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"LE DONNE PREFERISCONO IL NOIR" di Anna Maria Frascaroli
Titolo: LE DONNE PREFERISCONO IL NOIR Autore: Anna Maria Frascaroli Genere: Noir Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Gli Inediti Pagine: 140 Prezzo: 12,20 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS
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www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com redazione@0111edizioni.com
LE DONNE PREFERISCONO IL NOIR seconda edizione 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Anna Maria Frascaroli ISBN 978-88-6307-098-9 In copertina: immagine Shutterstock
Finito di stampare nel mese di Luglio 2008 da Meloprint – Il Melograno Cassina Nuova (MI)
Anna Maria Frascaroli
Le donne preferiscono il â&#x20AC;&#x153;noirâ&#x20AC;?
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Non siamo esseri perfetti. Il nostro volto e il nostro corpo sono asimmetrici, cosĂŹ pure la nostra anima e quando in essa prevale la parte peggiore, possono accadere le storie che sto per narrare.
Presentazione
Sei racconti al femminile nei quali le protagoniste, per sanare torti reali o presunti, scelgono vie trasversali. E in alcuni casi, queste vie conducono al crimine. Non si tratta dunque di eroine positive, ma di creature che agiscono dominate da sentimenti di ribellione, di passione o di odio, che la “Giustizia” condanna. Tuttavia, le motivazioni che le hanno indotte a infrangere la legge, attenuano in parte le loro colpe. Sono eroine fragili, ma al tempo stesso determinate: donne che preferiscono il “noir”.
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Il destino di Tamara Tamara: un nome, soltanto un nome. Che segnerà la sua vita: la sua predestinazione.
“Cazz…!” Mi morsi la lingua ricacciando in gola quell’inutile volgarità e, con un movimento della mano, allontanai la zanzara che si era presa la libertà di molestarmi. Sorrisi, simulando una docilità di carattere che non era di sicuro una mia caratteristica. “Caspita!” Calcai sulla ci per sviare l’attenzione di chi mi stava ascoltando e aggiunsi: “Fa’ molto caldo qui dentro.” L’agente di servizio mi guardò distrattamente e assentì col capo. Sembrava, infatti, che l’aria condizionata non funzionasse. “Quanto sei stronza.” Imprecai silenziosamente con me stessa. “Sono mesi che ti sforzi di comportarti come una signora, sei perfino riuscita a ingannare un criminale psicopatico come Piero, e adesso? Vuoi metterti in evidenza per una puntura di zanzara?” Mi guardai attorno per l’ennesima volta e scrutai i volti di coloro che, come me, erano in attesa: eravamo in un gruppo numeroso, forse una cinquantina di persone, tutti bloccati all’Aeroporto di Milano Malpensa per un controllo dei documenti che pareva richiedere un tempo un po’ troppo lungo. Non conoscevamo le ragioni di questa attesa prolungata, ma immaginavamo cercassero qualche criminale, forse dei terroristi. Dopo i recenti fatti dell’undici settembre, viaggiare era sempre più difficile. Tutti, chi più, chi meno, eravamo irritati per il ritardo e in ansia per i nostri impegni che rischiavano di saltare; ma io avevo qualcosa da nascondere; gli altri non so. I documenti che avevo consegnato alle autorità non appartenevano a me, ma a Monica Giuliani e di lei conoscevo solo quello
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che Piero mi aveva raccontato, oltre al suo aspetto fisico, rivelatomi dalle fotografie che durante i sei mesi di frequentazione lui mi aveva mostrato. Io e Monica eravamo due gocce d’acqua: avevamo quasi la stessa età, lei tre anni più di me, stesso aspetto fisico, ma diversissima educazione ed estrazione sociale. In sei mesi ero quasi riuscita a colmare il vuoto che ci divideva, soffocando i miei istinti trasgressivi e il mio stile libero di ragazza di strada. Dio, quanto era stato faticoso! Ma quando pensavo ai soldi che mi attendevano in quella lontana isola, su quel conto corrente cifrato, ogni fatica spariva miracolosamente per lasciare spazio alla gioia più incontenibile. Provavo improvvisamente il desiderio di ballare, di cantare a squarciagola, di dire tutte le parolacce da tempo trattenute, ma che il mio vocabolario ben fornito non aveva certo dimenticato. Ed erano tante. “Da quanto tempo aspettiamo?” L’uomo vestito di grigio, con la cravatta di seta azzurra a piccole righe trasversali color arancio, mi guardava con occhi libidinosi; provai un improvviso fastidio a quello sguardo inopportuno, considerata la situazione in cui ci trovavamo. “Non so.” risposi con tono secco, “Forse una mezz’ora.” “Io ho un appuntamento di lavoro a Parigi. Non capisco perché non ci dicono almeno perché ci trattengono.” Avrei voluto rispondergli: “Anch’io ho un appuntamento: in una banca di Nassau, con una nuova vita e una nuova identità. Voglio finalmente seppellire Monica Giuliani e il suo passato di moglie esemplare con un bel funerale: in fondo se lo merita.” Ma non dissi nulla e mi limitai ad alzare e abbassare le spalle in segno di impotenza. Non potevo fare altro. Chiusi gli occhi e appoggiai il capo allo schienale della poltrona cercando di rilassarmi, ma le immagini che si susseguivano nella mia mente, non facevano che aumentare l’ansia che la situazione attuale mi provocava. Iniziai a riflettere rapidamente: “I documenti sono autentici, il passaporto è appena stato rinnovato, Monica è morta da sei mesi, ma nessuno lo sa. Dunque, sotto questo aspetto, non devo preoccuparmi. E se avessero scoperto il corpo di Piero? No, non è possibile! E’ morto soltanto ieri pomeriggio e non lo cercheranno che tra un mese: forse lo troveranno prima, ma impiegheranno tempo per l’identificazione e intanto io sarò lontana. Avrò un nuovo no-
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me e un nuovo aspetto e di tutti gli sforzi fatti per assomigliare a Monica non resterà traccia.” Respirai profondamente per infondermi coraggio e, quasi senza rendermene conto, ripercorsi con la mente le tappe più importanti della mia vita. Il mio breve passato era una storia già sentita: pareva uscita dalle pagine di un romanzo popolare, scritto per un pubblico di lettori dai gusti facili. Avevo iniziato il mestiere a sedici anni, dopo avere abbandonato la mia famiglia per sfuggire ai maltrattamenti di un padre alcolizzato: nessuno, tra i miei parenti, si era preoccupato di cercarmi. C’era qualcosa di originale in questa storia? No, la banalità più assoluta. Ma ero bella, tutti lo dicevano e lo capivo dagli sguardi degli uomini, che avevano incominciato a fissarmi con bramosia quando ero ancora una bambina. Dunque, che altro potevo fare? Considerando il fatto che, ormai, ero sola al mondo, senza una casa e senza un lavoro, non avevo molte alternative dinanzi a me, se non prostituirmi. E così, dopo un periodo iniziale di apprendistato, necessario anche per quel mestiere, ero caduta nella rete della prostituzione organizzata: in poche parole, lavoravo per un pappone, il che significava che, nelle mie tasche, restava ben poco. Non era un lavoro difficile, forse ne avevo l’attitudine o forse no, ma a soli ventidue anni mi sentivo in cuore il vuoto più assoluto. Non credevo in nulla e in nessuno, non avevo fede in nessun Dio, né speranze per il futuro; in realtà non desideravo neppure averlo un futuro. Poi, una notte incontrai Piero e la mia vita cambiò. No, non era arrivato il principe azzurro e neppure l’uomo dei miei sogni: avevo smesso presto di sognare. Ma tra me e lui avvenne qualcosa, nacque uno strano sentimento. Compresi solo in seguito che, da parte sua, si trattava del tentativo di ricostruirsi una parte di vita perduta, quell’angolo d’amore da lui stesso distrutto, mentre da parte mia, si era accesa una vaga speranza di riscatto. Piero non cercò di fare all’amore con me, né quella prima sera, né mai. Voleva semplicemente parlare ed essere ascoltato. Mi guardava con venerazione, come fossi una persona speciale o come si guarda un’immagine sacra, e io ne fui lusingata, anche se non riuscivo a spiegarmi le ragioni di quella sua adorazione per me. Ero bella e lo sapevo, ma non ero certo una santa da adorare. Mi chiamava Monica, mentre il
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mio nome era Tamara; il mio nome di puttana, naturalmente. Quello vero, l’avevo dimenticato. Piero ritornò con regolarità, una volta alla settimana e mi ritrovai ad attendere quegli incontri con trepidazione, quasi come un’innamorata. Erano gli unici momenti in cui mi sentivo trattata da essere umano e non solo come un oggetto con cui giocare, a volte anche brutalmente. Lui mi guardava con intensità, quasi volesse imprimersi il mio volto nella mente, ascoltava con attenzione le mie parole, mi sfiorava i capelli e mi sorrideva dolcemente. Poi mi parlava di sé, del suo lavoro e della sua vita, divenuta vuota da quando lei, Monica, non c’era più. Al terzo incontro, gli chiesi chi era Monica e lui, con sguardo allucinato, rispose: “Sei tu!” Non pretesi spiegazioni alla sua risposta, ero abituata a non riceverne. Del resto, perché complicarmi la vita? Dopo quella sera, volle parlare con il mio boss per ottenere da lui la concessione di trascorrere con me l’intera notte, una volta alla settimana. Naturalmente, dietro esborso di un ampio supplemento in cambio di quella cortesia. Ottenne quella cortesia e allora mi portò in un lussuoso albergo, ordinò una cena raffinata, una bottiglia di champagne e mi fece indossare una camicia da notte rosa di seta pura. Finalmente, quella sera mi disse chi era Monica. La sua voce era stranamente dolce e lo sguardo vagava lontano, mentre parlava. “Era mia moglie.” disse, “ed era bella come te. Io l’ho uccisa, l’ho stretta forte tra le mie braccia, troppo forte. Nessuno lo sa, e non lo sapranno mai.” La mia mente si rifiutava di credere alle sue parole: mi rivelavano una realtà che mi spaventava e distruggeva le mie speranze di riscatto. Scossi il capo sorridendo, con la speranza di scorgere una luce scherzosa nei suoi occhi, ma non fu così: c’erano solo lacrime. “Amavo Monica” continuò, “e l’amo ancora. Ma lei voleva da me un amore che io non posso dare. Ho dovuto ucciderla, capisci?” A quel punto la sua voce si infervorò, poi proseguì dolcemente: “Ma non devi avere paura, a te non farò mai del male. Tu sei la sua immagine e hai preso il suo posto nel mio cuore.”
