi impercettibile. Sarebbe bastato un secondo e quell’essere avrebbe preso la clessidra e li avrebbe uccisi. Luca si alzò con uno scatto felino. Piombò sulla clessidra e con un gesto altrettanto veloce la gettò verso i compagni.


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La creature si tuffò in un’azione disperata sperando di giungere sull’oggetto prima che finisse nuovamente nelle mani degli archeologi. L’essere superò Luca, allungò il corpo in un movimento contorto. Il braccio destro afferrò saldamente una cinghia della borsa. Il tempo, in quell’istante, sembrò fermarsi improvvisamente. Il terrore si dipinse sui volti dei tre. Poi accadde qualcosa. Il moto dello zaino, che era stato fermato bruscamente dall’alieno, causò l’apertura della sacca e la clessidra ne fuoriuscì, cadendo pesantemente dinanzi ai piedi di Samuel. L’oggetto non si ruppe, ne sembrò arrecare danni. La creatura rimase con lo zaino penzolante in una di quelle strane braccia, simili a zampe. Samuel senza riflettere nemmeno un istante raccolse la clessidra, stringendola con tutta la forza che aveva. L’alieno emise un urlo lacerante. Un grido di collera mai sentito da orecchio umano. <<Vai a farti sfottere stronzo!>> Gli urlò contro Raul. L’essere si girò con uno scatto rapidissimo verso Luca. Nei suoi movimenti si percepiva la smisurata rabbia. <<Scappa Luca… scappa!>> Urlò Samuel. Luca non se lo fece ripetere due volte. Corse a gambe levate verso la porta d’ingresso. La creatura rimase immobile. Emise l’ennesimo improvviso urlo, sembrava quasi che volesse dare del vantaggio al loro compagno. <<Lascialo stare pezzo di merda… o distruggiamo questa dannata chiave!>> Urlò Raul. Il suo sbraitare non valse a nulla. La creatura scomparve nella nebbia, all’inseguimento di Luca. Desideroso di vendicarsi. Desideroso della sua vita. <<Noooooooooo!>> Urlò Samuel, con tutto il suo fiato. Non c’era bisogno di aspettare. Non c’era bisogno di chiedersi che cosa sarebbe successo. Luca sarebbe morto. Anche lui. Samuel cadde in terra, lasciando andare la clessidra, che fu prontamente recuperata da Raul. Avevano commesso l’ennesimo errore, che gli era costato l’ennesima vita. Meno due all’estensione del genere umano. Luca, trasportato da un’adrenalina di puro terrore, aveva deciso di prendere le scale e dirigersi ai piani superiori. Cadde tre volte sugli scalini, a causa delle tenebre che mimetizzavano ogni tipo d’ostacolo.


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Sudore freddo scendeva dal suo viso andandosi a posare sulle scale che percorreva ad una velocità spasmodica. Non devo mollare, si ripeteva, non devo mollare! Giunse all’ultimo dei cinque piani. Si trovò davanti una porta di ferro, che probabilmente dava sulla soffitta. L’aprì senza difficoltà e la richiuse alle sue spalle, come se quel gesto gli avesse potuto donare maggiore protezione. Inciampò nella neve e cadde. L’aria gelida l’aveva accolto tra le sue tetre braccia. Diede uno sguardo verso il cielo. Intorno al disco che ricopriva l’intero sole, si poteva scorgere un piccolo cerchio di luce. Era il sole che cercava di ribellarsi, pensò. Si affacciò, notando che quelle pallide figure che lo fissavano immobili non avevano nessuna intenzione di raggiungerlo. Sentì un fracasso provenire dalla porta di ferro. Era stata abbattuta. Sarebbe stata una cosa tra lui e la creatura. Qualcuno tentò di colpirlo alle spalle, ma il movimento d’aria lo avvertì in tempo e riuscì a calarsi rapidamente. Si voltò. Erano faccia a faccia. L’uno di fronte all’altro. <<Tu non sei il mio Dio… il mio Dio non avrebbe paura di nulla, mentre tu mio caro amico sei fottutamente spaventato… hai il terrore di perdere la clessidra… no, il mio Dio mi aspetta, non sei tu, stupido fantoccio.>> L’alieno squarciò il torace di Luca con un movimento velocissimo. Il sangue macchiò la candida neve di un rosso acceso. La creatura non fu contenta e con l’altra mano gli mozzò un braccio. Luca, ancora cosciente, urlò come un matto. Urlo che colpì i due archeologi e li costrinse a lacrimare dolorosamente. <<So quello che volevo sapere… ahahah… siete degli animali, solo animali evoluti e nulla più… ahahaha… brutto stronzo!>> Disse Luca, con i suoi ultimi fuochi di vita. La creatura gli tagliò la testa con un deciso movimento della coda. Il cranio di Luca cadde sulla neve con gli occhi chiusi e con il viso che aveva assunto una strana smorfia di soddisfazione. Il grido dell’alieno che squarciò il silenzio fu seguito dalle urla disperate dei suoi simili. Non erano invincibili. Non erano degli dei, pensò Raul. L’incredulità fu il sentimento che regnò sovrano in quegli istanti. Erano stati talmente stupidi da cadere nel loro sporco tranello. La situazione sembrò placarsi, almeno momentaneamente. <<Meno due… meno due.>>


