La grazia del Fato

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"LA GRAZIA DEL FATO" di Barbara Risoli

Titolo: La grazia del Fato Autore: Barbara Risoli Genere: Fantasy Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Gli Inediti Pagine: 264 Prezzo: 15,00 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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BARBARA RISOLI

LA GRAZIA DEL FATO

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LA GRAZIA DEL FATO 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2009 Barbara Risoli ISBN 978-88-6307-189-4 In copertina: Immagine di Roberta Boscolo Mela

Finito di stampare nel mese di Aprile 2009 da Meloprint – Il Melograno Cassina Nuova di Bollate (MI)


Dedicato a chi continua a leggermi



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Capitolo I LA REGINA DI ASTOS

“Un dio mi ha reso favorito perché potessi conoscere la storia dell’errore che Cronos commise, infrangendo le regole divine dell’Olimpo, governato da suo figlio Zeus. Spodestato ed esiliato, giunse nella lontana Enotria senza pace e con il desiderio di vendetta nel cuore. Solo vagava in quella landa straniera, meditando funesto. Egli era il signore dell’oro e del tempo, le mura del quale erano auree e situate oltre la terra ed il cielo. Implacabile le abbatté facilmente e percorse le vie proibite del passato e del futuro. Ivi incontrò la sua vittima e, trascinatala laddove gli dei sono padroni, l’abbandonò al suo destino che il Fato inconfutabile dispose. Sopraffatto da questo volere, Zeus tonante fece forgiare da Efesto nuove mura perché fossero di raro ferro, indistruttibili per mortali ed immortali. Niente della vittima dell’errore di Cronos è dato a sapere, ma è cosa certa che è mortale e che non potrà superare i limiti temporali ai quali noi tutti dobbiamo sottostare” Così aveva parlato Omero e da quella sera erano passati cinque anni. Così aveva parlato Omero… L’estate del ritorno di Zaira era torrida, le temperature erano proibitive anche per il re che, all’ombra dei salici immobili, alzò lo sguardo verso il cielo terso senza sperare nell’arrivo della pioggia. Aprì la mano e osservò il gioiello che aveva portato con sé: una collana d’argento e zaffiri. Volse gli occhi verso la stanza dove, annientata dalla canicola, Zaira stava riposando. Erano passati solo due mesi dal giorno del suo ritorno dal futuro e erano stati appassionati, capaci di far credere ai prodigi del Fato. Aveva continuato ad amarla con l’intensità dell’uomo che era sempre stato, che lei aveva stanato dai meandri scuri di un’esistenza sanguinaria. Era un uomo e, pensandoci, non rammentava d’essere vissuto tra i lupi, non lo aveva mai ricordato pur accettandolo senza domande e senza risposte. Amava Zaira nonostante un modo d’essere ostinatamente lucido e poi imprevedibilmente senza senso, contrario a se stesso anche se preciso e lineare. Sarebbe stato riduttivo dire solo che era bellissima per giustificare l’attrazione che lo legava a lei. Si chiedeva cosa di sé aveva fatto innamorare quella giovane straniera di un altro tempo, facendole dire addio al suo mondo del quale era fiera nel rim-


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pianto di un sorriso o di un silenzio. Lui se ne accorgeva sempre, ma taceva nel timore di incontrare un pentimento che non avrebbe retto. Si rinfrescò il volto con l’acqua della fontana nera di Artemide. Un movimento nel giardino attirò la sua attenzione e colse una tensione nella staticità scandita dal frinire delle cicale. Mosse gli occhi sulle lunghe fronde dei salici che sfioravano il terreno. Rimase immobile. Poi si alzò. Attese. Uno scintillio balenò nel suo sguardo scuro e un brivido segreto gli trafisse il cuore. Sorrise capzioso. L’intrusa, perché di questo si trattava, avanzò di un passo con un certo ardimento, ma il corrucciarsi dell’uomo la congelò. - Schià di Delfi - disse roco fissandola. Lei si imbarazzò, sembrò una preda per l’ingenua fiducia che gli riservò. Si appoggiò su un ginocchio in segno di rispetto. Il sovrano continuò ad osservarla altero. - Vi saluto, Dunamis di Astos. Il mio viaggio mi ha portato a voi ed alla vostra gloria – Non aveva mai dimenticato quella voce. Non replicò e la indusse a guardarlo. - Quale viaggio? – ringhiò e lei deglutì. Per chi viveva a Delfi, e il sovrano sapeva del suo ritorno a casa, non si poteva parlare di viaggio giungere ad Astos, distante mezza giornata con un buon cavallo al galoppo. - Non siete cambiato – aggiunse Schià timidamente. - Sono sempre bellissimo? – fu insinuante nel ricordo del loro primo incontro sull’Olimpo. Allora gli aveva fatto conoscere il disagio e la sensazione di trovarsi al centro di un’attenzione che non era quella di un guerriero, bensì di un uomo inutilmente bello. La fece arrossire, mentre frenetica annuì e abbassò le spalle, le guance in fiamme e un tremore a renderla tenera. Dunamis sogghignò divertito. Lei inaspettata lo raggiunse e gli afferrò le mani. Quel tocco lo turbò, repentino si ritrasse per ristabilire le distanze. - Hai violato il regno caro ad Artemide virtuosa – la redarguì. Schià rimase attonita e cozzò contro la sua vera natura. Lo aveva conosciuto accigliato, innamorato, generoso e poi… addolorato, sconfitto, inerme e infine perduto. Per lei era sempre stato un uomo, bellissimo, certo, ma anche vittima dei sentimenti. Si chiese se aveva fatto bene a volerlo incontrare come fosse stato un vecchio amico. - Perché sei qui? – la svegliò dalle sue riflessioni. - Zaira è tornata - farfugliò, il capo basso. - Zaira - sospirò e lei lo guardò di sottecchi. Era pallida e la sua paura entrò nel sangue del re che la trovò appagante.


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- Zaira sarà felice di avere un’ancella – la condannò all’istante ad essere una serva. Schià alzò il mento, serrò la bocca e lo fissò. Lui inarcò un sopraciglio in segno di sfida. - Credevo fossimo amici – osò e il figlio del lupo si avvicinò a lei che non si mosse. - Dunamis di Astos non ha amici – disse. Schià non batté ciglio. - Comincio a capirne il motivo – sibilò. - Sempre che tu non preferisca… - diede il passo al proprio innato sadismo.. - Ditemi dove si trova la mia padrona ed io adempirò il mio dovere. Sono una vostra serva – non gli diede spazio. - Giusto, una mia serva – approvò disgustandola. La ragazzina si diresse verso il palazzo, mentre lui la osservò scomparire in cima alla scalinata. Rammentò Flogos di Cittera, il suo compagno, e provò un senso d’irrimediabilità, una sorta di premonizione. Schià aveva accettato la sua decisione senza obiettare, affrettandosi ad entrare nel palazzo. Trovò divertente che quella bambina pensasse di poterlo gabbare. Un sorriso gli screziò le labbra. Ascoltò ancora il silenzio della canicola estiva, strinse lo sguardo, dischiudendo la mano che svelò ancora il gioiello d’argento e zaffiri. Il tramonto svegliò Zaira che era solita dormire di giorno, annientata dal caldo, per vivere di notte con il refrigerio, seppur lieve, del buio. Scese dal letto e immerse la faccia nella bacinella piena d’acqua, poi sbuffò contrariata: tiepida! Tutto era tiepido! Si bagnò anche i capelli. Percepì dell’acqua fresca scivolarle dal capo sino al viso. Sobbalzò, si asciugò gli occhi e si voltò. Rimase immobile, il fiato sospeso. - Schià? – e l’amica di un tempo le sorrise. - Schià di Delfi? – aggiunse. Prudente le sfiorò le braccia. - Per servirti, straniera – le rispose plateale. Zaira era emozionata e si sorprese a tremare. - Dove sei stata? Come stai? E dov’è Flogos? – chiese frenetica, guardandosi intorno, certa di poter vedere anche il suo truce compagno. Lei fece spallucce. - Oh! Lui ci raggiungerà presto! Quando ho sentito dire che la figlia di Cronos era tornata ad Astos, ho compreso che ad essere tornata era stata Zaira d’Enotria – rispose alle domande con leggerezza. Zaira sorrise infastidita: figlia di Cronos era un altro epiteto che le era toccato tra gli Achei e che non le piaceva. Sorvolò e l’abbracciò, ricordando l’amicizia che le aveva unite. - Non mi sono mai sbagliata – disse Schià, riferendosi all’amore ed alle proprie romantiche convinzioni. Lei annuì e le strinse le mani. - Quanto resterai? – volle sapere, già pensava ad una festa per lei.


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- Per sempre – rispose e l’altra la interrogò tacita. - Come il sovrano di Astos ha disposto – aggiunse enigmatica. - Dunamis? – sottolineò l’amica. Qualcosa stonava. Conosceva troppo bene il re. - Dunamis di Astos – confermò Schià ironica. - Sono la tua ancella – rivelò e volteggiò come una farfalla, lasciandosi avvolgere dal peplo consunto. - Una serva? – sussurrò la figlia del futuro. - Dunamis di Astos non ha amici, solo servi – spalancò le braccia in una commedia divertente e rise, poi osservò la stanza lussuosa con le tende di velo che ondeggiavano davanti alla porta della terrazza. - Qualcosa mi sfugge - la sua contemplazione del posto fu interrotta. - Ci sono molti modi per dire le stesse cose e Dunamis sceglie sempre quello meno diplomatico - rispose davanti allo specchio d’oro e si osservò delusa dalla propria immagine. - Io non voglio che tu sia la mia ancella – lamentò Zaira. - Lo conosco, sono certa che sia realmente l’uomo che ho incontrato sull’Olimpo e che ho consolato, quando te ne sei andata - disse Schià e cercò di stendere la stoffa stropicciata dell’abito, continuando a guardarsi nello specchio. - Ma ama la sua posizione e non è disposto ad accettare nulla che possa metterla in discussione – smise di armeggiare, l’abito era quello che era, uno straccio. Sbuffò, sembrava pensare ad altro. - Questo non gli dà il diritto di… - ringhiò l’amica con una sottile rabbia. Schià ridacchiò e si versò dell’acqua in una coppa d’argento. - Dunamis ha tutti i diritti, è un re – asserì ovvia. Zaira dissentì. - Ma non riuscirà mai ad ingannarmi – sentenziò la ragazzina. - Ho visto lacrime amare spegnere la fiamma dei suoi occhi, ho ascoltato il battito impazzito del suo cuore, quando la disperazione ha fatto tremare la sua voce. Ho visto la sua sconfitta, l’ho potuta sfiorare e ne ho percepito il sapore amaro, il taglio spietato. Quando ti ha perduta è morto, l’ho lasciato con le mani nel fango del lago Acherusia, la schiena curva, il respiro quasi assente… e non ho mai dimenticato la sua angoscia. Che appaia dunque come ama apparire, che continui a sfoggiare quel suo volto bestiale, che ringhi e ululi pure… io lo ascolterò, ma non crederò mai ad una sola delle sue dure parole – dichiarò caparbia come sempre. Poi sorrise dissetata dalla bevanda. - Il Fato ha in serbo per lui molto più che il ritorno della piccola Schià - disse ancora e Zaira ebbe un moto d’insofferenza. - Non sei cambiata – le recriminò. - E non lo farò ora che ho ottenuto ciò che volevo – ribattè.


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- Essere una serva? – si dimostrò offesa dal gesto del re, perché era sicura che lo aveva fatto di proposito. - Essere ad Astos, accanto a te – la corresse Schià. - Dov’è Zaira? – chiese Dunamis al consigliere. Atir non rispose, si guardò intorno preoccupato, strano che non si fosse ancora presentata per la cena. Il sovrano mangiò da solo, in silenzio, pensando a Schià e alla sua voce. Era certo di avere fatto la cosa giusta, di avere preservato la propria autorità. Raggiunse la terrazza per osservare il buio e respirare l’aria fresca della notte. Una brezza proveniva dal mare. Inspirò profondamente, sorseggiò del vino. Percepì nell’aria un parlottare frenetico e tese l’orecchio. Un mormorio proveniva dalla distante finestra della stanza di Zaira e, concentrandosi, riuscì a capire che si trovava ancora con l’amica. Ritrovarsi aveva significato molto per entrambe e si sentì soddisfatto. Ricordò, contro la propria volontà, il giorno in cui la straniera aveva lasciato quel tempo a cavallo di Argurion e lui era caduto in ginocchio con la sconfitta a fermargli il cuore. Ricordò il dolore, la sensazione di perdita e poi… l’abbraccio di Schià, la sua comprensione, la sua consolazione. Ricordò, continuando a non volerlo, il suo sguardo, il calore delle sue braccia che neppure erano riuscite ad avvolgerlo tutto, le sue parole, l’invito a non cedere neppure davanti all’irrimediabilità delle cose. Sospirò esausto. Stava lottando con se stesso. Il silenzio delle due ragazze lo distrasse dal proprio rimuginare, tese ancora l’orecchio. Niente. Bevve ancora, sino a vuotare la coppa. Appoggiò le mani sulla balaustra e chiuse gli occhi in cerca di calma. Il mantello nero sulle spalle lo faceva somigliare ad un animale della notte e la sua altezza lo rendeva sontuoso nell’aspetto. - Ne avete fatto una serva – lo sorprese Zaira. Si voltò, incontrandone subito lo sguardo fermo. Si era illuso di farle cosa gradita con l’espediente che era riuscito a trovare; aveva creduto di beffarla senza conseguenze e aveva sperato d’essere pure ringraziato. O forse no, forse aveva saputo sin dall’inizio che quel gesto non le sarebbe affatto piaciuto. - Suppongo tu abbia fame – ignorò la sua irritazione. - Non c’era motivo di umiliarla, non lo meritava – fu decisa, ma un’occhiata di Dunamis la fece sentire piccola. - Ogni cosa che io faccio ha un motivo, Zaira – le sbatté in faccia. Si fissarono. - Non questa volta – sussurrò. Conosceva Dunamis, le sue reazioni e ora, con il proprio disappunto, lo stava mettendo sulle difensive. - Questo lascialo decidere a me – fu irremovibile. Zaira ponderò i propri gesti e misurò le parole che avrebbe detto.


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- Non siete felice d’averla rivista – si lamentò e lui ebbe un moto di divertimento. - Non lo sono – sbottò e non smise di guardarla. Bloccò l’intenzione che coglieva in lei di difendere ancora una volta gli oppressi, le impedì di mettersi contro l’autorità alla quale non era disposto a rinunciare. Poi sorrise oscuro. Zaira corrucciò le sopraciglia. - Una regina deve avere un’ancella e Schià è la persona migliore – aggiunse con naturalezza, sottile come un ago nello scandire le parole, perché lei potesse comprendere. Non fu così e un’ombra le attraversò lo sguardo. - Io non sono una regina – fu secca, come se solo allora la cosa avesse assunto importanza. Dunamis rise e si avvicinò. - Sembra pesarti – le sussurrò. Il fiato dell’uomo la scaldò come sempre, rendendola fragile. Scosse il capo in una falsa negazione e nel farlo non gli impedì di avvolgerla in un abbraccio improvviso. - Sai bene d’essere la regina di questo regno, d’esserla stata dal momento in cui sei entrata ad Astos. Sei l’unica donna che io posso amare e nessuno potrà mai sostituirti sul trono d’argento che ho fatto disporre accanto al mio. L’hai sempre saputo e questa sera non è di Schià che voglio discorrere - continuò suadente come sapeva diventare nei momenti che precedevano la loro passione. Zaira tremò, perché ancora tremava accanto a lui. - Questa sera è tua – Si lasciò baciare, perché desiderava che accadesse, voleva un sollievo che il re era capace di darle, quando i pensieri cavalcavano nella sua mente, succedeva spesso dal giorno in cui aveva abbandonato il proprio mondo. Chiuse gli occhi. Uno scatto alla nuca la fece trasalire. Si portò la mano al collo e si accorse del dono del re. Lo guardò e lo interrogò con un cenno del capo. Deglutì. - Se era questo che ti mancava, ora sei la regina del mio regno. Astos ti appartiene e ciò che verrà dopo sarà solo formalità – sentenziò. Quelle parole echeggiarono disarmanti in Zaira, lodevole espediente capace di placare il dissenso per l’ingiustizia nei confronti di Schià, furbo tentativo di distrarla e zittirla… ma zitta non voleva stare. Si riprese e sorrise sottile. - Un colpo da maestro - commentò, fingendo superiorità, il cuore impazzito, l’incredulità a farla sentire intimamente sciocca. Si fissarono, quasi si sfidarono assurdi eppure simili. - So fare di meglio – la fece arrossire. Sfiorò la cicatrice che le segnava la gola, marchio ancora visibile della sua furia sul Parnaso, quando aveva voluto ferirla lentamente. Alzò un sopraciglio ironico, la superò per versare del vino in due coppe e le offrì un brindisi. Zaira lo scrutò. Avrebbe voluto abbracciarlo sino a fargli male, ma non lo fece, toccò il gioiello come se potes-


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se dissolversi. Accennò un sorrisetto di circostanza senza dargli la soddisfazione che stava aspettando. Dunamis incassò e si avvicinò nuovamente a lei che fece un passo a ritroso. - Ancora ti spavento, Zaira? – le chiese senza inflessione. Non rispose e lui non andò oltre, limitandosi a lasciare le coppe sulla balaustra per andarsene. La lasciò sola con la tempesta che sapeva di averle scatenato dentro, con la convinzione di averla fermata dall’intenzione di difendere la dignità offesa della sua amica, ma specialmente… con la certezza di rivederla da lì a pochi minuti. La falce della luna tagliava l’oscurità davanti allo sguardo pensieroso di Zaira. Era confusa, esattamente come Dunamis aveva voluto. Bastava così poco per piegarla. Adesso era la sua sposa, la era diventata in un attimo, senza preavviso, senza potersi preparare, piuttosto in un momento in cui avrebbe voluto gridargli in faccia che era un animale. Ah! Tutto inutile, la suadenza del re di Astos non le concedeva spazi, a volte sapeva affrontarlo, calmarlo, leggerlo come un libro aperto, ma alla fine si rendeva conto di non avere difese contro di lui. Così il torto subito da Schià era passato in secondo piano, mentre quella notte Astos aveva assistito all’investitura della sua regina. Un suono familiare la distrasse e si guardò intorno. Inaspettatamente lo vide che, seduto in terra, sfiorava la cetra divina con il plettro di diamante donatogli dagli immortali. - Omero - sussurrò, mentre una melodia arcaica si diffondeva nell’aria. Lo osservò e si commosse nel rivederlo dopo tanto tempo. Lo aveva sempre considerato qualcosa di più che un semplice menestrello dell’antichità; Omero per lei era persino magico, erano gli dei a guidare le sue dita. - Zaira, sapevo che un giorno ti avrei rivista – la salutò, cogliendola impreparata. Non riusciva a capire come faceva, essendo cieco, a sentirla. Era sempre stato così. - Io invece mai ho creduto di poterti incontrare ancora – rispose. - Sempre pessimista, mia giovane amica, e pronta al peggio, ma in ogni caso destinata al meglio – si prese gioco di lei che fece spallucce. - Di tempo ne è passato, ho udito il vento della Fama parlare delle tue gesta e so che hai conosciuto la sofferenza ed il sacrificio, hai versato lacrime amare ed hai creduto di avere perduto tutto. Astos avrà una regina saggia e giusta, perché tu sai dove inizia il possibile e quale confine ha l’impossibile – esagerò l’aedo. - Regina di Astos - sottolineò. Omero sussultò. - Sei qui per questo, straniera – le fece notare e lei sorrise amaramente.


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- Per questo? – sospirò. Il vecchio cessò di suonare, la cercò nel buio e le appoggiò una mano sul braccio. - Sei qui per il regno caro alla virtuosa Artemide ed Astos appartiene a Dunamis - continuò. Lei non si ritrasse. Lo avrebbe ascoltato come aveva sempre fatto. - La sua natura è quella di un animale, l’indole quella di un capobranco, l’orgoglio quello di un condottiero – continuò il cantore. Zaira sbuffò. La storia del figlio del lupo stava diventando un’ossessione e fingere di crederci iniziava a mortificarla. - Gli dei benevoli, ai quali lui è devoto, gli hanno concesso la possibilità d’essere uomo, ma il ringhio del suo respiro è ancora quello di una bestia. Il Fato lo ha posto nuovamente su un trono che gli fa credere di poter ancora bere il sangue dei suoi nemici, di poter ancora governare le altrui esistenze nell’ingiustizia della sua giustizia – fu duro nel giudizio che volle dare del sovrano, la straniera se ne dispiacque. - Non capisco – obiettò. Omero sorrise. - Dunamis ha paura – rivelò e questa volta fu lei a sorridere. - Dunamis non conosce la paura – lo contraddisse veloce. - Guarda oltre, fallo sempre. Oggi sei divenuta regina, l’investitura che ti ha dato è servita ad ottenebrare la tua mente, ma la paura lo scuote e lo disturba – insistette così convinto da… essere convincente. - Ottenebrarmi la mente? – storse il naso. - Si sta difendendo con tutta la forza che possiede e tu sai che è forte oltre i limiti dell’umano. Si sta facendo male. Percepisce il giungere di profondi cambiamenti – affermò in un fiato. Il silenzio della ragazza parve preoccuparlo, ne cercò il volto con le mani raggrinzite. Le accarezzò la guancia cogliendo il suo discernimento, trovandolo tanto tenero quanto tragico. - Mi stai spaventando e non ne comprendo il motivo – quasi piagnucolò dopo essersi alzata e sentendosi triste, come se l’idea che il re potesse conoscere il sentore della paura avesse fatto crollare un mito. - No, mia regina, le mie parole non vogliono intimorirti, vogliono solo avvertirti perché, se è vero che Dunamis sta comprendendo il significato d’essere uomo, tu dovrai dimostrare d’essere una donna – peggiorò la situazione, ma Zaira gettò la spugna, non cercò di capire sino in fondo, sapeva che Omero era saggio e che le sue parole, chiare od oscure che fossero, avevano sempre un senso. Amava la tenebra, il torbido. Era sempre stato così, ne aveva fatto avvolgenti mantelli, eccezionali scudi, armi segrete e taglienti. Amava la notte, perdersi nel silenzio fosco e cupo per immergersi nel buio ove gli era più facile


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muoversi come un’ombra. Amava anche il mare, quando era atro, profondo ed arcano, roco nel lieve mormorio che era la risacca sulla spiaggia pietrosa. Su quei sassi si era innamorato di lei e aveva suggellato il loro amore dopo averla fatta piangere. Seduto su quegli stessi sassi pensava a tutto questo con un fremito a tenerlo lontano da lei e dalla freddezza che gli aveva riservato. Al volto di Zaira si accavallava quello di Schià, uno spettro del passato che avrebbe voluto dimenticare. Invece ricordò tutti: Flogos, sicuramente vicino; Alopex, il suo amico di ventura; Aimatos e il suo respiro sul collo con la libertà che gli aveva concesso. Con lui ci sarebbe stata anche Fos, la principessa decaduta di Parga, colei che gli aveva svelato il segreto della sorella Sirta. Ora si chiedeva cosa ne sarebbe stato di sé, della grandezza e del potere di cui aveva sempre avuto bisogno per sopravvivere a se stesso e all’oscurità che dilagava nel suo animo. Sospirò e appoggiò il capo sulle ginocchia flesse. Colse alle spalle la presenza silenziosa di Zaira che lo aveva raggiunto, certa di trovarlo laddove tutto era iniziato. Sorrise ma non si mosse. - Abbiamo smaltito la rabbia che il tuo uomo crudele ha saputo infonderti, mia giovane sposa? – chiese odioso, molto simile ai giorni in cui lo aveva conosciuto, pronto ad attaccare per non essere attaccato. - Perché siete qui? – non tergiversò. - Guardo il buio di cui sono figlio – Si sedette accanto a lui che non ebbe reazioni. Lo scorse nella tenebra e percorse il suo profilo, si soffermò sulla bocca serrata e sullo scintillio degli occhi. - Vostro padre è un lupo – riuscì a ritrovare la propria vena ironica e quella sottile furbizia che le faceva toccare i punti giusti. In effetti, il re ebbe un moto d’orgoglio che tuttavia non si manifestò più di tanto. Sogghignò al tentativo della ragazza e volse lo sguardo a lei che, abituatasi all’oscurità, lo vide bene e sentì un sobbalzo nel petto. La bellezza di Dunamis aveva radici contorte e profonde, ancorate all’animo feroce eppure fiero che lo caratterizzava. - E tu, Zaira? – la svegliò da un momentaneo smarrimento. Non gli rispose. - Perché sei qui? – continuò e sorrise. Lei s’irrigidì. Si sentiva strana. Aveva dentro un marasma di sensazioni discordanti: l’offesa a Schià, l’investitura a regina, le parole di Omero e se stessa, con la rabbia e l’incapacità di affrontare subito i problemi, di rimandarli, di sfuggirli per poi ritrovarseli addosso tutti insieme. Fece per andarsene priva di una risposta che non attentasse al proprio orgoglio. Ma il sovrano non lasciò che si alzasse, l’avvolse senza fretta, le diede il tempo di evitarlo, certo che non gli sarebbe sfuggita, divertito dall’assoluta supremazia che esercitava sul suo cuore. Forse le loro idee


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a volte non concordavano pienamente, ma al cuore la sapeva sempre centrare, i suoi colpi gli avevano permesso d’averla e la passione che lei sapeva scatenare in lui gli avrebbe impedito di perderla. - Di cosa avete paura? – tentò di fulminarlo. Ciò che ottenne fu solo un rantolo d’ilarità. Eppure Omero era stato chiaro. - Non c’è nulla che mi spaventa, Zaira, checché ne dica il tuo caro amico cantore – la meravigliò. Forse aveva ascoltato la loro conversazione nella sala da pranzo. - O forse sei tu che hai paura di me? – le sussurrò con il fiato caldo a sfiorarle il collo. Scosse il capo, ma il re le fermò la testa con le mani, impadronendosi, senza troppi preamboli, della bocca pronta a parlare. Non voleva sentire parole atte a scavarlo, a carpirgli confessioni inconfessabili, a conoscerlo sino in fondo senza che lui volesse farsi conoscere. La baciò insistentemente e cadde su di lei nel buio e nel tepore della spiaggia, il mare come colonna sonora, la lieve luce del quarto di luna. - Ma no, Zaira d’Enotria non teme nulla, non teme il passato che torna, non teme il figlio del lupo e forse non teme neppure il peso di un regno caro ad un dio – continuò tra il serio ed il faceto, intenzionato a renderla vulnerabile e quindi completamente sotto il suo controllo. - Non sono tornata per il vostro regno – blaterò, ma qualunque cosa dicesse non faceva che divertirlo e si sentì ancora più fragile, finendo nel suo tranello senza neppure combattere. Ma combattere cosa? Tra le sue braccia tutto perdeva d’importanza, ogni pensiero e logica crollavano davanti al fuoco del sovrano di Astos. Era sempre stato così, non le era possibile resistergli. - Te lo dico io perché sei qui – e nella tenebra si scottò con il rossore che certamente aveva infiammato le sue gote. Non incontrò alcuna reticenza, non colse nelle sue movenze alcuna opposizione, non percepì neppure un barlume di contrarietà nella sua regina che abbandonò ogni tensione e si lasciò andare in una languida mollezza delle membra. Entrambi rammentarono il giorno in cui si erano amati sull’Olimpo nell’incanto di un luogo divino, nella concessione degli dei che forse avevano fermato il tempo, regalando loro un‘emozione che nessun mortale avrebbe mai provato. - Non so perdonarvi – si ribellò senza enfasi, ferita da un altro singulto di divertimento dell’uomo eppure determinata a chiarire uno screzio capace di rovinare la gioia che le dava la sua vicinanza. Si riferiva a Schià e non servì specificarlo. - Lo hai già fatto – non raccolse la polemica. - E’ più forte di me - confessò, ma non cercò di allontanarsi.


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- Ho fatto di te la mia sposa, ti ho donato il mio regno e nel tuo sguardo ci sono solo dubbi. Non è un buon modo per ringraziarmi, Zaira d’Enotria – la riprese bonario, distante dall’uomo astioso di poco prima. - Lo avete fatto per confondermi – lo accusò debolmente e Dunamis non trattenne una risata. - Confonderti mettendo a rischio ciò che mi è più caro? Si, sei confusa, ma non a causa mia! – la prese in giro. - Allora perché adesso? Perché non prima e perché non dopo? – s’intestardì. - Domande inutili in un momento che non tornerà mai più - le fece notare. La sua voce aveva l’inconfondibile tono del desiderio, il respiro leggermente accelerato. Intimamente Zaira gli diede ragione ed i loro occhi s’incontrarono nel piccolo bagliore che Selene, sempre benevola, creò per loro. - Le pietre di questa spiaggia non dovrebbero essere il letto nuziale di una regina - le disse dopo un po’ e la figlia del futuro sorrise avvolta dal suo abbraccio. - Ma io non sono una regina come le altre, giusto? – scherzò. La risposta fu un altro bacio. Il lento scivolare della spallina del peplo le diede un brivido. - Giusto – le sussurrò all’orecchio e lei tremò. Chiuse gli occhi, pronta a percorrere un sentiero che con il sovrano non era mai stato uguale al precedente. Chiuse gli occhi con la felicità a soffocarla senza ribellioni. Chiuse gli occhi, ma Dunamis si fermò. Qualcosa lo distrasse. Si appoggiò sulle mani e guardò la rocca che s’illuminava. Ascoltò il fragore e un vociare concitati. Si alzò di scatto aiutando la regina a fare lo stesso. - Un attacco ad Astos – disse. - Cosa vi fa credere che si tratti di un attacco e poi un attacco di chi? – si liberò della sua presa. - Quello è il segnale del mio esercito e so chi c’è davanti alle mura del mio regno! – le urlò in faccia. Le afferrò il polso per trascinarla con sé attraverso la buia mulattiera, nel giardino di salici e poi all’interno del palazzo dove si fermarono. - Raggiungi Schià nella tua stanza e restaci – le ordinò, ma sapeva che non avrebbe obbedito. - E voi che farete? – chiese spenta in un attimo, catapultata in un’altra realtà. Dunamis non rispose e la lasciò sola, dirigendosi verso l’arena. Non c’era tempo, da quel momento in poi non ce ne sarebbe più stato, da re lo sapeva, da uomo sperava il contrario. Zaira raggiunse la torre più alta. All'esterno il buio era totale. Una brezza sfiorava la piazzola. Assottigliò lo sguardo. Poi fissò il cielo di un nero inso-


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lito, come se la luna fosse stata cancellata ma non c’erano nuvole. Comprese. - Nyx – sospirò consapevole del destino che si stava compiendo. Il rumoreggiare di ferraglia, di cavalli in corsa e lo strepitio dell'esercito di Astos in allarme erano sinistri. Sospettò che le Amazzoni fossero lì anche per lei... o forse solo per lei! La Fama era veloce, attraverso il vento portava le notizie e le cose erano andate così anche per il suo ritorno. - Dunque non hai perdonato il mio inganno, potente dea della notte? - ansimò. Era intimorita. La signora della tenebra non c'era ad ascoltarla, si trovava tra le donne guerriere che stavano attaccando Astos. Dunamis, al centro dell’arena, impartiva gli ordini. Non avrebbe permesso a una sola amazzone di penetrare nel regno. Zaira si precipitò giù dalle scale e lo raggiunse che già indossava l'armatura argentea da combattimento. Rimase ad osservarlo, pensando che presto avrebbe guidato gli uomini in testa al suo esercito potente e invincibile. Si augurò che davvero l’esercito di Astos fosse potente e invincibile. - Il mio cavallo! - esclamò il re. Un servo portò un inquieto stallone nero, una bella bestia. Era… Zingaro, famoso e ambito per la velocità simile a quella del vento. Strinse gli occhi, certa di non sbagliarsi, anche se Zingaro era andato incontro alla morte nei vortici del fiume Sperchius. Anche Dunamis ebbe un attimo di titubanza. - Quella bestiaccia è indomabile! Impossibile venderla perché nessuno è riuscito a montarla! – urlò qualcuno. La regina riconobbe Autolico al proprio fianco, ospite clandestino della rocca. Lo scrutò. Quale sotterfugio si era inventato per eludere la sorveglianza? Lo trovò divertente e affascinante nonostante l'età che per quell'uomo, un eterno ragazzino furbo e guardingo, non aveva importanza. Incontrò i suoi occhi profondi, contornati dalle rughe dei suoi anni e sottolineati dal grigio dei lunghi capelli scompigliati. Pareva un pezzente, lo era... era un ladro, il più grande, più di Sisifo, un altro gaglioffo di quei tempi. - Cosa fai qui? - chiese prudente e segretamente contenta di rivederlo. Il vecchio ebbe un sorriso scanzonato. - Ho lasciato il Parnaso per portare il dono di nozze al figlio del lupo e sono venuto a salutarti, Zaira d'Enotria! Siamo o non siamo amici, io e te? - rispose ilare. Lei indietreggiò di un passo. Era poco rassicurante il nonno di Odisseo! Dunamis gli fu alle spalle, inducendolo a voltarsi in un confronto diretto. - Ti sia gradito il mio prezioso dono, nobile sovrano di Astos – disse spavaldo Autolico, indifferente alle regole da seguire al cospetto di un re. Il figlio


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del lupo gli appoggiò una mano sulla spalla magra e lo spinse verso il basso, costringendolo in ginocchio. - Prostrati davanti al sovrano ed alla sua regina e ringrazia gli dei d’essere ancora vivo dopo che i miei occhi ti hanno scorto entro le mura del regno caro ad Artemide, pezzente! – lo offese e lo sovrastò. Il brigante sorrise senza abbassare il capo. - Non è degno di te ringraziarmi così – lo provocò. - Quel cavallo mi è sempre appartenuto, lo hai rubato ed hai tentato di venderlo – non abboccò alla sua suadenza. - L'ho salvato dalle acque dello Sperchius, non l'ho rubato – si difese. Il signore della rocca aggrottò le sopracciglia e fece un cenno alle guardie poco distanti. L'ospite tentennò. - Se sei qui non è certo per rendermi cosa gradita – concluse e il furfante fu preso a braccia. Si ribellò senza convinzione. Zaira pensò che la prigione era inutile e che sarebbe stata un gioco da ragazzi per lui fuggire. Per un’assurda simpatia che gli riservava non lo disse. - Faresti meglio ad imparare a leggere i segni del Fato, Dunamis! Io sono ad Astos per suo volere! Sappi che Tolma vuole te e Zaira nel suo regno per consumare la sua vendetta – esclamò trascinato via a forza. Dunamis lo osservò scomparire oltre il portale che conduceva alle celle. - I segni del Fato - colse sospettoso. - Pensate che la sua presenza abbia un significato? – lo interrogò Zaira, accostandosi a lui che la scrutò dall’elmo crinito. - Tu lo conosci. Autolico non rischia mai la vita per nulla. Se è qui deve esserci un motivo importante – sbottò contrariato dalla sensazione di non avere tutto sotto controllo e dalla mancanza di tempo per poter valutare le cose. Zaira fu d’accordo con lui. Conosceva Autolico molto bene. Se si trovava ad Astos doveva esserci un motivo e non si trattava di un regalo di nozze. Guardò il re montare a cavallo, alzare una mano per dare il via alla difesa del regno. Le grida di guerra delle donne di Tolma erano assordanti e sempre più vicine, gli arcieri le tenevano a bada, ma solo uno scontro frontale poteva rallentare l’avanzata. Avrebbe voluto fermarlo e si accorse solo in quel momento cosa significasse essere la sposa di un re. Pregò perché non morisse, perché non fosse scalfito dalla ferocia che stava dilagando fuori delle mura di Astos. Dicaia, il comandante del Contingente d'Avanguardia, guardò l'Arciere Bianco dritto sul cavallo candido. Non approvava gli scopi di Tolma, la loro sovrana, perché dettati dall'ossessione per Dunamis. La beffa di Zaira l'aveva provata, facendo vacillare la sua influenza sul popolo amazzone. La gelo-


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sia, perché di questo si trattava, l'aveva accecata e le aveva fatto accogliere una nuova straniera con la speranza che lei riuscisse dove l'altra aveva fallito. Quelle due formavano una coppia di donne amareggiate e quindi annebbiate nelle azioni. La regina voleva il figlio del lupo, reo d’averla sempre rifiutata. Il nuovo Arciere Bianco voleva la stessa vendetta per i medesimi motivi! Ma era possibile muovere una potenza come la loro per futili motivi? Era possibile mandare al macello centinaia di soldati per degli amori delusi? Perché a questo erano destinate in una guerra contro Dunamis di Astos, un re forte e protetto dagli dei cui era devoto! - Basterà incastrare uno dei due, mia regina, e l'altro cadrà nella nostra rete. Bisogna dividerli per costringerli a cercare l'unione – aveva detto la ragazza e la Sovrana Bianca aveva pregustato il successo. Che Dunamis fosse un uomo invincibile non era stato preso in considerazione! A Dicaia non piaceva tutto questo e... se solo ci fosse stata Ansal su quella giumenta, con quell'armatura! Se solo Ansal del Nord le avesse guidate... neppure avrebbe avuto inizio quel conflitto! - Il bastardo è uscito allo scoperto. Voglio un attacco del Contingente d'Avanguardia. Adesso! Il fattore sorpresa sarà determinante – disse il nuovo Arciere Bianco patetico nella parodia scadente del suo predecessore. Era un ordine. Dicaia diede il segnale che scatenò il putiferio in uno scontro rapido. Non ci fu sorpresa, una simile azione era del tutto prevedibile da parte di un guerriero che aveva sostenuto battaglie ben più difficili. Uno dopo l'altro i contingenti amazzoni si lanciarono verso i soldati del figlio del lupo. Lui non abbandonò la prima linea, mentre il comandante dell’Esercito Bianco rimase indietro con l'arco teso. Nella baraonda sanguinaria che venne a crearsi, Dunamis se ne accorse e si meravigliò, ricordando il coraggio e la lealtà di Ansal. Quella non era Ansal del Nord. Volse lo sguardo ai bastioni più alti della rocca: i tiratori scelti stavano facendo il loro dovere e le Amazzoni cadevano trafitte. Lui stesso fronteggiò più di una delle guerriere. Zingaro non si agitava troppo e era quindi difficile disarcionarlo. La sua rabbia divampò feroce: il sangue era evidente sulle uniformi candide delle avversarie, le loro grida e i lamenti delle agonie erano strazianti. Gli uomini accanto al re non si tirarono indietro nella lotta, ringhiando nella difesa del regno. Poi, a un nitido segnale, le avversarie retrocessero compatte, lasciando i nemici per un attimo perplessi. Albeggiava. La regola di combattere solo con le tenebre non era cambiata per il popolo di Nyx. Le truppe e i loro comandanti arretrarono guardinghi, mentre l'Arciere Bianco non si mosse. Il sovrano osservò quella donna, accorgendosi che aveva abbassato l'arco in cerca di un colloquio. Attese la prima mossa. La vide avanzare e arrestarsi nuovamente,


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abbastanza lontano per non correre alcun rischio e abbastanza vicino da farsi udire. - Ti stancherò con il mio assedio sino alla tua resa, Dunamis! - sentenziò, sancendo per lui la vergogna del cedimento in battaglia. L’uomo alzò un sopracciglio sotto l’elmo. Neppure le rispose e, in segno d’assoluto disprezzo, tornò verso la rocca, dandole le spalle. L'Arciere Bianco sorrise per poi andarsene, cavalcando veloce. Dicaia osservò e disapprovò anche quell’inutile provocazione. Dunamis varcò le porte della rocca con un insolito senso di familiarità addosso. Si fermò e si voltò, mentre Astos veniva richiusa. Quella voce... a chi apparteneva? Fu Schià ad accogliere il re nella sala del trono. Sporco di sangue sino alla bocca si tolse l’elmo e si accorse di lei. La fissò. L’ancella prese in consegna la spada e il resto dell’armatura che ripose a fatica su un tavolo. Silenzioso la interrogò, lei sorrise con ostentata naturalezza. - Sono una vostra serva, potente – accennò un inchino esagerato. - Sei la serva della regina – le ricordò e si sciacquò le braccia in una bacinella accanto al trono. - Sono prima di tutto una vostra serva, perché voi siete il signore di questo… - replicò cinguettante, porgendogli un panno e rimase impressionata dal colore rossastro dell’acqua. - Sparisci – le strappò il cencio dalle mani, ma lei non sembrò avere intenzione di obbedire. - Lasciate che io mi occupi delle vostre esauste membra, Dunamis La osservò irritato. Non capiva se era sciocca o se fingeva di esserlo. - Dov’è Zaira? – tagliò corto. - Io ho l’incarico di… - tergiversò, ma la stretta che percepì al braccio la zittì e lo sguardo che le entrò dentro la fece capitolare. - Non prendermi in giro, Schià di Delfi. Ciò che hai ottenuto deve bastarti, non sfidare la sorte – le soffiò in faccia con l’odore del sangue che aveva addosso a disgustarla. Dopo avere raggiunto l’uscita della sala, lo guardò. Si fissarono, mentre le ancelle davvero incaricate di prendersi cura di lui giungevano trafelate. - Voi mi odiate ed io non so perché – piagnucolò. Dunamis ebbe un ringhio e Schià finalmente se ne andò. Rimase immobile per qualche istante. Possibile che dopo una cruenta battaglia dovesse perdere tempo con una bambina? Raggiunse la vasca delle abluzioni dove s’immerse. Zaira si trovava nella sala attigua a quella del trono e l’amica arrivò.


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- E’ vivo – comunicò l’ancella. - Siano ringraziati gli dei - sospirò e trovò assurdo rivolgersi agli dei a scapito del proprio dio. - E tu cosa pensi di fare? – chiese l’altra, sedendosi e spiluccando dell’uva. Era la regina a permetterle di comportarsi come se non fosse una serva. La straniera era irritata da quella guerra, infastidita dal sapore amaro che sentiva in bocca a seguito di quell’evento che aveva tutta l’aria d’essere una delle prove del Fato. Ebbe un’espressione dura ma impotente: in quel momento non aveva idee, doveva riflettere, cercare una soluzione oppure un colpo di genio, qualcosa che le impedisse di stare con le mani in mano. - Anche tu sei un’amazzone – le ricordò Schià e Zaira la fulminò. - Beh, siamo in due – si difese. - Allora cosa facciamo? – la provocò divertita, perché lei in realtà non era mai diventata una vera donna guerriera, in passato aveva vinto la corsa nei giochi in onore di Nyx, ma da questo a combattere... - Io un’idea l’avrei! – esclamò una voce che le fece trasalire. In piedi guardarono l’uomo che, baldanzoso e strafottente, avanzò e si avventò sulle invitanti frittelle. Poi sorrise sornione schernendole con un inchino. - Hai creduto che le grate di una cella potessero fermare Autolico? – si rivolse alla regina. - Assolutamente no – rispose rassegnata e rinfrancata dalla sua improvvisa presenza. - Autolico ad Astos? – notò perplessa Schià. - Potrei dire la stessa cosa di te – la rimbeccò il ladro. - Se sei qui deve esserci… - lo studiò la ragazzina e si avvicinò a lui, mentre Zaira temeva l’arrivo del sovrano. Se avesse trovato lì Autolico, questa volta lo avrebbe ucciso. - Un motivo? E tu, Schià di Delfi, perché sei qui, sola soletta? – si riferì all’assenza di Flogos. - Non sono sola, sono con Zaira – sorrise. - Quando il sole è alto vaghi per gli anditi del palazzo nero di Dunamis, ma quando cala la notte, dove sei solita dormire? – la stuzzicò e Zaira a quel punto s’incuriosì. - Non ho nulla da nascondere io – soffiò Schià come un gatto alle strette. Quando se la vedeva brutta anche lei sapeva tirare fuori le unghie. - Cosa sei venuto a fare qui, Autolico? – tagliò corto la figlia del futuro, indifferente alla loro diatriba. Non le interessavano i segreti di Schià perché la conosceva e, di qualunque cosa si trattasse, non le avrebbe apportato alcun danno.


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Il ladro fissò la straniera con complicità, si avvicinò e circospetto si guardò intorno. - E' al cuore che bisogna colpirle – sussurrò e le due ragazze strinsero gli occhi su di lui. - Mi stai prendendo in giro? – fu diffidente Zaira. - I loro capi sono il cuore malato che bisogna fermare – insistette guardingo. La straniera non sembrava credergli e questo lo meravigliò, aveva sempre ottenuto la fiducia di quella strana donna. - Le motivazioni della Sovrana Bianca e dell’Arciere Bianco non sono le stesse che animano le truppe ed i sottoposti – continuò, come se stesse eseguendo una missione. - Perché ti stai affrettando a farmelo sapere? – lo interrogò, sentiva l’importanza del momento, qualcosa stava per accadere. Ne ebbe paura, ma ingoiò un groppo invisibile decisa a non lasciarsi soggiogare. - Ansal – scandì improvviso e la figlia del futuro corse mentalmente al passato, a una delle imprese della quale meno andava fiera, alla notte in cui con l’aiuto di Selene aveva sconfitto l’Arciere Bianco nella gara con l’arco per prenderne il posto e promettere la testa di Dunamis a Tolma. Era stato un inganno che aveva permesso a lei ed ai suoi compagni di fuggire dalla Città Bianca, mentre il re di Astos veniva debitamente allontanato dal rischio di essere catturato dalle Amazzoni. Questo aveva mandato in disgrazia la Sovrana Bianca e le aveva fatto perdere definitivamente la ragione. Non disse una parola, diede le spalle al brigante per incontrare lo sguardo di Schià. - Ansal non approva ciò che sta accadendo – aggiunse Autolico. - Ansal è un’amazzone decaduta – gli fece notare a denti stretti. L’amica annuì. - Ansal del Nord ti vuole per riportare il suo popolo alla gloria – non smise di dire sciocchezze. - E’ lei che mi manda – non mollò la presa. La straniera si voltò e lo fissò truce. - Dove vuoi trascinarmi? – gli recriminò già vittima del tranello in una ribellione inutile. - Non amo gli scontri diretti, ma Ansal confida su di me ed io sto facendo un favore ad una cara amica – si giustificò senza convincerla. - Non cercare d’abbindolarmi, Autolico del Parnaso… perché io so chi sei, mentre tu di me non sai nulla – lo minacciò e era strano perché a lei quel vecchietto era sempre piaciuto. Pensò che Ansal doveva avere in testa un piano oscuro per affidarsi a lui e alla sua fama poco onorevole. Scosse leggermente il capo in una finta difesa di se stessa comprendendo il malessere


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interiore di Dunamis, la sensazione dell’ineluttabilità di eventi legati a ricordi amari. - Dove si trova? – chiese alla fine. Era fatta. Aveva abboccato e Autolico non aveva fallito. - Ad Astos – rivelò certo di poterlo fare. Ansal voleva il suo aiuto, come se lei avesse potuto fare qualcosa. Sostanzialmente le loro posizioni erano simili: entrambe erano messe al bando dalla gente amazzone e Zaira si trovava in una situazione peggiore, perché aveva tradito. Tentennò, poi decise di rischiare. Del resto, stare a guardare le lame incrociarsi non rientrava nel suo modo d’essere, nel suo senso personale della giustizia. - Accetti dunque l'invito? - incalzò il vecchio. - Lei non mi ha invitata. E’ ospite clandestina del mio regno – lo interruppe severa. Lui annuì, attento a non irritarla. - Sarà questa notte, mentre la battaglia infurierà – fu lei a decidere i tempi dell’incontro. Il ladro approvò. - E adesso sparisci, se ti è cara la vita – lo licenziò con il tono duro che ricordò il modo di fare del re. - Come pensate che andrà a finire? – lo sorprese Zaira e il re si voltò, mentre l’acqua corrente continuava a dargli un po’ di sollievo. La regina lo fissava intimamente atterrita dall’idea di una guerra vera. Dunamis pensò che lei non conosceva quel lato del suo mondo, che neppure sapeva cos’era un conflitto, aveva avuto modo di assaggiarne il vago sapore con la rivolta degli schiavi avvenuta pochi anni prima, ma una guerra lunga e logorante non la conosceva, ne era certo. Raggiunse a nuoto il ciglio della vasca e uscì, avvolgendo il bacino con un telo di lino. Zaira non smise di guardarlo. - Togliti dalla testa qualsiasi idea balzana, Zaira. Quest’affare è di mia completa competenza – le disse certo di avere colto le sue intenzioni. Era pur sempre un’amazzone e veniva da un tempo ove probabilmente le donne non erano destinate a assistere, bensì a partecipare. Ricordò lo scontro nella sala reale di Parga, quando si erano ritrovati schiena contro schiena a combattere lo stesso nemico. - Vi sbagliate, sono la regina del vostro regno ed ho il dovere… - lo contraddisse. - Hai il dovere di prenderti cura del mio palazzo – la rimbeccò. - So usare una spada, so tirare con l’arco, posso aiutarvi – fu dolce nel suo splendido abito prezioso, con la collana scintillante al collo, l’acconciatura perfetta e il trucco invitante in netto contrasto con le idee belligeranti dello sguardo fermo.


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- Sei la sposa del guerriero più potente dell’intera Ellade e non ho bisogno del tuo aiuto. Non ho alcuna intenzione di mettere in pericolo la tua vita non le diede corda. - So difendermi, maestà, l’ho ampiamente dimostrato negli anni – non cedette e lo squadrò nel basso tentativo di metterlo in imbarazzo, visto che era praticamente nudo. Non funzionò. Dunamis sogghignò e si sedette sulla panca di marmo, infilandosi un chitone nero e pulito. - Hai sempre giocato d’astuzia e in questo sei notevole, lo ammetto. Ma non hai mai sostenuto una battaglia, non sei stata amazzone abbastanza per conoscere la disperazione e la crudeltà di uno scontro corpo a corpo, non hai mai affondato la lama nelle carni dei tuoi simili, non hai mai dovuto scegliere tra la tua vita e la morte altrui – le sussurrò, legandosi i lacci degli schinieri. - Dimenticate Scotos - e il figlio del lupo sobbalzò ancora divertito. - Un vecchio beone inerme ed hai pianto per lui, hai dovuto ottenere il perdono di sua figlia e credo che dentro di te porti ancora il rimorso per quel delitto. Ti consola solo il fatto che non avevi scelta. Ma qui fuori la scelta c’è e cioè quella di non uscire affatto – la fissò, deciso a non permetterle di fare sciocchezze. - Mi sottovalutate – gli recriminò. - Non fai parte di questo mondo, non ne farai mai parte, Zaira, e sei una donna, amazzone per errore, destinata a ben altre glorie – la smorzò ancora e la irritò. - Non voglio essere soltanto una donna – soffiò. - Non è che ci puoi fare molto – le sorrise malizioso. Lei s’irrigidì. - Non costringetemi ad ingannarvi, lasciate che io possa sostenervi con i miei mezzi senza dovervelo nascondere – quasi lo implorò. - I tuoi mezzi sono ben altri e confido nella tua intelligenza – la lusingò sottile. Si avvicinò a lei che indietreggiò adirata. - Non avere fretta di impugnare una spada, perché il giorno che sarai costretta a farlo non ne sarai felice - non demorse e le parlò all’orecchio suadente. - Non sarò la domestica del vostro palazzo – ringhiò Zaira e Dunamis rise. - Un modo singolare per definire una regina! Ma non mi meravigli più di tanto, ciò che è ambito per chiunque, a te sembra essere indifferente l’apostrofò. - Questo lo pensate voi – batté un piede a terra e si voltò per andarsene. Non voleva ingannarlo, ma la cocciutaggine di quell’uomo le imponeva di farlo, certa di perseguire un giusto fine. Ci pensava in marcia verso l’uscita della sala deserta, quando si accorse di averlo alle spalle. - Non dimentichi qualcosa? – la riprese. Lo guardò senza espressione.


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- Fareste meglio ad occuparvi del vostro regno - lo zittì. - Un inchino al tuo re, solo questo. Cos’altro potrei volere da te in questi giorni terribili? – la schernì, ma lei se ne andò stizzita. Quando fu solo, si affrettò a chiamare una delle guardie che sorvegliavano i corridoi del palazzo. - Seguila, sempre, di giorno e specialmente di notte – ordinò.


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Capitolo II IL GRAFFIO DEL PASSATO

Con l’arrivo di Dunamis nell’arena si creò il silenzio tra le truppe. L’avanzare dell’Esercito Bianco faceva da sinistro sottofondo. Il re scese le scale e si avvicinò al cavallo. Nascoste Zaira e Schià lo stavano spiando chiedendosi se era giusto avergli nascosto la presenza di Ansal nel regno e il fatto che Autolico fosse evaso. Montò sul destriero, sguainò la spada e un folto drappello si dispose alle sue spalle. A quello ne sarebbe seguito un altro e un altro ancora in successione, mentre gli arcieri, dall’alto delle mura, avrebbero continuato il loro tiro al bersaglio. Atir, accanto al suo signore, gli sistemò leziosamente il mantello. Lui lo fissò contrariato. Perchè il suo consigliere era così zelante? Con un colpo di tallone a Zingaro si scostò da lui, iniziando la corsa verso le porte principali che si aprirono al suo passaggio. Immediatamente si preparò il secondo drappello, comandato da un soldato che parlottò con Atir. Zaira se ne accorse e rimase perplessa: sapeva che Dunamis non aveva comandanti sottoposti, il solo capo era lui e i soldati avrebbero dovuto muoversi senza guida, con movimenti meccanici e previsti, per poi unirsi agli altri all’esterno. Anche Schià parve interessata a quegli strani movimenti. La regina la scrutò. Ricevette da lei un aperto sorriso, poi un gesto del capo che le rammentò l’appuntamento con Autolico oltre il cancello secondario dei giardini. Rasentarono i muri degli anditi della reggia e, eludendo la sorveglianza, giunsero dove Autolico, celato nell’ombra, le stava aspettando. Non si parlarono. Silenziosi percorsero le strade deserte di Astos: la gente, intimorita dalla guerra e dalla possibilità di un’invasione amazzone, era asserragliata nelle case, le porte sbarrate dall’interno, ogni luce spenta, sembrava una città fantasma. Qualche guardia perlustrava le vie, allora i tre si nascondevano, trattenendo il fiato per non farsi scoprire, a ogni ronda. Presto si trovarono in un anfratto scuro con la porta stranamente aperta, dalla quale proveniva una fioca luce. Esortate da Autolico, entrarono e la figlia del futuro riconobbe subito l'amazzone, intenta a fabbricare frecce per un arco appoggiato alla parete. Era vestita in maniera semplice: solo un chitone corto e candido copriva quel corpo forte ed allenato; i lunghi capelli castani le ricadevano sulle spalle. Era truccata molto bene, come se qualcuno si occupasse di lei. Schià si riparò dietro l’amica e la guerriera alzò il volto senza manifestare emozione. Guardò Zaira, studiandola con insistenza.


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Lei accennò un saluto che fu ricambiato appena. Autolico non s’intromise, ritirandosi in un angolo a sorseggiare una ciotola d'acqua e miele. La straniera rimase immobile. Poi finalmente Ansal si alzò in tutta la sua altezza, pari a quella di Dunamis. Si avvicinò e lei non indietreggiò. Si fissarono. - Ti ho attesa dopo essere venuta a conoscenza del tuo ritorno, Zaira d'Enotria e... sovrana di Astos, a quanto vedo – le disse. La sorprese constatare che il gioiello che portava al collo le dava già il prestigio del titolo conferitole. - Continui ad essere la chiave di molti destini, mia giovane amica – aggiunse sibillina. - Amica? - la interruppe ed Ansal sorrise. - Ho già avuto una cara amica e non ne serbo un buon ricordo – fu dura. L’amazzone annuì come se la comprendesse e così facendo non chiarì la situazione, non conquistò la sua fiducia. Zaira strinse i denti. - Tu hai bisogno di me, Ansal del Nord. Fatti capire e fallo subito – sbottò. L'altra alzò un sopracciglio, la ricordava meno aggressiva e più diplomatica. Tuttavia, le piacque la franchezza della regina di Astos. Si sedette nuovamente e ricominciò a lavorare sulla lunga freccia. - Ci sono cose che neppure sospetti – iniziò. La straniera non replicò e rimase ferma. - Non sai d’essere ancora il Capo Supremo dell’Esercito Bianco – La stava prendendo in giro? O le stava tendendo una trappola? - Non hai subito alcuna sconfitta e non hai ucciso una sola Amazzone, nessuno ha disposto per te l’esilio o la condanna a morte – spiegò con calma. - Tolma ha sentenziato la mia condanna a morte e può bastare – la contraddisse. - Irrilevante. L’autorità di Tolma suoi tuoi soldati vacilla da tempo – La figlia del futuro ridacchiò amara. - I miei soldati? – - I tuoi soldati – Ansal la guardò ancora. - Che cosa vuoi da me? – le chiese decisa e Schià le serrò il braccio. - Che cosa voglio non è importante, prima di darti la possibilità di scegliere è bene che tu sia a conoscenza di come stanno le cose ed una delle più importanti è che il tuo inganno ha adirato Nyx, la mia dea. Averla avversa non è cosa saggia, se davvero sei una regina e ti è caro il destino del regno di Dunamis – giocò la carta del timore perché Zaira aveva preso coscienza dell’esistenza degli dei e delle loro azioni. La straniera rimase impietrita. - E Nyx, tu lo sai, è la madre del Fato – aggiunse l’amazzone precisa nel colpire il suo punto debole, la paura di una sorte avversa. Poi continuò a ri-


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finire il dardo, percependo la confusione interiore di Zaira che continuò a non avere parole. - Può bastare oppure vuoi anche sapere chi è il nuovo Arciere Bianco dal titolo senza merito? – ricominciò. Ancora Zaira non replicò, si sentiva messa alle strette. - Tolma vuole Dunamis, ha perduto la ragione per lui, sta mandando al macello il suo esercito per annientarlo, dopo essersi fatta abbagliare dalle stesse promesse che un tempo fosti tu a farle. Ma vuole anche te alla Città Bianca, per ucciderti, perché tu l'hai ingannata, facendo leva sul suo amore per il re di Astos – raccontò. - Le mie stesse promesse? - finalmente la regina parlò. Autolico manifestò un nervosismo tossicchiante e Ansal alzò nuovamente gli occhi su di lei. - L'Arciere Bianco le ha garantito la cattura del re e della straniera – eluse una spiegazione esauriente. - La storia si ripete – sussurrò. Zaira solo in quel momento ebbe ciò che si poté definire un bagliore mentale. Faticò con il pensiero a mettere insieme i pezzi. - La storia si ripete – I suoi occhi grigi si fecero scuri, il sangue ribollì, scaldandola nel desiderio di ingiuriare contro il mondo intero. Si sentì tradita, costretta a fare qualcosa che non avrebbe voluto. Poi s'irrigidì e, quasi di ghiaccio, guardò Ansal. - Eucide di Argo – ringhiò in cerca di un diniego che non giunse. - Vuoi dire che Eucide, la nostra Eucide, la nostra amica di un tempo, adesso è là fuori ad attentare alla nostra vita, a volerci morte? – balbettò Schià. Ansal posò gli occhi su di lei e annuì. - E’ impazzita? – si lamentò alla fine l’ancella e si sedette accanto ad Autolico. - Completamente – confermò l’amazzone tornando sulla figlia del futuro che aveva avuto tempo di valutare i pro e i contro di ciò che aveva tutta l’aria di voler essere un’alleanza. - No, Eucide non è pazza, non la è mai stata – affermò la regina roca. Quando Dunamis scese da cavallo, fu Atir a privarlo delle armi. I soldati erano esausti, alcuni feriti. Tuttavia, non c'erano state troppe perdite. Il re guardò le truppe: i gruppi selezionati erano usciti dalle mura con tempismo, senza però unirsi a quello del re, ma accerchiando sui due lati l’avversario, stringendolo in una trappola e, fronteggiato da lui, in una leggera ritirata. L’arrivo dell’alba aveva salvato le Amazzoni. Il signore della rocca aveva osservato i due drappelli rientrare per primi ad Astos e disperdersi nel momento in cui era giunto nell’arena. Qualcosa non era andato come al solito, i


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suoi ordini erano stati elusi per una soluzione migliore, quella alla quale aveva sempre rinunciato in quanto privo di comandanti che potessero prendere decisioni in tempo reale. Ma in quell’occasione i soldati d’appoggio erano sembrati ben diretti e sincronizzati. Atir fece per sgattaiolare via con le armi, ma inciampò e cadde nel frastuono della ferraglia. Dunamis lo guardò per verificare che non si fosse fatto male, considerata l’età. Il servitore impacciato si scusò, come se stesse nascondendo qualcosa. Raccolse faticosamente l’armatura, ma il sovrano lo raggiunse, gli afferrò un braccio e un altro frastuono di ferraglia fece ridere i soldati poco distanti. - C’è qualcosa che dovrei sapere, Atir? – lo interrogò. Quel vecchio lo aveva sempre rispettato e riverito, negli anni aveva ricevuto la sua piena fiducia. - Perdonami, mio re. La tua armatura è pesante per le mie stanche membra – si giustificò. Con un cenno della mano Dunamis ordinò a un servo di provvedere. Atir non ne sembrò felice e si mise dritto davanti a lui come un bambino colpevole. Il figlio del lupo lo scrutò: lo conosceva bene, qualcosa lo inquietava. - Lascia che riposi le sue stanche membra e parla con noi, Dunamis di Astos la gloriosa – disse qualcuno dietro di lui. Atir sobbalzò. Il sovrano alzò gli occhi, osservò il nulla e lentamente si voltò. Rimase immobile, i denti serrati, una specie di tuffo al cuore, poi il calore inequivocabile della rabbia a muoverlo dentro. - Guarda, guarda. Alopex dell'Attica... – sancì roco, lo sguardo si assottigliò. Un cupo silenzio calò sull'arena. Poi spostò l’attenzione sull’altro uomo. - … e Flogos di Cittera – aggiunse. I due, impettiti, lo affrontarono. La loro determinazione non gli sfuggì. - Disertori nelle fila del mio esercito – un sorriso capzioso lo rese minaccioso. Entrambi non reagirono: quello era Dunamis di Astos, l'uomo che in passato avevano sfuggito e che alla fine avevano lasciato sulla sponda dell'Acherusia spezzato in due, dopo essere stati graziati. Avrebbero dovuto evitarlo come la peste per il resto della loro vita. - Coraggiosi come vi ricordavo – commentò senza enfasi. - E capaci di guidare i tuoi uomini – gli fece notare Alopex. Certo, ecco chi aveva realizzato un attacco efficace e preciso; ecco chi per un soffio lo aveva messo nella condizione di annientare l’Esercito Bianco in breve tempo! Dunamis cercò Atir che si era fatto umile. - E tu te ne sei ben guardato dal farmi sapere di questo complotto – Il vecchio chinò il capo.


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- Sapevo che erano tuoi amici - diede una spiegazione che strappò al suo signore un sorriso malefico. Flogos ed Alopex si appoggiarono su un ginocchio, riuscendo a distrarlo. - Siamo qui perché… – azzardò Flogos che raramente parlava perché Alopex era più abile di lui con la parola. - Siete dove non dovreste essere – lo interruppe il sovrano e chiamò le guardie. - Permettici di renderti noti dei dettagli che potrebbero… - s’intromise Alopex. - Avete disertato e vi ho graziato. Avreste fatto meglio a non darmi la possibilità di saldare un conto che io considero aperto – sentenziò. L’amarezza del passato e il ricordo dell’orgoglio ferito erano pesanti per lui. Schià aveva fatto scricchiolare il suo ghiaccio interiore e ora quei due erano come sassi lanciati al centro del cuore. Non li voleva ascoltare. Si voltò e scomparve dall’arena con passo deciso dopo avere ordinato che fossero rinchiusi nelle prigioni. - Voglio Dunamis piegato ai miei piedi a chiedere pietà ed anche quella sua donna che ha fatto di me lo zimbello dell’intera Ellade! – esclamò Tolma all’interno della tenda in uno di quei suoi momenti poco lucidi. L’Arciere Bianco, prono davanti a lei, la guardava. Era agitata, inquieta, sudata in un’ansia che non le dava pace. E beveva, quando il cuore e la mente la confondevano si affidava fiduciosa all’oblio del forte vino acheo neppure annacquato. - Avrai ciò che chiedi, mia signora. Stancheremo la difesa di Astos sino alla completa resa – rispose il sottoposto sicuro di sé, gli occhi a fissarla senza espressione. Non accennò al rischio corso quella notte, all’attacco giunto dai lati. Eucide non era cambiata, la sua espressione era ancora insinuante, il suo atteggiamento rivelava la nobiltà del suo sangue, ma anche la delusione del cuore tradito. Prima il padre l’aveva venduta a Dunamis, poi Dunamis stesso che non l’aveva mai voluta per rispetto alla sua stirpe. Sin dall’inizio, si era irrimediabilmente innamorata di lui. Aveva creduto che essere di nobile rango lo avrebbe indotto a prenderla in sposa, considerando che nessun re dell’Ellade gli avrebbe dato la figlia in matrimonio, temuto com’era, con la nomina che si portava addosso! Ma quando Zaira era giunta dal suo maledetto tempo, come il Fato aveva voluto, lo aveva odiato: il sentimento che aveva riservato alla straniera, negandolo a lei, era stato un colpo doloroso. Aveva visto crescere in lui un amore irrefrenabile e lei impotente non aveva potuto fare nulla per impedire che ogni previsione trovasse la sua realizzazione. Adesso li voleva entrambi morti, li avrebbe uccisi con le sue


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zione. Adesso li voleva entrambi morti, li avrebbe uccisi con le sue stesse mani, dopo averli portati alla Sovrana Bianca, colei che aveva scelto di servire. Tolma si alzò dallo scanno reale e le diede le spalle con aria mesta, come se a tratti si rendesse conto del basso scopo che le aveva fatto dispiegare l’intero esercito contro Astos come mai era avvenuto. Guardò l’Arciere Bianco con gli occhi lucidi. - Tu sei l’unica ad avermi compresa, Eucide di Argo – abbassò il capo. - Io sono la tua serva, mia signora, ed ogni desiderio del tuo nobile cuore è per me un ordine. Tu vuoi Dunamis di Astos e Zaira d’Enotria ed io sono qui in nome della fiducia che hai riposto in me – fu suadente, anche se mossa da un fine prettamente personale. Pregustò la disperazione di Zaira sottoposta a una nuova sventura. Immaginò le lacrime della rivale, la voce chiedere una pietà che non le avrebbe concesso. Sorrise. La regina la osservò, considerandola l’elemento migliore che avesse mai avuto. - Sei destinata al trono della Città Bianca, Eucide, ed a te succederà tua figlia – la colse impreparata e sobbalzò. Strinse gli occhi, certa che la donna stesse delirando. - Gli dei non mi hanno concesso di dare un erede al mio popolo, allora sarai tu la madre della figlia del re di Astos – le comunicò, colpendola in profondità, senza sapere cosa questo significava per lei. Eucide non realizzò subito quelle parole, rimase ferma per alcuni istanti che parvero eterni, poi il petto le andò in fiamme mentre una luce accecante attraversava il suo sguardo scuro. Dunque avrebbe fatto l’amore con il figlio del lupo? Non pensò all’erede che Tolma voleva, non pensò alla gloria che ciò le avrebbe dato, non pensò alla figlia che avrebbe potuto avere. Pensò a lui. S’illuse di potersi sostituire a Zaira. Cadde in confusione. La sua mente ondeggiò in un marasma d’immagini e parole, di sussurri e silenzi. Poi repentina scosse il capo. Prese fiato. - Mi onori, mia regina - ansimò e l’idea di un intimo abbraccio di Dunamis si fece prepotente. - Lo meriti per la fedeltà che hai saputo dimostrare – rispose la sovrana. Eucide si rimise dritta, fiera come il guerriero che era, bella nell’uniforme argentea, decisa a non lasciarsi sfuggire l’occasione della sua vita, convinta di poter assaporare il gusto della felicità, dell’amore di Dunamis che… l’avrebbe perdonata, come aveva perdonato Zaira per averlo abbandonato. Il calore della passione distorta che aveva dentro la eccitò, la possibilità che essa potesse trovare un dolce epilogo la fece tremare come una bambina. Si sentì assurdamente felice, pronta a tutto per lui, anche a tradire nuovamente


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la Sovrana Bianca. Non ebbe altre parole. Lasciò la tenda della regina per andare a disporre il successivo attacco ad Astos. Atir era in ginocchio davanti al re. Seduto sul trono e ancora una volta reduce dalla battaglia lo fissava tacito. Faceva più paura del solito con gli abiti insanguinati. - C’è un conflitto in atto e tu permetti a due disertori di far parte del mio esercito – disse senza promettere nulla di buono. Il freno della sua voce era il preludio della rabbia che il servitore aveva già avuto modo di conoscere. Non fiatò, era consapevole d’essere andato contro il proprio signore, anche se a fin di bene. - Qual è il tuo consiglio, saggio Atir? Sei il mio consigliere, no? Ti ascolto – non gli permise di rimettersi in piedi, pur essendo al corrente dei suoi dolori alle ginocchia. Lo stava schernendo, il vecchio lo comprese con amarezza. Stava dicendo cose che volevano confermare l’esatto contrario. Alzò il capo canuto per guardarlo negli occhi, quegli occhi che erano lo specchio di una profonda sofferenza. Lui quella sofferenza, invisibile a tutti, la scorgeva dolorosa e radicata a fare di Dunamis quello che era e una sottile disperazione rendeva quegli stessi occhi bellissimi, ma non per questo meno tragici. Conosceva bene il suo signore, nel silenzio lo aveva visto nascere, crescere e giungere alla gloria che lo avvolgeva facendolo sentire potente. Lo conosceva molto bene, troppo bene. - Se davvero io sono il tuo consigliere, mio re, perdona l’ardire, dovuto forse alla mia età che cavalca come il tuo valente destriero e non si ferma – assunse un atteggiamento rassegnato. Il figlio del lupo si appoggiò sui gomiti con un sorriso glaciale. - Colui che di me pensa di sapere tutto usa la pietà per placarmi? Forse è come dici tu, Atir, stai invecchiando e Mnemosine ti sta abbandonando – lo prese in giro, si alzò, lo superò e si fermò senza guardarlo. - Alzati e torna ad occuparti del mio palazzo – gli ordinò duramente. Il servitore si mise in piedi a fatica. Il re fece per andarsene con indifferenza, ma Atir lo raggiunse e gli si parò davanti. Si guardarono. - Ascoltateli, mio re. Fatelo e poi disponete come meglio credete. Ascoltateli, forse una sola delle loro parole potrebbe apportarvi un vantaggio – disse accorato, posto in una posizione pericolosa. Il signore della rocca lo scrutò. - Chi stai servendo in questo momento? – lo fulminò, l’altro scosse il capo. Dunamis non approfondì lasciando la sala senza fretta. In realtà era certo di sapere cosa si celava dietro ogni azione, ogni parola, ogni ritorno. Sapeva esattamente cosa gli stava accadendo intorno.


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Non raggiunse le proprie stanze, bensì l’arena che attraversò sino alle porte delle prigioni. Le guardie si misero sull’attenti al suo passaggio. Scese le anguste scale e si ritrovò nei meandri della sofferenza che lui stesso aveva creato tempo addietro. Diede un’occhiata al punto dove Aimatos e le sue catene avevano atteso le sue sentenze. Gli parve di scorgerlo ancora, c’era ancora il segno del suo sangue versato rappreso sulla roccia. Intanto Alopex e Flogos, si misero in piedi dietro le grate. Veloci fecero per inginocchiarsi al suo cospetto. - Vi ascolto – disse senza inflessione, distante da loro e dalla situazione che lo graffiava dentro e gli faceva uno strano male. - Avremo salva la vita? – ebbe l’ardire di chiedere Alopex. - Mi ricordo di te e della tua impertinenza – lo smorzò. Il disertore prese fiato. Si creò un silenzio pesante. - Eucide di Argo – intervenne Flogos, prevaricando l’amico e le sue astuzie. Il re allora posò lo sguardo sull’omone che non aveva mai considerato particolarmente intelligente. Corrucciò le sopraciglia e attese che continuasse. - L’Arciere Bianco è Eucide ed ha mosso contro Astos perché lei e la sua regina, Tolma della Città Bianca, vogliono la tua testa e quella di Zaira – fu chiaro. Ricordando la voce udita nel campo di battaglia, Dunamis riconobbe Eucide nella guerriera che lo stava assediando. - Avevo un ricordo diverso della nostra principessa decaduta - disse, alludendo al rapporto sentimentale con Alopex. - Io sono ad Astos per chiederti aiuto e per dartene – lo sorprese il diretto interessato, riacquistando la sua attenzione. Si avvicinò per poterlo vedere meglio nella penombra. - C’è un particolare che sembri ignorare, Alopex dell’Attica – parve un felino pronto allo scatto. L’altro gli si parò davanti con le grate come scudo. - Io non ho bisogno d’aiuto e non sono solito darne – gli soffiò in faccia. Flogos si ritrasse. - La mia vita, Dunamis! Ti offro la mia vita – insistette l’attico. - La tua vita? In cambio di cosa? – lo derise e l’altro serrò le mascelle. - Del suo sangue – sbuffò svegliando in lui la crudele stima che gli avrebbe permesso di mandare avanti un piano preciso che andava oltre la sorte della sgualdrina che lo aveva ferito. - Sei furbo, Alopex, molto furbo – concluse il sovrano intenzionato a andarsene. - Dammi il suo sangue e tu avrai il mio! – lo richiamò rabbioso. Dunamis si fermò senza voltarsi. - E tu, Flogos di Cittera, cosa chiedi al re di Astos? – lo interrogò annoiato.


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- Già mi hai concesso ciò che volevo – rispose l’omone. Il re gli diede il profilo. - La mia sposa si trova all’interno di Astos per tuo volere, qualsiasi cosa mi accada la mia piccola Schià sarà salva – affermò premuroso, pronto ad affrontare le decisioni del Fato da solo, si trattasse anche della morte. Il figlio del lupo annuì, sorrise lasciando entrambi nell’umidità stantia delle prigioni. Le rivelazioni dell’amazzone decaduta l’avevano scossa. Venire a sapere d’essere ancora il Capo Supremo dell’Esercito Bianco e le insinuazioni sull’avversità della dea della notte la preoccupavano. Conosceva la potenza degli dei in quel mondo e essere nuovamente la chiave di una situazione difficile la faceva sentire al centro di un’attenzione della quale avrebbe fatto volentieri a meno. E poi chi lo avrebbe detto al re? O meglio, come lo avrebbe persuaso della necessità di un proprio intervento nel conflitto? Tutto era complicato e di questo se ne rendeva conto anche Schià che non aveva ancora detto una parola. Passarono davanti all’entrata della sala del trono e l’ancella si fermò incuriosita, costringendo Zaira a fare lo stesso. Protette dai veli neri della porta, all’interno videro Atir e Dunamis seduto sul trono. - Hai bisogno di comandanti fidati per gestire la potenza del tuo esercito e fronteggiare quella dell’Esercito Bianco, mio re, perché là fuori c’è tutto lo schieramento amazzone e questa guerra deve finire presto e senza troppe perdite – disse Atir umile eppure determinato. - Alopex e Flogos sarebbero dei comandanti fidati? – chiese ironico il figlio del lupo e si accorse della presenza delle due donne. Il cuore di Zaira sobbalzò: Alopex e Flogos? Cercò con lo sguardo l’amica che deglutì per poi sbiancare. Evidentemente Flogos si era mostrato al sovrano e con lui Alopex, ma non erano nella sala, non lo stavano affiancando. - Considerando la tua fama e l’accaduto, hanno dimostrato coraggio presentandosi al tuo cospetto – affermò Atir con la calma del buon consigliere. Il re non sembrò disposto a farsi abbindolare e si alzò. - Vedremo dove arriva il loro coraggio, ora che la loro dimora è una cella delle mie prigioni e che dovranno pagare lo scotto dei torti del passato – ringhiò deludendo il vecchio. Schià ricordò in un attimo i racconti di Aimatos sulle feroci punizioni fisiche di cui era capace. Le lacrime già iniziavano a spuntarle dagli occhi. Zaira le strinse un polso per tranquillizzarla. - Li ucciderete? – chiese Atir timidamente. - Cos’altro per dei disertori? – sentenziò e con la coda dell’occhio colse l’agitazione dietro i veli scuri.


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Un grido gli fece portare la mano alla spada. Schià sfuggì alla regina, raggiunse Dunamis che indietreggiò di un passo e se la trovò ai piedi, le ginocchia serrate da quelle mani prive di forza, simili a tenaglie di seta. - No, qualsiasi cosa, ma non la morte per Flogos, non la morte per Alopex. Qualsiasi cosa, chiedetela e l’avrete, ma non uccideteli! No! – lo implorò con il suo solito slancio e con un’angoscia che mai in lei era emersa. Il re fece per liberarsi, ma non ci riuscì e rimase immobile. Tacita comparve anche Zaira senza dargli l’aggancio che gli avrebbe permesso di zittirla. Atir non si mosse. - Vi dirò tutta la verità, se questo potrà servire a salvarli – non cedette l’ancella e alzò il viso umido. Il re distolse lo sguardo. - C’è dunque una verità che dovrei sapere? – sorrise cattivo. Riuscì a allontanarsi da lei che rimase carponi. - Entrambi sono qui da tempo ed hanno atteso il momento giusto per presentarsi a voi – confessò. Zaira scosse il capo. - Clandestini e disertori - asserì. Schià chiuse gli occhi e pianse ancora. L’amica la raggiunse per invitarla ad alzarsi. - Abbiate pietà, solo questo – sussurrò allo stremo. I due sovrani si guardarono. - Dunamis di Astos non conosce la pietà – le rispose esageratamente rigido, fermo, irremovibile. La regina sorrise, come se avesse capito qualcosa che lui avrebbe voluto tenere nascosto. La ragazzina l’abbracciò in cerca di una consolazione che non le negò. Si misero in piedi e si avviarono verso l’uscita della sala. - Mi sono sempre fidata di voi – volle dirgli Schià, fermandosi improvvisa. - Non è stata una scelta oculata - fu malefico e non impedì loro di lasciare la stanza. Atir attese gli ordini del suo signore con il cuore in gola, il quale si sedette ancora sul trono pensieroso: rivide l’espressione della sua sposa, gli occhi privi di disprezzo e distaccati come quelli di una dea. Poi… il silenzio che gli aveva riservato lo assordò. Scrutò Atir che si mise dritto sempre in attesa. - Sia – sentenziò e il servo chinò il capo. Il nuovo attacco ad Astos ebbe inizio al crepuscolo, con l'intero Esercito Bianco a affrontare gli arcieri appostati sui bastioni più alti. La difesa era stata subitanea con i drappelli istruiti a muoversi senza la conduzione del re. Dall'alto Dunamis assistette allo scempio, pronto a cogliere un’occasione, qualora se ne fossero presentate. Giunsero Alopex e Flogos, accompagnati da Atir che aveva fornito loro le uniformi nere dei comandanti. Non erano mai state indossate da alcuno sino a quel momento, se non dal re stesso


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quando era stato sottoposto del fratello Isos, un tempo signore di Astos. Continuò a osservare la battaglia in atto. - Hanno giocato la carta dell’anticipo – disse Alopex, appaiandosi a lui. - Una tattica ingenua – asserì il sovrano in cerca dell’Arciere Bianco nelle retrovie. - Si aspettano un attacco ai fianchi, visto come hanno disposto i soldati – aggiunse Flogos. - Quella cagna non mette fuori la faccia, se ne sta rintanata alle spalle di un esercito, è disposta a farlo massacrare per avere te – sibilò l’attico osservandone la sagoma distante. - Un attacco alle spalle le annienterebbe in un attimo – disse qualcuno. Flogos e Alopex si voltarono di scatto. Dunamis non si mosse. - Tu – sbottò senza guardarlo, mentre Autolico dava un’occhiata di intesa all’attico. - Anch’io sono qui per servirti, potente – gli fece notare il ladro. - Tu sei qui per derubarmi o per uccidermi – lo accusò. Il brigante rise. - Uccidere il figlio del lupo? Non penserai sul serio che gli dei abbiano concesso questo privilegio a me che sono fedifrago e blasfemo? Avanti! Sono qui per porre fine a quest’assurdità, ognuno di noi ha interesse che quelle pazze al comando dell’Esercito Bianco siano annientate, non solo tu! – quasi lo aggredì, ma mantenne la propria diplomazia. - E il tuo interesse quale sarebbe? – gli diede il profilo. - Ha ragione lui. Un attacco alle spalle sarebbe perfetto – intervenne Alopex per evitare uno scontro tra loro. - Non questa notte, non abbiamo avuto il tempo di organizzarci – tagliò corto il sovrano. - Io posso organizzare degli uomini all’esterno – si affrettò a fargli sapere Autolico. - Autolico del Parnaso un mio comandante… – sibilò a denti stretti. - Autolico del Parnaso non ha capi, ti sto solo offrendo il mio aiuto. Pensi davvero che io possa sostenere un corpo a corpo nel cuore di una battaglia? Mi lusinghi, ma dimentichi facilmente che sono un vecchio – fu suadente. - Il tuo aiuto. A quale prezzo? – finalmente si voltò. - Questi sono dettagli che avremo modo di definire - Dettagli che voglio conoscere in anticipo perché so bene chi sei e so che per allontanarti dalle tue sacre selve profanate devi avere un motivo che neppure riesco ad immaginare Proprio in quel momento il comandante del Contingente d'Avanguardia, il più esposto, cadde ferito. Dunamis si mise dritto e seguì con lo sguardo la donna che si portò veloce sotto le mura, trascinandosi nella vegetazione cir-


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costante, mentre i tiratori scelti continuavano incessanti, a file alterne, a scoccare dardi letali. - E' stato ferito un capo – disse e Alopex osservò con lui il punto dove si trovava la sventurata. - Recuperala nel modo che ritieni più consono – ordinò. L'uomo non se lo fece ripetere, indossò l’elmo nero e percorse i corridoi del palazzo. Fu abile a nascondersi nei folti cespugli che contornavano la rocca. La trovò subito. Era ferita gravemente: una freccia aveva trafitto il petto all'altezza dello sterno, sarebbe morta molto presto, secondo lui. La divisa bianca era intrisa di sangue che si espandeva a vista d'occhio. Le scivolò accanto, la voltò verso di sé e si accorse che non aveva perduto i sensi, perché una ribellione le fece digrignare i denti in uno spasmo stroncato dal dolore. Le tolse il copricapo, tagliando i lacci sotto il mento con la spada. I lunghi capelli di Dicaia gli caddero sul braccio ed il suo volto si rivelò a lui nella penombra scura della fine del crepuscolo. La donna aprì gli occhi sofferenti e tentò di liberarsi, ma ogni sforzo fu vano. Alopex guardò il dardo che emergeva dal petto e decise di non toccarlo, si limitò a strappare la stoffa che mostrò il seno pieno, poi zelante creò una benda e tamponò intorno alla lesione. - Uccidimi – sussurrò la donna con un pietoso rantolo. Si rifiutò di farlo perché il suo compito era di portarla a Dunamis. Prudente la prese in braccio e si diresse verso le porte. All'interno della rocca salì su un carro con lei che si lamentava in un imminente delirio. - Uccidimi, non permettere che il figlio del lupo mi abbia tra le sue zanne letali. Ti prego, uccidimi – disse per tutto il tragitto. - Non ti agitare – le sospirò all'orecchio, calmandola come per incanto. Atir avrebbe provveduto alle sue cure, dopo averla deposta sul letto che un tempo era stato di Zaira, nella stanza priva di serratura interna. Alopex, dopo i primi attimi d’apprensione, vide sulla porta il re. - Il modo più consono per recuperare un nemico è portarlo dentro il palazzo? - chiese. - E' una brutta ferita, potrebbe morire – ignorò il suo dissenso e parlò affannosamente. Dunamis lo osservò per qualche istante. - Sarebbe un problema? – fu glaciale. L’altro vacillò e deglutì. Sarebbe stato un problema? - Potrebbe fornirci delle utili informazioni – rispose. Provava un’immensa pietà, non sopportava vedere una donna soffrire, era sempre stato così, per questo lui con le donne non ci prendeva proprio, il loro dolore vero o fittizio era un’arma contro la quale non aveva difese.


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- Cos’altro dovremmo sapere di quel branco di folli? – aggiunse il re. Alopex non ebbe più parole e abbassò le spalle. Il sovrano osservò la donna che respirava male e che ora era incosciente. - Non morirà – affermò. - E' stata colpita al petto – gli fece notare il comandante. - Ma non al cuore – lo fissò capzioso, infastidito dalla sua paura che non sarebbe stata utile con una guerra da vincere a tutti i costi. Se ne andò e il subalterno lo seguì zelante, dando un’ultima occhiata alla sfortunata amazzone. - Sei stato graziato, Alopex dell’Attica, non lo dimenticare mai – gli disse lungo il corridoio che portava all’arena. - Ne sono consapevole – rispose il soldato. - Allora vedi di non andare incontro ad un’altra condanna – concluse. Si ritrovarono nel piazzale rumoroso. All’alba l’Esercito Bianco aveva battuto in ritirata. Gli uomini di Astos, compresi Dunamis e i suoi due comandanti usciti in un secondo tempo, rientrarono. Nell’arena, Flogos e Alopex fecero per raggiungere gli alloggi dei soldati, ma il re li richiamò. Li guardò attraverso l’elmo e con un gesto del capo li incitò a seguirlo. Obbedirono, davanti alla sala reale Atir prese in consegna il copricapo del sovrano che non parlò come si erano aspettati, facendo solo un cenno al consigliere. Il vecchio annuì. Il sovrano aveva disposto per la permanenza all’interno del palazzo dei suoi comandanti che ebbero un attimo di smarrimento. Lo fissarono taciti, mentre si allontanava esausto. Alopex però lo raggiunse. - Perché? – chiese serio. - Una cosa devi imparare, soldato - rombò. - Un re non deve mai giustificare le proprie scelte ed i sottoposti devono accettare gli ordini senza discutere – evitò qualsiasi polemica. Raggiunse la sala delle abluzioni, dove desiderava solo rilassarsi, erano ore che non chiudeva occhio. Entrò e mandò via le ancelle, voleva stare solo. Si privò dell’armatura, che cadde al suolo, si sedette sul ciglio della vasca senza spogliarsi, osservando l’acqua tremolante e tiepida. Chiuse gli occhi e sospirò affaticato, poi li riaprì e divennero terribili. Il riflesso di Autolico lo irrigidì. Non amava farsi cogliere nei momenti di debolezza, tanto meno da un delinquente del quale non riusciva a liberarsi e che non uccideva perché figlio di un dio, di Ermes veloce. - Basta un tuo ordine, potente, e stanotte conoscerai il trionfo – gli disse altezzoso.