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Ebbi improvvisamente freddo e cominciai a tremare; allora lui mi abbracciò e mi tenne stretta a sé con infinita dolcezza. Era la prima volta che qualcuno mi dimostrava tanto affetto e, nonostante la paura che la sua rivelazione mi aveva suscitato, provai una strana sensazione di tranquillità. Non riuscirò mai a spiegarmi il perché di queste mie emozioni contrapposte: forse il senso di sicurezza era una conseguenza del fatto che lui non abusava di me, non forzava la mia volontà, non pretendeva da me nessuna prestazione, nonostante il suo pagamento gliene desse pieno diritto. E così mi lasciai cullare dal suo tenero abbraccio, senza pormi il benché minimo problema di coscienza riguardo alla sua terribile confessione; mai mi sfiorò il pensiero di confidarmi con qualcuno, tantomeno di rivolgermi alla polizia. In fondo, non era affar mio. E il nostro strano rapporto continuò, con incontri settimanali approvati dal mio boss e, con il tempo, andò rafforzandosi: immaginavo che Piero fosse molto ricco per sostenere, senza batter ciglio, il costo aggiuntivo che gli veniva addebitato, oltre al costo dell’albergo di lusso che ci ospitava. Solo in seguito iniziò a parlarmi del progetto che la sua mente stava elaborando: la fiducia che aveva in me, andava ogni giorno rafforzandosi, soprattutto, perché io ero la colonna portante del suo progetto. Mi confermò di avere ucciso Monica e di averne seppellito il corpo nel giardino della sua villa di campagna. Non gli era stato difficile far credere ad amici e parenti che Monica era partita per gli Stati Uniti per assistere una sorella, ammalata di cancro. Sarebbe rimasta con lei finché fosse stato necessario. A questo punto entravo in scena io, che le assomigliavo come una goccia d’acqua, per prendere il suo posto. Ma era necessario, da parte mia, fare qualche piccolo sforzo: dovevo, innanzitutto, migliorare il modo di esprimermi, imparando a usare un vocabolario corretto, meno colorito ad esempio e, in seguito, imparare a modulare il tono della voce e assumere un portamento elegante, da vera signora. Dunque, niente più atteggiamenti sguaiati, abiti appariscenti, toni di voce incontrollati, né esibizioni delle parti più meritevoli del mio corpo. Ma non sarei comunque riuscita a ingannare amici e parenti, nonostante i
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miei sforzi, ed era perciò consigliabile evitare di avere con loro rapporti ravvicinati. Dopo un’accurata valutazione dei possibili rischi, Piero aveva preso la drastica decisione di abbandonare definitivamente l’Italia. E, naturalmente, aveva già programmato ogni particolare della nostra fuga e scelto anche il nostro futuro rifugio: le isole Bahamas. Durante un suo viaggio di lavoro, aveva aperto un conto corrente cifrato su una banca di Nassau, e vi aveva versato una grossa parte del suo patrimonio. Che, a suo dire, era considerevole. Il tutto, senza tenere nella minima considerazione l’eventualità di un mio possibile rifiuto. Mi chiedevo da dove gli venisse tanta fiducia in me. Da quel giorno le mie speranze di una nuova vita presero corpo e dedicai tutto il mio tempo libero a renderle realizzabili. Non persi tempo a valutare la morale delle mie azioni, tantomeno delle sue: se lo avessi fatto avrei dovuto rinunciare al sogno di fuga dalla realtà spregevole in cui vivevo e, dal momento che avevo intravisto una possibilità di salvezza, non volevo certo rinunciarvi. Mi impegnai invece a fondo per migliorare il mio comportamento, imparando a esprimermi con proprietà e, posso assicurare, non era certo un’impresa facile, abituata com’ero da sempre al gergo della strada. Il peggiore naturalmente: i miei modi di dire più comuni erano: “cazzo”, “merda”, “vaffaunculo” e altre eloquenze del genere, più o meno vivaci. E l’ambiente che frequentavo non mi era certo di alcuno stimolo nel darmi una mano a migliorare il mio linguaggio. Il mio unico stimolo era la forza di volontà che mi animava, accresciuta dal miraggio di un’isola nel sole che racchiudeva un tesoro. Ma mi sforzai e mi accorsi di avere ottenuto un discreto risultato, quando Luana, una mia collega di strada, una sera mi disse: “Ma che te sei messa ‘n testa? Stai a parlà comm’una del jet set!” Le sorrisi mellifluamente, senza rispondere. Sognavo a occhi aperti il mio futuro, affrancata dall’attuale schiavitù, al caldo sole dei Caraibi e ricca a sufficienza da non dovere più lavorare per vivere. Ma c’era, però, una lacuna nel mio sogno: Piero. Immaginavo che non avrei potuto sopportare a lungo e, soprattutto, a tempo pieno, un rapporto con lui, basato su un equilibrio di forze contrastanti, tra la sua venerazione e la mia avidità di vivere, la sua specie d’amore e la mia irrequietezza. Inoltre temevo che anche lui, col tempo, non avrebbe mantenuto quel suo
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atteggiamento di adorazione verso di me. Prima o poi, si sarebbe reso conto che non ero una signora; prima o poi, la sua personalità psicotica sarebbe emersa. Più riflettevo, più la mia preoccupazione aumentava, tentavo di scacciare quel pensiero dalla mente, ma lui ritornava a tormentarmi, fino a divenire un chiodo fisso: avevo paura per la mia vita. Non potevo e, soprattutto, non dovevo dimenticare la fine che lui aveva riservato a Monica. E così, a poco, a poco, cominciò a prendere corpo nella mia mente l’idea di sbarazzarmi di lui. Ne valutavo i vantaggi e, naturalmente, i rischi e, sempre più, consideravo quell’idea come l’unica soluzione possibile: ma dovevo assolutamente assicurarmi prima un futuro economicamente vantaggioso. E pensavo continuamente a quel conto corrente cifrato a Nassau: dovevo, a tutti i costi, metterci sopra le mani. “Signora Giuliani.” Sussultai e aprii gli occhi ritornando alla realtà. Non ero abituata a essere chiamata “Signora”, ed ebbi un attimo di esitazione. L’agente di servizio mi stava porgendo la mano, invitandomi ad alzarmi e a seguirlo. Cercai di calarmi nel mio ruolo, ma il cuore mi batteva all’impazzata. Dio, perché si rivolgevano proprio a me? Forse avevano scoperto tutto. Lo seguii con le gambe che tremavano. Mi fece entrare nel piccolo ufficio, dove un funzionario, avvolto in una nuvola di fumo, attendeva seduto dietro un’altrettanto piccola scrivania. “Si accomodi, prego. Vuole una sigaretta o un bicchier d’acqua?” “No, grazie.” “Signora Giuliani, ci scusi per questo contrattempo. Desidera telefonare a suo marito e avvertirlo del ritardo? “No, non è necessario.” Il funzionario continuò a fissarmi con sguardo penetrante, giocherellando con qualcosa, probabilmente un passaporto, forse il mio. Disse: “Se non erro, dovevate partire insieme. Come mai lui ha annullato la prenotazione all’ultimo momento?” Il mio cuore perse un battito. Perché quella domanda? Risposi trattenendo il respiro: “Sì, è vero. Dovevamo partire insieme, ma poi abbiamo avuto una discussione e lui è partito ieri per un safari in Kenia. Ho atteso fino all’ultimo a disdire, speravo… sa… che cambiasse idea.” Il funzionario non disse nulla e io, allora, azzardai:
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“Per quale motivo siamo trattenuti?” “Controlli di sicurezza. Abbiamo avuto una segnalazione.” Si appoggiò allo schienale e improvvisamente sorrise, mostrando i denti ingialliti dalla nicotina. Poi, mi porse il passaporto con gesto magnanimo, come fosse un’elargizione. In realtà lo era, ma lui non lo sapeva. Disse: “Ci scusi ancora per la seccatura, ma i tempi che corrono ci obbligano ad eseguire controlli serrati su ogni minima segnalazione che ci perviene. E lei non può immaginare quanti mitomani ci siano in giro.” Sorrisi, trattenendo a fatica il sollievo che provavo. “Beh, lei è scusato. I vostri controlli sono a beneficio della nostra sicurezza.” Presi il passaporto con la sinistra e allungai la destra per stringergli la mano che mi stava porgendo. “Grazie e arrivederci.” “Buon viaggio, signora Giuliani.” Piero mi fissava intensamente, sentivo il suo sguardo allucinato su di me, mentre mi metteva al corrente del piano d’azione in ogni minimo particolare. Riteneva che io fossi ormai pronta per affrontare l’avventura al suo fianco. Aveva acquistato i biglietti aerei per la nostra fuga e me li mostrò: erano intestati a Piero e Monica Giuliani e riportavano la data del viaggio, fissato tra venti giorni. Mi mostrò, inoltre, il passaporto di Monica e provai un forte disagio guardando la sua immagine che mi fissava riflettendo la mia: avevo la sensazione che lei, l’altra me stessa, mi guardasse con diffidenza, incolpandomi per essere in procinto di prendere un posto che non era il mio. Mi chiesi se anche gli altri avrebbero letto in quello sguardo l’accusa che vi leggevo io. Ma Piero interruppe le mie riflessioni e disse: “Questo è il passaporto di Monica, il tuo, da questo momento. Domattina dovrai andare in Prefettura per rinnovarlo.” Scosse il capo contrariato. “Monica lo aveva lasciato scadere.” disse, “Dimenticava troppo spesso le cose. Sì, la distrazione era uno dei difetti che più detestavo.” Tacque un momento pensieroso, come se quel ricordo lo disturbasse ancora. Poi continuò a darmi istruzioni: “Ho preparato tutto ciò che ti serve, devi solo provvedere alle fotografie. Da questo momento tu sei Monica Giuliani. Ti consegno i suoi docu-
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menti, ormai appartengono a te: patente, carta d’identità, codice fiscale, tessera sanitaria, tutto ciò che ti occorre per prendere definitivamente il suo posto. L’operazione che dovrai compiere domattina sarà la tua prova del fuoco.” Ero emozionata ed eccitata al tempo stesso; sentivo che il momento tanto atteso si avvicinava. Allora azzardai a chiedergli chiarimenti sull’argomento che più mi stava a cuore e che, per me, rappresentava il fulcro dell’intera operazione: la nostra futura situazione finanziaria. Mi guardò con uno strano sorriso, poi aprì la borsa porta documenti ed estrasse la sua agenda nera. Alla lettera esse mi mostrò un indirizzo: Mr. Stevens - City Bank - Nassau, seguito da un numero telefonico, più una lettera e una cifra di quattro numeri, che memorizzai immediatamente. Avevo un’ottima memoria per i numeri. “Vedi cara, appena arriveremo a Nassau, andremo alla City Bank, ci rivolgeremo a Mister Stevens e sarà sufficiente sillabare questo numero.” “Anch’io potrò farlo?” Chiesi simulando semplice curiosità e lui, subito rispose: “Certo. Tu sei mia moglie e hai pieni diritti. Del resto, si tratta di un conto cifrato. Basterà mostrare a Mr. Stevens questo numero. Ma non devi preoccuparti, perché ci andremo insieme.” Mi strinse forte a sé e io chiusi gli occhi, sollevata dalla sua risposta. Poi, dopo una breve pausa, continuò: “In quel conto ci sono quindici miliardi di lire e, credimi, il costo della vita, laggiù è molto più basso che in Europa. Con quei soldi potremo vivere da gran signori. Troveremo una casa, in un’isoletta tranquilla e saremo felici per sempre. Dovrai però imparare l’inglese: è la lingua ufficiale là. Ma tu sei una ragazza intelligente, imparerai presto.” Sì, l’inglese, dopo Piero, era l’altro mio scoglio. Per questo il giorno dopo acquistai una grammatica e un traduttore elettronico istantaneo, per essere in grado di affrontare almeno il primo periodo. In seguito avrei preso delle lezioni, sicuramente non mi sarebbero mancati i mezzi. Avevo dinanzi a me venti giorni di tempo e dovevo assolutamente studiare un modo per liberarmi di Piero, dopo essermi impossessata dei suoi soldi. Ma non sapevo come. Non avevo ancora maturato il progetto di ucciderlo. Fu lui a farmi balenare quell’idea o, per meglio dire, a farmi prendere la decisione.
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Durante il nostro ultimo incontro, quello che precedeva la nostra fuga, mi portò, come al solito, in quel lussuoso albergo per trascorrervi insieme l’ultima notte mercenaria. Eravamo sdraiati l’uno accanto all’altra, immobili, mentre la luce soffusa delineava strane ombre alle pareti, e la filodiffusione trasmetteva musica classica: mi parlava e le sue parole seguivano un percorso confuso, chiaro a lui solo. Ma, immensamente importante per lui, naturalmente. A un tratto ebbi un improvviso colpo di tosse, rumoroso e forse anche sgradevole, e sobbalzai di scatto. Fui costretta a interrompere l’ascolto per bere un bicchier d’acqua, proprio mentre lui parlava di Monica, e il suo momento magico si spezzò. La reazione fu violenta e inaspettata. “Stupida, cretina!” disse, “Cerca di avere controllo su te stessa.” “Ehi, che ti prende? Sta’ calmo!” La mia istintiva reazione fu scambiata da lui per un affronto. Non ebbi il tempo di ripararmi il volto, che il suo schiaffo mi colpì la guancia come una scudisciata e il naso prese a sanguinare. Lo guardai con stupore e paura, senza osare reagire e fu senz’altro la mossa che mi salvò dalla sua violenza. Vidi la rabbia sbollirgli dal volto e il suo sguardo, che era prima divenuto di ghiaccio, cambiare lentamente espressione e raddolcirsi, pentito. Mi abbracciò e con voce piagnucolosa, iniziò una lunga sequela di scuse: “Perdonami, piccola. E’ stato un impulso inspiegabile, perdonami. Tu sei la mia bambina, io ti amo, non ti farò mai più male. Te ne ho già fatto troppo in passato.” Compresi che ormai, nella sua mente, io avevo definitivamente preso il posto di Monica e sentii brividi percorrermi la schiena. Ma finsi calma e serenità e gli risposi sorridendo: “Non è nulla, è passato. Continua a parlarmi.” In realtà l’effetto sgradevole non era passato affatto e non mi riferivo certo al dolore fisico. Ero spaventata, ma quella nuova paura, mi aveva dato la spinta che mi mancava. Dovevo liberarmi di lui e non avevo che una possibilità: ucciderlo. Mi occorreva un’arma e, fortunatamente, sapevo a chi rivolgermi: l’ambiente che frequentavo mi offriva almeno questa possibilità. Non mi restava tempo per riflettere ed era meglio così. Ero ormai in possesso dei documenti che mi servivano, oltre al numero di conto della banca di
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Nassau: ma dovevo farmi consegnare da lui il mio biglietto aereo. La data della partenza era vicina, il tempo stringeva. Il mattino successivo telefonai a Luana. “Sveglia, dormigliona. Sono le undici di mattina.” “Che vuoi? Sono andata a letto alle sei, ho ancora sonno.” “Mi serve una pistola. Puoi aiutarmi?” “Ehi, non fare stronzate. Ti sei messa nei guai?” “No, è solo una precauzione. Allora, me la procuri?” “Va bene, ma ti costerà.” “Quanto?” “Cinquecentomila. Puoi pagare?” Era un costo esagerato, ma non avevo il tempo per discutere. “Sì, d’accordo. La ritiro giovedì mattina a quest’ora, va bene?” “Va bene. Ciao, me ne torno a letto.” Ecco, la prima mossa era fatta. Ora dovevo pensare a come attirare Piero nella trappola e farmi consegnare il biglietto. Non era difficile, bastava fissargli un appuntamento con una scusa, senza dargli il tempo di riflettere, per il giovedì nel pomeriggio; venerdì sera dovevamo partire insieme per Parigi, dove sarebbe decollato l’aereo che ci avrebbe condotti a Nassau, via Miami. Trascorsi il mercoledì a studiare il mio piano d’azione, concentrandomi sui particolari, riflettendo su ogni mossa: non dovevo trascurare nulla. Non ero un’esperta criminale, ma avevo una mente sveglia e poi, dicevo a me stessa: “Se Piero ha ucciso sua moglie e nessuno lo ha scoperto, perché dovrebbero scoprire me?” Giovedì a mezzogiorno noleggiai una Opel Corsa e, dopo avere ritirato la pistola da Luana, telefonai a Piero, da una cabina telefonica. “Ciao.” Parlai a bassa voce e con tono concitato, come se qualcuno mi stesse braccando. “Piero, sono nei guai,” dissi, “dobbiamo partire separatamente. Devi portarmi il biglietto aereo subito, ti prego.” “Ma, cosa è successo?” C’era apprensione nella sua voce ed era quello che volevo. Continuai, sempre con tono concitato: “Ora non posso spiegarti, il mio boss mi sta controllando. Ho paura. Dobbiamo vederci al più presto, ti prego. Tra mezz’ora, sulla statale, vicino al distributore della Esso.”