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Ripeté Raul. Il tempo di soffrire e dannarsi l’anima per la morte di Luca non c’era. Avevano troppo da fare, troppo da tentare. <<Che facciamo? Samuel… che facciamo?>> <<Andiamo nello studio di Roberto… so dove teneva nascosti i suoi appunti segreti.>> La risposta di Samuel fu fredda, quasi imperturbabile. C’era davvero poco da fare, se si fossero lasciati cadere nella disperazione sarebbero stati preda delle creature. Bisognava fronteggiare la situazione di petto. Si mossero con calma, quasi con la paura che un altro essere potesse nascondersi nell’oscurità. Con il timore di poter riconoscere dei contorni alieni nella penombra che dominava la camera. Giunsero nello studio. Il sudore grondava dai loro volti. La tensione che stavano accusando li stava rendendo privi di forze. Raccolsero delle piccole torce elettriche che Roberto teneva conservate in un armadietto dello studio. <<Spero solo che le pile non siano scariche.>> Commentò Samuel. Quando Raul mosse il pulsante e una tenue luce gialla illuminò lo strazio sul viso di Samuel capirono che le torce funzionavano perfettamente. Tennero accesa solo una delle due, per non rischiare di rimanere senza luce nei momenti di bisogno. Si avvicinarono al vecchio tavolo dello studio. Samuel aprì un cassetto della scrivania e dopo aver rovistato per qualche secondo estrasse dei fogli di carta, parzialmente stropicciati e completamente ricoperti di polvere. <<Fai luce qui.>> Disse Samuel, riferendosi ai fogli che teneva nelle mani. <<Si, sono questi.>> Confermò Samuel, dopo aver fatto una veloce analisi. Un sordo rumore li prese alla sprovvista e tremarono dallo spavento. Un rumore di vetri, un chiassoso frantumarsi di qualcosa. Rimasero completamente immobili per qualche istante. <<Cos’è stato?>> Chiese Raul. <<Qualcosa ha rotto una finestra.>> Rispose Samuel. Raccolsero il coraggio a due mani, lo strinsero forte e con passi morbidi si diressero verso il salotto. La torcia illuminò della nebbia mista al vento che stava governando la stanza, invitata da una finestra visibilmente andata in


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frantumi. La luce gialla tentò di illuminare la parte del pavimento prossima alla finestra. Dapprima furono visibili pezzi di vetro sparsi sul pavimento. Poi qualcosa di macabro e orrendo fu illuminato dalla torcia di Raul. La testa di Luca era adagiata sul pavimento in un mare di sangue. L’avevano lanciata dall’esterno, rompendo i vetri della finestra. Il corpo di Luca giaceva chissà dove e la sua testa era immobile di fronte ai loro occhi che questa volta non riuscirono a trattenere tutte le emozioni che stavano subendo. <<Figli di puttana… figli di puttana!>> Urlò Raul. Samuel reagì piangendo. Adesso si stavano prendendo gioco di loro, adesso stavano esagerando. <<Raul, non guardare, torniamo nello studio, cerchiamo una soluzione a questo scempio.>> <<Io penso che di soluzioni…>> <<No Raul…>> Lo interruppe Samuel. <<Qualcosa da fare ci dovrà pur essere.>> Si diressero nuovamente nello studio. Volti tirati, volti assonnati, straziati da un dolore inumano che li aveva inondati. <<Fammi luce.>> Disse Samuel. Raul illuminò i fogli che tremavano nelle mani del professore. <<Questi sono i resoconti personali di Roberto, spero di trovare qualcosa, altrimenti sarà stato tutto tempo perso.>> Si sfogò Samuel, parlando quasi con se stesso. NON VOGLIO CREARE AGITAZIONE, NE PORTARE DELUSIONE. OGGI HO OMESSO QUALCOSA DALLE TRADUZIONI, UN PICCOLO PARTICOLARE CHE POTREBBE ESSERE RILEVANTE, MA QUESTO LO SCOPRIREMO SOLO IN SEGUITO… La voce di Samuel stava dando vita alle parole di Roberto. I RAGAZZI SONO ENTUSIASTI E IO STESSO NON SONO CERTO QUALE SIA LA VERITA’. NEL DIARIO CHE ABBIAMO TRADOTTO IERI UN PICCOLO PEZZO DI TRADUZIONE L’HO TENUTO PER ME. LA CLESSIDRA VIENE DEFINITA COME UN OGGETTO DI VITALE IMPORTANZA PER GLI ALIENI, IL TESTO RECITA “SENZA LA