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- Non abusare della mia pazienza e della mia devozione, il nome di tuo padre non potrà salvarti la vita per sempre – ignorò quell’invito e si alzò. Autolico si avvicinò a lui. - C’è un esercito dietro la Selva di Artemide che attende soltanto il tuo consenso per intervenire – non cedette. Il ladro sostenne il suo sguardo con il coraggio che faceva di lui il mortale capace di sfidare gli dei. - Perché sei qui? – non raccolse le sue invitanti soluzioni. Il brigante contrariato serrò i denti. - Questa guerra non avrebbe mai dovuto iniziare e deve finire presto – rispose. Il re sorrise scettico e non ritenne sufficienti le sue spiegazioni. - Diciamoci la verità, Dunamis, la guerra è sempre deleteria, specialmente per gli affari – iniziò uno dei suoi discorsi. - Quali affari? Tu sei un ladro – fu ovvio l’altro. - Io sono anche un ladro, ma i miei affari con le Amazzoni mi hanno sempre portato dei vantaggi. Questa guerra ha bloccato tutte le vie, i pellegrini non giungono più alla vicina Delfi ed io non ho nessuno da depredare; la Città Bianca è in pratica deserta e non ho incarichi da espletare… un gran brutto periodo – affermò affranto. - Una vera disdetta - lo assecondò il signore della rocca. - E’ solo mattina, giungerò oltre la selva in poche ore ed avrò il tempo per tornare e darti conferma – riprese l’attacco il furbo figlio di Ermes. Ignorò la determinazione del re. Doveva riuscire a convincerlo, questo era l’ordine di Ansal, questi erano gli accordi presi con Zaira, questo era fondamentale per la riuscita della sortita di Alopex e Flogos. Era difficile gestire quella situazione dove tutti sapevano tranne il diretto interessato. - Non ho bisogno di un branco di mercenari – sbottò e il vecchio indietreggiò. - Non hai tempo per organizzare un attacco alle spalle, i tuoi uomini sono stanchi e le Amazzoni staranno stendendo una nuova strategia. Non credere di poter prevedere tutto e di poter contare sempre sulla forza dei tuoi contingenti frontali – s’impuntò, ma non troppo. Non vide in lui alcuna reazione degna di nota. Allora sbuffò. - Non riconosco il figlio del lupo – puntò sull’orgoglio e invece lo divertì. - Non puoi farlo, non sai chi sono. Ciò che hai sempre fatto è stato evitarmi consapevole della mia fama. Io invece ti conosco molto bene. Qualcosa ti muove, qualcosa che va oltre le tue splendide parole – Era stanco di dover fingere stupidità. Per lui quello aveva il sapore di un gioco, stava giocando con tutti, ormai certo che chi lo circondava stava attuando un piano.


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- I miei interessi non andranno in conflitto con i tuoi – ammise Autolico ilare, il sovrano parve ammorbidirsi. - Così va meglio e visto che sei in vena di confessioni, dammi i dettagli di cui ho bisogno per poter accettare il tuo aiuto e permetterti di guadagnare il favore degli dei che non ti sono troppo amichevoli – si fece nuovamente determinato. - Decisamente – Autolico non lo contraddisse, perché effettivamente quello era uno dei motivi che lo stavano muovendo. Artemide, la signora della caccia, lo avrebbe in qualche modo ringraziato e lui di caccia blasfema sul monte Parnaso, caro ad Apollo, gemello della dea, ci viveva da sempre. - Ti ascolto – fu magnanimo il figlio del lupo e Autolico decise di svelargli i dettagli che aveva richiesto, omettendone alcuni… ovviamente. Per un’amazzone essere catturata dal nemico e sopravvivere era un'onta imperdonabile che costava l’espulsione dalla Città Bianca. Dicaia era un capo, la sua condanna sarebbe stata l'esilio. Pensava a questo, mentre intorno a sé sentiva un continuo andirivieni, delle mani addosso a ispezionarla nel tentativo di salvarla. Socchiuse gli occhi acquosi e scorse la freccia che emergeva dal petto come un obelisco mortale. Udì il borbottare di un vecchio canuto che continuava a passarle una pezza sulla fronte madida. Cercò di parlare, le mancò il respiro, si agitò pregando Nyx di farla morire, di proteggere il suo contingente. Pensò ai soldati privati del suo comando. Le sembrò di galleggiare in una dimensione posta su un confine per lei sconosciuto e ebbe paura. Sentiva d'essere in pericolo, anche se nel delirio semilucido che la scuoteva non riuscì a ricordare cosa le fosse accaduto. A tutto questo si aggiunse il dolore, forte, lancinante che aumentava con il respiro e allora tentò di non respirare, la testa iniziò a girarle ed a farle male. Pianse, fissando il vuoto davanti a sé. Il paziente vecchio che le stava accanto si lamentava, diceva che lui non era un guaritore, che non sapeva cosa fare, che la freccia era penetrata troppo in profondità, che temeva di ucciderla se avesse tentato di estrarla. Dicaia avrebbe voluto gridare di provarci, di darle così il riposo definitivo che voleva, piuttosto che accettare quella vergogna. Non riuscì a proferire parola, la bocca secca. Poi si addormentò e le sembrò di dormire per giorni, invece furono pochi minuti. Una nuova ansia la fece fremere, altro dolore la fece trasalire e un colpo di tosse le diede la speranza di poter almeno sussurrare. Il terrore si stampò nei suoi occhi, posandosi sulla nuova presenza nella stanza, accanto all'uomo anziano. Lei quello più alto lo conosceva bene, lo riconobbe e riuscì a muoversi in un vano tentativo di fuga che fu solo un patetico ritrarsi. Dunamis di Astos, il nemico mortale del suo popo-


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lo, era accanto al letto ad attendere soltanto di ucciderla, perché lui... lui sgozzava le Amazzoni e poi baldanzoso ne beveva il sangue. Stremata lo guardò negli occhi feroci. Si fissarono, lei pianse ancora davanti al sovrano impassibile. Atir le accarezzò una guancia, dandole un altro sussulto, ma non distolse l'attenzione dal re, sempre immobile. Tentò di mettersi seduta, ma il vecchio le impedì di farlo. - Salvate il mio contingente, vi prego. Salvatelo dal massacro del figlio del lupo - riuscì a mugugnare. Dunamis avanzò sovrastante. Le sembrò di scorgere del sangue colare dalla sua bocca serrata. La vista si offuscò, sbatté ripetutamente le palpebre per rimetterlo a fuoco. Sapeva di essere perduta, davanti a lui un'amazzone non aveva speranza di sopravvivere, ma doveva trovare la forza di parlargli. La freccia saliva e scendeva al ritmo del suo affanno. - Potente Dunamis, caro ad Artemide, abbi pietà del mio esercito, abbi la pietà alla quale io rinuncio – e il movimento la fece sanguinare sino a macchiare il lenzuolo che la copriva. - Sai che non è possibile – rispose glaciale. Atir gli diede un’occhiata preoccupato. - Potrai fare di me la tua schiava, scalderò il tuo letto, laverò la pietra del tuo palazzo con il mio stesso sangue, ma salva i miei soldati, le loro vite gettate al vento dalla follia - ricadde sul cuscino e perse i sensi. Il consigliere la coprì con un altro lenzuolo, attento a non toccare la ferita. - E' fuori di sé - concluse Dunamis neppure sfiorato da quella disperazione. Uscì. Atir lo seguì veloce. - Qualcuno deve prendersi cura di lei in maniera adeguata, mio re – fu apprensivo. - Per quale motivo? - sibilò infastidito da tanta premura. - E' una nemica e la sto graziando, permettendole di morire all'interno del palazzo, il suo posto dovrebbe essere una cella delle mie prigioni – sentenziò. - La sua vita è finita, conosci le regole della Città Bianca – sembrò lagnarsi. - La morte è la soluzione migliore per lei – asserì. - La morte non è mai una soluzione – sussurrò il vecchio. - Per un'amazzone sopravvivere al figlio del lupo è un'onta che la condannerebbe alla rovina. Non la conosci, non sai chi è... perché ti prodighi tanto per lei? - lo interrogò. - E' una donna – disse mesto. - Dicaia? – sussurrò Zaira, entrando nella stanza e vedendo per la prima volta la prigioniera. Tornò con il pensiero ai giorni della prigionia nella Città


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Bianca. Dicaia allora era stata il suo comandante. Aveva capito sin dall’inizio le sue vere intenzioni ed aveva taciuto, fedele all’indole amazzone, nella convinzione che per far parte dell’Esercito Bianco bisognava desiderarlo sinceramente. Le accarezzò la guancia caldissima e ascoltò il suo fragile respiro che a tratti si interrompeva. - Credi che morirà? – chiese ad Atir che prese la mano molle e per nulla reattiva della guerriera. - Non sono in grado di curarla, faccio del mio meglio, ma non sono un guaritore – rispose affranto dal leggero sussulto della freccia piantata nel petto. La regina rimase in silenzio per alcuni istanti, poi guardò il consigliere con un’espressione eloquente. - Non chiedermi questo, mia regina. La mia attendibilità con il re sta già vacillando e non so sino a quando riuscirò a reggere la situazione – si lamentò il servo. - Sta morendo, non pensi sia il caso di correre il rischio? – gli chiese e un lamento di Dicaia lo fece sussultare. Un’ancella portò dei panni bagnati e Zaira li prese in consegna prima di lui. - Vai e fai veloce, non credo che abbia ancora molto tempo – gli ordinò detergendo la fronte madida della sventurata. - A Dunamis questo non piacerà, mia regina - le ricordò Atir sulla porta. - Basterà non farglielo sapere – sbottò. Finalmente l’uomo obbedì. Guardò Dicaia nella sua sofferenza, ne ascoltò i sussurri, provò un’immensa pietà che si mescolò a una profonda rabbia. In pochi giorni era accaduto di tutto: una guerra infuriava, Schià era tornata, Ansal e Autolico l’avevano coinvolta in un piano folle, anche Alopex e Flogos erano tornati. Dunamis li aveva condannati a morte senza rendersi conto del dolore della piccola ancella, ma anche di quello della donna che diceva di amare. Non l’aveva neppure cercata, consapevole probabilmente dell’astio che gli avrebbe riservato per quella decisione. Pensò al re, mentre cercava di dare sollievo alla guerriera annientata. Poi un rumore alle spalle la distrasse: Atir era stato celere nel trovare l’unica persona che avrebbe potuto aiutare l’amazzone, anche perché quella persona si trovava ad Astos da molto tempo, nascosta nella folla, protetta da Ansal. La regina s’illuminò nel rivedere colei che a suo tempo l’aveva aiutata. Fos entrò nella stanza, vide Dicaia distesa sul letto, protetta con un velo che scendeva dal soffitto. La freccia era conficcata nel petto ansante e il respiro era un rantolo agonizzante. - E’ una donna – asserì ascoltando ciò che per i presenti era silenzio, mentre per lei era il giungere inaspettato di Dunamis. Repentina si coprì il capo con


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il cappuccio del clamide lercio che indossava e la bocca con un lembo di stoffa dell’abito. - E' il capo del Contingente d’Avanguardia, lo abbiamo catturato due giorni fa – spiegò il re già sulla porta, alle sue spalle. I presenti raggelarono, vedere Fos avrebbe scatenato la sua ira perché Fos era la donna di Aimatos. Il re non sembrò accorgersi dell’inganno e non s’interessò all’identità della sconosciuta. - E’… - sussurrò la regina. La sua paura fu interpretata come emozione. - Vengo dal lontano deserto, potente, ove il tuo nome echeggia con il vento della Fama – prontamente Fos attirò l’attenzione del signore della rocca che la scrutò senza chiederle di scoprire il volto nel rispetto di un’abitudine dovuta alla sabbia incessante che in quelle terre era solita molestare gli uomini, costringendoli a celarsi continuamente. - Perchè sei ad Astos? – indagò. - Il mio signore, devoto agli dei a voi cari, è giunto in queste terre per ascoltare l’oracolo di Apollo luminoso a Delfi, ma la guerra in atto ha bloccato ogni attività ed abbiamo trovato riparo certo dentro le tue mura che sappiamo inviolabili – spiegò lusinghiera, un gioco da ragazzi per lei che leggeva gli animi e li sapeva comprendere sino in fondo. - Mi è giunta voce di un soldato ferito e morente, ho pensato si trattasse di un tuo uomo e sono qui per dare le mie cure. Ma vedo che si tratta di un nemico e ti chiedo perdono per aver violato la tua dimora - si affrettò a chinarsi davanti a lui che con un gesto la fece rialzare subito. Un cenno del capo la indusse a procedere senza altri commenti. Era fatta, avevano avuto il consenso del re e forse ora Dicaia sarebbe sopravissuta. La ragazza studiò velocemente la situazione, togliendo dalla ferita le pezze intrise di sangue. Mosse appena il dardo e la sventurata reagì. - Non ha trafitto parti vitali – dichiarò. Sembrava un'esperta guaritrice e lo era. - Bisogna estrarre la freccia e provvedere ad un'adeguata medicazione – continuò, gettando le bende sporche in terra. Poi guardò il sovrano che colse il colore dei suoi occhi, lo stesso di Zaira. Ebbe un sobbalzo, ma non disse nulla. - Chi mi può aiutare? – gli chiese la donna. - Atir, lui se n’è occupato sinora – sbottò seccato, abbandonando la stanza. Zaira lo osservò dubbiosa. Poi si affiancò a Fos e premette il petto di Dicaia, mentre l’altra afferrò la freccia. Alcuni catini d'acqua furono appoggiati su un mobile con bende pulite. Lo strappo fu secco e fortunatamente la punta non si spezzò. L'amazzone gridò e inarcò la schiena, ma la regina la trattenne contro il letto e la princi-


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pessa di Parga tamponò la ferita che stillò altro sangue. La medicò con un intruglio d’erbe e tela di ragno e la fasciò con l'aiuto del consigliere. Poi si lavò le mani. - E' salva – comunicò. Zaira sospirò sollevata.


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Capitolo III LA TRAPPOLA

- Siete sempre stati coraggiosi, i vostri sotterfugi non mi sorprendono – colse Zaira nella camera che non avevano più condiviso da quando era divenuta regina. Non si erano più incontrati dopo la condanna a morte di Alopex e Flogos e lei aveva passato quei giorni accanto a Schià. Ora che l’amica dormiva esausta, aveva raggiunto la propria stanza. Quella notte sarebbe stata decisiva, lo prevedeva il piano di Ansal e Autolico. Sorpresa dalla presenza del re, si voltò. - La vostra certezza di sfuggire al mio controllo mi diverte e mi offende alla stesso tempo – continuò. Zaira lo evitò, incapace questa volta di reggerlo, irrigidita dentro dal risentimento che provava per la sofferenza inflitta a Schià. - Eppure sapete di stare rischiando la vita – fu minaccioso. - Con voi non si rischia mai la vita, maestà, la si perde – - Quanto livore, Zaira… considerando che la prima ad essere ancora viva sei proprio tu – le fece notare. - Dovrei ringraziarvi? Dovrei farlo anche per le lacrime di Schià? – non riuscì a tacere. Lo sguardo di Dunamis si fece recriminante, ma lei lo sostenne e fece un passo indietro, memore dell’ultimo loro alterco. - Sopravvivrà, è una piccola amazzone senza spada con un carattere di ferro – concluse indifferente e si versò dell’acqua in un rithon dalla testa di civetta. Lei lo squadrò. - Mi domando perché sono ancora qui a cercare un ragionamento che non fa parte di voi e che, adesso, sarebbe inutile – sbottò turbata dall’uccisione degli amici. Si affacciò alla finestra, con la canicola ad aggredirla fastidiosa. - Sono certo che c’è una risposta per questo ed io sono qui per ascoltarla – la colpì senza preavviso. Zaira lo interrogò con gli occhi. - C’è una cosa che ammiro più di tutto di Schià – sorseggiò l’acqua lentamente. Zaira alzò un sopraciglio, ma percepiva il giungere di una resa dei conti. Lo vide appoggiare la coppa sul tavolo. - L’intelligenza – affermò. - E’ stata intelligente a volermi dire come stavano realmente le cose, a dirmi la verità. La verità… conosci questo concetto, Zaira? – la provocò. Lei finse di non comprendere. Si chiese se non sarebbe stato meglio dire proprio la


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verità e porre fine a quelli che lui considerava sotterfugi e che, da un certo punto di vista, erano tali. Rimase immobile e se lo trovò davanti. - Che cosa volete sapere? – lo sfidò. - Tutto, considerando che sono il tuo sposo ed il mio regno appartiene anche a te – la mise come sempre davanti ad una scelta. La straniera sorrise. Avrebbe voluto lasciarlo lì con il suo immenso potere e con l’alterigia alla quale non era stato capace di rinunciare neppure per lei e per ciò che le era caro. Pensò ad Alopex e Flogos e alla loro morte. Lo fece per la prima volta. Immaginò ogni dettaglio, memore della spietatezza riservata ad Aimatos e socchiuse gli occhi. No, non gli avrebbe detto nulla. Forse se ne sarebbe pure andata, lo avrebbe abbandonato, perché le era davvero impossibile comprendere il gesto che aveva voluto compiere. Fece per superarlo, ma lui la bloccò con un braccio. - Non voglio parlare con voi – lo stoccò. - Ti conviene farlo, se davvero ti è cara la vita dei tuoi amici – sussurrò senza guardarla. Zaira smise di respirare per un secondo, poi prese fiato e lo cercò. - Non li avete… - sussurrò prudente. Non rispose e strinse la mascella. - Non prendetevi gioco di me – - Altrimenti? – Zaira deglutì e si aggrappò ad una labile speranza. Abbassò il capo per fissare il pavimento. - Io sono ancora il Capo Supremo dell’Esercito Bianco, la mia autorità non è decaduta perché non ho mai subito una sconfitta. Ma voi conoscete meglio di me le regole della Città Bianca, probabilmente lo avete sempre saputo che io quell’esercito lo potrei fermare – disse di getto. - Ansal vuole fermare l’intero schieramento amazzone con la sola tua presenza - rivelò d’essere a conoscenza del piano dell’amazzone decaduta. Questo meravigliò Zaira che non replicò, mentre il cuore era ammorbidito dalla speranza che Dunamis non avesse ancora giustiziato gli amici. - E’ abile la mia rivale di sempre, ma te lo dico io come stanno le cose - la interessò. - Lei conta sulla devozione delle Amazzoni, considera che la loro indole non concepisce la disobbedienza e tu sei ancora il loro Capo Supremo. Un magnifico paradosso che l’astuta Ansal vuole sfruttare a proprio vantaggio – Zaira lo ascoltava. Si fidava di lui come di nessun altro, aveva ricominciato a farlo da pochi minuti. - Ma l’intero schieramento dovrà trovarsi sotto la minaccia dell’annientamento totale per fermarsi ed assistere alla caduta del nuovo Ar-


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ciere Bianco che, al pari di te, ne è il Capo Supremo. Solo allora le sue donne faranno cadere le armi – aggiunse. - E Tolma? – chiese. - Tolma? – rise. - Tolma non è mai stata amata dalla sua gente, dal giorno in cui ha manifestato l’idea di un erede con il mio sangue, il suo prestigio è andato scivolando quanto la sua ragione. Tolma non è un ostacolo per Ansal, destituirla sarà un gioco per lei - spiegò saccente. - Non hai capito dove vuole arrivare la tua amica del nord? – le domandò. Veramente un dubbio lo aveva sempre avuto. - Regina – affermò e Dunamis fu compiaciuto dalla sua perspicacia. - Regina delle Amazzoni – precisò Zaira. - Ansal del Nord regina della Città Bianca? Un bel miglioramento, dopo avere subito una sconfitta – continuò. - E tu, ancora una volta, sei la chiave di tutto – concluse. Si appoggiò alla balaustra della terrazza con il sole a scaldargli la schiena. - Non sarà dunque difficile ribaltare la situazione questa notte, visto che avete accettato l’aiuto di Ansal e dei suoi uomini, come mi ha detto Autolico – azzardò, però non gli chiese se avrebbe permesso anche a lei di andare in prima linea, non glielo chiese perché lo avrebbe fatto in ogni caso per riscattarsi con Nyx. - Per quanto riguarda gli uomini di Ansal… i tuoi amici, compreso Autolico del Parnaso, non mi hanno detto tutto. Ma sono certo che tu saprai illuminarmi – la imbarazzò. Il vero punto dolente era un altro. - Non vi comprendo – prese tempo. Dunamis si avvicinò. - Sarò più chiaro. Dove si trova Aimatos? – la gelò. - Aimatos? – balbettò. - La tua abile guaritrice del deserto è Fos e se c’è Fos deve esserci anche Aimatos. Avete avuto la bell’idea di coinvolgerlo in questo conflitto? Avete intenzione di costringermi ad essere grato anche a lui? – il bagliore feroce dei suoi occhi la spaventò un po’. Pensò di negare, poi abbassò le spalle e lo fissò. - Vincerete questa guerra – gli rammentò. - L’avrei vinta comunque, Zaira. Non sto curando i miei affari, bensì quelli degli altri, primi fra tutti quelli di Ansal – fu ovvio. - Non credi che merito qualcosa in cambio? – l’abbindolò sottile. In quel momento bussarono alla porta che si aprì dopo l’assenso del re. Comparve Alopex con l’uniforme nera da comandante e lei rimase senza fiato.


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- La prigioniera si sta riprendendo – gli comunicò. Non volse la propria attenzione all’amica per evitare di irritare il re che annuì veloce inducendolo a lasciare subito la stanza. La porta si richiuse. Zaira rimase a fissare il vuoto. - Mi avete presa in giro – si lamentò. - Come vedi, le piccole verità di Schià a qualcosa sono servite – asserì divertito. - Ne avete fatto i vostri comandanti, avete lasciato che io credessi… - si ribellò senza enfasi. Poi si sedette sul letto. Dunamis fece per andarsene. - Aspettate! – lo richiamò. Lui attese che parlasse. Dicaia socchiuse gli occhi. Era in un bagno di sudore. Sfiorò con la mano pesante la fasciatura al petto e trasalì, facendosi del male da sola. Fos la raggiunse. L'amazzone la guardò con gli occhi opachi. - Ti sei svegliata, significa che stai meglio – disse asciugandole la fronte. - Chi sei? - chiese roca. - Il mio nome è Fos, mi sto prendendo cura di te per ordine di Dunamis – rispose e quel nome la agitò. La principessa si affrettò a calmarla, appoggiandole le mani sulle spalle. - Non ti farà del male, lui ha voluto che tu vivessi – la rassicurò. - Cosa mi è successo? - farfugliò confusamente. - Sei stata ferita in battaglia ed Alopex ti ha recuperato sotto le mura di Astos – le spiegò. - Chi è Alopex? - s'incuriosì, dimentica di lui e dei momenti in cui lo aveva implorato di ucciderla. - Sono io – la sorprese la voce del soldato sulla porta. La donna lo guardò atterrita. - Perché mi hai salvato? - quasi pianse. - Per catturarti – si avvicinò al giaciglio. - Qual'è il tuo nome? - volle sapere, il suo tono era privo d’emozione. L'amazzone tossì. - Dicaia, comandante del valoroso Contingente d'Avanguardia dell'Esercito Bianco – si presentò, riuscendo ad essere dignitosa. - Dicaia - ripeté Alopex, sorridendo, Fos lo scrutò attentamente. L’uomo, che ricordava allegro ed un po’ fanfarone, aveva un’espressione contrariata, come se il fatto che Dicaia fosse sopravissuta lo irritasse. Forse era solo un’impressione. Tornò sulla prigioniera e alle sue cure. - Sei viva per volere di Dunamis di Astos – disse l’attico e lo fece di proposito, scatenò in lei un’agitazione fuori luogo. Fos si affrettò a fermare il suo nuovo tentativo di mettersi seduta. - Diverrò una sua serva – si lamentò commovente. Alopex sorrise maligno.


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- Se sarai fortunata – Dicaia ebbe un attimo di panico, infine la principessa di Parga uscì e trascinò con sé Alopex. - Perché quest’inutile cattiveria? – lo riprese. La prigioniera non era ancora fuori pericolo e l’agitazione era una delle cose da evitare. L’amico non rispose e la fissò contrariato. Un dolore lo scuoteva dentro, Fos lo percepì tutto, ne fu quasi travolta e gli cinse le braccia. - Stai lontano da lei, non posso impedire a Dunamis di avvicinarsi, ma tu… non osare più apprestarti al suo giaciglio, non finché non sarà guarita, ne va della sua vita – fu perentoria. Lui sogghignò amaro. - Il Fato mi ha fatto uno scherzo crudele e a pagare sarà proprio lei – la sorprese. Fos non raccolse e fece per tornare nella stanza. - Ha voluto che fossi io a salvare un’amazzone, io che ognuna di quelle bastarde là fuori le sgozzerei tutte con le mie stesse mani. Questo mi ha riservato il Fato, la gratitudine di una cagna vestita da soldato – sibilò astioso. - Lei non è Eucide, non dimenticarlo – disse la donna senza voltarsi. - E’ come se lo fosse – fu ottuso. Fos non ritenne opportuno andare oltre, ma l’odio che aveva percepito nel tono della voce di Alopex la preoccupò. Anche lui se ne andò, raggiunse la propria stanza, si sdraiò sul letto con le mani alla nuca e pensò. Aveva nel petto un peso abnorme, un male che si mischiava alla rabbia, al senso di stupidità che aveva già provato in passato e che ora, con contorni diversi, lo tormentava ancora. Il ricordo di Eucide lo aggredì. Chiuse gli occhi per riascoltare le parole di quella donna che gli avevano fatto capire quanto Dunamis la sapeva infiammare. Non era mai riuscito a odiare il sovrano per questo, aveva sempre considerato lei responsabile delle illusioni che aveva alimentato con un gioco di sentimenti mendaci. E poi quando tutto era finito, se ne era andata senza una spiegazione, aveva preso la strada per il Parnaso come se lui fosse niente. Ora era là fuori, ancora mossa dall’amore per un uomo che non la voleva. Si addormentò con l’inquietudine ad alimentare l’astio che si sarebbe riversato sul bersaglio più vicino: su Dicaia, della quale non sapeva nulla. Nel letto della sua stanza, Schià aprì gli occhi per tornare alla realtà che dormendo era riusciva a sostituire con il ricordo di Flogos. Era esausta, desiderava intensamente morire e pensava ad un modo per smettere di soffrire. Pianse, si lamentò e sussurrò qualcosa. Zaira non era con lei, la solitudine alimentò lo smarrimento, il vuoto assoluto in cui stava scivolando. Una sagoma semicelata dalla penombra afosa la fece sussultare senza spaventarla, sperò che si trattasse di un dio giunto per portarla via. Un masso invisibile le gravava addosso.


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- Chiunque tu sia, cancella il mio male, cancella me – pregò. L’intruso non rispose. - Non ti riconosco, immortale giunto a me, i miei occhi sono offuscati dalle lacrime del dolore che mi sta torturando senza uccidermi – si giustificò, la voce flebile. - Ti sembro un dio? – la schernì lo sconosciuto che non fu più tale. Veloce si sedette e si liberò delle lacrime. - Voi? – soffiò e Dunamis avanzò, illuminato dalla luce che trapelava dalla tenda oscurante della finestra. - Andate via – sbottò astiosa. - Dimentichi che sei una serva di Astos, che c’è una guerra in atto e che la tua regina ha bisogno di te. Ma tu sei qui, a dormire o… a poltrire e ti permetti di dare degli ordini al tuo re – la riprese. - Uccidetemi per la mia disobbedienza, fatelo subito perché non siete il mio re – lo rimbeccò audace, mossa da una disperazione che Dunamis non aveva considerato prima di entrare nella stanza. Sorrise e lei lasciò che un nuovo pianto le allagasse gli occhi verdi. - Non ti ucciderò, Schià di Delfi. Esigo da te il rispetto che merito – non si mosse, quando la vide sdraiarsi nuovamente e dargli la schiena. - Siete la bestia che tutti hanno sempre descritto e sono stata una sciocca a credervi diverso soltanto perché vi ho veduto piangere sulla sponda del lago Acherusia. Siete senza cuore come tutti hanno sempre sostenuto e mi pento di avere incitato Zaira a credere nel suo amore per voi. Povera amica mia, sposa di un animale che non conosce la pietà e non accetta l’amicizia. Povera amica mia… - piagnucolò consapevole di offenderlo. Dunamis si apprestò al giaciglio dell’ancella, si sedette accanto a lei che si voltò incredula e lo fissò. - Non toccatemi – sibilò atterrita. - Non lo farò – appoggiò i gomiti sulle ginocchia. - Allontanatevi, non sopporto il vostro dannato respiro – cercò di scostarlo con un piede. - Avrei potuto lasciare che fosse Zaira a fartelo sapere - ignorò le sue ribellioni. Schià non sembrò interessata e ancora, simile davvero a una bambina capricciosa, gli voltò le spalle e abbracciò il cuscino. - So cosa volete dirmi e farlo deve colmarvi di piacere, un piacere distorto e disgustoso. Volete guardarmi in faccia nel momento in cui mi direte che Flogos è morto e magari vi diverte l’idea di descrivermi la sua fine - pianse forte. La mano del re le sfiorò una spalla, lei s’irrigidì. - Avete bruciato il suo grande cuore lo avete fatto di persona – aggiunse e Dunamis ebbe un’espressione divertita.


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- Ho apprezzato la tua onestà, Schià – l’interrupe. Lei sembrò cessare di respirare. - Cosa ne sapete voi dell’onestà? – lo smorzò. - So riconoscerla e questo dovrebbe bastarti – rispose. Sogghignò amara. Lo sentì rialzarsi e lo scrutò, mentre usciva. - Ha sofferto? – gli chiese con la voce tremante. - Puoi verificarlo da sola nell’arena – rispose. Schià si lasciò andare in un nuovo disperato pianto. - Alzati – le ordinò e lei non obbedì. - Subito – insistette. Forse desiderosa di vedere il suo uomo per l’ultima volta, si alzò barcollando e lo seguì. Aveva in testa ben altro e osservò la spada che pendeva dal fianco del re. Silenziosi percorsero i corridoi del palazzo, il vociare proveniente dall’arena raggelò l’ancella. Cambiò idea. Non voleva più vedere il corpo esanime di Flogos, no! Il sovrano si accorse della sua titubanza. Lei portò le mani al petto e guardò ancora la spada lucente. Con uno scatto, ma troppo esitante, tentò di impadronirsene, ma Dunamis si scostò da lei facendo fallire quel tentativo. Seccato le afferrò un polso e la trascinò con sé sul palco reale che dava sul piazzale assolato, dove i soldati si stavano preparando per la sortita della notte. La presenza del re ammutolì gli uomini e due di loro avanzarono al suo cospetto. Schià non guardò, si sentiva vittima del figlio del lupo. Rimase indietro con il capo chino e il respiro affannoso. - Autolico è in ritardo, Dunamis – esclamò Flogos. Il re strinse lo sguardo su di lui. Schià alzò la testa, lo superò e si appoggiò alla balaustra del palco, incontrando senza aspettarselo, gli occhi torvi di Flogos che le sorrise, ignaro della sua sofferenza degli ultimi giorni. Non l’aveva più vista dopo l’investitura. L’ancella guardò il sovrano felice eppure risentita. Poi sospirò ed il masso invisibile sopra di lei si dissolse come d’incanto. Scosse la testa e avanzò verso di lui che rigido non batté ciglio, mentre Flogos e Alopex osservavano quella scena senza capirci niente. - Non lo avete ucciso… - farfugliò con altre lacrime a lucidarle lo sguardo. - Non l’ho fatto – tagliò corto. Fece per andarsene per evitare l’imminente slancio di Schià. - Avevate detto che… - lo mise alle strette. - Ho cambiato idea, Schià di Delfi – rispose glaciale per impedirle di avvicinarsi. Le diede le spalle e rientrò nel palazzo. Ma la ragazzina guardò il suo sposo, poi seguì il re già distante e gli si parò davanti ansimante per la breve corsa. Lo fissò con gli occhi arrossati e lo abbracciò, cingendogli il collo, quasi appendendosi a lui. L’uomo barcollò, a stento non la fece rovinare al suolo, sorreggendola e liberandosi delicatamente della sua stretta. Schià riu-


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scì a impadronirsi delle sue mani e lo fissò come un cucciolo salvato da morte certa. - Voi - sussurrò timidamente. - Vai da lui, ti è permesso farlo per pochi istanti perché il dovere lo chiama – le disse. - Voi non lo avete ucciso ed io vi ringrazio – insistette trepidante. - Non perdere tempo, il tramonto è vicino – non raccolse la sua emozione. - Ditemi perché, perché non li avete uccisi, perché indossano l’uniforme del vostro esercito - non cedette e Dunamis la superò. - I motivi non devono riguardarti, Schià – Non volle importunarlo oltre, mentre la gioia dello scampato pericolo la colmava di entusiasmo, illuminandole il viso di una nuova luce. Corse verso l’arena e il re la osservò tacito. Autolico rientrò ad Astos al calare del sole attraverso la breccia che portava alla spiaggia, senza che le guardie non lo fermassero. Superò il giardino, percorse l’interno del palazzo e entrò nella sala del trono. Flogos, Alopex e Dunamis stavano cenando insieme. Lo guardarono senza espressione e il ladro si sedette senza essere invitato. Allungò la mano su un cosciotto d’agnello, ma Dunamis spostò il piatto per non permettergli di servirsi. - Qualcosa da dirmi? – Il brigante prese fiato baldanzoso. - Tutto a posto, potente – rispose. Tentò ancora di servirsi, ancora gli fu impedito di farlo. - Il drappello di Ansal è pronto ad intervenire ad un tuo segnale che io stesso farò giungere dalla torre più alta, un fuoco ben visibile a distanza - lo informò. - I soldati di Ansal - sottolineò il re. Alopex ebbe l’impressione che fosse a conoscenza della verità e si chiese come mai non avesse cercato d’impedire quello che per lui sarebbe stato un affronto alla sua persona. Non manifestò le proprie perplessità, rimase in silenzio, incontrando lo sguardo fermo di Flogos. - Uomini forti, fortissimi e spietati, scelti da me, s’intende – calcò la mano Autolico e finalmente riuscì a addentare il cosciotto tanto agognato. - La garanzia che mi serviva – sbuffò Dunamis sarcastico, sembrava disposto a sopportare tutto. - Dimmi una cosa, furbo figlio di Ermes veloce - bloccò la sua voracità. - Chi comanderà gli uomini di Ansal se Ansal si trova ancora ad Astos, nascosta nella tana che le hai trovato, insieme alla mia sposa imprudente quan-


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to lei? – sorrise odioso, gelandolo. Gelò anche il sangue dei comandanti che si affidarono alle coppe d’acqua per non doverlo guardare. - Che sciocchezza! Ansal è oltre la Selva di Artemide in attesa… - si affrettò a contraddirlo il vecchio, ma qualcosa stava sfuggendo al suo controllo. - Parliamoci chiaro, Autolico del Parnaso, giusto per farti capire che non sono uno sprovveduto – lo zittì il re. - Non permetterò a nessuno di mettere a repentaglio la vita di Zaira, esponendola in prima linea in una battaglia dettata dalla follia e per questo poco prevedibile. Sia lei che Ansal sono state bloccate dai miei uomini, quindi adesso dimmi chi guiderà il drappello della Selva – affermò calmo e Autolico si alzò di scatto. - Non puoi farlo! Non puoi impedire l’intervento di Ansal e Zaira! No, così il piano non funzionerà! Così ci giocheremo il fattore sorpresa, questa guerra non finirà e diventerà un lungo assedio - gli rovesciò addosso una marea di parole. Dunamis sorrise. - Puoi sempre tentare di distrarre le mie guardie – volse lo sguardo alla finestra, la notte stava giungendo veloce. Non c’era tempo, per quanto Autolico fosse abile non sarebbe riuscito a compiere una missione così difficile, considerando la sorveglianza serrata che aveva disposto. - Perché stai rinunciando alla vittoria? – gli chiese allora vacillante. - Dimmi chi ci sarà in testa a quel drappello e forse ti permetterò di aiutare la tua vecchia amica Ansal del Nord, perché è di questo che si tratta, vero? – lo provocò. Flogos si agitò, il sovrano lo fulminò con gli occhi per impedirgli di intervenire. - Il tuo orgoglio è folle, Dunamis – sibilò il brigante. Lo vide raggiungere il terrazzo e scrutare l’orizzonte che si stava oscurando. Dietro di lui i tre uomini si guardarono l’un l’altro. - Sento lo scalpitio dei cavalli amazzoni - s’infilò l’elmo, allacciandolo sotto il mento. Lo stesso fecero Flogos e Alopex. Passarono alcuni minuti e lo scalpitio dei cavalli davvero iniziò a echeggiare nell’aria. - Sarà una lunga battaglia, meglio muoversi – ordinò il re. Fece per uscire, seguito dai comandanti ammutoliti e un po’ demoralizzati dal fallimento del piano. - Va bene! Te lo dirò! Ma voglio una promessa da te – lo richiamò Autolico. Dunamis si fermò senza voltarsi. - Nessuna promessa, Autolico. Ti basti essere ancora vivo – disse e attese. - Aimatos d’Epiro! Aimatos è al comando del drappello della Selva ed è pronto ad intervenire ad un tuo segnale! - ammise ringhiante, i pugni stretti. Il signore della rocca non ribattè. Lasciò la sala con i suoi uomini e raggiunse l’arena. Il ladro lo rincorse e gli si parò davanti con la paura a screziare la


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sua espressione per la prima volta indecisa. Il signore della rocca lo fissò frettoloso. - Raggiungi la tua postazione – sibilò l’altro, spezzato come un ramo, obbedì. Autolico del Parnaso, figlio di Ermes veloce, obbedì. Alopex e Flogos, al comando dei rispettivi contingenti, lasciarono Astos attraverso le porte secondarie poste sul retro. Dunamis uscì dal portale principale e vi rimase davanti con i suoi uomini, in attesa della disponibilità dei drappelli ai fianchi. In cima alla torre più alta Autolico stringeva una grossa torcia accesa. I due comandanti non si erano parlati. Non sapevano come sarebbero andate le cose, non erano certi dell’intervento di Zaira ed Ansal, non sapevano prevedere cosa sarebbe accaduto alla comparsa di Aimatos che a sua volta non sapeva che il sovrano era a conoscenza del loro segreto. Autolico dalla sua postazione osservava la radura. Erano tutti nervosi, tranne il figlio del lupo che sul cavallo aspettava il momento giusto, con gli occhi a scrutare punti distanti. Sentiva il sapore della vittoria con il sangue a scorrere lentamente, senza emozione. La sensazione era quella di trovarsi sotto le mura di Astos per una pura formalità perchè il piano dei suoi collaboratori occulti era perfetto e dentro di sé lo aveva ammesso, quando Zaira glielo aveva svelato punto per punto. Spostò lo sguardo verso l’angolo destro delle mura di Astos. Il fragore dell’Esercito Bianco in avvicinamento spezzò i pensieri e ognuno, in luoghi diversi, si mise all’erta. Il sovrano avanzò a passo d’uomo e osservò ancora una volta le Amazzoni bersagliate dagli arcieri con il loro Capo Supremo nelle retrovie, spettatore vigliacco di uno scempio che lui stesso giudicava assurdo, comprendendo il dolore di Ansal che, oltre all’intenzione di salire al trono, voleva anche salvare un popolo. Il sangue sulle uniformi bianche era visibile e cruento con le spade dei suoi soldati ad affondare nelle carni di giovani donne vittime degli eventi. L’attacco ai fianchi da parte di Flogos e Alopex fu improvviso, ma non imprevisto e le guerriere di Tolma reagirono immediate, fronteggiando l’assalto. Eucide impartiva gli ordini dalla sua postazione privilegiata. Dunamis la osservò per un po’, poi incitò il cavallo, sfrecciando attraverso la battaglia verso di lei che se ne accorse e indietreggiò con le redini in pugno. Ogni amazzone era impegnata in contrasti frontali e laterali, le guerriere preposte alla sua difesa vennero colte di sorpresa. Tentarono una sortita sul re che impennò Zingaro per fermarsi improvviso. Fissò Eucide che gli era a pochi metri e lei colse la luce del suo sguardo. - Non lo fare, Dunamis! Non avrò pietà di te – minacciò. La sua sola vicinanza la mandava in confusione.


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- Non so cosa farmene della pietà di una serva – ringhiò. Inesorabile alzò la spada che scintillò sotto la luce della luna. Autolico ondeggiò la torcia più e più volte. I tre drappelli accelerarono il ritmo. Qualche soldato di Astos cadde. Dunamis si liberò di alcune avversarie. In loro colse la mancanza di convinzione e la certezza d’essere perdute. Poi il silenzio improvviso e cupo dilagò sinistro sul campo di battaglia. Le Amazzoni si bloccarono e, come da ordini precisi, anche gli avversari che le tennero sotto controllo. I fiati rimasero sospesi. La torcia fiammeggiante di Autolico cadde dalla torre e il suo grido fu selvaggio ed inquietante. L’ultimo a voltarsi fu l’Arciere Bianco che si ritrovò accerchiato, con un contingente imprevisto alle spalle, minaccioso, armato sino ai denti, non omogeneo nelle uniformi, una banda di gaglioffi. Al comando vi era un guerriero che non conosceva. Eucide lo osservò e incontrò il blu del suo sguardo malcelato dall’elmo di cuoio. Sobbalzò e guardò il re. - Che scherzo è questo, bastardo! – esclamò in trappola, costretta a indietreggiare dai nuovi arrivati per avvicinarsi inevitabilmente a lui. Si ritrovò ben presto al centro del proprio esercito attonito che non sembrava avere intenzione di reagire. Quella era una guerra persa e la vita, con tutti i principi eroici e divini del mondo, aveva in ogni caso valore. Il malcontento serpeggiava da tempo tra le fila e la fedeltà era precaria. - Nessuno scherzo, Eucide di Argo – rispose Dunamis. - Vile da non credere! Vile come non sei mai stato! – lo accusò invano. Lui alzò un braccio ed il contingente della Selva la circondò. Non fu difficile per i soldati di Astos immobilizzare il resto dell’Esercito Bianco che continuò a non opporre alcuna resistenza: il loro Capo Supremo era in difficoltà e la situazione era tragica, ogni difesa sarebbe stata inutile. - Affrontami, se davvero sei il guerriero che dici d’essere! – urlò allora l’Arciere Bianco e cavalcò verso di lui che tese il braccio armato in difesa di se stesso. Furono così uno davanti all’altra, gli occhi a scavarsi, la ferocia a fare tutto il resto. - Sono qui - le disse fermo. Lei ancora avanzò, decisa ad ucciderlo. Con uno scatto gli piombò addosso e entrambi rotolarono al suolo. Un cavallo scalpitò nella loro direzione. Eucide era sul re che a sua volta le teneva la lama alla gola. - Voglio il tuo sangue, Dunamis - sibilò a pochi centimetri dal suo viso. - Non è il mio sangue che tu vuoi, piccola sgualdrina – la offese roco e la spinse facilmente via da sé, si rialzò e fronteggiò senza esitazioni un nuovo attacco. Le ferì un braccio, ma non bastò a placarne l’ira.


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- Sei il cane di sempre, non sei cambiato – urlò. Gli si avventò contro per essere nuovamente respinta dall’uomo. Averlo come avversario diretto era tutt’altra cosa che tremare per la sua sorte sulle mura del regno. - Deponi le armi, Eucide. Sei ancora in tempo. Questa guerra non mi appartiene e stanotte avrà fine. Arrenditi e sarai salva – l’avvisò. Simile a un’arpia fuori di sé lo attaccò ancora, ancora e ancora, fino a perdere il fiato, fino a farsi ferire anche alle gambe, fino a perdere il senso della misura. Come poteva credere di poter sconfiggere il figlio del lupo? Nessuno era mai riuscito a scalfirlo, né Ansal con il suo valore né Aimatos con la sua forza e neppure i nemici che avevano cercato di destituirlo durante gli anni del suo regno. Era davvero impazzita? Questo si chiese il sovrano, mentre sosteneva quel confronto iniquo. All’improvviso la vide fermarsi, pietrificarsi come una statua. - Non è Dunamis di Astos che deve versare il tuo sangue, Eucide! Sei stata avvertita, non hai ascoltato le parole del Fato! Abbassa la spada ed attendi il tuo destino – disse Aimatos che era sceso da cavallo e li aveva raggiunti, puntando la spada alla schiena della donna. - Difendi il tuo carnefice, Aimatos? – lo provocò l’amazzone. - Il figlio del lupo non ha bisogno di essere difeso, potrebbe tagliarti la gola in un momento, ma non è questo il volere del Fato inconfutabile – sbottò e dopo tanto tempo, i suoi occhi incontrarono quelli del re che rimase fermo davanti all’avversaria immobilizzata. Si guardarono senza espressione. Aimatos diede un calcio ad Eucide che cadde carponi. I due uomini, quasi sincronizzati nei movimenti, rimontarono sui cavalli. Autolico urlò ancora. Un piccolo drappello giunse del tutto imprevisto. Su quieti destrieri c’erano due donne e Eucide le riconobbe. Ansal abbandonò la protezione che il re aveva voluto per Zaira e decisa fronteggiò l’Arciere Bianco. Il re assistette, Aimatos si mise all’erta. - Ansal del Nord, l’amazzone sconfitta destinata alla servitù nella Città Bianca - la salutò con disprezzo Eucide. Si rimise in piedi non senza fatica. L’altra continuò a fissarla disgustata da tanta arroganza. Allora la donna scoppiò in una grassa risata e guardò Dunamis che immobile guardava lei. - Ti sei affidato alle donne per vincere la tua battaglia, figlio del lupo? – lo schernì, ma lui non reagì, consapevole d’essere soltanto uno strumento del Fato in quell’occasione che avrebbe permesso il compiersi di molti destini, anche il suo. Zaira avanzò sul cavallo, scortata dalle guardie assegnatale dal sovrano. Aveva con sé un grosso arco e la principessa di Argo si accorse di lei. - Anche tu tra noi, figlia di Cronos il rinnegato? – volle essere offensiva.


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- Riponi l’arco caro a Nyx tenebrosa, Eucide. Non ti appartiene – le ordinò ferma. Dunamis strinse lo sguardo, chiedendosi se davvero avrebbe fatto ciò che aveva pattuito con gli amici e che aveva promesso ad Ansal. Conosceva Zaira e il suo modo di pensare distorto in quel mondo. - E chi me lo sta ordinando? – rise l’altra. - L’Arciere Bianco che non è mai caduto e che non ha mai ucciso un’amazzone – le fece sapere e lei parve rifletterci, comprendendo tutto in un momento. - Hai tradito la Città Bianca - sussurrò. - Ho lasciato il regno di Nyx per catturare Dunamis… ma non l’ho trovato – affermò ironica. Certo, in realtà il tradimento di Zaira era stato virtuale, in fondo non aveva mai commesso un sacrilegio… non in senso stretto. Era un paradosso quello ipotizzato da Dunamis e del quale Ansal aveva bisogno per trionfare. - Ma visto che non sembri intenzionata a obbedire al Capo Supremo dell’Esercito Bianco, sarò io a dettare le regole e… Eucide tentò di indietreggiare, ma Aimatos la bloccò. - … ed il bersaglio sarai tu – sentenziò. Ansal fu silenziosamente esplicita. Imbracciò il proprio arco e lo tese. Zaira fece la stessa cosa. - Chi di noi centrerà il bersaglio diverrà Arciere Bianco, come le regole di Nyx potente dispongono – concluse. Ansal serrò le labbra. - Non lo faresti mai, il tuo nobile cuore non ti permette di… - l’aggredì Eucide, ma non poteva né avanzare né retrocedere. Era in trappola, una meschina e crudele trappola. - Il mio nobile cuore m’impone di salvare il mio regno dall’ira di Nyx potente ed il prezzo da pagare, Eucide… sei tu – la interruppe. - Il tuo regno? – sogghignò incredula e guardò Dunamis, poi guardò ancora Zaira e la collana che portava al collo. - Il mio regno – confermò la figlia del futuro tendendo ulteriormente l’arco. Eucide frenetica scosse il capo. Un altro grido di Autolico diede inizio a quella sfida. Dunamis non si mosse e con lui Alopex e Flogos, ansiosi di mettere fine a quella pantomima. Fu Zaira a scoccare la prima freccia e mancò il bersaglio volutamente anche se di poco, come da accordi presi. Ansal scoccò la seconda freccia che fece centro con la precisione che l’aveva sempre caratterizzata. Il dardo trafisse la gola di Eucide e il sangue schizzò, disgustoso agli occhi di Zaira che chiuse le palpebre. L’Arciere Bianco cadde con il volto nella polvere e si mise faticosamente supina con le mani a cercare di liberare la gola dalla freccia che le aveva


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tranciato le corde vocali. Alopex la osservò, attento a ogni suo singulto e per questo terribile nell’espressione, più simile al suo signore che all’uomo allegro e svagato di una volta. Dunamis lo guardò tacito, memore delle sue richieste dietro le grate della prigione. Tuttavia, scese da cavallo e raggiunse la ragazza morente senza alcuna speranza di sopravvivenza, lo constatò con un’occhiata. Le fu accanto. Incontrò la sua incredula disperazione. Colse il suo desiderio di parlare, il Fato era stato davvero spietato con lei. Meravigliando tutti, si chinò. La prese tra le braccia, mentre fremeva agonizzante. Le entrò dentro come sapeva fare con qualsiasi donna e si rese conto di darle una penosa felicità, l’unica forse che le aveva concesso. La mano tremolante di Eucide gli accarezzò la guancia incolta, macchiandola di sangue. Sorrise e Dunamis ebbe un attimo di smarrimento. Forse, per la prima volta nella sua vita, provò una sottile pietà difficile da comprendere. Pietà. Il figlio del lupo ne assaporò il gusto amaro. Veloce, quasi frettoloso, estrasse la freccia dalla gola, dandole così il colpo di grazia. Il lago rosso che li circondò fu visibile anche per il distante Autolico. Eucide sbarrò gli occhi e si spense con la sua follia. Dunamis le chiuse le palpebre, la adagiò sul terreno e si alzò rigido. Il fragore delle armi al suolo lo assordò. L’Esercito Bianco si era arreso. Volse l’attenzione ad Aimatos che abbassò gli occhi in una tristezza che si era aspettato da lui; incontrò il pallore astioso di Alopex che non cessò di fissare il cadavere della donna; vide il turbamento di Zaira che scrutava l’orizzonte buio. Ansal recuperò l’arco sacro e gli fu davanti. Fu Flogos a caricare il corpo di Eucide sul cavallo e a trasportarlo all’interno di Astos. Zaira notò la scia di sangue che il cadavere lasciava. Deglutì impressionata, ma non si sentiva in colpa e questo la turbò. Aveva permesso ad Ansal di ucciderla, avallando un omicidio. Aveva scelto di salvare Astos dall’ira di Nyx e ora si sentiva uguale agli Achei del 1200 avanti Cristo a scapito della propria cultura e dei propri principi. In quel mondo le cose andavano così, dovevano andare così, senza eccezioni e lei non biasimava più di tanto le dimostrazioni di forza, le vendette, le conquiste ottenute con il valore, con il potere, con l’astuzia. Forse iniziava a somigliare a Dunamis, a capire i suoi punti di vista, la difesa della posizione di cui andava fiero e che gli serviva per non soccombere. Erano tempi diversi dai suoi, tempi in cui uomini ed animali erano alla stessa stregua, in lotta per il territorio, e tentennare significava morire. - Gloria a te, regina di Astos che hai salvato il mio popolo – la svegliò Ansal, raggiungendola con Dunamis. Gloria? Quale gloria poteva dare un assassinio? Non la consolò sapere che Eucide avrebbe fatto la medesima cosa con lei.


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- Nessuna gloria, Ansal del Nord che mi sei cara. Solo la giustizia che hai reclamato e che hai ottenuto – tagliò corto distaccata. Il re non si era aspettato tanta freddezza da parte di Zaira che non aveva mai nascosto il rispetto per la vita, cozzando spesso con l’assenza di sensibilità che invece aveva sempre caratterizzato lui. Ne rimase perplesso. La regina spronò il cavallo e abbandonò la scorta per entrare veloce all’interno delle mura, consapevole dei doveri che attendevano il re. L’amazzone allora posò l’attenzione sul sovrano di Astos, dopo tanto tempo, dai giorni in cui avevano combattuto e che l’avevano vista sempre sconfitta. Si fissarono. Ansal scese da cavallo, mentre anche Alopex e Aimatos li raggiungevano. Dunamis continuò a guardarla. La donna si appoggiò su un ginocchio e fissò il terreno polveroso. - M’inchino al tuo cospetto, Dunamis di Astos, ed ho bisogno del tuo aiuto – disse sontuosa. - Non ne hai ottenuto abbastanza, Ansal del Nord? – fu recriminante. - Ho bisogno del consenso di un re per salvare il mio popolo – non gli disse nulla di nuovo perché il figlio del lupo conosceva le regole della monarchia. Rimase in silenzio con una sottile soddisfazione, poi tirò energicamente le redini di Zingaro che nitrì. - Lo avrai – rispose. Ansal si mise dritta con un sorriso sulle labbra tirate. - La gloria ti avvolga, potente – concluse e montò la giumenta, decisa a portare sino in fondo il proprio piano. - Voglio il contingente della Selva ed il suo comandante con me – ordinò il signore della rocca, cogliendo Aimatos un po’ impreparato, visto che sinora era stato ignorato. Alopex tentò di dire qualcosa, ma gli impedì di parlare. - Tu! Disponi per il controllo delle truppe amazzoni in attesa del mio ritorno. Che nessuna guerriera varchi le porte di Astos – ordinò ancora e deluse l’attico che non poté contraddirlo. Senza perdere tempo, con la notte che volgeva alla fine, Ansal e Dunamis si misero alla testa del drappello di scapestrati comandati dall’ex schiavo che li seguirono in una corsa contro il tempo e gli eventi. Alopex rimase a fissarli sino a non vederli e sentirli più. Poi obbedì alle disposizioni del figlio del lupo e fece disarmare le guerriere sedute ai piedi delle mura del regno sotto una stretta sorveglianza da lui stesso supervisionata. Intanto Zaira, seduta sul trono del re, osservava il corpo esanime di Eucide riverso sul pavimento di pietra. Silenziosa si soffermava sul volto spento di quella che era stata la sua più cara amica, colei che l’aveva accolta in quel tempo. Ricordò ogni cosa: il suo primo sguardo, la disponibilità, la complicità e poi quella grinta che era emersa in un crescendo che l’aveva portata ad un confronto aperto con Dunamis. Sospirò rammentando l’amore che aveva scoperto provare per lui, sull’Olimpo, con la voglia di spezzare un


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scoperto provare per lui, sull’Olimpo, con la voglia di spezzare un uomo che niente e nessuno era in grado di spezzare. Allora l’aveva disprezzata, ora che era morta continuava a disprezzarla. Non provò pietà. Non trovò nulla in sé, solo un’inconfessabile soddisfazione che la faceva vergognare e poi la appagava nello stesso tempo. Distolse lo sguardo e chiuse gli occhi, disgustata eppure compiaciuta. S’accorse d’essere ancora contraria a se stessa, si riscoprì ancora doppia. Non era facile convivere con la dualità che la caratterizzava mettendola sempre in difficoltà nelle scelte. Giunse Schià che si appaiò a Flogos, sull’attenti accanto al cadavere, in attesa di ordini. La ragazzina perse il respiro e indietreggiò inorridita. Zaira vide il suo animo, la sua tenerezza, la sua indubbia umanità. Scorse nella sua espressione la stessa pietà che invece lei non riusciva a manifestare e tremò. - Cosa ne sarà di lei? – balbettò Schià. Non riuscì più a tenere gli occhi su Eucide con una lacrima a solcarle il viso pallidissimo. - Sarà il re a decidere – rispose Flogos senza guardarla. - E sarà la cosa più giusta – sentenziò Zaira, facendola sussultare. L’omone non replicò. Dunamis ed Ansal giunsero all’accampamento in piena anarchia. Neppure la presenza del contingente di Aimatos indusse le guerriere preposte alla sorveglianza a muoversi. Arrivarono presto davanti alla tenda reale. Ansal scese da cavallo e solo allora qualche guerriera si avvicinò, debitamente bloccata dal controllo degli uomini dell’ex schiavo. Andò davanti all’entrata semiaperta e guardò il sovrano che non batté ciglio. Entrò. Il silenzio incombeva, l’aria era pesante. Dunamis, suo malgrado, provò un forte disagio: sentiva gli occhi delle donne puntati addosso e percepiva il loro astio perché, in ogni caso, erano state sconfitte. Non che questo lo spaventasse, piuttosto mai avrebbe creduto di vivere una tale situazione. - C’è l’odore della morte in quest’accampamento – lo svegliò Aimatos, lui lo fulminò. La sua sola voce lo irritava come lo irritavano i suoi uomini, il comando di cui andava vestito e la sua libertà. Non rispose, tra loro tutto era in sospeso. All’interno, illuminato dalle torce, vi era il cadavere della regina della Città Bianca, seduto fieramente sullo scanno, con le vene dei polsi e delle caviglie lacerate, gli abiti bianchi macchiati dalla vergogna e dell’ingenuità dimostrate. Aveva gli occhi chiusi, il capo coronato reclino su una spalla e le lacrime versate asciutte sulla pelle scura. Ansal si avvicinò, strinse la gola e s’inginocchiò in un rispettoso e estremo saluto a colei che era stata la sua signora. La follia l’aveva uccisa, Eucide di Argo l’aveva illusa, alimentando le sue pazze speranze. L’amore l’aveva ammazzata. Lieve la privò della co-


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rona e le accarezzò la guancia rigida. Non trattenne un sommesso e silenzioso pianto. Aveva immaginato un confronto con lei, una discussione e poi un violento contrasto per detronizzarla. Si era aspettata di trovarla in preda ai fumi dell’alcool, delirante, un po’ allegra e un po’ disperata, invecchiata e stanca oppure uguale al passato e magari rinvigorita dalla guerra. Si era aspettata di tutto e trovò il niente della morte. Si pose la corona sul capo, diede un’ultima occhiata e uscì, dopo essersi asciugata gli occhi con un polso. Altissima rimase impettita davanti alla tenda e guardò ancora Dunamis che si tolse l’elmo. L’alba iniziava a colorare il cielo. Attese le parole del re che stranamente tacque. Non sembrava intenzionato a darle ciò di cui aveva bisogno, anzi indietreggiò su Zingaro, stava per andarsene. Fece un passo con gli occhi imploranti in un tacito appello a mantenere la promessa fatta. Aimatos si avvicinò a lui. - Non puoi farlo - sussurrò e si riferiva al fatto che, per essere investita del titolo di regina, Ansal doveva essere riconosciuta da un suo pari. Il re sorrise capzioso e non parlò. L’ex schiavo si agitò. Non si trovavano in una bella situazione, senza un riconoscimento l’Arciere Bianco poteva essere attaccato dalle amazzoni presenti, la corona che indossava non le spettava e di Tolma nessuno sapeva ancora nulla. Si sarebbero trovati in una battaglia e, allo sbando com’erano, le guerriere avrebbero attaccato anche loro. - Stiamo rischiando la vita – gli fece notare rigido. La caparbietà del sovrano lo adirò e, in un tentativo estremo, si portò davanti ad Ansal che mantenne a stento la calma. - Ti saluto, Ansal del Nord che… - disse senza sapere dove andare a parare. Pensò veloce. - … che indossi la corona cara a Nyx potente. La dea della notte ti ha scelta per salvare il glorioso popolo a lei devoto - blaterò per aggirare l’ostacolo. Cosa poteva valere l’approvazione di un semplice comandante? Niente. Quella di un dio invece avrebbe salvato la situazione. Fu abile a tamponare la falla del comportamento di Dunamis che poco distante sorrise. - Se un dio ti ha insignita del titolo che sfoggi, Ansal del Nord, Dunamis di Astos ti saluta e ti riconosce – aggiunse a sorpresa. Ansal ebbe un sospiro di sollievo impercettibile. Tuttavia, si chiese cosa diamine era passato nella testa del re di Astos che non era solito fare qualcosa senza un motivo. Fu distratta dall’inchino collettivo delle guerriere presenti che sancirono definitivamente la sua investitura a Sovrana Bianca. - Io, Ansal del Nord, nuova regina della Città Bianca devota a Nyx potente, dichiaro conclusa la guerra contro Astos e con il suo sovrano stringo alleanza! – dichiarò, scatenando un boato d’approvazione. Dunamis avanzò a cavallo e la scrutò.


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- Mi rendi onore, Ansal a me cara ed accetto perché i nostri regni non abbiamo più a scontrarsi, contando l’uno sull’altro se il Fato disponesse per nuove prove da sostenere, per nuove guerre da combattere, per nuove difficoltà da superare – rispose e le diede le spalle. Pareva avere fretta. Diede due colpi di tallone al destriero in direzione del proprio regno dove serviva la sua presenza dopo la vittoria conseguita. Aimatos lo seguì con i suoi uomini, ma non lo raggiunse, Zingaro era sempre molto veloce e il sovrano non lo attese, parve fingere che non ci fosse. Con il sorgere del sole, il re era tornato al regno e aveva disposto per la liberazione delle guerriere che avrebbero dovuto raggiungere la nuova Sovrana Bianca. Il contingente della Selva era stato preposto alla sorveglianza delle donne raggruppate sotto le mura. A coadiuvare Aimatos c’era Alopex con i suoi uomini, le armi sarebbero state restituite nel momento in cui si fossero allontanate. Le truppe di entrambi gli schieramenti erano tragicamente serene: gli uni per la fine di una guerra, le altre per la sconfitta paradossalmente migliore di una vittoria. Nel primo pomeriggio il cadavere di Eucide, come era consuetudine, venne appeso dalla torre più alta e un cupo silenzio zittì tutti. Le Amazzoni volsero lo sguardo verso colei che le aveva guidate e che aveva promesso a Tolma il re di Astos. Il corpo sbatté contro le alte pareti, Alopex alzò lo sguardo e lo strinse sulla donna che aveva scatenato in lui un feroce astio nei confronti delle guerriere di Nyx. La osservò con il sole sulla pelle abbronzata del viso. Osservò il sangue che colava lungo la pietra chiara. Ricordò ogni momento passato con lei e trovò disgustosa l’immagine ingenua che aveva di sé. Aveva creduto in lei. Abbassò gli occhi e scrutò le Amazzoni esauste che attendevano di andarsene. Le disprezzò una per una. Solo per Ansal serbava un po’ di stima perché anche lei, come lui, aveva subito una cocente delusione. - E’ finita, Alopex, ma tutto questo lo trovo estremamente triste. Eucide è stata un’amica per noi tutti – lo svegliò la voce di Aimatos che si appaiò a lui sul cavallo sbuffante. - Eucide non è mai stata mia amica e non trovo affatto triste tutto questo. Temevo che Dunamis non la esponesse, invece il mio re non mi ha deluso – rispose. L’assenza d’ironia stonava in Alopex e solo in quel momento l’ex schiavo comprese quanto il tradimento di Eucide lo aveva profondamente ferito. Quando li aveva lasciati senza neppure un saluto, per raggiungere la Città Bianca, Alopex aveva riso, si era schernito e aveva scherzato sull’amore che la ragazza aveva riservato al re e non a lui. Aveva mentito e Aimatos lo capì. Scorse nel baldanzoso amico il veleno dell’odio.


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All’interno del palazzo Zaira aveva raggiunto la stanza della prigioniera che, dopo le cure di Fos, aveva ripreso conoscenza. Era affaticata e agitata dai rumori esterni, dalle grida di uomini e donne, dalle urla di giubilo che si mescolavano a pianti lamentosi. Fuori c’era un putiferio e anche la principessa di Parga, al suo fianco, ascoltava ogni voce e ogni scalpitio di cavallo. Quando Dicaia si accorse della straniera, notò subito la collana che indossava, tentò di alzarsi dal letto per poterla salutare con onore. Zaira si affrettò a fermarla con un gesto e, recuperato uno scanno, si sedette con un’espressione emozionata. - Comandante, il Fato ha voluto farci incontrare nuovamente – disse. Sorrise, erano giorni che non lo faceva e nelle ultime ore un’ombra le schiacciava il cuore. Dicaia le tese una mano tremolante. In pochi giorni era persino dimagrita, probabilmente non mangiava adeguatamente da quando era caduta in battaglia. - Allora eri una valente prigioniera ed ora sono io ad essere prigioniera – le fece notare affranta. - Anche tu valente, però – la prese in giro benevola, ma il suo sguardo era offuscato e l’amazzone se ne accorse. - Sei triste, Zaira d’Enotria – non si trattenne. Fos le porse una coppa con un intruglio che faceva parte dei suoi medicamenti. Lo sorseggiò con una smorfia per l’amaro che le lasciò in bocca. - La morte non è mai motivo di gioia, comandante, e lo è ancora meno se non porta dolore nel cuore – fu adirata con se stessa. Dicaia sorrise enigmatica. - L’essere umano è anche questo. In noi albergano l’amore, la paura, la comprensione, la spietatezza ed anche l’odio e come sappiamo accettare il bene che ci compone, dobbiamo saper accettare anche il male – filosofeggiò turbandola. - Sei un amazzone e come tale hai agito, non ti sei fermata perché eri in pericolo e con te il tuo popolo, il tuo regno – concluse ovvia. Fos aveva raccontato l’accaduto a Dicaia. - Non sei più una prigioniera, questo lo sai? – volle darle lei la notizia dopo essersi alzata, ma in quel momento vide Dunamis sulla porta. Aveva gli abiti puliti e il volto riposato. Gli erano bastate poche ore di sonno per riprendersi dalla fatica della battaglia vinta. Quella presenza improvvisa mise all’erta Dicaia e con lei Fos, preoccupata del suo stato nelle forti emozioni e Dunamis era per lei una vera e propria fobia. L’amazzone indietreggiò nel letto sino a pressarsi contro il muro e fissò l’uomo con terrore. Il re avanzò lento, volutamente altero, indifferente alla tensione che sapeva creare.


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- Dunque le cure del figlio del lupo ti hanno guarita, Dicaia della Città Bianca – disse roco. Zaira ebbe la sensazione che la stesse spaventando di proposito. Trovò la cosa ingiustamente divertente e non intervenne. La donna annuì, la voce rotta in gola ed il cuore a pompare. Fos le cinse le spalle rigide sino al momento in cui sembrò rilasciarsi e chinò il capo. - E ti ringrazio, caro agli dei. Perdonami se non mi prostro ai tuoi piedi come il tuo rango richiede, ma le ferite mi dolgono e le forze mi mancano – sussurrò tremando. Il sovrano la guardò con un sorriso odioso. - Avrai modo di chinarti al mio cospetto, come il mio rango richiede e come una schiava dovrebbe fare, quando la tua guaritrice lo riterrà opportuno, Dicaia della Città Bianca – le rispose freddamente. Zaira sussultò. Fos lo osservò, mentre lasciava la stanza. La regina lo rincorse. Gli si appaiò nella falcata decisa che lo stava portando verso le porte di Astos. - La mia sposa ha qualcosa da ridire? – la interrogò senza fermarsi e senza guardarla. - Vi state divertendo inutilmente, maestà – - Visti gli ultimi accadimenti e la facilità con cui mi leggi dentro, tutto mi lascia presumere che io e te ci somigliamo molto, contro ogni apparenza – la colpì. - Cosa state insinuando? – storse il naso. La mano ferma del re le sfiorò la guancia e lei si bloccò e si lasciò rubare un lieve bacio. - Non una lacrima ha solcato il tuo viso per la morte di una bastarda e non c’è recriminazione nel tuo tono sapendo che mi sto solo divertendo a spaventare una piccola donna – asserì soddisfatto. - Quella è il comandante di un contingente amazzone – sbuffò iniqua. - Una piccola donna – fece spallucce ricominciando a camminare. - Non sarà mai una vostra schiava, fa parte di un popolo alleato ora – s’impuntò. - Le promesse sono promesse e potrei decidere di esigere che lei mantenga quella che mi ha fatto – sibilò. Lei tacque incuriosita. - Quella di lustrare il mio palazzo con il suo sangue – fu cruento. - Non siete uno stupido ed io non voglio preoccuparmi inutilmente – lo salutò stizzita. Dunamis la seguì con gli occhi. Era stata abile nell’evitare il discorso su Eucide, il più scottante, focalizzando la sua attenzione su Dicaia. Lei lo leggeva, ma anche lui non era da meno.


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Capitolo IV IL FUNESTO PRESAGIO

Le Amazzoni avevano abbandonato i dintorni di Astos dopo il saluto della regina al suo signore che, attorniato dai comandanti, compreso Aimatos, aveva annuito, sancendo una salda alleanza. Non aveva parlato molto con quella donna degna del suo più alto rispetto e lei non aveva cercato troppi contatti con colui che le aveva permesso di realizzare il suo piano. Era consapevole della concessione ricevuta e sapeva che insistere su di lui lo avrebbe irritato. La sua soddisfazione stava nel fatto che l’amicizia con il figlio del lupo le avrebbe apportato notevole fama e onore. Cavalcò contro il sole infuocato seguita dalle guerriere nel silenzio della fine delle ostilità. I soldati di Dunamis rientrarono pacatamente e i loro comandanti seguirono il re. Il corpo di Eucide venne issato sulla torre e adagiato sul pavimento, mentre giungeva il tramonto e un’inaspettata brezza sfiorò i presenti. Schià, che si era occupata dei feriti, pietosa coprì l’amica di un tempo con un telo di lino bianco. Gli uccelli per l’intera giornata avevano banchettato su quel corpo. Alopex ancora ebbe un’amara espressione che lo allontanava dall’immagine che gli amici avevano sempre avuto di lui. Flogos, entrato più di tutti nella parte del soldato, impettito attendeva solo gli ordini. Aimatos non manifestò particolare commozione, piuttosto si chiedeva se tutto questo fosse stato necessario, ma non parlò, attento alle mosse del re che sino ad allora non gli aveva rivolto la parola. Dunamis si limitò a verificare che il rito fosse eseguito e, celato il volto dell’amazzone, si avviò verso le scale, diretto alla sala del trono. Superò l’ex schiavo come se non lo vedesse, ma lo vedeva molto bene, sentiva il suo respiro. Troppe cose erano mutate negli anni, negli ultimi giorni, nelle ultime ore. Troppe cose erano rimaste in sospeso e ora non avevano più motivo d’essere pareggiate. Troppo per il figlio del lupo. Raggiunse la sala e si sedette sul trono, trovandosi davanti i propri comandanti in attesa di ordini. Anche Schià era con loro e il re la guardò, inducendola a eludersi, senza però che rinunciasse a spiare ciò che sarebbe accaduto perché… in quella sala c’era lui, Aimatos. Rimase appiattita contro la parete del corridoio con le orecchie tese. Giunse in quel momento la regina e le fece un gesto per far intendere che era in atto una resa dei conti. Zaira comprese e con lei si mise contro il muro, sentendosi un po’ ridicola, considerando la


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propria posizione. L’amica le sussurrò qualche parola. Aimatos era davanti a Dunamis? Il signore della rocca guardò gli uomini al suo cospetto e si soffermò altero proprio su Aimatos che non gli toglieva gli occhi di dosso. Flogos e Alopex si resero conto di trovarsi al centro di una diatriba rimandata per anni. L’ex schiavo avanzò e il sovrano s’irrigidì. Gli fu a pochi passi. Accennò un sorriso. Dunamis non si mosse. Lo fissò: i ricordi ad accavallarsi al presente, le parole di un tempo a sovrastare i gesti di poche ore prima, i segni sul corpo dell’uomo a rammentare le frustate che gli aveva inferto. Colse in lui la provocazione, nella piega delle labbra sprezzanti malcelate dalla barba incolta. Ma Aimatos si appoggiò su un ginocchio, abbassò il capo. Attese che il re parlasse. Non lo fece, continuò invece a guardarlo, provando dentro un’immensa soddisfazione: non lo aveva mai piegato, non era mai riuscito a farlo prostrare al proprio cospetto, non aveva mai ottenuto da lui alcuna forma di rispetto. Adesso Aimatos d’Epiro, il ribelle amato dalle folle perché capace di opporsi al re più sanguinario dell’Ellade, gli stava riservando onore e riconoscimento. - Saluto te, Dunamis di Astos, potente e glorioso sovrano del regno caro ad Artemide virtuosa – disse solenne. L’altro non reagì. - E giungo al tuo regno per rendere omaggio a te ed alla tua sposa, sempre che tu voglia accettarlo nella grandezza del tuo essere - continuò senza alzare la testa. Finalmente il sovrano ebbe una reazione, anche se del tutto fuori luogo. Rise sommessamente e gli occhi blu dell’uomo lo cercarono. - Perché sei qui? – lo fulminò. - Il Fato ha voluto che le nostre strade s’incontrassero nuovamente ed io ho obbedito al volere del Fato che tutto dispone – fece per rimettersi in piedi. - Non ti ho concesso di alzarti – lo frenò. Lo voleva in ginocchio. Gli altri non dissero e non fecero nulla. Aimatos non rispose. - Nomini il Fato a sproposito, Aimatos d’Epiro. Vorrà dire che svelerò io il tuo mistero - si alzò per andargli davanti. - No, sarò io a dirti perché il mio ginocchio è flesso al tuo cospetto – lo interruppe. - Devo la vita a Zaira ed ho aiutato l’uomo che ha scelto. Ho pareggiato il mio debito con lei, anche se farlo mi è costato salutare Dunamis come fosse un grande uomo – volle essere allusivo, un po’ come ai vecchi tempi, come se niente fosse cambiato. Invece molto era cambiato e entrambi lo sapevano. - Zaira - ridacchiò e lo osservò in profondità, cozzando contro l’unico muro che aveva incontrato in tutta la sua vita.


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- Hai voluto dimostrarmi quanto vali, ti sei presentato con uomini a te fedeli, hai usufruito della libertà che io ti ho concesso e so esattamente cosa vuoi da me – non cercò sotterfugi verbali. L’ex schiavo rimase chino. - Non ti ringrazierò, Aimatos. Dunamis di Astos non deve ringraziare nessuno di voi, ciò che avete fatto sono stato io a concedervelo, vi ho permesso di mantenere le promesse che avete fatto ad Ansal forti di un’amicizia che non concedo a nessuno. Tu, come gli altri, hai dimostrato di essere un buon soldato ed Astos cara ad Artemide ha bisogno di buoni soldati – fu brusco. - Sono al tuo cospetto per chiederti ospitalità per i miei uomini che sono stanchi dopo giorni d’attesa – lo fermò. Dunamis non celò il proprio divertimento. - I tuoi uomini? Gli dei mi correggano! Aimatos il reietto è divenuto comandante! – asserì ferito da qualcosa che ancora non comprendeva. - Esaudisci la mia richiesta, potente, e lascerò Astos domani stesso – insistette fissando la pietra del pavimento. Il re parve riflettere e con un gesto diretto ad Atir dispose perché quella massa di derelitti potesse entrare nella rocca. Poi, forse stanco, forse teso, forse confuso, ma imperturbabile, lasciò la sala per fermarsi sulla porta e costringere Zaira e Schià a nascondersi in un anfratto celato da una grossa pianta. - Tu non lascerai Astos – disse. Aimatos si rimise dritto. - I miei compiti sono finiti – lo contraddisse. - Hai fatto l’errore di varcare le porte del mio regno, Aimatos, e sarò io a decidere quando potrai uscirne – fu autoritario, a tutti i costi direttore dell’orchestra che intorno a lui lo stava assordando. L’altro non ebbe il tempo di ribattere e lo vide scomparire oltre il velo nero della porta. - E così, dopo essere stati dei disertori ora indossate le gloriose uniformi dei comandanti di Astos! Un vero salto di qualità il vostro, non c’è che dire – disse Aimatos divertito, osservando i due amici un po’ offesi dal suo tono canzonatorio. Non ribatterono, seduti in fondo alla scalinata che portava al giardino, si godevano l’aria fresca della notte, mentre l’ex schiavo lasciava scivolare la mano nell’acqua della fontana di Artemide. La brezza iniziata al tramonto muoveva i salici dalle lunghe chiome. - Uniformi mai indossate da alcuno, lo sapete? – li interrogò. Flogos sbuffò seccato. - Solo Dunamis ha vantato il titolo di comandante in seconda dell’Esercito di Astos, quando suo fratello gemello Isos era re, il vero re del regno caro alla dea della caccia – continuò. - Tutto questo per dirci cosa? – sbottò Alopex nervoso. Aimatos alzò le braccia in segno di resa.


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- Nulla di male, amico mio, soltanto che le cose a volte mutano contro ogni previsione! – rise. - Sono d’accordo, tu sei all’interno di Astos e sei ancora vivo – lo provocò Flogos, irritato dai suoi modi baldanzosi. - Non hai capito, Flogos. Ancora una volta sono prigioniero del tuo re – Era deluso, come se si fosse aspettato qualcosa di meglio che un semplice atto di tolleranza. Per Dunamis restava un servo. - Hai paura – sussurrò l’altro. Aimatos sorrise. - Ho smesso di avere paura di lui nel momento in cui ho lasciato l’Acherusia libero – sbuffò. - Libero per suo volere – lo volle zittire. - La mia libertà me la sono conquistata tutta, Flogos di Cittera, e se lui non me l’avesse concessa, me la sarei presa uccidendolo, perché allora avrei potuto tagliargli la gola con il suo stesso consenso. O ti sei dimenticato il tuo signore in ginocchio nel fango? – sibilò e Alopex sospirò nauseato. Aimatos non era cambiato. - Continui ad avere solo paura, nient’altro e sei pronto ad attaccare prima di essere attaccato – concluse l’omone. - Potrei lasciare Astos in qualsiasi momento – affermò l’ex schiavo e la sua voce ebbe un tremito, mentre la sua attenzione si fissò verso l’oscurità del giardino. Percepì un movimento tra le fronde e tese l’orecchio. - Perché non lo fai? – lo interrogò allora l’attico. - Lo farò, quando tutto sarà compiuto – fu oscuro, ma i suoi occhi erano fissi nel buio, qualcuno li stava spiando. I due amici non lo capirono. Avrebbero voluto fargli altre domande, ma non fu loro possibile. Autolico, sbucato fuori dal nulla, avanzò con passo sicuro, del tutto indifferente ai rischi che stava correndo, trovandosi ancora all’interno di Astos. - Allora? Che si fa? – chiese. Gli uomini lo scrutarono. Erano pur sempre preposti alla sorveglianza del regno e lui era un pericolo per il loro re. Ma non ebbero né la voglia né la convinzione di contrastarlo. Era stato una pedina importante nel piano di Ansal, era una specie d’amico, un alleato che non aveva mancato di parola, nel paradosso della sua esistenza era stato onesto e leale. Non mossero un solo muscolo e tacquero. - Io direi di festeggiare, abbiamo vinto una guerra - propose allegramente e il primo a trovare allettante l’idea fu Flogos che fece un passo verso di lui. - Ci sto – Il nonno di Odisseo gli sorrise compiaciuto, avvolgendolo senza riuscirci completamente. Poi corse con gli occhi sugli altri che tentarono una difesa iniqua.


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- Dove pensi di poter festeggiare? – chiese Alopex, davvero irriconoscibile negli ultimi tempi. Autolico rise sonoramente, tanto da attirare senza saperlo l’attenzione distante del re che, da una finestra, vide la riunione in atto e rimase a guardare per scoprire cosa sarebbe accaduto. - Dove? Ma credi che il figlio di Ermes veloce conosca dei confini invalicabili? Ad Astos ci sono le donne più belle, il vino più buono e le locande migliori sono le più nascoste! Neppure il suo signore sa dove andare a prendere il meglio, ma… Autolico si, Autolico esige sempre il meglio! Seguitemi! – fece il solito elogio a se stesso. Dunamis lo focalizzò. Alopex si lasciò convincere senza entusiasmo. - E lui?– li frenò Aimatos imprevisto, facendoli voltare. - Chi? – gracchiò il ladro. - Il re – rispose. - Ma quello ha altro da fare, è re! – sbuffò il brigante cominciando a camminare, seguito dagli altri. Aimatos li osservò senza alzarsi dal bordo della fontana. - Il re al quale dobbiamo rendere conto – rammentò seccante. Poi Autolico tornò indietro di qualche passo e lo guardò dritto in faccia. - Devo dirtelo io cosa starà facendo il tuo re o sei abbastanza grande per immaginarlo da solo, Aimatos d’Epiro? – lo punzecchiò. - Non è il mio re – polemizzò. - Ecco, allora trovo ancora più stupide le tue remore che ci stanno facendo perdere del tempo prezioso! – concluse. Si trovarono davanti al cancello secondario. L’ex schiavo ci rifletté per qualche istante, poi fece spallucce e decise di unirsi alla compagnia, immaginando l’ira di Dunamis qualora fosse venuto a scoprirlo. Aveva ragione Autolico, non era il suo re, formalmente lo aveva fatto prigioniero e lui era solito ribellarsi alle imposizioni. - Dimmi perché siete qui, Fos – disse freddamente Dunamis, continuando a scrutare il giardino ora vuoto. La principessa, casualmente di passaggio in direzione della stanza di Dicaia, si fermò. Il re la guardò duramente. - Delle motivazioni di Aimatos posso anche infischiarmene, ma tu… devi avere un valido motivo per trovarti ad Astos – le disse deciso. - Io non ho nulla contro di te, potente… e tu non hai alcun motivo per odiarmi. Quale ostacolo avrei dovuto incontrare dentro di me? – parlò per prendere tempo. Dunamis era consapevole di avere a che fare con una persona superiore alla media, una donna che vedeva oltre l’umano e che aveva profonde conoscenze. - Il tuo sposo è Aimatos d’Epiro – le rammentò e lei lasciò cadere le spalle.


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- Non è qui per te, se è questo che vuoi sapere – lo interessò. L’uomo si appoggiò al davanzale interno della finestra. La brezza esterna gli sfiorò la schiena, dandogli un insolito brivido. - Ti ascolto – la incitò. Incrociò le braccia al petto. - Nulla ho da dirti. Non sono un’indovina e non vedo il futuro. Il Fato ha voluto che Ansal coinvolgesse ognuno di noi negli accadimenti di questi giorni e ci ritroviamo uniti nella disunione del passato, nello stesso punto dopo avere fatto di tutto per non rivederci più. Io non mi oppongo a questo volere, comprendo soltanto che ogni cosa ha un significato preciso. Semplicemente, percepisco che il mio sposo non è ad Astos per vendicarsi, per ucciderti o per danneggiarti. Qualcosa lo ha mosso – spiegò oscura più di prima eppure così suadente da riuscire per un momento a placare la tempesta in atto nell’animo del sovrano. Lui la osservò. - Un destino infame il mio… - si lamentò con un’ironia che non gli apparteneva. Fos inclinò il capo. - Circondato da coloro che meno avrei voluto accanto, artefice del destino dei miei peggiori nemici, impossibilitato a difendermi come vorrei – non c’era ira nel suo tono. Fos gli appoggiò una mano sul braccio. - Un destino strano, sono d’accordo… ma non infame, perché coloro che avresti voluto uccidere ti sono accanto con un affetto che tu non vuoi accettare. Ma sei il re e le tue scelte non sono discutibili – disse dolcissima. Il sovrano non abbassò gli occhi e sostenne i suoi. - Siete qui per Zaira, non per me – fu disincantato. - Anche per Zaira, ricordalo – concluse la principessa intenzionata ad andarsene. - Non ho fatto nulla per meritare il vostro affetto, Fos! Non tentare di ingannarmi su cose che anche un bambino capirebbe – la riprese duro prima di tutto con se stesso. Fos rise senza malizia. - Sei un uomo, Dunamis, e prima te ne renderai conto, prima il tuo cuore conoscerà la felicità che non ha bisogno di sangue per esistere – lo imbeccò e lo lasciò solo, preoccupata per Dicaia. Lui guardò ancora il giardino scuro e ascoltò il fruscio lieve dei salici. Forse l’estate torrida era finalmente terminata, anche se un po’ in anticipo. Pensò a questo per non pensare ad altro. Poi ricordò Aimatos, Flogos, Alopex ed Autolico impegnati a sgattaiolare fuori dal palazzo per gettarsi nella normalità del loro essere uomini, per lanciarsi in festeggiamenti certamente senza freno, per dimenticare i patemi che invece lui era solito macinare giorno e notte, vinto dalla propria responsabilità di re, dal proprio carattere irremovibile, dal proprio costante timore d’essere messo in discussione e anche, nel peggiore dei casi, detronizzato. Le parole di Fos non cessarono di echeggiargli


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dentro, l’idea d’essere uomo, o meglio… umano, lo confondeva. Non aveva scatenato la propria ira per amore di Zaira, lo ammise, ma si chiese se davvero quello era il solo motivo che gli aveva impedito di stroncare qualsiasi iniziativa, di uccidere i fantasmi del passato, di lasciare che Aimatos respirasse ancora. Non aveva paura. Non era atterrito. Scrutò la notte che sembrava chiamarlo nel perdono che l’alleanza con la Città Bianca gli aveva concesso. La notte lo stava invitando a un ballo a briglia sciolta e la brezza che ancora lo sfiorò sciolse il morso che gli serrava la bocca da sempre, facendogli male. Chiuse gli occhi e li riaprì. Accettò l’invito insistente della notte. Era ormai mattina, quando Zaira si alzò e si accorse dell’assenza del re. La sera prima era talmente provata dagli eventi che si era addormentata senza cambiarsi e senza cenare. Uscì dalla stanza e raggiunse un po’ esitante la torre dove sapeva giacere ancora il cadavere di Eucide. Due guardie la lasciarono passare e vide, illuminato dal sole già alto, il telo che copriva l’amica di un tempo. Riconobbe il suo profilo immobile sotto il drappo e ebbe un colpo al cuore. Si avvicinò prudente, come se da un momento all’altro potesse mettersi seduta e salutarla. Un brivido le percorse la schiena. Voleva vederla. Una sottile vena sadica la stava inducendo a guardare il volto spento dell’Arciere Bianco e i segni della rovina, perché le avevano detto che gli uccelli si erano divertiti con lei. S’inginocchiò e rimase in silenzio per alcuni minuti, mentre il mare poco distante si lamentava e i gabbiani, gli stessi che si erano nutriti dell’amazzone, gridavano felici. Scostò il telo dal volto del cadavere e lo guardò impassibile. Cercò spasmodica dentro di sé la pietà e ancora non la trovò. Il bene e il male, era difficile scindere le due cose. Parlava facile Dicaia, ma accettare il male di se stessi era difficile, impossibile per la sua cultura, per il suo modo d’essere, per l’educazione ricevuta. Il pallore violaceo di quel volto la turbò finalmente e tremò dentro. Ma non fu compassione, fu solo orrore per i segni dei becchi, il sangue rappreso e nerastro, le ferite post-mortem del pasto delle bestie. Chiuse gli occhi. La ricoprì e si rialzò. Voltandosi, incontrò Schià e Atir che erano arrivati a preparare il corpo per il funerale. Nei pressi della Selva di Artemide erano visibili alcuni schiavi che disponevano la pira funebre. - Sarà domani – la informò Atir con l’aria di circostanza. - Degna sepoltura a chi ci ha traditi – disse e li superò entrambi. Schià la seguì, rimandando l’aiuto al consigliere. - Non riesci a perdonarla? – le chiese. Zaira si fermò fulminandola con lo sguardo.