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“Va bene.” Sospirai di sollievo e abbassai il ricevitore. Mi avviai al luogo dell’appuntamento, scelto appositamente in una zona periferica, vicino al fiume e frequentata soltanto di notte; l’unico traffico diurno era costituito da automobili e camion, non c’era passaggio pedonale. In quanto al distributore della Esso, sapevo che il giovedì pomeriggio era chiuso per turno. Conoscevo molto bene quel luogo e anche Piero lo conosceva: era lì che c’incontravamo ogni settimana. Arrivai con qualche minuto di anticipo e parcheggiai l’auto, in attesa. Vidi la sua automobile arrivare, misi in moto e accesi le luci di emergenza per farmi vedere. Accostò, spense il motore, scese dall’auto e si avvicinò al mio finestrino. Lo abbassai solo un po’ e gli dissi: “Sali, svelto, per favore.” Salì al mio fianco e io partii immediatamente, senza spiegazioni. “Ma, che succede?” “Hai portato il biglietto aereo?” “Sì.” Tolse la busta di plastica dalla tasca della giacca e me la mostrò. Sospirai di sollievo. Poi chiese: “Allora, che c’è?” “E’ accaduta una cosa terribile, sono disperata.” Risposi singhiozzando e la finzione non mi riuscì difficile: l’ansia che mi attanagliava mi accelerava il respiro, rendendo la mia recitazione più realistica. Voltai a destra, proseguendo nella strada di campagna che costeggiava il fiume e che conoscevo bene: era uno dei luoghi utilizzati da noi puttane durante il nostro mestiere notturno. Avanzai per duecento metri circa, poi fermai l’auto sulla riva del fiume. Intorno non c’era nessuno. “Allora? Smettila di piangere e parla, per favore.” “Un momento, prego. C’è prima una cosa che devo mostrarti.” La mia voce era rotta da singhiozzi senza lacrime, ma, nonostante l’emozione, ero fermamente decisa ad andare fino in fondo. Mi girai, e con la mano destra pescai nella tasca posteriore situata nello schienale del passeggero, dove lui sedeva: impugnai la pistola che vi avevo riposta e preparata per l’uso. Gliela puntai alla tempia sinistra. Ero tesa allo spasimo, ma la mia mano non tremava.
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Mi guardò incredulo, come paralizzato, ma non gli diedi il tempo di esternare il suo stupore: premetti il grilletto. Per due intere notti avevo studiato quella mossa e sapevo che, solo agendo senza inutili attese, sarei riuscita a portare a termine la mia azione. Ma ero ugualmente sorpresa per la mia freddezza. Da dove mi veniva tanto coraggio? Forse dal lontano miraggio di un’isola nel sole, dove mi attendeva un tesoro? Chiusi gli occhi per qualche istante, ma li riaprii subito: dovevo tamponare il sangue, prima che mi sporcasse la tappezzeria dell’auto. Sul sedile posteriore avevo collocato un asciugamano: lo presi e glielo avvolsi attorno alla testa. Era sicuramente morto e si abbandonò pesantemente sul sedile. Stranamente, non provavo nessuna emozione, ma evitai comunque di guardarlo; non volevo imprimermi la sua immagine nella mente. Infilai un paio di guanti di plastica e ripulii la pistola con uno straccio, poi misi nuovamente in moto e guidai, inoltrandomi nel terreno sassoso, lungo l’argine del fiume, finché trovai spazio sufficiente per fermarmi, sul bordo. In quella posizione l’acqua del fiume era abbastanza profonda e la corrente era sufficientemente forte per trascinare un corpo e trasportarlo fino alla piccola rapida, più avanti. Gli frugai nelle tasche dei pantaloni e ne tolsi le chiavi dell’auto e il portafoglio, dentro il quale c’erano alcune banconote, il blocchetto degli assegni e le carte di credito. Nel taschino della camicia non c’era nulla, dalla tasca della giacca sfilai, invece, la busta contenente il mio biglietto aereo, il mio passaporto verso la libertà, oltre alla sua carta d’identità e alla patente di guida. Non portava anelli e non persi tempo a controllargli le mani, per quanto riguardava l’orologio glielo lasciai al polso: era un orologio come tanti e da quell’oggetto senza valore non sarebbero risaliti a lui. Scesi, girai attorno all’auto e aprii lo sportello destro per farlo scivolare fuori. Avevo le scarpe da jogging, ma dovetti appoggiarmi all’auto per mantenere l’equilibrio; il terreno mi franava sotto i piedi. Guardai in basso e l’acqua verdastra del fiume mi sembrò terribilmente vicina. Rientrai in macchina e, dal mio posto di guida, spinsi il suo corpo verso l’esterno con tutta la forza che avevo, finché riuscii a scalzarlo dal sedile. Ma dovetti aiutarmi con i piedi e spingere forte, per riuscire a farlo rotolare giù, nel fiume. Sentii un tonfo e pensai: è finita.
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Scesi nuovamente dall’auto per guardare in basso, nell’acqua, e intravidi la massa scura del suo corpo, che la corrente trascinava con sé. Fortunatamente, era piovuto durante la settimana e il fiume era quasi in piena. Tenendomi ben salda sulle gambe, presi la pistola che lo aveva ucciso e la lanciai nel fiume, dietro di lui. Poi, richiusi lo sportello, raccolsi l’asciugamano che era rimasto sul terreno e rientrai nell’auto. Tolsi dal sedile la fodera che vi avevo infilato per proteggere la tappezzeria da eventuali macchie di sangue, e controllai che non vi fossero altre tracce che potevano essermi sfuggite. Eseguii tutte le azioni meccanicamente, ripetendo le sequenze che, durante i due giorni precedenti, avevo studiato in ogni minimo particolare. Evitando sempre, accuratamente, di soffermarmi sul significato dell’azione che stavo compiendo. Mentre percorrevo il tragitto per ritornare dove Piero aveva parcheggiato la sua automobile, mi fermai a gettare l’asciugamano e la fodera del sedile in un cassonetto della spazzatura. Appena giunta, ispezionai l’interno della sua auto: la sua borsa porta documenti era posata sul sedile posteriore e la curiosità fu troppo forte perché io potessi trattenermi. L’aprii e, sempre indossando i sottili guanti di plastica, frugai rapidamente tra le sue molte carte di lavoro. L’agenda nera fu presto tra le mie mani e guardai immediatamente alla lettera esse: il nome di Mr. Stevens balzò subito ai miei occhi, insieme all’indirizzo della banca e al numero magico di quel conto. Lo stesso che io, comunque, avevo memorizzato molto bene. Mi complimentai con me stessa, mentre mi usciva un ampio sospiro di sollievo. Ripresi la mia ispezione e controllai sotto i sedili e nel bagagliaio, tolsi tutti gli oggetti personali che trovai e li misi nella sua borsa; infine sedetti al volante e guidai, fino a raggiungere la stradina sassosa di poc’anzi. Parcheggiai l’auto di Piero tra gli alberi, in un terreno fangoso, nascosta agli sguardi di eventuali esploratori solitari, tolsi i documenti dal cruscotto e, dal parabrezza, staccai i tagliandi dell’assicurazione e del bollo di circolazione. Infine mi accinsi a portare a termine l’ultima operazione. Mi guardai attorno attentamente, ma sapevo che la zona, in quell’ora del giorno, era completamente deserta. Estrassi dalla borsa alcuni attrezzi che avevo portato con me e, sempre indossando i guanti di plastica, iniziai a rimuovere dall’auto le targhe: ero preparata al peggio e fui sorpresa, perché il
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lavoro si rivelò più semplice di quel che avevo previsto. In meno di mezz’ora, infatti, avevo terminato. Chiusi a chiave le portiere, mi sfilai finalmente i guanti e mi incamminai a piedi. Raggiunsi l’Opel Corsa in venti minuti circa ed erano le cinque e tre quarti del pomeriggio. Forse avrebbero trovato l’auto di Piero nel giro di due giorni, ma priva di documenti e di targa e comunque, non avrebbero cercato lui prima di un mese. Aveva comunicato a tutti che sarebbe partito per un safari, dunque, nessuno avrebbe segnalato la sua scomparsa. Forse avrebbero trovato il suo corpo, ma sarebbe trascorso del tempo prima che potessero risalire alla sua identità. Io, nel frattempo, sarei stata lontana. Riportai indietro l’automobile noleggiata e, durante il percorso, gettai le targhe e i guanti, il tutto racchiuso in una sporta di plastica, in un cassonetto della spazzatura, collocato in una zona della città opposta al luogo in cui avevo commesso il crimine. Mi avviai a piedi verso casa, per affrontare la mia ultima notte da puttana. Ma, grazie a Dio, sarebbe stata veramente l’ultima. Aprii gli occhi e mi guardai attorno: era quasi buio sull’aereo, la maggior parte dei passeggeri tentava di dormire, alcuni di loro avevano la mascherina per ripararsi gli occhi dalle poche luci rimaste accese. Mi sembrava impossibile essere finalmente libera. Non ero più Tamara la puttana, per il momento ero Monica Giuliani, una signora di buona famiglia in viaggio di piacere e in procinto di incassare un favoloso tesoro. Poi il denaro mi avrebbe dato la possibilità di crearmi una nuova identità, e così anch’io avrei avuto l’opportunità di scelta che mi era sempre mancata. Guardai l’orologio e vidi che mancavano trenta minuti all’atterraggio. Ero finalmente arrivata alla terra promessa. Mi svegliai al canto melodioso degli uccellini. Mi affacciai alla finestra e respirai l’aria tiepida del mattino, inalando i suoi profumi. Ero circondata dal verde, il sole creava luci colorate tra le foglie e l’odore del mare giungeva fino alle mie narici. Mi alzai, dedicai una meticolosa cura alla toilette mattutina e indossai un abito scollato, color lilla, che faceva risaltare le curve del mio corpo. Infine, mi guardai allo specchio compiaciuta.