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CHIAVE, LA ROTTA, PER LORO, SAREBBE PER SEMPRE PERDUTA”. IO PENSO, DUNQUE, CHE COSTORO, SENZA CLESSIDRA, NON POTREBBERO PIU’ METTERE PIEDE SUL NOSTRO PIANETA E QUESTO SINCERAMENTE NON MI SEMBRA UN COMPORTAMENTO DA DEI, O PER MEGLIO DIRE, DA NOSTRI CREATORI… Samuel guardò il compagno dritto negli occhi, senza dire una parola, senza mutare d’espressione. Le creature stavano perdendo colpi. L’ULTIMO RIGO AFFERMAVA CHE LO STESSO TESTIMONE DUBITAVA DELLA LORO NATURA, IN QUANTO CREATORI DELL’UOMO. ALLA FINE DEL TESTO RECITAVA QUESTE PAROLE “CI IMPONGONO DI CHIMARLI DEI, CI INCULCANO CREDENZE CHE FATICO AD APPROVARE. MAI HO IMMAGINATO DEI TANTO TIMOROSI VERSO LE PROPRIE CREAZIONI. MAI HO PENSATO AL MIO DIO VINCOLATO DA MACCHINARI E ROTTE PER DOVER TORNARE NEL POSTO CHE AVEVA SCELTO COME NOSTRA DIMORA… MENTONO, PER ME MENTONO, SENZA CHIAVE POTREBBERO PERDERE OGNI COLLEGAMENTO CON IL LORO PIANETA E RESTARE QUI, INTRAPPOLATI, PER SEMPRE!”. FORSE E’ COSI’, SE CI SONO, NON SONO ALTRO CHE MENTI PIU’ EVOLUTE. HO UNA GRANDE CONFUSIONE CHE VIVE NELLA MIA TESTA, VEDREMO… Con quella parola terminava quella serie di considerazioni personali di Roberto. Nei suoi pensieri capovolgeva tutto quello che li aveva spinti fino al limite. <<Che pensi?>> Chiese Raul, diretto a Samuel. <<Che mi sono sempre fidato di Roberto, che raramente sbagliava, che voglio crederlo anche questa volta… perché voglio credere che non sono loro i nostri creatori, perché li odio.>> Fu una lunga e dolorosa risposta. Una risposta esauriente. Le luci della sera erano prossime alla venuta. I lampioni stradali avrebbero dato vita alle carreggiate a modo loro, con una rozza luce artificiale. Avrebbero reso meglio visibili gli esseri neri che girovagavano sull’asfalto imbiancato in cerca di prede.


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Iniziava una notte con una speranza che non c’era mai stata. Sembravano quasi aver deciso di buttare tutto via quando il buon vecchio Roberto era stato utile, per l’ennesima volta. La neve aveva deciso di riprendere il suo percorso, partendo da un cielo derubato della sua bellezza e finendo su un sentiero testimone di vite spezzate. Un sordo rumore raccolse l’attenzione degli archeologi. Qualcuno era entrato in casa. Le creature avevano perso la pazienza? Di già? Samuel e Raul decisero che la clessidra poteva essere sacrificata, se davvero avrebbe imprigionato per sempre quegli esseri sulla terra.


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30. NON CHIUDERE MAI GLI OCCHI… CASERTA (ITALIA)

Una nuvola di bruma invase lo studio dove i due si trovavano acquattati. Si poteva avvertire il fastidioso ticchettio che le unghie delle creature componevano sul pavimento. Erano dentro, cercavano loro. Samuel fece capolino dalla porta. Vide due grosse figure che stavano ispezionando l’ambiente. Poi distinse una terza figura, una figura strana, sembrava uno di loro ma nei contorni che gli donava l’oscurtità sembrava essere di una forma differente. Quando Samuel capì di cosa si trattava ritrasse il capo, si accasciò debolmente e fissò Raul, come mai l’aveva fissato. <<Di nuovo, pezzi di merda, di nuovo.>> Disse Samuel con voce stanca. <<Che succede? Quanti sono?>> Chiese Raul. Samuel fece un cenno con la mano, quasi a volerlo invitare ad osservare di persona. Nessuno di loro ci aveva badato ma il crepuscolo era sopravvenuto e la luce dei lampioni rendeva le camere della casa meno oscura. Quando Raul si affacciò ebbe un sussulto che si trasformò in un grido d’orrore. Simultaneamente le creature porsero la loro attenzione verso quella voce. <<Cazzo… stanno venendo qui.>> Disse Raul. Samuel non rispose, il suo viso assunse una smorfia di sdegno, quelle creature erano capaci di cose immonde, pensò. I due archeologi cercarono riparo alle spalle del tavolo. Dalla poca luce che sottostava alle tenebre scorsero tre grosse figure entrare lentamente nello studio. Passi pesanti sembravano quasi scuotere la terra. Li illuminarono con una luce fortissima. Accoccolati in un angolo. Terrorizzati. <<Andatevene o faccio a pezzi il vostro giocatolo.>> Urlò Raul. Le due figure si aprirono per lasciare spazio al terzo alieno, che contro ogni logica umana stringeva tra le braccia il corpo storpio e mutilato di Luca. Stava usando lo stesso metodo che avevano utilizzato con Ramirez. Era uno