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- Mi avrebbe uccisa e tu lo sai – le ricordò. Si, lo sapeva, ma non era successo e Eucide faceva parte del loro passato, con lei vissuto avevano un’avventura straordinaria. Abbassò il capo fulvo e annuì mesta. Comprendeva la regina, come era sempre stata capace di comprendere il re. Un fragore le distrasse. Un nuovo fragore di metallo e ceramiche in frantumi le fece sobbalzare e percorsero celeri i corridoi sino alla sala del trono dalla quale proveniva un gran vociare. Videro l’incredibile. - Un inchino davanti alla regina di Astos! – ordinò Dunamis al gruppo di debosciati che evidentemente capeggiava, quelli caddero sulle ginocchia e oscillarono all’unisono. Il re si sedette sul trono e le due donne si guardarono. Li osservarono uno per uno: barcollavano e respiravano rumorosamente. Aimatos e Flogos si sostenevano a vicenda, facendo leva uno sull’altro, Alopex manteneva a stento l’equilibrio e Autolico non si sforzò, si lasciò cadere in avanti con la guancia incolta sulla fredda pietra. Lo sguardo del sovrano era annebbiato e un vago sorriso storto screziava la bocca. Il clamide gli scendeva da una spalla e il chitone nero era fradicio di vino. - Ti sono mancato, mia regina? – le chiese e accese una luce inequivocabile negli occhi più neri del solito per le pupille dilatate. Zaira alzò un sopraciglio. Lui sogghignò malefico, seguito dalle sonore risate degli altri. Giunsero delle ancelle che si mantennero a distanza. Dunamis puntò un dito verso di loro che lo raggiunsero. - Lenzuola ricamate d’oro per il mio amico Autolico! – dispose. Il ladro alzò il capo e si mise seduto con un sorriso inclinato sulla faccia attempata. - D’oro e d’argento! Le promesse sono promesse, figlio di un cane! Le rivenderò bene! – alzò un braccio. Dunamis approvò. - Dov’è il mio consigliere? – chiese dopo un po’ e Atir emerse dal nulla. Il signore della rocca lo osservò lungamente e ebbe un singhiozzo. - Vecchio e fedele servo che mi sei caro, disponi le stanze dei miei tre comandanti! – ordinò. Il vecchietto non si mosse, attendendo spiegazioni. - Le migliori del palazzo - si portò leggermente in avanti, restando però ancorato al trono. Se si fosse alzato sarebbe rovinato al suolo. Zaira strinse lo sguardo. - Tre comandanti? – ripeté. Dunamis la superò con gli occhi, come se fosse trasparente. - Giusto! La straniera venuta dal futuro conosce le regole meglio di me! – esclamò plateale, mentre gli altri risero ancora. Allora si alzò dondolante. Con il polpaccio mantenne il contatto con il trono per non perdere l’equilibrio. - Aimatos d’Epiro il glorioso ribelle, Alopex dell’Attica il mesto tradito e Flogos di Cittera lo zelante soldato… sono investiti del titolo di comandanti


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in seconda del grande esercito di Astos! – sentenziò solenne, come la regola richiedeva. Il figlio del lupo non era in sé, era ubriaco fradicio e la regina rimase senza fiato. Si sedette nuovamente sul trono e ordinò di portare altro vino. - Dovremmo aiutarli – disse Schià apprensiva. Zaira la scrutò. - A fare cosa? – - Non vedi come sono ridotti? – - Lo vedo – - Sono uomini, sapranno cavarsela – concluse seccata. Schià parve convinta. La seguì, lasciando quella compagnia di ubriaconi in balia di loro stessi, forse non avrebbero rammentato nulla a sbornia smaltita. Si fecero servire la colazione in un’altra stanza senza commenti, finché si creò il silenzio e compresero che dovevano essere crollati. Sbirciarono la sala del trono e videro i corpi riversi sul pavimento intorno allo scanno reale sul quale sedeva Dunamis. Non mossero un dito. Zaira osservò il re, sempre sul trono, e senza aspettarselo incontrò i suoi occhi arrossati e fissi: ebbe l’assurda sensazione che fosse, nonostante l’apparenza, pienamente raziocinante. Dicaia si poteva alzare dal letto, anche se Fos le concedeva soltanto di sedersi su una sedia sotto la piccola finestra. Poteva scorgere solo l’alternarsi del giorno e della notte e quando la principessa non era con lei, si sentiva sola e impaurita. Pensava a cosa avrebbe fatto una volta guarita, si chiedeva se la regina della Città Bianca avrebbe fatto un’eccezione per lei che aveva la colpa d’essere sopravissuta al nemico. Era stata stretta un’alleanza, molte cose erano cambiate e Ansal non era Tolma. Più ci rifletteva, più la testa le girava. La sera stava calando e si mise in piedi per raggiungere il letto. Fos presto le avrebbe portato da mangiare con il vecchio Atir. Le piacevano quei momenti, durante i quali chiacchierava con qualcuno. Non appena si appoggiò sul cuscino sollevato, sentì l’armeggiare della porta e sorrise. Non entrò chi si aspettava. Riconobbe l’uomo che aveva detto d’averla salvata, appoggiato con un braccio allo stipite della porta oscillava e la fissava con gli occhi arrossati. Indossava l’uniforme dei comandanti, per questo non gli era stato impedito di entrare. Chiuse la porta. Avanzò verso di lei che s’irrigidì e si rese conto di non potersi difendere, di essere disarmata e facile preda. Cosa voleva da lei? Rammentò l’astio che aveva dimostrato e il suo tono sprezzante.


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- Dicaia della Città Bianca, è questo il tuo nome? – le chiese. Era ubriaco. Tremò, si agitò e tentò di scattare giù dal letto. Lo sforzo riaprì la ferita sotto le bende. - Io non ricordo il tuo nome – blaterò scatenando una sua disgustosa risata. Lo ebbe a pochi centimetri, appoggiato sul ciglio del letto, il fiato di vino, gli occhi lucidi e il raziocinio a brandelli. - Alopex dell’Attica, bastarda serva del sovrano di Astos – non celò il disprezzo che aveva dentro nei confronti di quella che lui considerava una razza a parte, una genia da estirpare. Dicaia notò che aveva la spada, segnale inequivocabile che non era in sé. Era un amazzone, lo ricordò a se stessa, mentre il dolore al petto le tagliò il respiro. - Ti devo la vita - temporeggiò. - Non voglio la tua lurida gratitudine, cagna rognosa come la era Eucide di Argo – le soffiò in faccia. Lei socchiuse gli occhi. Poi li riaprì, bloccando per un secondo il suo assedio. - Eucide di Argo non era un’amazzone – sbottò. - La è diventata… e questo mi basta per odiarvi tutte – Era seduto sul letto, intenzionato a portare sino in fondo le proprie intenzioni. - Non mi ha mai voluto, lo sai? – fu volgare. - Cosa si è persa quella sgualdrina che invece voleva Dunamis! – esclamò e rise, rise terribile, acuto e poi… disperato in una bassa ironia. - Vorrà dire che sarai tu a farle sapere quanto sciocca sia stata, quando la raggiungerai al cospetto di Caronte e viaggerai con lei verso la dimora di Ade il ricco – aggiunse. La donna ebbe un brivido, come ogni acheo che udisse il nome del dio dell’Oltretomba. - Non costringermi ad ucciderti, Alopex – lo minacciò ridicola, vista la posizione in cui si trovava. L’uomo si mise a cavalcioni su di lei, bloccando così ogni suo movimento. - Uccidimi, maledetta. Vediamo cosa riesci a fare – allargò le braccia, stupido nella superiorità che esercitava su una donna ferita. - Non lo voglio fare – Completamente offuscato Alopex non colse e quando si ritrovò la propria spada puntata al petto, ebbe un attimo di smarrimento. La donna lo aveva disarmato. - Alzati e vattene – gli ordinò, ma lui sadicamente si sedette sul suo addome e il dolore la fece mugolare mentre la spada cadde al suolo. - Bene, ci siamo presentati – concluse. Le fu addosso, pesante e senza freno. Dicaia non riusciva ad urlare, ogni respiro le dava delle sferzate impossibili da sopportare. Non lo implorò neppure di fermarsi. Lacrime calde le scesero


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dagli occhi, mentre il sangue della ferita riaperta iniziava a macchiare la tunica e poi le lenzuola. La porta, alle spalle di Alopex, si aprì con uno schianto e lui saltò per l’imprevisto rumore, facendo lamentare la poveretta che perse le ultime forze. Si voltò e vide il re. Stranamente lui non sembrava ubriaco. Il figlio del lupo non parlò, si limitò a guardarlo duramente e lo costrinse silenziosamente a lasciare il letto, recuperare la spada e attendere. Entrò, lo superò e verificò a distanza che lo stato della prigioniera era peggiorato. - Non è forse questo che tanto amava di te Eucide? – sparlò il soldato, biascicando. Dunamis non replicò e gli ordinò con un gesto di seguirlo. Incrociarono Fos nel corridoio che comprese ciò che era accaduto e corse per soccorrere Dicaia. Raggiunsero la torre ove ancora giaceva Eucide, avvolta in un telo bianco. Il re strappò la stoffa e poi guardò Alopex che distolse lo sguardo. Veloce lo scaraventò a terra accanto al corpo. Con una sola mano avvicinò il suo volto a quello ormai irriconoscibile della donna. - Avevi chiesto il sangue di Eucide ed io te l’ho dato! Non ritieni sufficiente il dono del tuo re? – gli ringhiò all’orecchio facendolo cadere carponi. - E non ti ho chiesto nulla in cambio. Ora sarai tu ad accendere la pira funebre dell’Arciere Bianco e la guarderai ardere e dissolversi nel nulla – aggiunse e lo lasciò solo con il cadavere repellente del suo passato, di quello che lo stava tormentando, che lo stava facendo impazzire e che, con l’aiuto di una sonora sbornia, gli avrebbe concesso la vendetta. - Destino infame il tuo - volle provocare il sovrano che si fermò. - Costretto a difendere un’amazzone per la “ragione di stato”, quando tu sei sempre stato il primo a farne delle cagne da divertimento – ridacchiò amaro mentre le labbra scure di Eucide lo turbarono. Il figlio del lupo non replicò e abbandonò la torre, la testa iniziava a dolergli. Zaira, a cavalcioni sulla balaustra della terrazza, percepì l’arrivo del re nella sala del trono. Il tramonto aveva dato il passo ad uno scuro crepuscolo e la brezza che insisteva da un paio di giorni dava un po’ di sollievo. Non si mostrò e lo osservò, mentre raggiungeva il trono per sedersi e portarsi una mano al capo. Si era ripreso prima del previsto, anche se doveva sentirsi uno straccio. Le poche torce accese lo illuminavano appena, regalando a Zaira il suo profilo, il respiro un po’ affannato e lo sguardo lucido. Rimase a contemplarlo. Sfiorò la collana che aveva al collo. Lo trovava comico e disgustoso nel medesimo tempo.. - Vi hanno riconosciuto nella locanda preferita di Autolico? – chiese improvvisa. Lui la cercò con gli occhi arrossati. Prese fiato. Non riusciva a vederla bene. Era esausto e pallidissimo.


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- Tutti – dichiarò. Zaira ridacchiò. - Gran bella figura – balzò sul pavimento per scrutarlo da vicino. - Autolico… è un affabulatore - blaterò. - Date la colpa ad Autolico per quello che è successo? – lo riprese e Dunamis la fissò, con il capo che pulsava sempre più forte. Non ricordava di essersi mai preso una sbornia simile, anche se durante i banchetti era solito bere. Chiuse gli occhi che non sopportavano neppure la luce fievole dei fuochi distanti. - Assolutamente no. Anche se Autolico ci ha messo del suo, inscenando una pantomima che ha tessuto i miei elogi. Ah! E’ un uomo impossibile, un ribelle che non sa moderare i termini ed i comportamenti - si lamentò, aggrottando le sopraciglia in cerca di un improbabile sollievo. - Glielo avete permesso – gli fece notare. - Come tu hai permesso che Eucide fosse massacrata – la colpì. Zaira si incupì. - Non voglio parlare di lei – sbottò. - Neppure io, sei tu che m’interessi – le fu alle spalle, il fiato sul collo. - Siete ubriaco, maestà - tentò di tagliare corto. Si voltò per andarsene, ma lui glielo impedì e cozzò contro i suoi occhi sempre irresistibili, ma voleva stare sola, il nome dell’amazzone l’aveva spenta in un secondo. - Sai bene che non lo sono affatto - le disse. Infatti non lo era e lei considerò l’idea che la scena cui aveva assistito nella sala del trono altro non fosse stata che una recita, sebbene il fiato puzzasse del pesante vino acheo e gli occhi erano stanchi. - Allora, come ci si sente a scoprire che ciò che un tempo t’inorridiva adesso non ti sfiora e che la vendetta stranamente appaga? – la interrogò. Lei finse di non capire e tentò di sgattaiolare via. - Non ti permetterò di andartene. Voglio una risposta mentre mi guardi in faccia – le ordinò. Che cosa gli importava dei suoi sentori? Non voleva parlarne! Le dita del sovrano sfiorarono le sue labbra e lei tremò. - Ci somigliamo, vero? Quel cadavere sulla torre ti colma di un’inconfessabile soddisfazione – insistette insinuante. Zaira scosse il capo per ritrovare se stessa. Ebbe l’impressione di essersi smarrita, di non essere più la giovane donna giunta dal futuro con buoni propositi, pronta a fermare le nefandezze di quel tempo, consapevole della regressione culturale che viveva, ma determinata a non lasciarsi coinvolgere. Invece aveva scoperto di sé quel lato crudele vietato nel suo tempo, un modo d’essere inaccettabile per la sua civiltà, inconfessabile nelle strade del mondo dal quale veniva. Le sembrava d’essersi trasformata, di non riuscire più ad amare davvero, d’essere più bestia che essere umano, esattamente come era sempre stato il


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re di Astos. Allora? Dov’era il dilemma? Lo aveva sempre amato per quello che era. Le sembrò un gioco sadico trovarsi davanti a lui che era lo specchio di se stessa, l’ombra della luce che aveva creduto, o voluto, essere tronfia di una superiorità che adesso, come in un sortilegio, era svanita. Figlia del futuro, si sentì, per la prima volta, figlia del passato, quel passato cancellato negli istinti dall’evoluzione. Tutto questo avrebbe dovuto dirlo a Dunamis? Avrebbe capito? Si sentì sola, certa di non poter essere compresa. Chinò il capo sconsolata, sentendosi in colpa per la scarsa fiducia che in realtà gli riservava. Chiuse gli occhi ammettendo che in fondo lo considerava ancora, come i primi giorni della loro conoscenza, un selvaggio ignorante, insensibile e ottuso. Questo mise in dubbio lo stesso amore che da anni blaterava di provare per lui. - Ricordo il tuo tempo, ho potuto scorgerlo e comprenderne gli insoliti risvolti, le ferree regole della giustizia, del rispetto, dell’umanità. Ricordo bene il tempo dal quale ti ho portata via, rumoroso eppure ordinato, più affollato del mio eppure più pulito, preciso e squadrato con dimore altissime e percorsi senza massi ad ostruirli… - la interessò dopo un po’ e nel tono della voce non riconobbe la trivialità di sempre. - Allora capii la tua linearità, il tuo modo di pensare distante dal mio, l’obbligo morale che t’imponeva comportamenti e scelte. Ti capii allora, rivedendoti con i tuoi abiti essenziali, privi di fronzoli come di colore, tagliati addosso. Compresi la tua dualità, i tuoi due lati opposti, contrari a se stessi, figli di due impulsi naturali. Sapevo che dentro di te albergava anche quello oscuro, obbligatoriamente represso dalla nascita – e la indusse a guardarlo in faccia. Da dove venivano quella saggezza, quelle conoscenze, quelle conclusioni così perspicaci? Attese che continuasse. - Essere crudele per la tua gente è cosa disdicevole – concluse. - Lo è – ritrovò la propria obiettività. Dunamis sorrise. - A volte, non sempre – ribattè serio. Lei lo interrogò. - Non mi avresti amato se davvero non avessi accettato la bestialità che dimora in ognuno di noi, se non avessi saputo che in ogni essere umano ci sono il bene ed anche il male ed il male a tratti emerge perché… è più comodo e dà risultati immediati – la meravigliò. Cosa le era sfuggito di lui in quegli anni? Cosa era sfuggito a tutti del figlio del lupo? Cosa si era persa? Dove era stata? O meglio, aveva fatto delle scelte decisive senza avere una panoramica globale? Un minuto prima lo aveva visto come un ignorante senza troppo cervello e ora le sembrava di ascoltare un saggio. Lo studiò nel timore d’essere schernita. - Questo per farmi sapere… - blaterò.


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- Che tu ed io siamo simili, in noi abbiamo il bene che ci serve poco nelle situazioni di pericolo, ed abbiamo il male che ci difende dai nemici, dalle guerre ma specialmente dai dolori – le accarezzò la guancia dolcemente. Dunamis dolce? Non lo era mai stato, di lui si poteva dire tanto, cose eclatanti, ma che fosse dolce… no! Il suo stesso modo di respirare era graffiante, ma in quel momento Zaira colse in lui una tenerezza ed una dolcezza che la abbagliarono e la lasciarono inerme. Fu come se la sua mente avesse fatto un’eccezione per lei, come se un dolore immenso fosse emerso dai meandri del suo animo scuro per riversarle addosso una spiegazione che nessuna notte d’amore avrebbe potuto sostituire. Per la prima volta scorse nella piega del suo sorriso inclinato l’ombra poco definita di una sofferenza sempre celata, ma viva ed ogni giorno più intensa. - Non biasimare te stessa per non aver versato una lacrima per la morte di Eucide, non crucciarti per averne avallato l’uccisione. In passato sei stata capace di salvare la vita di un uomo, rischiando la tua. Il tuo animo è salvo, non cercare di cambiare perché sei quella che sei e niente potrà mutarti, neppure gli sforzi più estenuanti – le disse ancora e ancora le accarezzò la guancia, inebriandola di una sicurezza che ultimamente era vacillata. Poi i suoi occhi stanchi s’illuminarono nuovamente del bagliore un po’ ferino che li caratterizzavano e Zaira lo riconobbe. Sorrise impacciata, di ritorno da una dimensione insperata e abbassò il viso. - Sapete comprendermi come non credevo, maestà, e vi ringrazio. Le vostre parole hanno lenito il mio smarrimento – ammise e lo abbracciò, posando il capo sulla parte sinistra del petto in ascolto del suo cuore. Dunamis l’avvolse come un sicuro mantello e la strinse così forte da toglierle il respiro. Si guardarono e si baciarono con la forza della passione che si accendeva quando erano vicini, quando il tempo si fermava per il loro amore. Zaira non lo fermò, la notte interrotta dalla guerra era tornata più infiammata di prima e aprì le palpebre verso il cielo, quando l’abito scivolò via e le mani inesorabili del re la cercarono, la emozionarono, la eccitarono ed infine la presero in uno slancio irrefrenabile che li fece cadere a terra, protetti dal silenzio scandito dalla risacca del mare e dal frusciare lieve dei salici. Dunamis non si fermò, ubriacato dai gemiti della sua sposa, inebriato dalle carezze celeri e fugaci di quelle mani leggere sulla schiena scoperta, vinto dal desiderio rimandato in quei giorni difficili e pesanti. In quegli attimi di adulta spensieratezza dimenticò ogni cosa, il dolore che aveva rivangato pochi istanti prima, se stesso… per fare felice lei, per farla fremere, per farla piangere di gioia e digrignare i denti di piacere. Dimenticò e volò così alto da credere ingenuamente di non tornare più, di poter abbandonare Astos e le sue tribolazioni senza rimpianti. Dimenticò d’essere il figlio del lupo e stillò


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il gusto unico dell’essere uomo e di esserlo sino in fondo, senza freni e senza assilli, senza maschere e senza difese. Dimenticò, nel salto finale, l’importanza delle cose cui teneva tanto e si schiantò dolcemente nel limbo fragile dell’appagamento, breve lasso di tempo, frettolosa concessione della natura ai suoi servi che erano gli esseri umani. Poi tornò alla realtà e trovò stupendo il viso della regina, illuminato dalla luna, truccato mirevolmente dall’amore che continuava a trovare in lei. Gli occhi s’incontrarono e il silenzio delle loro bocche scandì respiri attoniti. Il mesto corteo funebre lasciò Astos al sorgere del sole e la brezza proveniente da occidente si fece più sostenuta. In testa vi era Dunamis, seguito da Aimatos e Flogos nonché da Alopex, costretto a trasportare, davanti a sé sul cavallo, il corpo avvolto di Eucide. Alcuni soldati li circondavano. A osservare i movimenti dalla torre più alta della rocca c’erano Zaira, Fos e Schià, l’unica commossa e con gli occhi lucidi. Giunti alla pira funebre gli uomini si fermarono. Il re volse lo sguardo ad Alopex. La sera prima l’aveva combinata grossa e l’ira del sovrano si era limitata ad imporgli quell’obbligo. Rassegnato scese dalla groppa, prese in spalla il fardello e raggiunse la catasta di legna. Uno schiavo gli porse la torcia. L’attico diede un’ultima occhiata a quello che ormai era un fagotto e ripensò al volto martoriato di Eucide, alle labbra livide, al pallore violaceo. Non aveva rimpianti, con la rabbia ancora a graffiarlo dentro come un gatto furioso. Attizzò le frasche che crepitarono e fecero un gran fumo, poi le fiamme si ravvivarono e i servi intorno attizzarono altri punti. Il fuoco divampò alimentato anche dal vento ed Alopex dovette indietreggiare per il forte calore. Rimase a osservare il rito funebre senza parole e senza emozioni, consolato solo da quella che lui considerava una giustizia voluta dagli dei e realizzata dagli uomini: i bastardi dovevano morire, tutti i bastardi, tutte le bastarde. Sorrise feroce, gli occhi più scuri per la soddisfazione che non nascose e i tre uomini a cavallo ne rimasero turbati. Le donne dalla torre scorsero il fumo nero che salì verso un cielo iridato dell’alba. Schià pregò gli dei perché fossero magnanimi, anche se sapeva che non ci sarebbe stata pietà oltre la vita, che non ce n’era per gli eroi e non ce ne sarebbe stata per Eucide. Zaira trattenne un’improvvisa commozione, trasalì e costernata batté le palpebre. Si accorse che il fumo stava assumendo le sinistre sembianze di un enorme pipistrello ad ali spiegate. Indietreggiò, ma non distolse l’attenzione. Anche Fos si accorse di quella manifestazione e la cercò per essere certa di non avere le allucinazioni. L’amica era pallida e confermò i suoi timori. Non era un buon segno quello, no…


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Nello stesso momento, nei pressi della Selva di Artemide, Dunamis vide la stessa cosa e ebbe il medesimo timore a percorrergli le vene. Anche Flogos scorse quel segno funesto e tremò, cercando di dire qualcosa, ma un’occhiata del sovrano lo fece tacere. Aimatos si appaiò al re e strinse lo sguardo sulla strana sagoma che li sovrastava. Si scrutarono, accomunati questa volta da un brutto presentimento. Il rito funebre proseguì senza interruzioni, nel cuore del sovrano si fece strada un forte senso di disagio che non diede a vedere. Solo dopo un po’ Alopex rimontò sul cavallo. - Può darsi che non significhi nulla – asserì, anche lui aveva visto. - Ne sei convinto? – indagò Aimatos. - Di cosa stiamo parlando? – sdrammatizzò allora, sforzandosi di sorridere. - Lo hai visto anche tu quel fumo – - E’ stato solo il vento… - affermò, ma un tremore lo tradiva. - Un vento insolitamente sostenuto – sottolineò Dunamis. - Solo gli dei conoscono la verità – sbottò Flogos. - Certo, solo gli dei – concluse il figlio del lupo. Gli dei… Spronarono i cavalli in direzione del regno, lasciando agli schiavi le ultime incombenze per mettere la parola fine sulla morte e la sepoltura di Eucide di Argo, ultimo Arciere Bianco della Città Bianca. Era mattina. Dunamis si affacciò al palco che dava sull’arena. Rimase immobile a guardare gli addestramenti con i tre comandanti a dirigere le esercitazioni. Semicelato dall’ombra restò in silenzio, come se stesse assistendo a un sogno e si chiese se era stato il Fato a volere il ritorno di chi avrebbe voluto dimenticare. Ricordò la sera in cui si era ritrovato tra loro, dopo averli seguiti sino alla bettola preferita di Autolico, la peggiore di Astos ovviamente. Regale era comparso nel locale e i presenti pietrificati avevano avuto paura, mentre lui li sfiorava con lo sguardo tagliente. Poi tutto era precipitato incontrollabile e velocissimo, il brigante aveva dato il meglio di sé per dare il benvenuto al re di Astos e Alopex lo aveva appoggiato, aiutato dal vino che si era affrettato a ingurgitare prima del suo arrivo. L’oste aveva osannato l’onore che gli era concesso, quello di poter ospitare il potente sovrano di Astos cara ad Artemide virtuosa. Alopex e Autolico lo avevano trascinato nei bagordi, tra il vino che scorreva a fiumi e le donne che ballavano succinte sui tavoli con la musica stonata di scadenti suonatori. Lui, con gli occhi di Aimatos e Flogos addosso, aveva lasciato che accadesse ogni cosa senza obiettare. Sorrise tra sé, poi s’impose di non farlo, era difficile accettare l’appagamento che aveva conosciuto, cessando d’essere un uomo solo.


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Osservò Alopex e Flogos nelle uniformi nere, dopo essere stati disertori, dopo avere abbandonato Astos al fianco di Aimatos, dopo essere fuggiti da lui perché contrari alle sue decisioni feroci, prima fra tutte le frustate inferte allo schiavo ribelle. Rammentò il momento in cui li aveva riconosciuti, l’intenzione di condannarli a morte e poi la propria volontà di lasciarsi abbindolare dalle loro promesse. Si sentiva salvo, perché sin dall’inizio tutto questo lo aveva permesso lui con una faticosa tolleranza. Si sentiva salvo, perché dentro di sé poteva giustificare quella situazione: avere dei fidati collaboratori apportava dei vantaggi che da solo, nonostante il suo valore, erano limitati. Certo, avere dei sottoposti che controllavano le fila dell’esercito limitava i rischi di rivolta e rendeva i drappelli più sincronizzati, con la possibilità di effettuare degli attacchi a turni in caso di guerra. Si, tutto poteva avere il suo lato positivo. Ma a disturbarlo c’era la fermezza di Flogos, la sua obbedienza, la sua forza fisica a disposizione, la sua freddezza priva di opinioni, mai in contrapposizione con lui, un buon soldato, senza dubbio. E c’era la rabbia di Alopex a fare il resto, le sue parole ed i suoi gesti che tanto gli ricordavano se stesso, ciò che sapeva essere. Erano elementi validi, duro ammetterlo, ma era sempre stato così, la polvere che gli avevano fatto mangiare in passato ne era la conferma. Poi la sua attenzione si posò su Aimatos, impegnato come gli altri, ad addestrare una massa di mercenari senza patria, probabilmente assassini e truffatori, alcuni di loro provenienti dalla lontana Africa, gente del deserto, uomini altissimi, neri e robusti. Aimatos non aveva deluso le aspettative di un tempo, quando lo aveva comprato al mercato di Delfi per farne il suo secondo. Poi le cose erano degenerate, la morte di Sirta aveva minato la stabilità dell’uomo, lui non aveva fatto nulla per fargli sapere che la sua sorellina tanto piccola non era mai stata. Era storia trascorsa e ora la sua certezza di poterne fare un condottiero veniva confermata, in fondo sapere di non essersi mai sbagliato lo inorgogliva salvandolo ancora. Lo seguì con lo sguardo stretto, mentre sosteneva una lotta con una recluta. Udì i suoi ringhi e rivide quegli occhi blu fissarlo feroci con la rabbia che lo aveva portato a un passo dalla morte e sarebbe morto se non fosse stato per Zaira, quel giorno, alle prigioni. Certo, Zaira aveva sancito il destino di entrambi, quello che ora, dopo tanti anni, si stava compiendo. Era difficile accettare la presenza dell’ex schiavo, il suo orgoglio ferito, perché inchinarsi davanti al figlio del lupo doveva essere stato doloroso. - Non è stato facile per lui – lo sorprese Fos regale nelle movenze che evidenziavano la nobiltà di sangue. La guardò privo d’espressione, la sentiva particolarmente vicina, perché figlia di un re, un re reietto e maledetto dagli dei, ma pur sempre un re.


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- Sapere chi in realtà fosse sua sorella è stato un colpo molto forte, comprendere che la tua spada è stata mossa dalla giustizia degli dei e non dal tuo animo turpe, è stato terribile per lui – aggiunse, osservando il suo uomo. Dunamis lo scrutò e apprezzò la sincerità della donna. - Cessare di odiarti è stato un po’ come morire per lui, un vuoto enorme lo ha travolto, quando abbiamo lasciato l’Acherusia. Il nostro amore lo ha salvato, la profonda amicizia che nutre nei confronti di Zaira lo ha riportato ad Astos, il bisogno d’aiuto di Ansal lo ha rinvigorito e gli ha permesso di raccogliere gente come lui, schiavi e reietti, per farne un esercito – disse commossa. - Spesso mi racconta del male che hai saputo infliggergli – sussurrò. Il sovrano s’irrigidì. - Dovrei pentirmi di questo? – si difese. - Dunamis di Astos non conosce il pentimento, è coerente e deciso. No, non devi pentirti di nulla. Ciò che più racconta di te non sono le frustate o l’obbligo di strisciare nel fango al tuo cospetto. No, sono le tue parole ad essergli rimaste dentro – disse e Dunamis sogghignò soddisfatto. - Nelle sue vene non scorre il sangue eletto della nobiltà, quello che invece tu possiedi ed accettarlo è stata la sua più grande ed inconsapevole vittoria. Inchinarsi al tuo cospetto ha sancito la sua inferiorità nei tuoi confronti – concluse, ma al figlio del lupo non sfuggì un vago tono menzoniero che in lei stridette. Incontrò i suoi occhi grigi e per la prima volta la ragazza vacillò. - Aimatos non è mai stato particolarmente intelligente – sorrise senza che lei replicasse. - Una vera fortuna per me – fece per andarsene, deciso a tagliate quel discorso. Fos non colse, non lo lesse dentro e gli si parò davanti un po’ adombrata. - Quieta il tuo cuore, Fos di Parga, nessuna sventura vi attende e siate i benvenuti ad Astos cara ad Artemide divina – le disse leggermente ironico. - Cos’hai in testa, Dunamis? – volle sapere un po’ timorosa. - Nulla – la esaudì quasi distratto. - Stai mentendo – Lui si avvicinò, facendola indietreggiare sino alla parete e la fissò dritto negli occhi. - Non sono io a mentire. Sei tu che stai tacendo una verità che neppure il tuo sposo conosce. Hai contato su di me ed io non ti deluso, vero? Hai contato sul sangue che ci accomuna, Fos di Parga, regina di Parga cara ad Ades l’invisibile ed ora il tuo sposo non mi è più inferiore… anche se stai tentan-


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do di farmelo credere – le entrò dentro come sapeva fare. Lei tremò davanti alla sua fermezza. Non negò e non confermò. - M’inchino davanti alla furbizia che ti ha fatto ottenere esattamente ciò che volevi, ma non chiedermi di più, sia il Fato a disporre per il tuo sposo - sussurrò. Fos sostenne il suo sguardaccio. Poi abbassò le spalle. - Sono una regina senza regno, potente – gli ricordò mesta. Dunamis rise e si avviò verso l’interno del palazzo. - Ma pur sempre una regina, Fos – Rimase sola e volse lo sguardo ad Aimatos che sotto il sole impartiva ordini a quella massa di selvaggi che era certo di poter far diventare valenti soldati. Ingannare Dunamis era impossibile e lei lo aveva sempre saputo. Non aveva mai sperato di potergli celare la verità che lui aveva compreso dal momento in cui aveva finto di crederla una donna del deserto. Si chiese se ora le cose sarebbero davvero cambiate, ora che il figlio del lupo, a denti stretti e pugni chiusi, li aveva graziati tutti.


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Capitolo V L’OSPITE

Il vociare proveniente da una stanza fermò Dunamis lungo il corridoio. Ascoltò attentamente e individuò le voci allegre e sghignazzanti di un uomo e di due donne. Si trattava di alcune delle sue serve. Fece per entrare, quando la porta si spalancò. Una ragazza seminuda si scontrò con lui che la squadrò dalla testa ai piedi. Alzò un sopraciglio nella tacita richiesta di spiegazioni, lei s’affrettò a coprirsi e si prostrò ai suoi piedi. - Mio re - sussurrò, la salivazione azzerata. Era giovane, ma non giovanissima, carina, anche se non bellissima. Il re la superò con gli occhi e osservò il letto disfatto, sotto le coperte c’era qualcun’altro che si mosse. Avanzò ignorandola e lei rimase con il capo chino. Ai piedi del talamo percepì un respiro affannato. Osservò le lenzuola ricamate d’oro e d’argento. Non se ne andò. Dopo un po’ i capelli scompigliati e grigi di Autolico emersero e con lui una donna attempata. Il ladro sorrise e si sedette, incurante di scoprire la sua compagna che recuperò un lembo del telo. - Ancora qui? – si rivolse al brigante che non provò alcuna vergogna. - Sono tuo ospite – gli rammentò e si alzò con il lenzuolo avvolto intorno al bacino. La schiava nuda si mise fulminea a pancia in giù. Dunamis la guardò appena e ebbe un’espressione di disgusto, ma non dovuta alla situazione, a lui assai familiare, piuttosto alla scelta del vecchio! Ad Astos c’erano donne più belle. Tornò sul ladro che sorseggiò del vino con l’aria di un principe a casa propria. Le donne si elusero senza essere fermate e Autolico si stiracchiò come un gattaccio arruffato. - Mio ospite - sottolineò il signore della rocca. - Ho sentito dire che tra qualche giorno ci sarà una festa ad Astos! – cambiò discorso il vecchio e il re non parlò per vedere sino a che punto quel farabutto sapeva arrivare. - Quali abiti indosserà il figlio di Ermes veloce per la grande occasione? – gli riservò un sorrisetto suadente. Era sfacciato, irrispettoso, privo di maniere e d’educazione, convinto d’avere diritto a tutto per il semplice fatto che in ogni caso lo avrebbe potuto ottenere. - Le catene, Autolico, indosserai le catene ed il tuo posto sarà nelle mie prigioni – sibilò l’altro che avrebbe sul serio voluto credere di poterlo fermare.


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- Avevo sentito dire che la parola di Dunamis è una sola – lo stuzzicò. Il sovrano ricordava la sera dei bagordi, quello che avevano fatto insieme, ciò che aveva permesso a ognuno di loro. La sbornia colossale non lo aveva offuscato neppure per un attimo, piuttosto aveva allentato i freni cui era avvezzo e di parole ne aveva dette troppe. - Sei furbo, come sempre – concluse, cogliendo la sua soddisfazione. Se ne andò rassegnato e fedele alle promesse fatte. - Gloria al figlio del lupo che rispetta le leggi di Zeus potente con la sua ospitalità senza eguali! – esclamò Autolico e lui sbuffò irritato. Certo, gloria al re di Astos… che stava meravigliando tutti, anche se stesso! Gli scappò un sorriso divertito, uno solo, quando incrociò Schià che si fermò e chinò il capo in un saluto obbligatorio. - Sola? – le chiese. Lei annuì timidamente, le sue finzioni iniziavano a seccarlo. La squadrò insistente. Si avvicinò a lei che non indietreggiò. Con un dito le sfiorò il mento ed un sorriso capzioso gli inclinò le labbra, facendola arrossire. - Dove stai andando così di fretta? - domandò lentamente. - Alcuni soldati stanno ancora male, sto andando da loro per fargli servire il pasto, perché non sono in grado di alzarsi e… - balbettò agitata, desiderosa solo di allontanarsi da lui che sapeva metterla in un forte imbarazzo da quando l’aveva portata con sé sul palco dell’arena per farle sapere che Flogos era vivo. Lo aveva insultato in quell’occasione e non aveva avuto modo di scusarsi. Non le riusciva facile chiedergli perdono e non sosteneva più il suo sguardo. - Una delle mie serve migliori a quanto vedo - asserì. - Sarà un peccato non godere più del tuo zelo, non avvalermi più dei tuoi servigi. Mancherai a quei poveretti che certamente ti devono molto - fu oscuro. Riuscì a guardarlo in faccia, trascinata dal timore che il suo tono sapeva infonderle. Dunamis giocò con lei e con il silenzio che seppe creare, temporeggiò, lasciando che il suo piccolo cervello costruisse castelli funesti e condanne terribili. Schià era ingenua con degli sprazzi di saggezza e di furbizia, oppure con degli slanci di rabbia che a volte la facevano somigliare a un cucciolo messo all’angolo. Dentro di lei c’era la determinazione delle sue convinzioni, amenità infantili che l’età non avrebbe cancellato. Credeva nell’amore, nell’amicizia, nella potenza dei sentimenti. Era umana sino in fondo, era una donna perfetta nell’aspetto e nell’anima e Flogos, opposto a lei, la compensava, facendone una bambina cresciuta capace d’essere persino sensuale. - Sei la sposa di un comandante di Astos, lo sai? – ruppe la tensione. - Da quando? – sussurrò, sopraffatta da lui.


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- Probabilmente dal giorno in cui ti sei fatta trovare nel giardino del mio palazzo – rispose - Gli abiti che porti non sono consoni al tuo rango – e osservò il peplo consunto che indossava. - Non possiedo altro – disse. - Ne sei certa? – la incuriosì. Inaspettato con un gesto del capo la incitò a raggiungere la stanza assegnata a Flogos. - Cosa state cercando di farmi capire? – si fece sospettosa. - Nulla che tu non abbia già compreso da tempo – la superò improvviso. - Dunamis – lo richiamò. - Non vi ho ancora chiesto perdono per avervi offeso - osò. - Lo hai fatto in quest’istante e può bastarmi – concluse. Camminò veloce per non ritrovarsi coinvolto nei suoi slanci di gioia che forse potevano fare piacere, ma che erano altrettanto imbarazzanti. Quella sera l’entusiasmo di Schià riuscì a far dimenticare l’insolito abbassamento della temperatura che, attraverso il vento, penetrava nel palazzo già gremito di ospiti. Non smetteva di parlare e di volteggiare davanti alle due amiche, fiera e appagata dalla bellezza dell’abito che Dunamis le aveva fatto trovare nella stanza. Era stato magnanimo, dopo averla sadicamente spaventata. Ma Schià sapeva perdonare, aiutata dalla stima che nutriva per lui. Zaira, compiaciuta da tanta gioia e dal gesto del sovrano, la osservava sorridente mentre i veli preziosi, verdi e dorati, l’avvolgevano come la nuvola di un sogno. Anche Fos era divertita dai tuoi atteggiamenti puerili. - Una festa - sospirò alla fine, lasciandosi cadere sul letto della regina e respirando affannosamente. Fissò il soffitto e chiuse gli occhi. - Una bellissima festa nella sala del trono di Astos - aggiunse all’inseguimento dei propri sogni. - Solo una festa – la deluse Zaira con sottile ironia. Fos sogghignò ilare. Schià la guardò e corrucciò le sopraciglia. - Una festa di Dunamis di Astos – sottolineò. L’amica sobbalzò per la sua veemenza. Fece spallucce per provocarla. - Non ho mai partecipato ad un banchetto reale, né come ospite né come serva e questa sera siederò accanto al re del mio sposo, un suo comandante spiegò guardando ancora il soffitto e chiudendo nuovamente gli occhi. - Ti sbagli, hai partecipato ad un banchetto in nostro onore a Parga – le rammentò la figlia del futuro. Schià rabbrividì. Per lei non era un bel ricordo, allora aveva gustato il sapore della felicità e tutto era stato interrotto con uno scontro a fil di spada. Scosse il capo e quasi ringhiò per cacciare via la sensazione di terrore che le finì in bocca.


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- Una tragedia che non voglio ricordare – concluse. Si rialzò per ascoltare il rumoreggiare proveniente dalla sala del trono. - Il compimento di un destino inconfutabile - le disse dolcemente Fos. La ragazzina la fissò ferma con un velo malinconico nello sguardo. - Tuo padre allora morì – le fece notare amara senza che Fos reagisse. - Mio padre non meritava il trono che gli dei gli avevano concesso, ha offeso un dio ed ha pagato con la vita il suo affronto dopo avere mancato alle leggi di Zeus potente – le spiegò. Schià abbassò lo sguardo. - E chi siede sul quel trono, adesso? – chiese dopo un po’. Fos sospirò rattristata. Non rispose. Zaira tentò di intervenire, si stava impostando una polemica del tutto superflua. - Chi siede su un trono che spetta a te? – insistette Schià. Fos alzò il viso. - Colui che il Fato ha scelto – disse a denti stretti. In quel momento, come a voler interrompere una conversazione pericolosa, una folata di vento sostenuta e gelida le fece rabbrividire tutte. Zaira volse l’attenzione alla finestra osservando lo sventolio delle tende. Fos parve essere colpita da qualcosa d’invisibile e barcollò. - E’ freddo – sussurrò. - Troppo freddo – aggiunse e si strinse le braccia. - Un inverno veloce – osservò Zaira senza convinzione. Lo sguardo preoccupato della principessa la turbò. - I servi dovranno disporre per la chiusura degli infissi – fu prosaica Schià. - E’ un vento che viene da lontano e sta portando il gelo di un dio su Astos cara ad Artemide – si sbilanciò Fos. Zaira non sottovalutò le sue parole. La interrogò tacita, ma non ricevette alcuna spiegazione. - O forse… gli dei sono stati magnanimi, facendo terminare la canicola di un’estate che è stata molto pesante per i mortali – si corresse la principessa di Parga che convinse Schià, ma non Zaira. Poi l’aria si quietò e solo una sottile brezza continuò ad accarezzarle. - Andiamo! – esclamò la giovane amica. Uscirono insieme in direzione della rumorosa e festosa sala del trono. Zaira entrò nella sala seguita dalle due amiche d i presenti, numerosi e già impegnati nei festeggiamenti, si alzarono perché era giunta la regina. Camminò verso Dunamis e si sedette sul suo trono. L’uomo, compiaciuto dalla sua regalità nella prima comparsa ufficiale in pubblico, la guardò: la figlia del futuro era entrata nella parte di sovrana con facilità. Ne fu intimamente soddisfatto. La musica dei suonatori spezzò quella specie di tensione e gli invitati ricominciarono a bere il vino versato dalle ancelle. Accanto ai sovrani c’era


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quella che ormai era la corte di Astos e cioè i comandanti in seconda con le loro consorti, a esclusione di Alopex, leggermente staccato dal gruppo, solitario, attratto dalla bellezza delle serve che gli passavano accanto incuranti ed indaffarate. Tra gli ospiti vi era anche Autolico, impegnato in balli sfrenati quanto goffi con alcune delle schiave più anziane che rifiutavano una dopo l’altra i suoi suadenti inviti, vista la presenza del loro signore che le osservava attento. L’entusiasmo di Schià ancora una volta scosse gli animi. Fu lei, forte del fascino che sentiva di avere, ad accettare la compagnia del vecchio predone. Autolico non nascose la gioia di poter danzare con una delle donne più belle che avesse mai conosciuto, come lui stesso si affrettò ad urlare, inorgogliendola e divertendo i presenti. Dunamis si era limitato a scuotere il capo rassegnato, decidendo di non intervenire, anche se il figlio di Ermes indossava un suo abito, rubato dal guardaroba reale. - Nessun problema, vedo - si rivolse a Zaira, continuando a fissare il ballo in corso, mentre Flogos provava un sottile imbarazzo nel vedere la propria sposa nelle mani di un farabutto. - Di cosa parlate? – chiese la regina, anche lei senza guardarlo, attirata dal distante Omero che, attorniato da alcuni giovani, stava cantando una delle sue epopee. - Considerando che nel tuo tempo non esiste più il concetto di regalità, tu ne hai più di qualsiasi altra sovrana dell’Ellade – la lusingò, le regalò un’emozione che la fece arrossire. Lo cercò con lo sguardo, certa di cogliere in lui la beffa, ma ciò che incontrò furono i suoi occhi fermi. - Il passo sicuro di un guerriero, la bellezza abbagliante di una dea, il portamento di una regina dalla nascita. Esattamente come ti ho sempre immaginata, come al solito non mi sono sbagliato nelle mie scelte – calcò la mano con un elogio finale a se stesso. Lei sorrise e si avvicinò al suo volto, inducendolo a fare la stessa cosa per ascoltarla. - Il vostro regno appartiene ad un dio, maestà, e lo avete affidato a me che conosco bene il potere degli immortali. Ebbene, di me non sapete che conosco anche il valore della responsabilità e l’importanza delle promesse – gli fece sapere con complicità. Aimatos corse con gli occhi sulla sala gremita di ospiti che non disdegnavano cibo e compagnia. Poi strinse lo sguardo. In quel momento Dunamis colse la sua espressione e lo fissò. - Non capisco – disse ed il re si chinò verso di lui. - C’è un uomo tra gli ospiti – - Di chi parli? – lo interrogò con totale attenzione. Aimatos era un suo comandante, preposto al controllo e ogni eventuale comunicazione era importante.


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- Non riesco a seguirlo con gli occhi - rispose l’ex schiavo. - Un intruso? – indagò Dunamis. - Dovresti dirmelo tu, se soltanto riuscissi ad indicartelo – sbuffò. Si alzò e con lui il re. Appaiati scesero dal rialzo reale e s’inoltrarono nella folla festante, ricevendo complimenti e inviti a mangiare e a bere. Non accettarono, entrambi impegnati in quella ricerca. - Dammi un indizio – ordinò il re. Il comandante continuò a scandagliare ogni punto. Poi sembrò notare qualcosa e accelerò il passo, seguito dal re. La delusione abbassò le spalle di entrambi. - E’ un uomo – affermò. - Un po’ poco, non credi? – sbottò Dunamis. Si fissarono, capendosi, sentendosi uniti in una missione, pur non sapendo in cosa consistesse. - Stai all’erta, Dunamis. Io metto in guardia anche gli altri. C’è qualcosa che non comprendo e ciò che non comprendo è pericoloso – sentenziò Aimatos, totalmente approvato dal re. Nel fragore del banchetto Zaira distinse il suono della cetra di Omero. Per lei il vecchio aedo era un amico e era certa che lo stesso fosse per lui che non lesinava mai una buona parola, un complimento o un avvertimento. Era, come al solito, appartato in un angolo. Si alzò, percorse il tratto che li separava e quando gli fu a pochi passi, coloro che lo circondavano le fecero spazio. Il vecchio smise di sfiorare le corde dello strumento e alzò il capo. - La regina di Astos mi privilegia della sua attenzione - disse. Zaira sorrise e s’inginocchiò accanto a lui, accarezzandogli la mano raggrinzita. - Sai bene che il mio nome è Zaira ed il privilegio lo dai tu a me con i tuoi canti e la tua saggezza – rispose dolcemente, rinfrancata da quella calma capace di cancellare l’inquietudine dei suoi giovani anni. - Canti che tu conosci, amica mia – le fece notare. - Pochi versi, Omero, pochi versi – lo tranquillizzò. - Versi divini e destinati all’immortalità – intervenne qualcuno e lei si rialzò veloce, turbata da quella voce che percepiva insolita, distante, tombale, come se provenisse da una dimensione che non era quella in cui si trovava. Incontrò lo sguardo di uno sconosciuto che la fissava con occhi scarlatti dalla sclera sanguinea. Era pallidissimo e alto quanto il re. I capelli corvini un po’ lunghi e la barba incolta celavano parte dei tratti perfetti. Vestiva con un chitone viola e un ampio mantello un po’ più scuro sovrastava le ampie spalle. Immobile non gli rispose. - Sbaglio, Zaira d’Enotria? – le chiese lo straniero. - Non mi è permesso rispondere alla vostra domanda – mantenne la promessa fatta a se stessa e agli dei di tacere le proprie conoscenze.


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- Non ha importanza, le mie certezze sono sufficienti – replicò glaciale. La sua voce continuò a essere quasi fastidiosa all’orecchio della regina che scosse il capo, come se volesse svegliarsi da un incubo. Quell’uomo aveva un aspetto spaventoso eppure in grado di infondere compassione. Presa da quell’oscuro sentore, contrapposto a un’istintiva repulsione, sorrise ma non ricevette altrettanta disponibilità. - Chi siete per parlare così? – volle sapere. - Sono straniero e, come te, sono giunto in questa terra che non mi appartiene – rispose con un sospiro. - Ritenete che non abbia il diritto di vivere qui? - si adombrò. Ebbe un lampo nefasto nello sguardo di sangue, poi sembrò trattenersi e chinò la testa in segno di scusa. - Non sia mai detto, regina di Astos potente, scelta da un eletto degli immortali e siano ringraziati gli dei se ti hanno voluta tra noi per la grazia che il Fato inconfutabile ti ha concesso – rispose greve, come se avesse un peso sul cuore. - … ed il dio cuore di ferro prese le redini di Alastore scuro per correre oltre l’Erebo – cantò Omero accanto a Zaira che ebbe un fremito. Osservò i giovani che lo stavano ascoltando, comprese che aveva ricominciato ad allietarli con i suoi versi. Riprese il controllo di sé e tornò sullo straniero che non smetteva di fissarla. - Presentatevi a Dunamis che sarà lieto di rivedervi dopo avervi invitato al banchetto per la vittoria del suo regno – tentò di intimorirlo, pronunciando il nome del sovrano della rocca. - Chi mi conosce non ama rivedermi – fu pietoso. - Voi sapete il mio nome, io non conosco il vostro – ignorò quell’asserzione, decisa a mantenere un distacco che sentiva necessario. - Sothanat, principe nel lontano occidente – non la deluse. Come ormai era noto, la regina di Astos lo salutò a modo suo, cioè porgendogli la mano. Gli strappò un sorriso inquietante. Lo sconosciuto accettò quel modo di fare conoscenza, la figlia del futuro lo percepì gelido e rigido come la pietra. Un tuffo interiore le fece provare un’immensa ed ingiustificata compassione, la stessa che aveva sentito nel primo istante in cui lo aveva visto. Si ritrasse e si sentì in colpa per averlo fatto. - Bada a non riporre la tua pietà sulla persona sbagliata… ed io non ne merito alcuna – peggiorò la situazione, anche se lei non batté ciglio neppure davanti al suo sorriso che mostrò una dentatura perfetta. - E’ lui – disse Aimatos. Flogos ed Alopex si misero in piedi accanto ai troni. Il re raggiunse Zaira.


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- Il tuo nome, straniero – rombò, focalizzandosi sullo sconosciuto. Aimatos portò la mano alla spada. - Dice di conoscervi – intervenne la regina. - Sia lui a presentarsi a Dunamis di Astos – fu duro, senza interessare l’ospite che ebbe un’espressione assente, come se tutto ciò che lo circondava non lo sfiorasse, come se nulla gli appartenesse e lui non appartenesse a nulla. Era veramente uno straniero, uno straniero proveniente da un altro mondo. - Il mio nome è Sotanaht - obbedì all’ordine in ottemperanza alle leggi reali, ma non si prostrò ai piedi del sovrano che lo notò. - Sotanaht non è un nome acheo – lo interruppe. - Vengo dal lontano occidente, ma il tuo nome echeggia anche nelle vie del mio remoto regno – lo lusingò. Dunamis strinse gli occhi e lo squadrò, valutandone la forza e l’eventuale pericolosità. - Un viaggio lungo e periglioso il tuo che ti ha portato nella mia dimora cara ad un dio – sottolineò a denti stretti e non omise l’importanza di Astos per gli immortali. Neppure questo sembrò sfiorare lo straniero che fece solo un cenno del capo. - Sei un re devoto agli immortali e conosci le leggi di Zeus tonante - rispose abile nel portare la conversazione dove voleva. Dunamis rimase fermo. - Ed alla tua devozione faccio appello, potente, perché io possa riposare le mie membra stanche come ospite del tuo glorioso regno noto agli dei e far rifocillare il mio destriero esausto – non tardò a essere esplicito e per questo incontrastabile perché, e anche la figlia del futuro lo sapeva, agli Achei non era permesso rifiutare l’ospitalità o ingiuriare un ospite, pena l’ira di Zeus. Dunamis strinse la mascella con un moto di disapprovazione. Gli occhi terribili di Sotanaht lo fissavano sfidanti. - Sia, principe straniero. Non mancherò ai miei obblighi – sbottò dopo un po’ il signore della rocca. Sotanaht sorrise, continuarono a fissarsi in un faticoso convenevole, chinò leggermente il capo in segno di ringraziamento, ricevendo dal sovrano una frettolosa indifferenza, tanto che si allontanò da lui senza altre parole, seguito dalla sua sposa e dai comandanti che lo avevano attorniato. - Non mi piace – asserì Aimatos, quando furono nei pressi del trono. Il re e la regina si sedettero. Dunamis continuò a essere teso e cercò, senza trovarlo, l’inatteso ospite. - Neppure a me – rispose all’ex schiavo che diede un’occhiata d’intesa ad Alopex e Flogos. Avrebbero rinforzato la sorveglianza.


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Gli invitati lasciarono la rocca prima dell’alba e improvviso giunse un forte temporale. La pioggia allagò velocemente il giardino e le strade del regno. La temperatura si abbassò bruscamente e i servi recuperarono abiti pesanti per gli abitanti del palazzo. Il freddo imprevisto spogliò i rami delle piante in maniera inconsueta e i focolari della reggia furono accesi, attingendo dalla fiamma di Estia. Tutto era stato molto rapido. Zaira, avvolta in un pesante mantello, se ne stava davanti a una finestra e assisteva al diluvio in corso. Dunamis e gli altri avevano abbandonato il banchetto prima che terminasse per occuparsi delle disposizioni ai soldati; le amiche avevano raggiunto Dicaia che, pur stando meglio, necessitava di continue cure. La festa si era risolta in un fastoso convivio privo d’importanza e l’arrivo dello straniero aveva riportato il sovrano alla diffidenza di sempre. Zaira non lo biasimava, condivideva il suo modo di agire e anche lei non si sentiva tranquilla. Il gelo che aveva percepito al tocco di Sotanaht l’aveva messa in apprensione, cosa che ultimamente la rendeva nervosa e a tratti aggressiva. Non le piaceva quell’uomo, i sentori che le infondeva erano contrastanti, mettevano ancora una volta in gioco la sua dualità. E poi le parole di Fos non le aveva dimenticate: gli occhi avvinti da una rivelazione misteriosa, la sua capacità e saggezza non riusciva a sottovalutarle. Corrucciò le sopraciglia, attirata dal gocciolio della pioggia da un ramo. - Sembri triste – la sorprese alle spalle la voce tombale di Sotanaht. Non volle palesare lo spavento, lo guardò inespressiva, notandone l’estremo pallore. Al contrario degli altri, non aveva indossato nulla d’adeguato, mostrava le braccia nude e muscolose, come se non percepisse la bassa temperatura. - Fareste meglio a coprirvi se non volete peggiorare le vostre già precarie condizioni di salute – fu distaccata, un po’ seccata dalla confidenza che l’uomo si era preso, considerando che lei era la regina. Lui corse con lo sguardo sul parco spoglio nella penombra fosca dell’alba. - Sono stato educato a sopportare il gelo dell’inverno più rigido ed il caldo dell’estate più torrida – rispose. Sembrava avvezzo a cercare la pietà per poi rifiutarla. - O state male o siete un pazzo – lo guardò, decisa a non lasciarsi abbindolare dai suoi modi disperati. Lo aveva a pochi centimetri. - Perché questa convinzione? – - I vostri occhi e le vostre parole - non celò il disprezzo. - Nei miei occhi c’è tutto il sangue del mondo – affermò inquietante. Zaira serrò le mascelle. Forse era davvero pazzo, uno di quegli alienati mentali che nel suo tempo venivano chiusi in cliniche specializzate, mentre nel tempo degli Achei venivano considerati degli eletti dagli dei o dei stessi. Si strinse nel mantello e rimasero in silenzio. Tuttavia, Zaira non smise di


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guardarlo, analizzandolo minuziosamente. Non credette a ciò che le sembrò di vedere. Non respirava. Il suo torace era fermo. Sbattè le palpebre, avrebbe voluto andarsene , ma non lo fece. - Ecco, le vostre parole – replicò dopo un po’ e l’uomo sogghignò. Di lei incontrò uno sguardaccio adirato e contrariato. - Non avvicinatevi a me, chiunque voi siate. Rammentate che sono la sposa di Dunamis di Astos – concluse seccata, voleva andarsene. Le era difficile reggere la sua presenza e guardare oltre l’apparenza, come sicuramente Omero le avrebbe consigliato di fare. No, non ce la faceva ad essere giusta, senza un motivo non lo sopportava. - Ti barrichi dietro il nome e la gloria del tuo sposo, Zaira d’Enotria, ma io di te conosco la forza. Non ti serve il suo mantello per essere al sicuro, dovresti saperlo questo – la turbò ed insieme la offese. - Il mio sposo è devoto alle leggi di questo mondo ed io sono un’eletta degli dei che hanno saputo accettarmi… ma il mio animo non vi percepisce sicuro ed il mio corpo esige una difesa. State lontano da me sino al momento in cui lascerete il mio regno – fu perentoria e questa volta fu Sotanaht a restare leggermente sorpreso. Non la fermò, quando quasi scappò per raggiungere la camera reale. Dopo due giorni bui e cupi la pioggia cessò di cadere. Quei giorni erano stati frenetici per gli uomini della corte e per i soldati. Non si erano riuniti per mangiare, avevano evitato accuratamente di dare la possibilità all’ospite di unirsi a loro, riservandogli un buon trattamento attraverso le ancelle, ma escludendolo da qualsiasi incontro. Le donne si erano ritirate intorno all’amazzone in via di guarigione e lo aveva fatto anche la regina per evitare d’incontrare ancora Sotanaht. La terza notte di permanenza del principe occidentale, Dunamis non dormiva e con lui Zaira che crucciata sembrava all’erta, seduta sul letto oppure rannicchiata accanto al fuoco. Il gelo dilagante era tanto incredibile come la era stata la canicola dell’estate di pochi giorni prima. Non si era parlato più di tanto dello sconosciuto e una costante tensione serpeggiava, creando silenzi e malumori senza spiegazione. Quella notte la regina si mise in ascolto della quiete tetra che aveva sostituito il rumore della pioggia. Per sentire meglio si avvicinò alla finestra sbarrata da grosse assi e cercò un piccolo varco per guardare l’esterno. Dunamis, taciturno la osservava dal letto appoggiato a numerosi cuscini. S’interessò alla curiosità di Zaira. - Sta nevicando – disse sorpresa. A quelle parole balzò in piedi e si avvolse nel mantello nero di lana. Si appaiò a lei, guardò oltre la fessura, grossi fiocchi erano visibili contro la luce di una torcia esterna. Nevicava. Nevicava ad


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Astos. Nevicava nei pressi del mare, un mare che non si muoveva, che non portava vento o tempesta. La neve in quella regione era rara, si diceva che sulle coste cadesse solo se era un dio a volerlo. Quale dio aveva disposto in tal senso? Sentì un brivido sulla pelle e nel cuore. - Sta succedendo qualcosa a noi ed al mio regno - si diresse verso la porta. Zaira lo raggiunse e gli afferrò un braccio. - Dove volete andare? Contro quale nemico credete di poter combattere? – lo interrogò straordinariamente calma. - Sta nevicando, Zaira, e forse per te non ha il significato che ha per me – le fece notare. Lo guardò tacita. - Nevicava quando la mia vita è cambiata per sempre, quando gli dei mi hanno graziato, quando credevo d’essere perduto – la interessò. Non colse il significato di quelle parole e rimase perplessa. Dunamis la guardò sospeso tra una specie di nostalgia e una palese necessità di comprendere, di difendersi e poi di lottare, anche se il nemico era invisibile. - Nevicava sulla tua città il giorno che hai scelto me ed hai abbandonato tutto – si fece capire. Lei ebbe una caduta libera del cuore che iniziò a battere, a mordere, ad alimentare la sensazione che stesse davvero per accadere qualcosa. - Verrò con voi perché nevicava anche quando a cambiare per sempre è stata la mia vita – si avvolse anche lei in un mantello. Uscirono veloci dalla stanza e percorsero gli anditi del palazzo più simili a due ladri, piuttosto che ai loro padroni. Incontrarono Fos. La principessa si fermò e li guardò preoccupata. - Aimatos - sussurrò. - Aimatos dice che i cavalli nella scuderia sono strani e nessuno è riuscito a calmarli – svelò. L’idea di verificare il comportamento delle bestie nelle stalle fu accettata, anche perché nell’ansia totale, non sapevano cosa fare. Si ritrovarono presto all’esterno dove la neve scendeva quasi violenta nel silenzio ovattato. - Questo gelo è giunto con lo straniero – asserì la principessa. - Credi che ne sia il responsabile? – le domandò Zaira. - Non lo so, però tra noi vi è un dio – Dunamis si fermò per fissarla. - Un dio – ripetè. - Zeus? – azzardò la figlia del futuro. - Zeus non porta sventura – le fece notare l’altra. Zeus non aveva portato neppure il diluvio dei giorni precedenti, perché non un fulmine o un tuono avevano squarciato l’aria. Proseguirono determinati, anche se un po’ spauriti.


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Lo sbuffare dei cavalli salutò il loro arrivo nelle stalle. Le torce ai muri erano fievoli e illuminavano le bestie ricoverate. Erano gli armenti reali, tra essi spiccava il destriero del re, Zingaro. Saltò agli occhi l’insolita disposizione degli animali, tutti contro una parete, dove le fiamme creavano un vasto cerchio di luce. La parte opposta era buia e silenziosa, qualcosa di pericoloso li allontanava. Zingaro nitrì e si agitò. Dunamis afferrò una fiaccola e la puntò verso l’oscurità. Fos ebbe un sobbalzo e Zaira, spaventata da lei, si aggrappò al braccio del re che rimase impassibile. Uno stallone se ne stava nell’angolo senza sbuffare, come se fosse di pietra. Il pelo nero del mantello scintillò alle fiamme, il bagliore che lo pervase provocò un suo vago movimento rallentato. Volse il muso a loro, svelando il rosso degli occhi simile a quello del suo padrone, perché si trattava del cavallo sul quale era giunto Sothanat. Non respirava, le sue membra erano statiche. Fos indietreggiò. - E’ Alastore – sussurrò tremante. Il sovrano la guardò e la regina non colse l’importanza di quel nome, ma lo avrebbe fatto presto. - Ma tu sai chi è Alastore? – quasi la riprese rabbioso. - Dimenticate che vengo da Parga, città cara ad Ades tenebroso? – farfugliò e ritrovò a stento la sua flemma. - Non sono mai stata particolarmente devota all’Agesilao come mio padre e quel suo viscido servo, ma conosco il dio dell’Oltretomba ed il suo seguito e questo cavallo è Alastore, uno dei destrieri infernali di Ades l’invisibile, è colui che è segnato dal marchio di Dite – disse in un fiato. - Ades è tra noi? – chiese stupefatta la figlia del futuro che non conosceva nel dettaglio la corte del dio dell’Oltretomba, ma che dai loro volti attoniti poteva comprendere la gravità di quella presenza. - Non è solito salire in superficie. Certamente tra noi vi è un suo inviato – affermò Fos. Era noto che Ades avesse una corte numerosa, era difficile capire quale servo il dio avesse scelto e quindi valutarne la pericolosità. Fos espresse il desiderio di allontanarsi al più presto da quel posto e Dunamis l’accontentò. Ripose la torcia al muro e uscirono tutti nell’arena, già coperta da un manto di neve. Davanti all’entrata del palazzo si fermarono a osservare il biancore che rompeva il buio della notte. - Quale maledizione grava su di noi? – si chiese il sovrano con la rabbia a salirgli in gola. La principessa tacque e lo guardò. - O quale onore ci è stato concesso? – fu ottimista la regina. - Quale dio ha scelto Astos per dimorarvi e compiere il destino dei mortali? – insistette, stava cercando a tutti i costi la positività laddove tutto lasciava presagire sventura.


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- Gli dei sotterranei non sono mai benevoli, Zaira - fu mesta Fos. Dunamis annuÏ consapevole e pronto ad affrontare qualsiasi prova. Zaira non ribattè, ma non cambiò idea.


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Capitolo VI IL SEGRETO DI SOTHANAT

- E’ giunto il momento di togliere il disturbo – Zaira, assorta nei propri pensieri, si voltò. Guardò Autolico con sollievo, avvicinandosi a lui che, impudente come sempre, si accomodò sul letto e si sdraiò. - Perché vuoi andartene? – chiese rattristata da quel distacco che non avrebbe voluto. Autolico era simpatico, era sempre stato così, dal primo istante in cui minaccioso si era parato davanti a lei e agli altri sulla strada di Delfi. E poi era il nonno di Odisseo, questo per Zaira contava più del resto, avvantaggiata dalla conoscenza che aveva dell’uomo che sarebbe divenuto lo stereotipo dell’eroe. - Non voglio andarmene. Devo farlo – le rispose ironico. Lei si sedette accanto a lui e lo interrogò tacita. - Dunamis non è notoriamente paziente ed abusare oltre della sua ospitalità mi metterebbe in pericolo di vita! Sono pazzo, ma non stupido – le spiegò allegramente. Zaira fece per contraddirlo. - Inoltre gli affari mi chiamano, la Città Bianca ha bisogno di me e non ho più visto Ansal dal giorno della vittoria – la interruppe prima che parlasse. - Mi mancherai – ammise quasi infantile alzandosi. - Sopravvivrai e con te il tuo ruvido sposo – rise l’uomo. La straniera lo scrutò complice. - Mi mancherai egualmente, Autolico. Sei divenuto un punto fermo per me in questo luogo che mi sarà sempre sconosciuto, perché io ti conosco, ti conoscevo prima ancora di giungere in questi lidi – parve piagnucolare e il brigante si commosse. Scosse la testa spettinata per non farsi cogliere in fallo e le accarezzò la guancia. - Ci rivedremo un giorno? – gli chiese ancora. - I tipi come noi non sanno stare lontani gli uni dagli altri, Zaira, e se devo dirla tutta, anch’io ho un rimpianto nel cuore – le battè una mano sulla spalla, facendole dimenticare per un attimo la malinconia. - Eh! Se avessi avuto qualche anno di meno, Dunamis avrebbe faticato molto di più per farti sua regina, parola del figlio di Ermes veloce! – sentenziò. Zaira non trattenne una goffa risata. Tuttavia arrossì nella lusinga matura che il predone le riservò.


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- Ma il tempo, tu lo sai, a volte è bizzarro ed ingiusto! – concluse smettendo di imbarazzarla. C’era da dire che, nonostante l’età, il vecchio Autolico manteneva un certo fascino, quello che probabilmente lo aveva reso amico di un popolo che di amici non ne voleva, quello Amazzone. - Ma voglio chiederti una cosa, saggia regina di Astos – si fece improvvisamente serio e rispettoso. Lei attese. - Conoscendoti, comprendo il tuo totale silenzio sul futuro, sugli eventi, sulle conoscenze che noi Achei non abbiamo. Forse, ma non lo so, hai stretto un patto con gli dei, con il Fato o con qualche altro dio che io non conosco sussurrò. La sua baldanza si era dissolta nel nulla ed il tono nostalgico stridette con la sua indole. La straniera non disse niente. - Vorrei soltanto sapere se mio nipote è sopravvissuto alla guerra di Ilio distante, solo questo – finalmente chiese. La figlia del futuro lo fissò, spiazzata da quella richiesta, la prima che le veniva formulata da quando era giunta nel passato. Nessuno aveva avuto il coraggio di scavare nell’avvenire, di carpirle un segreto, una rivelazione, un particolare. Nessuno aveva osato tanto e in fondo non si meravigliò del fatto che solo Autolico del Parnaso lo avesse fatto. - Tuo nipote? – prese tempo, cercò di valutare i pro ed i contro di una risposta. - Odisseo, Odisseo di Itaca - sottolineò come a volerle rinfrescare la memoria, un po’ deluso dalla sua apparente indifferenza. - Si, Odisseo di Itaca - sussurrò lei. In fondo, cosa sarebbe cambiato se Autolico avesse saputo la verità? Se lo chiese. - Perché vuoi saperlo? – sorrise impacciata. - Sono vecchio, Zaira e lo sappiamo entrambi. Non so se potrò riabbracciare mio nipote, quando tornerà, se tornerà, dalla dura guerra che lo ha impegnato per tanti anni e non so neppure se il Fato ha disposto per un nostro incontro. Non voglio morire senza sapere nulla di lui – ammise a denti stretti, dimostrando così un’insospettabile sensibilità. Autolico era un amico, gli doveva molto, da lui aveva imparato tanto, averlo al fianco e poter contare sulla sua intelligenza era stato un onore per lei. Decise di rispondergli. - Si, è vivo – disse. Il brigante s’illuminò come un bambino. La sua felicità divampò sul volto rugoso e non esitò ad afferrarla per le braccia e guardarla negli occhi. - Odisseo è vivo? – chiese un’inutile conferma. - Di lui parla la mia gente lontana, di lui si narra e si narrerà. Ma faticoso sarà il suo ritorno. Non chiedermi altro, amico, non farmi incontrare l’ira dei vostri dei che sanno essere crudeli – si sbottonò con un tono aulico che


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l’aiutò a smorzare qualsiasi altra curiosità. Autolico non trattenne un forte e caldo abbraccio che la emozionò. - Ti ringrazio, straniera, perché io amo Odisseo, il nipote prediletto al quale ho insegnato le astuzie degli uomini, e le tue parole m’inorgogliscono, perché la sua mente gli permetterà di vincere il volere degli dei per dimostrare che l’uomo è potente. Grazie ed in cambio ti offro il mio silenzio, la mia fedeltà, la mia lealtà che nessun mortale in tutta l’Ellade può vantare – le sussurrò all’orecchio. Lei ricambiò quell’abbraccio con trasporto. - Non voglio dirti addio – disse, quando lo vide sulla porta con gli occhi taglienti ancora arrossati di commozione. - Fai bene, il nostro non è un addio sono gli affari che mi chiamano! – rise tornando a essere se stesso, lo sbruffone, il ladro, il truffatore. Zaira sogghignò, poi impallidì e guardò sopra la sua testa. - Se ho capito bene, sei in procinto di privarci della tua compagnia – tuonò Dunamis. Autolico si girò e alzò il capo per guardarlo. - Il mio regno mi reclama, potente – scherzò senza che il re ricambiasse. - Quale regno? – lo superò per raggiungere Zaira. - La Città Bianca, il Parnaso, la strada dei pellegrini di Delfi, un regno vasto, come vedi – ridacchiò. Il figlio del lupo sorseggiò del vino. - Certo, il regno degli inganni. Piuttosto, cosa hai deciso di portarti via da Astos? – gli chiese senza guardarlo, dando per scontato un furto. - Una cosa preziosa e rara, qualcosa che nessun mortale della mia risma potrà mai vantare di essere riuscito a carpire al sovrano del regno caro ad Artemide – Dunamis lo guardò oltre la spalla. - La tua amicizia – lo fulminò improvviso. Lui si voltò imperioso, dimentico per un attimo della sua sposa. Si fissarono. - Io non ti sono amico, Autolico. Non andare a vantarti di un diritto che non ti concedo – sibilò fermo. - Sbagli, perché sono vivo e io so che se tu avessi voluto avresti potuto uccidere anche il figlio di Ermes veloce – lo contraddisse deciso ad andarsene. Poi si fermò e continuò a dargli le spalle. - Ma saprò mantenere il nostro segreto, Dunamis – sogghignò esasperante. Il re fece per raggiungerlo, ma il ladro alzò una mano. - Prenditi cura della tua sposa, potente, la migliore che tu potessi scegliere e che il Fato potesse riservarti – aggiunse. Se ne andò senza che l’altro lo volesse davvero fermare. Amico di un ladro? Lui? Il re più temuto di tutta l’Ellade? Si accorse che Zaira stava ridendo di sottecchi e la riprese tacito per quella mancanza di serietà.


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- Voi non sapete nulla di lui, maestà! Io invece so esattamente chi è e posso permettermi di ridere, credetemi – scherzò divertita, anche se nel cuore sentiva la tristezza per quella partenza. Le sarebbe mancato davvero il vecchio predone impenitente e coraggioso, capace di lusingare e di opporsi a chi non gli dava spazi, ottenendoli. Eccezionale! Autolico del Parnaso era un uomo eccezionale, lo avrebbe ricordato per sempre e forse un giorno lo avrebbe anche rivisto. Se lo augurò, mentre Dunamis aveva pensieri esattamente opposti ai suoi. Fos entrò nella stanza e percepì la presenza di Sotanaht. Ne scorse l’ombra sinistra e si pressò contro la porta chiusa. Il cuore accelerò e una forza sconosciuta le impedì di urlare. - Fos di Parga - la salutò e la sua voce tombale le diede una sensazione d’irrimediabilità. - Mi trovi così terribile? – sembrò lamentarsi, leggendola dentro con facilità. La principessa non rispose, era pietrificata. Una torcia si accese all’improvviso e lei distolse gli occhi. - Neppure reggi la mia vista – asserì. Lo guardò dritto negli occhi scarlatti per dimostrargli di non avere paura, cogliendovi un’indefinibile disperazione. - Non temere, Fos. Non soffro per questo – aggiunse oscuro. Senza poterlo impedire, un barlume di compassione le bloccò il tremore delle membra e Fos ne rimase confusa. - Chi sei? – riuscì a chiedergli. Sothanat dimostrò una triste gioia nel vedersi preso in considerazione. - Il mio nome è… - fece per rispondere. - No, chi sei veramente? – lo interruppe. L’ospite trasalì, ma mantenne i nervi saldi. - Sono un principe, vengo da occidente - continuò. Non gli credette e lo straniero colse la sua sfiducia. - Hai veduto il mio cavallo e lo hai riconosciuto – non tergiversò più. La principessa non replicò. Tuttavia, lui la costrinse a parlare con un’imposizione che proveniva dalla forza della sua mente e passava attraverso quegli occhi terribili. - Quel cavallo è maledetto – lo offese. L’uomo non sembrò risentirne e inarcò le sopraciglia. - Viene dal regno di Ades l’invisibile – aggiunse Fos. Non sapeva dove trovasse tutto quel coraggio, considerando che poteva essere un dio e avrebbe potuto ucciderla in qualsiasi momento.


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- Dal regno di Ades? Che strana idea la tua, saggia Fos – la prese in giro senza ironia. - Perché sei qui? – non si lasciò distrarre dai suoi modi. - Voglio dirti la verità, quella che mi è permesso rivelare. Voglio dirla a te perché altrimenti mi ostacoleresti ed io non voglio privarti della vita – la spaventò. Rassegnata si sedette sul letto. - Accetti dunque di ascoltarmi? – volle sapere l’ospite, appoggiandosi alla parete accanto alla finestra. Lo scrutò, sentì dentro il rinnovarsi del disagio che l’aveva indotta in quei giorni ad evitarlo. Alla fine era stato lui ad avvicinarsi e ora sentiva di non avere scampo. - Sai bene quanto mi sia… - sussurrò sconfitta. - … gravoso sopportare la mia vicinanza? – concluse la frase per lei che non negò. - Capisco - si fece mesto. - Sei consapevole delle reazioni che provochi e ne sei rassegnato, perché? – volle sapere. - Nulla si può contro il volere del Fato ed il mio destino è quello di essere solo, di spaventare e di essere dimenticato – fu sibillino. - Gli uomini mi temono e mi sfuggono senza sapere a volte di farlo, provano nei miei confronti una repulsione indefinibile, quando non posseggono le tue capacità - continuò pietoso. - Le mie capacità? – - Quelle che ti hanno permesso di riconoscere Alastore, per esempio. Quelle che ti fanno sentire la mia natura nefasta – la sorprese. - Allora sei un dio – balbettò tremando ancora. Lo straniero annuì e si avvicinò, prendendole le mani per impedirle di fuggire. - Non andartene, sono qui per dirti la verità – la bloccò. Il cuore di Fos si gonfiò di una nuova scottante compassione. - Sei un dio disperato e triste - notò senza interrompere il gelido contatto. - La mia identità si cela nel mio stesso nome, Fos, ma non posso svelartela, perché scapperesti. Voglio che tu sappia che sono ad Astos per compiere il volere del Fato. Tra gli immortali io sono colui che non ha pietà, ma questa volta non sono giunto dal mio regno distante per recare danno - disse oscuramente rassicurante. Lei lo fissò attonita. - Ti basta questo per cancellare le tue remore? – sussurrò speranzoso. La principessa ritrasse le mani e volse lo sguardo al buio esterno celato da una pelle di pecora fissata alla finestra. Tentò di fargli altre domande, ma non c’era già più. Presa dal panico si guardò intorno e il cuore battè forte. Di Sotanaht non c’era più traccia. Vide sulla porta Aimatos che la fissava incuriosito.


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- Ti stavo cercando – le disse sospettoso. - Era qui – affermò seriosa. - Chi? – la raggiunse. - Lui, Sotanaht – - Non ho visto nessuno, forse lo hai sognato – tentò di tranquillizzarla, ma dentro di sé le credeva. L’aiutò a stendersi sul letto e percepì il suo tremore. - Ognuno di noi potrebbe essere in pericolo, Aimatos – ritenne opportuno avvertirlo. Sorrise amaro e le accarezzò il viso teso. - Lo so, Fos, ed ogni soldato di Astos è all’erta – rispose. - Presto scopriranno il tuo inganno, Sotanaht – disse Omero, rannicchiato in un angolo della torre e riparato dalla neve. Lo straniero, che era giunto lassù in cerca di solitudine, si voltò e lo guardò freddamente, mentre i fiocchi gelidi s’incastravano tra i suoi capelli e sugli abiti viola senza sciogliersi. - Non vi è inganno nel mio agire – si difese fermo. - Quando sapranno chi sei, ti combatteranno – sbottò l’aedo con un filo di rabbia, inconsueta in lui. - Non lo faranno, ho disposto perché sappiano delle mie vere intenzioni – lo contraddisse. - Non crederanno alle tue affermazioni, nessuno potrebbe credere alle tue promesse – non cedette il vecchio. - E tu? – sondò il terreno. - Io assisto alle tribolazioni degli uomini, percepisco le loro paure e ne prevedo le azioni. Che io ti creda oppure no, non è importante – rispose. - Tu potresti convincerli – sussurrò, come se fosse in difficoltà. - Convincere Dunamis? Ciò che devi fare per lui sarà inaccettabile. Potrei passare giorni interi cercando di dissuaderlo senza riuscirci. Rammenta le mie parole, giovane dio maledetto: l’unico ostacolo che incontrerai sulla tua strada sarà il re più devoto agli dei di tutta l’Ellade – procrastinò. - E Zaira? – era in cerca di un appiglio. - Zaira appartiene a Dunamis ed appare fragile a volte, il suo pensiero è lontano da quello degli Achei e la sua forma mentale è oscillante, poco coerente, imprevedibile. Potrai soggiogarla, essere certo d’averla in pugno, ma sa fuggire come una lepre, quando meno te lo aspetti. Zaira non appartiene alla nostra gente, non fa parte di questo mondo, rispetta ogni angolo ed ogni forma di vita del luogo che la ospita, ma non è governabile, non è leggibile né dagli dei né dagli uomini. Ricorda anche questo, giovane dio maledetto – lo deluse. Sotanaht sapeva quanto fosse saggio. -Se sapesse la verità… - si lamentò.


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- Se la conoscesse, non accetterebbe di darti ciò di cui hai bisogno e forse troverebbe una lunga e perigliosa strada per aiutarti, ma non quella più facile… e tu sai che lei è capace di percorrere i sentieri più tortuosi, quelli preclusi a chiunque, perché è un’eletta del Fato – non dava speranze il vecchio Omero. - Il mio padrone non lo permetterebbe – concluse. Era alle strette. - Il padrone del tuo padrone invece lo farebbe e tu avresti fallito ed un fallimento è cosa disdicevole per un dio – concluse il cantore severo. Fallire. Sotanaht non poteva concederselo perchè era un dio. Decise di agire quella notte, non aveva più tempo e se ne aveva, era inutile perderne. Sentiva che in quel momento stavano discorrendo di lui, ascoltò le voci dei mortali riuniti nella sala del trono, percepì i loro timori, la loro rabbia e per questo la loro pericolosità. L’essere umano, se apriva la mente, poteva davvero attentare alla superiorità degli dei. - La sua identità si cela nel suo nome. Cosa significa? – chiese Schià, dopo avere ascoltato il racconto di Fos insieme a tutti gli altri. Zaira senza volerlo si estraniò dallo scambio di idee in corso. - Il suo nome ha un significato che nessuno di noi conosce – fu ovvio il sovrano. Effettivamente Sotanaht non voleva dire nulla nella loro lingua. Dicaia, nascosta nel corridoio e intenta a origliare, tentava di trovare una soluzione all’enigma proposto dallo sconosciuto. Anche lei desiderava che tutto finisse al più presto. Stava abbastanza bene per potersene andare. La neve aveva precluso ogni possibilità d’uscita da Astos e non sembrava voler cessare, le strade stesse del regno iniziavano ad essere impraticabili. Le guardie faticavano a fare il loro dovere in ronde rallentate e debilitanti. Di lei si occupava sempre Fos, anche se ormai le medicazioni erano sporadiche e atte a verificare che la guarigione non regredisse. Aimatos se ne stava sulla terrazza aperta con gli occhi che non smettevano di correre sul giardino e sull’entrata secondaria. Alopex e Flogos si erano posizionati invece accanto alla porta della sala. Zaira si avvicinò al fuoco e prese in mano un carboncino che le sporcò le mani. - Sotanaht – ripetè, attirando l’attenzione di tutti. Veloci la raggiunsero, riponendo le loro speranze su di lei e sulle conoscenze che esulavano dalla loro cultura. - Conosci una lingua che possa dare un significato a questo nome? – la interrogò Schià. - Le lingue che conosco, non esistono in questo mondo - tracciò dei segni sulla pietra del focolare acceso.