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Dopo una sostanziosa colazione, presi un taxi e diedi all’autista l’indirizzo della banca. La rubrica nera di Piero era nella mia borsa e avevo trascritto su un bigliettino il codice cifrato. Dovevo chiedere di Mister Stevens e avevo imparato a memoria le poche parole in inglese che mi servivano, ma per precauzione avevo comunque preso con me il mio traduttore elettronico. Anche se non pensavo che avrei dovuto sostenere una conversazione: il biglietto con il numero sarebbe stato più che sufficiente. Il taxi si fermò all’indirizzo e io scesi. L’edificio della banca era fatiscente, il portone era scrostato e necessitava di una mano di vernice, come tutto il resto. Rimasi perplessa, ma diedi di spalle: in fondo, che importanza aveva? Entrai nel piccolo atrio, trascurato e polveroso e mi rivolsi al primo impiegato che incontrai allo sportello. Era nero di pelle e di grossa corporatura, vestito in maniera decisamente “casual”: camicia con maniche corte di uno sgargiante color rosa e blu jeans scoloriti. “Can I see Mr. Stevens, please?” (Posso vedere il Sig. Stevens?) Chiesi sillabando lentamente. “I am Mr. Stevens.” (Io sono il Sig. Stevens) Rispose il mio interlocutore. Lo immaginavo diverso, vestito più elegantemente, magari di bianco e con un sigaro avana tra le dita. Ma forse qui, in questo paese, la realtà era diversa da quella che il cinema e la letteratura ci propinavano. Tolsi dalla mia borsa il foglietto con riportato il numero cifrato e glielo porsi sorridendo. Anche lui sorrise ampiamente, ed esclamò: “Oh yes! Where is Mr. Giuliani?” (Oh si! Dov’è il Sig.Giuliani?) Mi sorprese sentir pronunciare il suo nome. Ero convinta che in questo genere di operazioni, esistesse l’anonimato. Consultai, comunque, il mio traduttore e gli risposi, sillabando faticosamente: “Mr. Giuliani will be here next week. He asked me to collect all the money. I am his wife, Monica Giuliani.” (Il Sig. Giuliani sarà qui la prossima settimana. Mi ha chiesto di prelevare tutto il denaro. Io sono sua moglie Monica Giuliani) “He sent us a fax, just two days ago, to wait for his arrival. We need his signature, we cant’ do anything without it.” (No, ci ha inviato un fax proprio due giorni fa e ci ha detto di attendere il suo arrivo. Abbiamo bisogno della sua firma, non possiamo fare nulla senza)
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Mi guardava sorpreso, allargando le braccia in segno d’impotenza, mentre parlava. Io non compresi tutte le sue parole, ma il significato sì. Poi, a prova di quanto asseriva, Mr. Stevens tolse da un cassetto un foglio di carta e me lo mostrò: era il fax scritto da Piero e ne riconobbi la firma. Qualcosa non funzionava, Piero non mi aveva detto la verità riguardo quel conto cifrato: quello era un normale conto corrente, intestato a Piero Giuliani e per fare qualsiasi operazione occorreva la sua firma. Mi sentii avvampare per l’imbarazzo e provai un improvviso senso di nausea, ma sorrisi a Mr. Stevens e dissi, controllando il panico che mi assaliva: “Yes, I understand, but I am his wife.” (Sì, capisco, ma io sono sua moglie.) Mr. Stevens ripetè: “Sorry, but we need his signature. Only Mr. Giuliani can collect his money.” (No! E’ necessaria la sua firma. Solo il Sig. Giuliani può prelevare il suo denaro.) Deglutii più volte, mentre sentivo il mio sogno scivolare lontano. Consultai il mio traduttore per trovare le parole appropriate per rispondergli e faticosamente riuscii a formare una frase. Ma la fatica maggiore non consisteva certo nel problema della lingua. Parlai stentatamente, sforzandomi di sorridere e mascherare la mia emozione: “Well…, we will be back together…, when my husband arrives.” (Bene, torneremo insieme, quando mio marito arriverà.) E uscii con passo malfermo dalla piccola banca polverosa. Pensai che, forse, in quel conto corrente non c’erano neppure quei quindici miliardi di lire di cui Piero mi aveva parlato, quella banca era troppo piccola per contenere tutti quei soldi. E chissà, forse Piero non aveva mai avuto tanto denaro. Le lacrime mi pungevano gli occhi, mi sentivo beffata dal destino, avevo ucciso un uomo per niente. Oh, non provavo certo sensi di colpa per questo, anzi! Non era che uno psicopatico assassino e l’umanità non aveva certo perso un granché. Nessuna pietà per lui, anzi. Provavo invece un odio feroce, che sentivo aumentare dentro di me, insieme al forte desiderio di ucciderlo. Peccato lo avessi già fatto.
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E adesso, che avrei fatto? Ero in un paese straniero, non ne conoscevo la lingua, avevo con me pochi dollari che non mi sarebbero neppure bastati per pagarmi una settimana di soggiorno. Inoltre non potevo certo ritornare in Italia! Avevo ucciso un uomo, il quale aveva ucciso sua moglie, della quale io avevo preso il posto: ero decisamente infognata nello sterco fino al collo. Che alternative avevo? La risposta alla mia disperata domanda mi giunse quasi subito: il giovane nero dinoccolato che mi veniva incontro sorridendo, me la diede. Si avvicinò guardandomi dalla testa ai piedi, fischiò di ammirazione e disse: “You are a bomb! We need girls like you baby. Do you want a job?” (Sei una bomba! Abbiamo bisogno di ragazze come te, piccola. Vuoi un lavoro?) Ecco, avevo trovato un lavoro, o meglio, il lavoro aveva ritrovato me. La professione più vecchia del mondo e che, grazie a donne stupide e sciagurate come me, sarebbe sopravvissuta eternamente. Scossi il capo sconsolata: avevo fatto migliaia di chilometri con una speranza in cuore che mi aveva dato la forza di uccidere un uomo, e ora mi ritrovavo daccapo, a ricominciare a vivere la mia solita vita. Guardai il cielo sopra di me: era di un nitido color azzurro, con qualche nuvoletta candida, come panna montata. Inspirai profondamente, assaporando l’odore del mare, di cui intravedevo la striscia azzurra in fondo alla strada, e del quale udivo lo sciabordio ritmico delle onde. Avevo alternative di scelta? Sorrisi al giovane uomo che mi guardava, attendendo da me un cenno: alzai le spalle e lo seguii rassegnata fino al piccolo albergo, in riva al mare. Quando mi chiese qual era il mio nome, non ebbi esitazioni e risposi: “Tamara.” E mentre rispondevo, ricordai il malloppo di documenti che erano appartenuti a Monica e a quelli di Piero, tutti racchiusi nella mia valigia, in albergo. Dovevo immediatamente sbarazzarmene, gettarli nel primo cassonetto della spazzatura, o meglio, in mare. Quanto a me, non potevo fare nulla per sbarazzarmi di me stessa.
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Il mio nome era Tamara e sfuggire al mio destino era inutile, perché il destino mi avrebbe raggiunta ovunque. C’era musica nell’aria, il sole mi accarezzava le braccia nude, dandomi una dolce sensazione di benessere: avevo soltanto ventidue anni e, nonostante tutto, continuavo ad amare la vita. Che “cazzo” potevo farci?
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Pagina nera Giovanna ha vendicato i torti subiti gettandosi alle spalle il suo passato. Ma dimenticare non le sarà facile.