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scempio. Il corpo di Luca decapitato, dinanzi ai loro occhi, infilzato con tetri tentacoli gelatinosi, pronto a parlare per mezzo loro. <<Consegnateci la chiave… andremo via, voi salvi, voi alcun male.>> Disse una tetra voce robotica. Samuel lo guardò con tutta la rabbia che un uomo potesse provare. <<Voi…>> Disse urlando. <<…voi, mi avete tolto tutto, mia moglie, mia figlia…>> Continuava in lacrime. <<…non ho più niente, che cosa vi fa pensare che voglia vivere? Chi vi dice che abbia la forza per affrontare un mondo vuoto?>> Silenzio. Poi nuovamente quell’ignota voce. <<Voi salvi, questo basta.>> Samuel, accecato dalla rabbia, cercò di scagliarsi contro quell’immagine immonda che troneggiava davanti ai suoi occhi, Raul riuscì ad afferrarlo per una manica. <<Fermo… fermo, così fai il loro gioco.>> Disse Raul. <<Lasciateci abbandonare questa casa…>> Continuò. <<…dobbiamo riflettere sulle vostre offerte, lasciateci abbandonare la casa.>> Concluse Raul. Qualche secondo d’attesa. <<Lasciate la casa, andate dove volete, poco tempo per scegliere… poco tempo>> La creatura ritirò i tentacoli infilzati nel busto di Luca e il corpo mutilato cadde davanti a loro in uno specchio di sangue. Gli alieni sostarono ancora per qualche secondo, quasi a voler sfidare i due. Poi andarono via, volatilizzandosi nella notte, invisibili ma presenti. <<Che cazzo hai detto, non prendiamo nessuna decisione… io a loro…>> Mentre Samuel tentava di finire il monologo Raul gli tappò la bocca. <<Ascoltami… è possibile che loro non possano rimanere sulla terra troppo a lungo… magari hanno bisogno di cose che qui non ci sono, per vivere dico… beh si dice che una razza quando si trova vicino all’estinzione lo capisce…>> <<Continua!>> Disse Samuel.


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<<Amico, forse è giunto il momento, lo sento… ma senza clessidra loro rimarranno per sempre qui… morendo, probabilmente.>> Samuel scuoteva il capo in cenni d’assenso. <<Samuel… guardami negli occhi, loro pensano che noi siamo in grado di rompere facilmente quest’oggetto, ma entrambi sappiamo che non è così…>> Le parole di Raul risuonavano nell’ambiente decise e malinconiche. <<So come distruggerlo, so come farlo… moriremmo, sicuramente, ma loro verranno all’inferno con noi. Dio c’è, ci devo credere, ci voglio credere… non sono loro i nostri Dei, non loro… non dei predatori senza senso d’orientamento… Samuel voglio che mi dici si o no.>> Lunghi istanti di spasmodica attesa. <<Dio c’è, è stata una farsa, ci hanno fatto credere che loro ci avevano creato e noi abbagliati dalla loro tecnologia siamo caduti nel tranello, non finisce qui Raul, non finisce qui… ci aspettano…>> Disse Samuel. <<Amico… è un si o un no?>> Chiese Raul. <<Si… dannatamente si, maledettamente si… voglio tornare da Simona e da mia figlia e voglio vedere questi figli di puttana marcire, dall’alto, magari dal Paradiso.>> Raul, con un gesto istintivo, strinse forte Samuel. Erano gli ultimi esseri umani sulla faccia della terra. Erano le ultime fiammelle di una festa agli sgoccioli. Diedero uno sguardo nel salotto, vuoto. Si scorsero lentamente dalla finestra rotta dal cranio di Luca. Erano sempre lì, in attesa dei loro movimenti. <<Che intendi fare?>> Chiese Samuel. <<L’unica certezza che abbiamo di eliminare la clessidra è gettarla in uno dei forni della fonderia… non è troppo distante, credo che in un paio d’ore, neve permettendo, possiamo raggiungerla.>> Rispose Raul. Si trattava di un vecchio capanno che da qualche anno era stato trasformato in una fonderia. Raul c’era stato qualche volta perché suo zio era uno degli addetti alla manutenzione. <<Se capiscono dove stiamo andando ci fermeranno.>> Disse Samuel, con delle parole piene di sofferenza. <<Sono bestie, stupide bestie… non si accorgeranno di nulla, almeno finché non ci saremo dentro… e li sarà troppo tardi>>