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- Cos’hai fatto? – volle sapere Dunamis. - L’ho scritto – rispose, nel 1200 avanti Cristo non esisteva la scrittura, non in senso lato. Non fu capita, come previsto. Toccò una lettera alla volta. Lo fece più volte con i fiati sul collo. Poi percorse tutto a ritroso. - Ti… acca… a… enne… a… ti… o… esse… - scandì. - Thanatos! – pronunciò alla fine e sentì un sospiro corale mozzato. Si voltò e vide volti cerei. - Significa qualcosa? – chiese ingenuamente con la certezza di avere fatto centro. Dunamis si staccò dal gruppo e vide l’ospite sulla porta. Rimase immobile a fronteggiarlo. Zaira non poteva conoscere ogni dio di quel tempo, ne conosceva alcuni, ma non Thanatos… servo di Ades l’invisibile. - Sono arrivato in tempo – asserì l’immortale senza emozione, irritando il sovrano. I comandanti lo affiancarono in una ridicola difesa. Anche Zaira, dopo essersi alzata di scatto, si avvicinò a Dunamis che non smise di fissare l’intruso con astio. La regina fece un passo verso Sothanat. Il re le serrò un polso, impedendole un contatto che non era disposto a tollerare. La figlia del futuro non demorse, voleva delle risposte che i suoi amici sembravano incapaci di darle nell’intontimento generale che li pervadeva. - E’ Thanatos il vostro vero nome? – chiese, la stretta del sovrano a farle male. Lo straniero posò gli occhi su di lei. La osservò superiore e minaccioso. - Sì – confermò imperioso. - Perché avete mentito? – chiese ancora e diede un’occhiata a Dunamis che non si muoveva, sulle difensive come tutti gli altri. - Guarda i volti dei tuoi amici, ascolta il loro silenzio ed osservane la paura, Zaira d’Enotria. Guardarli e dimmi se avrei potuto presentarmi con la mia vera identità – le fece notare. Effettivamente aleggiava il terrore nella grande stanza reale. - Chi siete veramente? – continuò a parlare con lui. - Davvero lo vuoi sapere, figlia di Cronos il rinnegato? – la seccò con quell’epiteto che proprio non le piaceva. Annuì a denti stretti. - Io sono Thanatos, figlio di Nyx e fratello gemello di Hypnos, devoto ad Ades potente, io sono il dio… - si bloccò, come ad attendere il permesso per dirlo. Nessuno intervenne. - Sono il dio della morte – Un vento gelido attraversò la sala, abbassando il crepitio delle fiamme. Questa volta anche la regina sbiancò e sentì il sangue scendere sino ai piedi. Ebbe freddo e poi caldo. Indietreggiò senza che Dunamis glielo impedisse sciogliendo la stretta al polso. Avrebbe tanto voluto essere come era stata un tempo: scettica, ostica, cinica, testarda anche davanti all’evidenza! Invece


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gli credette. Subito. A priori. E lo temette. In un momento. Ripensò a quando le era stato accanto e le aveva parlato, poi riascoltò dentro le sue frasi oscure. Desiderò piangere. Non lo fece. Arretrò ancora, sino a trovarsi con le spalle contro una colonna. “Nei miei occhi c’è tutto il sangue del mondo” le aveva detto. Il sangue degli uomini che lui era preposto ad uccidere. Si sentì sciocca per averlo creduto fragile. Rammentò la compassione che sapeva infondere. Lui non era affatto disperato, era l’essenza pura della disperazione; oltre il suo essere vi era l’abisso del nulla, l’irrimediabilità assoluta. Le stesse sensazioni le aveva Fos che sentiva ancora il suo tocco gelido e rammentava le rassicurazioni che le aveva dato sul motivo per il quale si trovava ad Astos. Erano nelle mani di un dio adesso, il più nefasto. - Perché sei qui? – finalmente Dunamis parlò ringhiante come un tempo. I comandanti si misero all’erta con le spade in pugno. - Non per portate sventura – lo esaudì flemmatico. - Cosa sei venuto ad esigere dai mortali? – insistette il sovrano estraendo anche lui la spada. Thanatos lo scrutò recriminante. - Dimentichi che ti trovi davanti ad un dio – lo redarguì. - Io difendo il regno caro alla mia dea, Artemide la virtuosa e tu… sei una minaccia – non si fece intimorire il re che fece un passo verso di lui. Si fissarono a lungo e gli occhi dell’essere scintillarono sinistri. - Una colpa grava su di me e la tua nobile sposa può permettermi di espiarla – fu sincero, lo ritenne opportuno. La verità non lo aiutò e l’espressione del signore della rocca non diede spazio ad alcun compromesso. - Non sarà la mia sposa a sacrificarsi per una colpa non sua – fu perentorio. La diretta interessata tornò incosciente davanti a Thanatos e lo interrogò tacita, ignorando l’ira del re. Il dio entrò in lei facilmente, senza riuscire a turbarla più di tanto. - Dite cosa volete – prese un’iniziativa che gli amici non condivisero. Il scosse il capo corvino e sorrise sconsolato. - Giovane straniera in terra straniera, non è semplice come vorresti. Conosco la tua nobiltà d’animo ed il tuo coraggio, ma non posso chiederti ciò che mi serve per espirare un errore divino. Concedimi la possibilità di ottenerlo con la sincerità ed il trasporto del tuo grande cuore – disse un fiume di parole senza esprimere un concetto, senza stemperare la diffidenza dilagante. Lei alzò un sopraciglio. - Non siete un dio, siete un pazzo – sentenziò e gli diede le spalle, facendo raggelare gli amici, ma non il re che dentro di sé sentì uno strappo per la reazione della sua sposa.


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- State lontano da me, ve l’ho già detto, e lasciate il mio regno al più presto. Disporrò perché possiate trovare ospitalità altrove, ma lasciate il mio regno, oggi stesso – ordinò cogliendo tutti di sorpresa, compreso Dunamis e specialmente Thanatos che, essendo un immortale, era abituato a ben altri trattamenti. Quella straniera non lo credeva davvero divino, per questo non lo temeva, quindi la sua mancanza di devozione non era condannabile. Il dio della morte fece per raggiungerla, mentre sedeva sul trono con l’espressione rigida di chi non era disposto a nessuna concessione. - Stai sfidando un dio, Zaira d’Enotria – le fece notare freddamente. - Posso farlo – bleffò e mise tutti in ansia. Che accidenti aveva in testa? Dove pensava di poter arrivare? Thanatos strinse gli occhi. - Sono figlia di un dio, voi stesso lo avete affermato – sorrise capziosa. - Tu… - tentennò l’altro. - Sono la figlia di Cronos – sbottò machiavellica. Thanatos si ritrasse sino alla porta della sala, ignorando le minacce di Dunamis e dei suoi uomini, a minacciarlo più di tutti era colei che tra loro era un’intrusa. Ebbe un’espressione di disapprovazione e uscì celere, come se veramente fosse intenzionato a obbedire all’ordine della regina. Zaira lasciò cadere le spalle. - Ma dico, sei impazzita? – la riprese severamente Fos. Lei scosse il capo. - Ti sei messa contro un dio - piagnucolò Schià che si strinse a Flogos. Alopex non proferì parola e ripose la spada. Aveva la sensazione che ormai nulla poteva essere fatto per impedire che si realizzassero i piani di Thanatos, qualsiasi cosa avesse in mente. Fu Dunamis a raggiungerla davanti al trono e a cercare i suoi occhi che incontrò e trovò tremolanti. Tacito le fece capire di non approvarla sino in fondo. - Non permetterò a niente e nessuno di scalfire un solo giorno della mia vita ad Astos accanto a voi, neppure ad un dio – si difese flebile, ma il re non le diede ragione. - Hai attirato su di te l’ira di un dio - le disse serioso. Lei annuì. La neve che continuava a cadere su Astos rendeva l’atmosfera ovattata. I corridoi del palazzo erano poco illuminati da sporadiche torce. Non un rumore spezzava la staticità della notte, il nulla sembrava dilagare nelle stanze. L’ombra di Thanatos avanzava lentamente verso la camera dove Zaira dormiva senza Dunamis, impegnato nell’arena con i suoi comandanti in una difesa inutile della rocca. Si affacciò alla porta, confondendosi con l’oscurità cui apparteneva e osservò la figlia del futuro. Poteva vederla anche senza la luce, rimase per qualche istante assorto davanti alla sua bellezza. Entrò e si avvicinò. Si sedette sul ciglio del letto, le spostò una ciocca di capelli dal viso. Percepiva il battito del suo cuore e lo ascoltò affascinato. Non si era


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mai soffermato su un mortale, il suo compito si era sempre limitato a togliere il respiro ed a tagliare un po’ di capelli del prescelto per consegnarli ad Ades, perché potesse riconoscerne lo spirito, quando giungeva nell’Oltretomba. Non aveva mai pensato agli uomini, alla loro natura, al loro corpo, alle loro emozioni e ai loro dolori. Posò la mano fredda sul petto di Zaira e sentì lo scorrere del sangue che confluiva nella parte sinistra. Provò un senso di desolazione. Toccò le labbra semiaperte della regina, il fiato caldo lo turbò. Gli occhi rossi scintillarono con un arcano tremore che lo agitò. Che sciocchezza! Lui non poteva provare certe sensazioni e un fremito più forte lo scosse. La sua schiena si curvò e poi s’inarcò in movimenti lievi. Piano le ali celate spuntarono sotto il chitone viola, strapparono la stoffa e si spiegarono grandi, nere e lucide come quelle di un enorme corvo. Si mossero senza alcun fruscio. Poi si aprirono stupende, incorniciandolo e rendendolo minaccioso. - Zaira d’Enotria, un tuo pensiero ed io sarò salvo – disse cavernoso. Le lunghe dita si fermarono sugli occhi chiusi e lei si mosse disturbata da un sogno. - Un pensiero e la mia condanna cesserà d’essere – aggiunse. La stava soggiogando, ma era difficile, il controllo su di lei era quasi nullo. - Thanatos il tenebroso è giunto per te dal suo eremo lontano. Salvami e nulla accadrà nella tua dimora perfetta – continuò. Zaira aprì lo sguardo. Non era sveglia. Un cupo velo oscurava la sua espressione. La fissò attento a non destarla. Avvicinò il volto. - Salvami – ripetè disperato, nonostante il ghiaccio del suo essere. Lei dischiuse la bocca. Un rumore proveniente dalla terrazza serrata lo distrasse e una voce alle spalle infranse il suo sortilegio. - A questo deve ricorrere il primogenito di Nyx? – Zaira richiuse le palpebre. Il dio si voltò e vide Dicaia. L’amazzone lo aveva tenuto d’occhio, aveva previsto il suo tentativo, ora stava impedendo che si realizzasse il volere del Fato. Si mise dritto e la fronteggiò, con le ali per un attimo ad avvolgerlo. - Hai bisogno del suo consenso, della sua pietà o di cos’altro? – sorrise la donna impassibile davanti all’immortale apportatore di morte. Si limitò a scrutarla. - Non hai alcun potere su di lei – proseguì ferma. - Ce l’ho su di te, Dicaia della Città Bianca – l’avvisò. - Non sei qui per me, non sei stato incaricato di mettere fine alla mia vita – si difese. - Perché mi stai ostacolando? – le chiese allora. L’amazzone fece un passo e lo guardò dritto negli occhi che tentavano invano di inchiodarla.


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- Sei qui per una condanna che ti è stata imposta, grava su di te l’ira di un dio potente, forse Ades, forse Zeus, anche se qualcosa mi sfugge – lo fulminò. - Sia pure come dici, piccola donna, ma osi davvero molto a metterti contro Thanatos figlio di Nyx, la tua dea – sibilò alle strette, mentre le ali rientravano e l’aspetto tornava ad essere normale, nei limiti della normalità che Thanatos poteva avere. Dicaia lo osservò insistente. - Qualcosa t’impedisce di agire – affermò, irritando il dio della morte che la superò e si fermò sulla porta. - Un dio condannato… – ridacchiò l’amazzone. L’immortale si dissolse, ma lei non lo seguì con lo sguardo. - Siete certo che quell’uomo sia un dio? – chiese Zaira, seduta davanti a Dunamis per la colazione. Il re, taciturno e adombrato, alzò lo sguardo su di lei, chiedendosi se tutto quel coraggio fosse vero o solo un labile scudo per difendersi dalla paura. Non le rispose, si versò del latte in una ciotola di legno. - Nulla ci garantisce le sue origini divine. Chiunque di noi potrebbe affermare d’essere un dio ed ognuno di noi potrebbe crederci! – si accaldò davanti all’indifferenza dell’uomo, infastidito dalle sue parole. - Il rispetto dell’ospite è sacro e tu hai intimato ad un ospite di lasciare il tuo regno. Sai cosa penso veramente, Zaira? – ruppe la cortina di silenzio che la innervosiva. Lei alzò un sopraciglio per ascoltarlo. - Che non solo ti sei inimicata Thanatos, e già questo poteva bastarti per morire da eroina… ma anche Zeus potente. Davvero un bel lavoro per la regina di un regno caro ad un immortale – la rabbia ribolliva in lui. Lei non ribattè, considerò quelle affermazioni inique, prive d’importanza. - Ed ora vorrei tanto sapere come credi di uscirne e specialmente quale aiuto pensi di poter ricevere da me, che non sono un dio, rammentalo – le disse rigido. Zaira sbuffò e sorseggiò il latte. - Avete paura – concluse. Dunamis si mise in piedi di scatto, le mani sul tavolo imbandito e lo sguardo di fuoco. Lei non si scompose e gli riservò un’occhiata superba, certa di potercela fare anche da sola, all’inizio di una rischiosa scalata interiore. - La paura e tutt’altra cosa, Zaira. Qui si tratta del rispetto delle leggi divine, dei rischi che puoi far correre ad ognuno di noi, dell’ira degli dei che di noi possono fare ciò che vogliono. Siano le guerre e le diatribe tra uomini, siano le battaglie sanguinarie e le ingiustizie umane, siano le scelte mortali del male o del bene, ma loro, gli immortali, non devono essere scalfiti da noi, esseri inferiori. Tu non sai cos’è la paura e non… - le riversò addosso la sof-


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ferenza per quell’affermazione inaccettabile per un guerriero. Lei rise odiosa. - Tacete! – gli ordinò, irriconoscibile, lontana dalla donna di pochi giorni addietro con i suoi sensi di colpa, la passione e… l’amore. Strinse lo sguardo e una freddezza imprevista dilagò in lui che si fece attento. - Tacete! Non giudicatemi senza sapere nulla di me! Conosco la paura, conosco il dolore, conosco il rimpianto perché tutto questo l’ho avuto dentro, l’ho vissuto e mi ha spezzata quando ho creduto di perdervi! Quindi tacete e consumatevi pure della vostra squallida devozione, capace di rendervi piccolo, di fare di un re un inetto. Sia! Sarò io a salvare il vostro regno, visto che avete scelto di affidarlo anche a me – fu crudele. Intaccò senza tentennamenti l’integrità e l’orgoglio di un uomo che basava lo stesso suo respiro su quei concetti. Gli aveva dato senza mezzi termini dell’inetto, del debole, del bigotto sciocco ed ignorante, del vile. Dopo un attimo di perplessità, Dunamis riprese il controllo di sé e delle proprie emozioni che si accavallarono ad una profonda delusione. Tornò a essere in un lampo se stesso. Ritrovò all’improvviso ciò che aveva creduto di avere perduto: il sapore della rabbia scatenata da un insulto. Tornò ad essere Dunamis di Astos, il figlio del lupo, il re più temuto di tutta l’Ellade, colui che i nemici li ammazzava per berne il sangue alla salute di un Fato benevolo. Mentre Zaira lo fissava sfidante e inconsapevole della trasformazione in atto, le vene del sovrano si stringevano e si allargavano pungenti. Serrò le mascelle. Si fece quasi male, sorrise sottile, distante quanto lei dai sentori che li aveva uniti sino a quello strappo fragoroso. La raggiunse con pochi passi, rasentando il lungo tavolo. Zaira si alzò veloce, indietreggiò, ma continuò a fronteggiarlo. - Non crediate di intimorirmi con i vostri modi bruschi, maestà – soffiò come un gatto alle strette. In fondo era giustificata, non aveva mai conosciuto la vera indole del signore della rocca, l’aveva intravista, ne aveva assaggiato la pericolosità, ne portava ancora il segno alla gola, ma Dunamis non l’aveva mai davvero sfiorata come sapeva fare, come era nella sua natura. Quella natura era stata messa da parte per lei e lo stava ripagando con il disprezzo. - Farò di meglio, improbabile figlia di Cronos il rinnegato – sussurrò roco, il pallore sul volto che si fece ingiustamente bellissimo con il trucco abbagliante del rancore a sottolinearne la perfezione dei lineamenti. Zaira ebbe un tonfo al cuore fuori luogo, una vampata d’amore che la confuse, che le impedì di realizzare ciò che il Fato aveva in serbo per lei. Non si ritrasse dunque ad un suo avvicinamento e non lo fermò nel gesto celere di strapparle dal collo la collana che sanciva il suo titolo di regina. Il contraccolpo le


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graffiò la nuca, si portò una mano alla ferita che sentì sanguinare. Alcune pietre caddero al suolo, altre rotolarono in angoli nascosti, il gioiello danneggiato fu gettato distante e Dunamis continuò a fissarla, ad accusarla, a scavarla ma senza l’arma della seduzione, mosso da un astio cavalcante, offeso e feroce. - Cosa credete di dimostrare? – riuscì a blaterare, abbattuta in volo in un attimo. Non capiva cosa stava accadendo, sentiva solo il dolore alla nuca, ma anche nel cuore, un colpo di spada l’aveva tagliato in due. - Non devo dimostrare nulla, semplicemente il tuo glorioso regno è terminato, Zaira d’Enotria – sentenziò serio e duro. Lei sorrise impacciata. - State scherzando - tossicchiò. - Nessuno scherzo, Zaira - e battè un piede in terra con violenza, tanto che le guardie d’istanza fuori dalla porta entrarono subito, trovandosi davanti una scena inaspettata. Osservarono perplessi i sovrani. - Aspettate un momento, cosa volete fare? – si fece umile, illuminata dalla gravità della situazione in cui si era andata a ficcare. Si avvicinò a lui, gli sfiorò il braccio, ma l’uomo si scostò infastidito e la fulminò con lo sguardo. - State giocando, come il giorno in cui sono tornata, come quella sera in riva al mare, come… - balbettò. Si sentì persa e aggrappata ad una speranza che l’abisso degli occhi del re non concedeva, ancorata a un amore che negli ultimi giorni aveva dimenticato e questo era bastato a perderlo. Era bastato? Così poco? Poco? No… - Cos’ho fatto? Cosa se non reggere il trono che voi mi avete assegnato? – si fece piccola. Un gesto del capo del signore della rocca costrinse i soldati ad immobilizzarla. Attesero i suoi ordini. - Alle prigioni – non tardò a disporre. Fece per andarsene senza spiegazioni, mentre Zaira tentò invano di liberarsi dei due uomini. - Mi dovete una spiegazione, maestà! Me la dovete o siete solo un pazzo! – esclamò dopo un po’ sudando per lo sforzo e iniziando a piangere. In fondo al corridoio in cui venne a trovarsi, Dunamis si voltò e la fissò distante senza una parola, senza soddisfare la sua disperazione. Le diede un tacito addio con un’occhiata ferma, con lo scintillio dell’astio a screziare la piega dello zigomo. I soldati obbedirono e lei si mise a scalciare come un somaro, a gridare a squarciagola. La sua voce echeggiò negli anditi, inducendo Fos e poi Schià a uscire dalle loro stanze. Entrambe, pressate contro i muri, la videro trascinata via dai soldati e restarono attonite. Cosa stava succedendo ad Astos? Cosa aveva fatto il re? Schià seguì i due soldati che non risposero alle sue domande, mentre la principessa seguì veloce Dunamis che aveva raggiunto la torre più alta. Lo trovò sotto la neve, solo il fiato visibile ne tradiva


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il discernimento, mentre la sua espressione era di ghiaccio come tutto intorno a loro.


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Capitolo VII LA FIGLIA DELL’EROE

Le grida di Zaira ruppero il silenzio ovattato dell’arena e Alopex smise di impartire gli ordini per assistere alla scena insieme ai propri uomini. Osservò la regina recalcitrare e si accorse della presenza trafelata di Schià. Abbandonò il proprio posto e raggiunse la ragazzina che scivolò sul ghiaccio per rialzarsi e continuare a seguire l’amica. - Cosa sta succedendo? – chiese l’uomo notando del sangue sulla neve. - Dunamis! E’ stato lui - balbettò Schià infreddolita. Nella fretta non si era coperta. Alopex le diede il proprio mantello e scese le scale delle prigioni, le stesse che un tempo lui e Flogos controllavano. Zaira fu gettata nella cella meno protetta dalle intemperie. - Cosa significa? – domandò l’attico autoritario, anche se quelli erano gli uomini di Flogos. - Ordine del re – risposero. Diede un’occhiata a Zaira, disperata e aggrappata alle sbarre. Tacitamente gli chiese aiuto. Lui, all’oscuro dei fatti, non potè per il momento fare nulla. Corse su per la scalinata ripida, attraversò l’arena, seguito da Schià e in un baleno furono entrambi all’interno del palazzo. Incontrarono Flogos e Aimatos. Frettolosi raccontarono l’accaduto. Aimatos s’irrigidì. Flogos non commentò, certo che tutto avrebbe trovato una spiegazione. Schià si mise a piangere addolorata e raggiunsero la sala del trono, trovandola vuota. Allora entrarono nella stanza dove i sovrani erano soliti desinare e scorsero subito, ai piedi di una colonna, la collana infranta come un sogno. Schià la raccolse. - Dunamis è impazzito – asserì Aimatos e corse in direzione della torre. Sapeva di trovarlo là. Gli altri lo seguirono, Fos era con lui. Il rumore dei passi palesò la presenza dell’intera corte e il re diede loro il profilo con un’espressione che non sfuggì all’ex schiavo. - Se davvero riponi la tua fiducia sul mio sangue simile al tuo, torna sui tuoi passi, Dunamis. Stai facendo il gioco del tuo nemico – disse la principessa, continuando un discorso iniziato poco prima. Lui la ignorò e la superò, correndo con gli occhi su ognuno dei presenti, sulle loro facce basite, per l’ansia di comprendere i cambiamenti di una mattina che al risveglio era parsa uguale a tutte le altre.


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- L’ultima grazia la concedo a voi che non avete offeso il figlio del lupo come ha fatto la vostra amica – affermò cupo. Trattennero il respiro. - Perché Zaira occupa il posto che un tempo era mio? – chiese Aimatos ringhiante. Il sovrano lo sfiorò con lo sguardo altero, regale come aveva cessato d’essere da qualche tempo. Fu l’unico a riconoscerlo, a cogliere di lui un pericoloso ritorno alle origini. - Avete poche ore per decidere se restare o raggiungere le lande oltre la mia dimora, per scegliere il figlio del lupo o la straniera fedifraga che ha infangato il mio nome agli occhi degli dei, ma che non lo farà a quelli degli uomini. Avete poche ore per scegliere gli agi che vi ho concesso o la libertà che non posso più negarvi – sentenziò. Un calore scottante incendiò dentro ognuno di loro. Fu Flogos ad inginocchiarsi davanti a lui, lo sguardo al terreno, le mani nella neve. - Ed io ti ringrazio per la grazia che concedi, Dunamis di Astos. Ma dimmi cosa è accaduto perché la mia scelta possa essere ponderata e sincera – disse roco e Fos lo approvò. Il signore della rocca fece per andarsene, indifferente alle domande. Sapere e vedere Zaira reclusa nel posto peggiore dell’intero regno li aveva scossi e resi così fragili che sarebbe bastato un attimo per abbatterli e toglierli di mezzo. - Dillo cosa è successo, Dunamis! – lo esortò Fos e lui la guardò oltre la spalla. - Fallo tu, nobile principessa che mi sei pari. Dillo a coloro che dovrebbero prostrarsi ad ogni mio passaggio – fu brusco. Voleva il silenzio. Voleva il buio. Li lasciò soli, sferzati dalla neve, colpiti e ancora attoniti. La ragazza fece per seguirlo, poi demorse. Sarebbe stato inutile, come lo era stato tentare di convincerlo d’avere commesso un errore. Tutti attesero di sapere perché il destino li aveva messi nuovamente in gioco. L’odore stantio delle prigioni infastidiva Zaira, rannicchiata in fondo alla cella e stretta nel velo dell’abito. Era distante il tepore del palazzo. Era lontano Dunamis. Pensò a lui e alle sue azioni. Chiuse gli occhi che le bruciavano, ricordò il momento in cui aveva fatto di lei una regina, come promesso, come il Fato aveva disposto e come lui aveva sempre desiderato. Pensò all’ultimo istante in cui aveva potuto guardarlo e la sua bellezza si era fatta esagerata per toglierle la possibilità di difendersi, come se un dio lo avesse sfiorato per renderlo più affascinante. Pensò anche a se stessa, alla freddezza che aveva scoperto dentro e a come l’aveva alimentata, facendone una cosa da andarne fiera. Non aveva capito niente. Le parole del suo sposo non le avevano fatto accettare la propria dualità, l’avevano piuttosto indotta a sce-


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gliere un sentore a discapito dell’altro. Era divenuta altera, una regina senza cervello, talmente tronfia da sfidare davvero un dio. Sapeva che Thanatos lo era, lo aveva capito dal suo respiro assente e aveva creduto di poter essere un eroe al femminile, di mettere in discussione i punti fermi di un mondo che la stava ospitando. Così aveva toccato l’unico punto fermo che Dunamis aveva, offendendolo profondamente, da non poter rimediare, non in tempi brevi. Sentiva di averlo perduto. Confusa in una cupa penombra colma di ricordi, si domandava come poteva esserle accaduto, cosa era accaduto ad Astos, al re, e a tutti loro. Sola ascoltava i passi dei sorveglianti. E poi… il proprio respiro affannato la fece piangere. Ebbe la sensazione d’essersi svegliata, ma era tardi, ancora una volta era tardi. Infreddolita si avvicinò alle grate, le articolazioni irrigidite e il graffio alla nuca a farle male. Battè le sbarre attirando l’attenzione della guardia che non si mosse, ma sembrò disposta ad ascoltarla. - Voglio parlare con il re – disse quasi senza voce, aveva gridato come un’ossessa e la gola era in fiamme. L’uomo continuò a non muoversi e lei gli sfiorò una gamba. - Fa qualcosa perché io possa parlare con il re – lo implorò. Il soldato fece un cenno del capo, terminato il turno avrebbe fatto in modo di dare il suo messaggio a uno dei comandanti. Lei sorrise e lasciò cadere le spalle, esausta eppure sollevata. Sospirò. Si ritirò nel buio e portò il capo scompigliato tra le ginocchia fredde. Sospirò. Si morse il labbro inferiore. Non poteva essere, forse Dunamis le stava solo dando una tremenda lezione per le offese ricevute. Aveva ragione, era stata pesante e irrispettosa senza che lo meritasse. Aveva ragione lui, gli avrebbe chiesto perdono. Immaginò il suo rifiuto, la totale perdita di fiducia che ora lo muoveva nei suoi confronti. Ebbe un’idea. Gli avrebbe dimostrato che lo amava e che di tutto il resto non gliene importava un accidente! Iniziò a rimuginare. Il colpo infertole all’improvviso dall’uomo più potente dell’Ellade non era cosa da poco e lei non era poi così forte da poterlo parare con facilità. - Non la perdonerà – disse Aimatos e si sedette sul letto rassegnato. Si erano riunititi nella stanza di Flogos. Fos era riuscita a carpire al re solo qualche parola perché Dunamis non voleva far sapere troppo sul fatto d’essere stato insultato. Schià si strinse a Flogos che rimase fermo a fissare il vuoto. - Lo farà, il loro amore è qualcosa che va oltre… - fu superficiale Alopex e cercò l’approvazione della ragazzina di Delfi che questa volta scosse il capo in segno di diniego. Era crollato anche in lei l’ottimismo, tutto era crollato nel giro di poche ore. - Ma cosa le passava per la testa? – sussurrò dopo un po’ Flogos.


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- La paura – rivelò Fos, scrutando oltre una fessura delle assi che chiudevano la finestra. La guardarono, attendendo una spiegazione. - La paura di dover ancora affrontare le prove del Fato. Ha perso il controllo, lo ha fatto avallando la morte di Eucide e non si è più ripresa – non li deluse. - Chi ha paura non si mette contro il figlio del lupo – asserì Alopex. - Non è mai stato una minaccia per lei, ha sempre saputo tenerlo a bada, forte dei sentimenti che provavano. Però questa volta ha superato il limite ed ha fatto scattare in lui la bestia che non ha mai conosciuto – s’intromise Aimatos amaro. - Cosa ne sarà di lei? – piagnucolò Schià e tirò su con il naso. - Meglio che tu non lo sappia - sbottò l’ex schiavo. Schià scoppiò nuovamente a piangere. - Dovremo lasciare Astos – disse dopo un po’ proprio Aimatos e gli altri lo scrutarono. - Non pensare neppure di portarla con noi questa volta – mise le cose in chiaro Flogos che non era convinto di dover abbandonare la rocca. Qualcosa stonava nel quadro generale e quando qualcosa colpiva l’attenzione dell’omone, un motivo doveva esserci. - Troveremo un sistema – fu ottimista Alopex. Silenziosi pensarono e non si accorsero della porta che si aprì lentamente. - State cadendo in un tranello perfetto, tutti quanti – disse Dicaia, facendoli sobbalzare. Alopex estrasse la spada contrariato. - Posa l’arma, alto di grado, e usa il cervello che dicono tu abbia – lo schernì l’amazzone e entrò. Fos la fissò. - Di quale tranello parli? – la interrogò Aimatos, lo sguardo sottile. Lei fece spallucce. Era quasi guarita anche se ancora un po’ sofferente nei movimenti. - Non lo so esattamente, ma tutto ha l’aria di un tranello, dovremmo aprire gli occhi e cercare di comprenderne i risvolti – fu poco chiara. - Dunamis presto condannerà Zaira a morte – fu cruento Flogos. Dicaia sorrise scettica. - Probabile, ma bisognerebbe capire il motivo del precipitare degli eventi – insistette cercando Fos che sapeva lungimirante. - Dobbiamo solo tirarla fuori dal quel tugurio! – fu ottuso Aimatos. - O trovare un modo per controllarla, da sola è in pericolo – aggiunse Dicaia. - Ha ragione. Tutto questo ha l’aria d’essere la trama ben congeniata di un tranello e noi ci stiamo cascando come degli allocchi – finalmente Fos proferì parola. Dicaia sorrise soddisfatta e pensò a Thanatos. - Un dio è tra noi, un dio nefando - colse lo spunto il grosso Flogos.


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- State dando retta ad una sgualdrina della Città Bianca devota alla madre del nostro dio nefasto. Chi ci dice che anche lei non faccia parte del piano che sta ordendo? – non si trattenne Alopex. Non sopportava l’amazzone. - Placa il tuo stupido rancore, alto di grado, e vedi di trovare una soluzione che salvi voi, Zaira e me – sbottò la ragazza, dimostrando d’avere carattere. L’attico rimase immobile, gli occhi puntati su di lei. - Di te m’importa poco, il resto lo valuterò con le persone di cui mi fido – sibilò. Dicaia alzò le braccia in una resa comica che lo fece imbestialire. Flogos lo frenò da un impulso che gli avrebbe fatto fare una brutta figura. La guerriera fece per uscire. Poi finse di rammentare una cosa importante. - Dunamis ha disposto una serrata sorveglianza per la prigioniera, a nessuno di voi sarà permesso visitarla. Forse questo può interessarvi – disse. - E tu come lo sai? – sibilò Alopex. - Ho orecchie per sentire ed in questi giorni le cose più interessanti sono quelle che non si dovrebbero ascoltare – sorrise maliziosa liberandolo della propria presenza. - Perfetto, ogni previsione trova la sua realizzazione. Se non conoscessi così bene Dunamis, almeno potrei avere la speranza di beffarlo. Non ci sono riuscito legato dalle sue catene e non ci riuscirò con l’uniforme da comandante di Astos – sbottò l’ex schiavo. Rimasero nuovamente in silenzio. “Quindi tacete e consumatevi pure della vostra squallida devozione, capace di rendervi piccolo, di fare di un re un inetto” aveva detto Zaira. Dunamis chiuse gli occhi, seduto sul trono, immerso nel buio, avvinghiato a quel simbolo di potere. La notte lo aveva avvolto con la falsa promessa di lenire lo sconquasso che aveva dentro. Era finita. Questo lo addolorava e lo faceva sentire stupido. Era finita. Si sentiva perduto nel veloce ritorno a ciò che sapeva essere. Era finita. Il ricordo della figlia del futuro nei giorni della loro passione si accavallò con quello del disprezzo che gli aveva riservato. Era finita. Percorse con gli occhi ogni angolo della sala del trono, si soffermò sulla colonna sulla quale aveva fatto affiggere una mappa per capire da dove venisse la sera in cui l’aveva voluta al proprio cospetto. Era finita. Rammentò l’amore sull’Olimpo, i suoi baci e i voli alti. Era finita. Rivide quella strana città del futuro, squadrata e rumorosa, innevata e pericolosa. Era finita. Era tutto finito. Un amore grande era finito in uno schianto che gli aveva spezzato le ossa e per questo, come un animale ferito, era più ringhiante, meno propenso al perdono. Immaginò l’avvenire senza di lei, perché lei non c’era più. Zaira d’Enotria si stava assiderando nelle prigioni, ma non c’era più, da giorni non era più con lui, il suo viso aveva perduto i tratti meravigliosi dell’amore e della fiducia. Zaira era morta e non sapeva neppure


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quando e tanto meno perché. Si alzò e scardinò le assi che chiudevano l’accesso alla terrazza. Guardò la notte nevosa che si specchiò nei suoi occhi torvi, strinse i denti e visualizzò la sua sposa di un tempo riversa sul freddo pavimento della cella. La visualizzò sola, come solo era lui. Lesse a distanza i suoi pensieri, gli stessi che affondavano nel cuore che avrebbe dato volentieri in pasto ad un lupo! Sorrise soddisfatto anche se ferito, stanco e insonne. Si chiese se avrebbe chiuso occhio e la neve gli sfiorò il viso, un alito di vento mosse i capelli corvini. - Ho freddo - disse qualcuno, una vocina flebile e tremante che non lo fece sobbalzare, piuttosto lo incuriosì. Corse con lo sguardo e, confusa nella penombra biancastra, scorse una sagoma rannicchiata in un angolo. S’insospettì. Quale altro scherzo era in atto? Fece un passo e si fermò prudente. La sagoma si mosse e piano strisciò ai suoi piedi. Era coperta di stracci nei quali riconobbe le lenzuola ricamate d’oro e d’argento che aveva concesso ad Autolico la sera della sbronza. - I piedi - sussurrò la vocina e percepì la stretta labile di due mani attraverso gli schinieri di pelle. Si chinò attirato dalle lenzuola. - Come le hai avute queste – rombò strappandogliele di dosso Si trattava di una bambina che indossava solo un chitone corto bianco di lino. Nel privarla dei teli, la fece rotolare sul ghiaccio e lunghi capelli rossicci si riversarono sul candore della neve. La piccola si lamentò e cercò invano di mettersi in piedi. - Le ho avute da Autolico. Conosci Autolico? – rispose. Per avere un aiuto doveva obbedire e rispondere alle domande. Il sovrano fece per rientrare, lasciandola lì, impossibilitata a muoversi. - Non riesco a camminare – lo richiamò. Si voltò e senza fretta la raggiunse. Si chinò su di lei che tremava, la prese in braccio senza percepirne il peso. Era una piuma, un cucciolo smarrito capitato lì per chissà quale oscura ragione. Rientrò, si sedette vicino al focolare, privandosi del mantello per avvolgerla e scaldarla. La piccola gli si rannicchiò addosso e carpì tutto il calore possibile. Era gelata e i piedi scalzi erano arrossati. Il re non li avvicinò troppo alle fiamme, li massaggiò lungamente e riuscì a ripristinare la circolazione. La sconosciuta vide del pane accanto alla legna da ardere, fece per prenderne un po’, ma fu lui a porgerglielo. La vide mangiare avidamente, probabilmente digiuna da giorni. Pensò subito di metterla nelle mani di Fos, poi ricordò che forse lei e tutti gli altri non erano più ad Astos, perché la fedeltà nei confronti di Zaira li aveva certamente costretti a scegliere di allontanarsi per sempre. La piccola bevve anche del latte e sazia si accoccolò tra le sue braccia. Presto Dunamis si accorse che si era addormentata d’un son-


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no profondo e sereno. La guardò in faccia. Non doveva avere più di cinque anni, era piccola ma robusta nonostante gli stenti degli ultimi giorni e, da come si era comportata, conosceva la disciplina. Notò una benda che le fasciava il braccino, pensò che doveva essersi ferita in qualche scorribanda infantile e si alzò piano per non svegliarla. Raggiunse la stanza reale e la posò sul letto. Si riprese il mantello e la coprì con le calde coperte di lana. La osservò ancora e le sfiorò le labbra per verificare che fosse viva: percepì il suo respiro tranquillo. Forse era la figlia di qualche serva, anche se non l’aveva mai vista tra i bimbi che di solito giocavano in fondo alla scalinata principale del palazzo. Sbuffò esausto ed uscì dalla camera. Non avrebbe dormito. Continuò a credere che non lo avrebbe fatto mai più. - Un tocco da maestro, non c’è che dire – disse Dicaia intabarrata in un clamide di lana grigia e Thanatos, in cima alle scale che portavano al giardino e in contemplazione della neve incessante, non si voltò neppure. - Il tocco di un dio, Dicaia della Città Bianca – le rispose, il suo tono era soddisfatto. - Nel torbido si pesca meglio e la confusione in cui sei riuscito a gettare gli abitanti del palazzo è uno stagno paludoso – continuò l’amazzone appaiata a lui che continuò a non guardarla. Neppure lei lo guardava. - Otterrò ciò di cui ho bisogno. Lascerò Astos con la mia colpa espiata – ebbe un moto d’orgoglio, anche se le emozioni del dio erano nulle. - Hai eliminato l’ostacolo più alto, il re, ed ora Zaira non ha difese – gli fece capire di avere colto ogni risvolto dell’accaduto. - Dunamis adesso è disposto a regalarmela… la sua sposa eletta – ridacchiò nefasto. - Tutto troppo facile – scosse il capo la donna. Thanatos la scrutò interessato. - Facile e banale e quando si tratta di Zaira questi due aggettivi non sono appropriati – concluse e sostenne i suoi occhiacci inquietanti. - I giochi sono fatti e presto tutto sarà finito – sbottò l’immortale. - Eppure sono certa che il Fato non ti renderà le cose facili. Ti sei prodigato per innescare una reazione a catena, sei riuscito ad isolare nuovamente il re e Zaira è una preda già catturata. Ti stai godendo una vittoria che non hai verificato, Thanatos – lo preoccupò. Dicaia schioccò la lingua e fece per andarsene. - Cosa vuoi dire? – la richiamò perentorio. - Hai bisogno dell’opinione di un mortale, Thanatos? La tua è una condanna pesante, allora - lo prese in giro. Lui s’irritò e la raggiunse con un balzo invisibile, le afferrò un polso e la guardò in faccia.


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- Ci ho pensato e sono convinta che a condannarti sia stato proprio lui – lo provocò. - Chi? – rombò tombale il dio della morte. - Il Fato, lo conosci bene tu, vero? Se non rammento male è… - si divincolò dalla sua presa fredda più della neve. - … mio fratello – concluse la frase. Dicaia annuì e gli diede le spalle. - Condanna pesante la tua e l’espiazione non sarà il gioco da maestro che hai giocato sino ad ora. Mi divertirò ad assistere alle prove che il fratellino bizzarro ti proporrà e mi divertirò a vedere come ne uscirai – lo salutò tronfia, ora sicura di avere tratto le giuste conclusioni. Thanatos rimase a fissare il punto dove era scomparsa. Riascoltò dentro le sue parole. Il tempo stava stringendo, si era compiaciuto e aveva perso di vista l’obiettivo. Si voltò verso il giardino, dissolvendosi come nebbia nell’oscurità cui apparteneva. Dicaia che lo aveva spiato da una finestra poco distante, veloce corse verso l’arena, l’attraversò e, davanti alle scale delle prigioni, si privò del mantello per infilarsi un pesante elmo militare. Scese le scale e raggiunse la guardia preposta alla cella di Zaira. - Cambio anticipato, troppo freddo in questo punto – disse all’uomo che obbedì. Aveva osservato per giorni i movimenti dei soldati di Astos, memorizzando il loro modo di parlare. Aveva soltanto alterato un po’ la voce aiutata dal copricapo e poi… la guardia era esausta, incapace di cogliere qualsiasi irregolarità. Si parò davanti alla cella e attese, certa che qualcosa sarebbe accaduto. Zaira era in fondo, ascoltò il suo respiro. S’irrigidì per non destare alcun sospetto, sino al momento in cui una leggera brezza la mise all’erta. Non si voltò. La figlia del futuro scorse la presenza di qualcuno all’interno della cella. Cercò di focalizzare l’immagine, ma la luce di una torcia distante era poca. L’antro in cui l’aveva fatta gettare Dunamis era senza via di scampo e senza bagliori, un inferno. L’uomo si chinò accanto a lei e lo vide circondato da qualcosa che non riuscì a delineare. Ali? Scosse il capo. Era distrutta dentro e fuori, stanca e confusa, certa d’essere ad un passo dalla follia. Solo adesso sapeva quanto il re poteva farle male Poi la speranza la fece sobbalzare e tentò di mettersi in ginocchio, senza riuscirci, il freddo la paralizzava. - Maestà – sussurrò, sorrise nella tenebra cieca. Lo sconosciuto non rispose, si limitò a coprirla con qualcosa che sulla pelle del collo parve una pelliccia o forse… no, qualcosa di morbido. Sfiorò quel sollievo imprevisto e colse la consistenza di… piume? Aveva veduto ali e sentiva piume. Tentò di urlare, ma una mano gelida le impedì di farlo, dandole a vedere lo scintillio scarlatto degli occhi. L’aveva avvolta con le proprie ali, la stava salvando


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dall’assideramento, pur essendo lui di ghiaccio. Era Thanatos, non ci mise molto a capirlo. Si divincolò frenetica, ma la sua presa era di pietra. - Non è posto consono per una regina questo - le sospirò senza che Zaira ne percepisse il fiato. Lo aveva stampato addosso, ma di lui non era possibile sentire nulla. Mugugnò atterrita, inorridita eppure sollevata dai brividi che fino a poco prima l’avevano fatta tremare. La mano del dio liberò le labbra, l’invito a non urlare fu palese. Obbedì, godendo il tepore che l’avvolgeva. - Non sono più la regina di Astos – gli fece sapere. Abituatasi al buio, ora lo poteva vedere bene. Il suo pallore era un faro nella notte e i suoi occhi erano spaventosi. - Di Astos – sottolineò. Lei non capì. Ora la mano di Thanatos le era sotto il mento, raggiunse la nuca dolorante e fu una sensazione piacevole. - Sangue - asserì l’immortale osservando il palmo macchiato. Confusa, Zaira si toccò la nuca e si accorse d’essere guarita, proprio com’era accaduto sull’Olimpo anni addietro al contatto miracoloso dell’acqua del ruscello che attraversava il monte. Lo guardò, ma ancora non si ribellò a lui che strinse leggermente le ali intorno al suo corpo caldo. La fissò. Si fissarono. Il dio riuscì per un attimo a entrare nel suo animo debole e provato. Era riuscito a governarla come nessun immortale poteva fare in quel tempo. Abbassare le difese di un mortale, per un dio significava poterne avere l’assoluto controllo. Era un inganno, ma sarebbe bastato per espirare la colpa di cui si era macchiato. Era un inganno, ma non sino in fondo. Avrebbe interrotto il controllo mentale che esercitava su di lei nel momento in cui fosse stato certo di essere sul punto di ottenere ciò di cui aveva bisogno. - Cosa volete da me? – si fece disponibile, lui sorrise capzioso, simile in quel momento al re. Zaira se ne accorse e sentì il cuore colmarsi di una fittizia gioia. Ma Thanatos non era Dunamis e tristemente se ne rese conto subito. Abbassò il capo, lui lo rialzò verso di sé e le sfiorò le labbra con un dito, facendole dischiudere in un dolce invito che gli era indifferente. Apprestò il volto, lei chiuse le palpebre, confusa in un marasma di sogni e realtà discordanti. Era fatta per Thanatos, la sua angoscia stava per terminare e se ne sarebbe andato via veloce, lasciando Astos in preda alla discordia, alla ferocia del suo re ferito, alla condanna della figlia di Cronos. - Sei certo che un inganno espierà la tua colpa o il consenso non dovrebbe essere spontaneo? – lo interruppe la voce del soldato di guardia che intanto aveva aperto la cella e era entrato con la torcia in mano. Non era un soldato, bensì quell’amazzone invadente, Dicaia della Città Bianca. Le fiamme lo illuminarono, si ritrasse contro la parete con le ali allargate e gli occhi tremolanti, rigettando Zaira nel freddo che la risvegliò. La straniera vide entrambi uno contro l’altra e non potè ignorare il piumaggio lucido che circon-


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dava il dio, rendendolo… affascinante? No, terribile ed inquietante. Rasentò senza alzarsi la parete e si portò nell’angolo opposto. - Stai ostacolando un dio – recriminò astioso e le sue ali si ritirarono dietro di lui. - Posso farlo, sei un dio condannato dal Fato e lui mi approverà – lo provocò sicura di sé privandosi dell’elmo. Quella guerriera stava diventando insistente e difficile da aggirare, un imprevisto e era certo che con lei presente ad Astos non sarebbe mai riuscito a compiere la propria missione. Fece per andarsene. - Non ci provare, Thanatos, non tentare di liberarti di me che sono cara a Nyx potente – lo avvisò, come se gli avesse letto il pensiero. Lui non replicò. Zaira, allo stremo, perse i sensi. Dicaia le diede un’occhiata e si affrettò a coprirla con il mantello della divisa che aveva rubato a Flogos. Uscì e richiuse la cella, attendendo il turno successivo. Era notte fonda. Poche ore e sarebbe giunta l’alba. Dunamis sedeva ancora sul trono. Cosa avrebbe portato il nuovo giorno? Quale abisso lo attendeva con il ritorno della luce grigia? Poco importava. Dei passi lo distrassero e il bagliore di una torcia gli irritò gli occhi. Alopex entrò nella sala. Si parò davanti a lui sull’attenti. Il figlio del lupo non comprese la sua presenza. Tutto si era aspettato piuttosto che vedere uno solo di loro all’interno del palazzo e tanto meno di ricevere il rispetto del suo rango. - Alopex dell’Attica, che accidenti vuoi? – lo interrogò seccato. Il comandante si mise sull’attenti e appoggiò la torcia in terra che li illuminò entrambi. - La prigioniera - disse distaccato. Dunamis lo osservò attentamente. - Chi? – - La prigioniera chiede di incontrarti – ignorò quella provocazione. - E tu cosa ci fai ancora al mio cospetto? – - Sono un comandante di Astos – gli ricordò. Il figlio del lupo si sentì per un attimo spiazzato. - Dove sono gli altri? – volle sapere. - Ad adempiere ai doveri del loro rango – era preciso nelle risposte. Il re non si mosse. Alopex attese per qualche minuto, poi tossicchiò, senza causare alcuna reazione. - La prigioniera - ripetè, trattenendo il desiderio di inveire contro di lui. La mano di Dunamis si alzò per farlo tacere. - Disponi un palo al centro dell’arena – ordinò. - Lo scopo? – temporeggiò.


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- Non è necessario che tu lo sappia. Voglio quel palo piantato al centro dell’arena alle prime luci dell’alba – lo zittì. Alopex non sembrò intenzionato ad obbedire. - Hai scelto di servirmi, fallo – lo redarguì. - E’ un’idea senza senso – sussurrò l’attico, penosamente convinto di poterlo dissuadere. Gli occhi di Dunamis si fecero di fuoco e si alzò di scatto per raggiungerlo con pochi passi. - Non sarai tu ad eseguire i miei prossimi ordini e non sei tu che devi dirmi cosa è giusto e cosa è sbagliato. Fai quello che ti ho detto o andrai a fare compagnia alla tua amica del futuro prima in cella e poi… - gli ringhiò in faccia. - … e poi legato al palo sotto la neve! – intervenne Aimatos che aveva assistito alla conversazione. - A me sono toccati pioggia battente e sole cocente – aggiunse. Il sovrano lo squadrò. - Bene, allora sono certo che approverai che si tratta di una giusta condanna – concluse dando le spalle a entrambi. Sentì che Aimatos superò Alopex e quando si risedette sul trono se lo trovò a pochi metri: gli occhi blu piantati addosso, il ghigno inconfondibile del disprezzo stampato sulle labbra. - Morirà – disse privo d’inflessione. Dunamis alzò un sopraciglio. - Sarebbe un problema? – sorrise. L’ex schiavo non ebbe più dubbi. Il re non stava scherzando. Non demorse. - Io sono sopravissuto perché sono un uomo. Lei è una donna, morirà in poche ore – parlava piano, scandiva le parole per piantarle bene nel cervello impazzito del signore della rocca. - Gli dei erano benevoli con lo schiavo ribelle di Astos, forse lo saranno anche con la figlia del futuro – Aimatos non volle andare oltre. Non disse più nulla, seguito da Alopex abbandonò la sala. Rimasto solo il re abbassò le spalle. Non sopportava d’essere messo in discussione. Nel momento in cui aveva creduto d’essere nuovamente solo, si ritrovò davanti Schià, con le mani conserte e il visino smunto che luccicava coperto di lacrime alla luce della torcia in terra. Con un gesto della mano le intimò di andarsene subito. Non la voleva ascoltare. Lei non obbedì e cadde sonoramente, e probabilmente anche dolorosamente, in ginocchio sulla dura pietra davanti al trono. - Vi supplico – la voce l’aveva perduta nei pianti sconnessi. - Tempo perso, Schià, le mie decisioni le ho prese e non le cambierò – disse.


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- Non voglio convincervi, non sono che una serva più serva delle serve per parlare con voi che avete fatto di me una nobile sposa - disse d’un fiato, pronta per un soliloquio che Dunamis poteva prevedere. - Bene, la tua intelligenza non ti smentisce. Vattene e non infastidirmi oltre – la liquidò. Lo raggiunse e gli cinse le ginocchia con una forza sconosciuta. Le lacrime che non smetteva di versare lo bagnarono e scottanti colarono sino alle caviglie. - Non posso offrirvi la mia vita per lei perché non vale niente, non posso chiedervi la pietà che voi non volete concederle, ma ascoltatela, solo una volta. Poi le vostre decisioni potranno continuare ad essere quelle che sono – sproloquiò disperata, il mento a sbattere frenetico contro lo stinco dell’uomo. Dunamis spostò la gamba e lei non mollò la presa. - Non ho alcun bisogno di parlare con lei – la smorzò. La giovane pianse ancora, assordandolo. - State mentendo, lo fate con me ed ha poca importanza, ma lo state facendo con voi stesso! Non potete permettere che il Fato si accanisca contro di lei senza muovere un dito, senza difenderla – non cedette. Il re la scostò e veloce le afferrò un braccio per poterla guardare in faccia, cozzando contro il verde intenso dei suoi occhi sparuti. - Zaira sa difendersi da sola ed il mio aiuto è poca cosa vicino alla sua grandezza – le soffiò in faccia, poi l’allontanò con una spinta. - Non pensava ciò che ha detto – concluse Schià. Dunamis sbuffò. - Vattene e non farmelo ripetere – chiuse il discorso. Lei si alzò e l’espressione adirata dell’uomo si bloccò quando dischiuse la mano davanti al suo naso. - E’ preziosa, qualche servo avrebbe potuto prenderla e non restituirvela – disse. Dunamis osservò la collana rotta che solo il giorno prima scintillava al collo di Zaira. La prese sgarbatamente e Schià lo lasciò inesorabilmente solo. La bambina uscì dalla stanza del re avvolta in una coperta di lana e camminò osservando gli anditi illuminati dalle torce crepitanti. Le guardie non la fermarono, visto che era uscita dalle camere reali. Raggiunse la sala del trono, soffermandosi di tanto in tanto davanti alle armi d’oro decorative, sfiorandole affascinata e sorridendo nel ricordo che aveva di casa. Entrò, vide il re ancora seduto sul trono che osservava un punto invisibile verso la terrazza serrata. Accanto a lui notò un vassoio di legno con la colazione che gli era stata portata e che non aveva toccato. Lei aveva una grande fame e era ancora infreddolita. Avanzò silenziosa. Quell’uomo era altissimo e minaccioso, le lunghe gambe sfoggiavano dei pesanti schinieri, i suoi abiti scuri evidenzia-


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vano il nero dei capelli. Improvvisamente si accorse di lei, la guardò con gli occhiacci atri e fermi, fissi nell’espressione bieca che le riservarono. Tuttavia, la piccola non si spaventò e s’inchinò, obbediente all’etichetta di una corte. - Tu sei Dunamis di Astos, il figlio del lupo – gli disse inconsueta. Lui annuì. - E io sono al tuo cospetto – aggiunse. Diede l’impressione di recitare una lezione a memoria. - Il tuo nome – fu secco. - Mi chiamo Ormè – rispose. Lui alzò un sopraciglio. - Perché vaghi per il mio palazzo? – le chiese. - Sono giunta ad Astos perché sto cercando mio padre – rivelò interessandolo. - Sei tu mio padre? – Non rispose. - Mio padre è un eroe e tu… sei un eroe? – continuò, seguendo una logica distante da quella disincantata dell’uomo. - Sai che sono il figlio del lupo, cos’altro sai? – si dilettò senza cattiveria. - Dicono di te che sei sanguinario, crudele e che in battaglia sei invincibile. Sei un eroe – concluse. - Io sono un re – tentò di deluderla. Ormè alzò i grandi occhi blu. Dunamis ebbe un sussulto interiore. - Anche mio padre lo è per volere degli dei – aggiunse sicura di sé. Un vuoto dilagante tolse il respiro al sovrano. Si guardarono lungamente, la fragilità e l’età della bambina frenarono un segreto impulso. - Ho trovato mio padre? – insistette Ormè. - Ne dubito - Avete mai amato un’amazzone? – lo interrogò. Dunamis pensò: si, un’amazzone l’aveva amata. Ormè non parlava di quell’amazzone e non rispose. Osservò la verità che aveva scorto subito nel colore degli occhi di quella piccola donna educata, sontuosa e riverente eppure determinata e forte da sopravvivere per giorni sotto una neve incessante. La distrasse indicandole il vassoio ricolmo e lei dimenticò il motivo che l’aveva portata al cospetto di Dunamis. La osservò, mentre divorava le frittelle d’orzo con le cicale fritte e sorseggiava avida il latte di capra appena munto. In quel momento arrivarono i tre comandanti che sull’attenti attesero che fosse lui ad interrogarli. Lo fece con lo sguardo, mentre Flogos rimase perplesso nel vedere accanto al re una bambina famelica. Anche Aimatos la osservò, mentre di spalle si abbuffava impunemente. Fu Alopex ad avanzare di un passo.


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- I tuoi ordini… sono stati eseguiti – comunicò. Il signore della rocca si alzò, Ormè solo allora si voltò e vide i tre uomini. Li osservò uno per uno e si soffermò sull’ex schiavo che se ne accorse. Poi seguì il re, stretta nella coperta, che si fermò accanto ad Aimatos e lo squadrò, senza che l’altro ne capisse il vero motivo. - Torna nella mia stanza, presto un’ancella ti raggiungerà e si occuperà di te – si rivolse alla bambina che obbedì, com’era abituata a fare nel luogo dove era cresciuta, un luogo duro, lui lo sapeva. - Chi è? – chiese proprio Aimatos. Dunamis ebbe un’espressione ironica. Sul palco reale vi era Thanatos che osservava l’andirivieni nell’arena. Un palo si ergeva al centro della stessa. Dunamis, alle sue spalle, lo osservò senza meraviglia, sapeva che il dio non se ne sarebbe andato. Si appaiò a lui, immobile sotto la neve, insensibile al gelo nonostante gli abiti leggeri. - La ucciderai – disse senza emozione. Il re non manifestò alcun turbamento. - C’è un dio tra noi, saprà salvarla – ribattè austero, deciso nei propri intenti. - Un insulto vale la sua vita? – fu scontato l’immortale. Dietro di loro giunsero Schià, distrutta, Fos preoccupata, e Dicaia vestita ancora come un soldato. - Questa è la legge degli uomini, la tua cosa prevede? – non cedette il figlio del lupo. - Gli dei non l’hanno condannata – lo avvertì lasciandolo indifferente. - Ha offeso me e io l’ho condannata – fu perentorio. - E’ un’eletta del Fato, lo dimentichi? – ma il re di Astos era accecato dall’orgoglio ferito. - Il Fato mi conosce, ha sempre saputo chi sono e sono certo che non ha mai avuto intenzione di fare di me un uomo. Forse ho mancato tentando d’essere umano, amando, accettando il sentimento che ha fatto di me un inetto – si lamentò perché fu proprio un lamento. Thanatos sbuffò, per la prima volta sfiorato da ciò che stava accadendo. - Stai calpestando la tua intelligenza, Dunamis – insistette, mentre una grassa risata di Dicaia spezzò la tensione e il re si accorse non tanto di lei, quanto dei suoi abiti. La fissò duramente. - Non ricordo di averti autorizzato a portare l’uniforme dei soldati di Astos la riprese. - Lascia stare i miei vestiti, Dunamis! Il dio della morte si sta opponendo ad una morte… non lo trovi insolito? – lo riprese baldanzosa. La ignorò e scese la gradinata in direzione del drappello di uomini da lui scelti in attesa dei suoi ordini. Dicaia non demorse seguendolo nella neve che arrivava alle ginocchia.


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- Non la salverà, non può farlo – gli afferrò il braccio. Dunamis si divincolò e la inchiodò con un’occhiata. - Apri gli occhi! Sei completamente accecato da un’inezia al confronto di quello che c’è in gioco! Il dio della morte dimora nella tua casa e vuole la tua sposa – insistette certa che se Zaira fosse stata esposta, non avrebbe avuto scampo. - Non è più la mia sposa e tu stai abusando della mia ospitalità – chiuse il discorso portandosi davanti alle scale delle prigioni. Dispose velocemente il da farsi, tornò indietro e l’amazzone non potè fare altro che assistere alla follia del figlio del lupo. Restò a pochi metri dal palo. Guardò Thanatos che distante aveva contato su di lei. Ebbe un ringhio di rabbia e pensò, pensò, pensò. Dunamis tornò sul palco dal quale avrebbe assistito all’esecuzione. - Non merita ciò che le stai facendo – gli sussurrò prudente Fos. Non l’ascoltò. I comandanti non c’erano, ma la loro assenza non fu neppure notata.


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Capitolo VIII LA STANZA

- Ci ammazzerà tutti, sta aspettando una nostra mossa per farlo – disse Alopex pressato contro la parete accanto a una piccola terrazza che permetteva di vedere l’arena. - Davvero credi di poterla lasciare morire in una tormenta di neve? – lo riprese Aimatos, appiattito anche lui contro il muro. La precipitazione offuscava la visibilità. - Dove pensi di portarla? – intervenne Flogos. La domanda più intelligente non era stata fatta sino a quel momento. - Via da quello spiazzo, il palazzo è grande, troveremo un modo per nasconderla, ma là fuori non reggerà più di qualche ora – non si formalizzò l’ex schiavo, disposto a tutto. - Non abbiamo scampo, lo hai considerato? Non è possibile lasciare Astos, la neve ha bloccato le porte, comprese le uscite secondarie – gli rammentò Alopex. - E’ un problema? – Aimatos interrogò i due amici che negarono all’unisono. - Dunamis non si fermerà, non questa volta – concluse Flogos rassegnato. Tutto stava ricominciando. La volta precedente avevano avuto modo di scappare dal figlio del lupo, ma ora erano suoi prigionieri in uno spazio limitato e nella sua dimora. - Dicaia ci aiuterà, sono certo che ci saprà fare – li avvertì l’ex schiavo irritando Alopex che tacque. Intanto Zaira fu prelevata dalla cella. Quattro uomini erano stati incaricati di portarla all’esterno. Non aveva forza e qualsiasi tentativo di fuga sarebbe stato inutile. Il re non era solito lasciare nulla al caso. Si domandò cosa aveva in serbo per lei. Forse era disposto a darle una possibilità. Mossa da quella speranza, non oppose resistenza, scortata salì le scale. Giunta fuori, notò subito il palo al centro dell’arena e cercò spasmodica Dunamis, scorgendolo lontano sul palco. Anche Thanatos lo aveva abbandonato. Senza che i suoi aguzzini la fermassero, avanzò e superò la poco distante Dicaia senza nemmeno vederla. Attraversò gran parte del piazzale, sino a trovarsi davanti al palco, dal quale Dunamis la fissava minaccioso eppure magnanimo per averla lasciata avvicinare. Si guardarono con la neve che continuava a cadere e


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che bagnava i capelli della straniera, intirizzendola ancora di più. Si strinse nel mantello datole dall’amazzone, tentò di inchinarsi davanti a lui. - Il mantello – la fermò con voce tonante. Lei non comprese. - Ascoltatemi – azzardò, abituata alle opportunità che le aveva sempre concesso in nome di un amore che ora non scorgeva più nei suoi occhi. Quale dio gli dava tanto fascino da rendere quella lontananza sferzante più del gelo che paralizzava le ossa? Quale dio era così crudele da sottolineare una perfezione che adesso le sembrava qualcosa di inafferrabile dopo averla avuta tra le braccia? Dunamis non prese in considerazione la sua supplica e ordinò ai soldati di privarla dell’indumento per procedere alla condanna. Non le rivolse la parola, non la degnò d’attenzione, mentre Dicaia stringeva lo sguardo sulla finestra dalla quale i tre comandanti tenevano d’occhio la situazione. - Mi volete morta?! – esclamò la figlia del futuro, mentre il più grosso dei carcerieri, dopo averla trascinata, le legava le mani dietro la schiena con il palo a percorrerla tutta. Sarebbe dovuta così rimanere in piedi sotto quell’inferno bianco che continuava ad aumentare d’intensità, a tratti non riusciva più a scorgere la sagoma nera del figlio del lupo. Non le rispose e lei deglutì molte volte, bagnata e percossa dall’aria glaciale. - Mi volete morta – concluse mesta, decise di non implorarlo più. Lo conosceva. Oh, se lo conosceva! Lo aveva conosciuto nell’arco di un giorno e l’intelligenza che purtroppo aveva le negò qualsiasi speranza. Lasciò scendere le spalle e reclinò il capo per fissare il manto bianco che già le copriva i piedi nudi. Le erano stati tolti anche i calzari. Il fiato era visibile e le usciva dalla bocca in una nuvola come fosse l’anima che presto l’avrebbe abbandonata. - Nessuna pietà dunque! – urlò con la rabbia a sostituire ogni fragilità. Era certa di morire, ogni cosa all’improvviso perse d’importanza. Ringhiò e Dunamis sembrò interessato alla scena da lui stesso disegnata. La neve parve diradarsi per permettere a entrambi di vedersi nitidamente. I loro sguardi feroci s’incontrarono, il fuoco della sconfitta lacerava le pupille allargate della ragazza, mentre un sorriso bieco screziava la piega delle labbra in una tacita sfida. - Siete il bastardo che non ho mai voluto vedere e vi odio come non ho mai odiato! Mi fate pena nella vostra misera piccolezza che mascherate dietro il titolo che neppure vi spetta! – aggiunse senza ritegno riferendosi al fatto che in realtà lui era Isos e Isos era Dunamis e che il vero Dunamis era proprio colui che si faceva chiamare Isos. Una faccenda complicata che il figlio del lupo colse. Sentì dentro un graffio profondo. Non replicò, continuò a squa-


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drarla per sottolineare la precarietà della posizione in cui l’aveva posta. Zaira sputò in terra e sorrise malefica. - Nessuna donna vi accetterà come ho saputo fare io, cane rognoso! Nessuna donna amerebbe un vile usurpatore che china la schiena davanti all’ingiustizia perché sono gli dei a volerlo! – non era intenzionata a smetterla. Cosa poteva cambiare? Nel migliore dei casi sarebbe riuscita a inferocirlo a tal punto da farsi tagliare la gola e… sarebbe morta subito. Dunamis le riservò un sorriso di compatimento. - Nascondetevi pure dietro la vostra stupida autorità, fatelo bene e fatelo sempre… anche quando le vostre lacrime allagheranno l’abisso del niente che sono i vostri occhi! Ma sarà tardi! – concluse e rise sguaiata, disperata, tanto da non rendersene neppure conto. Lo vide scomparire oltre la porta del palco reale, diretto verso il tepore della sua stupenda reggia nera. Strinse i denti e i pugni sotto la condanna irrevocabile che saliva come acqua, ma era ghiaccio. Sibilò, mentre Dicaia raggiungeva correndo il re, decisa a occuparlo in una discussione, in una recriminazione, in una conversazione, in qualsiasi cosa che permettesse agli altri di agire. - Siete un pazzo! – lo aggredì alle spalle, mentre stava per sedersi sul trono. Nella sala c’erano anche Fos e Schià, a conoscenza del piano dei comandanti. La situazione era in caduta libera e a nessuno più importava cosa sarebbe accaduto, la priorità era salvare Zaira. Dunamis si voltò, incuriosito dall’arroganza dell’amazzone, la stessa che un tempo aveva tremato sentendo solo pronunciare il suo nome, la stessa che lui aveva salvato da una violenza carnale da parte di Alopex, la stessa che aveva accettato di ospitare e per la quale aveva disposto cure adeguate. L’ingratitudine non lo offese, si sarebbe meravigliato del contrario. Come gli altri, percepiva l’aggravarsi delle cose. Schià lo distrasse con i suoi soliti monotoni singulti, la osservò abbracciata alla principessa che la stringeva maternamente. I due nobili si fissarono, non colse che disperazione nell’imperturbabile figlia di Scotos. - Perché volete farvi odiare? – gli chiese con un filo di voce e lui ridacchiò, facendo un altro passo verso il trono. Guardò quello che aveva fatto disporre per la sua regina, argenteo e scintillante in un ricordo pungente. Lo rivoltò, facendolo rotolare giù dal rialzo. Il fragore fece piangere ancora di più Schià - Perché? – insistette Fos lieve. - Non lo sai, giovane regina senza regno? – la interrogò di spalle. Lei tacque. - L’odio non mi spaventa, so di poterlo fronteggiare perché nessuno di voi può eguagliare quello che so provare io. Odiatemi, fatelo tutti e mi darete la giustificazione che m’impedisce di ammazzarvi come ho desiderato dal pri-


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mo istante in cui avete invaso la mia dimora con false lusinghe e mendaci amicizie – sibilò. Dicaia calcolò mentalmente i movimenti dei tre uomini all’esterno. - Sei troppo sicuro di te, Dunamis di Astos! Il tuo odio non è nulla di speciale, ognuno di noi può eguagliarti! – lo provocò. Lui la fissò sospettoso. Era attento. - Vogliamo fare una prova? – lo sfidò. Permettergli di pensare avrebbe fatto saltare il piano in atto. Fos strinse gli occhi e Schià sobbalzò, quando l’uomo volse l’attenzione in direzione dell’arena per ascoltare il silenzio. Anche Dicaia se ne accorse e prontamente sguainò la spada, attirandolo nuovamente su di sé. - Vuoi metterti contro un‘amazzone? – fu volutamente sciocca, andò a toccare i punti giusti per accecarlo. Lo scintillio dello sguardo del re la intimorì, ma non lo diede a vedere. Aveva contro l’uomo del quale il suo popolo parlava, raccontando terribili storie per spaventare le bambine. Era cresciuta con il mito negativo di Dunamis, trovarselo come avversario era sempre stato il suo peggiore incubo. - Io le Amazzoni ero solito aprirle in due con un solo colpo e forse tornare alle vecchie abitudini mi divertirebbe più di una condanna a morte lenta e noiosa – disse roco, ignorando d’avere un’arma puntata addosso. A conti fatti Zaira doveva essere già all’interno del palazzo con l’aiuto degli uomini. Dicaia abbassò la lama e, con un gesto volutamente irritante, la lasciò cadere a terra per poi alzare il mento con determinazione. Dunamis ebbe un bagliore mentale in quel momento, un ricordo nitido che lo fece vacillare per qualche istante. Rivide Zaira sul Parnaso, la notte in cui lo aveva cercato per salvargli la vita. Allora l’aveva ferita alla gola, l’aveva fatta sanguinare Diede un’occhiata di disprezzo a Dicaia, mentre le altre due si erano defilare dalla sala. Le diede le spalle. - Vattene – sbottò stanco. Sembrava esausto. Forse l’insonnia iniziava ad attentare alla sua forza fisica. La donna, ottenuto il tempo di cui aveva bisogno, indietreggiò sino alla porta e fece per andarsene. Qualcosa andò storto e lei raggelò. Un fragore di ferraglia mise all’erta il sovrano che si voltò. Quello stesso fragore fece scattare l’amazzone che corse a perdifiato in direzione del rumore. Si accorse di averlo dietro, veloce, velocissimo, notoriamente veloce! Deviò per sviarlo, ma lui seguì gli anditi verso la torre più alta. Allora lei, a sua volta, lo seguì e, in fondo al lungo corridoio, vide gli amici. Aimatos teneva in braccio Zaira infreddolita e recalcitrante. Con lui c’erano Alopex e Flogos, Fos, Schià e una bambina. Alle strette, il gruppo non tentò di salire sulla torre, dalla quale non avrebbe avuto scampo. Neppure lì c’erano vie d’uscita. Frettoloso Ai-


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matos affidò Zaira a Fos e Schià. Deciso come sempre e più pronto degli altri, si fece strada e si ritrovò davanti al re con la spada in mano. - Mi stai offrendo un’occasione irripetibile, Aimatos, proprio come ai vecchi tempi – disse il figlio del lupo, rinfrancato dal sapore acre di una sfida all’ultimo sangue. - Patetico come un tempo, Dunamis! Hai inscenato tutta questa pantomima per tendermi una trappola ed io… sono qui! Ma questa volta non ti sarà facile uscirne incolume – anche l’ex schiavo tornò alle origini. Le diatribe ormai di accavallavano senza una regola fissa. - Dunque la tua superbia non si è dissolta, ancora credi d’essere il centro del mio mondo, dei miei pensieri, ma resti il niente che eri quando sanguinavi sotto i miei colpi – gli ricordò. - Storie! Vuoi il mio sangue, lo hai sempre voluto – non demorse. - Sia! Se me lo offri con tanta generosità, lo berrò volentieri. Non rifiuto mai un brindisi – accettò lo scontro, lo fece con una gioia distorta e perversa nel petto agitato. Gli fu addosso in un attimo, ma l’altro parò il suo attacco pesante al collo. Dicaia si guardò intorno e vide le armi che erano cadute accidentalmente. Prese una delle spade di ferro dall’impugnatura d’oro e ne gettò altre due in bronzo a Fos e Schià che le presero senza avere intenzione di usarle. Aimatos fu con le spalle al muro, ma reggeva bene le spinte del re che lo fissava dritto negli occhi. - Ancora contro di me, ancora a difendere Zaira nella consapevolezza di non poterla salvare – gli sibilò in faccia mentre l’ex schiavo riusciva ad allontanarlo. - Sono riuscito una volta a salvarla da te, gli dei mi assisteranno anche adesso – lo stuzzicò, andando a rivangare il passato. Gli si avventò addosso e questa volta fu il re a parare il suo attacco. Uno scalpitio echeggiante li distrasse entrambi. Dunamis si voltò, abbassando la guardia. Aimatos, perdendo l’equilibrio, gli ferì il braccio sinistro. Il sovrano si ritrasse e tra loro sfrecciò Thanatos in groppa al suo bieco destriero Alastore. Dicaia balzò sul cavallo alle spalle del dio e gli afferrò il chitone viola alla schiena, ma la stoffa cedette e fu disarcionata. Aimatos e Dunamis a quel punto scivolarono uno sull’altro, rialzandosi veloci e inseguendo l’animale per pochi metri. Ormè, che aveva assistito a tutto, si pressò contro la parete per farli passare. La porta della stanza più vicina alla torre si aprì e Alopex, che gli era davanti, si scostò di scatto. Thanatos afferrò Zaira, strappandola dalle braccia di Fos che non ebbe il tempo di opporsi e vacillò addosso a Flogos che la sostenne, mentre Schià si aggrappò al vestito della figlia del futuro, lasciandosi trascinare in quella corsa sfrenata. La porta iniziò a richiudersi lentamente, Aimatos e Dunamis accelerarono per riuscire a


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entrare, ma mentre lo schiavo, con un vero e proprio tuffo, riuscì a superarla, il re vi si schiantò contro con il braccio ferito e con la testa battendo la tempia. Il sangue gli percorse il volto obliquamente. Cadde in ginocchio nell’impatto e scosse il capo per il colpo. Poi si rialzò e iniziò a battere con insistenza l’infisso serrato, di pietra al tocco. Ferito si fermò con un ringhio sconfitto. Respirò affannosamente per il dolore alla testa che lo indusse a sfiorarsi i capelli in cerca di sollievo. Del sangue gli andò anche negli occhi, infastidito lo tolse con un polso. Attorno a sé c’erano numerosi schizzi rossi e Fos si avvicinò per verificare il suo stato. Il colpo di Aimatos non era stato nulla di particolare, ma lo schianto sulla ferita esistente ed alla tempia aveva fatto un bel danno. L’uomo la scrutò, per un attimo la principessa colse in lui un’inattesa disperazione. Non lo soccorse, sapeva che se lo avesse fatto lo avrebbe irritato. Piuttosto, si avvicinò alla porta serrata e la sfiorò. Non era più la porta di prima. Non comprese. - Thanatos è ad Astos? – chiese la vocina atterrita di Ormè. Dunamis la guardò distrattamente. Fos le diede un’occhiata materna, era un bimba e aveva assistito a cose che sarebbe stato meglio non vedesse. - Lo conosco e lui conosce me – asserì, interessando anche l’attonito Flogos. - Impossibile, sei viva – la contraddisse il re che si mise dritto, la testa gli girava. - Lo devo a lui – fu ingenua. Fos strinse gli occhi grigi. - Thanatos non può ricevere nessuna gratitudine – le disse poco distante Dicaia che si era rimessa in piedi dopo la caduta dalla groppa di Alastore. - Sbagli, io gli devo la vita, perché non me l’ha portata via – raccontò. Le due donne si fecero sospettose. - Thanatos non conosce la pietà, non può farlo – concluse il signore della rocca continuando a fissare la porta chiusa. Flogos la sfiorò come aveva fatto Fos. Concluse che era di pietra, un sortilegio dell’immortale aveva fissato un confine che nessuno avrebbe potuto superare. - Abbiamo sbagliato tutto - sussurrò l’omone e pensò alla sua piccola Schià, a cosa, nella convinzione di darle gioia, alla fine le aveva fatto vivere. Dunamis lo ascoltò. - Sciocchi mortali senza cervello, io, tu e tutti gli altri. Abbiamo fatto il gioco del nostro avversario ed abbiamo perduto – aggiunse sconsolato. - Parla per te, Flogos di Cittera, non ho nessuna intenzione di lasciare che ancora una volta Aimatos ne esca incolume – rombò odioso il re, senza sapere cosa fare o dove andare. - Pensi ad Aimatos, mentre la tua donna è nelle mani di un dio nefasto – gli recriminò Alopex che sembrò spuntare dal nulla dopo avere taciuto. - Non è più la mia donna – gli fece notare astioso.


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- Beh, Schià invece è la mia sposa e l’ho perduta senza poter fare nulla per salvarla. A me questa cosa fa stare male, mi dispiace – ringhiò Flogos alterato. Poi pianse. Un omone alto quanto il re, ma largo il doppio, si lasciò cadere sulle grosse ginocchia davanti a quella porta e pianse. - La mia piccola Schià che diceva di te cose bellissime, che non mi ha mai voluto ascoltare quando le dicevo di non fidarsi troppo, che ti correva incontro come ad un fratello, che era sempre certa di cogliere nel tuo animo la luce dell’umanità! La mia piccola Schià che per amicizia ha fatto cose impossibili, la mia piccola Schià che io ho portato ad Astos per darle una casa dignitosa, perché il fango del mio crimine ne avrebbe fatto una reietta. La mia piccola Schià… – si lamentò, il mento a tremargli sotto lo sguardo altero del sovrano che, come lui, pensò alla piccola Schià e all’ultima volta che l’aveva vista. “… anche quando le vostre lacrime allagheranno l’abisso del niente che sono i vostri occhi! Ma sarà tardi!” aveva detto Zaira poco prima. Quella frase gli echeggiò dentro fastidiosa. Da un piccolo tempio aureo Thanatos osservava il paesaggio scintillante che lo circondava, un’esplosione di pietre preziose, oro ed argento che creavano rilievi e percorsi. Era il ricco sottosuolo di Ades, il suo padrone, gli era permesso entrarvi perché suo fedele servo privo di emozioni e quindi anche di avidità. Tutto quello sfarzo, frutto della terra stessa, non lo interessava, non aveva mai compreso perché gli immortali e gli uomini fossero capaci anche di uccidere per un solo grammo di ciò che ora aveva davanti. Seduto su una pietra di diamante, riprese le proprie sembianze, le ampie ali nere e lucide si mossero silenziose. Tutto era accaduto in un momento, anche la decisione di rapire Zaira. Il Fato non cessava di ostacolarlo e aveva permesso ad alcuni mortali di penetrare in quel mondo. Volse lo sguardo scarlatto all’interno della piccola struttura, vide Zaira che ancora dormiva. Era svenuta nello sconquasso del suo intervento. Si avvicinò a lei, distesa su un giaciglio di paglia d’argento. Le lacrime e le intemperie avevano segnato la pelle e cerchiato gli occhi. Le sfiorò la guancia, cancellò la fatica e i graffi della sofferenza, ritrovandosi a contemplarla. Rimase così per lunghi istanti, ricordandone il disprezzo, la repulsione, la diffidenza. Si soffermò sul viso delicato, ora sereno a dispetto del dolore che aveva nel cuore assordante per lui in un urlo senza fine. Ascoltò lo scorrere del sangue nelle vene calde, sicure vie del fiume della vita, strinse gli occhi al soffio lieve del respiro che lo raggiunse leggero sino alle mani che ritrasse. Zaira era bellissima, se lo disse in uno slancio di sensibilità che lo costrinse ad alzarsi e uscire, atterrito da se


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stesso, dalla propria natura che non avrebbe dovuto dare adito a nulla. Chiuse le palpebre, cercando un sollievo che ebbe il sapore della tregua. - Guardati da lei e dal suo sposo, figlio mio – lo sorprese Nyx, colei che lo aveva generato. Thanatos non si voltò. - Non è più il suo sposo – sbottò, come se qualcosa lo stesse disturbando, riuscendo a stanare in lui un’emozione. - Sei un dio, Thanatos e conosci le regole, i segreti nascosti ai mortali, non mentire a te stesso o perderai la tua battaglia – disse tenera in un abbraccio tanto inquietante quanto rassicurante con le sue grandi ali di pipistrello. - Un dio con le armi misere dei mortali che deve lottare contro il volere supremo di un fratello crudele! – ringhiò. Le riservò una delle sue terribili occhiate e Nyx ebbe un fremito nello scorgere nel riflesso scarlatto un luccichio che avrebbe potuto trasformarsi in lacrime. Lacrime della morte? Lo strinse forte a sé per consolarlo, neppure certa che in lui vi fosse qualcosa da consolare, neppure sicura di poterlo aiutare. Il suo figlio prediletto era maledetto e ora, defraudato, lo era ancora di più. Sospirò affranta. Thanatos si divincolò. - Nessuna compassione, madre - la smorzò freddo com’era sin da bambino. - Dovrai essere tu ad ottenere l’impossibile, non lei che ha già avuto la grazia di distorcere il tempo – lo avvisò irritandolo. - Zaira è sola e non le darò il tempo di ritrovare la forza che la rende un’eletta, non le permetterò di alzare la testa per difendersi e quando tutto sarà finito dimenticherò il suo nome e il suo disprezzo – sproloquiò in uno sfogo che a Nyx non sfuggì. Intanto Aimatos si guardò intorno, la spada in pugno e accanto a lui Schià con il respiro pesante, attonita davanti allo scintillio che li circondava. Per prima fece un passo verso un mucchio di sabbia d’oro. L’ex schiavo ascoltava il silenzio e correva con gli occhi ovunque. Non sembrava interessato a ciò che vedeva, piuttosto era impegnato a cercare una via d’uscita. La porta dalla quale erano entrati era di pietra e inaccessibile. Poi parve risvegliarsi e la prese in considerazione. - Dove siamo finiti? – chiese spaventata. - In una stanza del palazzo – rispose, senza capire cos’era accaduto. Schià non voleva piangere. Consapevole del potere del Fato, non avrebbe tentato neppure di ribellarsi. Si diresse verso la porta e la sfiorò prudente, seguita dall’amico. Vi appoggiò l’orecchio, ma oltre vi era il silenzio o forse la distanza che Thanatos aveva creato. Chiuse gli occhi, li riaprì affranta. - Flogos - sussurrò e cercò l’appoggio di Aimatos. - Presto lo rivedrai – le disse chiedendosi se avrebbe potuto mantenere quella promessa. Perché si trovano in quel luogo sconosciuto? Erano finiti in una


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grotta sotterranea, non vi era il cielo sopra di loro, ma alte rupi che si chiudevano come un’immensa prigione. - Temo di avere capito che posto è questo – disse. Schià lo interrogò ansiosa. - Non vi è uomo al mondo che possa raccogliere tanto oro e tanto argento. Questa non è la dimora di un mortale - continuò con la paura a salirgli in gola, la mano a stringere più forte la spada. - Ci troviamo nella dimora di un dio? – fu perspicace Schià che si aggrappò al suo braccio. - Temo proprio di si – annuì. - L’ira degli dei ricadrà su di noi - si lamentò la ragazza. - Benevoli siano gli dei con noi che calpestiamo le ricche miniere di Ades l’invisibile – disse alla fine. Schià sobbalzò, tremò e poi gridò senza ritegno. Aimatos le mise una mano sulla bocca per farla tacere. Si trovavano nella terra segreta di Ades, il dio dell’Oltretomba, il padrone di Thanatos, colui che accoglieva i morti. Ma quello non era l’Oltretomba, erano le miniere di Ades, il dio più ricco dell’Olimpo perché signore della terra e la terra dava la ricchezza, quella nefasta che attirava gli uomini per renderli ciechi e folli. - Cosa facciamo adesso? – si placò la ragazzina di Delfi, ma il tremore che la scuoteva non sarebbe scemato facilmente. Prese anche lei la spada e la strinse forte, ringraziando solo ora la velocità di Dicaia che gliel’aveva gettata nella confusione della cavalcata di Alastore. - Dobbiamo trovare Zaira e poi fuggire via, in qualsiasi modo, con qualsiasi mezzo, ma dobbiamo allontanarci da questo luogo, prima che l’Agesilao si adiri – fu deciso. Fece per mettersi in cammino, anche se aveva davanti solo una distesa di preziosità senza riferimenti. - Non siamo stati noi a volerci venire – fu ottimista la ragazza. Aimatos la scrutò. Aveva ragione. - Faresti meglio a sederti – disse Fos. Appoggiò la mano sulla spalla del re davanti alla porta, accanto a Flogos distrutto dal dolore. La scostò repentino, ma non la scoraggiò. - Stai sanguinando, Dunamis… - gli fece notare. Lui si osservò il braccio. Lo schianto aveva strappato la ferita. Alla tempia sentiva una colata calda che non smetteva di scorrere. - Potrei morire? – sorrise capzioso. La principessa scosse il capo. - Un vero peccato – la schernì amaro. - Placa il tuo cuore ferito, Dunamis, e tutto ti apparirà più semplice – cercò d’essere suadente. La somiglianza con la figlia del futuro in quel momento lo indusse a distogliere lo sguardo da lei. - Questa porta – parlò da solo. Flogos lo guardò e si mise in piedi.