Le mie dita scorrevano veloci sulla tastiera, nonostante il velo di malinconia che turbava il mio animo. Ma non volevo interrompere il mio lavoro. Era il solo modo per reagire ai ricordi, che, da alcuni giorni, si erano intrufolati tra i miei pensieri costringendomi a rivivere momenti che avrei voluto cancellare per sempre. Li allontanai dalla mente e seguii l’impulso letterario, che pulsava in me vivo e proficuo. “La città era grande e offriva tutto, ma Abdel poteva solo guardare il ben di Dio che lo circondava. Con le mani in tasca, camminava con passo felpato, da gatto, rasentando i muri. Come se la loro solidità potesse proteggerlo. Ed era l’unica protezione su cui poteva contare, oltre alla sua audacia e alla sua agilità di giovane sedicenne arabo. Ma non era sufficiente…” La porta di casa si aprì e udii i passi di Roberta, seguiti dal tintinnare delle chiavi che, come al solito, lasciava cadere nel vaso di cristallo posato sul tavolino, accanto al telefono. Mi sembrò di vederla, capelli arruffati, sguardo ansioso, avanzare verso il mio studio. L’angolo di pace dove trascorrevo parte del mio tempo a scrivere, interpretando la vita dei personaggi che la mia mente creava. “Giovanna, gliel’ho fatta. Il primo del mese inizierò il mio nuovo lavoro.” Il tono di voce era esultante e indovinai che ci sarebbe stato un seguito. M’infastidiva la sua intrusione, frenava il mio estro creativo; ma non potevo certo mostrarglielo. Sapevo quanto era importante per lei, nel momento difficile che stava attraversando, avere un’amica che l’ascoltasse. Sospirai pazientemente, mi volsi a guardarla e sorrisi.
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“Te l’avevo detto di avere fiducia. Sei contenta?” “Beh… non saprei. Avere trovato un lavoro è già qualcosa, dopo venti anni passati a far la moglie, a prendermi cura di lui. E’ dura essere sola.” Lui: parlava di Giuseppe sottintendendone il nome, come fosse chissà chi. Forse, per lei lo era ancora. Aggiunse qualcosa che non compresi, poi rispose alla mia precedente domanda: “No, non sono contenta. Ma devo pur continuare a vivere.” “Gliela farai. Sei in gamba. Complimenti per il nuovo lavoro.” Mi rivolsi al mio computer e ripresi a scrivere, dal punto in cui mi ero interrotta. “…a difenderlo dalla fame, né dalla necessità di un riparo e di un giaciglio in cui trascorrere la notte. Quella che stava per arrivare e tutte le altre che sarebbero calate su quella grande città di mare, dove era appena sbarcato, insieme ad altri infelici come lui. Arrivati da un paese lontano, in fuga dalla miseria, per approdare in una ricca terra, che li avrebbe aiutati a sconfiggere la fame. Abdel si era lasciato alle spalle…” “Giovanna, ti ricordi cosa mi dicesti quando ti presentai Giuseppe?” Sbuffai in silenzio. Quel giorno, anch’io dovevo lasciarmi qualcosa alle spalle: il mio lavoro. “Si, se non sbaglio, dissi che non mi piaceva…, non mi pareva adatto a te.” risposi, “Ma avevamo gusti diversi in fatto di uomini.” I miei non si erano poi rivelati tanto migliori. “Beh, avevi ragione tu. Se allora ti avessi ascoltata! Spero che quella sgualdrina gli faccia passare quello che lui ha fatto passare a me. Dio, come li odio.” Ecco, avevano inizio le recriminazioni. Comprendevo il suo stato d’animo, ma m’infastidiva il suo modo di affrontare la situazione. Già: io e Roberta avevamo personalità diverse. Avevo fatto fronte alla mia realtà, in un certo senso simile alla sua, in maniera diametralmente opposta. Non ero rimasta ad attendere. Avevo preso l’iniziativa e, a modo mio, avevo risolto la situazione. Assumendomene le conseguenze. Ma lei, non era me. “Via Roberta. Piantala coi rancori. Il passato è cosa morta e il vittimismo non serve. Guarda al futuro, per questo abbiamo gli occhi davanti.”
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Il mio tono era stato un po’ brusco e me ne resi conto, ma la mia pazienza non era infinita. Immaginai i suoi pensieri: “E’ facile per lei che ha già superato la crisi dell’abbandono. Sono già passati cinque anni.” Ma non volevo lasciarmi coinvolgere in una conversazione senza fine e ritrovarmi poi a rimuginare sulle mie azioni. Troppe volte l’avevo fatto. No, non dovevo cadere nella trappola dei ricordi. Riaffioravano lo stesso, non c’era bisogno di sollecitarli. Ed erano solo miei, per sempre mi avrebbero accompagnato. “Scusami, hai ragione. Dimentico che anche tu hai avuto i tuoi guai e li hai superati da sola.” La delusione che traspariva dalla sua voce, mi procurò un crampo allo stomaco. La trappola era scattata, del resto, non potevo lasciarla sola a combattere con i risentimenti e le frustrazioni. Sì, lei era più debole di me. Mi alzai, staccandomi a fatica dal tavolo di lavoro e mi avviai in cucina. “Vuoi una tazza di tè?” “Non vorrei farti perdere tempo…” “Figurati!” “Grazie. Sai, mi sembra impossibile che sia trascorso un periodo così breve da quando Giuseppe se n’è andato. Non è stato un rapporto facile il nostro. Sapevo che mi tradiva, ma ero disposta a passarci sopra: tornava sempre da me.” Quante volte avevo sentito quel ritornello. “Ora non mi resta più nulla, tutto è finito e, se non ci fossi tu a consigliarmi, a darmi forza… Sei stata generosa offrendomi la tua casa e la tua amicizia. Non so come avrei fatto.” “Avresti trovato la forza in te stessa. Tu sei una donna in gamba Roberta, cerca di ricordarlo.” Cosa si era lasciato alle spalle Abdel? “Ma, non so.” Poi, con rinnovata energia, come se le mie parole avessero raggiunto lo scopo: “Certo, la mia vita è già cambiata: ho trovato lavoro e tra una settimana inizierò. Ti rendi conto? Promotrice vendite di software per computer. Io, che ho sempre odiato quelle macchine infernali. Capisci? Non sono più la stessa donna di prima.”
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Già: neppure io lo ero. Dentro di me esistevano due donne, ognuna protagonista di un periodo della stessa vita: il periodo che io definivo semplicemente “prima”, e l’altro, il presente che stavo vivendo. Avevo superato il primo, più o meno bene, e ora stavo affrontando il secondo, con le sue implicazioni psicologiche. Come può cambiare la vita! Ma non era certo il caso di raccontare a lei l’arduo cammino percorso per giungere al punto in cui mi trovavo. No, non volevo guardare indietro, avevo seppellito il passato, con il bene e il male che ne avevano fatto parte. Riportai la mente al mio racconto. “Abdel si era lasciato alle spalle una grande famiglia che non era in grado di provvedere al suo benessere…(benessere, è la parola più appropriata? Mah. dopo controllerò) Li aveva lasciati di notte, senza un addio, pagandosi il viaggio per mare, in parte coi soldi risparmiati, in parte con quelli trafugati dalle sacche dei suoi fratelli. I miei pensieri non riuscivano a fermarsi su un solo tema. Continuavano a danzare da un argomento all’altro. Divisi, tra il dramma che Roberta stava vivendo e solo apparentemente simile al mio, la storia di Abdel, che avevo iniziato a scrivere, e quella pagina nera del mio diario che riaffiorava, nonostante io non volessi. Porsi a Roberta la tazza di tè fumante e mi accinsi a bere il mio. E continuai a vagare, saltellando da un punto all’altro del triangolo che occupava interamente i miei pensieri. “Anch’io sono cambiata.” parlai con tono distaccato. “Le esperienze negative ci aiutano a crescere. Ci sono lati positivi anche nel dolore.” “Forse hai ragione. Oggi, quando mi hanno confermato l’impiego, mi è sembrato di toccare il cielo con un dito. Avrei voluto che Giuseppe mi vedesse, dimostrargli che me la cavo anche senza di lui. Sono riuscita a vendere un’immagine vincente. Non so neppure io come ho fatto.” Poi si strinse le mani, in un ritorno d’ansia e aggiunse: “Dio, non farmi sbagliare, ti prego!” “Stai tranquilla. Andrà tutto bene.” Misi le tazze nel lavandino e me ne tornai al computer. Il sole stava calando e, senza guardare l’orologio, mi resi conto del sopraggiungere della sera. Non volevo perdere il momento di vena creativa che sentivo serpeggiare dentro di me come un dono.