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Raul, cercando di rassicurarlo. Le sue parole sembrarono avere, sull’amico, l’effetto di un calmante. Raul prese lo zaino e lo mise in modo che la clessidra si trovasse a contatto con il petto e non con la schiena, per avere la possibilità di stringerla forte tra le mani. Quando aprirono la porta si accorsero che alcune creature si trovavano ai piani superiori e appena loro avevano dato l’impressione di uscire si erano nascoste nell’ombra. <<Sono talmente stupidi che non sanno quali sono le nostre reali capacità, quando, per la prima volta, ho minacciato di distruggere la chiave hanno pensato che fossi davvero in grado di farlo… di noi non sanno niente, miliardi di anni fa giunsero per caso sul nostro pianeta… non finirà tutto Samuel, non finirà.>> Raul concluse il suo discorso colmo di speranza con una pacca sulla spalla del compagno. Gli leggeva negli occhi il dolore per i pezzi del suo cuore che aveva perso. Avere anche solo la minima speranza di poter rivedere la mogie e la figlia era un pensiero a cui aggrapparsi con tutte le forze, pensò Raul. Aprirono il portone d’ingresso. Tutti i balconi dei palazzi che li circondavano erano presieduti dalle creature. Fisse, immobili, ad osservare ogni loro spostamento. Incominciarono a destreggiarsi nella neve che ormai aveva raggiunto una tale profondità da ostruire profondamente i loro movimenti. Quando giunsero in strada una schiera di alieni li stava fronteggiando. Uno di loro stava facendo dondolare qualcosa, che a causa della scarsa visibilità non era facile distinguere. Poi, gli occhi si abituarono a quella luminosità. Era una foto, posta in una cornice, sorretta da una cordicella di metallo. Era la foto di Samuel, che sorrideva accanto a Simona, con la piccola Valery tra i due genitori. Ancora la voglia di scagliarsi contro di loro fu impellente. <<Fanno questo per farci perdere la testa, non cedere Samuel.>> Lo spronò Raul. <<Le rivedrò presto… figli di puttana, le rivedrò presto!>> Rispose Samuel a voce alta. Girò lo sguardo verso Raul. <<Andiamo… facciamola finita.>> I due, incuranti delle creature, si incamminarono verso sinistra.


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Un tappeto bianco era stato srotolato su tutte le strade, su tutti i tetti, su tutto il mondo. Un velo di angoscia aleggiava convinto tra i vicoli, tra le fessure, sui loro abiti. Stavano combattendo la fatica con la rabbia, stavano scacciando agghiaccianti pensieri con la collera. La specie in estinzione non avrebbe ceduto se prima a farne le spese non fossero stati i cacciatori. Gli alieni sembravano un esercito in marcia alle loro spalle. File indiane di esseri immondi li seguivano senza sosta. Apparivano da ogni angolo. Da ogni finestra, da ogni luogo oscuro che li circondava. <<Aumentano sempre di più.>> Raul. <<Probabilmente sono talmente tanti che se si ritrovassero tutti a Caserta non ci entrerebbero.>> Rispose Samuel. <<Mi danno l’impressione delle formiche… sai le formiche?>> Raul, accennando un timido sorriso. <<Si… dannatamente fastidiose.>> Samuel, ricambiando il sorriso. La loro marcia era lenta, pesante e soprattutto fredda. Con la neve che aveva ripreso a scendere dal cielo e con la temperatura che sembrava diminuire sempre più, le loro gambe a volte davano l’impressione di essere sul punto di immobilizzarsi. La pelle sui loro volti era stata quasi scarnificata dal gelo. Chiazze rosse di pelle viva primeggiavano sui loro visi straziati. Tutto quello che li faceva andare avanti, tutto quello che rendeva il dolore più sopportabile, era la voglia di mettere una parola fine a quell’apocalisse. La consapevolezza di poterli fregare donava una forza incomparabile. Ci fu uno scatto nella nebbia, fulmineo. Raul si accorse di quello che stava accadendo appena in tempo. Si gettò all’indietro, facendo attutire il colpo dalla soffice neve alle sue spalle. Una creatura aveva cercato di strappargli la clessidra. Si era ritrovata con un pugno di mosche in mano. Qualche secondo di disorientamento generale. Poi Samuel tese la mano a Raul e lo aiutò a rialzarsi. <<Dannati demoni!>> Disse Samuel. Mentre Raul preferì tacere, ancora un po’ scosso. Rimasero immobili, al centro della carreggiata, avvolti da una fredda bruma e illuminati da una sporca luce artificiale.