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- E’ di pietra – disse rassegnato ed il sovrano lo degnò d’uno sguardo. - Ed è divina – aggiunse Fos che notò un suo leggero barcollio, tanto che gli si appaiò per intervenire se avesse perso l’equilibrio. - Thanatos tornerà e dovrà aprirla – intervenne Ormè che non sembrava intimorita, come se lei quel dio potesse persino evocarlo. - Tornerà? - le chiese la donna sorridendo premurosa. - Certo, sa che sono qui – saltellò. Rabbrividirono. - E questo cosa vorrebbe dire? – la interrogò allora il figlio del lupo. - Che mi ama – rispose raggelante. La fissarono attoniti. Era una bambina e ragionava come tale. Non la presero in considerazione più di tanto. Tornarono al discernimento che li avvolse nell’incapacità di trovare una via percorribile. Si sentirono perduti e riuniti, dopo essersi allontanati. Fos si apprestò ancora alla porta e appoggiò l’orecchio in cerca di un respiro, un grido, un richiamo. Realizzò di avere perduto Aimatos, cercò di non piangere, a caccia del proprio ottimismo. Aveva compreso, ma non era abbastanza, preferì tacere per evitare reazioni inconsulte. Flogos non si sarebbe mosso dal corridoio, avrebbe atteso che quell’entrata si riaprisse, attaccandosi alle parole di Ormè che non conosceva, che non sapeva chi fosse, che era solo una bambina, ma l’affermazione che Thanatos sarebbe tornato gli aveva dato una speranza. Quando il dio avrebbe varcato quella soglia, si sarebbe inginocchiato ai suoi piedi e gli avrebbe chiesto di ridargli Schià in cambio di qualsiasi cosa. Immaginò quel momento, sentendosi pazzo eppure rinfrancato. Dunamis non accolse il consiglio della principessa di sedersi. Le ferite iniziarono a fargli male, mentre il sangue macchiava il pavimento, un leggero giramento di testa rese i suoi passi verso la sala del trono insicuri. Ormè lo seguì zelante, senza che se ne accorgesse. Il re raggiunse il trono nella penombra, respirò profondamente in cerca di un sollievo al dolore che non trovò. Chiuse gli occhi, rivisse l’accaduto, tutto era stato talmente veloce da impedirgli di fermare Thanatos. Sospirò. Era un dio, uno dei più potenti, quale mortale avrebbe potuto sconfiggere un dio? Certo, era il dio della morte e aveva caricato su Alastore Zaira, mentre ancora si ribellava. Zaira… Aprì gli occhi. Il dio della morte l’aveva portata con sé. Era dunque morta? Non era quello il modo d’agire di Thanatos conosciuto dagli uomini, ma Zaira era stata portata via dal dio della morte. Zaira era morta. Morta. Morta. Un salto interiore lo svuotò, lo privò di un fine, allentò la tensione e diede spazio ad una disperazione più dolorosa delle ferite. Dimenticò Aimatos. Lasciò che lo sguardo atro s’inumidisse, ma non versò alcuna lacrima, non volle farlo. Era tardi. Era sempre più tardi, si rese conto d’essere solo, nonostante tutto, nonostante tutti. Flogos si era dimostrato il più zelante e Fos non conosceva l’odio, era dolce e rassicurante. Entrambi, davanti alla porta di pietra stavano pian-


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gendo e si chiedevano perché era accaduto tutto così rapidamente. Poi c’erano Dicaia ed Alopex, fedele quanto amareggiato. Solo allora si chiese per quale arcano motivo Thanatos era giunto ad Astos e cosa volesse da Zaira, allora una regina degna del rispetto anche degli dei. Solo allora se lo chiese. Era tardi anche per le domande e ogni risposta sarebbe stata inutile. - Eppure il tuo futuro era costellato di felicità, quella che il passato ti ha sempre negato. Ma il passato, quello distante, è tornato e ti ha trasformato nuovamente nella bestia di cui vai tanto fiero, trascinandoti nell’antro buio della solitudine – disse Omero, sorprendendolo. Si alzò, lo cercò nella penombra con lo sguardo appannato. - E’ bastato poco ed hai perso il controllo. Tutto è precipitato, non hai compreso i tranelli di un dio, hai lasciato che giocasse con la tua vita – calcò la mano l’aedo. Aveva già abbastanza crucci a tormentarlo, senza che ci si mettesse pure lui con le sue verità. - Taci – sbottò. Si risedette. Non si reggeva in piedi. - Cura le tue membra, Dunamis di Astos. Accetta l’ultimo aiuto che il Fato ti offre e riprendi in mano la situazione o sarai perduto – Non si mosse, attese che continuasse, con un ronzio insopportabile nelle orecchie. - Riposa il tuo cuore avvelenato, dimentica i giorni amari e le parole che ti hanno fatto male. Ritrova te stesso e la tua spada sarà invincibile. Sei un re, ricordalo sempre, ora che sei solo e quando sarai davanti al tuo nemico, quello vero, quello che di te potrebbe fare ciò che vuole – concluse. Dunamis sentì di non farcela più. Stava male, era stato sempre peggio nel giro di pochi minuti e ebbe un rantolo che gli fece stringere il trono con le mani che divennero di ferro. Ormè, nascosta, sgattaiolò fuori e chiamò la principessa di Parga. Lei si voltò, capì che stava accadendo qualcosa al re. Si affrettò nella sala, lo intravide sullo scanno reale che respirava male, che tossiva e oscillava. Gli andò accanto e gli sollevò il volto pallido. Aveva gli occhi semichiusi, la ferita al capo continuava a versare molto sangue. Faticosamente, vista la stazza dell’uomo, lo fece sdraiare. Chiamò alcune ancelle che portarono delle coperte. Lo coprì e sollevò il capo sotto un cuscino. Non era prudente farlo muovere, il colpo alla testa era stato forte e quel sangue incessante non era un buon segno. Si diede un gran da fare con i suoi intrugli che altre ancelle le misero vicino. Fece bollire delle erbe sul fuoco crepitante, intrise le bende che avvolsero il capo del re e infine lo fece addormentare con una tisana calmante, senza però placare la sua agitazione. Ascoltò il suo cuore impazzito, aveva già la febbre. Per ultimo gli fasciò il braccio, dopo averlo tamponato con della tela di ragno. Anche quella ferita era profonda. - Morirà? – chiese Ormè. Le accarezzò la guancia.


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- Non morirà – rispose, ma non era convinta. La lentezza con la quale era quasi svenuto non era da sottovalutare, il sangue dentro di lui stava uscendo dai suoi percorsi. L’esperienza glielo diceva e si chiese cosa avrebbe potuto fare per impedire che morisse. Non aveva mai avuto scontri con il figlio del lupo, lo aveva sempre rispettato e lui aveva rispettato lei e il suo rango. Non poteva dirsi sua amica, perché lui non voleva amici, ma un affetto sottile e profondo li univa, aveva tante colpe, ma era un uomo, lo era sempre stato. - Forse Thanatos lo può aiutare! – esclamò Ormè e Fos le afferrò un polso. - No! Thanatos non può fare nulla per lui - le disse secca. Era l’ultimo dio che doveva avvicinarsi in quel momento. L’ultimo dio. Aveva il petto in subbuglio. Zaira aprì gli occhi e vide un soffitto di pietra aurea scolpita con immagini sacre. Si guardò intorno, notò lo scintillio della paglia sulla quale giaceva. Si mise dritta di scatto e la toccò: era brillante e tiepida. Addosso aveva un abito diverso da quello che ricordava, un peplo nero con un velo scuro sulle spalle, fermato con borchie di diamante. Calzava sandali d’oro. La stanza era spoglia, non c’era nulla, solo lisce pareti e la via d’uscita dava direttamente all’esterno. Si alzò, fece qualche passo e uscì. Cosa le stava accadendo ancora? Perché era circondata da tanta ricchezza e vestiva come neppure Dunamis avrebbe potuto permetterle? Ebbe la stessa sensazione del giorno in cui si era risvegliata nella Selva di Artemide, solo che non c’erano il tramonto, i gabbiani, il mare, il bosco. Non c’era che lo sfarzo di una dimensione che comprese subito arcana e distante. Si sentiva stranamente bene nonostante ciò che aveva passato, anche se una sottile stanchezza la pervadeva. Lenta, scevra dalla curiosità che in altre condizioni avrebbe avuto, tornò nel giaciglio tiepido. Ci avrebbe pensato dopo al da farsi, più tardi, non riusciva a riflettere. Sbuffò esausta. Aveva l’amaro in bocca e si accoccolò sulla paglia, socchiudendo le palpebre. Disperazione. Disperazione. Nell’animo sentiva solo disperazione. Disperazione. Solo disperazione. Stava pagando salato il peccato d’orgoglio che aveva commesso. Stava pagando salato tutto ciò che non aveva mai pagato. Desiderò che quella storia insensata finisse in un istante. Desiderò tornare nel proprio mondo dove non c’era niente, ma il niente era meglio che quel marasma d’astio, amore e tradimenti! Immaginò Roma e la sua bellezza moderna incastrata nell’immortalità del passato. Immaginò la casa che aveva lasciato, la cucina dove aveva fumato con sua madre, la scuola che non aveva amato. Immaginò la propria infanzia e poi i giorni in cui aveva visto per la prima volta gli occhi di… Strinse la gola in un altro dolore. Rammentò le avventure vissute, le Amazzoni, Autolico e poi l’Olimpo dove per la prima volta era stata di…


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Strinse i denti. Pianse. Non avrebbe voluto farlo, si era promessa di non versare più una sola lacrima per… Dunamis. Sussurrò quel nome maledetto. Realizzò il tentativo che aveva attuato di ucciderla per un insulto. Maledetto quel suo orgoglio di cristallo, il suo modo d’essere sempre in bilico tra le concessioni e le condanne, il suo potere, il suo fascino! Se era vero che lei lo aveva offeso, era altrettanto vero che lui l’aveva quasi ammazzata! Non trovò in sé il perdono. Alzò il capo. Voleva andarsene e che gli dei di quel mondo l’aiutassero per l’ultima volta! Ora poteva dire di avere paura di Dunamis e non aveva intenzione di affrontarlo, consapevole di non avere speranza di vittoria su di lui, né fisica né psicologica. Voleva scappare. Scappare. Voleva fare la cosa che meglio le riusciva nella vita: scappare. - Il re - sussurrò Ormè e Flogos, seduto ai piedi della porta di pietra, la guardò. Era stanco, il timore di non rivedere più la sua Schià lo scuoteva, loro due non c’entravano nulla in quella storia infinita. Poi interrogò tacitamente la piccola che stava per piangere. - Sta morendo – affermò. Lui non aveva nessun potere e la sua forza non era sufficiente per abbattere la porta che li separava da un mondo a loro precluso e dai compagni scomparsi. Ebbe però un lampo di genio e si alzò di scatto, sovrastando la bambina. - Se davvero sta morendo, presto Thanatos varcherà questa soglia – disse in cerca d’una conferma, anche se non sapeva neppure perché lei si trovasse accanto al sovrano e si comportasse come se fosse un abitante abituale del palazzo. Ormè si accese e turbò l’omone, lo fece sentire egoista, pronto a vendere anche se stesso per rivedere la sua sposa. - Forse lo può aiutare, ma Fos non vuole – si lamentò contrita per l’imminente morte dell’uomo che considerava suo padre. Flogos non replicò. - Non voglio che mio padre muoia – aggiunse. La fissò incredulo. - Tuo padre? – chiese. - Lo nega, ma io sono la figlia di un eroe e di un re e lui è tutto questo – spiegò convinta. - Dunamis di Astos non è un eroe – si lasciò sfuggire il comandante. - Certo che lo è, è valente in battaglia – lo contraddisse. Flogos comprese chi doveva essere quella piccola. La osservò e notò la fascia che le cingeva il braccino, che non copriva una ferita. Capì che veniva da lontano, da una città dove la lotta era la più alta forma d’eroismo e dove la nobiltà di sangue contava. Mossa dalla facilità dei suoi pochi anni, stava cercando il riscatto e la nobiltà della stirpe per non essere solo una semplice amazzone. Incontrò i suoi occhi che colse di un blu intenso, sfiorò i lunghi capelli scarmigliati e


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biondicci, tendenti al rosso. Ricordò i giorni in cui, insieme agli altri, era stato prigioniero della Città Bianca con il dovere, neppure tanto pesante, di dare delle eredi al popolo di Nyx. E questo aveva dovuto fare anche colui che le somigliava, che aveva gli occhi di un blu intenso e i capelli chiari della gente del nord. - Hai le idee un po’ confuse. Come ti chiami? – s’imbarazzò. - Ormè – si presentò fiera d’essere la figlia di un eroe o… di un re? - Ormè, quando sarà tutto finito, credo che il Fato ti chiarirà le idee – le sorrise delicato, in contrapposizione con se stesso, così rude e grossolano. Lei annuì senza credergli e lo superò per avvicinarsi alla porta e appoggiare la piccola mano sulla fredda pietra. - Lascia che io chiami Thanatos e forse ogni cosa si risolverà prima di quanto non crediate tutti quanti – sussurrò, certa di ricevere la sua approvazione. Infatti, Flogos non la fermò e lei chiuse gli occhi, concentrandosi. L’uomo lasciò che il cuore gli cavalcasse in petto e sperò nella riuscita di quell’invocazione. Se davvero era la figlia di Aimatos e se da lui aveva ereditato qualcosa, quel qualcosa forse era la capacità di fare ciò che per gli altri era impossibile. Resistette al fastidio delle unghie di Ormè sulla pietra e si mise all’erta, pronto a implorare il dio qualora fosse apparso. La sostenne perché era l’unica possibilità che sentiva di avere per riabbracciare Schià. La porta tremò rumorosamente, stava per succedere qualcosa e Flogos trattenne il respiro. - No! – esclamò Fos, giunta veloce, insospettita dall’assenza della bambina. - Non lo fare! – la prese alla vita per allontanarla. La porta tornò silenziosa e immobile. Ormè gridò rabbiosa, c’era quasi riuscita, aveva sentito l’arrivo di Thanatos che non mancava mai ai suoi richiami. - Lui lo può aiutare! – si ribellò, ma Fos non cedette. - Thanatos non può fare nulla per Dunamis, solo ucciderlo – la riprese severamente senza persuaderla. Ormè non sapeva chi era il dio che tanto amava, essendo stata salvata da lui lo credeva benevolo e era inconsapevole che proprio quella concessione stava costando una condanna al figlio di Nyx. - Stai mentendo – la rimbeccò. - Tu non puoi sapere tutto perché sei piccola e dovresti passare il tempo giocando, non salvando la vita a chi non conosci – disse commossa dalle sue buone intenzioni e atterrita dalla possibilità che Thanatos si avvicinasse al sovrano moribondo. Un rumore li distrasse e corsero tutti nella sala del trono. Videro il re appoggiato sui gomiti, stava troppo male per alzarsi. Fos lo raggiunse e gli portò le mani sulle spalle, incontrandone lo sguardo scuro e sofferente. Un rivolo di sangue scese dalla narice destra. Stava peggiorando. La donna si guardò in-


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torno senza sapere cosa cercare. Era la prima volta che sentiva di non poter fare nulla. Lo indusse a rimettersi supino. Stava morendo davvero e forse Thanatos avrebbe potuto alleviare quel tormento che doveva essere immenso nel tremore che lo percorreva tutto. - Non può essere - disse sottovoce Flogos appaiato a lei. Fos non ebbe risposte, si sentiva perduta e spaventata, perdere un punto fermo come il figlio del lupo ebbe all’improvviso un’importanza che non aveva mai considerato. Stava morendo, avrebbe voluto credere il contrario, ma stava veramente morendo. Sanguinava dentro, la vita scarlatta usciva anche dalla sua bocca. Si lasciò prendere dalla paura, mentre Ormè colse quell’attimo di distrazione per tornare alla porta di pietra.


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Capitolo IX SANGUE SULLA PIETRA

- Qualche idea, alto di grado? – chiese Dicaia ad Alopex. Si trovavano sulla torre con la neve a cadere incessante. Si era isolato dagli altri e il malore del re gli faceva immaginare un futuro incerto. Aveva assistito ai soccorsi di Fos semicelato dalla penombra della sala, sperando in un prodigio che non era avvenuto e ora il figlio del lupo stava morendo. Astos stava perdendo il suo signore e con lui la vita che era venuto a riprendersi dopo essersela giocata mosso dagli impulsi e poi dall’amore per Eucide. Aveva dentro una rabbia trattenuta pericolosa. Si sentiva impotente e lo era. Squadrò l’amazzone irrispettoso, lei non colse la sua provocazione, avanzò con il passo maschile della sua strana razza, l’uniforme dei soldati di Astos a renderla insolita perché, nonostante tutto, era molto femminile. Ma Alopex dell’Attica aveva già percorso quella strada, con una donna come lei si era fatto male. Non le rispose e guardò il cielo bianco, lasciando che i fiocchi gelidi gli insidiassero gli occhi. - E’ opera di Thanatos - lo invitò alla conversazione. Lui sbuffò e fece per andarsene. Non voleva avere a che fare con lei, la mancata violenza lo metteva a disagio e intimamente lo irritava il fatto di non essere riuscito nel proprio intento. - Sei o non sei un comandante di Astos? – lo richiamò decisa. Non lo interessò. Lo seguì sulle scale interne. - Sei o non sei un uomo? – lo stuzzicò. Il soldato si fermò senza voltarsi. - Cosa accidenti vuoi, non ricordo il tuo nome? – l’apostrofò scontroso. - Riponi il tuo astio, alto di grado. Ad Astos c’è un’emergenza. Dobbiamo trovare un modo per risolvere tutto al più presto o forse hai dimenticato Zaira, il tuo amico Aimatos e la sposa sfortunata di Flogos? – la sua voce era libera dalle emozioni e dalle paure che scuotevano ognuno di loro. Non volle risponderle, desiderò allontanarsi dalla sua forza che in quel momento non sarebbe riuscito a fronteggiare. - Il tuo re sta morendo, il regno è nelle mani dei suoi comandanti ed Astos è cara ad un dio. Non vorrete sul serio incorrere nell’ira di Artemide la virtuosa? – fece leva sulla devozione che albergava in ogni mortale. Alopex la scrutò oltre la spalla con lo sguardo tagliente e stanco.


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- Ma bene! Cosa proponi, non ricordo il tuo nome? – sibilò accecato dal disprezzo nei confronti delle Amazzoni. - Dobbiamo varcare quella porta – fu assurda nella sua determinazione. L’attico ridacchiò, fece spallucce e avanzò verso la sala del trono ora quasi buia, solo il crepitio del fuoco a rompere il silenzio. Da lontano osservò il re e il suo respiro affannato. - Glielo devi, Alopex - lo fece sobbalzare Dicaia esasperandolo. - Stammi lontano, non voglio ascoltare il tuo delirio di grandezza - Devi farlo! Devi armarti sino ai denti e lottare per lui, per i tuoi amici, per tutto ciò che ti circonda! Se Astos cadrà, sorgerà l’ira di Artemide! – esclamò furiosa e Alopex, allo stremo della sopportazione, estrasse la spada e gliela puntò contro. - E’ finita, finita! Solo una cosa mi angustia… - sorrise alla fine, riponendo l’arma e sentendosi sciocco. Lei attese che parlasse. - Che non ricordo il tuo nome – sbottò indifferente eppure toccato da tutto ciò che stava accadendo così velocemente da non avere il tempo per potersi organizzare. Il Fato stava affondando la lama, stava dando il colpo di grazia a ognuno! Disgustata Dicaia battè un piede in terra e gli diede le spalle, dirigendosi verso la porta di pietra. - Non lo fare – sentenziò Nyx, apparendo al figlio che, sospeso a mezz’aria, aveva volto l’attenzione alla dimensione dei mortali. Gli era giunta la voce accorata della sua piccola Ormè. Irritato la fissò e tentò di volare verso la porta che lo separava dalla bambina. - E’ una prova alla quale tuo fratello ti sta mettendo, Thanatos. Non permettergli di giocarti un altro scherzo – lo riprese parandosi davanti a lui. - Ormè ha bisogno di me – si ribellò, ma la dea gli afferrò un polso. - Stai disponendo per l’espiazione della tua colpa, non permettere che ogni tuo sforzo sia vanificato dal legame che continui ad avere con colei che ti ha portato alla rovina – fu dura, contrariata dal sentimento che il figlio non celava di provare. - La sua voce è disperata – insistette, nel petto una stretta incomprensibile, qualcosa che solo lei, con la sua fiducia, era riuscita a dargli. - Non ha bisogno di te, ti sta attirando in un tranello – non demorse Nyx, presa dalla pietà nei confronti del figlio prediletto. - Non lo farebbe mai – s’impuntò senza riuscire a liberarsi della sua presa. - Non sa di farlo, crede che tu possa salvare la vita di chi le è caro, non sa che sei la morte, rammenta solo la grazia che le hai concesso quel giorno,


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sulla rupe del Parnaso e pensa che tu possa elargire la vita – lo fece ragionare. Thanatos si fermò e decise di ascoltarla. - Di cosa stai parlando? – si adombrò. Nyx si vide costretta a dire come stavano le cose. - Dunamis sta morendo e lei pensa che tu lo possa salvare – confessò. - Dunamis non sta morendo – asserì sicuro di sé. Nyx alzò un sopraciglio. - Sono io che dispongo la morte, il mio padrone decide se devo agire e non lo devo fare. Ogni morte è sospesa sino all’espiazione della mia colpa – spiegò. Nyx lo interrogò silente. - I miei poteri mi sono stati tolti, ma i mortali non lo sanno. Sino a quando non otterrò da Zaira ciò di cui ho bisogno, tra gli uomini non potranno esserci trapassi. Capisci perché il richiamo di Ormè non può essere un tranello? – Ammettere d’essere un dio defraudato della propria divinità non era piacevole, ma in quel momento era necessario se voleva rispondere all’appello della piccola amazzone. Nyx abbassò il capo e lesse dentro al figlio un sentire contrario alla sua natura. Provò compassione per quell’essere da lei generato e voluto senza anima dal Fato che tutto disponeva anche per gli immortali. Scorse dentro di lui il cuore fermo, privo di sangue e di vita, quello che gli impediva di amare e di essere amato. Ma qualcosa era andato fuori controllo: Ormè lo amava, certa d’essere ricambiata. Quella stortura aveva adirato il Fato, lo aveva reso più crudele. Chiuse gli occhi neri e ripensò a tutto ciò che era accaduto alla figlia del futuro, al re di Astos, ai loro amici, al figlio e a Ormè. Ricordò anche il giorno in cui la piccola amazzone era scivolava in un dirupo, destinata alla morte. Rivide il figlio che le sfiorava i capelli per privarla del ciuffo della dipartita e poi al suo tentennamento e infine alla decisione di risparmiarla, disobbedendo ad Ades e poi al Fato. Così, dal lontano occidente dove dimorava solo e senza alcuna forma di vita accanto, era stato costretto a raggiungere il regno di colei che era stata accolta tra gli Achei per una grazia unica. Da lei avrebbe dovuto ottenere ciò che Thanatos non provava e non poteva ricevere, una condanna senza possibilità di vittoria, anche se ultimamente Nyx aveva creduto di poterlo vedere vincitore. - Mi occuperò io di Astos. Pensa a portare a termine la tua missione - volle evitare altre complicazioni e lui, a malincuore, accettò, dirigendosi verso il tempietto e confidando nella madre perché lo informasse sugli accadimenti del mondo dei mortali. Fos era seduta sul trono. Ai suoi piedi il re respirava male. Si sentiva vinta, non riusciva a credere che un guerriero come Dunamis potesse morire per un


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banale schianto contro un muro di pietra. Ogni tanto si chinava su di lui per togliergli dalle labbra il continuo versamento di sangue. Una lacrima le attraversava il volto e Flogos pareva sorvegliare l’inevitabile dipartita del signore della rocca. Era presente anche il vecchio Atir, attonito davanti al pallore del suo signore, e cercava di non sentire i rantoli di un respiro che sembrava sempre l’ultimo. Aveva implorato Fos perché trovasse un modo per rimetterlo in piedi. davanti al suo diniego si era arrabbiato, poi era caduto nel silenzio ed ora se ne stava in disparte ad attendere. Dunamis tossì, altro sangue uscì dalla bocca e colò lento, inesorabile, sulla pietra inclinata del palco reale. Tutti strinsero gli occhi, scacciarono quella realtà con la forza di un sentimento che non era possibile definire. Non era amicizia, era affetto, a tratti vago, a tratti profondo, quello al quale il sovrano non aveva mai voluto credere, figlio non solo di un lupo, ma anche dell’indifferenza. La principessa gli raddrizzò il capo per passargli un panno pulito sulle labbra insanguinate. Il naso continuava a stillare la sua vita e, in uno slancio di compassione, lo abbracciò forte, macchiandosi di lui. - Non puoi morire, quale dio vuole questo? – sussurrò pensando a Thanatos che non giungeva, che non poneva fine a quell’agonia. Forse non lo poteva fare. Forse Dunamis era destinato all’eternità di un supplizio crudele. Forse questo gli dei avevano disposto per lui, per le sue nefandezze mai perdonate. Lo strinse sino quasi a fargli male sotto lo sguardo commosso di Flogos che si chiese cos’altro poteva succedere se il re stava spirando senza neppure l’arma in pugno. Poi qualcosa attirò la loro attenzione. La sagoma sinistra di una dea mise sulle difensive Fos. La riconobbe e si alzò tremando. Scavalcò il sovrano e si parò davanti a Nyx che inquietante era entrata nella sala seguita dalla piccola ed intraprendente Ormè. - Thanatos non è potuto venire, ma lei è qui per mio padre – affermò puerile. Nyx le diede un’occhiata distaccata. In fondo era lei che aveva portato suo figlio nel fango degli dei. La principessa s’inginocchiò con Flogos poco distante. - Nyx potente davanti a noi, cosa ti porta nel regno del dolore? – chiese mesta. La dea della notte ebbe un moto di commozione. Non rispose. La superò per raggiungere il sovrano che rantolava. Lo osservò lungamente. Era bellissimo, come le sue amazzoni erano solite descriverlo, affibbiandogli poi l’epiteto d’animale, di bestia, di spietato divoratore di guerriere. Si chinò e gli sfiorò il capo scottante. Lo vide dentro e constatò che Fos non si era sbagliata, la morte era certa per lui. Non lo disse. - Pietà per un re glorioso – Fos la raggiunse e le strinse le ginocchia con fervore.


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- Non permettere che muoia, non lo fare per la figlia del futuro che ha riscattato il tuo popolo – la implorò decisa a ottenere anche solo una speranza. - Io non dispongo la vita e la morte. Posso dargli il buio interiore perché possa riposare la mente – fu scontata. - Sei potente, antica e giusta. Ti conosco, vengo da una città sacra ad Ades e tu sei rispettata anche da lui. Dammi solo un segnale, un sentiero da percorrere ed io non ti chiederò altro, camminerò ardue strade da sola, ma dimmi che una possibilità di salvare lo sposo di Zaira esiste – insistette disperata. Nyx l’ascoltò e, al contrario di Thanatos, possedeva una sensibilità che se sfiorata poteva scaturire in benevole concessioni. La fece rialzare e la guardò negli occhi. - Libera il suo sangue – le disse. Fos trattenne il respiro. Non lo poteva fare. Non lo sapeva fare. La dea le indicò la bocca insanguinata e la parte colpita del capo. - Libera il suo sangue prima che Thanatos riacquisti il suo potere o sarà spacciato – aggiunse. Fos ci pensò, ma non capì. - Salvalo, se davvero ti è caro, fallo presto, mio figlio è scaltro ed ogni suo tentennamento è solo una concessione casuale al vostro tempo – concluse intenzionata ad andarsene, ma la principessa la inseguì e si aggrappò irriverente al suo abito nero. - Non lo posso fare, potente – pianse. S’inginocchiò ancora, tremando, e Flogos osservò il suo re, seguì il rivolo macabro del sangue che scendeva sulla pietra del pavimento. - Libera il suo sangue – ripetè. Non disse altro la dea della notte e si dissolse, affascinando Ormè certa di avere dato una mano. Fos battè i pugni sul suolo e ringhiò irriconoscibile. - No! – gridò. Flogos la raggiunse. Stava perdendo il controllo, se lo perdeva lei erano tutti spacciati. Il tossire del sovrano la fece piangere tra le braccia del soldato. Ormè si diresse mesta verso uno dei tavoli per sorseggiare dell’acqua. Aveva la bocca asciutta, la convinzione di avere apportato un aiuto dava il passo alla delusione. Fos ebbe un brivido a percorrerla tutta e un lampo d’improvvisa determinazione: valeva la pena provarci. I giochi erano fatti, sarebbe cambiato poco. Dunamis respirava ancora soltanto per l’impossibilità di Thanatos d’agire e quello era un tempo che poteva essere limitato, che avrebbe potuto finire in quello stesso istante. Non si chiese cosa impediva al dio di privare il re della vita, non si interrogò sui motivi che lo avevano reso innocuo, lo avrebbe fatto dopo se un dopo le sarebbe stato concesso. Chiamò le ancelle e diede ordini precisi. Avrebbe rischiato. Avrebbe rischiato di uccidere un re favorito degli dei.


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Dicaia esaminò la porta che granitica fissava un confine, impedendole di ostacolare Thanatos. Per lei era una questione d’orgoglio, una sfida che non sopportava di lasciare in sospeso e provava compassione per gli uomini che erano rimasti nel regno, due inetti capaci solo di piagnucolare senza sentirsi investiti di alcuna responsabilità. Si chiese cosa potesse fare da sola e senza appoggi, con sensazioni e convinzioni prive di fondamento. Avrebbe voluto parlare con Ormè che sapeva vicina al figlio di Nyx, bimba famosa tra le Amazzoni per essere stata salvata da morte certa. Ma la piccola era corsa nella sala del trono. Tuttavia, era riuscita a evocare Nyx. Ci pensò, perdendosi in supposizioni, idee, piani irrealizzabili e poi teorie assurde. Tutto era confuso, anche se presto avrebbe delineato la soluzione per salvare Astos dall’ira di un dio. Ripercorse con le dita lo stipite marmoreo e si soffermò sul punto in cui la porta si chiudeva, cercando anche un minimo pertugio dove fare leva. Nulla. Eppure un modo per entrare doveva esistere! - Cosa credi di dimostrare, non ricordo il tuo nome? – la sorprese la voce di Alopex. Non si era aspettata che fosse lui a cercarla, visto che la sfuggiva come la peste. Lo guardò senza espressione, delusa da lui e dal suo amico affranto, ora accanto a Fos per chissà quali inutili motivi. - Sempre più di quanto non ti sforzi di fare tu, alto di grado – continuò l’esame. - Ammettiamo pure di riuscire ad entrare, cosa pensi di trovare oltre? La gentilezza di Thanatos? – la provocò. Si mise ad analizzare la pietra con lei che si fermò per un istante e percorse il suo profilo irrigidito. - Aimatos, Schià e Zaira, sono loro che voglio trovare – rispose. Alopex sorrise ironico. - Credi che Dunamis ti ringrazierà per questo? Sei un’illusa, non sai con chi hai a che fare. Il re non conosce la gratitudine e non è solito ringraziare alcuno – le disse distrattamente, interessandosi ad un piccolissimo dislivello posto sul margine della porta. - E’ il tuo re – gli fece notare. Lui finalmente la guardò e non celò una specie di disperazione che scintillò sinistra nei suoi occhi. - E’ morto, non lo sai? – la gelò. Dicaia rivolse lo sguardo verso la sala del trono. - Stai scherzando? – tremò, la sensazione di non avere più tempo la fece sentire perduta. - Respira ancora, ma soltanto perché il dio della morte non può dargli il colpo di grazia. Non appena potrà agire, Dunamis sarà spacciato e spacciati saremo noi, il regno, tutti, anche tu che sei qui per un mero caso – aggiunse sottilmente soddisfatto per la sorte della donna e un po’ meno per la propria.


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Dicaia socchiuse gli occhi in un veloce ragionamento. Intanto l’uomo estrasse la spada e ne infilò la punta nell’incavo trovato, constatando che la lama riusciva a penetrare di qualche centimetro. Questo attirò l’attenzione della guerriera che osservò meglio. - Si direbbe un passaggio – disse, la sua mente era altrove. - E’ solo una scanalatura della pietra – non fu ottimista il soldato e ripose l’arma, ma Dicaia non sembrò convinta. Tuttavia, si rialzò, continuò a macinare i propri pensieri, dimentica di lui e del suo astio. - E perché Thanatos non lo può uccidere? – chiese ad alta voce. Alopex fece spallucce e si avviò verso la torre. - Non sembra importartene che il tuo re stia morendo! – esclamò l’amazzone. Lui rise odioso. - Niente da fare! Le mie scelte sono sempre sbagliate! Ho sbagliato a seguire Aimatos tempo fa. Ho sbagliato a scegliere la donna che avrei potuto amare per sempre. E alla fine ho sbagliato anche il padrone che ho scelto di servire – sbottò, ferito da un destino che effettivamente aveva del ridicolo. La fissò, dandole un tremito sconosciuto, trovandola segretamente piacevole alla vista, quasi consolante nella desolazione che lo stava soffocando e che stava tagliando le corde del suo coraggio. - E poi Dunamis non sta morendo – la corresse a scoppio ritardato. Lei ebbe uno slancio di sollievo. - Dunamis è già morto e la sua condanna è una sofferenza illimitata – concluse. La lasciò sola con i suoi crucci e le sue speranze. Dicaia era giovane, più di lui, per questo credeva ancora, lottava ancora e aveva l’impeto delle convinzioni. Sin dall’inizio era stata il bersaglio di Thanatos. Lui stesso lo aveva dichiarato senza nascondere che era da lei che doveva ottenere qualcosa. Ripensò all’accaduto dal momento in cui l’aveva avvicinata, ma qualcosa doveva essere andato storto e era successo di tutto. Anche lei era cambiata dalla sera del suo arrivo, la diffidenza era stata un altissimo ostacolo per l’immortale e, ricordando le occasioni in cui gli aveva parlato, aveva sempre avuto fretta. Fretta? Voleva lei e era giunto il momento di sapere perché, nonostante l’avesse allontanato, offeso e respinto in difesa di un regno che non aveva più, in vece di un re che non era più il suo sposo. Poco distante, il dio della morte ascoltava i suoi pensieri senza poterli influenzare. Ebbe un fremito nel comprendere che la straniera era disposta ad avvicinarlo. La figlia del futuro cominciava a rientrare nel suo raggio d’azione e il Fato questa volta non avrebbe potuto farci nulla. Decise di agire, di cogliere quello smarrimento per trarne vantaggio, anche se ciò che do-


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veva ottenere era qualcosa di più. Accecato dalla certezza di avere già vinto, apparve all’interno del tempietto in tutta la sua straordinaria fisicità, circondato delle grandi ali nere. Zaira ne rimase atterrita: quelle stesse ali l’avevano avvolta e scaldata. Incontrò gli occhi scarlatti e freddi dell’immortale. Si fissarono, l’una obbligatoriamente aggrappata alla sua presenza, l’altro sull’orlo di una vittoria che già assaporava. Non si alzò dal pagliericcio prezioso e sospirò, distogliendo l’attenzione da lui e scoprendosi priva del timore che quell’aspetto ultraterreno avrebbe dovuto incuterle. Ebbe un vago sorriso, lasciò cadere le spalle in un’apparente sconfitta. - Mi avete salvato la vita – disse senza enfasi. Thanatos strinse lo sguardo di sangue. - Semplicemente non dovevi morire – rispose. Si maledì, scioccamente non aveva colto la possibilità di giocare la carta della gratitudine. Ma la sentiva annientata, così facile preda da non braccarla affatto. Si maledì anche per questo. Lei alzò nuovamente il capo e lo interrogò tacita. - La morte di Zaira d’Enotria è distante – rivelò serioso. - State mentendo, avete salvato la vita che Dunamis di Astos voleva stroncare – fu amara. - Non è il figlio del lupo che dispone della vita e della morte degli uomini – quasi si offese. Lo studiò sospettosa e si mise in piedi. - Perché sono qui? Perché con voi? – domandò. Non aveva scampo, non aveva speranze, non aveva nulla, solo un brandello d’orgoglio. - Perché sono io a volerlo – fu autoritario anche se soggiogato dal bisogno che aveva di lei, ma Zaira non lo sapeva. Non smise di fissarlo, catturata da ciò che fu fascino inquietante e spaventoso. Ebbe una vampata che le arrossò le gote, il cuore battè più forte. Thanatos udì quel galoppo umano, curioso per lui che d’emozioni non ne provava e non era in grado di infonderne. Lei ebbe l’espressione infantile di chi non era capace di uscire da una situazione pericolosa. Aveva addosso la solitudine, era priva d’appoggi, di punti fermi, non aveva accanto l’uomo che dentro la lacerava e che non avrebbe più avuto, non aveva la sicurezza delle amicizie che si era conquistata, trasformando uomini e donne perduti in nobili achei della corte del figlio del lupo. Thanatos le entrò dentro per scrutare il suo animo fragile e le lacrime che non riusciva più a versare, che la soffocavano e rendevano il suo respiro rantolante. La trovò tenera, un cucciolo in una terra sconosciuta. - Qui sarai al sicuro – aggiunse infastidito dal silenzio. - Sino a quando? E poi perché? – adesso era agitata. Il dio della morte si sforzò di sorridere e il risultato fu il turbamento della donna che s’irrigidì come se all’improvviso lo temesse. Si avvicinò, assordato dallo scorrere del sangue nelle sue vene.


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- Non è di me che devi avere paura, giovane straniera - disse suadente, riuscendo a essere persino dolce. Lei abbassò lo sguardo imbarazzata. - Aiutatemi - sussurrò imprevista. Il figlio di Nyx non rispose e le fu accanto. - Lo farò, Zaira – giocò una promessa che la fece sobbalzare sul pagliericcio. Si avvicinò ancora, le ali ad avvolgerla senza sfiorarla. - Fate che tutto finisca, adesso - implorò con gli occhi chiusi, mentre lui stava esercitando il proprio potere su di lei. Il tocco delle piume sul braccio la scosse, riuscì a immobilizzarla con lo sguardo scarlatto in un attimo, quello sufficiente per non farla fuggire da un assedio perfetto. - Sei certa di volerlo? – le chiese cavernoso e lei non si ribellò all’invito di quello sguardo che la sua mente trasformò nell’abisso scuro che non sapeva dimenticare, nel lago nero e insidioso degli occhi del re. La vide sorridere in un‘illusione sin troppo facile e le accarezzò la guancia con la mano gelida, poi la bocca con il pollice e quasi si scottò al calore che la vita emanava, al respiro incandescente che usciva dalle labbra semichiuse. - Che scelta ho? – chiese con un filo di voce. Socchiuse le palpebre e ricordò Dunamis. - La scelta migliore l’hai davanti a te - il suo braccio già l’avvolgeva in una vicinanza che le diede un sollievo assurdo e folle. - Sono un dio e un dio è superiore ad un re – volle essere crudele nel rammentarle ancora il figlio del lupo. Zaira appoggiò una mano sul torace dell’essere che si bloccò prudente. - E’ un gioco sporco il vostro - fu imprevedibilmente attenta e Thanatos non battè ciglio. - Lo è molto di più tentare di uccidere un’eletta del Fato – La condanna nei confronti di Dunamis fu limpida. Resse lo sguardo di Thanatos senza sorridere. - Lo ucciderai – sussurrò Atir. Fos era inginocchiata accanto al re che respirava a scatti, con il sangue che non voleva smettere di uscire dal naso e dalla bocca. Era sempre più pallido. - E’ già morto – rispose e il consigliere abbassò la testa. Flogos stava scaldando la lama di un sottile pugnale sulla fiamma del focolare. Non era stato possibile spostare il sovrano che giaceva sotto il trono in una chiazza rossa che le ancelle di tanto in tanto pulivano. Numerosi crateri in terracotta d’acqua tiepida erano allineati. Alcune serve attendevano gli ordini della guaritrice. Flogos si avvicinò con il coltello riposto su un panno bianco, Fos si sistemò dietro al re, appoggiando la sua testa in grembo e spostando i capelli che co-


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privano la tempia colpita. Scese con la mano dietro l’orecchio e trovò, un gonfiore. Chiuse gli occhi e respirò. Ricordò Nyx e chiese alla dea l’ultimo aiuto. La piccola protuberanza palpitava e pressandola l’uomo emise un lamento. Guardò, era un grosso ristagno violaceo sotto la pelle. Dubitò d’essere sulla buona strada. Attese. Tremò. Ascoltò il respiro del re ed Atir zelante lo pulì sotto il naso. Fos alzò gli occhi su Flogos che le porgeva il coltello pulito dal fuoco. “Libera il suo sangue” le aveva detto Nyx. Aveva capito bene? Ciò che aveva capito era che doveva farlo al più presto perché Thanatos poteva tornare con tutto il suo potere da un momento all’altro. - Ho paura – sussurrò, sostenuta dai due uomini. Flogos le sorrise. - Ascolta te stessa. Non hai mai fallito – le disse rassicurante. Lei prese il coltello. Lo strinse e continuò a tremare. - Lo hai detto, principessa, è già morto – volle metterci del suo Atir e ancora pulì il naso del sovrano. Si, lo aveva detto. Prese fiato. Ne prese altro. Portò la punta del coltello sul livido rigonfio. Si fermò. Prese fiato. Ne prese ancora. Ingoiò fiumi di paura. Rimandò di secondo in secondo. Prese fiato. Ne prese ancora. Chiuse gli occhi e li riaprì. Pianse silenziosa e Flogos asciugò le sue lacrime con il lembo del mantello. Tremò. Tremò. Tremò. Non riusciva a non tremare. Doveva liberare quel sangue che pressava ovunque nella testa di Dunamis, che stava soffocando il suo cervello e la sua vita. Tremò. Tremò. Prese fiato. Ne prese altro. Atir trattenne il respiro. Flogos distolse lo sguardo. Giunse Dicaia sulla porta. Il colpo fu secco e la schiena del re s’inarcò, un suo sordo lamento strozzato gli fece vomitare altro sangue che schizzò ancora dal naso e raggiunse il consigliere. L’ematoma si spaccò nel grembo di Fos che non si mosse, che percepì quel calore liquido inzuppare la stoffa dell’abito e scenderle tra le gambe. Estrasse il pugnale e altro sangue uscì in un’ultima cascata bruciante. Dunamis vomitò nuovamente sulla pietra, sino a versare solo saliva. Fos non cantò vittoria, anche se quello sembrava un buon segno. Gli fece sorseggiare dell’acqua faticosamente. Flogos prese in consegna il pugnale e lo appoggiò su un tavolo delle mense, sotto lo sguardo inorridito di Ormè, sfuggita al controllo della schiava che avrebbe dovuto tenerla lontana. Dicaia attraversò la sala, osservò l’arma e continuò ad assistere agli accadimenti in corso. Lentamente la ferita sanguinò meno e il respiro dell’uomo si fece più pacato, non perfetto, sempre sofferente, ma accettabile dal punto di vista della guaritrice che continuò a farlo bere. Istintivamente ritenne sufficiente per il momento la somministrazione d’acqua e delicata si liberò di lui per alzarsi, mentre Atir disponeva sotto la testa del re un cuscino di lenzuola arrotolate. Si allontanò e camminò verso uno dei lunghi tavoli, sul quale


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c’era del vino che sorseggiò sotto lo sguardo fermo di Dicaia che non osava parlare, che cercava di cogliere in ogni cosa un segno. Fos era agitatissima, stanca e spaventata. Non aveva più il coraggio di pochi istanti prima e non riuscì a guardare il re riverso nel fango rossastro. Flogos si avvicinò e la guardò tacito. Era scompigliata e madida, con l’abito di un’assassina che aveva appena massacrato un uomo a vederla. L’omone era certo che lo aveva salvato, sentiva come lei quel respiro meno rantolante, sentiva come lei l’aria meno pesante. - Presto Dunamis potrà ringraziarti – le disse. Lei scosse il capo, si osservò facendosi ribrezzo. - Gli dei vogliano che tu abbia ragione - sospirò, desiderando solo lavarsi. Sentiva l’odore dolciastro e nauseante del sangue che si stava rapprendendo. Fece per uscire dalla sala. Poi si fermò e guardò il soldato. - Deve bere molto, il più possibile. Io tornerò presto – tagliò corto. Aveva voglia di vomitare per ciò che aveva fatto, che aveva visto, che aveva vissuto, per la tensione, la paura e il disgusto. Aveva voglia di piangere, di dormire, di fare qualcosa in più per porre fine alla disperazione dilagante. Raggiunse la stanza delle abluzioni con la vasca e la luce tremula delle torce ad accoglierla. S’immerse con gli abiti nel grande specchio d’acqua tiepida per togliersi di dosso tutto quel sangue. - Un gioco davvero sporco, considerando che ad attuarlo è un dio – disse Aimatos. Thanatos si ritrasse dalla figlia del futuro che si guardò intorno sorpresa e rincuorata dalla presenta dell’amico e, accanto a lui, di Schià che aveva un’espressione rigida. - Cerchi di abbindolarla forte della sua ignoranza sugli immortali! – lo accusò l’ex schiavo e il dio della morte ebbe una smorfia di disapprovazione, il desiderio di aggredirlo fu palese, ma si trattenne perché ferire chi era caro alla straniera l’avrebbe resa inavvicinabile. - Mortali nelle miniere di Ades? – pronunciò quel nome per intimorirli. - Il Fato ha voluto questo – intervenne Schià con la voce graffiante. La situazione era tragica, se ne era resa conto, tanto valeva ballare il ballo proposto, succedesse quello che doveva! Thanatos rise di gusto, macabro ed inquietante. - Oh! Altri eletti del mio amato fratello! Le regole dunque vengono infrante in nome del Fato che tutto dispone! – esclamò. - Pensala come vuoi, Thanatos cuore di ferro, ma stai lontano da lei – gli ordinò impertinente l’uomo e estrasse la spada. - Le ho salvato a vita, mortale - gli fece notare astioso.


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- Storie, tu non puoi salvare la vita - non si limitò la ragazzina e avanzò di un passo. - Semplicemente non dovevo morire – fu Zaira a parlare mesta. Schià dimenticò Thanatos, la raggiunse per abbracciarla e guardarla in faccia. Era sconvolta dagli eventi e dalla vicinanza del dio che non era benevolo. - Come stai? – le chiese dando un’occhiata recriminante all’immortale. - Bene, anche se non riesco a capire - farfugliò. - Non c’è niente da capire, stai lontana da lui e tutto andrà bene – rombò Aimatos, tenendo, secondo lui, sotto controllo il pericolo incombente. - Non mi voleva fare del male - lo difese. Thanatos la fissò. Lo stava difendendo? Magari labilmente, senza entusiasmo e senza forze, ma lo stava difendendo. Non gli era avversa, riprendersi non l’aveva fatta pentire di essere stata ad un passo da… - Bada, Aimatos d’Epiro! E’ nota tra gli olimpici la tua arroganza, il tuo orgoglio che ha attentato negli anni alla vita di un re, il tuo spirito che non rispetta coloro che sono superiori - si rivolse all’ex schiavo che alzò la mano. - Non cercare di accecarmi con le parole grosse, Thanatos! Qualcosa mi sfugge, ma non sei il dio pericoloso che dovresti, nulla può persuadermi ora – lo smorzò. Il figlio di Nyx attese che continuasse. Conosceva le sue parole altisonanti, i gesti plateali e specialmente il legame stretto che aveva con la figlia del futuro. - Mi trovo in un territorio precluso ai mortali, sto violando il sacro e questo mi condannerà alla morte, quindi non ho più nulla da perdere! Non mi costringere a macchiare questa terra divina con il sangue di un dio – fu quasi buffo agli occhi dell’essere che di sangue non ne aveva, ma sorvolò e fece per uscire, passando accanto all’uomo che alzò la spada contro di lui. Si fermò e gli rivolse un’occhiataccia scarlatta che lo irrigidì ancora di più. - Non sei cambiato, tutto intorno a te è mutato, tu stesso hai avuto in buona sorte un profondo mutamento, ma non sei cambiato, Aimatos d’Epiro, difensore degli afflitti! Un giorno, molto presto, abbasserai la tua lama e ti inchinerai al mio cospetto per ringraziarmi e chiederai il mio perdono per l’affronto che stai osando riservarmi – procrastinò. Ringraziarlo? Ah! E di cosa? Stava per chiederglielo, ma il dio già era scomparso. Dimentico di lui, raggiunse le due donne per verificare lo stato di Zaira che, come Schià, trovò bellissima, più dei giorni ad Astos, un tocco divino l’aveva sfiorata. La figlia del futuro sorrise e lo distrasse dalle sue riflessioni. Flogos era tornato davanti alla porta di pietra e sedeva in terra. Pensava a Schià, ora che Dunamis sembrava dormire e che Fos si era assentata dopo la tensione vissuta. Lui continuava a credere alle parole di Ormè, ad aggrap-


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parsi alla speranza che il dio della morte sarebbe tornato attraverso quella maledetta porta… e si ossessionava, immaginando un momento propizio per salvare Schià. Poi il timore che fosse morta gli faceva ingoiare fiumi di saliva. Se ne stava lì, dimentico di avere gli obblighi di un comandante, la spada in pugno, le forze a scemare per l’assenza di riposo. Si chiedeva, senza che gliene importasse più di tanto, quanto tempo fosse passato dal momento in cui aveva perduto Schià. No, non l’aveva perduta, presto sarebbe tornata… e se ne stava lì, fedele guardiano di un passaggio impercorribile, vedetta di un ritorno che forse non ci sarebbe mai stato. Se ne stava lì. Appoggiò il capo sulle ginocchia flesse e cedette al sonno che lo pervase lentamente, facile campo per sogni rassicuranti, per corse a perdifiato nelle lande della speranza. Intanto Fos, presa da una sorta di panico, non era più tornata nella sala del trono, aveva dato le direttive alle ancelle e ad Atir. Si sentiva svuotata, aveva salvato la vita al figlio del lupo, anche se lui aveva attentato a quella del suo sposo e prima ancora a quella di Zaira. Se ne stava nella propria buia stanza ad ascoltare il soffio del vento carico di neve che aveva coperto Astos. Ascoltava il fischio della tormenta, pensò ad Aimatos ed al suo destino senza fine, colmo di sconfitte a ricordargli quello che era stato, senza fargli sapere ciò che era diventato. Fos di Parga, la saggia, per la prima volta si chiese se avesse agito nel modo giusto negli ultimi strani tempi. Aveva taciuto al suo uomo la verità che avrebbe potuto cambiare molte cose, lasciandogli percorrere una strada difficile senza indicargli il sentiero segreto della dignità. Aveva lasciato che raccogliesse la feccia dell’Ellade per dimostrare al nemico di sempre il proprio valore, mentre il Fato per lui aveva già disposto una gloria infinita e questo Dunamis lo aveva capito e ci aveva giocato! E lei? Lei aveva avuto anche l’ardire o il dovere, non lo sapeva, di salvare la vita dell’uomo che si era sempre divertito a fare del suo sposo un giocattolo da rompere e poi da aggiustare. Aveva salvato la vita del carnefice di Aimatos. Non era certa d’essere così giusta, neppure sapeva se l’ex schiavo era vivo o morto e si era prodigata per il figlio del lupo! E Zaira? Che fine aveva fatto Zaira? Zaira d’Enotria, colei che aveva permesso al destino di compiersi con l’uccisione di suo padre. Di una cosa era certa, che non era morta perché Thanatos non poteva uccidere, non finchè… Scosse il capo, esausta. Cosa doveva ottenere il dio della morte dalla figlia del futuro per poter tornare a essere il dio della morte e non lo zimbello dell’intera schiera divina? Non lo sapeva! Non poteva sapere tutto! Le interessava solo sapere che fine avesse fatto Aimatos d’Epiro. L’unica a non lasciarsi prendere dallo sconforto fu Dicaia che, dopo avere assistito al cruento salvataggio di Dunamis, era rimasta a guardarlo. Il suo


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respiro andava migliorando e aveva osservato il sangue scintillare scuro sulla pietra, chiedendosi se tutto questo aveva un senso. La piccola Ormè si era addormentata accanto al fuoco. Trovò buffa quella bimba convinta e decisa. Avrebbe voluto svegliarla per inondarla di domande sulle sue capacità di evocare Nyx e quindi anche Thanatos, al quale era legata dopo avere ricevuto una grazia vietata. Ebbe un sobbalzo e capì in un lampo il motivo per il quale il dio della morte era bloccato e non poteva agire. La grazia concessa ad Ormè aveva irritato il Fato che lo aveva condannato all’inettitudine con l’obbligo di ottenere l’impossibile per rimediare. Appoggiò una mano sul tavolo e sfiorò il pugnale insanguinato che Fos aveva usato su Dunamis. Lo prese e lo osservò. Nyx lo aveva detto: il figlio del lupo era morto. Sull’orlo di un bagliore finale nella mente si avvicinò al re e ascoltò ancora il suo respiro, si chinò su di lui e ne guardò il volto provato, ma meno pallido, vivo. Vivo. Osservò ancora il pugnale, la lama arrossata, lo scintillio del metallo, il manico d’oro. Dunamis era vivo e non sarebbe dovuto esserlo. Uscì veloce dalla sala del trono, verso la torre ove sapeva di trovare Alopex che non aveva partecipato al patema generale, nascondendosi nel gelo dell’inverno. L’attico le infondeva fiducia, sapeva di poterlo in qualche modo scuotere e era un guerriero, ciò che serviva per salvare il salvabile. Dimenticò la tentata violenza, consapevole adesso di potersi difendere. Si presentò a lui trafelata, il fiato grosso, il vento a scuotere i capelli. Alopex si voltò. La trovò ancora una volta bella e questo lo irritò. Si guardarono, l’aria fredda sembrò volerli dividere. - Via da qui, forse siamo ancora in tempo – disse Aimatos e Schià approvò, fidandosi del suo istinto. Era una parola lasciare le miniere di Ades, un sotterraneo sterminato, grande quanto l’intera superficie terrestre, sconosciuto, impervio, tanto meraviglioso quanto ostile e senza apparenti vie di uscita. Zaira si alzò e si guardò intorno affascinata dal totale scintillio, incantata dallo sfarzo che la circondava, segretamente fiera degli abiti che indossava e che la facevano sentire potente. La sua forza derivava da altro e nell’angolo più remoto dell’animo lo ammetteva senza vergogna. Nasceva dalla protezione che stava ricevendo da un dio, dal dio più temuto eppure con lei benevolo. Riusciva a guardarlo, a trovare una luce nel sangue dei suoi occhi sovrannaturali. Tacque tutto questo e sospirò con un moto di disapprovazione. - Non tornerò ad Astos – dichiarò. I due amici si bloccarono. - Non abbiamo scelta, dobbiamo rientrare nel regno, questo posto è pericoloso e precluso ai mortali – fu ovvio l’ex schiavo, deciso a salvarla dall’ira degli dei e dalla morte che rischiava ogni volta che Thanatos si avvicinava a lei.


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- Un dio ha voluto che calpestassi questa terra, un dio e la sua benevolenza – lo contraddisse ferma. Schià le cinse un braccio e la scrutò apprensiva. - Ciò che è successo è stato Thanatos a volerlo – disse, ma la straniera sogghignò scettica. - E’ sempre così facile attribuire le azioni agli immortali nell’incapacità di accettare le nostre responsabilità – fu ostinata. Aimatos capì che l’ostacolo più alto sarebbe stata proprio lei, colei che doveva essere salvata. Strinse i denti. - Non conosci il figlio di Nyx, non sai quali atrocità è costretto a compiere in nome della sua divinità. Lui la vita la toglie, non la può concedere, non la può restituire, non può decidere cosa fare, semplicemente deve agire e presto, molto presto, agirà su di te per un arcano motivo, ma lo farà, sarà costretto a farlo. Thanatos non ha un cuore, quello che ha nel petto è un masso informe di ferro, fermo, freddo, senza sentimenti, senza sentori e nelle sue vene non scorre sangue – le riversò addosso un fiume di parole. - Voi non conoscete i vostri dei - si eresse giudice dell’altrui comportamento, fu irriconoscibile agli occhi degli amici. Schià le strinse il braccio con più veemenza. - Non lasciarti abbindolare – Zaira sorrise amara e si liberò di lei. - Thanatos mi ha salvato la vita, mentre qualcuno cercava di uccidermi – fu perentoria. Aimatos battè un piede a terra adirato. Si avvicinò e la guardò dritta negli occhi. - Io ti ho salvato la vita, Zaira! Io ho impedito che quel cane rognoso ti uccidesse e con lui regolerò i conti quando varcherò nuovamente i confini del suo regno! Ma sono stato io ad avere l’idea di salvarti da morte certa, dalla neve che ti avrebbe soffocata, dal dolore che ti avrebbe spezzato! Io, Aimatos d’Epiro ho mosso ogni abitante del palazzo per impedire che spirassi! Ed ora dici che il dio della morte, il dispensatore di disperazione, ti ha graziata! Dovresti ringraziare me, non lui! Ma evidentemente Aimatos non merita mai la gratitudine! Aimatos d’Epiro è sempre il folle che rischia la vita per nulla, per poi vedersi privare di ciò che anche un cane otterrebbe facilmente! – le sbraitò in faccia deluso. Zaira alzò un sopraciglio neppure sfiorata dalla sua ira. - Non tornerò ad Astos – ribadì. - Non puoi stare qui, ciò che Thanatos sta permettendo è contro le leggi – s’intromise Schià, ansiosa per quell’intoppo. - Non voglio rivedere Dunamis, non voglio che si avvicini a me e non gli darò motivo di nuova ira, rimettendo piede nel suo regno – precisò a denti stretti. Dire di non volerlo più vedere, affermare di rinunciare a lui, le diede


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una scossa interiore che soffocò a fatica, che sostituì con l’assurda sicurezza che le dava la protezione di un dio. - Sei solo spaventata. Permetti al Fato di compiere i nostri destini, di risolvere una situazione estranea alla volontà di ognuno di noi. E’ tutto sbagliato, lo è stato dal momento in cui il figlio di Nyx ti ha avvicinata ed anche adesso non sei tu. Apri gli occhi, non posarli su di lui che non è affidabile – la implorò l’amica, ancora avvinta dalle sue convinzioni sull’amore, i sentimenti, l’indivisibilità delle anime. Zaira fece spallucce e sbuffò stanca di doverla ascoltare, sfiancata da una realtà buia, da un domani senza nome e senza prospettiva di sorta. - Non credo che tu non riesca a perdonare il re di Astos – azzardò la ragazzina di Delfi. La figlia del futuro la squadrò, il respiro sospeso. - Non lo farò, Schià. Mai. Porto addosso i segni della sua immotivata violenza, del suo orgoglio ferito, della sua forza devastante e non gli permetterò di farmi ancora del male – sibilò decisa. - Ah! Affidati allora alle mani artigliate del dio della morte e vedremo quale benessere sapranno darti! – esclamò Aimatos stufo di ascoltare tante sciocchezze in una volta. Certo, Dunamis era un bastardo, aveva cessato d’esserlo per un breve periodo, ma era sempre un bastardo, ma niente poteva eguagliare la nefandezza del dio della morte! - Lo farò – fu raggelante la straniera. L’ex schiavo alzò gli occhi al cielo. Schià lo cercò allibita. Che potevano fare adesso? - No, non lo farai – ribattè il comandante e lei lo scrutò astiosa. Si fulminarono a vicenda. - Sarò io ad impedirtelo e non mi aspetto la tua gratitudine – la minacciò. - Non metterti contro un immortale, Aimatos – gli consigliò Zaira roca. - Ho fatto di peggio nella vita e non mi spaventa un dio disarmato – le sorrise sfidante. La figlia del futuro si avvicinò e gli si parò davanti. - Non mi porterai davanti al sovrano di Astos, Aimatos! Non ti conquisterai la sua fiducia, gettando ai suoi piedi la preda perduta – soffiò come un gatto alle strette. - Sei completamente offuscata, Zaira, e non mi fermerai – non cedette. - Lo vedremo – volle avere l’ultima parola, mentre Schià li osservava cogliendo in lei quella vena feroce che aveva sempre caratterizzato… il sovrano di Astos.


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Capitolo X IL GIURAMENTO

Dunamis sbattè le palpebre ripetutamente, ebbe una smorfia di disgusto per il sapore rivoltante che sentiva nella bocca impastata, per l’odore del sangue rappreso. Si mosse a fatica. Riuscì ad appoggiarsi su un gomito, prendere una brocca piena d’acqua accanto a sé e sorseggiarla, rovesciandosene la metà addosso. Aveva sete e la testa girava, oltre a dolergli. Volse lo sguardo appannato verso il fuoco. Nella sala non c’era nessuno. Realizzò d’essere ai piedi del trono, coperto con pelli di capra, madido di sudore e sporco di sangue, ributtante a se stesso, caduto in un fango che non aveva mai conosciuto. Quasi mai. Ricordò senza volerlo i giorni in cui nel fango c’era già stato, quelli della perdita irrimediabile di Zaira, proprio come in quel momento. Tornò supino, una fitta dolorosa alla nuca lo fece gemere e strinse gli occhi alla ricerca di sollievo. Il braccio gli faceva male. Si sentiva così debole da non poter raggiungere con la mano l’orecchio. Respirò profondamente in cerca della forza che lo aveva abbandonato. Ripensò a lei e scosse il capo, procurandosi altro dolore. Ricordò l’occasione in cui gli aveva dato dell’inetto, facendolo sentire stupido. Questo lo aveva adirato e reso letale, sino alla condanna a morte che non si era compiuta perché… ma era troppo difficile ragionare, farlo lucidamente e cadde nel languore dei rimpianti, a scapito delle sue ragioni. Un sonno lieve lo accarezzò piacevole… … mentre la mano invisibile di Afrodite gli sfiorò le palpebre, come già una volta aveva fatto, sulla riva dello Sperchius, quando aveva rischiato di morire per un gesto avventato. La dea dell’amore non era solita abbandonarlo e Artemide, la sua dea, con lei. Entrambe gli erano accanto, a proteggerlo, a infondergli la serenità necessaria per potersi riprendere perché presto, molto presto, il figlio del lupo avrebbe dovuto affrontare la realtà e ancora una volta avrebbe dovuto vincere una sfida. “Eppure il tuo futuro era costellato di felicità, quella che il passato ti ha sempre negato. Ma il passato, quello distante, è tornato e ti ha trasformato nuovamente nella bestia di cui vai tanto fiero, trascinandoti ancora una volta nell’antro buio della solitudine” “E’ bastato poco ed hai perso il controllo. Tutto è precipitato, non hai capito i tranelli di un dio, hai lasciato che giocasse con la tua vita”


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“Cura le tue membra, Dunamis di Astos. Accetta l’ultimo aiuto che il Fato ti offre e riprendi in mano la situazione o sarai perduto” “Riposa il tuo cuore avvelenato, dimentica i giorni amari e le parole che ti hanno fatto male. Ritrova te stesso e la tua spada sarà invincibile. Sei un re, ricordalo sempre, ora che sei solo e quando sarai davanti al tuo nemico, quello vero, quello che di te potrebbe fare ciò che vuole” Le parole di Omero echeggiavano nella mente del re, lo agitavano. Non riuscì a dormire come avrebbe voluto e neppure Afrodite placò la sua inquietudine. Dall’angolo più buio della sala, Thanatos osservava il riprendersi del sovrano e percepiva la crescita di nuove convinzioni, la vittoria di sentimenti che a stento aveva accettato, poi rinnegato e che ora, in stato di necessità, stava riconsiderando. Il figlio del lupo non poteva ricredersi, non adesso, non prima di permettergli di tornare a essere il dio della morte. Si fece avanti e le due dee alzarono i volti perfetti su di lui, riservandogli lo scherno dell’immortale condannato. Non disse nulla, limitandosi a fulminarle con lo sguardo. - Astos mi appartiene in questo momento e la vostra presenza è un’invasione che non tollero, non finchè questo sarà il mio campo di battaglia – le riprese. Afrodite e Artemide si misero in piedi e lo fronteggiarono. - Astos appartiene a me – ribattè la dea della caccia e lui sorrise capzioso. - Lo ricordi solo adesso, figlia di Zeus potente? Adesso che un dio condannato e oggetto dello scherno più feroce lo ha assediato? Astos è mia e la sarà sino al giorno in cui tutto sarà finito – sibilò. Era vero ciò che aveva detto, lei lo aveva difeso il regno tanto caro? Lo aveva difeso da un dio senza armi? Si sentì offesa e Thanatos ne fu compiaciuto. Poi guardò Afrodite e la trovò bellissima. Era la prima volta che i suoi occhi scarlatti si posavano su lei. Il loro campo d’azione era radicalmente diverso e non aveva mai avuto modo di incontrarla. Cozzò contro l’azzurro di quello sguardo inclinato e conturbante e ne rimase per un attimo incantato, tanto da darle il tempo di attaccare per prima. - Non riuscirai ad ottenere ciò che stai cercando, la tua condanna sarà eterna – disse sottile. - Non ho bisogno del tempo con cui tu giochi nell’elargire i tuoi alti sentimenti, Afrodite figlia di Urano. A me basta un secondo, un battito di ciglia e sarò salvo – le ricordò. La dea dell’amore osò avvicinarsi a lui che s’irrigidì, lo guardò suadente. Gli fu a pochi centimetri riversandogli addosso un mare caldo di sensualità che lo scottò.


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- Nulla può dividerli, neppure un battito di ciglia. E se ciò dovesse avvenire, condanna ben peggiore toccherà al dio che li separerà – lo avvertì. Thanatos rimase impassibile. - E’ il volere del Fato o questo te lo ha nascosto il tuo caro fratellino? – sorrise. Fu dolcissima e per questo convincente. Il dio della morte non disse nulla. - Nessun mortale può spezzare il loro amore, perché sappiamo entrambi che è qualcosa che va oltre l’umana comprensione. Credi davvero che, dopo avere infranto le regole del tempo e avere ottenuto la grazia del Fato, Zaira e Dunamis siano destinati alla separazione? Che sciocchezza, Thanatos cuore di ferro! Ma un dio, forse, potrebbe riuscire laddove i mortali fallirebbero e sarebbe sacrilegio, sarebbe un affronto alla decisione unica ed inconfutabile del Fato che tutto dispone. Non potrai mai separarla da lui e se lo farai… insistette, inculcandogli dentro il dilemma e questo poteva bastare per la scaltra Afrodite sempre in difesa dell’amore. Thanatos la fece tacere con un gesto e sbattè le grandi ali silenziose. Fece per andarsene. - Un gioco crudele quello del Fato nei tuoi confronti – lo fermò Artemide, ma lui non replicò e si diresse veloce verso la porta di pietra. No, il Fato non gli aveva detto che… - Crudele quanto il nostro – affermò Afrodite, quando furono sole guardarono il re. - Credi che demorderà? – le chiese l’altra. La figlia di Urano scosse il capo. S’inginocchiò e sfiorò la tempia ferita dell’uomo. - Non lo farà e sarà una dura prova per il tuo protetto – sospirò. Artemide chiuse gli occhi. Una dura prova. Alopex guardò il pugnale arrossato tra le mani di Dicaia. - Disgustoso – si soffermò sui fiocchi che gli piombavano sul volto, freddi e refrigeranti perché, nonostante tutto, lui aveva un gran caldo, il caldo della rabbia e della disperazione. - Questa lama ha salvato la vita del re – gli fece sapere l’amazzone. La interrogò. - Era morto, questa gli ha restituito la vita che aveva perduto e che Thanatos avrebbe potuto togliergli - continuò frettolosa, cercando la sua attenzione. - Dunamis è vivo? – chiese l’uomo meno apatico. - A pezzi, ma vivo – confermò. Alopex corrucciò le sopraciglia, sballottato in un attimo dal totale scoramento all’emozione che dava la luce distante della speranza, anche se non sapeva cosa sperare in quel momento. - Dove vuoi arrivare, non ricordo il tuo nome? – l’apostrofò sprezzante.


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- Questa è l’arma giusta contro Thanatos – azzardò la donna. Il soldato ridacchiò scettico e avanzò di un passo per allontanarsi da lei. - Una lama insanguinata non ucciderà un dio, Dicaia! – la prese in giro. - Ucciderlo? Non sono pazza, Alopex! Piuttosto Zaira è nelle sue mani e con lei Aimatos e Schià - E questo per dirmi cosa? – la considerò con sufficienza. L’amazzone lo fissò. - Questa lama ha strappato un mortale dalle mani del dio della morte, non credi che possa avere un significato? – arrancò verso di lui che non sembrava disposto a darle l’appoggio sperato. Alopex non voleva parlare con lei, non le avrebbe permesso d’illuderlo. La guerriera lo rincorse giù dalle scale, sino alla porta davanti alla quale Flogos dormiva. - Stai dimenticando che sei un comandante, che il tuo re è annientato e che tocca a te prenderti cura del suo regno! – lo riprese e lo irritò per l’ennesima volta. L’uomo osservò l’arma che teneva in mano e sorrise amarissimo. - Astos è perduta ed io non ho via di scampo. Quale alta responsabilità credi io possa sentire? Nessuna, il figlio del lupo è stato sconfitto ed il suo nemico non è possibile abbatterlo e tanto meno inseguirlo. Lasciami in pace, non ricordo il tuo nome, coltiva le tue folli teorie e non tentare di coinvolgermi, non ti aiuterò, non lo farò perché non lo ritengo opportuno e perchè… - sibilò, il fuoco dell’ira divampò nei suoi occhi da giorni spenti. - … perché sono un’amazzone?- lo sostenne lei ringhiante. - Una cagna della Città Bianca – rettificò. - Sei solo un vile – concluse. Decise di cercare Fos che forse avrebbe capito più di lui. Alopex non le permise di eludersi così facilmente e le afferrò un polso, rivoltandola verso di sé. Presa alla sprovvista perse l’equilibrio e gli fu addosso, mentre il pugnale cadeva con un suono metallico. - Tu non sai nulla di me e non hai il diritto di darmi del vigliacco – le soffiò in faccia, i loro volti uniti in un ringhio. - Neppure tu sai nulla di me e mi definisci cagna, fingendo di non ricordare il mio nome dopo aver tentato di stuprarmi. Non mi fai paura, non ora che posso piantarti una spada nello stomaco quando e come voglio – ribattè forte e invitante per lui. - Perché mi stai attaccata come una serva al suo padrone? Non mi sono fatto capire? Non hai inteso che la tua vicinanza mi irrita, che il tuo respiro m’infonde il desiderio di tagliarti la gola e spezzare il sorriso che hanno le tue labbra? – si lamentò. L’impeto che ci mise lo indusse a sfiorare proprio quelle labbra, mentre parlava e farlo lo colmò di un’emozione che s’intrecciò ingannevole con l’astio. Il tocco accidentale turbò anche lei che si ritrasse e lui non la trattenne più.


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- Sei solo un uomo ferito, ho creduto nella tua intelligenza, nella tua lucidità, in una capacità fuori dall’ordinario di tentare l’impossibile, di vedere i segni del destino, di seguire strade impervie. Mi sono sbagliata, sei solo un uomo che pensa a se stesso, alla propria sorte a scapito delle amicizie che fino a ieri sbandieravi come nobili vessilli, a scapito della nobiltà d’animo che ti ha riportato ad Astos, dove sei tornato solo perché non c’era un solo lido disposto ad accoglierti. Ora che il tuo scudo sta vacillando, sei pronto ad una nuova fuga che potrebbe portarti ovunque, senza che tu sia capace di scegliere nella certezza assoluta che hai di sbagliare sempre – lo inondò di parole pungenti. Alopex rimase attonito, ferito eppure lusingato e compiaciuto. Abbassò le spalle e cercò i suoi occhi ricolmi di un fervore che in lui era sparito dal giorno in cui aveva perduto Eucide. Si chinò per raccogliere il pugnale e glielo porse, lei lo riprese e fece spallucce. - Non è come dici – disse. - Lo è – lo contraddisse. Non aveva bisogno di un uomo piegato. - No – insistette avvolgendola imprevisto. Lei non si ribellò, ritrovandosi stretta a lui, una volta caduta in quella trappola dovette affrontare un abbraccio quasi disperato che le tolse il fiato. L’uomo affondò il volto tra i suoi capelli e respirò il suo profumo. Lei, dopo un attimo di smarrimento, si mosse e lo guardò in faccia diffidente. Gli occhi di Alopex erano lucidi di una stanchezza pesante, come se avesse cessato di recitare in quell’istante, come se avesse deciso allora di liberarsi di un masso che gravava sul suo cuore. L’amazzone sentì il petto infiammarsi, percepì il salire impetuoso di una sensazione che si collocò in gola e provò per lui una tenerezza che non conosceva. Non comprese le intenzioni del soldato, quando con le dita ruvide le sfiorò la bocca in una carezza, con lo sguardo a soffermarsi su di lei. - Nulla è stato mai facile per me, non lo è neppure accettare il fremito che mi dai quando ti avvicini, perché assomiglia a quello che mi dava Eucide – confessò facendola arrossire in un prudente defilarsi. Alopex la trattenne pur senza forza. - Eucide non era un’amazzone – disse fuori luogo. - La era, come la sei tu – fu caparbio. - Non di sangue – Alopex sorrise come se questo lo rincuorasse. - Dunque tu sei migliore di lei? – la mise in crisi senza che si opponesse, attirata dalla curiosità di vedere dove voleva andare a parare o forse… consapevole di ciò che l’attendeva e consenziente nel vivere un sentimento che avrebbe potuto rivelarsi sbagliato. Il bacio che le scottò il cuore la fece barcollare, le gambe a cedere, le braccia dell’uomo a sorreggerla perché non scivolasse via. Dicaia assaporò quel breve attimo. Era una guerriera forte,


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valente, un comandante dell’Esercito Bianco, ma la sua fragilità si scoprì al solo tocco dell’attico, la sua femminilità sbocciò come d’incanto e illuminò il buio della disperazione degli ultimi giorni. Si, era diversa da Eucide che appariva invitante, celando un animo virile, mentre lei si presentava come un soldato ringhiante, celando il suo vero essere. Si, era diversa. - Dicaia della Città Bianca – disse, accarezzandole la guancia. Sorrise annientata come neppure una spada puntata al petto avrebbe potuto fare. Annuì imbarazzata, le gote infiammate, gli occhi bassi a correre altrove. - Ti ascolterò, se è questo che mi stai chiedendo – la svegliò. L’amazzone a stento ritrovò il motivo per il quale era arrivata a lui. - Perché? – tentennò. - Perchè sono un uomo ferito, ma sono disposto a percorrere strade impervie. Non dimentico gli amici, questo regno è anche nelle mie mani fino a quando il suo re non ritroverà le forze per continuare a governarlo – contraddisse quasi tutte le sue accuse. Dicaia alzò il pugnale che scintillò sinistro tra loro. Thanatos si parò davanti ai mortali in corsa lungo le vie preziose delle miniere di Ades. La fuga senza una meta era rallentata da Zaira, afferrata a un polso dall’ex schiavo, decisa a non seguirlo, a non tornare ad Astos. Il gruppo frenò alla comparsa del dio, una nuvola aurea li fece tossicchiare. Il figlio di Nyx, ad ali distese, li fissò algido. Non percepì in loro alcun timore e questo lo irritò nell’intimo, anche se la mancanza di paura in Zaira gli diede emozione. Incontrò i suoi occhi grigi atterriti dall’idea d’incontrare il re di Astos. Il gioco dell’immortale era sempre più facile, i suoi piani sembravano funzionare, anche se le parole di Afrodite echeggiavano in lui fastidiose. Lo sguardo scarlatto corse su Schià che impettita lo sostenne. Infine, guardò Aimatos che avanzò di un passo senza mollare la stretta sulla figlia del futuro. La spada in pugno e il fiato grosso, il guerriero dei derelitti non sembrò volersi smentire. - Il figlio del lupo non ha mai sbagliato a valutarti, mortale - disse tombale. Aimatos strinse i denti e non rispose. - Avvezzo alle missioni impossibili, sempre pronto a sancire inutili condanne, abituato a sfidare i potenti ed ora sei capace di farlo anche con un dio dopo esserti salvato da un re – aggiunse. L’ex schiavo alzò la spada. - E trascini con te due donne che non hanno alcuna colpa se non quella di seguirti – Mentre Zaira annuiva frenetica, Schià scosse il capo contrariata. - Non provarci, Thanatos, non sei nella posizione per potermi fermare – sibilò, ma il dio lo ignorò, rivolgendo la propria attenzione a Zaira che tacita gli


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stava chiedendo aiuto. Lui quell’aiuto era disposto a darglielo. Una volta riavuta la figlia del futuro tra le braccia… ma le parole di Afrodite continuavano a rimbombare nella sua mente. - Della tua vita, Aimatos, il dio della morte non sa cosa farsene. Non sono qui per te e per le tue alte sentenze. Scansati e dischiudi la mano che ferma il sangue dell’eletta del Fato. E’ un dio che te lo ordina – non lo guardò in faccia. Entrò negli occhi spauriti della straniera e la gonfiò d’un orgoglio ridicolo e tronfio, la lusingò con le proprie attenzioni, facendo leva sulla vanità ben celata di una donna che vanitosa non era mai apparsa. Ma lui era un dio. - Un dio disarmato dal quale non accetto ordini – sbottò l’ex schiavo. Non dischiuse la mano. - Non dire cose delle quali potresti pentirti, Aimatos. Esaudisci il mio volere e la tua vita sarà salva, quando il mio potere tornerà a dilagare tra i mortali cari a Zeus – lo minacciò continuando a non guardarlo. Zaira strattonò, Aimatos non cedette. - Non lo farò – si ribellò. Schià indietreggiò di un passo. - Forse non ti posso uccidere, ma posso ferirti ed essere feriti non è auspicabile di questi tempi – fu più determinato. Quella frase fece riflettere l’uomo e diede a Zaira la possibilità di strattonare più forte e liberarsi di lui. Veloce corse incontro a Thanatos, finendo tra le sue fredde braccia, trovando riparo nelle sue ali che l’avvolsero pronte. L’ex schiavo tentò di riacciuffarla, cozzando contro la figura granitica dell’immortale, trovandosi a pochi centimetri da quel volto pallidissimo e dal suo sorriso soddisfatto. - Non permettetegli di portarmi ad Astos – sussurrò lei e lui si librò in volo, lasciando il comandante con il niente davanti a sé. Thanatos strinse Zaira, il suo respiro sul petto parve inondarlo di vita, una vita a lui preclusa. Schià urlò il nome dell’amica, ma vide scomparire entrambi dietro ad alte dune di sabbia d’oro. Aimatos cadde in ginocchio e graffiò il suolo con rabbia. Era stato sconfitto, aveva lasciato che ancora una volta Zaira cadesse in un tranello. Ringhiò contro se stesso. Tutto stava andando in rovina! Tutto era andato in frantumi, si guardò intorno, immerso nella delizia delle delizie, testimone privilegiato di una ricchezza che in superficie avrebbe fatto scoppiare una guerra totale. La sua vita era come un vaso spezzato. Tutto era a brandelli, come il mantello che aveva addosso. Volse gli occhi verso il punto dove i due erano scomparsi e abbassò le spalle. Basta. Scrutò Schià che non tratteneva più le lacrime, come lui sperava nel ritorno di Zaira. La osservò, pensò a Flogos, colui che si era dimostrato il più fedele al re, il più meritevole del titolo acquisito. Si alzò. Fosse quello che doveva essere! Lui ci aveva provato. Fosse stato ciò che il Fato aveva disposto! Lui ci aveva provato. Fosse stato ciò che era giusto, nella visione strana della giustizia che avevano gli dei! Che Zaira si affidasse all’essere meno affidabile! In


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no gli dei! Che Zaira si affidasse all’essere meno affidabile! In fondo lo aveva già fatto, forse questa volta sarebbe divenuta una dea invece che una regina. Ma c’era Schià e c’era lui. C’erano Fos e Flogos. Avanzò di qualche passo, in direzione della porta di pietra. - Dove pensi di andare? – lo fermò la ragazzina. Non si voltò. - Ad Astos dove ci stanno aspettando – rispose. - E dove ti aspetta anche Dunamis – gli ricordò. Aimatos sogghignò amaro. - Sono un suo comandante – fu sorprendente. Cosa stava accadendo? Stavano tutti impazzendo? Guardò le spalle di Aimatos e poi il panorama delle miniere di Ades. Thanatos stava giocando pesante. - Io non verrò con te – camminò nella direzione opposta. - Lo farai, Flogos ti attende – - Tornerò solo con Zaira – fu ottusa. Aimatos si voltò. - Solo con Zaira – ribadì. Solo con Zaira. Thanatos planò lieve e entrò in una grotta di smeraldo, tenendo in braccio Zaira che gli serrava il collo. Il suo cuore batteva impazzito, toccò il suolo e si guardò intorno. Ammirò l’ennesima meraviglia che solo gli dei potevano concedersi. L’interno era una specie di stanza enorme con tutti gli agi possibili, persino una grande vasca con acqua dai riflessi dorati e lievi zampilli cristallini. Il figlio di Nyx immobile sembrava attendere. - Ancora una volta mi avete salvato – disse, una stanchezza infinita a renderla così fragile da poterla infrangere con un soffio. Era esausta, la stanchezza la stava rendendo sempre più incosciente nelle decisioni e questo era ciò che lui voleva. Non poteva costringerla a nulla, ma le convinzioni di un suo atto sarebbero bastate e sentiva d’essere a un passo dalla risoluzione. Tuttavia, le parole di Afrodite non cessavano di tormentarlo e ormai non poteva più rimandare azioni che potessero aggirare una realtà trasversale che rischiava di peggiorare la situazione già terribile in cui si trovava. “Nulla può dividerli, neppure un battito di ciglia. E se ciò dovesse avvenire, condanna ben peggiore toccherà al dio che li separerà” “E’ il volere del Fato o questo te lo ha nascosto il tuo caro fratellino? “ “Nessun mortale può spezzare il loro amore, perché sappiamo entrambi che è qualcosa che va oltre l’umana comprensione. Credi davvero che, dopo avere infranto le regole del tempo e avere ottenuto la grazia del Fato, Zaira e Dunamis siano destinati alla separazione? Che sciocchezza, Thanatos cuore di ferro! Ma un dio, forse, potrebbe riuscire laddove i mortali fallirebbero e sarebbe sacrilegio, sarebbe un affronto alla decisione unica ed inconfutabile del Fato che tutto dispone. Non potrai mai separarla da lui e se lo farai…”


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… e se lo avesse fatto, su di lui avrebbe gravato una condanna senza appello questa volta. Se lo avesse fatto si sarebbe macchiato di sacrilegio. Il Fato lo aveva gabbato dall’inizio con una missione senza speranza, con una sconfitta che lo avrebbe distrutto e una vittoria che lo avrebbe condannato per sempre. Guardò Zaira, la fiducia cieca che gli riservava. Se avesse tentato il colpo finale in quel momento, tutto sarebbe finito. Era riuscito a creare una situazione perfetta, ma Afrodite gli aveva fatto notare un’imperfezione mai considerata. Era a un passo dal trionfo senza poterlo afferrare, come il vecchio Tantalo, affamato e costretto a guardare il cibo senza poterlo toccare. Le accarezzò la guancia, percepì un suo emozionante brivido che emozionò anche lui. - Salvata da cosa? – chiese. Zaira si adombrò. - Aimatos è un uomo forte - si sedette su una pietra di diamante. - Temi chi ti è amico? – la schernì, ma stava temporeggiando, alla ricerca di un modo per uscirne vincitore. Sorrise scettica. - So di potermi fidare ciecamente di lui – fu contraddittoria. Thanatos sospirò in una finta esasperazione. - Lo conosco così bene che sono certa che tornerà ad Astos e io non voglio rivedere Dunamis. Mi avete salvata dal figlio del lupo e non so come ringraziarvi - finalmente fu più chiara, anche se il dio allargò le braccia e la indusse a guardarsi intorno. Lei non comprese. - Non vuoi tornare ad Astos, mortale? E dove pensi di poter vivere? Qui? Nelle miniere di Ades l’invisibile che ci sta tollerando, che attende solo che tu abbandoni questi lidi per una concessione che non potrà essere infinita? – Se lei non poteva soggiornare lì, dove sarebbe potuta andare? Scrutò il dio della morte con la sensazione neppure tanto sconosciuta d’essere perduta, di non avere un posto legittimo da occupare. Fu una sensazione amarissima, tanto che in un attimo comprese l’entità di ciò che aveva perduto con Dunamis. Realizzò di non avere più riferimenti. Cosa ne sarebbe stato di lei ora che sentiva di non potersi fidare di colui per il quale aveva rinunciato ai propri lidi? Si sentì nuda e sola. Chinò il capo. Percepì l’avvicinarsi dell’immortale, strinse i denti davanti al suo sguardo. - Dunamis di Astos è un mortale – le ricordò senza che la cosa avesse per lei un significato. - Voi siete un dio – ribattè. - Perché mentirti? Sono un dio senza potere, mentre Dunamis di Astos è un uomo con la sua nobiltà di sangue incancellabile – la interessò. Zaira lasciò che si sedette accanto a lei con le ali silenziose a ritmare emozioni segrete. - Siete il dio della morte – fu sciocca, voleva capire il motivo per il quale si trovava in quell’enorme guaio.


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- Un dio non deve sbagliare e il farlo comporta una dura condanna, mentre un uomo può essere perdonato, i sentimenti muovono le vostre vite, l’odio ed il rancore ma anche l’affetto e l’amore. Al dio della morte tutto questo è precluso – si lamentò. Era deciso a darle delle spiegazioni che la inducessero a prendere delle decisioni che avrebbero dovuto salvare tutto e tutti, anche lui. Un’illusione? Non aveva altro mezzo. Zaira notò ancora la sua assenza di respiro, la staticità del suo essere che pur muovendosi apparteneva ad un mondo lontano anche dagli dei, superiori eppure simili agli uomini. Thanatos era diverso, lui non era... - Vivo – le rispose senza nascondere di poterla leggere dentro. La figlia del futuro non volle averne paura, aveva cessato di respingerlo dopo aver visto in lui l’unico appiglio nel marasma di disperazione in cui era precipitata. - Il mio cuore è di ferro, non pulsa e nelle mie vene non scorre il sangue che scalda le vostre membra. Non conosco la pietà, anche se la so infondere, il mio animo è ghiaccio, il mio pensiero fermo ed i miei occhi sono il lago profondo della paura dove gli uomini si perdono e sono destinati ad annegare – svelò implacabile se stesso. Zaira ebbe un ovvio sussulto. - Ma ho commesso un errore, ho graziato un innocente dalla morte che le avrei dovuto riservare, ho contrastato il volere del Fato. Sono stato condannato a non poter più privare alcuno della vita, non finchè… - e prese tempo. L’animo della ragazza si colmò di un’assurda comprensione, tanto che a meravigliarsi fu proprio Thanatos che la guardò senza trovare in lei l’inganno. - … finchè non otterrete una grazia simile? – lo imboccò senza crederci troppo. Annuì incerto anche se consapevole di avvicinarsi sempre più alla meta finale. “ Ma un dio, forse, potrebbe riuscire laddove i mortali fallirebbero e sarebbe sacrilegio, sarebbe un affronto alla decisione unica ed inconfutabile del Fato che tutto dispone. Non potrai mai separarla da lui e se lo farai…” Thanatos distolse l’attenzione, si alzò silenzioso come uno spettro, dandole le spalle. Non le rispose e decise di uscire dall’antro, ma lei lo raggiunse in cerca di un nuovo saldo appiglio. Le accarezzò la guancia con la mano gelida e le sorrise terribile. - Non sarò io colui che ti salverà, giovane straniera in terra proibita, sarai tu colei che salverà me – rivelò. - Non vi capisco – si lamentò puerile. - Io porto la morte, questo è stato il mio destino dal giorno in cui ho visto la luce senza farne mai parte. Ma non sono preposto a fare del male gratuito e tu, Zaira d’Enotria, non sarai un’eccezione. Per ringraziarti muoverò in tuo favore e lo farò prima che tu abbia cancellato la mia vergogna – fu ancora


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più oscuro, tanto che non lo fermò neppure, quando uscì per librarsi in volo allontanandosi, sorvolando lento le ricchezze di Ades l’invisibile. Il re aprì nuovamente gli occhi. Un fischio del respiro lo fece trasalire e il malessere generale lo immobilizzò. Il dolore dietro l’orecchio era pulsante, il sangue stillava piano sino all’incavo della clavicola. Riuscì ad alzare un braccio, non ebbe la forza di appoggiarsi, sconfitto osservò un cratere d’acqua poco distante. Corse con gli occhi ovunque. Aveva il ricordo di un ennesimo scontro con Aimatos, di un fragore incalzante, del dio della morte sul suo sinistro cavallo e infine di una porta che si era serrata, inghiottendo Zaira. Il solo nome della straniera gli diede una fitta al petto. Richiuse gli occhi. Ebbe la visione di se stesso rovinosamente scivolato in un fango rossastro che lo avrebbe soffocato se non fosse riuscito a rialzarsi per dimostrare al mondo che il figlio del lupo era duro a morire! Ringhiò. Raccolse ogni frammento di sé e riuscì a mettersi sui gomiti, a flettere le gambe, a sedersi e, in una resurrezione impossibile, a mettersi in piedi. La sala ondeggiò, ma fu veloce nel portare la mano sul trono, afferrarlo e per inerzia a caderci sopra seduto. Lasciò andare all’indietro il capo, si sfiorò il mento che sentì ispido, dovevano essere passati quattro o cinque giorni dal momento in cui aveva perso il controllo della situazione. Aveva il fiato grosso, quell’unico passo lo aveva sfiancato, fu una sensazione terribile per lui che non conosceva la debolezza. La rabbia balenò negli occhi più neri del solito e arrossati. Scorse una sagoma. Non si mosse. Thanatos nel suo divino aspetto avanzò di qualche passo. - Thanatos cuore di ferro al cospetto di Dunamis di Astos – disse lentamente. Era roco, lontano dall’uomo devoto che aveva sempre dimostrato d’essere. Lo schernì e gli riservò un sorriso beffardo. Tossì, la testa pulsò come il cuore agitato che aveva in petto. L’altro non rispose. Il sovrano si fece ancora serio, ancorato al trono che leniva il suo dolore. - Mi piace credere che tu abbia bisogno di me e che sei qui per implorarmi – lo provocò. Thanatos non raccolse la sua irriverenza, lo scrutò in profondità, vide il suo animo massacrato. - Sono qui ad esigere, mortale – sbottò. Il figlio del lupo sogghignò e distolse gli occhiacci da lui per guardare altrove. - Non sono disposto a concedere nulla ad un dio che ha portato la rovina nel mio regno e mi ha annientato nel timore d’essermi inferiore – fu superbo. - Non parleresti così se ti avessero illuminato sull’accaduto, se sapessi che la tua vita era stata destinata al mio padrone ricco ed invisibile. Evidentemente non hai ancora parlato con i tuoi servi, non sai nulla della grazia che ti è stata concessa e osi sfidarmi – gli fece notare senza scalfirlo.