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Le mie mani ripresero a muoversi sulla tastiera, immaginarie farfalle all’inseguimento di visioni lontane. Dov’ero rimasta? Ah, ecco: digitai la parte che, mentre sorseggiavo il te, avevo immaginato e proseguii. “Voleva avere una scelta di vita, ma sapeva che avrebbe dovuto conquistarsela con le sue sole forze, magari rubando. E lui l’aveva fatto. Il coraggio non gli mancava. Ma ora le sue mani pescavano inutilmente nel fondo delle tasche vuote, come vuoto era il suo stomaco, che reclamava un po’ di cibo. C’era soltanto un pezzo di carta nella sua tasca destra, nella quale era scritto un indirizzo: Marcel, Rue Grignan 15. Non conosceva quel nome, ma gli era stato dato come punto di riferimento, prima di abbandonare il suo lontano paese.” “La prossima settimana mi daranno l’auto: avrò un’area grande tutta mia da gestire.” Una breve pausa che m’illuse, per pochi attimi, di poter continuare il mio lavoro. Poi, di nuovo la sua voce e la mia speranza svanì: “Dovrò viaggiare molto, ma la cosa mi entusiasma. Mi piace guidare l’automobile. Poi, mi daranno un rimborso spese e forse, ci guadagnerò anche. Se penso che non mi sono mai mossa da casa.” Un’altra pausa, seguita da un improvviso gridolino, forse, di preoccupazione. “Oh… dovrò andare al ristorante da sola. Io non l’ho mai fatto.” “Non ti preoccupare. Dopo la prima volta, non avrai più timori. Ci si abitua a fare tutto da soli e credimi: ci sono anche dei vantaggi.” Su questo non c’erano dubbi. Amavo la mia indipendenza e anche la mia solitudine. Mi ci crogiolavo dentro, come un pulcino nell’uovo. Soffrivo per la sua mancanza, ora che la mia vita privata era stata invasa. Vivevo la presenza di Roberta quasi come una minaccia. Ma tutto si sarebbe presto riequilibrato e lei avrebbe iniziato una nuova vita. Da sola, naturalmente. E imparando a crescere. “Il suo paese: immagini si avvicendavano nella sua mente, raffiguranti colline di sabbia, dune dorate dal sole, nitide, contro un cielo intensamente azzurro, inondato dai raggi di un cerchio infuocato che irradiava calore e che quando calava arrossava tutto intorno a sé. E gli si riempi-
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va il cuore di una struggente nostalgia, che faceva piangere, ma non di dolore: era un pianto di gioia. Un modo di ringraziare la generosità della natura. Quella natura così bizzarra, ricca nell’elargire la sua bellezza, ma poi avara al punto da non riuscire a dare a tutti il necessario per vivere.” Pensai ad Abdel con un senso di solidarietà. Questo giovane arabo che aveva abbandonato il suo paese per iniziare una nuova vita. Poi il pensiero volò a Roberta, che, non per sua volontà, stava vivendo un’esperienza analoga. C’era qualcosa che li accomunava? No, non c’era nulla. Pura coincidenza: la vita è un continuo avvicendarsi di trasformazioni. E io? Non ne ero stata io stessa protagonista? “Sai Giovanna, mia madre non sa ancora che io e Giuseppe ci siamo separati.” “E che aspetti a dirglielo? Se tua madre ti telefona al vecchio numero e le risponde quell’altra?” “La chiamo io ogni giorno, ma non ho il coraggio di dirle la verità. Giuseppe non piaceva alla mamma: si era abituata a lui col tempo, ma continuava a non piacerle.” La guardai attentamente: aveva il volto stanco, segnato da lunghe notti insonni e lo sguardo, un tempo sereno e fiducioso, rivelava un’angoscia interiore, che tentava faticosamente di reprimere. Ma nel fondo di quegli occhi, insieme alla paura, c’era ansia di ricominciare. Dov’era finita la candida Roberta di un tempo? Al suo posto si stava delineando una donna nuova, in lotta con se stessa e con le sue paure. Mi chiesi se ne fosse consapevole. “Mi spiace Giovanna. Ti faccio perdere tempo prezioso. Non ti disturberò più.” “Non preoccuparti. Non fa niente.” Risposi automaticamente e ripresi a scrivere dal punto in cui mi ero interrotta. “Abdel guardò verso l’alto. Anche qui il cielo era azzurro, ma di una tonalità diversa, offuscata da una patina di quello smog di cui gli avevano parlato, provocato dalle centinaia di motori che imperversavano per le vie della città, popolata da facce strane, che s’intrecciavano in arabeschi colorati e bizzarri. Volti dipinti, donne dall’età indefinibile, coperte
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o svestite, che a volte lo guardavano con occhi invitanti. E lunghe file di automobili, motociclette e motorette, che procedevano al suono rumoroso dei clacson dai timbri diversi. A un ritmo serrato che non consentiva il pensiero, ma solo l’azione. Istintivamente Abdel si avvicinò di più al muro e strinse i pugni nelle tasche vuote. Raggiunse l’indirizzo che cercava con facilità, solo una volta si fermò a chiedere spiegazioni a un’anziana signora, che gli rispose con diffidenza stringendo a sé la borsa della spesa. E c’era posto anche per lui a quell’indirizzo: era giovane, agile e sano, in grado di imparare presto la scuola di vita necessaria per sopravvivere. La formazione professionale che il nuovo paese gli offriva, la sua opportunità di scelta. E per quella scelta di vita aveva affrontato un lungo viaggio, tagliando i ponti con il suo passato.” Sentii la presenza di Roberta alle mie spalle e, soffocando l’irritazione che aumentava sempre più mi girai. “Sto tentando di gettare le basi per un racconto. Anche il mio protagonista sta iniziando una nuova vita.” “Come noi?” “No, non come noi.” Sembrava non voler intuire la mia necessità di non essere interrotta. Cresceva in me una rabbia sorda per quel suo volermi accomunare a lei. Ma non potevo esternarla. Infine, giunse la domanda. Quella che da tempo mi aspettavo: “Non hai più saputo nulla di Mario?” “No.” Risposi seccamente, senza possibilità di appello. Ma Roberta sapeva insistere; era pedante come i bambini. O forse, non capiva. “Sai, hai avuto fortuna. Mario se n’è andato con un’altra, ma ti ha lasciato il suo patrimonio, non sei costretta a lavorare per vivere. Puoi scrivere libri, che t’importa se non li pubblicherai?” Stavo per perdere il controllo: in cinque anni ero riuscita a ricrearmi una nuova identità morale, risolvendo i miei problemi nell’unico modo che avevo ritenuto possibile e che mi aveva consentito di vivere decorosamente. E, per sua conoscenza, i miei libri li pubblicavo e li vendevo. Ma lei, naturalmente, non conosceva la verità.
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Non sapeva che gli ultimi tempi vissuti con Mario, erano stati un lungo periodo di dolore e umiliazione. Mi aveva fatto soffrire atrocemente e, per questo, aveva pagato. E ora, che avevo seppellito il mio passato, Roberta mi costringeva a ricordare. Le gettai un’occhiata irritata: anche un bambino avrebbe compreso. Ma non lei. Frenai a stento parole sferzanti, di cui, poi, mi sarei pentita. Mi sembrò di vedere timore nei suoi occhi, forse, era solo imbarazzo. “Scusami, non volevo essere insistente.” La sua voce mi giunse lontana. Ormai la mia mente era altrove. Scaraventata indietro nel tempo e la voce che udivo, non era la sua. Ma un’altra. Quella di Mario, che mi supplicava, stupito per ciò che io, la sua paziente Giovanna, gli stavo facendo: “No, no! Basta, ti prego! Aiuto!” Sentivo il rumore del mare, che copriva le sue parole e mi stordiva, mentre io chiudevo orecchie e occhi alle sue invocazioni. Non avevo ascoltato, ma avevo continuato a colpire, una,due, tre volte con il remo, sentendomi dolere i muscoli delle braccia. Non ricordavo più quante. Solo il colore del mare, che si tingeva di rosso. Finché lui, era scomparso tra i flutti. Un ribollire di bollicine, cerchi che si allargavano, si allargavano, sempre più. Poi, il nulla. Allora avevo girato la prua del motoscafo e mi ero diretta verso riva. Lacrime, salate come acqua di mare mi rigavano il volto, mentre il sole bruciante le asciugava, creandomi solchi aridi sulle guance. Eravamo al largo e in quella zona c’erano squali. Io lo sapevo. Avevo semplicemente approfittato dell’occasione. Lui, con la sua crudeltà, aveva meritato quella fine. E così, la vacanza ai Caraibi era terminata con un addio definitivo. Al mio rientro in Italia, avevo raccontando ad amici e parenti che Mario aveva deciso di restare là, per sperimentare la vita che aveva sempre desiderato. Forse, con un’altra donna. Non era stato difficile: Mario non aveva più amici, solo rapporti superficiali. Nessuno aveva lamentato la sua mancanza. Inoltre, recentemente, si era dimesso dalla sua attività, incassando una generosa liquidazione, e
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aveva deciso di prendersi quel lungo periodo di vacanza, per poi scegliere che fare del suo futuro. Io non facevo parte dei suoi programmi, ma gli altri non lo sapevano. La vacanza ai Caraibi era stata una pausa di riflessione, un modo per chiudere per sempre i suoi rapporti con me. Ma ero stata più rapida di lui. Una volta tanto, l’avevo prevenuto. E così, ero rimasta sola. Nella casa, che, per anni, era stata la nostra residenza. Avevo trasferito titoli e denaro del conto cointestato, in un nuovo conto personale e, solo dopo, avevo denunciato l’amato consorte per abbandono del tetto coniugale. Ero apparsa come una vittima, agli occhi di tutti. E in passato, lo ero stata. Sospirai, tentando di ingoiare, ancora una volta, il mio segreto. Poi, mi volsi verso Roberta e dissi: “Non sono stata fortunata. Mario mi ha fatto molto più male di quanto tu possa immaginare. Ma ho reagito. In quanto ai beni che mi ha lasciato, li merito. Io non so dove lui ora si trovi, ma credimi. Non gli serve denaro. Amava tanto il mare, il sole e le bellezze naturali: gli basteranno sicuramente.” “Imparò presto, era un ragazzo pieno di risorse. Nel giro di pochi mesi fu in grado di portare a termine con successo lo scippo della borsetta…” Continuai a scrivere, ignorando Roberta e ricacciando indietro, ancora una volta, quel passato che non potevo certo narrare. Chissà, forse un giorno mi sarei decisa e avrei scritto un racconto, il cui titolo avrebbe potuto essere: “La mia pagina nera.”