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Poi accadde qualcosa. Urla spaventose iniziarono a spandersi nell’aria. Una delle creature seguita da due suoi simili si avvicinarono a passo svelto verso l’alieno che aveva cercato di rubare la clessidra. Iniziarono una comunicazione sfrenata fatta di urla, schiamazzi, di grida. Poi quella che sembrava la più forte delle tre sferrò un colpo di coda violentissimo verso l’alieno che era stato messo sotto giudizio. Colpi seguiti dagli altri alieni. Una sostanza blue ricoprì la neve, sgorgando dal corpo della creatura mutilata. L’alieno cadde al suolo, ricoperto dalla neve cadente e completamente privo di vita. L’avevano ucciso, aveva disubbidito e loro l’avevano ucciso. Giaceva immobile sulla neve, contornato dal sangue blue e a tratti verde. L’alieno che sembrava detenere il comando fece un cenno verso gli archeologi, quasi a volersi rassicurare sul proseguo del loro cammino. Vantavano una tecnologia suprema, un avanzamento pazzesco e poi si comportavano come barbari alla prima disobbedienza, bestie, pensò Raul, solo bestie. Ripresero il tragitto. Senza timore. Raul rivolse gli occhi verso il cielo, che cosa avrebbe dato per vedere ancora una volta la luce del sole. Questi esseri possedevano mezzi inimmaginabili per l’uomo, rifletté Raul. Non guardavano più orologi. Non correvano dietro al tempo. Lentissime ore passarono donando ai due viaggiatori solo sofferenza. <<E pensare che tutto questo è successo per colpa nostra.>> Raul. <<No… non dire così, che cosa avremmo dovuto fare? Ignorare tutto? Le tavole, le traduzioni… era nostro compito cercare di capire, per il mondo.>> Samuel. <<Già… per il mondo… per colpa nostra il mondo si è tramutato in una deprimente scatola vuota popolata da ignote creature!>> <<Eri d’accordo… sin dall’inizio.>> <<Ma infatti io non sto rimpiamgedo niente… dovevamo capire chi erano, se erano davvero quello che pensavamo…>> <<L’abbiamo capito?>> Chiese Samuel. <<Ho capito che niente è certo… nessuna cosa si potrà mai sapere con assoluta certezza… probabile che ci abbiano fatto credere allo storia degli Dei, sai loro così avanzati, noi, milioni di anni fa, così primitivi… voglio poter credere in tutto quello in cui ho sempre creduto… poi… la verità la conosceremo in seguito.>> Concluse Raul.


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<<Se Roberto fosse stato qui ci avrebbe rassicurato… troppe cose che non quadrano, troppe mancanze per essere quello che dicono… andrò dalla mia famiglia e probabilmente Roby ci sta aspettando!>> Disse Samuel. Si sorrisero. Un sorriso caldo, leale, in quell’angoscioso gelo che li circondava. Arrivarono al cancello che li divideva dalla fonderia. Samuel fece per aprirlo, accorgendosi che era chiuso e ogni tentativo di scasso era messo da parte a causa dell’impossibilità di usare le mani ghiacciate. Samuel si voltò e vide un mare di macchie nere riempire la carreggiata. <<Che facciamo?>> Chiese Raul. <<Dobbiamo scavalcare… uno per volta.>> Rispose Samuel. Il primo a tentare l’arrampicata fu proprio il professore. Con una fatica incredibile riuscì a giungere in cima al cancello. Il vento tagliente era diventato ancora più forte e provvedeva a grattare contro il suo viso. Quando giunse dal lato opposto, a metà percorso, si lasciò cadere, convinto che il colpo potesse essere attutito dalla neve e così fu. <<Tutto bene?>> Gridò Raul per farsi sentire. Il vento aveva amplificato il suo ululato e adesso anche parlare era diventato difficoltoso. <<Ok… tutto ok!>> Rispose il professore. <<Gettami la clessidra…>> Continuò Samuel. Tolse lo zaino e notò i movimenti in sincronia delle creature alle sue spalle. Tutte a seguire attentamente i movimenti della clessidra. Non l’avrebbero persa di vista nemmeno per un istante, questo era un bel problema. <<La lancio.>> Gridò Raul. Lo zaino roteò nell’aria più volte, sospinto dal vento e camuffato dalla nebbia. Un sordo tonfo fece capire a Raul che era giunto dalla parte opposta. <<Ok… ce l’ho.>> Disse Samuel. Accade una cosa strana, tutte le creature, non appena Raul si fu liberato dello zaino, gli si avvicinarono frettolosamente.


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Si portarono a pochissimi centimetri da lui. La bruma e il vento rendevano la visuale quasi impossibile. Una delle creature allungò un braccio verso Raul. Rimase immobile, atterrito dalla paura. Samuel si trovava a pochi centimetri da lui, ma un cancello li divideva e la nebbia rendeva difficile osservare con chiarezza. L’essere poggiò le tre putride dita sul cranio di Raul. <<Forza… fatela finita… forza, non vincerete…>> Disse Raul. Poi sopraggiunsero altre due creature che lo tennero fermo. Raul era immobile, impossibilitato a compiere movimenti. Qualcosa balenò nella mente di Samuel, volevano leggerlo nel pensiero, volevano capire le loro intenzioni. <<Raul… pensa a qualcos’altro, pensa a Lisa, pensa a ciò che vuoi, ma non a quello che dobbiamo fare.>> Gridò Samuel <<Perché?>> Rispose Raul. <<Fallo e basta!>> Urlò Samuel. L’alieno cominciò a tremare, e una scossa invase il corpo di Raul. La creatura riuscì a percepire il viso di una ragazza. Poi vide dei baci, delle carezze, vide lacrime e dolore… e poi ancora le stesse scene che si ripetevano più e più volte. La creatura lasciò andare il cranio di Luca ed emise un urlo che costrinse i due archeologi a proteggersi l’udito. Tutti gli alieni si allontanarono. Ripresero le loro posizioni di osservatori e lasciaono Raul libero di scavalcare il cancello. Il ragazzo ancora atterrito non perse tempo e come un fulmine, incurante del dolore alle mani, raggiunse Samuel dalla parte apposta. <<Come facevi a saperlo?>> Chiese Raul. <<Non lo sapevo… ho cercato di indovinare, mi è andata bene.>> Rispose il professore. Si trovavano a pochi metri dal grosso capanno. Accelerarono il passo e notarono che sia alle loro spalle, sia dinanzi a loro, in qualsiasi visuale cercassero di osservare, c’erano loro. Acquattati, immobili, sembravano figure morte provenienti da abissi ignoti senza fondo. Assomigliavano a creazioni artistiche di menti malate. Giunsero alle grosse porte d’acciaio che li dividevano dall’interno.