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“Una colpa grava su di me e la tua nobile sposa può permettermi di espiarla” aveva detto il giorno in cui era stata svelata la sua identità. - Sono tante le cose che non ho avuto il tempo di capire, ma ricordo le tue parole, mi bastano per potermi permettere qualsiasi cosa. Sei un dio senza armi. Se così non fosse, nulla sarebbe accaduto e tu stesso non avresti osato invadere e piegare il regno caro e devoto ad Artemide virtuosa – sibilò e tossì nuovamente. Thanatos si avvicinò, senza che l’uomo gli impedisse di farlo. Lo sguardo del sovrano stonava con il suo stato fisico. Gli fu a pochi centimetri, le mani bianche appoggiate accanto a quelle calde del re che si irrigidì, ma non lo temette, lo affrontò deciso, pronto anche a morire, caparbio nella determinazione che aveva di uscire da quella situazione con la gloria, fosse stata anche quella della fine. - Quanto dolore scorgo in te, quanto male sta crescendo dentro il tuo cuore ritrovato. Oh, se solo non ti fosse stato restituito il sentire umano, tutto sarebbe più facile, l’orgoglio ferito non ti apparirebbe futile cosa davanti alla nostalgia che ti strazia! Se solo lei non ti avesse salvato dalla bestialità cui eri destinato, ora non ricorderesti i suoi occhi e non ti chiederesti se hai sbagliato, se hai esagerato e se lei, in questo istante, è ancora viva o giace esanime nei meandri di in mondo distante dopo che Thanatos cuore di ferro l’ha uccisa. Se soltanto… – gli sussurrò all’orecchio. - Cosa vuoi da me? – ignorò quella provocazione, evitò di parlare di Zaira. Si, un dolore terribile lo scuoteva al solo pensiero di lei e l’idea che fosse morta gli fece sentire un abisso dentro. - Un giuramento – sentenziò. Dunamis strinse lo sguardo. - Di sangue – aggiunse glaciale. Il sovrano accennò un vago sorriso. - Non ne ho versato abbastanza? – ironizzò amaro. La mano del dio gli sfiorò il collo e intinse le dita sottili nell’incavo della clavicola. Thanatos sorrise malefico, il rosso dei suoi occhi scintillò sinistro, le dita insanguinate si pararono davanti al volto del re che continuò a fissarlo. - Altrimenti cosa succede? – indagò. Pensò al regno. - La ferita che hai al collo non cesserà di versare sangue e quando il mio potere tornerà assoluto, la grazia che ti è stata concessa sarà nulla ed io taglierò i tuoi capelli, disporrò per la tua dipartita ed Astos diverrà terra di nessuno senza un re – scandiva bene le parole. - Mi stai minacciando – replicò. - Guardati intorno e rifletti – le ali ad avvolgerlo. Dunamis, nonostante il malessere, valutò ogni sua parola. - Parla chiaro – La tensione agitò il cuore del re che assordò il dio. Infastidito da quel frastuono si ritrasse e gli diede le spalle, continuando a mostrargli però la mano


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arrossata. Una goccia di sangue cadde al suolo. Dunamis aspettò. Ogni muscolo era teso e questo gli procurava altro dolore. Cosa voleva il dio della morte da lui? Quale giuramento gli stava chiedendo? Giurare con il sangue avrebbe significato non poter mancare perché quel sangue era destinato ad Ades l’invisibile! - Voglio la salvezza per Zaira d’Enotria – disse a bruciapelo. - Nessuna salvezza per chi ha osato insultarmi – sussurrò deciso. - Non sarà quell’insulto che dovrai dimenticare – - Nessuna salvezza – non cedette, come se parlare di lei fosse stato del tutto inutile. - La stai perdendo, Dunamis. Irrimediabilmente – lo avvertì. - Presto sarà mia – sferrò il colpo che andò profondo nell’uomo, che prima lo scaldò e poi lo raffreddò facendolo impallidire. Dunamis serrò la mascella. - La sua paura la sta portando lontano da te e si avvicina a me – - Zaira sa consolarsi velocemente – Thanatos si avvicinò ancora a lui. - Rammenta una cosa, Dunamis di Astos - era sibilante come un serpente. - Io non conosco l’amore, non mi è concesso provarne, non mi è concesso accettarne. Io sono la morte, non conosco la pietà, otterrò ciò di cui ho bisogno e poi la sua vita non avrà alcun peso per me, non posso fare altrimenti. Sarà perduta, prigioniera di un regno che non la può ospitare, destinata al nulla, mentre tu avrai il tuo regno. Gli dei ricompensano sempre i mortali prediletti, la donna che ti ha salvato la vita sarà felice ed il tuo più fedele soldato ti sarà ancora più fedele. Zaira non avrà nulla in cambio della salvezza che mi concederà, che anche adesso potrebbe darmi se mi presentassi a lei – disse d’un fiato, la voce bassa, il tono greve della tragedia. Dunamis lo guardò. - E’ questo che vuoi per la donna che hai amato sino al giorno in cui io ho intessuto un inganno che sta distruggendo un regno glorioso? – chiese sublime nei tempi e nella modalità adottati. - La tua grandezza in cambio della sua fine? – calcò la mano. Sapeva d’essere sulla strada giusta. - Prenditi pure la mia sposa – soffiò il re rigido. - Non è più la tua sposa – lo confuse. Perfetto. - Rimane un’eletta del Fato, non cogli l’occasione di salvarle la vita e guadagnarti il rispetto dell’essere che tutto dispone? – - La vita - ripetè Dunamis. - Solo la vita – - Il rispetto del Fato –


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Thanatos non cessò di assediarlo. Giocare con la sua devozione e fare leva sulla possibilità di ottenere la protezione del Fato stesso era stata un’idea geniale. Dunamis sorrise capzioso e riuscì ad appoggiarsi sui gomiti per guardarlo meglio. - Mi stai offrendo ciò che ho già – disse atono. - Sei troppo sicuro di te – Si riappoggiò allo schienale e assottigliò gli occhi. - Ho varcato i confini del tempo ed ho avuto tra le braccia la donna più importante di tutta l’Ellade. Sono vivo. Cos’altro deve accadermi per non comprendere che il Fato mi porta il massimo rispetto, quello che non riserva ad alcuno in questa terra? – fu ineccepibile. - Non sfidare la sorte, potente – lo avvisò l’altro alle strette e Dunamis sorrise ancora. - Non è Zaira ad avere bisogno di aiuto, non coloro che hai trascinato oltre quella porta, non i fedeli soldati che mi sono rimasti accanto, non quella bambina giunta ad Astos in cerca di un padre che non sono io e neppure la principessa detronizzata di Parga cara al tuo padrone. Nessuno di loro ha bisogno d’essere salvato ed io sono già salvo. Sei tu ad avere bisogno di me, del mio giuramento. Non conosco la tua colpa, ma ho compreso la tua condanna – lo smascherò senza difficoltà. - Pecchi di superbia, mortale – fu brusco il figlio di Nyx. - Può darsi, ma se un dio ha bisogno del mio sangue… - sussurrò tombale, pallido nella rabbia di un obbligo che sentiva gravoso. - … dimmi perché ed avrai il mio giuramento su Ades il ricco – si impose. Il dio della morte tentennò - Parla ed avrai la salvezza che vai cercando da quando questa neve senza fine ci sta facendo a pezzi – insistette. - Parla e giurerò in nome del padrone dell’Oltretomba perché il regno caro ad Artemide divina abbia la salvezza – - Non posso spezzare il vostro legame – ammise. - Il nostro legame è già spezzato – gli fece notare. - Non posso essere io a tagliarlo definitivamente – rispose. Alzò nuovamente le dita insanguinate davanti al viso fermo del sovrano. - Dovrà amarmi – rivelò senza cogliere in lui alcuna reazione. - Non lo farà – sorrise il re e afferrò la mano del dio senza stringerla. - Basterà un attimo ed io sarò salvo, ogni concessione cesserà d’essere e la vita di Zaira sarà in balia degli eventi. Tu dovrai salvarla, tutto il resto non avrà importanza per il dio della morte – aggiunse freddamente senza smorzare il sorriso sardonico del figlio del lupo.


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- Neppure per un attimo – ribadì il mortale. Le sue dita serrarono quelle di Thanatos che non battè ciglio e percepì dentro il sapore della soddisfazione. - Salverò la tua sgualdrina, se è un dio a chiedermelo, lo giuro su Ades il ricco e sulla maledizione che potrà scatenare su di me se non manterrò la parola che sto dando. Ma il mio regno non dovrà pagare il tuo fallimento – volle dettare delle regole che non era certo sarebbero state accettate dal figlio di Nyx che indietreggiò. Si fissarono, uno diverso dall’altro eppure simili per certi versi, accomunati da una glacialità che nell’uomo trovava sfogo nel rancore, mentre nel dio non aveva sbocchi, condannato com’era alla totale staticità interiore. Si fissarono taciti, uno finalmente libero di agire, l’altro nell’ansia inconfessata di porre fine a quell’enorme pantomima. Il figlio di Nyx fece per andarsene, ma un colpo di tosse del re lo fece desistere. Mentalmente fermò lo scorrere del sangue dalla ferita al collo. Ora lentamente le forze sarebbero riemerse nel re di Astos. - Non otterrai ciò che credi di poter avere da lei – si sentì dire. - Perché non ti amerà, neppure per un attimo – disse sicuro. Thanatos si dissolse, un fremito al petto bloccò per un secondo il suo volo in direzione della grotta di smeraldo. Dicaia non si mosse dal davanzale interno della finestra sulla quale se ne stava seduta in contemplazione del pugnale che aveva salvato la vita a Dunamis. Vide la porta aprirsi nella penombra della stanza che Fos le aveva assegnato dopo la guarigione. Guardò l’uomo entrare e incontrò il suo sguardo. Ebbe un’emozione e sorrise, senza che l’altro ricambiasse. Negli occhi di Alopex scorse la fiamma della curiosità, della forza e poi della capacità di rischiare. In lui trovò, senza averlo mai conosciuto, l’uomo che era certa di trovare. Aveva accantonato la tentava violenza e forse era stata imprudente. Il bacio ricevuto l’aveva dissuasa, ora quel soldato ruvido e amareggiato riusciva a darle la convinzione necessaria per non lasciare che l’assurdità degli eventi li travolgesse tutti. Era come se, in un attimo, fosse divenuto parte integrante di lei e con quella visita imprevista, lo stesso doveva valere per lui. Non disse nulla, tornò sull’oggetto. - Cosa facciamo? – le chiese avvicinandosi per osservare la lama scintillante e macchiata. - Dobbiamo provarci, alto di grado – fu perentoria. - Quando? – fu altrettanto perentorio. Erano sincronizzati nel pensiero e nelle intenzioni. - Al più presto – rispose. Alopex ebbe uno sbuffo che svelò l’esasperazione che aveva dentro. Lo interrogò con gli occhi e si accorse di turbarlo. Si sentì lusingata dallo strano potere che esercitava su di lui senza volerlo.


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- Un gioco senza regole, senza scopo, senza… - sospirò il comandante, strinse lo sguardo sulle assi che serravano la finestra lasciando intravedere il cadere della neve. - Non abbiamo altre scelte, alto di grado – Sorrise amaro, poi la fissò e la emozionò ancora. Questo lo fece sentire vivo dopo un tempo immemorabile speso a vagare in cerca di un posto inesistente per lui, a caccia di una vita preclusa a un disertore segnato dalla vergogna. - Conosco questa sensazione, non avere scelta - ridacchiò. - Cosa ne sarà di noi tutti? – ebbe un tono malinconico, ma non affranto, piuttosto rassegnato ad una lotta fine a se stessa, ma deciso a lottare e questo poteva bastare. - Moriremo, forse, oppure vinceremo. Alla luce dei fatti abbiamo le stesse probabilità – fu logica l’amazzone nella freddezza che quella situazione le faceva mantenere. - Se devo morire… - la interruppe. Era un continuo cercarsi e trovarsi. - No, vinceremo – lo zittì. - Vorrà dire che festeggeremo – sorrise capace di mutare l’espressione in pochi secondi, disarmante per lei che non conosceva i veri risvolti del sentimento che li stava travolgendo. Annuì e rigirò il pugnale nelle mani tremanti. Alopex la privò dell’arma, la appoggiò sul davanzale e la fece scendere senza che si ribellasse. Era un gioco che le piaceva e vi giocava con la gioia nell’animo in fermento. Eppure Alopex aveva sempre dimostrato un disprezzo feroce, eppure Alopex aveva tentato di… Mentre ci rifletteva le braccia dell’uomo già l’avvolgevano, già la scaldavano, già la incendiavano e i suoi occhi dentro la confondevano per farne una facile preda. - Ma se devo morire, voglio che tu sappia una cosa – riprese il proprio discorso. Dicaia rifiutò di ascoltarlo, non voleva che parlasse. Gli mise una mano sulla bocca e lo guardò intensamente. Lui scostò la mano, le rubò un bacio, poi un altro. Non smise di farlo sino al momento in cui andò profondo, la cercò più coraggioso, la spaventò per poi quietarla con leggere carezze tra i capelli. Si abbracciarono e immerse il viso in quella cascata fluente e profumata. - Ti ascolterò quando tutto questo sarà solo un ricordo – lo svegliò la donna e Alopex fece per contraddirla, senza riuscirci. - Perché vinceremo – lo zittì. Sconfitto sorrise sino a credere di poter davvero mettere fine ad una tragedia insensata che non conosceva limiti, che stava distruggendo un regno, che stava spezzando intere esistenze. Si, avrebbero vinto perché poteva trovare un motivo per non soccombere e quel motivo aveva il nome di… Dicaia?


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Capitolo XI STRANE ALLEANZE

Il re si mise dritto a fatica. Barcollò. Seguì con lo sguardo arrossato l’oscillare intorno a sè della sala in penombra, infastidito dal crepitio del fuoco poco distante. Nessuno sembrava occuparsi di lui. La solitudine lo turbò. Ebbe una smorfia, si portò la mano dietro l’orecchio, accorgendosi d’avere anche il collo bendato. Si toccò la tempia sinistra e percepì un gonfiore. Anche il braccio era fasciato. Si sedette accanto al fuoco. La luce delle fiamme gli irritò gli occhi. Sorseggiò dell’acqua e la trovò tiepida ma dissetante, considerando che la sete gli toglieva il respiro. Aveva fame, della carne essiccata attirò la sua attenzione. Ne prese un pezzo, l’addentò senza entusiasmo, poi si sentì stranamente sazio. Era esausto. Si era appena svegliato da un sonno che doveva essere stato lunghissimo dopo la visita di Thanatos. I passi che lo avevano portato al focolare lo avevano sfiancato. Sfiorò il mento e percepì ancora la barba incolta. Ebbe un fremito. Che ne era stato di Astos senza il suo controllo, lasciato nelle mani di coloro che aveva in qualche maniera tradito? Si alzò di scatto, questo gli fece dolere la testa, trovò la forza di camminare abbastanza speditamente da uscire dalla sala deserta e ritrovarsi nei corridoi illuminati, freddi. Il mantello lercio che ancora indossava e il chitone scuro maleodorante intriso di sangue non lo riparavano dal gelo. Camminò, rallentando di tanto in tanto per appoggiarsi alle pareti e prendere fiato. Si sentiva abbandonato. Neppure i servi gli erano accanto. fuori una tormenta più intensa di quella che ricordava continuava a imperversare. Raggiunse la stanza delle abluzioni dove la vasca con l’acqua tiepida gorgheggiava e l’aria era meno rigida. Non vi entrò, voleva capire cosa stava accadendo. Continuò a percorrere gli anditi del palazzo e si ritrovò davanti alle porte degli alloggi che dei comandanti. Aprì la stanza di Alopex e la trovò vuota. Aprì quella di Flogos e fu la stessa cosa. Aprì quella di Aimatos. Fos, seduta sul letto, alzò il capo dalle ginocchia flesse, neppure meravigliata di vederlo in piedi. Erano passati un po’ di giorni da quando gli aveva salvato la vita. Lo scrutò, vestita di scuro con un abito del re trovato nella stanza della vasca dopo essersi lavata. La fioca luce di una piccola torcia illuminava appena l’ambiente, lui avanzò senza staccarsi dallo stipite che gli evitava di barcollare. Notò che i suoi occhi erano insolitamente grigi per le


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donne di quel tempo, grigi come quelli di Zaira. Sospirò in un moto inutile di rabbia e continuò a fissarla. - Cosa è successo? – chiese roco. Fos riportò la fronte sulle ginocchia. - Di tutto – sussurrò stanca quanto lui. Aveva pianto molto, era rauca. - Poco importa, Dunamis. Sei vivo, come gli dei hanno voluto ed io ho obbedito al loro volere – pianse sommessamente. Il figlio del lupo ebbe un fremito. Assottigliò lo sguardo e ricordò la scomparsa di Aimatos oltre la porta contro la quale lui si era schiantato, l’ultimo affronto dell’ex schiavo, la lotta sostenuta e la ferita al braccio. Vide la sofferenza di Fos intorno alla sua figura smagrita. Con la forza rimasta, la raggiunse e si sedette sul ciglio del letto. Ancora si guardarono: l’uno confuso, forse neppure lucido; l’altra scoraggiata, simile a Zaira. - E’ finita ed Astos sta aspettando di soccombere. Aimatos e Schià sono scomparsi con Thanatos e Zaira oltre una porta di pietra, la stessa contro la quale ti sei schiantato mosso dalla tua follia, dalla tua rabbia, da… - quasi lo aggredì con le parole, anche se era incapace di azioni violente. - … dall’animale che c’è in me! Volevi dire questo? Dillo, sono qui e ti sto ascoltando – la interruppe. Rimase pietrificata davanti ai suoi occhi accesi dall’offesa che gli aveva riservato. Distolse l’attenzione da lui che le afferrò un braccio voltandola verso di sé con un inatteso impeto. - Non merito il tuo disprezzo, Fos. Ho sempre considerato la tua nobiltà pari alla mia – le ricordò e lei sorrise. - Non lo hai fatto con Aimatos ed ora lui non è più con me – ribattè, sempre più somigliante a Zaira. Dunamis ebbe un’espressione malevola, sempre più se stesso. - Aimatos - interruppe l’assedio sulla donna per alzarsi e vinse un forte giramento di testa. - Aimatos è scomparso oltre quella maledetta porta! – gli urlò in faccia esasperata dalla sua freddezza. L’espressione del re si fece capziosa. La principessa di Parga era fragile e perduta, la sua sicurezza interiore vacillava, la tristezza le ottenebrava la mente e la piegava alla sventura. - Ti devo la vita, Fos, e saprò ringraziati – disse a sorpresa. Lei guardò altrove. Non credeva più a nulla negli ultimi difficili giorni. Dunamis si soffermò sul suo profilo. Il graffio della pietà lo fece tremare. - Sono disposto a riservargli il rispetto del suo rango – l’allettò. Sapeva che quell’uomo era scaltro: alla forza fisica, al valore in battaglia, alla capacità di governo, si aggiungevano l’intelligenza e la furbizia. Ormai lo conosceva e lo leggeva dentro. - Parli di un uomo morto e fai promesse che sai di non dover mantenere – non volle abboccare.


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- Aimatos d’Epiro non è morto, come non sono morto io – Non sapeva esattamente come erano andate le cose, ma se Thanatos era stato innocuo per lui, lo era stato anche per gli altri. Fos sobbalzò, ritrovando improvvisamente la speranza alla quale aveva rinunciato. Il re aveva fatto centro, aiutato anche da una buona dose di fortuna. - Cosa vuoi da me? – scese a patti. Il gioco era fatto. - Il tuo aiuto – non tergiversò, capace di farsi forte nella debolezza in cui versava. - Astos appartiene ad Artemide la virtuosa ed io devo salvare il regno che mi è stato assegnato. Guarda oltre le finestre, ascolta il fischio del vento, respira quest’aria gelida. Non posso farcela da solo – aggiunse. - Da quando Dunamis di Astos ha bisogno di aiuto? – sibilò la principessa. - Da quando il Fato mi ha graziato – la interessò sempre di più. Lo vide avvicinarsi e appoggiare le mani sul letto. - Riporterò Aimatos tra le tue braccia e gli riserverò il saluto del suo rango, questo ti prometto – le disse cavernoso, in contrapposizione con se stesso. - E Zaira? – chiese Fos a bruciapelo. Quel nome lo fece ritrarre come un pipistrello alla luce accecante del sole e non ricevette risposta. Lo osservò mentre, leggermente barcollante, ma in veloce ripresa, usciva dalla stanza. Poi il sovrano si fermò sulla porta. - Sarà lei a farmi pagare il prezzo più alto – rispose memore del giuramento fatto ad un dio. La lasciò sola. Qualcosa stava cambiando. La rinascita di Dunamis stava facendo mutare gli eventi. - Ero certo che alla fine Flogos di Cittera sarebbe stato accanto a me nel momento più difficile e che tu eri il più fedele dei miei comandanti. Non mi sono sbagliato, come sempre – disse Dunamis, appoggiato all’angolo del corridoio. Flogos, seduto in terra davanti alla porta di pietra, lo guardò senza espressione. Non rispose. Vederlo in piedi non fu neppure per lui una sorpresa. Non si mosse, quando gli si sedette accanto, gomiti sulle ginocchia. Era messo male. Stava in piedi, era roco, lo scintillio dei suoi occhi era sempre abbagliante, ma era messo proprio male e aveva bisogno di cure. Lo pensò, mentre continuava a guardarlo meravigliato dal comportamento quasi amichevole di un uomo che di amici non ne aveva mai voluti. - E sono certo che la fedeltà viene sempre premiata – aggiunse il figlio del lupo e percorse con lo sguardo il contorno della porta ancora macchiata del suo sangue. - Stai aspettando Schià - cambiò discorso, era un po’ sconnesso nel parlare. Flogos lo riteneva responsabile della situazione in cui si trovava, ma ora sentiva di poterlo aiutare e forse in cambio avrebbe riavuto Schià.


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- Schià tornerà, non merita la morte come non la merita neppure Aimatos, un pazzo pronto a difendere i deboli, mentre è sempre lui ad avere la schiena spezzata – ringhiò, l’altro lo cercò con gli occhi torvi. Il re non si negò e lo fissò duramente. - Stai ancora male, Dunamis. Non ragioni bene – concluse sorridendo. - Hai capito bene, sto parlando di Zaira – lo fece trasalire. - Ecco, non stai bene – lo schernì senza sapere dove trovava la voglia di scherzare e di farlo con lui che non aveva spirito. - Mai stato meglio. Sono pronto a rimettere a posto le cose per coloro che hanno dimostrato di stare dalla mia parte – appoggiò la testa contro il muro, fissando il soffitto. - Abbiamo tentato di strapparla alla tua condanna, lo dimentichi? – azzardò il soldato, giusto per mettere le cose in chiaro. Dunamis sorrise divertito. - Animi nobili i vostri, nobili e coraggiosi contro il mio che è basso e crudele! Era previsto, sapevo che lo avreste fatto – Flogos riflettè. Poi ebbe un lampo di luce nella mente. Cosa? Cioè… dunque. - Contavi su di noi per non ucciderla – disse sospettoso. Il re non reagì. - E’ un’eletta del Fato ed io sono un mortale – Il soldato annuì. Certo, erano tutti mortali e le cose erano precipitate con un dio giunto tra loro. Osservò il profilo del sovrano, ascoltò il respiro affannato e si soffermò sulla barba incolta e gli zigomi più pronunciati per la magrezza che in pochi giorni lo aveva assottigliato. - Ho perduto, ne sono consapevole. Voi non meritate la mia stessa sconfitta – sospirò stancamente. Flogos non credette alle proprie orecchie. Dunamis conosceva le reazioni che sapeva infondere negli altri e ebbe un moto di soddisfazione. - Ho addosso l’odore del mio sangue rappreso e le pietre davanti al mio trono sono ancora macchiate, ma mi avete salvato la vita, avete avuto pietà per chi di pietà non ne concede mai. Non vi offrirò la mia dimora, non vi chiederò di restare perchè, quando tutto sarà finito, non avrò bisogno di voi. Dunamis di Astos è solito pagare i propri debiti, voi riavrete le vostre vite, sarete liberi per sempre – sproloquiò con un tremore nella voce a svelare un sasso in gola. Non vi era in lui la volontà di muoversi per se stesso, come se per se stesso non ci fosse più nulla e lo stava accettando con inconsueta generosità. - Qualcuno è solito dire che non è mai finita – sussurrò il soldato, ricordando la sua sposa. - Rivoglio il mio regno, i miei giorni, la mia solitudine e se per ottenere tutto questo devo chiedere il vostro aiuto, lo faccio ora – sbottò malinconico il re.


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Il comandante, preso da uno slancio di compassione, gli appoggiò la mano sul braccio e incontrò i suoi occhi arrossati. - Saprà perdonarti - sussurrò tenero nonostante la stazza. - Non voglio il suo perdono, perché io non la so perdonare – lo smorzò. - Stai ingannando te stesso, ma lo capirai e sarai in tempo – fu caparbio, copia distorta di Schià e delle sue convinzioni infantili. Dunamis non riuscì ad alzarsi e ebbe un ringhio. Flogos ignorò quella sua difficoltà. - Io ci sarò al tuo fianco, qualsiasi cosa tu abbia intenzione di fare – lo rassicurò. - La tua fedeltà sarà ricompensata – promise. Si mise in piedi con uno scatto faticoso che lo fece barcollare. Conoscendolo non lo aiutò e lo osservò mentre, appoggiandosi con la mano alla parete, se ne andava in direzione della stanza delle abluzioni. Lo sperò, perché aveva un puzzo insopportabile. Dopo un bagno ristoratore, il re indossò abiti neri rifiniti di rosso, gli stessi della sera in cui aveva conosciuto Zaira. Aveva il capo e il collo fasciati con i medicamenti di Fos. Una giovane ancella lentamente iniziò a raderlo con la lama affilatissima di un pugnale. Avrebbe voluto farlo da solo, ma un tremore scuoteva le sue mani. Era la debolezza per il sangue perso. La ragazza era timorosa, esitava nel passare la lama sulla barba lunga, scricchiolante al passaggio del metallo. Lui non si muoveva, consapevole del rischio che una mossa sbagliata poteva comportare. Il supplizio della giovane terminò presto e con gesto la congedò, restando solo nella grande stanza ad ascoltare il leggero scroscio delle fontane che versavano nella vasca. Tornò indietro nel tempo, al giorno in cui aveva spiato Zaira dall’alto. Si rabbuiò, si chiese perché si faceva del male inutile. L’aveva perduta e non aveva intenzione di ritrovarla. L’aveva perduta per un’offesa che non riusciva a dimenticare. L’aveva perduta. “Cura le tue membra, Dunamis di Astos. Accetta l’ultimo aiuto che il Fato ti offre e riprendi in mano la situazione, perché sei in grado di farlo” Le parole di Omero echeggiarono nella testa, i ricordi si accavallavano uno sull’altro in un marasma di emozioni e rimpianti. - Per la mia dea Astos tornerà alla gloria – sussurrò e si sedette su una delle panchine circostanti la vasca. - Non è il tuo regno che devi salvare, Dunamis – lo sorprese la voce dell’aedo. Lo cercò negli angoli più bui. - Null’altro ho da salvare – rispose. Non sentiva dentro il graffio della rabbia, non percepiva in sé lo spirito del guerriero che era, non sentiva lo slancio cui era abituato da quando era nato. Il dovere lo muoveva. La devozione lo faceva agire. Il potere che non voleva perdere lo stava facendo scendere a


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compromessi necessari. Omero, cieco negli occhi ma non nel cuore, lo vide bene. - Devi salvare te stesso, per esistere hai bisogno di lei – affermò il vecchio. - Sbagli, Omero che mi sei caro. Sono esistito senza di lei, posso continuare a farlo – lo contraddisse in piedi, ma dovette risedersi con il mondo a volteggiare improvviso. - Te lo ripeto, Dunamis di Astos e ti prego di ascoltare le parole di un vecchio che ha votato la propria vita agli immortali. Non lasciare che l’inganno di un dio abbatta le tue conquiste, accetta l’aiuto che il Fato ti sta offrendo e spezza la pietra che ti separa dall’unica cosa che conta per te. Non commettere l’errore di credere il tuo regno cosa fondamentale per il tuo respiro, rischi solo di ritrovarti entro queste gloriose mura ad attendere semplicemente il ritorno di Thanatos con i poteri che ora non possiede, con la capacità di tagliare la ciocca sacra che ti concede di vivere – lo avvisò. Il re sbuffò. La nostalgia per la figlia del futuro si fece nitida e per un attimo si lasciò ferire dal dolore di un ricordo. Ricacciò tutto dentro, riuscì ad alzarsi per abbandonare la sala e non ascoltare più il saggio Omero. Nel corridoio, deciso nella camminata, anche se prudente, incontrò dopo tanto tempo la bambina di cui si era dimenticato. Se la trovò davanti, i grandi occhi blu sparuti a fissarlo. Rivide in lei l’ex schiavo, la certezza che si trattasse di sua figlia fu assoluta. Non le disse nulla. - Padre - disse tenera, la paura di poterlo perdere era stata forte per lei. Dunamis non ribattè, provò pietà per l’affetto che gli stava riservando. - Sei sopravissuto, come un eroe – sorrise e lo abbracciò riuscendo a cingergli la vita. In lui non percepiva il pericolo, cercava un amore che non poteva darle. - Il dolore ti sta facendo male dentro, padre, ed io non voglio saperti affranto – Quell’affermazione lo turbò e si accovacciò. Lo sforzo gli causò una fitta al capo. Le strinse le braccia scoperte nonostante la temperatura rigida e la mano destra sfiorò la fascetta del braccio sinistro. In cerca di una conferma, scansò la stoffa che svelò un tatuaggio sulla pelle chiara. Conosceva il linguaggio delle Amazzoni. Una catena e una spada marchiavano Ormè. Rimase impassibile, con il cuore a gonfiarsi di una commozione senza senso: una catena ed una spada, il segno dello schiavo, ma anche del guerriero, il segno che Tolma aveva assegnato alla figlia di Aimatos, uno schiavo ribelle, colui che aveva osato sfidare il figlio del lupo e degno dell’epiteto di eroe. Ormè lo interrogò. - Vorrei che tu potessi essere davvero mia figlia, ma il Fato non ha in serbo per te la stirpe di Astos – sussurrò. La piccola sobbalzò delusa dal suo rifiu-


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to, anche se proprio rifiuto non era. Le accarezzò la guancia con la mano tremante, lei gli afferrò il polso e ascoltò lo scorrere del suo sangue. - Tu sei un re – gli ricordò. - Non sono il solo ad essere un re – fu oscuro. - Tu sei il re più glorioso dell’intera Ellade – insistette. - Il mio braccio è infallibile, la mia forza è incontrastabile, il mio regno è caro ad una dea e il mio trono è aureo, ma questo non fa di me tuo padre, anche se… - chiuse gli occhi con un altro leggero giramento di testa che gli mozzò il respiro. Tossì. - … anche se ti prometto che, se un giorno sarò certo della morte di tuo padre, tu diverrai la figlia che non ho mai avuto. Questo posso prometterti se di questo puoi accontentarti – si lasciò andare alla benevolenza. Sorrise rincuorata, ingenua nel sottovalutare l’esistenza di un padre vero, abbagliata dalla grandezza dell’uomo che aveva davanti. Si guardò intorno, come se temesse che qualcuno potesse udirla. Si apprestò all’orecchio di Dunamis che accettò di ascoltarla. - Lascia che io chiami Thanatos e tutto il tuo dolore avrà fine – disse. Lui sobbalzò. Thanatos, colui che aveva scatenato il putiferio in atto, colui che aveva portato via Zaira. Scosse il capo in segno di diniego, ma lei insistette serrandogli gli avambracci. - Davvero – non mollò la presa. - Thanatos è l’ultimo degli dei disposto a porre fine a tutto questo – la dissuase, ma non la convinse. Si rimise in piedi, barcollò. La bambina cercò di sorreggerlo. Il re si appoggiò al muro e riprese fiato. Seguito, si diresse verso la porta di pietra. Flogos guardò i due amici che lo fissavano e non comprese, considerando l’inimicizia che era sempre corsa tra Alopex e Dicaia. Attese che fossero loro a parlare. Giunse anche Fos, meravigliata da quella riunione rimase in silenzio. Passarono alcuni minuti. - Fatemi capire, cosa ci facciamo tutti riuniti davanti ad un blocco di granito? – chiese per prima la principessa. L’omone non si alzò, abituato ormai alla sola attesa e deciso a non lasciarsi sfuggire nulla di ciò che poteva accadere davanti al blocco di granito. - Crediamo sia giunto il momento di agire – disse Alopex, l’amico non gli diede alcun credito, posando la testa sulle ginocchia flesse. - Forse abbiamo la chiave per aprire la porta – aggiunse Dicaia. Fos si mise quasi sull’attenti, la sua mente corse ad Aimatos e al suo grande cuore. Flogos questa volta balzò in piedi.


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- Chiave? Per quale serratura? – e indicò la porta. Di quell’accidente lui conosceva ogni centimetro, aveva speso giorni interi a percorrerla con lo sguardo e di notte vi aveva sempre posto una torcia davanti per continuare a farlo. Si era addormentato seguendo le venature della pietra. Di serrature non ce n’erano in quella porta maledetta! - Agire? – sottolineò invece Fos che avanzò verso di loro. - Schià, Aimatos e Zaira sono prigionieri di un dio, un dio che non può agire e, una volta penetrati nel suo campo d’azione, potremo salvarli – spiegò Alopex. Aveva steso un piano con Dicaia, l’unica cosa che doveva essere verificata era se davvero il sangue di un mortale graziato poteva infrangere il sortilegio di un immortale. Ne avevano talmente parlato che alla fine quel particolare se l’erano dimenticato. Il timore di essersi illuso lo prese. Non lo diede a vedere, convinto che la forza della convinzione avrebbe fatto un miracolo. - Thanatos non può uccidere, ma questo non significa che sia meno potente, potrebbe impedirci di entrare nel suo regno, potrebbe farci del male - si affrettò a rammentare la principessa. - Potrebbe, ma è un rischio che vale la pena correre per salvare chi ci è caro – la interruppe Dicaia, quando dietro di lei ed Alopex comparve Dunamis. L’espressione di Flogos li mise all’erta, si voltarono incontrandone gli occhi fermi e notando Ormè. - Quella porta - disse il re meno oscillante e con un aspetto decente, liberato dall’odore dei giorni della sofferenza. Era ancora un uomo forte, altero; era ancora il sovrano che tutti loro avevano pensato di avere perduto e la sua superiorità sia fisica che psicologica diede ad ognuno uno slancio interiore capace di alimentare la speranza. Se un uomo, un mortale, si era salvato da morte certa, tutto poteva accadere, tutto poteva essere realizzato. Flogos e Alopex si misero dritti, decisi a difendere un regno che era stato loro assegnato e Dicaia, a sorpresa, fece la stessa cosa. Fu convincente con la divisa rubata che indossava. Fos non si mosse, i suoi occhi privi di tremori diedero a Dunamis la certezza che aveva accettato di aiutarlo, qualora fosse stato necessario un suo intervento. Ormè accanto a lui sembrò sostenerlo con determinazione. Dunamis si parò davanti al blocco di granito, lo sfiorò e ascoltò il silenzio. - Questa porta – L’immagine di Zaira trascinata da Thanatos oltre un confine sconosciuto in groppa a un destriero maledetto gli passò davanti. Il volto della straniera compariva nella sua mente in lampi fastidiosi, mentre la ragione prendeva a bastonate il cuore dandogli un senso di vuoto. Chiuse le palpebre per rimettere in ordine i pensieri: il colpo ricevuto lo aveva danneggiato e aveva poco


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tempo per riprendersi. Detestò le sensazioni che aveva addosso, l’incapacità di coordinare azioni, idee, obblighi e intenzioni. Tornò a essere ferino nell’espressione, tanto che Ormè istintivamente trovò riparo dietro a Fos. - Forse abbiamo la chiave che potrebbe aprirla – corse in suo aiuto Dicaia. Alopex annuì. Il re alzò un sopraciglio poco convinto, mentre dentro la speranza dilagò con la freschezza e il benessere che solo la speranza sapeva dare. Immaginò in un attimo un futuro diverso dal presente, delineò in pochi secondi il proprio regno baciato dal sole e dalla benevolenza degli dei, il proprio potere rinsaldato, la propria solitudine rassicurante, accarezzata dall’autorità che nulla avrebbe più scalfito e si vide libero. Alla gioia di una simile visione si accavallò un dolore che screziò la piega della bocca. Alopex estrasse il pugnale macchiato di sangue e glielo mostrò. Il sovrano non capì. Fos strinse lo sguardo e concluse che quell’arma non aveva ucciso, bensì salvato. Forse questo poteva avere un senso. - Disgustoso – fu il commento di Dunamis. - Decisamente – gli diede ragione Alopex, mentre Flogos si avvicinò incuriosito. - Questa lama ha salvato un uomo destinato alla morte – intervenne Dicaia. - Ha graziato un mortale ed il sangue è quello che stava per soffocare la sua vita – aggiunse, scandendo le parole. Il figlio del lupo non replicò. - Ha salvato Dunamis di Astos – affermò Fos e lui la guardò. Ebbe un lampo mentale, vide ciò che la principessa gli aveva fatto per impedire che la sofferenza lo spezzasse in attesa di Thanatos. Non battè ciglio, fissò l’oggetto, poi la porta, infine Alopex, Dicaia, Flogos e Fos. Accanto alla vasca dorata Zaira osservava il tremolio dell’acqua, sfiorandola lieve. Scorse il proprio riflesso e si vide bellissima, come non era mai stata. Era vestita con abiti preziosi, truccata e pettinata per un prodigio del dio che attendeva come se davvero lui potesse darle la serenità che Dunamis le aveva strappato insieme alla collana di zaffiri. Si accorse di pensare al re, sia pure negativamente, ma pensava a lui, ricordava di lui gli ultimi gesti che si accavallavano ai momenti più belli. Le aveva dato una felicità profonda, sicura e rassicurante, una felicità che invece Thanatos non riusciva a darle. Chiuse gli occhi e vide il volto dell’uomo del quale si era fidava a tal punto da lasciare i propri lidi. Sentì in bocca il sapore della nostalgia, trovò nel cuore il desiderio di sentire ancora ciò che non sentiva più, di poter contare sulla sua forza, sulla sua protezione e poi sul suo amore che era sempre stato grande. Era finito. Tutto era finito e ora era sola in balia di eventi strani. Un rumore la distrasse, sperò di rivedere il dio della morte. Ebbe un sobbalzo nel constatare che stava entrando Schià, affannata, attenta e armata. Le


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due amiche si guardarono, la ragazzina si avvicinò, riponendo la spada. Erano ammutolite da una situazione sempre più assurda. Zaira distolse lo sguardo e sospirò sconsolata. L’ultima cosa che voleva era metterla in pericolo. - Vieni con me – ruppe il silenzio Schià strappandole un sorriso disilluso. Non si voltò. - Dove? – un nodo in gola a strozzarle la voce. - Alla porta di pietra, Aimatos la aprirà e saremo salvi – disse in un fiato, dando un’occhiata fuggevole a tutto ciò che le circondava in uno scintillio abbagliante. - Salvi da cosa? – sussurrò, gli occhi chiusi sul punto di piangere. - Da Thanatos che ha oscure mire su di te – si affrettò a risponderle. Zaira questa volta rise di gusto, poi tornò penosamente seria. - Oscure mire? Mi ha salvato la vita e dovrei averne paura? – le recriminò. Schià rimase basita davanti a tanta convinzione. La raggiunse, le prese le mani e s’inginocchiò davanti a lei. - Il figlio di Nyx non può salvare la vita. Lui è preposto a privarci del respiro - spiegò calma per non irritarla. Gli occhi grigi della straniera tremarono, una nostalgia infinita li screziavano, un malessere dilaniante le faceva male e la rendeva imprudente. - Non è stato così per me – fu ottusa. - Stai riponendo la tua fiducia nella persona sbagliata – sbottò la ragazzina, ma sentiva di non avere speranze con lei. “Bada a non riporre la tua pietà sulla persona sbagliata ed io non ne merito alcuna” aveva detto Thanatos la sera in cui lo aveva conosciuto, ma allora aveva parlato di pietà, non di fiducia, questo le bastò per cancellare quell’eco distante e restare ancorata alle proprie convinzioni. - L’uomo che credevo amarmi ha tentato di uccidermi ed io non tornerò da lui, non calpesterò il suo regno, non attraverserò la sua terra – - E’ stato un enorme inganno. Conosco il re e non credo che lui abbia veramente pensato di poterti uccidere! Ti avrebbe strappata alla neve che ti cadeva addosso e se così non fosse stato, un sortilegio di Thanatos muoveva le sue azioni, non era lui, non Dunamis di Astos, colui che è caduto nel fango per te! – esclamò estrema come sempre nella difesa dei sentimenti. Zaira la fissò, per qualche fugace istante le credette. Ma la paura e la delusione provate ancora la scuotevano facendole escludere un atto di comprensione nei confronti del figlio del lupo. Era doloroso rifiutare di giustificarlo come lo era stato leggere nei suoi occhi l’odio profondo, quello che ne aveva fatto una leggenda. - Vattene, Schià, finchè sei in tempo, salvati e torna alla tua vita come è giusto che sia, se davvero credi che Aimatos riuscirà ad aprire quella porta. Ma


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fuggi da Dunamis appena ti sarà possibile, non ascoltare le sue menzogne, non farti abbindolare dai suoi modi a tratti graffianti eppure gentili, non far si che le sue concessioni ti accechino. Fuggi distante, dimentica Astos, dimentica me, dimentica tutto ciò che hai amato. Il figlio del lupo sa distruggere tutto in un attimo, con un gesto della mano o con una sola parola - si fece apprensiva. L’amica le sferrò uno schiaffo. - Fidati della morte, allora! Fidati di un dio senza poteri che non può scalfire alcun mortale e che per questo è giunto ad Astos! Fidati di Thanatos cuore di ferro, confida nella sua pietà, ignora pure che di pietà non può provarne! Concedigli ciò che ti chiederà, perché sarà ciò di cui ha bisogno, poi sarai niente, come niente è l’intera umanità per lui! Illuditi che possa darti una via da percorrere diversa da quella che conosci, fatti abbindolare, fatti male e forse allora, solo allora, comprenderai che Dunamis è l’unico che può salvarti! Ma augurati che non sia troppo tardi, perché il re di Astos non è un dio, è solo un uomo! Ma forse ora, nello sfarzo degli immortali a farti sentire importante, un uomo è poco per te? – l’accusò e si diresse verso l’uscita della grotta, decisa a non salvare più il mondo, quello degli altri. L’amica era ipnotizzata da Thanatos, lei non aveva nessuna capacità superiore per annullare quella specie di magia. - Non ho scelta, Schià! – si difese a distanza la figlia del futuro, l’altra la fissò con disprezzo. - C’è sempre una scelta – sbottò furiosa. - No, non quando la paura toglie il respiro – si lamentò. - Affoga negli occhi scarlatti di Thanatos e potrai dire di conoscere la paura – concluse. Solo in quel momento Zaira si alzò e la raggiunse all’esterno dell’antro, in cerca della sua amicizia. Schià questa volta non sembrava disposta a fare appello alla parte migliore di sé. - Sia! Fai come vuoi. Ma ero certa di convincerti, di tornare ad Astos con te, ho abbandonato Aimatos in questa landa immensa per te, per noi, per il gruppo vincente che siamo sempre stati e del quale fa parte anche Dunamis. Non importa, resteremo il gruppo vincente di tanto tempo fa e tu mancherai all’appello – storse il naso irriconoscibile. - Ho paura – sussurrò. - Allora torna agli agi del dio della morte che sa proteggerti – fu brusca. Marciò via, immergendosi nello splendore di una strada che portava chissà dove e che le avrebbe permesso di raggiungere Aimatos davanti alla porta di pietra. - Non è come dici! – urlò. Schià si fermò, dandole il profilo. - Lo so, è molto peggio – le riservò l’ultimo colpo. La lasciò sola con la sua paura, con la sua scelta obbligata, con la viltà che aveva ritrovato. La lasciò


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sola come un cane, come il cane fedele di un dio nefasto. Pianse, mentre camminava simile ad un soldatino minuto ed inoffensivo. Zaira si guardò intorno, si sentì nuovamente perduta, desiderò la presenza di Thanatos. - Eccolo – disse Alopex e sfiorò il piccolo pertugio che screziava il contorno irregolare della porta di pietra. Fos si avvicinò, vide anche lei ciò che risultava invisibile a un primo esame. Ormè sorrise, poter aprire quella porta era per lei importante perché oltre vi era colui che amava inconsapevole della sua vera natura. Flogos sentì il cuore battere così forte da dargli il fiatone, oltre quel confine c’era Schià e lo avrebbe superato in corsa per trovarla. Dicaia fissò l’attico, incontrandone lo sguardo teso. Era riuscita a risvegliare il guerriero che c’era in lui. Era anche riuscita, senza saperlo, a scuotere il suo animo raffreddato e si era ritrovata travolta da un calore che non comprendeva, ma non era il momento di perdersi in pensieri prettamente femminili. Alopex la incitò con un cenno del capo a estrarre il pugnale macchiato per inserirlo nel pertugio. Non se lo fece ripetere, fu sul punto di provare se i suoi sospetti erano ponderati o solo frutto della speranza. La presenza incombente del re tolse i fiati e fece voltare entrambi. Altero correva con lo sguardo su ognuno di loro. - Non ricordo di avere dato il mio consenso all’apertura di questa porta – disse. Era meno sofferente. Fos se ne accorse. Si stava riprendendo velocemente e l’arma che portava al fianco era la conferma che lui stesso sentiva dentro il ricrescere della forza. Ebbe la certezza che un immortale aveva disposto per una guarigione veloce e provvidenziale, vista l’accelerazione degli eventi nelle ultime ore. Continuò a credere che qualcosa stava cambiando. - Non siamo certi che… - si giustificò Dicaia, mettendosi sull’attenti, l’ansia a farla vacillare. - Funzionerà – la inondò d’orgoglio il re. - Quando lo farà dovremo… - insistette zelante, simile a una bambina colta in fallo piuttosto che ad un guerriero. - Placa i tuoi timori Dicaia della Città Bianca, non mi servi a nulla se scorgo nelle tue membra il tremore della paura – la riprese. - Lascia che io possa ritrovare la mia sposa – s’intromise Flogos deluso da quell’ennesimo rimando. - Lo farai e presto Schià sarà con noi – lo bloccò con un tono che diede all’omone una nuova forza. Poi Dunamis posò lo sguardo ferreo su Fos che attese. Consapevole del desiderio del sovrano di parlare con lei, avanzò di un passo, superando l’impettita Dicaia.


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- Varcherò il confine di un dio, Fos - iniziò. - E manterrò la promessa che ho fatto a colei che mi ha strappato alla morte. Ma non conosco le vie ignote che mi attendono, non so se gli dei mi concederanno il privilegio di tornare o se decideranno per la mia fine - aggiunse funesto, gli occhi dentro quelli della principessa che non battè ciglio, che parve subire quel triste saluto con tutto il peso che stava per riversarle addosso. Ormè aveva gli occhi lucidi. - Astos appartiene ad un immortale ed è mio dovere lasciarlo in mani degne che lo sappiano governare e tu, con il tuo sposo, avete nelle vene il sangue nobile che gli dei esigono – non tardò a procedere in una mesta investitura che Fos avrebbe voluto rifiutare, ma un mortale non poteva tirarsi indietro davanti ai doveri nei confronti degli dei. Sorrise amara, si appoggiò su un ginocchio fissando il pavimento. - Non mancherò alle tue richieste, potente eletto degli dei, obbedirò al volere del Fato che ti ha graziato, adempirò al dovere che m’imponi, Dunamis che mi sei caro, ma so che tornerai ed il tuo trono sarà intatto quando la tua ombra scivolerà nuovamente negli anditi del palazzo che ti appartiene – accettò, sperando di farlo inutilmente. - Astos avrà la miglior regina che potessi riservargli, Fos di Parga – disse roco. Lei alzò il capo, sontuosa nei movimenti. - Sei in errore, Dunamis figlio di un lupo, e chiedo al Fato giusto che apra i tuoi occhi bui e ti faccia comprendere per poter rimediare – lo stilettò. Il sovrano incassò il colpo e comprese molto bene ciò che voleva dire. - Voglio una promessa da te – cambiò discorso. Fos sorrise. - Questa bambina - Ormè non si trattenne e gli piombò addosso, stringendogli le ginocchia. - Prenditi cura di lei, sino all’arrivo di suo padre – Del resto, di lei si era presa cura da quando l’aveva incontrata. L’uomo accarezzò il capo della piccola. Lentamente si privò del ciondolo che sanciva il proprio titolo, mentre la donna si alzava con un nodo in gola. Avrebbe voluto gridare che non era giusto, che non era quello che gli dei volevano, ma tacque e si affidò alla giustizia del destino, non lo fermò quando le mise al collo il simbolo di Astos con il dovere di consegnarlo a tempo debito al nuovo re. Il nuovo re… pensandoci il figlio del lupo sorrise. - Astos avrà un re degno del titolo che il Fato gli ha concesso, un guerriero, un soldato dell’esercito della giustizia – le sussurrò. - Solo un uomo che saprà fare le scelte giuste – gli rispose senza che nessuno potesse udirla. Dunamis approvò frettoloso, infastidito dall’idea che il rivale lo avrebbe sostituito sul trono che aveva sempre difeso con ogni mezzo.


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Uno scalpitio distrasse tutti, lungo il corridoio videro arrivare dei cavalli accompagnati da alcuni servi. Alopex, che intanto aveva preso in consegna il pugnale, attese l’ordine del re. Le bestie, scomodamente posizionate dell’andito, furono messe in fila, lui avanzò verso l’attico, mentre Flogos e Dicaia lo seguivano. Ormè pianse, Fos la trattenne. - Cosa ne sarà di noi? – chiese a sproposito Alopex. - Sarete premiati dagli dei – fu brusco il re. In quella frase secca vi era l’inevitabile condanna che invece sarebbe stata riservata lui. Con un cenno della testa lo incitò a procedere e l’attico obbedì. Il camminare spedito di Schià distrasse Aimatos. Si era smarrito, aveva confuso i cumuli preziosi. Era tornato indietro e aveva vagato senza un riferimento tra argento e oro. Quando vide comparire Schià, le andò incontro fiducioso. Notò subito la sua espressione rabbiosa. - Voglio tornare ad Astos – era adirata, il tentativo di convincere la figlia del futuro era fallito, le lacrime le allagavano la gola. - Lo faremo, ammesso di riuscire a trovare la via per la porta di pietra – le rispose un po’ ironico e un po’ imbarazzato per essersi perduto. - La troveremo – fu decisa. Si guardò intorno, in cerca anche lei di un riferimento che le permettesse di porre fine a quell’avventura. Aveva rischiato la pelle, aveva abbandonato Aimatos, Zaira non l’aveva seguita, capace soltanto di affidarsi a un dio che nessun mortale avrebbe voluto accanto. - Perchè Zaira non è con te? – volle sapere l’ex schiavo. Schià ebbe un gesto di disprezzo. - E’ solo una vigliacca, una piccola donna capace di scegliere ciò che è comodo, non ciò che è giusto – rispose a sorpresa. Aimatos si sedette su un cumulo di zaffiri e attese che continuasse. - Sai cosa ti dico? – iniziò a sfogarsi. Lui cosse il capo quasi divertito, anche se di divertente non c’era proprio niente. - Dunamis aveva ragione, quando l’ha messa al palo! E tu sei stato uno sciocco a volerla salvare, ritrovandoti qui, in una terra preclusa e quindi a rischio di vita! Per che cosa? - lo interrogò. Fece spallucce, contraddirla era pericoloso in quel momento. - Per una vigliacca che ama vestire d’oro e d’argento e sollazzarsi negli agi degli immortali anche a costo di una punizione esemplare. Sia! Che si gongoli con il fascino terribile di un dio letale e che poi subisca l’ira di Ades! Che conosca pure Ades e magari s’innamori anche di lui! Povero Dunamis, il figlio del lupo, il re più temuto di tutta l’Ellade, colui che ci ha nobilitati per lei, tradito e schernito da una donna che non ha un briciolo di cervello neppure per difendere se stessa – sproloquiò. Era addolorata.


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- Dunamis non è mai povero, Schià – la corresse. - Beh! Adesso lo è! E tu faresti meglio e non andare oltre con le tue estreme difese! Non perderci più tempo, non farti paladino di vite che non ti appartengono! – gli urlò in faccia furiosa. Aimatos socchiuse gli occhi davanti al suo impeto. Riflettè su quelle parole, mentre lei, senza un motivo, estrasse la spada e si guardò intorno. - Innamorarsi di Ades? – sottolineò. Schià rise. - Chi ama Thanatos può amare anche l’Agesilao – concluse ovvia. - Ma che diamine dici? - non riusciva mettere insieme i pezzi. - Oh! Lei si fida solo del figlio di Nyx! Lei vuole solo il figlio di Nyx! Lei è disgustosa! E’ solo una… - e stava per dirlo, ma l’uomo glielo impedì con lo sguardo. - Perché mai dovrebbe amare Thanatos? – chiese. - Perché è una pazza – sbottò Schià. Decise di incamminarsi lungo uno dei sentieri. - E perché Thanatos le sta permettendo di calpestare questo suolo? – insistette lui senza muoversi. Lei si bloccò. - Non m’interessa, so che non è cosa giusta, lo sto calpestando anch’io e non voglio rischiare oltre una fulminata in pieno petto – tagliò corto. - No, aspetta. Zaira è in pericolo – si alzò. - La era anche quando il suo cuoricino batteva per il figlio del lupo ed è ancora viva. Che si arrangi – non cedette ai sospetti dell’ex schiavo. - Dunamis non è un dio – fece qualche passo in direzione della grotta. - Non ti azzardare a correre in suo aiuto, Aimatos! Non tentare di salvare il mondo, il tuo compito è finito e dobbiamo salvare le nostre vite! – lo trattenne afferrandogli il braccio, ma lui si divincolò. - Non ce la faremo mai, Schià! Se davvero Zaira si sta innamorando di lui, presto saremo davvero spacciati - pensò velocemente. Tentò di razionalizzare i sospetti, di mettere in fila i dubbi. Poi guardò il verde intenso degli occhi della compagna. - L’amore di Zaira, è questo deve ottenere – ebbe il cosiddetto lampo di genio. Schià aggrottò le sopraciglia. - L’amore dell’eletta del Fato, colui che lo ha condannato, l’amore impossibile che lui ha reso possibile, mettendola in una condizione d’emergenza, infrangendo la fiducia che aveva nel re, riducendola alla solitudine e divenendo per lei l’unico appiglio. Quando Thanatos riavrà i suoi poteri potrà obbedire al volere di Ades e noi siamo dei sacrileghi - spiegò traducendo i pensieri senza una regola.


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- Non penserai di poterla fermare? – lo schernì Schià. Aimatos girò su se stesso, come un animale braccato, come se non avesse scampo, come se potesse giungere un attacco da un momento all’altro. - No, non aspetterò la fine - corse improvviso lungo una delle strade dorate, corse e Schià lo seguì velocissima come sapeva essere. Corsero insieme, a perdifiato, in lotta contro il tempo scandito dal battito impazzito dei cuori agitati, dal sangue accelerato nelle vene infiammate. Dovevano fermare Zaira, dovevano anche tramortirla se fosse stato necessario, ma non potevano permettere che desse a Thanatos ciò di cui aveva bisogno, non finchè loro erano nelle miniere di Ades. Mentre correvano pensavano al dio dell’Oltretomba, alla sua ira e alla totale mancanza di pietà. Pensavano. Correvano. Correvano e pensavano. Mortali fragili in un mondo inviolabile.


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Capitolo XII LE MINIERE DI ADES

La lama penetrò la fessura. La pietra divenne morbida, l’intera lunghezza del pugnale entrò. Un tremore scosse l’intero palazzo, mentre il confine divino si dischiuse. I mortali rimasero in piedi. Gli schiavi tentennanti si avvicinarono con i cavalli inquieti. Fu il sovrano a salire in groppa per primo e tirare le redini con decisione, in attesa che anche gli altri facessero lo stesso. Flogos seguì l’esempio del suo signore, poi Dicaia e infine Alopex. Videro lo sfarzo scintillante di un mondo sconosciuto. Dunamis avanzò di qualche metro. Condottiero del piccolo esercito, entrò in quel regno, lasciandosi abbagliare dalla luce iridescente delle pietre, dei metalli, delle strade d’oro e d’argento. Gli occhi gli fecero male, stava recuperando se stesso, ma non era nel pieno delle forze e a tratti delle fitte intense gli trapassavano le membra. Ignorò tutto questo e avanzò. - Le miniere di Ades l’invisibile – annunciò. I suoi uomini, compresa Dicaia, sobbalzarono a quel nome. - Il posto migliore che Thanatos potesse scegliere – scherzò Alopex sotto lo sguardo recriminante di Dicaia. - Non guardarmi così, non ricordo il tuo nome! Stiamo per giocarci la pelle e se permetti voglio morire ridendo – sbottò. Tornò come d’incanto a essere quello di un tempo. - Ridi pure, alto di grado! Magari ti salvi perché sembri sciocco – ribattè la donna ironica come lui. Flogos li osservò torvo. Scoprire che oltre la porta da lui presidiata vi erano le miniere di Ades gli diede un’angoscia terribile, la sua Schià si trovava lì, chissà dove e chissà in quali condizioni. Dubitò di poterla salvare questa volta. Sospirò penosamente. - Sarò io a pagare per tutti, Flogos – lo riprese il re, come se avesse letto i suoi pensieri. - Non sarà così perché non lo permetterò – l’omone non raccolse la sua disperazione. Dunamis sorrise scettico. Diede un’occhiata fuggevole al corridoio che stava per abbandonare e salutò silenziosamente Astos. Certo, aveva fatto un giuramento a Thanatos, ma non erano stati stesi i dettagli dello stesso. Doveva salvare Zaira, ma in cambio di cosa? Il loro legame non poteva essere spezzato da un dio. Il loro legame non poteva essere spezzato da un uomo. Poteva essere spezzato da loro: da lui, che non era disposto a perdo-


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narla per l’affronto subito, o da lei, che non lo avrebbe giustificato per avere tentato di ucciderla. Era finita, ne era consapevole, ciò che stava facendo era aiutare un’immortale, il rispetto del Fato gli interessava sino ad un certo punto. Voleva salvare coloro che non lo avevano tradito e il regno caro ad Artemide divina. Il resto, anche se stesso, era relativo. Alopex lo distrasse da quelle riflessioni. Trovò in lui una distante tristezza che stonò in un uomo che aveva sempre manifestato rabbia e livore, che aveva affrontato battaglie e scontri con il fuoco dentro a divampare nel buio degli occhi. Il comandante inclinò il capo in cerca di una spiegazione che non giunse. - Da dove cominciamo? – chiese allora distratto, fatalista, sorridente a dispetto della situazione rischiosa. - Dalle tracce – intervenne Flogos che per primo si accorse delle orme lasciate dai compagni nel momento in cui erano stati risucchiati all’interno della stanza. Notarono le impronte confuse, individuando quelle di sole due persone: Aimatos, dal piede più grande, e Schià, dal piede piccolissimo. Mancavano quelle di Zaira, dentro il figlio del lupo ebbe una vampata. Non doveva importargliene più di tanto della sorte della figlia del futuro, era evidente che il dio l’aveva trascinata con sé, dividendola dagli amici. Serrò le mascelle e iniziò quasi rassegnato a percorrere quelle strade eccezionali. Non aveva paura, sentiva nell’animo la disfatta, non aveva nulla da perdere e la stessa vita che ancora gli scorreva nelle vene era una concessione insperata. L’incanto del posto abbagliò i compagni che, seguendolo, contemplavano estasiati ciò che iniziò ad avvolgerli totalmente: luce, scintillio, bellezza allo stato puro. Quelle erano le miniere di Ades, lì c’era tutta la ricchezza della terra e ciò che gli uomini riuscivano a ottenere era solo una piccolissima parte di quello che la terra stessa poteva offrire. Compresero perché uno degli epiteti di Ades era il ricco. Era davvero ricco. Erano fortunati a poter ammirare quella landa che sapevano grande quanto le terre conosciute. Rasentarono colline d’argento e auree alture, ammirarono mucchi di zaffiri, diamanti, smeraldi e altre pietre che rilucevano. Dunamis non sembrava sensibile a tanto sfarzo, distratto da pensieri fissi e incessanti. Giunsero nei pressi di una struttura che era un tempietto aureo. Rimasero immobili sui cavalli e attesero che fosse il re a decidere il da farsi. Con un gesto della mano ordinò loro di non scendere, mentre lui entrò nella piccola struttura. Vide il giaciglio con la paglia argentea sulla quale era evidente che qualcuno aveva riposato. Scorse, accanto allo stesso, gli abiti che erano stati di Zaira, si chinò per raccoglierli. Era stata lì, ne percepì il profumo, l’aroma, poi anche il dolore. Immaginò i suoi occhi, la sua ira, la sua delusione che era nulla rispetto a quella che lei aveva dato a lui con poche parole.


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“Quindi tacete e consumatevi pure della vostra squallida devozione, capace di rendervi piccolo, di fare di un re un inetto” lasciò ricadere l’abito al suolo. Uscì all’aperto. Le orme erano poco comprensibili. I voli di Thanatos e Zaira erano stati frequenti. Aimatos e Schià non avevano lasciato che tutto accadesse senza fare nulla. Avrebbe seguito il loro percorso. Dentro una ferita bruciante continuava ad aprirsi: le immagini della figlia del futuro tra le braccia del dio della morte erano… insopportabili? Le avrebbe sopportate perché nulla sarebbe cambiato. I compagni lo interrogarono taciti e rimontò in sella. Indicò la direzione e, attenti a non perdere la pista, avanzarono. Percepiva lo loro fiducia. Si sentì fiero e anche triste, presto tutto questo lo avrebbe perduto. - Voi qui - sospirò Zaira al ritorno di Thanatos che trovò bellissimo con le grandi ali a incorniciarlo. Lui non si mosse, volse lo sguardo in un punto distante. I mortali avevano varcato il suo confine. Guardò la figlia del futuro, un cucciolo sciocco in completa balia del suo volere, soggiogata senza esserle entrato dentro, senza avere mai abbattuto il muro che la divideva dagli immortali e dal loro potere. Sorrise e si fece affascinante ai suoi occhi trepidanti. Lasciò che si avvicinasse e se la trovò a pochi centimetri con il battito del suo cuore a infastidirlo. - Dove siete stato? – chiese. Alzò un sopracciglio irritato. - Un dio deve rendere conto ad un mortale, Zaira d’Enotria? – Quell’epiteto la scosse perché era stato Dunamis ad assegnarglielo la sera in cui… Thanatos colse in lei la nostalgia. Non doveva cedere ai ricordi. Celere le prese le mani con la dolcezza che sapeva simulare, capace di annullare la freddezza delle membra. Quel tocco la distrasse. - Eppure ti avevo avvertito, dicendoti di non riporre la tua pietà su di me che di pietà non ne merito – sussurrò suadente, infondendole la compassione. Ardita gli accarezzò la guancia ispida. - Nessuna pietà per voi, Thanatos. Nessuna pietà per colui che mi sta accanto ora che sono sola. Nessuna pietà – disse ben lungi dall’amazzone che gli avevano detto fosse. Colse l’attimo, sapeva di avere il tempo contato, percepiva l’incedere del re e dei suoi soldati, sentiva nitidamente il correre impetuoso dell’ex schiavo e della sua amica. La fissò con insistenza, le entrò dentro in una farsa di Dunamis che gli riuscì bene, lei fremette e strinse i pugni avvolti dalle sue mani. - Non lasciatemi più sola, non fatemi più conoscere la paura - lo implorò. L’emozione di essere a un passo dalla fine lo scosse. Riprese il controllo di sé, anche se il languore degli occhi di Zaira non lo lasciarono indifferente.


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Non avrebbe commesso lo stesso errore che lo aveva portato a elemosinare l’aiuto degli uomini. - Non accadrà più, Zaira. Sono qui, adesso, per te e per rendere il tuo cuore felice con qualsiasi tua richiesta – giocò la carta del genio del bene. Zaira ebbe un moto di infinita tristezza. Non c’era nulla che volesse, non aveva più desideri. La consapevolezza di non avere richieste la distrasse nuovamente e Thanatos cercò un espediente per riportarla a sé. Si scostò, Zaira gli afferrò i polsi. Nel contraccolpo voluto si ritrovò addosso al dio, stampata come una foglia battuta dal vento contro una parete e la freddezza che la pervase le diede un assurdo compiacimento che sconvolse lei e sferzò lui. Adagio appoggiò il capo sul suo torace e ascoltò il silenzio che dilagava nel suo essere. - Portatemi via, con voi, ovunque – chiese, forse neppure in sé, completamente annientata dal timore, convinta che potesse essere cancellato da chi la paura la creava e di paura si nutriva. Commovente, umanamente commovente. - Dimentichi facilmente chi sono - le fece notare. Stillò avido la sua fiducia ormai assoluta. La stava piegando. - Non lo dimentico affatto – gli occhi lucidi di un’ebbrezza ridicola. Thanatos le sollevò il mento. - Ho solo voi, non abbandonatemi – - La disperazione ti rende cieca, Zaira - prese un tempo inutile, il trionfo era imminente. Sorrise sconfitta e lasciò che una lacrima sfuggisse in un’emozione incontrollabile. - Questa disperazione mi ha aperto gli occhi, nobile figlio di Nyx – ribattè. Il suo calore lo penetrò a fondo, percorse gli anditi desolati del suo corpo e cozzò contro il gelo del cuore fermo che aveva in petto. - Presto mi odierai - l’avvertì. - Odiarvi? – sogghignò folle. Non esitò più, gli cinse il collo in un tenero abbraccio che lo fece vibrare. - Cosa ne sarà di me? – le lacrime caddero sulla stoffa viola dell’abito del dio sino a bagnare la pelle e scottarlo ancora. Si ritrasse, ma si bloccò, quando lei lo guardò dritto negli occhi scarlatti. Thanatos ebbe un attimo di smarrimento, poi rammentò il Fato, la condanna, la propria condizione di reietto tra gli immortali. No, nessuna pietà. Mosse il volto, il resto fu lei a farlo, in un attimo le loro labbra si unirono in un bacio rallentato, irreale e ardente con una profondità inaspettata. Il figlio di Nyx conobbe l’amore, lo vide, lo toccò, lo assaporò, lo gustò come un cibo prelibato. Thanatos cuore di ferro conobbe il calore vero e irrefrenabile dell’amore, la sua onda travolgente, l’illogicità eppure la bellezza. Il fratello maledetto del Fato conobbe l’affetto


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di una donna e comprese gli uomini, la loro vita, il loro timore di perderla. Il dio della morte conobbe l’amore. L’eletta unica del Fato, colei che aveva scavalcato i confini del tempo, era tra le sue braccia e ne ascoltò il cuore impazzito. Prolungò il contatto incuriosito da quel boato, ascoltò quella strana musica, si lasciò trascinare in una danza interiore che mai più, lo sapeva, avrebbe potuto rivivere. Lo stava amando sinceramente e piacevolmente, godette di quella conquista che, oltre a restituirgli i poteri perduti, lo colmò di un appagamento che nessuna morte gli aveva dato. Al distacco delle loro labbra tutto sarebbe finito e ebbe un tremito di malinconia. Non l’avrebbe dimenticata, avrebbe atteso il giorno in cui sarebbe tornato per reciderle il respiro e poterla guardare ancora una volta negli occhi. Thanatos cuore di ferro riuscì a farsi amare, gli piacque crederlo, anche se… fu lui ad amare. Pensò al figlio del lupo, alla fortuna che il Fato gli aveva concesso, alla grandezza della donna che gli era stata assegnata. L’incanto, come ogni incanto, si spezzò. La magia si sciolse, anche se la figlia del futuro lo guardò avvinta e compiaciuta, le lacrime asciutte sulla pelle sbiancata e poi arrossata dall’imbarazzo. Il sentimento che aveva travolto l’immortale si dissolse, le sopraciglia della ragazza ebbero un’inclinazione confusa. Nel suo sguardo il fremito di pochi istanti prima schiantò, trasformandosi in un’occhiata sospettosa. Il terreno sotto e sopra di loro tremò. Zaira incontrò il lago di sangue che erano gli occhi del dio della morte e notò il loro fremere inquietante. - Cosa ne sarà di me? – chiese ancora, il suo tono fu fermo, quasi ringhiante senza essere brusco. Thanatos non rispose e continuò a fissarla. Il tremore del terreno confuse il rumore di una corsa. Dunamis si fermò, seguito dagli altri, per tentare di capire da dove provenissero quei passi affrettati. C’era un terremoto in atto, il signore della rocca non sembrò esserne impressionato e colse un vocio lontano. Alopex si apprestò a lui che lo ignorò, correndo con lo sguardo attento sulla landa che li circondava. - Sta tremando tutto - gli fece notare allora Dicaia. Il re la guardò indifferente, come se la cosa non lo sfiorasse. Invece era in fermento, il graffiare insistente dei sentimenti gli toglievano il respiro e gli davano la sensazione d’essere perduto. Sentì morire dentro anche l’ultimo brandello di speranza. - Fai appello a tutto il tuo coraggio, Dicaia della Città Bianca - e la ragazza lo scrutò insieme agli altri. - Thanatos ha riacquistato i suoi poteri, la nostra permanenza in terra divina non è più tollerabile per il dio che qui è padrone – fu sincero con i suoi fidati collaboratori che avevano accettato di mettere a repentaglio le proprie esi-


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stenze. Alopex dimostrò scetticismo, mentre Flogos gli credette senza commenti. - Ha ottenuto ciò di cui aveva bisogno, la terra trema per il suo ritorno e coloro che stanno agonizzando presto troveranno la pace delle membra per conoscere la desolazione della morte – Rabbrividirono tutti, ma si fecero forza e non manifestarono i propri timori. Soddisfatto dal loro silenzio, il re avanzò con il cavallo e si diresse con passo più sostenuto verso il punto dal quale aveva sentito provenire i passi in corsa. Accelerò. Spronò l’animale. Sentiva un calore salirgli in gola e arrossargli gli occhi fissi. I compagni lo seguirono, consapevoli di non avere tempo. “Nascondetevi pure dietro la vostra stupida autorità, fatelo bene e fatelo sempre, anche quando le vostre lacrime allagheranno l’abisso del niente che sono i vostri occhi! Ma sarà tardi!” e Dunamis tirò le redini. Zingaro frenò nella polvere aurea che si alzò. Aimatos si fermò nella corsa sfrenata che gli aveva tagliato il fiato e lo vide. Anche Schià si fermò, appoggiò le mani sulle ginocchia in cerca di un po’ di sollievo. Flogos balzò dalla groppa, mentre il sovrano e l’ex schiavo si fissavano taciti. Il soldato non attese le loro parole, i loro alterchi, le loro perdite di tempo; non volle ascoltare le loro parole grosse, le condanne e le minacce, non gli interessava di assistere ad un loro ennesimo confronto. Se ne infischiò del terremoto, della tensione. Aveva superato la porta divina di Thanatos per Schià e la raggiunse a una velocità inaspettata. La ragazzina non aveva avuto il tempo e la lucidità di realizzare chi era giunto, nel momento in cui si rese conto di avere accanto il proprio sposo, ritrovò le forze per sorridere, rimettersi dritta e lasciarsi acchiappare da un abbraccio che la fece barcollare per la stretta ferrea che Flogos le riservò, dimentico d’essere enorme, fortissimo, quasi letale per lei che era una piuma. Persino Dunamis e Aimatos vennero distratti dal loro incontro, dalla loro gioia muta e luminosa, capace di annullare lo scintillio che li avvolgeva accecante. L’omone pianse, lo fece continuando a stringerla in una morsa che niente, lo giurò, avrebbe più spezzato, che neppure un dio, il più nefasto, avrebbe sciolto per i suoi giochi insensati e dei quali non gliene importava nulla! Schià, ancora adirata con Zaira e irritata da Aimatos, non si tirò indietro e dimenticò tutto. Flogos la baciò in faccia, tutta quanta, lei gli avvolse le spalle con lo slancio della donna che era, con il trasporto della moglie che sapeva essere, con la dolcezza che possedeva, con l’ingenuità che non avrebbe mai smarrito e con la tenacia che le regalava catene di seta impossibili da rompere. Dunamis più degli altri rimase attonito davanti a quello scontro frontale fatto d’amore, un amore che anche lui un tempo aveva conosciuto. Rammentò ogni attimo


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passato accanto a Zaira. Le lacrime che ancora riusciva a nascondere lo solleticavano in gola e lo fecero tossire senza destare sospetti. Poi Flogos si voltò verso di lui e, continuando ad abbracciare la sua sposa, si apprestò accanto a Zingaro scalpitante. Il re ebbe un’espressione soddisfatta e annuì. - Hai mantenuto la tua promessa – disse il soldato con il tono inconfondibile della gratitudine. - Mantengo sempre le mie promesse – ribattè rigido, abile nel mascherare la commozione. - Anch’io – s’impettì. Schià lo scrutò di sottecchi senza comprendere sino in fondo. - Ne sono certo e sei un comandante di Astos - lo incuriosì. - Come lo siete voi tutti – aggiunse correndo con lo sguardo sui presenti. Dicaia fece per contraddirlo, lei non era un comandante di Astos. - Anche tu che fai parte dell’esercito ora mio alleato – la fulminò, non sopportando l’idea di un diverbio. Lei non insistette. - E tu – guardò Aimatos che ancora, irriducibile, anche se privo di smalto, manteneva la sua aria sfidante. - Sino al giorno in cui io stesso non vi priverò del titolo che vi ho dato sarete tali e come tali… - fece una pausa, i pensieri si accavallavano ai doveri, i ricordi schiacciavano il presente. Faticava, era palese e l’ex schiavo, che più di tutti lo conosceva, se ne accorse. - … come tali dovete obbedire ai miei ordini – riuscì a dire. Guardò un punto indefinito, mentre il terreno non cessava di tremare. - Ma davvero? E quali sarebbero i tuoi ordini? – lo schernì Aimatos come se farlo avesse potuto ridare al rivale la determinazione di una volta. - Il vostro posto è ad Astos, il vostro dovere è difendere il regno caro ad Artemide ed il tuo obbligo primario, Aimatos d’Epiro, è stare accanto a Fos che ti sta attendendo – fu secco. Si creò un cupo silenzio per l’insolito comportamento del re. Fu Schià a fare un passo verso di lui. Dunamis tremò, era sempre stata capace di leggerlo dentro con fastidiosa facilità. - Non vi permetterò di andare da lei – sentenziò. Non comprendere era una delle cose che più lo irritavano. Alopex sobbalzò sulla sella e Dicaia strinse lo sguardo. Flogos le rimase accanto ed Aimatos sospirò esasperato. Il silenzio di Thanatos mise Zaira in ansia e l’atmosfera si fece pesante, la luce stessa di quel luogo calò. Il dio la guardò per qualche istante, mentre il calore del bacio appena carpito scemava sulle labbra di ghiaccio. - Vi ho offeso –disse la figlia del futuro, provando vergogna e imbarazzo. Eppure, per un attimo aveva sentito un forte sentimento nei confronti


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dell’immortale, aveva percepito una fiamma che le aveva rammentato il fuoco travolgente del sovrano. Si maledì per quel confronto, ogni cosa, parola o gesto erano proiettati nel ricordo del re di Astos. Si maledì da sola perché quell’uomo l’aveva delusa, l’aveva quasi uccisa! Ma gli occhi del re erano sempre paragonati a qualsiasi altro sguardo, le parole che udiva erano sempre commisurate a quelle che lui le aveva saputo dire, i movimenti stessi di chiunque erano sempre confrontati con quelli del figlio del lupo e ogni contrapposizione lo vedeva vincitore. Avrebbe tanto voluto che non fosse così, che il sentore provato nei confronti di Thanatos riuscisse ad annullare il fervore che Dunamis sapeva darle anche dopo averlo perduto. Completamente indifferente, Thanatos lasciò scintillare tutto il sangue del mondo che aveva negli occhi e sorrise soddisfatto, le ali allargate e più lucide del solito, rinfrancato. Zaira colse il suo potere assoluto e grandioso; scorse in lui la ripresa del proprio essere e per la prima volta da quando lo aveva conosciuto ne ebbe paura. Era successo qualcosa. - Mi hai amato – le disse con un sottile scherno che la fece arrossire. Scosse il capo ed indietreggiò, inesorabile lo smarrimento dilagò in lei. In quale enorme guaio era stata capace di cacciarsi questa volta? Cosa accidenti era accaduto? Cosa non aveva capito? Cosa le era sfuggito? Era caduta in un tranello? Davvero? O forse era solo confusa e non era in grado di razionalizzare l’accaduto? Forse il bacio della morte scompaginava la mente prima di regalare qualche cosa di prezioso. Folle sperò in un nuovo dono di quel mondo diverso e per questo straordinario, con gli dei a far da padroni e i loro prodigi a cambiare i destini. Blaterava dentro di sé, sproloquiava, cercava una giustificazione a tutto, ma nella durezza dell’espressione del figlio di Nyx non c’erano giustificazioni. L’immortale le impedì di retrocedere oltre, questo lo poteva fare, e una volta immobilizzata si avvicinò al suo volto. - Lo hai fatto intensamente, sinceramente – disse ancora. Lei serrò i denti. - Solo per un attimo, un battito di ciglia, ma mi hai amato e questo mi è bastato per tornare ad essere il dio della morte e servire Ades il ricco – sorrise capzioso, distante dall’essere comprensivo e gentile di poco prima. Zaira realizzò d’essere stata usata. - Voi siete sempre stato il dio della morte – sussurrò ottenebrata. - Un dio disarmato, innocuo e fragile come voi mortali, sciocchi ed affannati – ridacchiò sprezzante. La squadrò con un disprezzo che la fece sentire ridicola nell’abito prezioso che indossava, scintillante di pietre nere sconosciute. Si chiese se qualcuno adesso sarebbe stato disposto a salvarle la vita.


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- Non ti ringrazio per quello che mi hai dato, perché il mio potere mi appartiene da quando sono nato dal grembo divino di Nyx la tenebrosa – sbuffò astioso, poco convinto, forse solo attore in una recita perenne. - Mi lascerete sola in questa landa sconosciuta - si lamentò. Il panico la scosse, l’elaborazione di una soluzione la innervosiva nei movimenti e nel respiro a scatti, mentre gli occhi vagavano frenetici ovunque senza vedere nulla. Thanatos la scrutò per qualche attimo e fece per andarsene. In fondo non aveva più nulla da dirle, non aveva più niente da chiederle, non aveva più importanza la sua vicinanza, non era più necessario ottenere da lei la fiducia, l’affetto, l’amore. Quel pensiero fugace lo fermò e gli fece fissare il vuoto davanti a sè. Ascoltò il battito impazzito del cuore della donna e chiuse gli occhi in una contemplazione segreta, in ascolto di quella musica assordante eppure allettante che aveva scandito i suoi giorni nella costrizione di abbindolarla. Rivisse ogni suo gesto, ogni suo sguardo, ogni sua parola e guardò, con il proprio potere, i suoi amici perduti. Colse il volto ferreo di Dunamis, condannato a mantenere solenni giuramenti. Dietro di lui Zaira strinse i pugni ed avanzò. - Anche voi mi avete amata, o forse… - disse a denti stretti, la certezza di non avere più nulla da perdere, l’orgoglio d’essere sconfitta con la spada in mano e quella spada adesso era solo la parola che avrebbe brandito senza paura. Thanatos le diede il profilo. - Io sono la morte, Zaira e tu lo hai dimenticato. Questo dovevo ottenere da te – le fece notare. - Non l’ho dimenticato e se la vostra condanna per un crimine che io non conosco era quella di ottenere l’impossibile, amare un cuore immobile non lo è affatto – fu sottile. Il figlio di Nyx si voltò pallido, con il dubbio a scuoterlo, a scalfire la sua sicurezza. Pensò al Fato, ai suoi giochi, ai suoi tranelli e alla sua capacità di dire le cose con una doppia interpretazione. Pensò al fratello e alla sua crudeltà che sapeva essere efferata nei confronti di dei e uomini. Pensò a se stesso e si chiese se davvero era caduto in un tranello. Un tranello? Fissò la straniera e entrò nel grigio di quegli occhi che non avrebbe più voluto guardare. Ricordò il loro bacio, l’emozione che a pochi minuti di distanza gli sembrò enorme, sferzante quanto… piacevole? - Un gioco degno del Fato quello di permettere ad un cuore immobile di amare – aggiunse lei, scandendo le parole per farsi capire bene, per colpire senza errore il bersaglio. - Non provocare un dio, Zaira – l’avvertì, temporeggiò. Lei non demorse e accorciò la distanza tra loro per poterlo guardare meglio in faccia. - Non mi farete del male, non lo potete fare – bleffò. Era vero che non era a conoscenza dei dettagli riguardo il mondo dell’Oltretomba e dei suoi abitan-


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ti, ma era anche vero che non era una sciocca e capiva di trovarsi in una situazione di pericolo. Tra gli achei era quasi proibito pronunciare il nome di Ades e si trovava nel regno di Ades, nella parte più sacra! L’equazione veniva da sé. Al diavolo anche questa volta la prudenza, al diavolo le astuzie e i conteggi mentali, andasse come doveva, se non altro avrebbe potuto dire che ci aveva provato a salvarsi la pelle! - Il Fato ti protegge, Zaira – si difese. Lei allargò le braccia e gli mostrò ciò che li circondava, poi ascoltò il lieve rumore del terremoto. - Mi protegge? Oh, lo ringrazio! Ma sono perduta e nulla mi può salvare, solo voi perché mi amate – lo scrutò penetrante. Thanatos abbassò le ali. Si guardarono. Forse si salutarono in quel momento e il desiderio assurdo del dio di abbracciarla per dirle addio fu represso dalla freddezza che non era stata intaccata in lui. Si fissarono: lei con il cinismo della disperazione; lui con la glacialità obbligata che il suo stato gli imponeva e il rosso degli occhi a scintillare nel richiamo feroce dei doveri rimasti in sospeso sulla terra esterna. Si guardarono. Si fissarono. Poi si fissarono e si guardarono, taciti, muti, rigidi, smarriti. - L’ho già fatto – sbottò il figlio di Nyx. Retrocesse toccato dal calore invisibile che gli riversava addosso senza saperlo. La straniera inclinò il capo senza comprendere. - La tua vita, l’ho già salvata – concluse. Quasi fuggì, ma Zaira lo seguì e lo osservò librarsi in aria. - Thanatos! – lo chiamò con un grido che lo frustò dentro. Si guardarono. Si fissarono. Si fissarono e poi si guardarono, sempre più lontani. - Avrei potuto amarvi – sussurrò più a se stessa che a lui. - Lo hai fatto – si impose il dio con la tristezza a screziare la staticità del suo animo. - No – chiuse le palpebre per non versare una lacrima. - Qualsiasi cosa sia accaduta, ha sciolto la mia catena – tagliò corto Thanatos e quando Zaira riaprì gli occhi non lo vide più. Fu sola. Capì che la sarebbe stata per sempre. Pianse per se stessa, non si trattenne più. Qualcosa le era sfuggito. Si, il controllo della situazione. - Non vi permetterò di correre da lei, Dunamis di Astos! – insistette Schià, parandosi davanti al cavallo. - Se vuole raggiungerla un motivo più grande di noi lo muove – intervenne Aimatos. Dunamis fu compiaciuto dal fatto che approvasse le sue scelte obbligate, dettate da qualcosa che li sovrastava e dal quale non ci si poteva liberare.


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- Davvero lo credi? – lo provocò, giusto per misurarne il polso. L’ex schiavo si sedette su un cumulo di ametiste. Era stanco, annientato dal precipitare degli eventi che non era riuscito a fermare. - Lo credo – alzò gli occhi che, con i riflessi circostanti, furono più blu. - Non ti fermerò, Dunamis. E’ finita, come tu vuoi, come il Fato ha disposto – fu spiazzante, tanto che il signore della rocca scese da cavallo e lui si mise sull’attenti. - Cos’hai in testa? – lo interrogò circospetto. - Sono un tuo comandante, attendo ordini – Anche Schià ebbe un attimo di confusione. Cosa stava succedendo? Possibile che nulla andava come avrebbe dovuto?. - Fos ti sta aspettando ad Astos – disse Dunamis con il tono autoritario che sapeva assumere. - Fos - sorrise Aimatos amaro. Già, Fos, la sua donna e lui ancora una volta l’aveva abbandonata per seguire e difendere Zaira. Fos, davvero era ad Astos e lo stava ancora aspettando? Ne fu felice anche se spaventato. Qualsiasi sua recriminazione sarebbe stata legittima. - E non è sola – aggiunse il sovrano, riferendosi a Ormè e all’incontro che avrebbe avuto con il suo vero padre. Questo Aimatos non lo comprese, ma lo fecero gli altri. - La ucciderai, vero? – volle sapere. - Ho fatto solenni giuramenti ed il tuo ritorno ad Astos è una delle promesse. Il resto non deve riguardarti e non intaccherà la tua vita – - Lo farai, ti conosco. La tua pazienza ha dei limiti che neppure io ho mai superato e la ucciderai per un insulto - fu inconfessabilmente d’accordo con lui. - Tu eri uno schiavo, assaggiavi la mia frusta ogni giorno. Lei era la regina del mio regno, nulla la giustifica come giustificava te – fu secco. Aimatos lo fissò tacito. - Ucciderla? – sottolineò Schià allarmata. Era adirata con l’amica, ma da questo a… - Ucciderla? – parve svegliarsi Flogos. - Si, il giorno che Dunamis ucciderà Zaira, sarà l’ultimo del mondo – sussurrò Alopex poco distante senza essere udito. Dicaia lo interrogò. - Non lasciarti abbindolare dai suoi modi, non ricordo il tuo nome. Io quello lo conosco e può recitare tutte le commedie che vuole – le rivelò. L’amazzone si avvicinò a lui. - Non ha l’espressione di chi sta scherzando – era preoccupata. - Non sta scherzando, infatti. E’ convinto di quello che dice, ma non voglio perdermi il momento in cui avrà Zaira davanti. Voglio proprio vedere dove


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finirà tutta la sua determinazione – sorrise. Il suo atteggiamento persino annoiato la tranquillizzò. - Non riuscirete ad ucciderla, un dio la protegge – fu ostinata Schià. Afferrò le redini del cavallo che si agitò. Dunamis sorrise e la squadrò con aria di sufficienza. - La terra sta tremando, nessun dio è disposto a proteggere chi viola un suolo sacro – le fece notare. - Lasciamo questo luogo, venite con noi. Lei ha già fatto le sue assurde scelte e voi meritate certamente più di una donna che è stata capace d’innamorarsi di un altro, dimenticando voi che le avete dato tutto, compresi noi, proprio noi che alla fine vi siamo fedeli, al contrario di lei che vi ha tradito – fu spietata, sempre meno riconoscibile, donna in un attimo, una donna crudele per certi versi e veritiera per altri. Alla parola tradimento Dunamis ebbe un fremito. - Non guardatemi in quel modo! Ho creduto in lei più di voi tutti messi insieme! Io sono tornata ad Astos per prima ed ho rischiato la vostra lama per lei, per l’affetto che ho sempre provato, per l’amore che ho difeso! Io sono quella che non vi ha mai condannato, mai, che in voi ho sempre visto un uomo colmo di un sentimento insospettabile! Io sono quella che per Zaira era disposta a tutto, che per lei mi ritrovo qui dove proprio non dovrei essere! Io fino a pochi giorni fa ero disposta a dare la vita per la nostra amicizia e lei adesso è tra le braccia di un dio che un giorno mi ucciderà, lei adesso ama con la facilità di una… Aimatos le sferrò un ceffone. Flogos gli si parò davanti adirato, pronto a colpirlo. - … di una sgualdrina – finì la frase per lei il re e tutti lo fissarono, incontrando il suo sorriso amaro. - E nessuno di voi rischierà oltre per una sgualdrina – concluse. - Se solo uno di voi si azzarderà a seguirmi, i casi sono due: o morirà per mano di Ades il ricco oppure lo farà per mano mia, se riusciremo a tornare nel mio regno – fu perentorio. - Bene! Visto che mi offri due opzioni, scelgo la seconda – lo sorprese Alopex che si appaiò a lui, seguito da Dicaia che lo fiancheggiò. Non li fermò, sentiva in cuor suo che nessuno dei due era convincibile, entrambi erano decisi a seguirlo, a fargli da scorta perché era un re e come tale doveva presentarsi, ovunque, qualsiasi fosse stata la meta da raggiungere. - Io no! Io me ne torno dove gli dei hanno disposto che vivessi! – rombò infine Schià, salendo in groppa al cavallo di Flogos che cercò lo sguardo di Dunamis. Il figlio del lupo annuì, montando nuovamente Zingaro.


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- Sono certo che ci rivedremo – volle salutarlo Aimatos, afferrando le redini del destriero e l’altro si chinò verso di lui. - Ti dirò, bastardo salito di rango, quando rientrerai ad Astos non attenderai il mio ritorno ed io, considerando le promesse che ho dovuto fare, non ho l’ansia di trovarmi davanti a te all’interno del regno caro ad Artemide divina – sussurrò incomprensibile senza che l’ex schiavo cogliesse i risvolti di quelle parole. Non sapeva che oltre la porta dischiusa lo attendeva il trono, non sapeva che se mai un giorno Dunamis fosse tornato lo avrebbe dovuto salutare come un re. La totale ignoranza in merito al suo destino divertiva il figlio del lupo che lo osservò per memorizzarne l’espressione delusa. Si rimise dritto e tirò le briglie con forza. - Dove credi che possa trovarsi Zaira? – chiese Dicaia, rompendo la tensione degli addii. - Tranquilla, lui può sentire il cuore di Zaira, gli basterà ascoltare il silenzio! – rise Alopex, irritando il re che non disse nulla. Diede un colpo di tallone ai fianchi di Zingaro. I due soldati lo seguirono, mentre gli altri rimasero fermi e li videro scomparire dietro i colli preziosi delle miniere di Ades l’invisibile. Dove andare? Cosa fare? E poi cosa aspettare? La terra tremava continuamente, prologo di una catastrofe che non esplodeva. Zaira era in una grotta scintillante che era divenuta una prigione. Fuori c’era un deserto aureo privo di confini. La luce la accecava. Sarebbe morta, ma come? Thanatos l’aveva lasciata sola senza ucciderla. Certo! Nell’Oltretomba c’era già! Allora era già morta. Dunque l’Oltretomba era una specie di paradiso un po’ freddo. O forse la sua morte sarebbe stata eclatante in un culmine di sofferenze e gli dei stavano disponendo per una macabra festa. Era sull’orlo di un crollo che si stava manifestando con il brivido che iniziò a prenderle il corpo, le mani non reggevano nulla, neppure la sabbia argentea con la quale si era messa a giocare. Sospirò, incapace di ragionare, distante da quella che era stata, stupida nella visione esterna di sé. Stupida. Stupidissima. Forse non era stata colpa sua, i giochi di Thanatos l’avevano indotta a sbagliare. Forse… e vagava, galleggiava in un marasma di forse, una vita senza certezze le apparve insostenibile. Si sentì sola. Fu sola. Aveva perduto tutto. Non aveva più accanto gli amici, anche Schià l’aveva abbandonata stanca di cozzare contro la sua viltà. Non aveva più una casa, neppure una catapecchia dove sopravvivere, vestita preziosamente attendeva il nulla. Non aveva più l’amore, né vero né fittizio, nè tenero né violento, né tangibile né intangibile, né vicino né distante. Si era giocata tutto nella superbia che aveva coltivato con la sicurezza di potersi sostituire a un re. Era tardi per tornare indietro, per dimenti-


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care e per perdonare, perché la possibilità di giustificare i torti subiti era volata via con Thanatos, mentre quella di valutare i torti fatti era appannata dalla paura di morire. “La tua vita, l’ho già salvata” aveva detto il figlio di Nyx. Guardò il vuoto davanti a sé, sorrise avvelenata. Salvata? Quale vita l’attendeva? Vita? Quella era vita? Una fitta simile a un fulmine le attraversò le tempie e la indusse a sdraiarsi sulla sabbia luccicante. Chiuse gli occhi. Era a brandelli, spezzata da una situazione che le era sfuggita dalle mani. - L’ho già salvata – sussurrò, facendo il verso al dio con il ricordo del volto inquietante che per un attimo l’aveva affascinata o… fascinata? Si chiese, senza cercare una risposta, se davvero lo aveva amato e facendolo aveva dato a lui la vittoria e a se stessa la disfatta. Se davvero era accaduto, il paradosso aveva dei margini davvero assurdi! A lei dovevano sempre capitare le cose meno logiche, a dispetto della logica che aveva sempre perseguito! Certo, all’eletta del Fato poteva accadere di tutto, tanto era destinata a sopravvivere sempre! Sopravvivere? Perché? Mentre si arrovellava il cervello, il sonno la pervase e la trasportò nel dormiveglia. Il silenzio si screziò di frastuono, il buio diede il passo a lampi di luce, a stralci di vite inesistenti, il respiro rallentò e il cuore si scaldò. Si addormentò, sognando di non svegliarsi più e nei flash che si accavallarono vide Dunamis, udì la sua voce. “Nessuna donna vi accetterà come ho saputo fare io, cane rognoso! Nessuna donna amerebbe un vile usurpatore che china la schiena davanti all’ingiustizia perché sono gli dei a volerlo” sognò. Quello era stato il momento in cui aveva cessato di amare il re, il momento in cui si erano perduti. Pianse nel sonno. Fos percepì dei rumori e ascoltò i passi nei corridoi del palazzo. Ormè si era appisolata, alzò il capo stropicciandosi gli occhi. Da quando il re e gli altri avevano abbandonato Astos, non si era mai separata dalla principessa. Si guardarono fugaci. - Non ti muovere – le disse. Si mise all’erta sul trono, strinse gli occhi in direzione della porta. Ormè obbedì. Il cuore iniziò a cavalcare nel petto di Fos. Pregò gli dei perché l’angoscia dentro di lei scemasse, perché il Fato riportasse l’equilibrio di una volta in quel regno che stava reggendo per la promessa fatta al suo re. Sulla porta comparve per primo colui che stava aspettando. Guardò per qualche istante Aimatos senza espressione. Corrucciò le sopraciglia e infine lasciò che la felicità sorgesse nel suo volto provato. Gli occhi grigi s’inondarono di lacrime che non volle trattenere e si levò dal trono. Giunsero anche Flogos e Schià. Ormè si alzò dal pavimento accanto allo


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scanno reale e prese la mano della donna con apprensione: non conosceva bene quelle persone, a parte Flogos che sapeva benevolo. - Lascia libero il mio braccio, Ormè. Lascia che io saluti il mio sposo, dopo anche tu potrai salutarlo perché nulla hai da temere da lui – le sussurrò senza guardarla, con un filo di voce. La bambina lasciò la presa e la principessa fece un passo, un altro, infine si lanciò in una corsa che le fece attraversare la sala fino alle braccia di Aimatos che non esitarono ad accoglierla, a darle il calore che non aveva avuto per giorni che parvero infiniti. Avrebbe voluto dirle mille cose, scusarsi prima d’essere accusato, maledirsi prima d’essere maledetto. Aveva seguito la vita di Zaira a scapito di una donna che lo aveva ricoperto d’amore dal primo istante in cui l’aveva conosciuta! Non disse nulla e la strinse forte, la cercò e la baciò. L’amava come non aveva amato neppure Zaira il giorno in cui l’aveva guardata negli occhi per la prima volta. Zaira… che era andata perduta in vie impervie, che aveva scelto sentieri astrusi dimentica di loro. Zaira… che in quel momento gli apparve esattamente come era sempre stata: inaffidabile, incostante, facile preda per chiunque, vile e fragile, senza spina dorsale. Soffrì per quelle conclusioni, ma non ci riflettè troppo mentre i baci di Fos lo scottavano e andavano ad alimentare il desiderio di ricostruire un rapporto che per un soffio sarebbe potuto andare in frantumi. L’attenzione di Fos cadde su Schià che sembrava appagata dalla felicità altrui. Le due donne si sorrisero, la principessa le tese le mani, ritrovandosi ad abbracciare anche lei, a guardare il truce Flogos che non nascondeva la gioia, ma anche una profonda amarezza. - Dunamis ha mantenuto la promessa - disse tremante. Il grosso soldato aggrottò le sopraciglia. - Dunamis mantiene sempre le sue promesse – ribattè. Schià annuì rassegnata. Certo, il re era solito mantenere la parola data e se non era con loro era proprio perché una parola l’aveva data anche a Thanatos, il tessitore di tranelli! Aimatos li fissò, mentre si guardavano con strana complicità. Fos volse lo sguardo allo sposo che sospettoso la interrogò. - Io non posso mancare alla promessa che ho fatto al figlio del lupo – ammise oscura. In quel momento l’ex schiavo si accorse del sigillo che portava al collo. Ebbe un colpo al cuore, fu sul punto di chiederle delle spiegazioni, ma lei se lo sfilò e glielo porse. - Cosa significa? – sbuffò. Anche per lui non comprendere era una cosa insopportabile e ultimamente non aveva capito niente di ciò che stava accadendo, non era stato capace di fare appello al proprio istinto e si era ficcato in guai su guai. Ritrovarsi nella terra dei mortali era stata una mera fortuna con i pasticci che aveva fatto!


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- Esattamente ciò che stai pensando – s’intromise Flogos. Ormè non smetteva di osservare quella scena con il cuore palpitante. - Non sto pensando niente – s’irrigidì, illudendosi di poter sfuggire il destino. - E’ stato lui a volerlo – disse Fos. Aimatos retrocesse ancora. - Volere cosa? Quale altro scherzo ha tenuto in serbo per me quel bastardo? – si arrabbiò, mentre il ciondolo più ambito dell’Ellade gli dondolava davanti agli occhi. - E’ certo di non tornare più ad Astos e colui che è degno di reggere il regno caro ad Artemide la virtuosa sei tu – non tergiversò la donna, lo fece sbiancare, una visione fulminea del futuro gli corse nella mente. - Sei il re – aggiunse Flogos. Schià sospirò incredula. - Il re di cosa? – temporeggiò incapace di accettare ciò che gli stava accadendo. - Sei il re di Astos dopo essere stato l’eroe degli oppressi – fu solenne Fos. Ormè si fece sentire, i suoi passi veloci in una corsa improvvisa distrassero tutti e giunse al cospetto di Aimatos che confuso la fissò senza vederla davvero, in balia degli eventi che non si fermavano. La piccola si prostrò ai suoi piedi e chinò il capo, riuscendo così ad interessarlo. Nessuno degli amici ritenne opportuno intervenire, consapevoli che quello era un incontro importante. Tuttavia, ognuno di loro si chiese se Aimatos avrebbe avuto la forza interiore di parare tutti quei colpi. - Chi sei? – fu la domanda davanti a tanta devozione e la bambina alzò il visino. - Mi chiamo Ormè della Città Bianca e sono figlia di un re e di un eroe – affermò fiera, un lieve sorriso le attraversò la bocca stretta. Una fiammata proveniente dai meandri più remoti del cuore scottò Aimatos. Guardò la bambina e la bambina guardò lui. Percorse ogni centimetro di quel piccolo viso familiare. Udì dentro un urlo, un grido lancinante, un ululato che lo assordò e gli fece socchiudere gli occhi. Lo stesso sangue che aveva appena urlato dentro di lui, iniziò a scorrere più veloce, a pulsare nelle vene. Un calore indicibile lo fece sudare, poi sentì freddo. - Figlia di un re e di un eroe? – si sentì stupido, chiunque avesse guardato Ormè, avrebbe riconosciuto lui! Non si mosse. Un masso enorme gli scese dalla gola allo stomaco, tremò, mentre Fos lo osservava commossa. Per lui erano i momenti del riscatto assoluto che ripagavano una vita. - Dunque, sei la figlia di Dunamis di Astos? – riuscì ad apparire sciocco, tanto che Schià scosse il capo nascosta da Flogos che guardò altrove. Fos non replicò, lasciò che tutto scorresse, perché ormai i giochi erano fatti.


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- No, nobile eroe, lui stesso mi ha detto che… - si affrettò a contraddirlo. Lui alzò una mano per farla tacere, cercò la lucidità, poi abbassò le spalle, sconfitto nella vittoria assoluta che il Fato gli stava riservando. Nobile eroe? Com’erano cambiate le cose e come lo avevano fatto velocemente! Nobile lui che aveva conosciuto la sferza, figlio di nessuno, nato schiavo, vittima nel sopruso, in lotta per anni! Aveva conquistato uno straccio di dignità, calpestando il proprio orgoglio, inchinandosi davanti al nemico di un’intera esistenza e adesso si sentiva chiamare nobile eroe e era investito di un titolo che nessun indovino avrebbe potuto predirgli! Lui, Aimatos d’Epiro, era divenuto re e con quel trionfo aveva trovato una figlia, perché questo era Ormè e non fece più finta di non capire, non negò più l’evidenza dei fatti. Osservò quella creatura forte nonostante l’età, educata e zelante, timida ma decisa a reclamare il proprio posto, fosse stato nel fango oppure su un trono. Si avvicinò e la indusse a mettersi in piedi. Era minuta, fu costretto ad abbassarsi, flettendosi sulle ginocchia per poterla guardare in faccia. Le accarezzo la gota e le regalò il primo sorriso del padre che stava cercando. - Ormè, un nome bellissimo – le disse. Lei s’inorgoglì puerile. - Della Città Bianca – concluse un po’ ironico. Non si chiese chi era sua madre perché non c’era modo di saperlo. - Sei tu – sussurrò la piccola. Aimatos le cinse le spalle e annuì prudente. Ormè abbandonò l’etichetta, lo abbracciò con l’affetto totale che aveva tenuto da parte per lui. L’uomo ricambiò quel gesto, alzò lo sguardo su Fos che sorrise magnanima, mentre Schià non si smentì: pianse. - Non so se davvero sono un eroe, forse lo sono stato, ma non sono un re – disse e sorprese tutti, anche la bambina che lo fissò cupa. - Spero che questo non sia un problema per te – la prese un po’ in giro. - Gli dei vogliono che tu lo sia – fu ostica. - Gli dei – la assecondò. Si rialzò faticosamente. Era stanco, lo era da tempo ormai. Fos lo interrogò tacita e gli porse ancora il sigillo che lui s’infilò al collo. Seguito da Ormè e da gli altri attraversò la sala in penombra, si fermò davanti al trono del re, accanto al quale giaceva divelto quello destinato a Zaira. Si sedette e appoggiò le mani. Diede un occhiata a ognuno, anche ad Atir che nell’ombra versava lacrime amare per la perdita del proprio signore. - Tornerà – affermò sentenzioso. La sua questa volta non fu una speranza, bensì una certezza. Fos non ribattè, dentro lo pensava anche lei. “Ti dirò, bastardo salito di rango, quando rientrerai ad Astos non attenderai il mio ritorno ed io, considerando le promesse che ho dovuto fare, non ho l’ansia di trovarmi davanti a te all’interno del regno caro ad Artemide divina”


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- Ti stai sbagliando, figlio di un cane rognoso, ti stai sbagliando – disse a se stesso, gli amici si spaventarono davanti al suo dolore imprevisto. No, Aimatos d’Epiro non voleva il regno di Dunamis perché sarebbe tornato. Dunamis di Astos sarebbe tornato perché era Dunamis di Astos e nel pensarlo strinse i denti con forza, si fece quasi male. Ringhiò e serrò le mani sul trono.


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Capitolo XIII LA FUGA SCINTILLANTE

Zaira si risvegliò dal dormiveglia, stanca come se avesse percorso lunghe strade a piedi. Un tremore continuo le scuoteva le membra, confondendosi con quello del terreno. Si mise in piedi, si guardò intorno, ritrovando l’antro agevole e scintillante di Thanatos che cercò senza trovarlo. Ricordò l’accaduto, rivide se stessa e si detestò. Raggiunse la vasca, cercò un po’ di refrigerio, bagnandosi il viso con l’acqua tiepida che la invitava a immergersi, ma non lo fece. Non sapere come muoversi le regalò nuovo sconforto. Vide il proprio riflesso nelle acque quiete. Era bellissima, se lo disse da sola. Nonostante tutto, era bellissima. Il tocco di un dio l’aveva resa perfetta, addirittura smussando i piccoli difetti. Questo non le diede alcuna consolazione, la lasciò del tutto indifferente. Distolse lo sguardo. Tentò di fare mente locale. La situazione era quella che era. Andava bene. Tranquilla. Tranquilla. Doveva stare tranquilla. Un via d’uscita doveva esserci, era solo una questione di ragionamento. Ragionamento. Equazioni matematiche? No, matematiche no. Equazioni esistenziali. Si, esistenziali. Thanatos, si… Thanatos aveva detto che le aveva salvato la vita. Si, lo aveva detto. Aveva mentito? No, non lo aveva fatto. Era stato sincero. Il suo tono era stato sincero… si. Tranquilla. Va bene. Prese fiato. Ne prese altro. Si rimise in piedi e si stirò il fantastico abito che le aveva lasciato il dio della morte. Si, fantastico. Stava impazzendo? Non era pazza. Adesso era pronta a ragionare. Ragionamento. Conti mentali. Conti? Si, conti. - Abbiamo puntato un po’ troppo in alto, Zaira d’Enotria – la fece sobbalzare una voce. Thanatos, era tornato. Si, era tornato e l’avrebbe portava via. Dove? Via. Lontano da Ades adirato. Si voltò fiduciosa come un cucciolo, facile da abbattere come una lepre ferita sotto il tiro di un cacciatore. Il suo lieve sorriso morì come morì lei dentro. Gli occhi si abbuiarono e i denti si strinsero. La gola si seccò e il tremore aumentò, le ginocchia vibrarono. Guardò Dunamis che, appoggiato a una delle pareti preziose, le braccia incrociate al petto, la fissava bieco, simile all’uomo che aveva conosciuto il giorno in cui aveva varcato il confine della sua sala del trono. - Hanno sempre detto di me che sono superbo, ma dopo avere assistito al manifestarsi della tua superbia, posso dire d’essere un dilettante – aggiunse


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per nulla ironico. Era lì per umiliarla, per piegarla, per completare l’opera che era rimasta in sospeso ad Astos. - Non mi scandalizzo davanti alla stima estrema di se stessi, no… ma addirittura ambire ad essere la sposa di un dio… Davvero incredibile! E divertente visto il risultato finale – le diede sottilmente della sgualdrina e lei fu abbastanza perspicace per coglierlo. - State lontano da me – riuscì a dire. Era rauca, aveva perso la voce. - Nessuna intenzione di avvicinarmi, nessun interesse a farlo – sorrise capzioso. Non le toglieva gli occhi di dosso perché sapeva di turbarla, sentiva il suo imbarazzo e lo poteva vedere nitidamente nelle movenze prudenti del suo retrocedere. - Cosa volete? – fu brusca in cerca di una via di scampo inesistente. - Nulla, se sono qui non è per mia volontà e onestamente non credo che ne uscirò da questo guaio – rispose. Finalmente guardò altrove dandole un po’ di respiro. - Non conosco nessuno capace di farvi fare qualcosa contro il vostro volere – non gli credette, costringendolo a tornare su di lei. - Sbagli, ci sono un paio di persone che sanno fare di me un… inetto – allargò leggermente il nero abissale degli occhi per colpirla bene, per essere più preciso e fare centro con sicurezza. Lei ebbe uno strappo interiore. - Una viene da un tempo distante e per questo pensa che io sia un selvaggio senza cervello; l’altro è di stirpe divina e usa il proprio potere per estorcermi solenni promesse. Ma va bene così, la devozione è sempre stato il mio punto debole e siete riusciti ad ottenere la mia sconfitta. Due amanti crudeli – rise. - Vi state divertendo a ferirmi con le parole - non raccolse. Dunamis si fece serio. - Potrei ferirti a distanza con la lama della mia spada, ma la cosa inizia ad annoiarmi, come mi annoi tu con il tuo orgoglio estremo, con la tua superbia impunita. Sei scampata alla morte, hai sedotto un dio ed ora sei sola come la cagna che hai celato d’essere e non hai scampo perché Ades uccide chi viola le sue terre, è solo questione di tempo. Ma tu sei lì a difenderti senza armi e senza scuse. Ridicola la donna che ho avuto il coraggio di fare regina di un regno glorioso – l’accusò direttamente. - Allora perché siete qui a rischiare la pelle? – sibilò. Erano bastate le sue parole, era bastato rivederlo per ritrovarlo, riamarlo, risentire nell’animo un fremito che nessun’altro avrebbe potuto darle. Ma era finita. Lo sapeva. Lo sentiva. Non c’erano speranze. - Paradossale, credimi! Sono qui per salvarti! Assurdo! Ti salverò oppure morirai con me – affermò minaccioso. Zaira si spaventò. Che razza d’idea aveva avuto Thanatos? Era quello il modo con il quale l’aveva salvata? Che


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gioco era ancora in atto? Non era ancora terminata la pantomima del dio della morte? Diede la schiena al re che la osservò, la percorse tutta, si soffermò sulle spalle scoperte e chiare, notò la preziosità dell’abito. Aveva visto la bellezza estrema che l’immortale le aveva donato, consapevole d’avere ricevuto lo stesso dono, rendendolo forte in tempi brevi. - State mentendo, cosa ve ne importa della mia vita? – sbottò seccata. - Niente, ma sono qui con il mio sangue versato sul nome del dio più terribile tra gli dei ed io, lo sai, sono devoto anche se questo mi rende un… - insistette polemico. - Volete le mie scuse? – lo interruppe esasperata dal sentirsi ripetere che gli aveva dato dell’inetto. - Non le accetterei come tu non mi perdonerai mai per aver voluto la tua morte. E’ un discorso che non voglio neppure iniziare. Quindi, vedi di muoverti e di seguirmi nel tentativo che faremo di tornare ad Astos – tagliò corto indifferente. - Non verrò – Dunamis ridacchiò, sfiorò la fasciatura che gli cingeva il collo e il punto dietro l’orecchio sotto il quale vi era la ferita del pugnale di Fos. - Ho versato il mio sangue in un giuramento che mi costerà la vita se non lo manterrò. Non sono sicuro di uscirne vivo, salvandoti, ma mi conosci, se devo proprio soccombere, mi si dia la possibilità di provare ad evitarlo – ribadì. Lei fece spallucce. - Non m’importa dei vostri giuramenti, come a voi non importa della mia vita – s’impuntò. - Suvvia, Zaira… vuoi anche tu una promessa da me? Vuoi che ti garantisca che una volta nella terra dei mortali sarai libera e non ti sfiorerò con un dito? – la interrogò insinuante, lei tentennò. Poi storse il naso. - Nessuna promessa, ti dico come stanno le cose e potrà bastarti – la interessò. - Sei l’eletta del Fato, ucciderti mi avrebbe apportato sventura e inimicizia da parte degli dei. Aimatos ha salvato te, ma anche me quando ti ha trascinata via dall’arena. Non posso ucciderti, posso morire con te, ma non posso ucciderti. Non voglio morire, l’ho già fatto e il Fato mi ha concesso altri giorni che non voglio passare con te. Quindi, come vedi, tutto gioca a tuo favore. Aprirò il mio regno per te e sarai libera, questa volta sarà sul serio – era freddo, nessuna emozione lo screziava. Zaira rimase basita. - Ti ho convinta o devo passare alla maniere forti? – finse noia. - Non voglio la vostra libertà, ho già la mia – fu ostinata. - Già, troppo difficile vivere senza gli agi del re, senza l’appoggio degli amici che sei riuscita a perdere, senza il tepore del palazzo nero di Astos o la


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frescura del giardini di salici. Troppo impegnativo esistere come se fossi una comune mortale, magari una serva, magari una schiava dedita al piacere del suo padrone. Sai, potrei dirti di restare per scaldare il mio letto, ma… s’interruppe. Quando lei tentò di bloccarlo con parole più feroci, la squadrò sprezzante. - … mi fai schifo e non mi divertirei affatto – la stoccò. La ferita interiore si allargò in lei. Schifo? Che cosa terribile, che parole schiaccianti. Il terremoto aumentò d’intensità e caddero alcune pietre. Zaira non si mosse e Dunamis neppure, osservò indifferente lo scintillio polveroso della scossa e sbuffò stancamente. - Il tempo passa – affermò. La figlia del futuro sentì d’essere alle strette, di avere le spalle al muro. Continuò a guardarsi intorno annientata da tutto, dall’ambiente e da lui con le sue fredde sentenze. - Ades è adirato – disse Dicaia, guardando Alopex. Erano fuori della grotta, seduti su una pietra scarlatta e trasparente, i gomiti sulle ginocchia ad aspettare un richiamo del re. - Non è una novità, mi meraviglio che non sia ancora venuto dal suo regno scuro per farci fuori – rise l’attico, osservano il filo della propria spada. - Non temi di morire? – lo interrogò l’amazzone. - Di questi tempi la differenza tra la vita e la morte è effimera. Mi domando solo se avremo la possibilità di capirci qualcosa e vedere di prendere delle decisioni decenti – rispose ironico, affascinante nel suo distacco. Dicaia interpretò quel modo d’essere come coraggio, niente lo faceva tremare, ciò che di lui aveva conosciuto era stato soltanto un forte scoramento che non lo aveva fatto fuggire, che piuttosto lo aveva messo in attesa. Alopex era un uomo sempre pronto ad affrontare i pericoli e lo faceva ridendo, davvero o per finta, non aveva importanza, ma la sua spada era sempre sguainata. Lo osservò, arrossì quando anche lui posò gli occhi su di lei e inclinò il capo per capire cosa le stesse passando per la testa. - Qualche ripensamento, non ricordo il tuo nome? – la schernì. - Nessun ripensamento, alto di grado – ribattè, ricambiando il soprannome. La tensione era alle stelle, la guardia doveva essere tenuta alta e i loro doveri nei confronti del sovrano erano prioritari perché erano dei soldati e come tali dovevano comportarsi. Ma di tanto in tanto i baci che aveva ricevuto la turbavano. Sbuffò e si mise a giocherellare con dei diamanti nella sabbia d’oro del terreno. Anche Alopex sbuffò, guardò l’entrata della grotta. - Una cosa mi irrita – sussurrò. Dicaia alzò il viso. Amava ascoltarlo, ma specialmente il silenzio che la circondava era insopportabile e qualsiasi parola leniva il senso di disagio che aveva addosso.


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- Quei due – fu conciso. Lei continuò a spostare con i piedi i sassi preziosi. - Due stupidi – aggiunse l’uomo. - Del resto l’amore rende stupidi – ridacchiò. Sembrò proprio stupido. - Veramente Zaira e Dunamis si odiano – gli fece notare memore della determinazione del re. La risata dell’attico la fece sobbalzare. Il loro scambio di idee venne bruscamente interrotto dall’intensificarsi delle scosse. Svelti si alzarono, fissando l’entrata dell’antro che stava crollando, inizialmente con poche pietre, poi con massi sempre più grossi. Alopex scattò verso quel punto, saltando poi all’indietro per non essere travolto da una frana che ostruì la grotta. Pensarono all’unisono senza trovare una soluzione e presero fiato. - Se non usciranno da lì, sono in trappola ed Ades avrà gioco facile – fu ovvia l’amazzone. Già iniziava a spostare i massi meno pesanti e a scavare la sabbia aurea a mani nude, seguita dal compagno. - Il gioco di Ades è facile comunque, ma la fine del topo non la merita nessuno – aggiunse l’uomo. Usò anche la spada per spostare le pietre, scheggiò la lama, l’avrebbe anche spezzata, ma da lì dovevano andarsene al più presto. Dunamis aveva perso anche troppo tempo con i suoi stupidi giochi dei quali lui, un suo comandante, era stanco! Dall’interno il sovrano percepì il loro lavorio frenetico e ne ascoltò il parlottare. Sorrise tra sé e volse l’attenzione a Zaira che aveva realizzato di trovarsi in trappola. Si accorse che ciò che più la atterriva non era la prigionia, piuttosto il fatto di ritrovarsi con lui e senza scampo. Il terrore che la stava scuotendo lo poteva vedere nelle movenze nervose atte a sfiorare le pareti più lontane e poi nel guardarsi intorno. Sembrava un animale braccato, la trovò allettante, degna di una lezione che non le avrebbe dato. La conosceva e sapeva che anche nel crimine più efferato avrebbe trovato una spiegazione consolante e lui di consolazione non voleva dargliene. Pensarlo gli diede una sferzata che lo rattristò e lo adirò nel medesimo istante. Com’era cambiata la sua vita, com’erano mutate le cose, come ogni scintillio del passato era ora buio profondo! Rimpianse il desiderio che lo aveva nutrito solo pochi mesi prima, quello di renderla felice, di darle amore, di regalarle un regno. Si guardò, riuscendo a distaccarsi per osservare l’immagine di se stesso, quella del figlio del lupo dalla bellezza travolgente con la totale disillusione addosso a vestirlo del nero della malinconia. Aveva perduto tutto e ciò che gli era rimasto lo stava gettando via. Il mondo stava crollando e non si muoveva, attendeva che tutto precipitasse definitivamente, perché era paralizzato: aveva braccia forti, la spada affilata, la forza ricevuta da un dio, ma dentro era fermo, morto. Fos gli aveva salvato la vita, ma non l’anima che sentiva incapace di provare emozione se non quella feroce della vendetta. No, non era mai stato così neppure in passato, perchè allora amava almeno il proprio re-


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gno d ora quello stesso regno lo aveva ceduto a chi aveva sempre odiato. Non era mai stato così e si guardò meglio, poi lo sguardo si appoggiò ancora sulla paura appagante della figlia del futuro che abbassò le spalle, sconfitta dall’evidenza dei fatti; che si dichiarò tacitamente vinta e si sedette sul ciglio della piscina dorata. Gli occhi di Zaira si posarono su di lui lentamente, inesorabili, anche se privi del mordente di un tempo. Lo sfidarono lontano e irraggiungibile senza tremori. Ancora le cose mutarono, entrambi si ritrovarono a guardarsi com’erano ridotti. Lei, elegante come una dea, era sola e marchiata da una vergogna che non sentiva parte di sé, perché era certa di non avere amato Thanatos. Si sentì morta dentro, opposta all’immagine che dava di sé. Sorrise sarcastica e lasciò scivolare la mano nell’acqua tiepida, mentre il nero abissale dello sguardo del re non cessava di inondarla, di darle un’inutile fremito. I capelli si sciolsero per un gioco divino che lei per prima comprese. - Quando tutto questo finirà? – sussurrò, riuscì a guardarlo. - E’ già finito – rispose. - Dunque, morirò con voi – concluse. - Il volere degli dei è sacro, Zaira, e ciò che il Fato dispone è inconfutabile – fu ottuso, a suffragare le sue parole un altro crollo del soffitto che fece cadere pioggia dorata su di loro. Zaira fissò quella terribile eppure meravigliosa manifestazione. - Non vi riconosco, maestà. Non vi ho mai creduto capace di rassegnarvi, non vi ho mai immaginato in balia degli eventi. Avete parlato di un tentativo che non state attuando – disse senza cambiare posizione. - Sono abbastanza intelligente per capire quando i giochi sono fatti – sbottò. Ascoltava il lavorio incessante di Alopex e Dicaia. - Storie! Per vendicarvi di me vi state giocando la vita! Non saprei dire se siete un vigliacco o se avete il coraggio incosciente di un bambino viziato – lo volle offendere, desiderò irritarlo per scatenarlo e per… ritrovarlo? Si morse la lingua da sola. Dunamis si sentì stranamente soddisfatto. Con un nuovo alito di vita nel cuore fece alcuni passi verso di lei. I due soldati stavano riuscendo ad aprire un varco e lui sentì di avere fretta. Ma fretta per cosa? Perché? Non ci pensò e continuò ad avvicinarsi a lei che lo fulminò invano. - Cosa vuoi fare? Vuoi che ti uccida subito? – le chiese, era vicinissimo. Zaira si mise in piedi per fronteggiarlo. - Non lo potete fare e questo… - rise sfidante, odiosa. Lui non ribattè. - …mi diverte! Mi ha tolto la paura che per un attimo ho avuto di voi! Del resto, Zaira d’Enotria non ha mai temuto il figlio del lupo e questo per voi è


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sempre stato un affronto! Sapete cosa penso? – lo aggredì, ma solo a parole. Il re non rispose. - Penso che amarmi sia stato un modo per salvare la faccia, per giustificare l’impossibilità di colpirmi, la viltà che la mia origine vi ha sempre infuso, per cancellare la verità dell’oracolo che vi aveva predetto la totale sconfitta! Ma il volere degli dei è sacro ed il Fato è inconfutabile! – lo prese in giro. Attese lo scatenarsi della sua ira per riuscire a odiarlo e cancellare l’ultimo brandello del sentimento che la scuoteva. - Sei la bastarda che hai liberato dalla catena il giorno in cui… - la voce dell’uomo fu cavernosa. - … vi ho dato dell’inetto? Una dura realtà che pensavate ben celata, ma io vengo dal futuro e voi siete un barbaro ignorante – gli sorrise insostenibile, capace di far saltare i nervi. - Non mi sporcherò con il tuo sangue – sibilò. La rabbia antica gli fece scintillare gli occhi. - Troppo tardi, maestà - lo stoccò allusiva, quasi volgare. Lo trascinò al giorno in cui era stata sua nell’incanto dell’Olimpo. Il colpo fu evidente in una sorta di scatto che gli serrò le mascelle. Zaira rise disperata quanto crudele. Il soffitto continuò a crollare con la sua pioggia aurea a sfiorarli, a renderli affascinanti l’uno per l’altra, ma i loro cuori erano in lotta, le parole dure, i pensieri di cristallo. Zaira smise di ridere davanti alla serietà del re che la squadrò disgustato, ma sostenne anche questo e fece spallucce, decisa a raggiungere la vasca per immergersi e aspettare la morte divertendosi, nuotando, facendo la stupida. Ne era consapevole, ma non gliene importava nulla, si sentiva pazza. Andasse al diavolo lui, andasse al diavolo la vita stessa! Il sovrano non le permise di fare ciò che voleva e le afferrò un polso, fermandola con un segreto sollievo. Aveva risvegliato in lui l’astio e le poteva bastare. Ma perché si poneva il problema della sua interiorità? Perchè? Si lasciò trascinare e stampò la schiena, senza ribellarsi, contro il suo petto rigido. - Una cosa mi consola, piccola bastarda - le sussurrò all’orecchio. Alopex e Dicaia stavano riuscendo nell’impresa. La figlia del futuro non replicò. - Ti conosco abbastanza bene per sapere che stai soffrendo come un cane e questo mi basta – sibilò. Non mollò la presa su di lei, non poteva lasciarsela sfuggire, riprenderla gli avrebbe fatto perdere del tempo prezioso, il terremoto stava aumentando d’intensità e i cavalli di Ades stavano accelerando il passo. Gli dei davano la possibilità di salvezza, ma la loro pazienza era limitata.


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Alopex e Dicaia non si erano fermati, avevano spostato i massi uno per uno e alcuni erano riusciti a muoverli facendo leva con le spade. Percepivano l’avanzare di Ades con i suoi cavalli e la sua ira che non li avrebbe risparmiati. Sarebbe bastato un piccolo varco per permettere al re di uscire. Continuarono a scavare la sabbia d’oro e a smuovere le pietre. La spada dell’amazzone si spezzò e usò il moncone come una pala, mentre il comandante a braccia spostava un grosso masso che dopo un po’ si mosse e rotolò quasi addosso alla donna che si spostò. Insieme scavarono l’ultimo mucchio di polvere e quando il passaggio iniziò a prendere forma, accelerarono e riuscirono ad allargarlo. Un grido dell’uomo fece voltare Dunamis e Zaira, davanti a lui in un assedio dal quale non le era possibile liberarsi. Dicaia rise un po’ isterica e guardò dentro, invitando il signore della rocca a uscire velocemente, considerando che il soffitto della caverna continuava a crollare. - Non verrò con voi, non vi permetterò di mantenere i vostri squallidi giuramenti! – si ribellò Zaira, strattonando il sovrano che non le diede spazio e la trascinò con sé. - Niente da fare, sposa abbandonata di un dio, sono io che decido cosa devi e cosa non devi fare – ringhiò e la piegò per superare il pertugio. Ordinò ai suoi collaboratori di legarle i polsi perché non scappasse. Alopex obbedì e Dicaia si affrettò a recuperare i tre cavalli. - Lasciami andare, Alopex, in nome della nostra amicizia – scalciò e sbuffò come un somaro, oscillò e cadde con la faccia sulla sabbia. - Della nostra amicizia discuteremo una volta salvi, perché sono stanco di ficcarmi nei guai per colpa tua – le recriminò l’attico e la rimise in piedi. - Non ti ho chiesto di venirmi a salvare – ribattè. Intanto Dunamis era già in groppa e fece un gesto all’amazzone che prese in consegna Zaira con il compagno per caricarla sul suo destriero. - Quante inutili storie per un po’ di neve in faccia! – sbottò il comandante seccato. Con un colpo del ginocchio, aiutato da una spinta di Dicaia, riuscì a issarla su Zingaro. Dunamis la bloccò con una corda a se stesso e attese che anche gli altri salissero sui cavalli. - Siete una banda di bastardi, anche tu, comandante! Venduta a colui che hai implorato ed al quale hai offerto il tuo sangue per… - inveì contro la donna. - Discuteremo anche di questo quando la pelle sarà salva! –la interrupe dando un colpo di tallone. - Non voglio tornare ad Astos! Non voglio! - insistette la figlia del futuro, ma le parole le morirono in gola con la partenza del sovrano che con una mano teneva le briglie e con l’altra la stringeva in una cavalcata che fece attraversare al gruppo le meravigliose, scintillanti, abbaglianti lande delle miniere di Ades, mentre il fragore del carro del dio dell’Oltretomba incombeva


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nel tremore sempre più forte. Le bestie sostennero bene la velocità, anche se qualche rallentamento fu inevitabile a causa dell’instabilità del terreno. I mortali erano allo stremo, la paura era cieca, il desiderio di scorgere la porta di pietra aperta su Astos era la loro priorità. Attraversarono vasti spiazzi di sabbie argentee e poi d’oro, rasentarono cumuli, colline e montagne di pietre preziose, calpestarono diamanti, smeraldi, zaffiri, rubini in una scia di inestimabile bellezza che nessuno pensò di recuperare. In quel momento la ricchezza valeva niente, la vita era il bene più importante che avrebbero difeso a ogni costo e che avrebbero amato più di prima se mai il Fato avesse loro permesso di sopravvivere. Superarono, con un balzo che fu quasi un volo, un fiume d’oro e cavalcarono, cavalcarono. Nel fragore, con i fiati grossi e la fatica dei cavalli, Zaira si accorse di essere stretta dalle braccia di Dunamis e si sentì protetta, come da tanto tempo non le accadeva. Per un attimo si sentì felice e salva. Salva. Si sentì salva. Salva da cosa? Da Ades? Che differenza poteva fare essere viva o morta se accanto a lei non ci sarebbe stato più il re di Astos? Dischiuse gi occhi e osservò il petto dell’uomo, il muoversi della stoffa dell’abito, si ritrovò davanti, appesa a una cintura, la collana che un tempo era stata sua, spezzata, con i pochi zaffiri ancora incastonati nella montatura. Avrebbe voluto avere le mani libere per sfiorarla. Rimase immobile, nello sballottamento di Zingaro, a guardarla e una lacrima, figlia della nostalgia, le solcò il volto infrangendosi nella stoffa del chitone del re che, nella corsa, percepì quel calore imprevisto, quella strana sensazione. Accelerò l’andatura, seguito dagli altri, la determinazione di sopravvivere tornò assoluta. Il piano di salvare Zaira e non se stesso cambiò. Come aveva potuto credere di poter rinunciare al proprio regno, a ciò che più d’ogni altra cosa aveva contato nella sua vita? Come aveva potuto pensare di lasciare che il gioco crudele di un dio nefasto potesse sconfiggerlo? Come aveva potuto se quello stesso dio gli aveva dato la possibilità di rimediare, di ridare al regno di Artemide il fasto del passato? Non comprese in quegli istanti, ma quel calore indecifrabile lo fece sentire se stesso e l’immagine che aveva osservato nella caverna fu un brutto sogno da dimenticare. Dunamis di Astos? Non era solito farsi sconfiggere. “Non vi riconosco, maestà. Non vi ho mai creduto capace di rassegnarvi, non vi ho mai immaginato in balia degli eventi” Si voltò e scorse la sagoma scura di Ades con i suoi funesti cavalli, compreso Alastore che Fos aveva riconosciuto nelle stalle. - La porta! – esclamò Dicaia. Un vento impetuoso si alzò e sembrò chiudere l’unica via d’uscita. L’angoscia si mescolò all’entusiasmo d’avercela quasi fatta. Ades era vicino, troppo vicino, il gelo del suo essere li aggredì alle spalle, mentre la porta si stava inesorabilmente chiudendo.


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- No! – gridò Alopex e si appaiò con Dicaia al sovrano che strinse i denti nell’incitare il povero Zingaro. Zaira volse lo sguardo nella direzione di Astos e notò che ormai la via era ostruita. Davanti alla porta ormai serrata, sospeso a mezz’aria, si parò Thanatos ad ali spiegate. Il dio della morte non sembrò interessato a loro che frenarono in una nuvola preziosa ad avvolgerli. Gli occhi del figlio di Nyx erano rivolti oltre, su Ades, il suo padrone adirato. Zaira lo guardò, senza ricevere attenzione, come se fra loro non ci fosse mai stato nulla. Era così. Si, era così. Questo non la giustificava, stupidamente trovò riparo sul petto ansimante di Dunamis e ascoltò il suo cuore impazzito che la assordò. Aimatos raggiunse la porta e la osservò. Erano tutti con lui. - Pietra – disse. Gli altri sospirarono esasperati. - Vuoi dire che Dunamis non tornerà? – chiese Schià. Il rancore nei confronti di Zaira era ormai un’ossessione per lei. - Dunamis tornerà – sentenziò il re. Lei strinse i denti e attese che Aimatos avesse un’idea per risolvere quel nuovo dilemma. L’uomo corse con lo sguardo ovunque, continuando a sfiorare la pietra, a spingerla per valutarne la consistenza. Chiuse la mano a pugno. - Non voglio il suo regno – ringhiò, costretto a mettere da parte la stanchezza per una lotta che non richiedeva la spada. Sentì crescere dentro una rabbia indefinita e totale, un astio contro il Fato che lo fece sentire blasfemo, ma era davvero esausto! Dal momento in cui era tornato non aveva dubitato un solo istante del fatto che il figlio del lupo sarebbe giunto a reclamare il proprio regno. Invece tutto continuava a essere difficile, ogni cosa si accavallava all’altra creando un labirinto di problemi insuperabili! Quale mortale poteva sopportare tutto senza che i nervi cedessero? - Lui sapeva che sarebbe successo, altrimenti non avrebbe disposto… - sussurrò Flogos. - Non lo voglio il suo regno! – esclamò l’ex schiavo, il sangue a circolare velocissimo, sino alle tempie che battevano incessanti. - Gli dei hanno voluto questo - si avvicinò Fos in un’inutile consolazione, l’uomo la guardò con gli occhi a scintillare disperati, sconfitto in una vittoria schiacciante. - No, gli dei non possono davvero darmi la scarsa gloria di un’elemosina! – si ribellò, quasi pianse, come un’animale in trappola, come uno schiavo incatenato e nel paradosso della situazione la sua catena era il sigillo di re che portava al collo. - Tu sei l’eroe ed il re di Astos – intervenne Ormè fiduciosa, ingenua, per questo capace di ferire. Aimatos scosse il capo e colpì con il pugno la pietra


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che non si mosse, poi il suo sguardo si posò sul piccolo pertugio che Alopex aveva usato per aprirla, come gli era stato raccontato da Flogos. Ebbe un attimo di confusione e infine guardò ognuno di loro con fermezza. - La chiave – disse. Fecero spallucce all’unisono. - Il pugnale lo aveva Alopex – precisò Flogos. Aimatos battè un piede in terra. Tuttavia, Ormè avanzò verso di lui e estrasse da sotto l’abito proprio quel pugnale. Il cuore del padre cavalcò, la luce della speranza si riaccese in lui, rendendolo più bello, restituendogli il vigore e la fierezza. Lo strappò dalle mani della bambina che tornò da Fos. - La chiave – ripetè. Schià si apprestò a lui insieme al compagno. Thanatos percepì l’imminente riapertura della porta voluta chiusa da Ades. I mortali vi erano davanti e lui era davanti a loro, a prendere tempo, quello necessario per salvarli tutti e far si che ogni giuramento fosse mantenuto. - Stai ostacolando il volere del Fato, signore glorioso e temibile – disse. Il volto del dio dell’Oltretomba era solo ombra indistinta, una sagoma fumosa incorniciata da un cappuccio bianco e nella quale erano accennati gli occhi e la bocca inespressivi. Non aveva emozioni, non possedeva nulla che potesse accomunarlo all’umana stirpe, appariva simile a una statua movente e vaga. Zaira lo osservò di sottecchi, ancorata a Dunamis dalla corda e dalla paura. - Mortali nel mio regno segreto – sentenziò tonante e Thanatos con un volo leggero si parò davanti lui. - Non commettere un inutile omicidio, Ades potente ed eletto – lo implorò, stava continuando a guadagnare tempo in attesa che Aimatos attuasse la mossa finale. - Ho concesso a te il privilegio di dimorare nelle miniere segrete, ho concesso ai mortali di andarsene veloci, ma hanno perso tempo prezioso nelle loro basse diatribe e non sono solito concedere due volte lo stesso privilegio – fu perentorio. Thanatos sorrise capzioso. - Ancora mi è concesso servirti, potente padrone prediletto. In virtù di questo onore ti chiedo pochi istanti per permettere loro di salvarsi – si posò al suolo, inchinandosi davanti a lui che ebbe un attimo, sufficiente, di smarrimento. Uno scricchiolio mise tutti all’erta, tranne il dio della morte che osservò oltre la spalla il dischiudersi della porta. Ades si accorse che il proprio potere si stava annullando grazie al sangue di un mortale graziato dal Fato. Ebbe un ringhio. Dunamis spronò Zingaro, mentre l’uscita era ancora semichiusa, seguito da Alopex e Dicaia. L’Agesilao alzò le braccia in un prodigio finale atto a fermarli, Thanatos gli piombò addosso per guardarlo dritto in faccia, il rumore degli zoccoli dietro di lui scandiva l’avanzare dei mortali verso il loro mondo.


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- Il Fato ci governa, Ades, tutti, dei e uomini e noi siamo dei - gli ricordò. Il signore dell’Oltretomba lo fissò fermo. Uno per uno i cavalli balzarono oltre il confine della porta che, con l’entrata per ultimo di Alopex, si aprì del tutto con uno schianto. Le bestie, lanciate a tutta velocità finirono contro la parte antistante e nitrirono. Dicaia cadde al suolo. Alopex balzò via prima dell’impatto. Dunamis e Zaira non evitarono lo scontro con il muro e Zingaro quasi urlò per il colpo che ricevette al fianco, ma si rimise in piedi subito e scalpitò intontito, scuotendo la testa. Flogos si affrettò a placarlo, afferrando il morso, mentre Fos soccorreva Dicaia pur sempre convalescente. Aimatos guardò Alopex che incolume si apprestò subito alla porta per osservare oltre, mosso dall’innata curiosità. Il figlio del lupo sciolse la corda che legava a sé Zaira, lasciandola scivolare dalla groppa e scese con un balzo, raggiungendo l’attico per verificare che tutto fosse davvero finito, che Ades il ricco non decidesse di varcare il confine del mondo dei mortali per concludere l’impresa. Nello scintillio delle miniere il dio non c’era già più e era rimasto soltanto il figlio di Nyx che si voltò e lo guardò glaciale. Anche Ormè si affacciò alla porta e Thanatos se ne accorse. Ebbe per lei un sorriso dolcissimo che turbò i due uomini. Si avvicinò, senza superare lo stipite e le porse la mano bianca. La bambina ebbe i lucciconi agli occhi e allungò pure lei la manina tremolante. - Non mi hai dimenticato - sussurrò tenerissima. L’immortale parve deglutire. - Mai – rispose con un trasporto che lasciò il re e il comandante perplessi. Si sfiorarono, poi il dio si ritrasse, come se quella bambina lo spaventasse. Era così, perché tutto era accaduto a causa del suo rifiuto di ucciderla e ora, dopo l’espiazione della colpa, lei era viva. Si sentì felice. Poi volse gli occhi scarlatti a Dunamis che serrò le mascelle. - Hai mantenuto la tua promessa, Dunamis - disse. Si, aveva salvato Zaira perché lo aveva giurato. Non rispose, nel trionfo che era riuscito a ottenere sentiva il sapore acre di una sconfitta. Annuì e attese che Thanatos scomparisse dalla sua vita, da Astos, dal mondo che aveva sconquassato, lasciandolo a pezzi. Attese che se ne andasse e sperò di non doverlo rivedere mai più. Thanatos si dissolse, osservato da lontano anche da Zaira, dietro a tutti, pressata contro il muro, le mani ancora legate dietro la schiena. Certo, Thanatos se ne stava andando e lasciava anche lei nell’enorme guaio che avvolgeva la rocca cara ad Artemide. Certo, lui se ne andava dopo averle carpito un bacio e riscattato una colpa che neppure conosceva. Cosa ne sarebbe stato di lei? Non aveva possibilità di salvezza, di eludersi, di scomparire come al dio era permesso. Certo, Thanatos se ne stava andando, mentre lei doveva


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restare. Gettò la spugna dentro di sé, non trovò né la voglia né la forza di lottare ancora. Non aveva più nulla da dire. Basta. Alla visione delle miniere di Ades si sostituì la stanza del palazzo e la porta tornò a essere di legno. I presenti osservarono quel nuovo prodigio con i fiati sospesi. La paura e i rischi li avevano provati, erano affaticati, segnati sui volti da profonde rughe, gli occhi arrossati, desiderosi soltanto di riposo. Nonostante il tocco di un dio, anche Dunamis aveva l’aspetto stanco, le spalle leggermente incurvate e il passo trascinato. Si voltò verso coloro che lo avevano aiutato e ebbe l’espressione di un sovrano indiscusso; il suo orgoglio fu abbagliante, anche la durezza del suo respiro lasciò presagire che era tornato a essere il figlio del lupo. Volse gli occhi verso la finestra aperta, oltre la quale la neve non aveva smesso di cadere, il vento era cessato, ora i fiocchi leggeri erano piacevoli alla vista. Rimase immobile a osservare quello spettacolo. - E’ finita – fu Alopex a parlare. Dicaia non trattenne un sospiro. - Siamo salvi – aggiunse Flogos ed abbracciò Schià che lo lasciò fare. - Gli dei lo hanno voluto – commentò Fos che strinse a sé la piccola Ormè, ancora turbata dal silenzioso addio di Thanatos. - Gli dei – ringhiò accanto a lei Aimatos che non smetteva di fissare Dunamis, il quale invece non sembrava prenderlo in considerazione. - Astos è salva – concluse Dicaia, parandosi davanti a lui, soldato sino in fondo. Solo allora l’uomo tornò alla realtà e la fissò senza sorrisi. - E gli dei vi concedano il loro favore per il valore dimostrato – rispose austero, ricevendo un cenno di approvazione dall’amazzone che fece un passo indietro in segno di rispetto. La superò per porsi davanti ad Aimatos e a quella che comprese essere tutta la sua famiglia. Diede un’occhiata a Ormè improvvisamente timida. L’attenzione del figlio del lupo si rivolse ancora ad Aimatos che diffidente come sempre lo teneva sotto controllo. Si appoggiò su un ginocchio, il capo corvino chino, gli occhi al pavimento di pietra. L’altro non si mosse e attese, i denti stretti, gli occhi diedero una fugace occhiata a Zaira: era atterrita e confusa, vinta dalla consapevolezza di avere sbagliato tutto. Scorse se stesso con il simbolo del potere su Astos appeso al collo e guardò Dunamis prostrato. Cercò di fare mente locale, di valutare l’accaduto con obiettività. Vagliò ogni respiro degli ultimi giorni, ogni parola, pensò anche a Thanatos che era un dio nefasto, che pur senza il pieno potere era stato in grado di causare un disastro. Thanatos era un dio e loro erano solo mortali. Fos osservò il prediletto di Artemide con l’espressione benevola del suo nobile animo, sospesa tra l’orgoglio e la compassione.


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- Vengo al tuo regno da impervi sentieri, potente sovrano. Ti giunga il mio affaticato saluto perché io possa avere l’ospitalità che Zeus tonante ci impone - lo salutò il figlio del lupo. Lo fece come si addice a un re e mantenne anche la promessa fatta alla donna che gli aveva salvato la vita. Lei se ne rese conto e chiuse gli occhi, distogliendo lo sguardo da quell’uomo abituato al potere e ora alla stregua di un semplice pellegrino, se non di un servo. Quante altre sconfitte avrebbe dovuto subire Dunamis di Astos per espirare un passato sanguinario? Se lo chiese, ma non trovò risposte. Il silenzio inaspettato di Aimatos sorprese un po’ tutti che, certi della sua integrità morale, avevano scommesso sul suo rifiuto di un regno che non gli apparteneva. Il suo sorriso adombrò il legittimo sovrano che lo studiò. - Ti concedo quanto chiedi e rispetto le leggi del padre di noi tutti – rispose a bruciapelo. Nell’aria ci fu una sorta di brivido ghiacciato. L’altro non battè ciglio. Si era aspettato un modo d’agire diverso dall’ex schiavo, ma era anche vero che, nel momento in cui gli aveva dato in mano Astos, lo aveva fatto con la convinzione che lui potesse governarla giustamente. Si rimise dritto. - Siano disposte le stanze migliori per gli ospiti di Aimatos di Astos! – sentenziò. Quell’epiteto stridette in Dunamis come una nota spezzata sulla corda di una cetra malandata. Aimatos di Astos, da non credere. Il nuovo re fece per andarsene dopo un gesto ai servi perché liberassero Zaira dalle corde che ancora le serravano i polsi. - Ospiti? – lo richiamò. Aimatos gli diede il profilo e sorrise capzioso quanto lui. - Un re decaduto, ingiustamente certo, ma decaduto e la straniera eletta dal Fato che merita rispetto – rispose. Dunamis lo raggiunse con pochi passi. - Che gioco stai giocando? – si accostò a lui. Aimatos non evitò i suoi occhiacci. - Il mio - lo fulminò oscuro. Fos e Ormè lo seguirono. Gli altri si elusero per non dover affrontare discorsi che non sarebbero stati in grado di sostenere. Nel corridoio rimase solo con la figlia del futuro appoggiata alla parete, il fiato grosso e la testa a dolerle per tutto l’accaduto. La guatò e lei lo sostenne, niente affatto remissiva, piuttosto uguale a lui nell’ira. - E’ la seconda volta che perdo il mio regno per causa tua, sgualdrina – fu pesante. - Evidentemente le lezioni non vi servono a niente, è la seconda volta che venite a cercarmi in cambio del vostro stupido regno! – lo offese con la sua stessa ferocia. - Il tuo amico di sempre si è tenuto Astos e tu ancora una volta hai le spalle coperte, mentre io ancora una volta ho il fango alla gola – l’accusò.


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- Oh! Quanto vi lamentate per il destino avverso che vi sta travolgendo! Quanto la fate lunga con la vostra finta convinzione di avere perduto tutto e con la vostra squallida messa in scena di poter sopportare ogni cosa perché in fondo siete stato voi a volerlo! Anch’io inizio ad annoiarmi, quando vi ascolto con le vostre parole grosse, con la vostra alterigia, con la vostra certezza intrinseca di uscirne sempre incolume! Quindi… - gli rovesciò addosso un mare di parole e fece per andarsene, ma il figlio del lupo le afferrò il braccio. - Quindi? – la esortò sibilante. - Fatela finita! Evitatemi il tedio di dovervi ascoltare! – sbottò. Con uno strattone si liberò. - Sei fortunata, piccola serpe. Trovi sempre qualcuno che ti protegge mosso dai sentimenti che sai infondere e sei sempre salva! Sei davvero fortunata ed ora te ne puoi vagare per il mio palazzo senza l’obbligo di andartene… Davvero fortunata - sussurrò, mentre la osservava andare verso la sala del trono per sapere quale stanza le fosse stata assegnata. - Sono un’eletta del Fato e poi questo non è più il vostro palazzo – gli rammentò irritante. Lo sguardo del re vibrò alla sua scomparsa e il desiderio di vendicarsi emerse come una bestia dal suo animo scuro.


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Capitolo XIV LA SPADA DEL RE

Dunamis entrò nella sala da pranzo che gli altri erano già riuniti per iniziare la cena. C’erano anche il re e la sua famiglia. Si fermò sulla porta. Le cure delle ancelle lo avevano riportato al suo aspetto originario. - Dunamis, tu sia il benvenuto alla mia mensa – lo invitò Aimatos ironico. Lo guardò con sufficienza accomodandosi lento accanto a Schià che sorrise, senza ricevere attenzione. - Ti giunga la mia gratitudine – disse. Una serva versò del vino nel rithon d’oro. Iniziarono ad arrivare portate abbondanti, il nuovo sovrano aveva dato fondo al meglio per quel semplice convivio. - Dunque, la decisione è stata presa stanotte su consiglio della mia saggia consorte - esordì dopo un po’ l’ex schiavo. Fos, la saggia consorte, lo guardò indifferente alla sua pantomima. - Di cosa parli? – chiese Flogos. Dunamis correva con gli occhi su ognuno di loro. - Dicaia – L’interessata si svegliò dal disagio che percepiva dall’arrivo del figlio del lupo. - Dicaia della Città Bianca è il nuovo comandante che ad Astos manca visto che uno di noi è divenuto re! – rise soddisfatto. L’amazzone tossicchiò per non farsi andare di traverso il boccone. - Cosa… - balbettò presa alla sprovvista. - Hai dimostrato di essere forte e valorosa. Senza te ed Alopex, il nostro ospite ora non sarebbe tra noi, ma sulla rive dell’Acheronte a versare l’obolo al tetro traghettatore - fu ampolloso, un leggero movimento delle spalle di Dunamis lo interessò. - Scelta molto oculata – il figlio del lupo meravigliò tutti sostenendo la tacita sfida del nuovo re. - La stessa che avrei fatto io, anche se io non avrei mai accettato l’elemosina di un regno - lo stoccò. Aimatos incassò e con un gesto del capo lo invitò a spiegarsi meglio. - Faresti meglio a restituirmi ciò che mi appartiene – non tergiversò, la rabbia e la sensazione d’inferiorità lo stavano consumando, senza il potere si sentiva nudo e non amava sentirsi nudo.


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- Non lo farò – lo zittì l’altro. I fiati dei presenti si bloccarono per un attimo. - Non sei mai stato un vile – giocò la carta della lusinga senza distogliere gli occhi. - Non ti permetterò di accanirti su di lei – non tacque il motivo che gli impediva di fare ciò che era giusto. - Sbagli, quella sgualdrina merita una lezione – ringhiò l’altro. Solo accennare a Zaira lo irritava e in quei giorni di riposo aveva evitato di incontrarla per non dover sopportare la vista del suo sciocco trionfo. - Strano modo di parlare della tua sposa – lo schernì. - Io non ho alcuna sposa – sibilò truce. L’ex schiavo stava per ribattere, quando qualcuno interruppe la discussione. - Il figlio del lupo ha… come si dice? Ripudiato? Si, ripudiato la sua sposa! – s’intromise Zaira alle spalle di Dunamis. Gli altri la videro entrare, indossava gli abiti donatole da Thanatos. Schià e Flogos si voltarono, Dunamis no. - Chi lo avrebbe mai detto che il guerriero dei guerrieri un giorno avrebbe desinato con il servo dei servi e che… oh! Il servo sarebbe divenuto re ed il re servo! – calcò il timbro della voce sull’ultima parola, sistemandosi dietro a Dicaia e quindi davanti a lui che non la guardò. Zaira volse l’attenzione ad Aimatos. - Devo ringraziarti, novello re di Astos! Se tu non avessi disposto come hai fatto, il figlio della bestia randagia mi avrebbe uccisa! Cosa posso fare per… - fu zelante e plateale. - Faresti meglio a tacere e ringraziare il Fato se hai ancora un respiro in gola – sussurrò il figlio del lupo, osservando la coppa aurea, rifiutando di alzare gli occhi su di lei. - Il Fato, il responsabile di tutto! Della vostra inettitudine ed ora della vostra viltà! – esclamò folle. La saettò, trattenendosi a stento, pronto a scattare. Dunamis non riconobbe Zaira, cozzò contro un’alterigia e una sicurezza che non avevano mai fatto parte di lei, lo scintillio sinistro degli occhi lo turbò, la guardò a lungo per cogliere una luce pietosa, quella della disperazione con la quale lo stava stuzzicando. - Neppure più capace di riprendervi il vostro regno - aggiunse in cerca di guai. A quel punto si alzò di scatto, lo scanno dietro di lui a cadere, le mani sul tavolo, il rancore negli occhi. - Non giocare con il fuoco, Zaira – si portò in avanti. Dicaia si scostò quando anche la figlia del futuro puntò le mani e evitò così d’essere travolta. - Quale fuoco? Il vostro? – alzò un sopraciglio. - Non lo fare – precisò.


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- Non mi fate paura, non me ne avete mai fatta e non farò eccezione adesso! Ma guardatevi! Spogliato di tutto, anche della dignità! Al cospetto del servo che avete sempre odiato in nome di una devozione che vi ha fatto perdere tutto! Mi fate ridere e visto che posso farlo… rido! – non smise di mettersi nei guai, perché lei era fatta così. Se ogni cosa era perduta, era solita peggiorare la situazione. Non c’era soluzione e non si tratteneva in nulla! Mentre parlava affogava negli occhi di Dunamis, si innamorava di lui con la nostalgia di un amore perso e si faceva male, se ne faceva per poi potersi dire vittima e giustificare altri errori che si sarebbero accavallati all’infinito. Voleva che tutto andasse a ramengo, poi se ne sarebbe andata all’inferno. - Sei un’ingrata senza cuore ed io ho creduto che tu fossi una donna - si intromise Schià, ricevendo dalla straniera un’occhiata di compatimento. - Stai zitta, bambina ignorante e sputa sentenze! Da tempo ti sopporto con i tuoi alti ideali e ne ho piene le tasche di te! Sempre a sbavare dietro ad un re per poterti parare le spalle, per conquistarti una vita decente! Credi che non ti abbia capita? Hai trascinato qui Flogos perché non ti piaceva la vita da poveraccia cui appartenevi! Stai zitta e fatti i fatti tuoi! – la insultò, facendola scoppiare in lacrime, mentre il compagno non raccolse quella provocazione, pensava che fossero tutti impazziti. - Siete una massa di ignoranti intenti a scavarvi la fossa uno con l’altro per poi caderci dentro! – decise di inimicarsi tutti, anche colui che la stava proteggendo. Aimatos non reagì. Fos abbassò lo sguardo. Ormè continuò a mangiare. Dicaia osservò Alopex che fece spallucce e si alzò. - Va bene, credo che il dovere ci chiami! E’ stato un piacere riunirci tutti in amicizia, ma io e Dicaia dobbiamo proprio lasciarvi, lei deve capire come muoversi con il nuovo incarico che il re le ha… - parlò dirigendosi con la donna verso la porta. - Falla finita e sparisci se vuoi sparire! – lo interruppe la figlia del futuro. - Bene, ci siamo capiti! – uscì dalla sala con Dicaia che si affrettò dietro di lui. Intanto Dunamis le entrava dentro con la certezza di turbarla, di renderla vulnerabile. Non si sbagliava. - Per come la vedo io, questi tuoi sforzi sono inutili, Zaira. Non tentare di peggiorare la tua situazione che è già disperata di suo – le disse con calma. - Non crucciatevi per me, maestà - usò quell’epiteto per colpirlo ancora e ancora lui non raccolse. Si sedette nuovamente e sorseggiò il vino. - Continui ad essere fortunata e confesso che questo mi irrita, la sorte è sempre benevola con te che non meriti più nulla, mentre pare accanirsi contro di me che ho salvato tutti in cambio dell’inettitudine dell’uomo comune - parlò da solo, con i singhiozzi soffocati di Schià a fare da sottofondo.


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- Avete una spada - lo incitò senza senso indicando Aimatos che a sua volta portò la mano al fianco per non farsi trovare impreparato. L’ingratitudine di Zaira fu inaspettata e deludente. Dunamis si alzò imperioso, diede un’occhiata sia a lei che al nuovo re, per poi sorridere oscuro. - Non respirerò la stessa aria che respiri tu nel mio palazzo e non mi sporcherò le mani con il sangue di un uomo che mette te davanti alla sua famiglia. Sia, io gli ho concesso il titolo che porta ed io non ne reclamerò più la restituzione – sentenziò. Zaira comprese prima degli altri che era in procinto di andarsene e superò il tavolo per porsi dietro di lui, a pochi metri. - Vile – sibilò sottovoce. Lui la udì. - Attenta, Zaira. Non ho più nulla da perdere – l’avvisò. - Siete uno sconfitto – non cedette. Aimatos ritenne opportuno alzarsi e con lui Flogos. - Posso tagliarti la gola adesso, senza che neppure te ne possa accorgere - la schiena si incurvò leggermente, rendendolo spaventoso nella sua insolita pacatezza. - Saprei difendermi, io al contrario di voi, resto una guerriera – lo rimbeccò. Era davvero pazza, lo pensarono tutti. Le fu addosso in un lampo. Caddero al suolo. Il colpo più forte lo subì lei, alla schiena, ritrovandoselo sopra con tutto il peso: le mani a bloccarle le braccia in una crocifissione orizzontale, il volto adirato davanti agli occhi, il fiato caldo a inondarle il viso. Era ferreo nella presa, immobile come una statua nella capacità di immobilizzarla, di farle capire che se avesse voluto avrebbe potuto spezzarla come un ramo. Rimasero fermi per attimi interminabili, uno sul punto di porre fine a quel tormento, l’altra decisa a farsi annientare. Si fissarono in profondità, cogliendo uno dell’altra ogni sentore, tremore e remora. Sapevano leggersi a vicenda, non erano in grado di ingannarsi Aimatos e Flogos intervennero, senza che Dunamis opponesse resistenza. Abbandonò la preda e si rialzò, sovrastandola con tutta la sua altezza, dandole un ultimo sprezzante sguardo. Abbandonò la sala e con essa, lo capirono tutti adesso, anche Astos. Aimatos lo seguì lungo i corridoi per fermarlo. - Non lo fare, non è questo che il Fato ha disposto – la mano sempre sulla spada, non si fidava di lui. - E cosa ha disposto, Aimatos? – lo interrogò allo stremo. - Sto salvando la vita della donna che ami. Se non lo facessi, il giorno in cui comprenderai cosa è accaduto non saresti più in tempo – svelò le proprie intenzioni. - Ciò che è accaduto mi è già chiaro e non ho alcuna intenzione di… -


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- Stai mentendo a te stesso, non potrà essere per sempre! – lo riprese. - Scansati, servo sul trono - lo apostrofò. - Io l’ho amata - lo freddò. Guardò oltre di lui per esser certo di non essere udito dagli altri. - L’ho amata e quando l’ho perduta il mio cuore è andato in frantumi ed ho creduto di poter morire - confessò, la passione nello sguardo chiaro, la voglia di non permettergli di fare un errore. - Perduta? – sorrise scettico il figlio del lupo. - Capire che amava solo te e che nulla avrebbe potuto dividervi… - fu conciso. - Sei patetico – lo ignorò deciso a superarlo. - Il Fato mi ha salvato facendomi incontrare Fos, ma non salverà te dopo averti concesso la donna più importante dell’intera Ellade, colei che ha solcato le lande del tempo – insistette. Non lo convinse. - Nessuno ti aiuterà questa volta – concluse. Il figlio del lupo sorrise. - Non ti preoccupare per me, nuovo re di Astos. Pensa piuttosto ad Astos, cara ad un dio – gli ricordò. Aimatos finalmente lo liberò dal proprio assedio. - Stai sbagliando – lo richiamò, ma lui non si fermò. - Stai sbagliando – ripetè a se stesso, mentre il peso del regno iniziava a gravargli sulle spalle. Fos entrò nella sala del trono e scorse Zaira seduta ai piedi di una colonna. Provò pietà per la sua disperazione che poteva vedere bene. - Cosa accidenti vuoi? – l’aggredì, giusto per non cambiare le abitudini, dopo essersi accorta di lei. - Il tuo astio nei miei confronti è fuori luogo, Zaira - la redarguì dolcemente. - Stai al posto che il Fato aveva destinato a me ed assumi quella tua aria superiore per mettermi in difficoltà. Non ci riuscirai. Sei come tutti gli altri – voleva scatenare ira e odio. - Non ti ho fatto nulla ed ho salvato il tuo sposo da morte certa – ignorò l’arroganza per riuscire a interessarla. Zaira aggrottò le sopraciglia. - Non puoi sapere della morte di Dunamis, non eri qui – si sedette con lei che si ritrasse. - Non mi sembra sia morto – ironizzò. - Il Fato lo ha graziato, era destinato alla mano di Thanatos cuore di ferro – spiegò. - Fammi capire, Fos. Sei qui per impietosirmi? Dunamis di Astos non ha bisogno di alcuna pietà – e la principessa colse in lei la stima per l’uomo che ora dimostrava di detestare. Ne fu compiaciuta, decise di calcare la mano.


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- Credo che tu debba sapere – - Io invece credo di non avere il diritto di sapere nulla, Fos! – si ribellò a quello che sentiva essere un momento capace di spezzare le sue difese. Fece per alzarsi e fuggire, come suo solito, ma la principessa la trattenne con il tocco lieve della mano. - Il suo sangue ha aperto la porta che gli ha permesso di salvarti la vita, il sangue che ha versato sulla pietra di Astos per essere graziato dal Fato – non perse tempo. Zaira le riservò disprezzo. - Ha perduto tutto – aggiunse. - Ha voluto perdere tutto. Si è divertito a fare la vittima degli eventi, è un bambino capriccioso che sta battendo i piedi per terra perché le cose e le persone non sono come vorrebbe lui. La prima della lista sono io che non ho abbassato il capo davanti alla sua magnificenza! Cosa devo sapere? Quello che so già, che ha giurato su Ades l’invisibile al cospetto di un dio di salvarmi ed è stato costretto a farlo! Aveva tutto, cosa è venuto a cercare alle miniere? – - Aimatos, per mantenere la promessa fatta a me, e te - Appunto, me! Ed ora ha il rispetto degli dei, un regno se lo troverà presto! – - Era morto. Il suo respiro era un rantolo, il cuore batteva piano ed il sangue non cessava di uscire dai suoi percorsi. Era morto ed io ho pianto per lui – continuò, ignorando la sua rabbia. - Nyx mi ha indicato una strada incerta da percorrere. Nel disgusto e nella paura l’ho salvato. Era morto – non si fermò, ci metteva enfasi, senza però interessarla. - Ti aspetti che ti ringrazi per questo? – fu la domanda della straniera. Fos scosse il capo in segno di diniego. - Non mi tocca più di tanto il fatto che fosse morto, per me lo è stato dal momento in cui mi ha fatta legare ad un palo sotto la neve gelida senza concedermi neppure il tepore di un mantello! E’ morto in quel momento e quello che ho visto poco fa è solo lo spettro dell’uomo che ho amato e che amerò sempre, ma che non c’è più! – si sfogò. La principessa socchiuse gli occhi per reggere il suo impeto. L’aveva toccata, questo le bastò per avere speranza, per credere che il patimento di Aimatos potesse finire. Il suo sposo aveva cercato di mettere a posto le cose e ora si ritrovava con il marchio del vile che aveva strappato il trono a un glorioso. Lo conosceva, la pensava così. - Ha accettato il giuramento di salvarti, anche se avrebbe potuto rifiutare – la spense. Fu per un secondo, ma la spense.


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- Nessun immortale può imporre il suo volere ad un graziato del Fato, neppure Thanatos – la fece arrossire, poi sbiancare. Zaira non parlava, permettendole di svelare ogni arcano. - Tu saresti morta, Ades il ricco non concede pietà – la figlia del futuro tremò nascostamente. - Solo tu saresti morta, noi tutti eravamo in salvo – precisò, l’altra respirò profondo. - Thanatos non avrebbe potuto salvarti, non avrebbe potuto commettere lo stesso errore che ha fatto con Ormè. Saresti morta, in poco tempo. Ciò che il dio della morte ha fatto è stato solo dare tempo a Dunamis per raggiungerti – sembrava una storia destinata a un bel finale. - Dunamis ha giurato sul proprio sangue di salvare la tua vita, avrebbe potuto rifiutare e questo lo sapeva – ripetè quel concetto con la flemma necessaria per penetrarla fino al cuore. - Ha cercato la gloria – sussurrò ferrea, ma la sua voce era tremula. - Cos’è la gloria al confronto della grazia di colui che tutto dispone? – concluse Fos, poi si alzò fingendo stanchezza. Guardò il vuoto e infine la straniera che era confusa. - Cos’è? – cercò una risposta che non ottenne. Raggiunse l’uscita della sala. - Come vedi non mi sono sbagliata. Credo che tu debba sapere – la salutò. Zaira rimase immobile, si appoggiò alla colonna e scrutò tutto intorno in cerca di qualcosa che non trovò. Le girò il capo, il cuore in gola e il freddo dell’ambiente ad avvolgerla. Le parole di Fos erano state frecce nel petto e il ricordo dell’ultimo sguardo del re allagò i suoi occhi sparuti. Non aveva capito niente. Neppure lui. Neppure gli altri. Non aveva valutato, non aveva pensato. E adesso? Il desiderio di scomparire, come suo solito, fu violento, una specie di vergogna la fece sentire di troppo, un’intrusa, la responsabile dei dolori e dei patimenti di chi le era accanto. Se li era inimicati tutti con parole grosse, non aveva risparmiato nessuno. Scomparire era la cosa migliore. Camminò nella sala. Guardò il trono del sovrano e poi quello che era stato destinato a lei, ancora divelto, monumento alla sua superbia e ai suoi errori che adesso sarebbero stati infiniti, proprio come aveva voluto dal ritorno ad Astos. Il tempo passò lento, scandito dal silenzio della neve che continuava a cadere nonostante l’estate alle porte. Astos era isolata, il nuovo re ne aveva preso coscienza, osservando il regno consumarsi negli stenti e nella fame. Le riserve di cibo stavano finendo, i mercanti non riuscivano più a entrare, anche la strada per Delfi era impraticabile. Mancavano orzo, uva, vino e gli armenti si stavano assottigliando. L’esercito iniziava a risentire del clima impieto-


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so e gli addestramenti erano sempre più duri, quando la neve lo permetteva, se non nulli per giorni. L’unica attività militare era il controllo della reggia. Il palazzo era in pericolo negli ultimi tempi, il malcontento serpeggiava, le voci di gruppi decisi a spodestare il sovrano per liberarsi di una maledizione cominciavano a farsi insistenti. - Un bastardo fino all’ultimo - disse Aimatos. Non voleva sedersi sul trono, non lo aveva più fatto dal giorno in cui Dunamis era scomparso senza lasciare traccia di sé, seguito da Zaira della quale nessuno aveva avuto più notizie. L’ultima a vederla era stata Fos. Non era andata con il figlio del lupo, se così fosse stato sarebbero tornati e lui avrebbe reclamato il titolo. Semplicemente se ne erano andati, non era possibile immaginare dove, considerando le strade ostruite dentro e fuori le mura. - Stiamo reggendo bene la situazione, le scorte non sono esaurite e presto ci sarà il disgelo, il popolo ha fame, ma non è allo stremo – lo tranquillizzò Alopex che aveva disposto una fitta rete di spie per essere aggiornato sulle mosse dei gruppi sovversivi. - Non basteranno le concessioni che abbiamo fatto attingendo alle scorte reali, presto finiranno anche quelle – lo contraddisse Flogos preoccupato. - La neve non sembra diminuire, anche gli addetti al controllo del palazzo sono esausti ed i turni sono sempre più corti, la sorveglianza meno serrata – aggiunse Dicaia. Il re li guardò. In testa aveva sempre Dunamis e la sua sottile vendetta. Lo aveva reso sovrano di Astos, ma gli aveva lasciato un regno sull’orlo del collasso e l’odore della rivolta spesso lo svegliava nel cuore della notte. Nessuno come lui poteva riconoscere il rumoreggiare sordo dell’insoddisfazione. Nessuno poteva prevedere meglio di lui un’insurrezione generale. Da non credere! Stava dissanguando il tesoro per sopravvivere e se il tempo non fosse migliorato, non sapeva con quali mezzi avrebbe affrontato la situazione. Le voci sulla maledizione di Astos erano ormai incontrollabili, ritenendolo il solo responsabile perchè aveva destituito il figlio del lupo. Nel paradosso quel che più lo irritava era il fatto che il popolo rimpiangeva Dunamis, colui che aveva vietato per anni di pronunciare il proprio nome, che aveva tiranneggiato e fatto schiave le donne più belle, ma anche colui che aveva dato pregio e lustro alla rocca, benessere e fama, forza e invulnerabilità. Ora il regno era in ginocchio perché sul trono non sedeva il legittimo re. Poteva udire questa convinzione con il vento che soffiava nelle strade e a volte penetrava sinistro all’interno della reggia. Dunamis… se mai un giorno lo avesse incontrato, non gli avrebbe risparmiato il disprezzo e non si sarebbe astenuto dalla più efferata vendetta. Dunamis… Schià assisteva tacita a quelle perenni conversazioni, osservava i compagni che tenevano a bada la gente con promesse e concessioni, che si davano un


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gran da fare, affidandosi alla forza oppure all’ottimismo. Erano tutti in pericolo e il tempo stava finendo, agli sgoccioli scandiva un evento che niente avrebbe potuto frenare. Di tanto in tanto si assentava senza che alcuno se ne accorgesse, gli impegni e gli obblighi erano tanti, la continua necessità di stare in guardia portava i comandanti a turni massacranti di interi giorni senza dormire, tanto che il re stesso si prendeva l’onere di dirigere i movimenti dei soldati per preservare l’incolumità del palazzo e dei suoi abitanti. Scompariva senza giustificazioni e tornava senza essere notata. Schià di Delfi restava Schià e le sue convinzioni non erano mai scemate, neppure con la fine alle porte, nemmeno con la maledizione terribile e irrimediabile che incombeva su Astos. - Dammi un solo motivo per il quale dovrei tornare ad Astos e riprendermi il mio regno, dopo che io stesso l’ho ceduto – chiese Dunamis senza voltarsi, continuando a fissare il fuoco all’interno della caverna celata dalla selva di Artemide, dove aveva scelto di stare in attesa di abbandonare la Focide. La neve aveva bloccato le sue intenzioni, ma era certo che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato e si sarebbe lasciato tutto alle spalle, ogni cosa, anche se stesso. Schià avanzò. Non era la prima volta che lo raggiungeva nell’antro e aveva mantenuto la promessa di non svelare a nessuno il suo rifugio, neppure a Flogos. - Il popolo vi reclama – disse, memore delle ultime notizie poco rassicuranti ottenute dalle spie assoldate. - Il popolo reclama sempre ciò che non ha ed io conosco il volgo abbastanza bene per sapere che se mai dovessi tornare, reclamerà Aimatos – sorseggiò del vino da un otre. Glielo portava lei, non gli faceva mai mancare il cibo, anche se le scorte erano esigue. - Gli dei vi stanno reclamando – mirò alla sua devozione. Questa volta Dunamis non trattenne una grassa risata, gli occhi arrossati dalla vita precaria che aveva scelto, la barba incolta. - Gli dei non possono nulla contro di me, sono un graziato del Fato e la mia devozione non mi rende più loro schiavo! – sentenziò. Quelle parole erano paragonabili a una bestemmia. Chi era stato graziato dal Fato aveva un raggio d’azione superiore rispetto agli altri mortali, gli dei non potevano attuare i loro inganni, come era sempre stato per Zaira. Schià prese fiato. Non lo temeva, lo sapeva innocuo con lei, amico, nei limiti e nelle modalità distorte che poteva avere l’amicizia per lui. Lo raggiunse e gli porse un sacchetto con della carne fresca. Sistemò i pezzi in un bastone per metterli sulle fiamme.