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Si accorsero immediatamente che non erano chiuse a chiave e che le due porte erano solo appoggiate l’una sull’altra. <<Ci siamo, al mio tre spingiamo… uno, due e tre…>> Disse Samuel. Spinsero con tutta la forza che gli era rimasta e riuscirono a smuoverla quel tanto che bastava per poterci entrare. Appena dentro cercarono di richiuderla il più in fretta possibile. Era l’unica entrata. Chiudendola posizionarono una sbarra d’acciaio sulla porta, in modo orizzontale. Erano dentro e nessuno poteva entrare. La luce era poca ma si potevano distinguere ugualmente i macchinari che fino a qualche giorno prima erano usati per fondere metalli e cose varie. Superarono una serie di forni minuti. Raul spiegò che quelli erano i più piccoli, quelli meno potenti che servivano per fondere piccoli oggetti. In pratica il capanno era un lungo corridoio, pieno di caldaie e forni, che fiancheggiavano il percorso a destra e a sinistra. Alle spalle dei forni c’erano delle tubature che provvedevano a smistare successivamente il metallo diventato liquido. Nonostante avessero chiuso la porta frettolosamente, un po’ di nebbia li stava tenendo compagnia, per farli ricordare delle condizione in cui, all’esterno, il mondo si trovava. Si fermarono davanti ad un enorme forno. Era quello più grande. Delle volte, Raul, aveva visto lo zio fonderci la carrozzeria di alcune auto. Quel capanno pullulava di vecchi macchinari, perfettamente funzionanti. Raul aprì la portiera del forno e subito un immensa ondata di caldo li investì. Un sollievo indescrivibile colpì Samuel in pieno volto. Che caldo, che bel caldo… pensò il professore. <<Non starci troppo, potrebbe farti male!>> Disse Raul. <<Spero la tua sia una battuta…>> Rispose Samuel. <<Perché?>> <<Stiamo per estinguerci... ricordi?>> Raul preferì non rispondere. Aveva detto una cosa ordinaria, dimenticandosi che l’ordinario non esisteva più. <<Che succederà appena getteremmo via la clessidra?>> Chiese Raul.


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<<Beh, penso che quando ci vedranno uscire senza non esiteranno a ucciderci.>> Rispose Samuel. <<Si… lo penso anche io.>> Disse, mogiamente, Raul. Mentre Samuel stava provvedendo a togliere la clessidra dallo zaino, Raul aumentò al massimo la potenza del forno. Qualcosa spinse via Raul. Facendolo battere gravosamente contro uno dei macchinari. Samuel alzò lo sguardo e si ritrovò una delle creature a pochi metri di distanza. Era la più alta che avessero mai visto. Nel frattempo era cominciato un immenso frastuono causato dalle botte che le creature stavano rifilando alla porta d’ingresso. Raul riprese i sensi subito. <<Gettami la clessidra!>> Urlò Raul. Samuel sembrava immobile, incapace di muoversi. <<Samuel, la clessidra…>> Ancora Raul. Era l’alieno più grande che si erano trovati davanti. Misurava tre metri, forse anche qualcosa in più. Era entrato nella fonderia prima di loro e si era nascosto nell’ombra pronto balzare fuori al momento opportuno. Probabilmente era quello che comandava, il più vecchio. Samuel ebbe un fremito. Si accorse che l’alieno si stava avvicinando lentamente. Non fece vincere il panico, lui sempre freddo nei momenti difficili. Prese la clessidra e la spinse faticosamente verso il compagno. L’alieno balzò con tutta la sua elasticità verso Raul. Samuel si contrappose tra i due, permettendo alla clessidra di giungere tra le braccia dell’amico. <<Samuel!>> Urlò Raul. <<Va via… scappa, ci devi riuscire… ahhhh.>> Le sue frasi furono smorzate dalle unghie della creatura che avevano lacerato la pelle del suo viso. <<Io rivedrò tutti, ti aspetto…>> Furono le ultime parole del professore. La creatura non perse tempo. Con un velocissimo fendente divise il corpo di Samuel in due parti. Lanciò il busto verso Raul e la parte inferiore nel forno. Ok, adesso tocca a te, si disse Raul.