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- Moriremo tutti - si lamentò. Dunamis spense il sorriso sulle labbra e la scrutò come non aveva dimenticato di saper fare con le donne, mettendola in imbarazzo. - Io no, Schià. Non posso morire due volte. Resta con me e ti salverai – le accarezzò la guancia, facendola arrossire, trovandola tenera, una piccola donna che gli dava ancora fiducia, che lo aiutava e che lo considerava, a scapito di un amico, il vero sovrano. - Non lo farò - sussurrò. - Lo so. Il tuo cuore è grande ed il tuo amore per Flogos non ha limiti. Lo so, purtroppo. Rinuncerò anche a te, mia piccola amica, anche se con il cuore in mano – la prese in giro. Lei ebbe una smorfia di disapprovazione. L’uomo si mise a fissare il fuoco che gli dava benessere. - Perché questa scelta? Perché state rinunciando a voi stesso? – riprese un discorso che andava avanti da mesi senza essere mai giunti a niente. Dunamis ebbe un’espressione esasperata. Non le rispose, come sempre. - Non ha senso, Aimatos non vuole Astos – insistette. - Non gli piace essere re? – la interrogò divertito. Lei scosse il capo. - Peccato, dovrà abituarsi ad esserlo, il Fato questo ha disposto per lui – sbuffò e controllò la carne. - Voi avete disposto questo per lui, non il Fato! Il Fato vuole voi sul trono altrimenti questa maledizione non avrebbe motivo d’essere! Non vi importa nulla di ciò che avete sempre difeso con ogni mezzo, lecito ed illecito? – non mollò la presa su di lui, anche perché raramente riusciva a farlo reagire. - C’è stato un tempo in cui tutto questo era importante per me, in cui perdere il trono significava il totale annientamento, in cui la gloria del mio regno m’innalzava agli onori degli immortali ed alla felicità umana che mi era stata concessa. Ma quel tempo è finito. Nulla di ciò che ho lasciato mi dà più emozione ed il silenzio di quei corridoi mi spezza al solo pensiero – confessò. Era il vino a dargli parole che non avrebbe mai detto. L’amica colse in quelle frasi il nome nascosto che non avrebbe più pronunciato, che non voleva più udire. Lo osservò, trovò ancora in lui quella bellezza che l’aveva sempre affascinata, che le aveva sempre fatto credere che fosse proporzionale alla nobiltà d’animo. Colse anche uno scoramento assoluto, una disperazione che lo schiantava e che lo stava trascinando in altro fango. Strinse i denti e poi i pugni. - Voi non siete così, Zaira vi ha sempre descritto diverso – azzardò. L’uomo s’irrigidì e non volle guardarla. - Vattene – fu perentorio. Schià non obbedì, fece per sfiorargli un braccio, ma lui la fulminò veloce con gli occhi baciati dal riflesso delle fiamme.


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- Il nostro patto è stato chiaro sin dall’inizio, Schià, ed hai mancato ad una promessa – Lei tentennò. - Non sarà vietandomi di pronunciare il suo nome che la dimenticherete – lo provocò per svegliarlo dal torpore. - L’ho già fatto – il fuoco si mischiò con quello che divampò in lui e che solo la figlia del futuro, vicina o distante, sapeva accendere. - State mentendo – soffiò a rischio della sua ira. - Può darsi, ma la differenza è minima – ribattè, il respiro accelerato. - Minima, non nulla – lo stilettò irriducibile. Il fragore proveniente da Astos svegliò Dunamis. Ascoltò con attenzione e si alzò. Si era addormentato sullo scanno scomodo davanti al fuoco e la schiena era indolenzita. Si portò sull’entrata della grotta: rumori e grida rompevano il silenzio ovattato dell’ennesima giornata di neve. Non fu difficile per lui riconoscere gli strepitii di una rivolta. Sorrise e pensò ad Aimatos alle prese con un popolo inferocito: lui che da sempre era stato dalla parte opposta. Beh, il gioco era stato mirevole, la sottile vendetta inoppugnabile. Si risedette per ravvivare le braci riprendendosi un po’ dal gelo mattutino e dalla sbronza della sera prima. Sorseggiò altro vino, stava per finire. Si chiese se Schià avrebbe provveduto a rifornirlo, fece spallucce. Poco importava, qualora non fosse giunta avrebbe fatto una battuta di caccia poco fuori la selva, riparato dalla stessa, perchè lì era vietata l’arte venatoria. Pensò a questo passandosi la mano tra i capelli spettinati e chiuse gli occhi in un nuovo riposo. Un rumore, che non proveniva da Astos, lo mise all’erta. Si voltò con la mano serrata sulla spada e socchiuse gli occhi, accecato da un bagliore. Quella luce scemò e mostrò la presenza di Artemide che ferma, sollevata dal suolo come tutti quelli della sua stirpe, lo osservava sottilmente adirata, pronta a scatenare la propria ira al primo sproposito di colui che era stato il suo prediletto. Ora come ora Dunamis non era certo d’essere gradito alla gemella di Apollo. Non disse nulla, rimase immobile, non si prostrò ai suoi piedi, non fu l’uomo che la divina rammentava. Artemide ebbe una smorfia di disapprovazione e avanzò di un passo come a volerlo intimorire. Il figlio del lupo ebbe un moto d’ironia che la offese. - Artemide la virtuosa al cospetto di Dunamis il decaduto? – la salutò acido. - Artemide non giunge mai per nulla al cospetto di un mortale, Dunamis di Astos – lo riprese pacata. - Di Astos, ancora per poco, mia dea dagli occhi delusi – rispose distogliendo l’attenzione da lei, le diede addirittura le spalle, ravvivò il fuoco con dei ramoscelli che crepitarono.


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- Il mio regno sta cadendo nell’anarchia – lo avvertì. Lui non reagì, piuttosto si dimostrò seccato. - Volgi le tue attenzioni divine al re che ora lo governa, un re che io ho scelto per proteggere il tuo regno e la tua selva – fu perentorio. - Il mio regno sta crollando sotto i colpi di una maledizione e la mia selva è violata – non cedette la dea. - Le mie promesse, per quanto dure, le ho mantenute tutte e la selva che sto violando presto sarà liberata dalla mia presenza, se vorrai permetterlo, altrimenti scatena la tua vendetta su di me, saprò sopportare anche questo – non era preoccupato per se stesso. - Sei l’unico mortale cui ho permesso di calpestare questo suolo, non sei tu che stai violando la mia terra – affermò. A quelle parole Dunamis la guardò, lasciando che una luce gli attraversasse gli occhi fermi. Non volle spiegazioni, nel timore di ricevere ‘quella risposta’. - Aimatos di Astos saprà adempiere al suo dovere davanti ad una tua richiesta. Egli è devoto agli dei come lo sono stato io – tagliò corto. Si accorse di avere il cuore in subbuglio, percepì il sapore della vita sotto i denti serrati. - Aimatos di Astos non reggerà a lungo questa situazione, non può farlo – sibilò. - E perché mai? Ho forse sbagliato la mia valutazione? Strano, non mi è mai accaduto - ironizzò. - Il valoroso comandante dei guerrieri rinnegati non è colui che il Fato ha scelto. Potrà difenderlo il regno a me caro con la spada in pugno, potrà salvarlo da attacchi diretti, potrà essere il migliore dei tuoi soldati, ma esso appartiene al figlio del lupo – Era vero. Aimatos era tutto quello che un uomo doveva essere. Tuttavia, il potere che si era ritrovato tra le mani non gli apparteneva. Dentro sentiva l’infamia di un’usurpazione che non aveva commesso. Il gioco di Dunamis era stato crudele, dettato da un momento difficile in cui non aveva voluto ragionare. - Ma la violazione della mia selva mi è insopportabile – aggiunse e ancora Dunamis si rifiutò di chiedere. - Non giocare con la pazienza degli immortali, Dunamis, non lasciare che la tua vita scivoli via, afferra le redini della tua esistenza e compi il dovere che stai sfuggendo a scapito della tua forza – lo avvisò. Lui ridacchiò. - Siete voi immortali che avete finito di giocare con me e questo vi irrita, vi fa correre al mio cospetto per implorarmi di tornare ad esservi devoto, ma io so come stanno le cose. La mia vita è una grazia del Fato che mi ha liberato dalle catene invisibili che mi hanno sempre stretto i polsi – dichiarò. Artemide tentennò.


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- Non ti sbagli – lo sorprese. Lo costrinse a guardarla. Si fissarono. - Sei libero, è vero. Sei libero di scegliere – dichiarò. Era libero di scegliere, era libero di schierarsi con loro o contro di loro, oppure di non schierarsi affatto. Era un gradino più in alto di tutti, era a un passo dalla libertà assoluta, era divenuto cittadino di un mondo infinito. Era libero, senza obblighi, senza diritti. I comandanti avevano organizzato una serrata sorveglianza attorno al palazzo, rinforzandola in fondo alla scalinata, dove gli abitanti si erano riversati con inequivocabili manifestazioni di malcontento. Nonostante gli informatori avessero avvisato per tempo della situazione, quella sortita fu improvvisa per la corte che si ritrovò catapultata nell’emergenza. Aimatos per primo era consapevole d’essere contestato, ma non voleva attaccare o disperdere coloro che un tempo avevano sostenuto la sua guerra contro il tiranno. Ora chiedevano a gran voce che quello stesso tiranno tornasse al suo posto per spezzare ciò che nella credenza popolare era una maledizione: la carestia stava iniziando a mietere le prime vittime tra gli animali che non venivano più nutriti adeguatamente. Presto sarebbe toccato agli uomini, tutto era talmente veloce e la gente non era più disposta ad attendere. La maledizione doveva essere spezzata e Aimatos era chiamato a farlo. - Presentati al tuo popolo, Aimatos. Placa la disperazione, se non vuoi che un regno caro ad un dio crolli sotto i colpi della fame e della miseria – disse Fos allo sposo che tacito, seduto a una delle mense della sala del trono, continuava a cercare un espediente che gli facesse guadagnare tempo. - Non è il mio popolo quello che si è riversato sulla porta di una dimora che non mi appartiene – si lamentò rabbioso. Se uno solo dei cittadini di Astos avesse varcato la soglia della dimora reale, tutto sarebbe precipitato in pochi minuti. Conosceva la forza dell’esasperazione, sapeva prevedere cosa sarebbe accaduto se non fosse riuscito a bloccare l’ondata che spingeva sui cordoni dell’esercito circostante il palazzo nero. Valutò la situazione. Si alzò. Doveva agire, fare qualcosa, se avesse fallito l’ira di Artemide si sarebbe riversata su di lui. Seguito da Fos, percorse i corridoi, per giungere all’aperto, in cima alla scalinata sorvegliata dai soldati agli ordini di Flogos. All’apparire del re la folla ammutolì, questo diede un attimo di tregua. Provò un sollievo effimero che gli permise di respirare per trovare le giuste parole. Fos gli cinse un braccio e sentì la tensione dei suoi muscoli. Corse con lo sguardo sui presenti mormoranti. - Presto! – esclamò. Fece altri passi fino al primo scalino. Le guardie sparse s’irrigidirono. Dicaia e Alopex, in fondo, lo fissarono.


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- Presto colui che vanta il diritto sul regno tornerà a sedere sul trono che ha affidato a me perché la maledizione che ci sta piegando non mieta vittime tra i mortali! – annunciò. All’interno del palazzo dei passi veloci ruppero il silenzio senza essere fermati, non vi erano guardie dentro. Era Schià frettolosa più del solito. Fos guardò lo sposo che con il solo pensiero le fece capire che non c’era altro modo per impedire un’invasione in quel momento. La principessa approvò, anche se non aveva idea di come ne sarebbero usciti. Flogos poco distante aveva in testa le stesse domande. Alopex e Dicaia riuscirono a rimanere impassibili, ma si chiedevano se Aimatos si rendesse conto che così rischiava di prendersi gioco della gente e l’ira successiva sarebbe stata incontenibile. Come pensava di riportare Dunamis sul trono? Il gioco dell’ex schiavo non soddisfò gli animi in fermento, un’ondata antistante cercò ancora di spezzare il cordone di controllo che resse a stento. - Non c’è più tempo e tu sei l’usurpatore che ci sta trascinando nella tragedia! – qualcuno gridò in un coro minaccioso. - Presto! – ribadì senza tradire il nervosismo, era pronto ad armarsi per difendersi, le cose stavano precipitando. Immaginò d’esserci lui tra loro e si vide in prima linea ad ammazzare i soldati. Tremò all’idea di mandare il proprio esercito contro il popolo. - Stai mentendo! Dunamis di Astos è morto e tu lo hai ucciso! Questa maledizione l’hai scatenata tu con la colpa che grava su di te per avere ucciso un prediletto degli dei! – insistette un altro coro. - Dunamis è vivo! – esclamò allo stremo. Con il passaparola, con le leggende, con le dicerie era stata creata una storia del tutto fasulla che aveva avvolto la corte di Astos in un mantello funesto, alimentando l’insoddisfazione fino a scatenare i più sanguigni. - Stai mentendo! – gridò un uomo e ebbe il sapore di un segnale che mosse più gruppi in avanti. Accadde qualcosa. Aimatos si voltò, superando Fos e incontrando lo sguardo allargato di Schià. Dietro di lei c’era la sagoma alta e maestosa di un uomo scuro e provato che incombeva come un dio nefasto, come un tempo Thanatos aveva sovrastato ognuno di loro. Una spada sibilò nell’aria e percorse in discesa la lunghezza della scalinata di marmo, sino a conficcarsi nella parte terrosa. Vibrò sotto la sferza della neve e si fermò, gli sguardi attoniti di coloro che si erano ritrovati a pochi centimetri da quel colpo andato volutamente a vuoto. All’unisono la folla alzò gli occhi e vide colui che avevano creduto morto. Il figlio del lupo era vivo al fianco del re che avevano contrastato. Questo spaventò tutti, ma non si mossero e attesero, come solo il prediletto di Artemide sapeva imporre.


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- L’uomo da me scelto è tacciato di viltà e di tradimento? Chi osa affermare che le mie decisioni non sono state giuste per il mio regno? – chiese. La sua voce profonda spezzò l’atmosfera di Astos. Il figlio del lupo dunque era tornato. Nessuno si chiese dov’era stato. Quella plateale dimostrazione confermava che non aveva perduto la sua forza. Nei cuori spaventati si riaccese la speranza che quel ritorno potesse mettere fine alla maledizione. Dunamis avanzò, dando di sé uno spettacolo poco regale. Non si era premurato di farsi riconoscere nell’aspetto e appariva malconcio, i capelli lunghi e la barba incolta lo facevano sembrare un barbaro. Gli abiti lerci erano sporchi e strappati, una certa magrezza screziava l’imperiosità che lo aveva sempre caratterizzato. Ma il bagliore dello sguardo non era stato intaccato. - Ti ho salvato la vita, ho riscattato il passato che ti ho imposto per anni, Aimatos. Credo che ora tocchi a te, se davvero non vuoi che questa gente salga uno solo di quei gradini – sussurrò senza guardarlo. Fos annuì allo sposo, ma lui aveva già sfilato il sigillo dal collo. Si avvicinò a Dunamis che dritto teneva a bada la folla con la propria presenza, ma non sarebbe durato a lungo. L’oggetto scintillò nel biancore della giornata nevosa, lui lo osservò freddo, rassegnato a riprendersi ciò che era sempre stato suo. Se lo mise al collo e fissò ancora il popolo. Attese, mentre nell’anima non sentiva emozione, non percepiva soddisfazione, si era limitato ad accogliere le suppliche sempre molto convincenti di Schià e aveva salvato il salvabile, tornando a essere in apparenza ciò che da tempo ormai non era più. La folla mormorò, arcigno strinse lo sguardo. - La maledizione è stata spezzata! – urlò una vecchia dal fondo dell’ampio piazzale. La gente esultò. I soldati allentarono la tensione e l’intera corte di Astos comprese di avere scampato il pericolo. Dunamis sorrise sotto la folta barba, l’orgoglio d’essere temuto lo sapeva scuotere. - Devi esserti divertito molto, bastardo! – ringhiò Aimatos sedendosi su uno degli scanni della sala reale, mentre Fos, Dunamis e Schià lo guardavano senza parole. I comandanti erano assenti, impegnati a disperdere la folla nel piazzale. In quei momenti la neve aveva cessato di cadere. La principessa aveva avvertito che si trattava di una semplice tregua e presto la gente avrebbe compreso che la maledizione non era stata spezzata. Forte del titolo che aveva riacquistato, il sovrano non aveva espresso preoccupazione. - Vederti in difficoltà è una cosa che sa divertirmi – rispose il re e guardò il proprio trono dorato, accanto al quale c’era ancora quello divelto di Zaira. Nessuno aveva toccato nulla. - Avresti voluto che facessi massacrare il tuo popolo? – si ribellò l’ex schiavo.


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- Perché no? – lo interrogò disgustoso. Aimatos si alzò per affrontarlo. - Cos’hai voluto dimostrare? Che ti sono inferiore? – lo aggredì, era teso, il pericolo scampato, la tensione degli ultimi giorni e poi il ritorno di chi lo aveva ossessionato per mesi lo rendeva inquieto. Dunamis non rispose. - Il tuo regno è salvo e questo lo devi a me – si impose con uno sbuffo esausto. - Saprò ricompensarti, nobile sovrano di un regno distante – lo stoccò. Fos distolse lo sguardo da loro. - Colgo la sorpresa nel tuo respiro, Aimatos d’Epiro - lo apostrofò, nella barba scura un sorriso scintillò malefico. - Non schernirmi – si difese con la voglia di prenderlo a pugni. - Non avrei mai consegnato Astos nelle mani di chi non vanta sangue reale nelle vene – fu altero. Aimatos non replicò, attese che si facesse capire e se non lo avesse fatto, lo avrebbe davvero preso a pugni. - Di nascita oppure per acquisizione, non fa differenza – Fos si era ritirata in un angolo. Anche Aimatos la guardò senza incontrare la sua attenzione. Dunamis rise e non esitò ad appoggiarsi su un ginocchio nel saluto, quello vero, che aveva promesso di riservargli in cambio della vita che la principessa gli aveva salvato. Lei tremò e chiuse gli occhi lucidi. - Ti ringrazio, sovrano defraudato di Parga cara ad Ades il ricco – si attenne all’usanza. Aimatos si fece serio e realizzò. Non aveva mai pensato a quella possibilità, non aveva mai considerato Fos come la figlia di un re, soltanto come una donna da amare e lui l’amava, l’aveva amata dal primo istante. Non si era posto il problema di Parga e della successione al trono. Non aveva capito niente nella frenesia di rifarsi una vita, di riscattarsi per poi dimostrare al bastardo che aveva davanti di valere qualcosa. Ripercorse con la mente ogni cosa e rammentò il giorno in cui all’accampamento amazzone si era rifiutato di riconoscere Ansal. Lo aveva fatto lui e glielo aveva lasciato fare. Lo aveva fatto lui e il suo saluto aveva sancito il titolo della donna perché era un re, era il re di Parga, lo era sempre stato. Si sentì stupido, poi superiore ai titoli a tal punto da ignorare il proprio. Non ebbe parole, quando il figlio del lupo si levò per guardarlo dritto in faccia. - Voglio i comandanti al mio cospetto, questa sera - ruppe quel momento assordante e Aimatos ebbe un sobbalzo. Si rese conto da solo della funzione che avrebbe avuto ad Astos. - Quanto a te, voglio che raduni i soldati migliori – non si fece attendere. L’ex schiavo inarcò un sopraciglio. - Esigo che organizzi una scorta reale che si occupi della mia incolumità e di coloro che riterrò opportuno e tu ne sarai il comandante, sempre che la tua nobiltà ti faccia accettare la mia proposta – fu oculato. L’altro non tentennò


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e si mise sull’attenti. Trovava insolito che volesse una protezione, ma non lo contestò, dentro aveva il marasma di una scoperta che lo rendeva incerto. - Astos è in pericolo ed io ti aiuterò ad evitare il peggio – rispose fiero. Il sovrano approvò e raggiunse il trono per assaporare il gusto appagante del potere. Incontrò gli occhi di Schià che arrossì davanti a quella che interpretò come gratitudine, doveva anche a lei il posto che aveva ritrovato, ma questo nessuno lo avrebbe mai saputo. Dopo il ritorno del re la neve era caduta meno copiosa e il popolo si era convinto che la maledizione era stata sventata, Dunamis era stato capace di fermare la miseria. Dopo avere liberato le strade, una carovana di mercanti era partita per Delfi al fine di accaparrare delle scorte, usando parte del tesoro del regno. In attesa che giungesse l’estate, che pareva ancora molto lontana, il figlio del lupo non aveva avuto scelta, La maledizione non era affatto svanita, ne era consapevole. Tuttavia, le cose andarono meglio con il ritorno dei carri. Giunse di tutto e ci fu una sorta di festa globale che diede nuova speranza. L’esercito aveva potuto riprendere addestramenti decenti che occupavano gran parte delle giornate dei soldati. Dunamis di Astos non era cambiato nel modo di scrutare il mondo, piuttosto era mutato nel comportamento, aveva assunto un’aria calma e distaccata come se valutasse ogni cosa prima di agire. Appariva paziente e tollerante, ma sembrava costretto a farlo, annoiato e demotivato, dimentico di se stesso. Non trovava nulla nella vita che lo interessasse, teneva solo al proprio prestigio che non doveva essere intaccato e che aveva difeso in estremo, gettando una spada in mezzo alla folla. Non era sciocco, sentiva che presto, se non avesse trovato una soluzione, tutto sarebbe nuovamente precipitato. - Tu sai cosa devi fare e stai disponendo per questo – lo sorprese la voce di Omero che non aveva mai lasciato il regno. Seduto sul trono, volse lo sguardo verso l’angolo dove sapeva celarsi l’aedo. Non rispose. Come Zaira, sapeva che mettersi contro il cantore dei cantori era cosa iniqua e lasciò che fosse lui a parlare. - Stai dando fondo al tuo tesoro per tenere buono il popolo, non potrai farlo per sempre – aggiunse il vecchio, il plettro di diamante fece vibrare le corde della cetra divina. Ancora Dunamis tacque e strinse i denti. Non avrebbe voluto ascoltarlo, ma la disperazione a tratti emergeva in lui con la forza dei ricordi. - Sai bene che tutto questo potrebbe finire in un attimo, contrastare il Fato è da folli, gli espedienti che da buon re quale sei saprai trovare non sono che dei pagliativi. Prima o poi terminerà il loro effetto e sarà la fine, la tua fine – non demorse il cantore con la sua musica a entrare nel cervello fastidiosa.


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- Potrei sfidare il Fato - sussurrò il sovrano. - Potresti, ma non lo farai, la sua grazia ti permette di sedere su quel trono – Non bastava Schià con i suoi silenzi, ci si metteva pure Omero con il suo frastuono. Dunamis giunse nell’arena e osservò la lunga fila di uomini selezionati da Aimatos che aveva accettato l’incarico, sperando ancora una volta di riuscire ad aiutare Zaira, ovunque si trovasse. Era certo che fosse viva. Il Fato non poteva avere disposto per lei la morte dopo l’accaduto, altrimenti niente avrebbe avuto un senso. Il sovrano passò in rassegna la Guardia Reale. L’ex schiavo lo osservò e provò una sottile compassione per lui, per la sua solitudine. - Non avevo dubbi sulla tua capacità di valutazione – diede un’ultima occhiata ai soldati prescelti, i più alti e vestiti di nero con mantelli rossi, per distinguerli dagli altri contingenti. Con un cenno del capo lo indusse a seguirlo nella sala del trono. Le ancelle indaffarate si affrettarono a scomparire al loro arrivo. Si sedette sul trono senza fretta, Aimatos notò che si stava riprendendo velocemente dai patimenti dei giorni dell’esilio. Avrebbe voluto chiedergli cosa avesse fatto e dove fosse stato: il figlio del lupo riponeva in lui molta fiducia, era evidente, ma non sopportava troppa confidenza, esigeva che certe distanze fossero mantenute. Attese che parlasse e incontrò la fermezza dei suoi occhi. - Voglio che setacci la Selva di Artemide con gli uomini che hai scelto – disse e il comandante fece per ricordargli che la selva era inviolabile, che solo il re di Astos era autorizzato a penetrarla. - E’ un ordine del re di Astos ed Artemide saprà accettare le mie decisioni – lo interruppe subito, infastidito dalla sua devozione, la stessa che un tempo aveva animato lui. - Perchè? – non tardò a interrogarlo. - E quando la troverete, pedinatela, informatemi dei suoi movimenti, delle sue azioni, giorno per giorno, ora per ora, fino a quando non deciderò cosa dovrete fare – ignorò la sua domanda e andò al sodo. Qualcosa lo stava inducendo ad andare contro se stesso. Aimatos alzò le sopraciglia, riflettè veloce e ebbe un sussulto segreto. - Di chi stai… - azzardò prudente. - Di lei! – Non volle dire quel nome, lo ingoiò con fiumi di veleno. - Mi fido di te, Aimatos. Mi fido del tuo silenzio – precisò appoggiando la testa contro lo schienale d’oro. Poi il suo sguardo cadde sul trono divelto accanto a sé, socchiuse le palpebre nauseato.


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- Lasciala andare, non ha senso che tu… - cercò di proteggere l’amica. Si sentì felice di sapere, anche se in maniera inconsueta, che era ancora viva e vicina. - Non posso – lo interruppe. Il comandante non trattenne un sorriso compiaciuto. - Non posso farlo o il mio popolo perirà – si dimostrò preoccupato per quello che lui aveva sempre definito volgo e che non aveva mai considerato degno di attenzioni particolari. Aimatos ebbe un’aria interrogativa. - Un re senza un popolo è niente ed io sono un re. Il mio popolo mi serve per continuare ad esserlo – fu amaro. - Cibo e vino stanno chiudendo gli occhi dei ribelli, ma le braci della ribellione presto divamperanno se la maledizione che grava su Astos non verrà meno – concluse. - Gli dei tentano di ingannarmi, ma io so chi tra loro non ha levato l’ala funesta che ci ha messi in ginocchio – aggiunse oscuro. Thanatos. Parlava di lui. - Eseguirò i tuoi ordini, se questo lo fai per il popolo – si mise sull’attenti. Dunamis lo osservò andarsene. Si alzò e si portò sulla terrazza, dalla quale poteva scorgere la Selva di Artemide. La neve iniziò nuovamente a cadere. Il tempo stava stringendo le corde, presto tutti lo avrebbero capito.


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Capitolo XV LE CATENE DI ASTOS

Aimatos e i suoi uomini trovarono la bicocca all’interno della Selva di Artemide. Scese da cavallo e entrò spostando la porta di frasche che riparava poco, che serviva solo per dare un senso di protezione a quel posto misero e privo di tutto. Scorse in un angolo un abito prezioso e consunto, gli bastò per non avere dubbi. Ne strappò un lembo, riconoscibile per la stoffa ornata da minuscole pietre preziose. Tornarono subito ad Astos. Una volta all’interno del palazzo, cercò il re e lo trovò nella sala da pranzo impegnato a studiare altre strategie consone alla situazione con Alopex, Flogos e Dicaia. Nel momento in cui lo vide entrare lo scrutò e comprese che aveva qualcosa da dirgli. Gli altri lo guardarono dubbiosi, ignari delle sue attività segrete. Il sovrano li congedò frettoloso. Aimatos estrasse il lembo di stoffa e glielo porse con mano ferma. Non c’era bisogno di parole, quella era la prova che gli era stato chiesto di trovare. Dunamis lo prese, lo osservò, poi lo gettò sul tavolo. - Tutto qui? Sapevo che si rintana nella selva – era turbato. - Si rintana, lo hai detto – il tono fu recriminante e insospettì Dunamis. - Come una bestia – aggiunse Aimatos. Ciò che ottenne fu un sorriso soddisfatto. Fu sul punto di inveire contro di lui che lo bloccò con un atteggiamento di sfida. - Come sopravvive? – lo interrogò. - Non lo so ancora, i miei uomini la stanno tenendo d’occhio – rispose a labbra strette. - Aspetto i dettagli – concluse e fece per andarsene, ma l’ex schiavo gli si parò davanti. - Una bestia – precisò. - Ho inteso – lo sopportò altero. Usava un linguaggio sopra le righe, si atteggiava per quello che era, manteneva una freddezza che per qualche tempo lo aveva abbandonato. - No, Dunamis. Non hai inteso. Vive come un animale, dorme tra pelli di capra maleodoranti, non so se mangia, non so se… - Quello che non sai lo devi scoprire – lo interruppe cercando ancora di eludersi, ma l’uomo lo fermò nuovamente.


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- Scansati, non attentare alla mia pazienza, Aimatos – lo minacciò. Il livore tra loro era sempre pronto a emergere. - Vai da lei – gli consigliò accorato. Dunamis si lasciò scappare un sorriso amaro. - Pensa a fare il tuo dovere o preferisci delegare qualcun altro, proprio come hai fatto con il trono che ti ho offerto? – volle ferirlo. Aimatos parò il colpo. - Non è più tempo di giocare, ogni giorno che passa rischia la vita – gli fece sapere. Ancora il figlio del lupo sorrise e sfoderò uno di quei suoi sguardi balenanti. - E’ sopravissuta sino ad ora, continuerà a farlo, esattamente come ho fatto io – sibilò. Si liberò di quell’assedio, si liberò del comandante della Guardia Reale. Nonostante il tempo volgesse al peggio, furono indetti dei giochi. Anche quello era uno dei tanti espedienti escogitati dalla corte per distrarre il popolo che si riversò nell’arena anche per usufruire dei doni del re prima delle gare: cibo, vino e quanto altro era stato possibile reperire a Delfi. La gioia dei partecipanti distrasse dai problemi incombenti sul regno che sopportava altra incessante neve. Il tempo stava stringendo sempre più e quel giorno Dunamis non si sarebbe presentato sul palco reale, la sua assenza, con le pance piene, non sarebbe stata notata. Alla fine dei giochi delle danzatrici avrebbero occupato il pubblico solo maschile, come la legge ellenica imponeva. I comandanti avevano giudicato l’idea ottima e Aimatos aveva continuato a svolgere il proprio incarico, riuscendo a sapere più cose sull’ospite clandestino della selva. All’inizio dei primi combattimenti tra popolani e soldati in sfide inconsuete, con il pubblico a ridere e a incitare, il sovrano si trovava nella sala del trono. Attendeva l’arrivo del comandante della Guardia Reale che non tardò a farsi vivo. Lasciò che prendesse fiato prima di parlare. - E’ all’interno del regno – comunicò. Una luce ingiusta si accese negli occhi bui dell’uomo sul trono. - Sta razziando una locanda in questo momento, sembra intenzionata ad andarsene – continuò. Quel giorno era tutto più facile per lei, le vie del regno quasi deserte, i cittadini all’arena ad assistere ai giochi. - Serra la guardia intorno a lei, non permetterle di allontanarsi da quella zona – ordinò. Si alzò. Era giunto il momento di agire, presto tutto sarebbe finito. Indossò il mantello pesante di lana, raggiunse la porta della sala e si voltò verso l’ex schiavo. - Non catturatela, per nessun motivo, accerchiatela e mettetela alla strette, ma non toccatela –


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Aimatos lo superò per raggiungere il punto in cui i suoi uomini controllavano la porta della locanda in attesa che la ladra uscisse. Dunamis nelle stalle montò Zingaro, uscì sulle vie del regno e si portò a pochi metri dai drappelli dei soldati dal manto rosso. Si accorsero di lui e si misero sull’attenti. Nell’arena la neve sembrava essere più fitta, i comandanti si accorsero della perplessità degli spettatori che ammutolirono. Fu Flogos, robusto e invitante per una sfida, ad attirare l’attenzione. Propose uno scontro con chiunque si fosse fatto avanti. Uno dei comandati si offriva allo spettacolo e il gioco fu fatto. Alopex e Dicaia si guardarono sospettosi, stava accadendo qualcosa. Fos, Schia e Ormè erano su palco reale per ordine del re. Avevano accettato di sostituirsi a lui, anche se non comprendevano il motivo per il quale aveva rinunciato a presenziare, nonostante i mezzi spesi per quell’evento. Anche Aimatos mancava, mettendo in apprensione la principessa di Parga e la piccola Ormè che di tanto in tanto chiedeva dove si trovasse il padre senza ricevere alcuna risposta. - Presto dovremo interrompere i giochi – asserì Dicaia preoccupata, gli occhi infastiditi dalla neve. - Non lo possiamo fare, faremo intervenire le danzatrici in anticipo, ma non possiamo fermare questi giochi – la contraddisse Alopex, memore delle disposizioni del re. Stava succedendo qualcosa, ogni componente della corte lo pensava e tremava per questo. Pane, carne, formaggio, dolci di miele e vino in abbondanza colmarono di soddisfazione la figlia del futuro, con un sacco in mano pronta a fare razzia di ogni cosa. Quel giorno sarebbe partita per il Parnaso perché anche le scuderie del regno erano poco sorvegliate e una giumenta sarebbe riuscita a rubarla per percorrere la strada spalata verso Delfi e poi verso il monte sacro. Si avventò su della carne cotta e fredda. Bevve avidamente del latte. Passò al pane d’orzo, sorseggiò anche del vino puro particolarmente alcolico. Di tanto in tanto si guardava intorno per essere certa di non essere colta in flagrante. Riempì il sacco per il viaggio, si voltò verso la porta. Rimase pietrificata. Un soldato dal manto rosso la osservava da dietro l’elmo crinito di piume scarlatte. Chi accidenti era questo? Non ricordava quell’uniforme ad Astos. Forse c’era stata un’invasione e lei, impegnata a non soccombere, non se n’era accorta? Indietreggiò contro il bancone tarlato e cercò un’uscita secondaria che individuò nel retrobottega. Scattò come un gatto. Uscì. Corse nel vicolo buio, scivoloso per la neve fresca. Cadde, ma si rialzò veloce senza percepire l’inseguimento dello sconosciuto. Prese tempo per


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controllare, non vide nessuno. In fondo alla strada vi era un’altra guardia che faceva una serrata ronda, anch’essa con il manto rosso. Girò a destra, si arrampicò, usando dei sacchi impilati, su un tetto e iniziò a saltellare da una casa all’altra in una direzione non definita, solo intenta a fuggire. Continuò a correre, a prendere le misure visive che erano difficili per la pochissima luce che c’era, frutto solo del riverbero della neve che a ogni suo passaggio cadeva dai tetti dando una precisa indicazione del suo passaggio. Un’ingenuità che non valutò, si fermò un paio di volte per riprendere fiato. In quei fugaci momenti si chiese dove stesse andando. Nello spavento e nella premura fu imprudente, scivolò dal basso tetto, cadendo sulla neve sottostante, ritrovandosi immersa nel soffice manto sino alle ginocchia. Faticosamente indietreggiò. La sventura volle che a bloccarla ci fosse un muro: alla fine di quella corsa si ritrovò in un vicolo cieco. A pochi passi da lei Dunamis la osservava silenzioso dall’alto del suo cavallo. Aveva seguito le tracce della neve senza difficoltà, mentre Aimatos aveva diretto gli uomini perché la fuggiasca non andasse in direzioni non raggiungibili. Lentamente, consapevole della vittoria ottenuta con il favore degli dei, si parò sull’unica possibilità di fuga della figlia del futuro. La luce fievole della torcia fissata al muro lo illuminava e il movimento frenetico delle fiamme si rifletteva nei suoi occhi scuri. La ragazza ebbe una paura così sottile da sembrare irreale, da farle credere che si trattasse di un sogno e che presto si sarebbe svegliata, magari tutta sudata e con il fiato corto, ma si sarebbe svegliata nella sicurezza delle coltri di Astos, nel riparo della stanza del palazzo oppure sotto le coperte di pelli della sua tana, dove aveva vissuto di espedienti. Il cappuccio sulla testa la celava, ne fu felice, aveva un aspetto terribile, quello di chi non si lavava e non mangiava da tempo immemorabile. - Zaira d’Enotria - scandì il figlio del lupo e scese da cavallo, mettendola sulle difensive. Il pallore che intravide in lei fu come una luce nella notte, aveva tutto il sangue sotto i piedi, tremava. Si rese conto di averla in pugno, di poterne fare quello che voleva, di avere vinto perché riuscì a cogliere ciò che mai aveva scorto, nemmeno il giorno in cui l’aveva minacciata di morte in quello strano corridoio della sua strana scuola nel suo strano mondo. In Zaira non aveva mai colto la paura, il terrore, il panico capaci di far perdere la lucidità. In quel momento vide tutto questo con il suo orgoglio a emergere come un demone malefico, a scintillare nel lago nero degli occhi che strinse. - La vita evidentemente è un cerchio dal quale non è proprio possibile uscire - disse inquietante. Si appoggiò all’angolo accanto, per guardarla oltre la luce della torcia tremula. Zaira non aveva uno straccio di possibilità di uscirne incolume. Era lì, disarmata, imprigionata dagli eventi, nelle mani di un uo-


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mo che aveva provocato sino allo sfinimento, sul quale aveva riversato tutto il disprezzo possibile, al quale aveva detto tutte le cose che avrebbe fatto meglio a tacere! Un guaio, un altro dei suoi guai. Non c’era più l’amore a salvarla nè una spada a difenderla; non c’erano frasi altisonanti da dire nè giustificazioni che potessero reggere il rancore che era stata capace di far nascere in lui. Neppure al proprio fascino poteva fare appello, perduto per le strade di una vita che l’aveva portata nel fango. Dunamis di Astos, quello che non aveva conosciuto, era lì, indeciso solo sul momento in cui le avrebbe tolto la vita, chiudendo una lunga storia. Dunamis di Astos, la bestia e questa volta ferita, era lì a macinare sotto ai denti la rabbia, a essere pericoloso solo con il respiro, simile a una fiera in attesa dell’attacco finale. Dunamis di Astos era ancora davanti a lei e lei davanti a lui. Non rispose. Si appoggiò anche lei alla parete in pietra che ostruiva la sua libertà. Sospirò, controluce il fiato salì verso il buio nevoso che sopra di loro incombeva. - Alla fine restiamo sempre tu ed io davanti alla vita che ci sfida, che ci mette alla prova. Come pensi che ne usciremo questa volta? – la interrogò imprevisto. La straniera ebbe un attimo di perplessità. Non lo ricordava avvezzo agli scambi di idee, ciò che lo aveva sempre caratterizzato era l’azione. Lo scrutò, pronta a non cadere in una trappola, anche se in fondo faceva poca differenza, stando all’erta rimandava una disfatta inevitabile. Ancora non parlò, ancora non ebbe nulla da dire e il sorriso amaro dell’uomo le diede malinconia e tristezza. Non lo riconosceva, forse non era lui, forse era un dio con le sembianze del sovrano di Astos. Si accorse di cercare una speranza atta a salvare una vita persa. - Tu ed io - ripetè rassegnato e stanco. Sospirò e anche il suo fiato salì in alto. Fece un passo, lei si ritrasse, si sistemò il cappuccio stracciato che la nascondeva. - Non avvicinatevi – ordinò patetica, il tono inequivocabile della vergogna. Dunamis colse il suo dolore, il desiderio di non essere vista nelle condizioni che anche solo l’odore che emanava lasciava immaginare. - Non lo farò – la tranquillizzò. Lei abbassò le spalle continuando a sistemarsi il cappuccio. - Il Fato mi ha reso libero, ma per gli dei compio il volere che strapperà il mio regno dalla maledizione che Thanatos cuore di ferro ha portato funesto disse. Con un gesto chiamò Aimatos che la osservò senza riuscire a metterla a fuoco. La vide in quel vicolo come un animale braccato e provò un’immensa pietà per colei che era stata la sua regina. - E’ finita e che gli immortali volgano l’attenzione all’innocenza di un popolo e lo salvino con la loro magnanimità. Il figlio del lupo ha adempiuto al


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loro desiderio – concluse. Ordinò di catturarla, mentre risaliva sul cavallo, tirando le redini. La neve diminuì e lui, prima di salire la scalinata controllata dagli uomini di Alopex, guardò il cielo. - E’ finita – disse ancora. In alto Schià lo attendeva insieme a Fos e Ormè. Alopex si accorse che la neve si era ridotta a qualche fugace fiocco che era persino piacevole dopo avere temuto il peggio. Giunsero le danzatrici che vinsero il freddo con gli abiti succinti e i musicanti accelerarono i ritmi, incalzati dal pubblico entusiasta. Era stata una giornata lunga e stancante, in una corsa atta a impedire che la gente si fermasse a pensare. Sembrava essere accaduto qualcosa, ciò che il sovrano aveva voluto. Non importò a nessuno dei comandanti nell’arena cosa o perché, ma la sensazione che tutto fosse finito fu tangibile. Dicaia fissò i contorsionismi delle donne senza comprendere cosa gli uomini trovassero in quelle movenze. Si distrasse osservando le reazioni dei giovani in prima fila, ma anche quelle un po’ volgari dei più anziani. Sbuffò seccata e volse l’attenzione ai colleghi di ventura. I soldati e i partecipanti ai giochi erano stanchi, ma continuava ad aleggiare un’atmosfera meno tesa. Comparve sul palco Dunamis che ammutolì la folla. Accanto a lui Fos, Schià e Ormè. - La maledizione su Astos è stata definitivamente sventata – dichiarò. La gente attese, mormorò e guardò il cielo nero asciutto di neve. Parlottò, restò in silenzio e infine esplose in un nuovo giubilo. Ormè si spaventò e riparò tra le braccia di Fos. Schià appoggiò la mano su quella rigida del re sulla balaustra, lui le diede un’occhiata di sottecchi. Annuì, anche se in realtà non sapeva cosa era accaduto e forse lui non glielo avrebbe mai detto. Intanto Aimatos avanzò nel vicolo poco illuminato verso il fagotto informe e rannicchiato. Si tolse l’elmo per farsi riconoscere. Dal profondo del cappuccio che la nascondeva, lei lo osservò. Le guardie con i manti rossi erano dunque di Astos. Com’erano cambiate le cose durante la sua assenza, tutto era cambiato. Strinse le ginocchia al petto quando Aimatos si accovacciò e le sfiorò la spalla tremante. Ebbe una smorfia di disgusto per l’odore che emanava, ma non volle umiliarla. Vincendo la sua reticenza, la privò della copertura e incontrò un viso sporco, stanco, dai capelli arruffati e luridi, dalle labbra crepate dal freddo. Incontrò anche il colore di quegli occhi che un tempo aveva amato. Ricordò il giorno in cui lo aveva salvato da morte certa e scattò in lui la riconoscenza di allora. - Non permettere che mi faccia del male – disse con la voce rotta. - Non lo farà, è finita – l’aiutò ad alzarsi, chiamando uno di suoi uomini perché le legasse i polsi. Si ribellò delusa, ma senza forze. - E’ la regola e devo rispettarla – la tranquillizzò.


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- Dove mi porterai? – si lamentò, ma neppure tanto considerando la situazione. - Dove il re ha ordinato – rispose mesto. Dove il re aveva ordinato. - Credi che questo basterà per far si che il dio della morte demorda? – gli chiese Fos cogliendolo nel momento in cui stavano rientrando per raggiungere la sala da pranzo. Dunamis non rispose. - Davvero una semplice dichiarazione lo indurrà a levare la sua ala scura da Astos? – insistette. - Basterà – fu conciso, non aveva molta voglia di parlare, era teso e volse un’occhiata fugace alla sala del trono, superandola frettoloso. Aveva in mente qualcosa. La principessa entrò con lui nella stanza e lo osservò, mentre sorseggiava del vino direttamente dal cratere. Si asciugò le labbra e parve essere disposto a seguire i suoi saggi ragionamenti. - Qual è il tuo accorato consiglio, principessa di Parga? – chiese sprezzante, esausto. - Sai bene che non condivido il tuo modo di mandare avanti le cose, che non potrei mai dirti che sei nel giusto, rifiutando un contatto con la figlia del futuro – fu chiara. Subì stoico la recriminazione dello sguardo di Fos e bevve altro vino, come se stesse cercando una forza che stava scivolando via. - Non condividi? Tu, la figlia giusta di un uomo ingiusto? Non capisco, quale errore posso aver commesso aiutando il popolo che fa di me un re? Quale torto posso aver fatto agli dei, nonostante i miei obblighi siano inesistenti dopo essere stato graziato dal Fato? Tu che sei stata regina di Astos non approvi? Cosa non approvi, Fos? Dimmelo, sono curioso, anche se non ne sono particolarmente interessato perché tu resti un’ospite ed io il sovrano indiscusso del mio regno – fu pesante come un macigno, feroce nella calma che ostentava con una fatica che lo stava sfiancando. Fos si irrigidì a quelle parole, anche se sapeva dettate da un nervosismo incontrollabile. - Non puoi vivere senza di lei – fu secca. Dunamis sorrise scontato. - Schià ha i suoi adepti, vedo – la prese in giro, Desiderò bere ancora, ma la mano di Fos lo fermò, i suoi occhi lo inchiodarono. - Puoi respirare, come il Fato ha deciso, ma non puoi vivere – aggiunse. Il re si adombrò, scansò la sua mano per bere lo stesso. - Vattene – sibilò, gli occhi già arrossati dal vino. - Stai ingannando te stesso ed anche gli dei, loro non possono più nulla contro di te, ma la tua coscienza, il tuo animo, prima o poi ti chiameranno all’appello e tu dovrai rispondere – soffiò, per la prima volta alterata. - Come mai tutta questa preoccupazione, Fos? – la richiamò, quando la vide sulla porta. Lei non si voltò.


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- Non sopporto gli inutili gesti eroici, non tollero l’ottusità e non accetto di avere salvato la vita ad un uomo che la sta gettando al vento, barricandosi dietro parole e concetti che gli sono estranei – rispose. Dunamis rise. - Non te ne importa nulla del tuo popolo, del regno, neppure di te stesso e questo mi disgusta davanti all’ipocrisia che stai inscenando per salvare un’apparenza ridicola – non cedette, volle offenderlo e ci riuscì. - Vattene – la esortò. - Lo sto facendo - concluse la principessa scomparendo dalla sua vista. Dunamis rimase fermo. Cosa ne sapeva lei di quello che aveva dentro? Cosa ne sapevano tutti gli altri? Chini davanti alla sua austerità si erano fatti piccoli nel timore di perdere ciò per cui avevano tanto lottato. Cosa ne sapeva il mondo intero dei suoi sentori? Percepì il rumore dei passi delle guardie reali che trascinavano qualcuno nella sala del trono e alzò gli occhi ferrei. Cosa ne sapevano anche le guardie reali di quello che stavano facendo? E Aimatos? Forse Aimatos sapeva cosa stava provando il figlio del lupo. Intanto la neve cessò di cadere e il popolo in festa osannava le bellezze delle danzatrici accaldate nel gelo di un inverno infinito. Stretta da due uomini robusti e controllata da un gruppo di quei nuovi soldati, Zaira entrò nella sala del trono. Ciò che notò per primo non fu il re sul trono, bensì il trono destinato a lei ancora rivoltato sul pavimento, intoccabile come un ricordo di ciò che non era più. Con il volto rintanato nel cappuccio e la schiena curva, scrutò poi il figlio del lupo, le mani serrate allo scanno reale in una tensione che conosceva bene. Le guardie la liberarono della presa e si posizionarono dietro di lei, con Aimatos al suo fianco in attesa degli ordini del re che continuò a osservarla dalla sua postazione privilegiata. Con un cenno del capo indusse tutti a uscire, con la tacita disposizione di restare fuori per bloccare qualsiasi tentativo di fuga. Si ritrovarono soli, uno davanti all’altra, uno altezzoso come più gli piaceva essere, l’altra ridotta nelle peggiori condizioni in cui una donna poteva sentirsi. Tentò di indietreggiare, ma la consapevolezza dell’assedio nei corridoi le fece capire subito di non avere scampo. Tremò, ma fu solo un attimo. I giochi erano fatti, non poteva che subire gli eventi, non avendo forza, armi, parole per tentare una difesa. Si preoccupò soltanto di coprirsi per non permettere che di lei si vedesse il totale degrado. Dunamis la guardava: era lercia, sporca, vestita di stracci e attaccata al clamide con il cappuccio come fosse uno scudo. La trovò patetica. Osservò con insistenza il suo portamento rassegnato e basso. Ne fu disgustato. L’immagine del giorno in cui lo aveva aggredito con tutto l’orgoglio e il coraggio di cui era capace gli balenò nella memoria, l’offesa di allora si rinno-


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vò nel ricordo che lo aveva tormentato. Adesso la figlia del futuro era davanti a lui con il desiderio che tutto terminasse in un lampo, mentre lui desiderava soltanto farla soffrire, dimentico dell’amore che li aveva uniti. - Mostra il tuo volto – ordinò. Lei serrò la stoffa sotto la gola. - Mostra il tuo volto, subito – ringhiò con la freddezza necessaria per non apparire alterato. Caparbia non obbedì. - Ditemi cosa volete e perché sono qui – fu ardita, sapendo di oltraggiarlo, conoscendo assai bene le regole che bisognava rispettare al cospetto di un re. - Mostra il tuo volto, adesso – ignorò le sue parole e si alzò. Lei indietreggiò ancora, sapeva di avere un margine di movimento dal punto in cui si trovava alla porta assediata. - Non lo farò – era pronta a morire piuttosto che fargli vedere com’era ridotta. - Evidentemente non sei cambiata, la vita che ti sei scelta non ti ha fatto capire nulla – asserì. Si avvicinò inesorabile, mentre lei riduceva lo spazio disponibile a ritroso. Allora iniziò a muoversi di lato. Fece appello alla parte di sé che sapeva sfoderare in caso di pericolo estremo. Cadde in ginocchio, le mani in terra, il cappuccio a continuare a coprirla. - Pietà, vi chiedo la pietà di non costringermi a… - iniziò a recitare la solita parte che le aveva permesso di mangiare sino a quel momento. Il gioco non funzionò, si accorse troppo tardi di averlo accanto, quando le strappò di dosso il suo iniquo scudo di stoffa consunta. Non alzò il viso, continuò a fissare il pavimento, rincuorata dal fatto che i lunghi capelli lordi celavano la faccia. Inaspettatamente il sovrano provò la pietà che gli aveva chiesto. La repulsione diede il passo alla compassione che scavò e stanò dal suo cuore ciò che gli parve senso di colpa. Rimase immobile, lei ne fissava i piedi davanti a sé, le caviglie e poi le ginocchia, ma non andò oltre nel timore di alzare troppo il viso devastato. - Una ladra, una mendicante. A questo ti sei ridotta. Non hai saputo fare di meglio? – Zaira non rispose. Era davvero finita per lei, non sapeva cosa le sarebbe successo e non le importava più nulla! Vinse la vergogna che la piegava e alzò quel viso che aveva tanto voluto nascondere. Cozzò contro gli occhi fermi del re di Astos che non ebbe alcuna reazione, ritrovando il grigio di uno sguardo che non aveva mai dimenticato. Sembrò pensare, ma non fu così. Era impossibile pensare per lui in quegli istanti, davanti all’immagine di ciò che Thanatos era riuscito a creare, messo di fronte al risultato finale di uno scontro che non aveva voluto avere fine tra loro.


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- Voglio rispondere alla tua domanda – riuscì a dire. Le diede le spalle, non riuscendo più a sopportarne la vista. Lei si alzò, continuando a tenere la schiena leggermente ricurva. - Come me sei un eletta del Fato e la tua presenza dentro il palazzo reale è necessaria perché Thanatos il tenebroso tolga la sua ala maledetta dal mio regno. Ecco perché sei qui – fu secco, frettoloso nell’allontanarsi. - State mentendo - lo riprese senza sfiorarlo più di tanto. - Può darsi, ma il mio regno ha subito anche troppo le conseguenze del tuo comportamento e se per salvarlo e ridarlo alla sua dea dovrò accettare questo, sia! Fa poca differenza per me – si sedette sul trono, non la guardò più. - State mentendo – ripetè. Aspettò lunghi minuti, rimase a guardarlo da lontano con l’imbarazzo del silenzio a scandire il battito del cuore. Ricadde nella trappola del suo fascino, la stessa che aveva creduto di poter evitare se mai un giorno lo avesse incontrato. Non era così, Dunamis sapeva abbatterla, non si trattava solo della sua bellezza, forse l’amore che la univa a lui era qualcosa che andava oltre ogni ragionamento. Si aggrappò al ricordo del giorno in cui l’aveva messa al palo, ma percorrendo il suo profilo tutto perse d’importanza, persino il terrore provato le apparve una sciocchezza adolescenziale. Eppure aveva tremato, era fuggita, aveva cercato di dimenticarlo. - Sei disgustosa – concluse il sovrano e battè un piede a terra, facendo giungere nella sala le guardie reali e Aimatos che guardò Zaira, impresentabile. - Via! – ordinò indicandola. Aimatos lo esortò tacitamente a essere più chiaro. Un’occhiata di sottecchi, faticosa e lenta, gli fece intendere il da farsi. Dormire in un letto dopo le cure delle ancelle nella sala delle abluzioni fu per Zaira un ritorno alla normalità. Aveva avuto addosso il fetore della strada e della vita randagia per tanto di quel tempo che non rammentava più il nome delle essenze che le erano state spalmate addosso. La stanza che le fu assegnata era calda e in penombra, con il letto a invitarla suadente. Si sdraiò e godette della morbidezza del giaciglio. Volse lo sguardo alla porta chiusa, oltre la quale vi erano due soldati dal manto rosso, pronti a impedire una sua fuga. Rifiutò di pensare a cosa le sarebbe successo, era in balia degli eventi e nelle mani di Dunamis. Si agitò, ma la stanchezza la piegava da troppi mesi e rimandò ogni ragionamento, lasciando che gli occhi si chiudessero lentamente. Il vento all’esterno aveva smesso di ululare, il silenzio assoluto agevolò il correre inconscio della sua mente. Le parole di Fos echeggiarono in lei che si mosse esausta tra le coperte rassicuranti. “Ha accettato il giuramento di salvarti, anche se avrebbe potuto rifiutare”. Anche se avrebbe potuto rifiutare, non lo aveva fatto. Adesso si trovava all’interno del palazzo e non l’aveva uccisa. L’immagine sfocata del di-


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sprezzo che le aveva riservato, mettendola in ginocchio, la innervosì e tutto divenne sogno confuso. Si addormentò profondamente, non si mosse più, ogni cosa avrebbe trovato una soluzione il giorno dopo, il giorno dopo, sicuramente… si. Ci avrebbe pensato, sarebbe fuggita, avrebbe raggiunto Autolico, un amico, un caro amico. Domani, tra due giorni, poco importava. Le guardie si misero sull’attenti al giungere del re che entrò senza rumore. La vide. Le ancelle avevano aggiunto un sonnifero di Fos nell’ultimo latte che aveva bevuto. Zaira avrebbe dormito molto. Aveva voluto questo per lei dopo aver visto il suo volto segnato dalle intemperie e dalla disperazione. Si sedette sul ciglio del letto, lei non reagì, precipitata in un altro mondo. Scostò il lenzuolo dalla bocca e ne ammirò la bellezza che aveva temuto di non poter più rivedere. Ascoltò il suo respiro a tratti rantolante, come se fosse appena guarita da una malattia. Si sentiva combattuto tra la giustizia delle proprie azioni e l’orgoglio ferito che sanguinava ancora. Avrebbe voluto sfiorarla. - Fallo – lo sorprese una voce alle spalle. Non si voltò neppure. La riconobbe. Sorrise. - Non frenare i tuoi impulsi quando sono benevoli – insistette la bella tra le belle. Dunamis sorrise ancora. - Non hai mai perso la speranza, Afrodite dagli occhi di cielo – la salutò. - La speranza non fa parte di me, Dunamis. Solo le certezze mi muovono – La guardò, incontrando il suo affascinante strabismo. - Non è facile come credi, bella tra le belle – parve lagnarsi. Lei si sedette sul letto al suo fianco. Fu una cosa che lo turbò: gli dei non erano soliti portarsi al livello dei mortali. Percepì il calore della dea, quando gli sfiorò il braccio. - Nulla è facile per voi che vivete i patimenti della mortalità, ma ciò che il tuo cuore sta gridando è cosa lecita, vittime come siete delle trame di un dio disperato – lo interessò. - Non è stato Thanatos a parlare con la sua bocca il giorno in cui mi ha offeso – - Forse o forse la sua presenza ha reso la tua sposa imprudente – tentò una mediazione. - Ora che la mia devozione è solo una scelta e non un obbligo… - cercò di dire. La bellissima gli accarezzò la guancia ispida, frutto della tensione della lunga giornata. - Le trame del Fato sono complesse ed io non ne conosco i fini. Io sono la dea dell’amore e non posso che dirti, nella convinzione che sempre mi muove, che non potrai lottare per sempre contro di lei e se ciò accadrà verrà un


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momento in cui non potrai davvero più tornare indietro e sarà tardi - volle dirgli e si rialzò. - Non è facile dimenticare – si lamentò ferino. - Forse perdonare ti è più consono? – gli chiese. Scosse il capo negando, ma la divina scomparve, lo lasciò solo con il senso di smarrimento a fare il resto. Guardò Zaira che si mosse e mormorò qualcosa. Avrebbe voluto toccarla. Sollevò una mano, la strinse a pugno. Si alzò. Si chinò sul suo volto e impercettibile sfiorò le sue labbra con le proprie. Un brivido segreto percorse entrambi. La figlia del futuro si agitò in un sogno. Dunamis uscì dalla stanza senza fretta. I comandanti erano impegnati da giorni a riorganizzare le cose. Il cielo continuava a essere plumbeo, la neve non cadeva più, tutto lasciava presagire che il tempo si sarebbe sistemato. I mercanti avevano ricominciato le loro attività di scambio, le botteghe riaperto e la grossa fucina rumorosa ricominciato a forgiare armi per l’esportazione. I pastori erano tornati a nutrire le loro greggi in attesa dello scioglimento del ghiaccio e le locande si riempirono di avventori e di stranieri che portavano ricchezza. Non sarebbe stata facile la rinascita, ma c’era ottimismo nell’aria. Alopex, Flogos, Dicaia e Aimatos non mancarono ai loro incarichi. L’attico continuò a essere preposto al controllo delle vie del regno, Flogos passò a quello esterno intorno alle mura. Dicaia sostituì Aimatos nel comando del contingente della Selva. Aimatos coordinò le attività all’interno del palazzo con la nuova Guardia Reale. Fos continuò a occuparsi dell’educazione di Ormè che si rivelò ribelle e poco propensa all’obbedienza, dopo un primo periodo di incantevole disponibilità. Era piccola e questo la principessa lo considerò. Schià si prodigò nei lavori di tessitura che le erano sempre piaciuti. Zaira aveva dormito per tre giorni, durante i quali il regno si era stabilizzato. Si svegliò che era pomeriggio. Si accorse di avere fame, si levò faticosamente: il riposo era servito, ma non abbastanza per annullare l’intorpidimento delle membra. Vide solo dell’acqua in una brocca di terracotta, si accontentò di berne un po’ per riempire lo stomaco. Si vide riflessa in uno specchio d’oro. A parte il volto tipico di chi si era appena svegliato, le cure delle ancelle, che ricordava a malapena, l’avevano messa in ordine, ma non sorrise per questo. Tornò alla realtà che aveva rimandato di valutare vinta dal sonno la notte in cui le guardie l’avevano portata in quella stanza. Si trovava nel palazzo di Dunamis, dove c’era anche Dunamis. La tranquillità scemò e vide un abito su uno scanno. Lo indossò. Era un peplo verde usato. Si sciacquò il viso e si legò i capelli con un nastro di cuoio. Infilò dei


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calzari anch’essi usati e fece per uscire, doveva scappare. Le lance delle due guardie reali si incrociarono davanti a lei. Tentò di dissuadere i soldati. - Ordini del re – disse uno dei due, l’altro la spinse dentro richiudendo la porta senza grazia. Ordini del re? Del re? Cosa poteva fare adesso? Guardò la finestra inchiodata. Ordini del re? Era prigioniera per ordine del re. Si sedette sul letto. Ordini del re! Si! Adesso il re iniziava a divertirsi! Il rumore della porta la fece sobbalzare e le tolse il fiato. Scattò in piedi, rasentò il letto, si piazzò spalle al muro dalla parte opposta; il cuore in gola, la sensazione di essere ridicola a smorzare ogni possibilità di difesa. La porta si chiuse e fu sola con lui. Il re stava giocando, si stava divertendo. Zaira ebbe uno sbuffo di rassegnazione. Fu lei ad abbassare lo sguardo. - Per un attimo ho creduto di avere catturato la persona sbagliata, ma vedo che invece si tratta proprio di te – le disse squadrandola. Non voleva rispondergli, cercò di eludersi mentalmente dalla situazione. - Decisamente - sottolineò l’uomo e appoggiò un cratere di vino su un mobile. - Un ritorno degno di una libagione, non trovi? – era serio. Troppo. Le porse a distanza la coppa piena e lei scosse il capo. Cos’aveva in testa? Non sembrava alterato, appariva calmo. - Non è consono per un ospite rifiutare un’offerta – fu suadente. Si avvicinò, ma Zaira non accettò, temeva un inganno. - Sia! – riappoggiò le due coppe. - Cosa volete? – azzardò, la voce rotta. - Dimmelo tu cosa voglio, Zaira portatrice di sventura – le sorrise capzioso, volutamente bellissimo. Lei sussultò. - Le mie scuse? – prese tempo. Lui fece spallucce. - Devo prostrarmi ai vostri piedi? – continuò. - Lo hai già fatto – la fulminò. Lei allargò le braccia. - Voglio la verità – Quella richiesta non significò nulla per la straniera che non aveva verità da rivelare. - Voglio vedere la verità che cerco, senza le parole che sai usare bene. Voglio la verità che solo i tuoi occhi possono dirmi – Questa volta si avvicinò per assediarla e non sarebbe tornato indietro. - Lo avete detto voi, è finita – ribadì ciò che lui stesso aveva affermato nella grotta di smeraldo. La mano del sovrano si appoggiò alla parete e il braccio le sfiorò la guancia senza che osasse scostarsi, certa che con l’altra mano l’avrebbe costretta a quel contatto. La indusse a guardarlo dritto in faccia, il suo alito speziato la inondò.


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- Voglio esserne certo – la sua voce era roca. Entrò nel suo animo con forza, la inchiodò nel silenzio. Zaira cercò un espediente, una frase, qualcosa, il cuore in testa a cominciare un ballo doloroso. - Non ho amato Thanatos – balbettò l’assillo che non aveva mai confessato neppure a se stessa. Dunamis alzò un sopraciglio. - Lo so – Lo sapeva? Cosa sapeva? Glielo chiese con un sussurro. - Non l’hai amato, quel piccolo dio nefasto è certo del contrario, ma suo fratello lo ha beffato. Non hai amato Thanatos, non potresti mai farlo – rispose inesorabile. La figlia del futuro non comprese. - Non c’è uomo o dio che tu possa amare come hai amato me – dimostrò una sicurezza invidiabile. Lo invidiò con malcelata ammirazione che lui colse e le trattenne il mento al tentativo di distogliere l’attenzione da lui. - Siete troppo sicuro di voi - Questo ti disturba? – Tentò di dire di no, ma tacque per orgoglio. Cadde in confusione. Non aveva risposte, voleva dissolversi. - Salvati – la incitò con un duro sussurro che lo rese ringhiante. - Siete il re di questo regno, un graziato da Fato. Avete vinto la maledizione di un dio permettendomi di entrare nel palazzo, siete stato arguto, avete domato un popolo in rivolta, piantando una spada nel terreno tra le gente - e quell’ultima frase lo fermò su di lei. - Ero presente – si affrettò a giustificarsi. L’impassibilità dell’uomo la mise in ansia. - Vi siete ripreso il trono così – aggiunse imbarazzata. - Eri presente – sottolineò. Annuì frenetica, ormai alla deriva. - Cosa potrei dirvi che già non sappiate? – si difese labile. Abbassò il capo, non reggeva più quello sguardo, era sferzante la distanza tra loro che lo rendeva cupo. - Nulla – la sollevò da un obbligo. Tolse l’assedio, dirigendosi verso la porta. Era deluso e lei se ne accorse. Fece un passo trascinato che lo fermò dall’intenzione di abbandonare la stanza. - Astos è salva e per salvarla ho accettato il ricatto di un dio, tollererò la tua presenza ed avrai gli agi che un ospite deve avere e come tale ti attendo nella sala dove un banchetto è in corso – disse senza emozioni. Lei non trattenne le lacrime che le scintillarono negli occhi. Non replicò, lo lasciò andare. Schià non era entusiasta come suo solito per la festa che il re aveva indetto, invitando i nobili di Astos e della vicina Delfi. Se ne stava accanto al trono, mentre i comandanti controllavano la sala onde evitare eventuali singulti di


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ribellione. Fos e Ormè erano sedute vicino al trono divelto della regina. Solo Aimatos era sul palco reale con alcuni dei suoi uomini che vigilavano sulla corte. Dunamis diede il segnale perché iniziasse il banchetto, le schiave cominciarono a servire le pietanze e a versare il vino nelle coppe d’oro. Gli invitati si lasciarono distrarre da danzatrici, saltimbanchi e cantori. L’atmosfera era allegra e spensierata, anche se un vago senso di irrimediabilità aleggiava, mentre lo sguardo truce del sovrano correva sulla grande sala, soffermandosi sulla porta velata. - Pensate che verrà? – lo svegliò Schià. - Deve farlo, è un ospite – fu perentorio. In quel momento comparve Zaira, vestita come aveva ordinato, con un abito prezioso più di quello che le aveva dato Thanatos nelle miniere di Ades. Lo scintillio dei rubini che tempestavano la stoffa nera tolse il fiato ai presenti. L’attenzione cadde su di lei che non battè ciglio, forte del fascino che sapeva di avere, truccata come da mesi non ricordava, curata dalle ancelle che si erano premurate di eseguire gli ordini del re. Rimase ferma per alcuni istanti, poi avanzò regale come sapeva essere, abile nelle movenze nonostante le gambe le dolessero ancora dopo la vita trascorsa tra la selva e il regno. I capelli raccolti in una pettinatura ellenica la rendevano molto più vicina alle donne del tempo e quasi non si notava la sua profonda diversità. Dicaia cercò Alopex che sorrise sardonico. Aimatos trattenne il respiro. Flogos era stanco di quella pantomima. Schià evitò di incontrare gli occhi dell’amica e Fos coltivò dentro di sé la speranza che quella ricomparsa potesse avere un significato importante. Dunamis osservò ogni suo passo che la portò davanti a lui. Lo fissò ferma, ferita eppure decisa a non umiliarsi più, a non avere paura, a difendere la propria dignità. Si appoggiò su un ginocchio e chinò il capo nel saluto d’obbligo nei confronti di un re. - Volgo a voi il mio ringraziamento per avermi concesso di presenziare al banchetto degno della grandezza che vi avvolge in tutta l’Ellade – disse suadente. Il figlio del lupo strinse gli occhi e serrò i denti. - Leva il tuo ginocchio, Zaira d’Enotria, e che i presenti tacciano per ascoltare le mie parole che sono importanti per il regno caro alla dea Artemide – Lei obbedì remissiva eppure così dura nell’espressione da far credere a un inganno. Obbedì anche l’intera sala. Il silenzio dilagò, l’ultima nota della cetra di Omero scandì il tempo. Nessuno della corte sapeva cosa il re aveva intenzione di fare e i comandanti si misero all’erta. Dunamis si alzò portandosi davanti a lei che non abbassò gli occhi. - Mi stai sfidando – le sussurrò senza che qualcun’altro potesse udirlo. - Avreste potuto dimenticarmi e non lo avete fatto – rispose gelida. - Astos è più importante della tua libertà – la colpì inutilmente.


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- Siete un graziato del Fato, Dunamis di Astos, le vostre sono solo scelte, non obblighi – lo stilettò. Finalmente lo vide vacillare, la sua espressione ebbe un leggero dissenso. - Potete ingannare tutti, ma non me – gli sorrise provocatoria. - Non sarò io a dirlo per primo – l’avvisò. Lei comprese cosa intendeva dire. - Tacete, allora – non cedette. Nel momento in cui fu certa di averlo spiazzato, e quindi reso più vulnerabile, il re lasciò scintillare nella mano un gioiello d’oro incastonato con numerosi rubini che scarlatti meravigliarono i presenti. Sorrise malefico, lei non raccolse, alzò un sopraciglio indifferente. - Astos esige una regina – sentenziò a voce alta, facendo in modo che quella nuova investitura fosse pubblica, non più privata come la precedente. Zaira fece per indietreggiare, ma il re la fermò con una stretta al braccio e le infilò la collana con la sontuosità del momento. Se gli ospiti rimasero basiti per quell’evento improvviso, la corte non ci capì nulla. Solo Fos fu compiaciuta da quel gesto e chinò il capo emozionata. - Siete un bastardo – sibilò Zaira con un filo di voce, tutta la determinazione ben costruita schiantata al suolo, solo l’astio a rendere i suoi occhi bellissimi e il divertimento del sovrano a farle saltare i nervi. - Attenta, il popolo non tollera più che il figlio del lupo venga oltraggiato – l’avvertì con un filo di voce. Alcuni schiavi sollevarono il trono della regina e lo riposizionarono per permettere al re di accompagnarla al suo posto. Rigida obbedì, incapace di ribellarsi e di capire cosa stava succedendo. Quando guardò i presenti, il giubilo esplose e socchiuse gli occhi per il frastuono. Anche Dunamis si sedette e le fu vicino. - Un bastardo molto furbo – aggiunse a denti stretti, la sensazione d’essere presa in giro. - Come vedi, c’è sempre qualcuno disposto a salvarti la pelle – le rispose senza guardarla. - Non capisco il vostro gioco – si ribellò, sorrise ad alcuni commensali giunti al suo cospetto per un inchino. - Non è importante che tu capisca – - Vi state divertendo e siete disgustoso – volle ricambiare il disprezzo di qualche giorno prima. Dunamis si avvicinò a lei per farsi udire meglio. - Se davvero fosse come dici, avresti rifiutato la mia offerta – - La vostra non è un’offerta - tentò di ribattere. - Sei un eletta del Fato, Zaira. Le tue sono scelte, non obblighi – la zittì. La festa proseguì, timidamente Schià si avvicinò a Zaira che non riuscì a reggere i suoi grandi occhi fiduciosi e colmi di un affetto che aveva creduto


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estinto per sempre. La ragazzina le porse le mani con il fervore di sempre. Lei tentennò impacciata. Si avvicinò anche Fos. - Non è come credete – si affrettò a correre ai ripari. Fos le prese le mani e le unì a quelle di Schià che non trattenne le solite lacrime. - Ho detto cose terribili, ho offeso tutti voi, non credo che questa collana possa… - farfugliò confusa. Dunamis l’ascoltava, lo sapeva. - Sei tornata, questo ci rende felici – disse la principessa. - Sei tornata, questo è importante – aggiunse singhiozzante Schià. Poi, abbattè ogni confine, abbracciandola con il trasporto che Zaira non aveva mai dimenticato. Fos le diede un bacio. Lei non ricambiò nessuno di quei gesti, congelata da una situazione che non riusciva a delineare, abbattuta dall’astuzia oscura del figlio del lupo. Giunsero Alopex, Flogos e Dicaia. Li guardò attonita, incontrando l’ironia incrollabile dell’attico. - Ho vinto una scommessa – le disse. - Adesso devo sposarmi anch’io! – prese senza troppa grazia Dicaia in un abbraccio che la fece vacillare e vergognare. Lei era un comandante, aveva degli uomini cui rendere conto. Zaira scrutò entrambi. Poi sospirò e scosse il capo rassegnata. - Alopex dell’Attica, irriducibile nelle tue scelte – lo schernì. L’uomo fece spallucce. - Dicaia è un amazzone di sangue – si giustificò. - Si, di sangue – ridacchiò la regina e ritrovò per un momento l’allegria che le morì sulle labbra. Guardò la donna, felice per lei. - Sei sempre stata diversa, comandante, non mi sono mai sbagliata – volle farle sapere. Il movimento di Aimatos verso di lei la fece trasalire. Lo guardò attonita, senza distogliere l’attenzione anche dal sovrano. L’ex schiavo le diede un’occhiata amichevole e non esitò a chinarsi davanti a lei. - Sarà l’onore più grande per me servire la regina degna di questo regno – le disse solenne, insolito con l’uniforme scarlatta destinata al comandante della Guardia Reale, diverso da tutti gli altri, quasi regale. - Amico mio - sussurrò in cerca di un aiuto che lui non le diede, non ne aveva alcun bisogno anche se si trovava in una situazione incomprensibile. Presto avrebbe capito. - Il Fato che tutto dispone persegue sempre il giusto, Zaira – concluse. Lei lo incitò con un gesto a rialzarsi. Flogos fu l’ultimo a volerle parlare con il volto torvo di una rabbia che scemò, quando lei gli prese le mani e lo inondò dell’amicizia che credeva perduta.


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- Non andare più via, quando lo fai è un disastro – commentò l’omone con un filo sottile di ironia. Quella frase fece ridere tutti e anche lui non si trattenne più. Zaira non si unì all’ilarità. - Non posso prometterlo, Flogos. Non è come sembra – fu prudente. - E’ vero, è molto peggio – concluse Alopex, tornando ai propri doveri con gli altri. Le due amiche le restarono accanto per tutta la festa, invitandola a molte conversazioni, cercando di distrarla, di stemperare la sua tensione. Ci riuscirono. Il banchetto finì, alle prime luci dell’alba la sala del trono si svuotò e i soldati poterono andare a riposare. Anche la corte si ritirò. Dunamis uscì, lasciandola sola tra le mense devastate e i cantori addormentati. Uscì dalla sala del trono lentamente. Si sentiva frastornata e confusa. La collana le pesava come un masso. Non riusciva a realizzare d’essere la regina di Astos, non ne sentiva la responsabilità. Un velo opacizzava la realtà in cui si era ritrovata in pochi giorni. Camminò nei corridoi senza meta, si sorprese a osservare il palazzo che un tempo era stata la sua dimora e che ora era una prigione dorata. Mancava qualcosa, non solo lui che si era defilato indifferente. Mancava la logica e era la cosa peggiore per lei. Guardò la vasca delle abluzioni, il lieve scroscio dell’acqua le diede un inutile sollievo. Si sentiva pesante e non era stanca, gli agi e le cure che il re aveva voluto per lei l’avevano fortificata. Non sapeva dove andare, non conosceva le disposizioni, temeva di sbagliare e di perdere la vita. Si sedette su una panca accanto all’acqua osservando i riflessi dorati che emergevano dal fondo. Sfiorò la collana e ebbe l’impulso rabbioso di strapparla, di gettarla lontano, rifiutando le catene auree che il sovrano le aveva imposto. - Non offendere gli dei, Zaira. Non potranno ucciderti, ma le loro trame rendono la vita terribile – la voce che meno avrebbe voluto udire la fece trasalire. Si voltò, gli occhi infuriati. Cozzò contro il sorriso inclinato e pungente del re. - Porti al collo i rubini delle miniere di Ades il ricco – disse. Rasentò la vasca, le fu a pochi metri. Zaira lo osservò truce, ritrovando in lui il passo sicuro e deciso. - Uno scambio equo, non trovi? – continuò con quel discorso che non la interessava. - Poche pietre in cambio del sangue che ho versato – ebbe un moto di ironico scoramento, come se tutto fosse risultato vano. Zaira strinse i denti. - State cercando di confondermi – lo accusò. Non voleva lasciarsi abbindolare perché era certa che stesse tessendo un inganno. - Più di quanto non lo sei già? Non sono così superbo da pensare di superare me stesso – la prese in giro tagliente.


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- State evitando una spiegazione – lo smorzò. - Assolutamente no. Non ti devo alcuna spiegazione – non le dava strada. - Siete un pazzo – distolse lo sguardo, non insistette, consapevole che non lo avrebbe convinto a parlare. Dunamis si avvicinò senza che, intenta a ignorarlo, se ne accorgesse in tempo e quando udì il suo respiro a pochi centimetri tentò un allontanamento che lui bloccò veloce, afferrandole il polso e inchiodandola sulla panca. La sovrastò, la fece sentire piccola, vittima della sua forza, il nero degli occhi a farsi buio profondo, il fiato a inondarla. - Ai pazzi tutto è concesso – ringhiò. La sollevò facilmente, stringendola in un abbraccio che la fece mugugnare patetica. - Anche la morte – si ribellò senza successo, le braccia del re erano ferree. - Cosa c’è che non va, Zaira d’Enotria? Ti ho restituito tutto. Hai il titolo che ti rende intoccabile, l’amicizia di coloro che hai offeso, una dimora dove non soccombere. Cosa ti manca? – le sibilò in faccia, il naso a sfiorare il suo. - Non voglio la vostra pietà – disse una cosa sciocca, la prima che riuscì a elaborare con il suo fascino reso accecante dagli dei a scompaginarla. - Io non conosco la pietà, dovresti saperlo – non le permise di liberarsi. Non la sopportava più con quegli atteggiamenti sfidanti che non l’avrebbero portata a nulla. I giochi erano fatti e lei, ottusa e superba, non lo voleva vedere. - Voglio la mia libertà – non cedette. Rise in un sobbalzo che le fece girare la testa. - Avevi la libertà e ti ho ritrovata sul ciglio di un baratro con i giorni contati – le fece notare sottile. Zaira lo guardò. Si lasciò guardare, trafiggere da un rancore che non era riuscito a placare. - Gli stessi giorni che voi avreste cancellato con la vostra condanna a morte – lo stoccò, ancora impaurita dai ricordi. - Non saresti morta - la rimbeccò. - Non lo potevate sapere – non accettò d’essere zittita. - Non lo avrei permesso – e dentro di lei qualcosa scricchiolò. - Stare mentendo – sbuffò esitante. - Come hai mentito tu, quel giorno – Era una gara a chi la diceva più grossa. - Quel giorno - ribadì e la figlia del futuro comprese in un lampo. Strinse le labbra tignosa. - Quel giorno - ripetè il sovrano. Era in cerca di un appiglio, di una luce, quella che nello sfarzo del suo regno rinato era assente ormai, che nel suo animo non entrava da mesi, raffreddandolo sempre più. Zaira non voleva dargli soddisfazione, non ce la faceva a dire basta, era una questione di or-


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goglio. Il flash dell’accaduto continuava a passarle davanti con ogni patimento provato. Persero l’equilibro per la tensione che li univa e li separava allo stesso tempo, scivolarono accanto alla vasca, lei riuscì a divincolarsi, evitando di averlo addosso. Retrocesse seduta, mentre l’uomo si appoggiò sulle braccia fissandola bieco. Fece per rialzarsi veloce, ma le afferrò la caviglia e la trattenne, cercando di sovrastarla nuovamente. Fu una lotta impari, che lei riuscì a vincere e, ancora seduta, indietreggiò sino alla parete poco distante, il fiato grosso, il cervello in fermento. - Siete sempre stato pazzo perché solo un pazzo avrebbe potuto credere alle mie parole! – esclamò a sorpresa. Dunamis, sui gomiti e sconfitto, volse gli occhi atri su di lei. - Un pazzo! Solo un pazzo! Un pazzo che ha creduto alle parole di una pazza! – insistette, aveva bisogno di sfogarsi, di gridare, di dire tutto quello che aveva dentro, succedesse quello che doveva! Al diavolo! Non aveva scampo e ora lo aveva capito. Si alzò, si appoggiò al muro per trovare un senso assurdo di protezione. - Mi avete fatto male, mi avete lasciata sola, mi avete fatto piangere, mi avete offesa e ferita, mi avete fatto sbagliare! Mi avete guardata, mentre continuavo a sbagliare, vi siete divertito, avete giocato ed infine, tronfio ed insopportabile, mi avete abbagliata con il vostro sfarzo, mi avete vestita come una regina e mi avete infilato questa collana certo che fosse ciò che volevo! Avete vinto, mi avete spiazzata, zittita, messa in una posizione dalla quale non posso uscire, siete stato furbo, attento, paziente e sottile! Mi avete ridato tutto, niente escluso, avete fatto cose impossibili! Avete dimostrato di non essere un inetto ed io l’ho capito, avete qualche dubbio? Credete che non abbia colto la vostra grandezza? Pensate che veramente io non sia in grado di comprendere? Siete un bastardo, lo siete sempre stato e vi detesto per questo, vi detesto per tutto quello che riuscite a fare contro di me! – Urlava. Lui ascoltava con gli occhi stretti per il tono che stava usando, probabilmente anche i servi delle ultime stanze la udivano. Non la fermò in quello sfogo che non diede lacrime, solo acredine. - Bravo! Un applauso al re di Astos divina! Bravo! Libagioni e banchetti sontuosi per il re di Astos che tutto può! Tutto dà senza chiedere! Bravo! – esclamò e battè le mani, avvicinandosi coraggiosa, ormai a briglia sciolta. Si chinò su di lui che la guardava inespressivo. - Bravo - sospirò infine ironica. - Solo una cosa non potrete mai più darmi - aggiunse mentre il sovrano si metteva in piedi.


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- L’amore, quello non lo avete più dentro, non lo potrete inventare come questo gioiello, come questo abito, come questo palazzo, come il vostro fascino baciato dagli dei. L’amore non lo potrete mai costruire ed il Fato non ve lo regalerà come la vita, perché l’amore è cosa grande che va oltre gli immortali. L’amore, quello non me lo darete mai più perchè semplicemente non mi amate… più – concluse. Finalmente gli occhi si allagarono e scintillarono al bagliore della vasca aurea. - E di tutto questo non so che farmene – abbassò le spalle. Poi, distolse gli occhi da lui. - Non so che farmene – ripetè. Decise di andarsene, ma non le fu permesso e non si ribellò, quando il braccio di Dunamis la fermò. Questa volta non percepì alcuna forza, solo una delicatezza inaspettata, un calore che era stata certa averlo abbandonato. Gli diede le spalle, si lasciò abbracciare, il fiato sul collo, il viso dell’uomo sfiorato dai capelli che si erano liberati dall’acconciatura. - Continui a sbagliare, ma non mi diverte – sussurrò. Zaira arrossì senza essere vista. - Ti sei dimenticata di me - la turbò senza che si muovesse. - Non ricordi come sono fatto, non riconosci l’uomo che ami, non mi guardi dentro come un tempo, intenta solo a difenderti. Non ti biasimo, so essere terribile. Non ti ho permesso di vedere il mio cuore e tutto quello che ho fatto è stato perché… - la sua voce era diversa da pochi istanti prima, il disprezzo scomparso. Zaira trattenne il respiro. - … ti amo – la fulminò. Nell’animo ebbe uno sconquasso che la fece singhiozzare per poi cercare aria, aria… Non riusciva a respirare, serrata da lui, le sue mani sul ventre. - Ho sfidato gli dei per non amarti, non ci sono riuscito ed ogni inganno non ha senso se ti guardo. Le tue parole mi hanno assordato, il tuo dolore mi ha piegato. Ora concedimi di guardarti negli occhi e che i tuoi occhi, se lo vorrai, scorgano ciò che ti ho tenuto nascosto e ti ha fatto piangere – la incantò così facilmente da farla sentire stupida. Lasciò che la voltasse, ma non ebbe il coraggio di guardarlo. Il suo dito sotto il mento la costrinse in quel dovere gravoso, il cuore a ballare in gola una danza scatenata. Annegò. Fu inevitabile. Le lacrime scesero in un’ultima cascata che si asciugò sulla pelle incandescente. Annegò nell’abisso che Dunamis le concesse di vedere e ascoltò il battito del suo petto. Pur nella serietà ferma dell’uomo, scorse un amore che aveva davvero creduto estinto, che non aveva più sperato di rivedere e il senso di protezione di un tempo la pervase e la fece sentire forte, sollevandola dai patemi e dalle incertezze che avevano reso i giorni lancinanti. Non riuscì a sorridere, era sospesa in una


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dimensione che solo con lui poteva raggiungere. Pietrificata avrebbe voluto fare qualcosa. Non realizzò nemmeno il momento in cui la baciò lentamente, inesorabile, prudente e poi appassionato, lento e poi veloce, lieve e poi profondo, impacciato e poi abile. Allargò gli occhi, vide il mondo girare, si aggrappò alle sue spalle sul punto di svenire, ma non accadde e Dunamis non esitò più, le mani la percorsero tutta sino alla schiena inducendola a sdraiarsi sulla panca. Ignorò la sua reticenza poco convinta, le labbra calde cercarono la strada della sua felicità, perché la voleva felice, null’altro pensò in quel momento. La voleva felice e volare in alto con lei come mille volte avevano fatto. Abbattè l’ultimo confine tra loro, l’abito prezioso che aveva voluto per lei, la guardò in una nudità che aveva sognato per tanto tempo. La catturò e si lasciò catturare, assaporando l’emozione del contatto della pelle scottante. La baciò più volte, desiderando di farlo per sempre. La trascinò nei meandri della passione che avevano costruito insieme, la fece gemere e poi sorridere. Si fermò. Zaira parve svegliarsi, lo cercò con la fiamma del desiderio a scurirle gli occhi, lo riprese per quell’inutile pausa. Dunamis prese fiato e iniziò la corsa finale del loro amore immortale. Cavalcarono nelle lande della passione, scivolarono sulla sabbia del desiderio, ansimarono nel fuoco devastante della frontiera del piacere. Spiccarono il volo, la guardò nella felicità piena ed assoluta che seppe darle, trovando dentro di sé il senso del proprio respiro. Lo schianto fu inevitabile e la gioia travolgente. Caddero nel silenzio senza distogliere lo sguardo uno dall’altra. - Siete un bastardo – sussurrò Zaira. Nascose la testa nell’incavo della spalla. Vide per la prima volta la cicatrice che occhieggiava sotto l’orecchio. Ne rimase turbata, incerta la sfiorò. A quelle parole Dunamis sorrise, sapeva d’essere un bastardo, uno dei peggiori. A quel tocco invece si rabbuiò e la guardò serioso. - Il segno del Fato – disse interessandola. Zaira ricordò le parole di Fos, in uno scampato pericolo che le fece sentire un vuoto dentro. - Eravate morto – asserì. Si morse il labbro inferiore. - Sino a pochi istanti fa – rispose. Gli occhi neri del figlio del lupo scintillarono di vita.

FINE


UN AIUTO A COLPI DI PENNA &

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