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Si alzò ed incominciò a correre freneticamente verso la porta d’ingresso. La creatura sembrò visibilmente sorpresa dal movimento di Raul. Stava cercando di ritrovarsi con le spalle coperte dal forno. L’alieno cominciò a seguirlo, era dannatamente veloce. La conosco bene questa fonderia, bestia del cazzo! Si disse. Lei era più veloce, ma Raul riuscì a sfuggire momentaneamente alla sua vista nascondendosi sotto uno dei macchinari. Vide l’essere avvicinarsi alla porta d’ingresso. Voleva far entrare le altre creature. Quando lo vide prossimo all’apertura della porta d’acciaio si portò con tutta la sua velocità verso il forno. La creatura aprì la porta e migliaia di alieni invasero il capanno in pochi secondi. Raul si trovava in piedi, sul muretto dell’enorme fornace. Il moto degli alieni s’interruppe subito. Appena fu chiaro a tutti che Raul poteva gettare la clessidra nel forno da un momento all’altro. <<Dov’è finita la vostra arroganza? La vostra prepotenza? Spero di poter vedere che cosa farete tra qualche istante, quando sarete consapevoli che il nostro mondo diventerà la vostra gabbia!>> Le creature si catapultarono verso di lui. Ma nulla fu possibile. Raul si gettò nella fornace, tra le braccia la clessidra e sul viso il sorriso del vincitore. Urla disarticolate, strazianti, di dolore, si alzarono e echeggiarono nei cieli per giorni e giorni. L’uomo si era estinto. L’ultimo essere vivente si era annientato da solo. Non avrebbe avuto possibilità di vivere e aveva preferito non dare a uno di loro la soddisfazione di straziare le sue carni. La terra aveva improvvisamente cambiato i propri abitanti. Diventando una prigione per quelle creature che per continuare a vivere avevano bisogno di cose che sul pianeta terra non c’erano… In fondo il mondo non era loro, non lo era mai stato… E mai lo sarebbe stato! Presto la terra sarebbe rimasta vuota… e forse, un Dio, se davvero c’era, avrebbe provveduto a ripopolarla!


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Ringraziamenti

Questo libro è nato grazie all’aiuto di poche ma importantissime persone. Grazie al sostegno di mia madre, che non ha mai smesso di incoraggiarmi e ha sempre creduto in me. Grazie a mio padre, che mi ha permesso di scrivere su un computer portatile, regalandomi un piccolo sogno, mi scrisse “Spero che questo regalo possa aiutarti ad alimentare la tua passione” l’ha fatto. Quando la bozza del libro era pronta, circa due anni fa, spronai mio padre a leggerla, ma lui intransigente rispose, “Lo leggo solo quando te lo pubblicano”. Beh… papà, il libro è stato pubblicato. Spero tu possa vedere tutto questo, ovunque tu sia. Grazie all’incoraggiamento della mia sorellina Elisa, entusiasta subito dopo aver letto la bozza. E grazie a Francesca, che con la sua presenza ha sempre reso i miei giorni più lieti. Ma soprattutto grazie alla 0111 Edizioni che ha creduto in me. Contemporaneamente a questa casa editrice mi ha contattato anche un altro editore. Sono stato dei giorni a pensare e ripensare quale potesse essere la strada giusta e alla fine ho scelto voi. In fondo ci siamo scelti a vicenda. Grazie a tutti quelli che leggeranno la mia opera. Un ultimo saluto al mio papà, che è andato via in un battito d’ali, papà, quel battito d’ali è stato devastante, ma se io ci sono, e c’è tutto questo è grazie a te, 25 anni con te valgono una vita intera! Grazie!



UN AIUTO A COLPI DI PENNA &

IL CLUB DEI LETTORI Grazie! TI RINGRAZIAMO PER AVERE ACQUISTATO QUESTO LIBRO, con il quale hai contribuito ad aumentare il fondo di “UN AIUTO A COLPI DI PENNA”, che a fine anno sarà devoluto a scopo benefico a favore di ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUS terapia ricreativa per bambini con patologie gravi e croniche (www.dynamocamp.org) Vota! INOLTRE, SE VOTERAI ONLINE QUESTO LIBRO parteciperai gratuitamente al concorso IL CLUB DEI LETTORI (www.clubdeilettori.serviziculturali.org) Soddisfatto o “Sostituito” Se la lettura di questo libro non ti avrà soddisfatto, potrai sostituirlo con un altro libro che potrai scegliere dal nostro vastissimo catalogo. (informazioni su www.ilclubdeilettori.com)

Le iniziative sono promosse da: => Zerounoundici Edizioni (www.0111edizioni.com) => ASSOCIAZIONE SERVIZI CULTURALI, che promuove la letteratura italiana emergente ed esordiente (www.serviziculturali.org)



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