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Inquietudini Quando l’infelicità ci spinge a cercare la morte, quando i sogni si trasformano in incubi... Ma poi, sono veramente incubi o è realtà?
Era un tardo pomeriggio di fine marzo e fu allora che misi in atto il mio progetto. Ne avevo vissuto nella mente ogni particolare, preparandomi a metterlo in pratica, ma avevo paura, malgrado tutto. Forse, per la consapevolezza del suo non ritorno. E iniziai a scrivere, pescando nel profondo delle mie inquietudini, ma le parole faticavano a prendere forma. Sembrava che fossero ormai stabilite, fissate nel tempo. Prima ancor della fine. “A chi la leggerà. Di solito non scrivo lettere, ma storie, le cui protagoniste, nel bene e nel male, sono donne. Ma questa volta farò un’eccezione, per spiegare in modo sintetico il perché della mia decisione. Sono apparentemente una donna fortunata, la mia vita è confortevole e mi concede molte libertà. Mi offre, infatti, l’opportunità di dedicare parte del mio tempo a ciò che preferisco: scrivere racconti e romanzi. Mi consentono di scaricare le mie frustrazioni, attraverso la fantasia sfogo le mie ansie. Un requisito da non sottovalutare, considerando che, da troppo tempo, ansie e frustrazioni fanno parte della mia esistenza. Ma oggi ho finalmente deciso di farla finita: con la vita. E’ difficile, nel breve spazio di una lettera, descrivere la lenta presa di coscienza che mi ha indotto a una così drastica decisione, e raccontarvi cronologicamente il susseguirsi degli eventi responsabili della mia scelta, non servirebbe a farvi comprendere. Qualche risposta mancherebbe all’appello e troppe curiosità rimarrebbero insoddisfatte.
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Dirò soltanto che la mancanza d’amore ne è la causa principale, mi ha tolto il desiderio di vivere aprendo un vuoto dentro di me. Sono consapevole che ciò non basta a giustificare la mia debolezza, io sola sono responsabile del mio destino. Ho annullato la mia volontà, avviandomi lungo un percorso che non volevo e che altri avevano deciso al posto mio. Ho sempre agito così, come se la vita non mi appartenesse. Un unico legame mi tratteneva a essa: mia figlia Flavia. Ma non è bastato a salvarmi. Ho lasciato che l’egoismo di Giovanni spezzasse l’invisibile filo attraverso il quale scorrevano e s’incontravano i nostri pensieri. ‘A te Giovanni, solo poche righe. Se riuscirai a discostarti da te stesso, fermati a riflettere: forse comprenderai il perché della mia scelta.’ Beh, mi par chiaro: non sono più in grado di continuare a vivere. Vorrei dare a Flavia spiegazioni, ma ho paura di farle ancor più male. In fondo, la realtà è soltanto una: mille paure mi angosciano, non ho la forza di ribellarmi al mio destino, né la capacità di porre rimedio ai miei errori. Dio, quanto disprezzo provo per me, per ciò che sono sempre stata e che ora sto per fare! Ma ho deciso di finirla con questo tormento. Ho fatto la mia scelta, giusta o sbagliata. Luisa” Ecco, avevo terminato la mia lettera. Confusa, com’era stata la mia vita. Ne concedevo la prima lettura a Giovanni, poi che importava? Tutti potevano farlo: dopo ci sarebbe stato soltanto il nulla per me. Solo a Flavia non consentivo questa lettura e lo scarabocchiai rapidamente sul foglio ripiegato. Era la mia ultima volontà. Mi auguravo che riuscisse a perdonarmi e superasse quel dolore che non meritava. Il suo pensiero mi lacerava il cuore, e con forza tentavo di scacciarlo. Non volevo e non potevo compromettere la mia decisione. Non c’era nessuno in casa: era la serata ideale per un suicidio. Giovanni era stato invitato a un party speciale da Manuel Ruano, il ricco proprietario terriero nostro vicino, a proposito del quale si sussurravano molte co-
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se. Che il suo patrimonio avesse dubbia provenienza, ad esempio, e altre malignità dello stesso genere. Ma lo erano poi veramente? Non avevo accettato quell’invito; avevo altri progetti per quella serata. Inoltre, non mi piacevano i suoi ospiti e tanto meno lui, nonostante il cordiale atteggiamento che esibiva. I suoi modi calorosi e gentili suonavano falsi, ma la sua ospitalità era dominante. In quelle poche ore di libertà avevo riflettuto impiegando proficuamente il mio tempo, e avevo deciso. Mi diressi verso la stanza da bagno attraversando l’ampio corridoio, dalle cui pareti mi osservavano con sussiego i numerosi quadri d’autore, tangibili conferme della nostra agiatezza. La galleria dell’ostentazione, la chiamavo. Mi erano ostili, come lo erano tutti gli arredi che mi circondavano. Non mi era mai stato concesso il privilegio di partecipare alla loro scelta: era un diritto che spettava a Giovanni, a lui soltanto, naturalmente. Ma c’era un luogo in cui la sua individualità non era riuscita a imporsi e lì soltanto mi sentivo veramente bene: il mio studio. Tra quelle pareti davo vita alle mie eroine, realizzavo le loro storie avventurose, e le vivevo insieme a loro. Era la mia stanza magica, la preferita tra gli ampi spazi di cui potevo disporre nella mia grande casa. Strano. Usavo il possessivo “mia” riferendomi a una residenza che mi era estranea e la cui imponente maestosità aveva contribuito ad accrescere la mia solitudine, facendomi sentire un’intrusa. Nulla mi apparteneva lì dentro, solo il laboratorio era mio. E nel suo caotico disordine, tra fogli di carta e ricordi, ritrovavo la me stessa di un tempo. Guardai le foto incorniciate, appartenevano a momenti diversi e lontani, immagini che mi sorridevano felici, attimi di vita passata e pensai che parte di quella vita sarebbe sopravissuta nel tempo, nonostante tutto. Ma fu l’impressione di un attimo, poi i miei occhi si riempirono di lacrime. Volsi lo sguardo attorno, tornai alla realtà che mi circondava e un dubbio mi colse all’improvviso: di tutto il mio lavoro, ammonticchiato sulla scrivania o archiviato nella memoria del mio computer, che ne sarebbe stato? Sarebbe morto insieme a me? Quel pensiero mi assorbì per un momento, ma non potevo farci nulla. Il dopo non contava più.
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Al bando i sentimentalismi, non quella sera. Mi allontanai, quel luogo mi legava troppo alla vita, che io, avevo ormai deciso di rifiutare. Dovevo andare oltre e festeggiare la mia decisione. Per la prima volta, l’iniziativa era mia. Entrai nella stanza da bagno, aprii l’armadietto dei medicinali e scelsi, a colpo sicuro, la confezione di pillole. Era nuova, conteneva trenta palline rosa, incastrate in un blistex che mi costrinse a estrarle una per una. Strinsi quel mucchietto nel pugno con una forte sensazione di possesso: era la soluzione ai miei problemi. Non sostai dinanzi allo specchio come facevo abitualmente, mi disturbava l’immagine del mio volto pallido, quasi una triste anteprima di ciò che sarebbe rimasto di me. Ma un ritorno improvviso di civetteria, si risvegliò inaspettato: la morte, impietosa e senza riguardo, che immagine avrebbe lasciato di me? Alzai le spalle: non potevo farci proprio nulla. Il maggior danno, lo aveva fatto il tempo. Dal frigorifero, in cucina, estrassi la bottiglia di spumante italiano, ultima testimonianza d’amore per il mio paese. Che Diamine! Avevo lasciato da pochi anni l’Italia e non l’avevo certo dimenticata. Sentivo ancora forte la mia appartenenza. Uscii in giardino e mi diressi verso il salice piangente, l’albero che tra tutti preferivo. Il sole stava calando e i raggi ancor caldi, s’insinuavano tra i suoi rami e tra i cespugli variopinti della siepe, creando giochi di luce e di colore. Mi piaceva quell’angolo verde, con i suoi fruscii di brezza leggera che portavano fin lì l’odore del mare. Per questo lo scelsi. Era ideale per trascorrervi gli ultimi istanti della mia vita, che, per quanto inutile, meritava rispetto, non foss’altro, per il coraggio della decisione finale. Mi sedetti sulla sedia a sdraio in comoda posizione e misi in atto il mio progetto. Ingoiai tutte le pastiglie in un sol boccone, senza pensare. Con gesto simultaneo, quasi una recita studiata in precedenza, aprii la bottiglia di spumante facendo saltare il tappo. Potrà sembrare strano, ma mi rallegrò il suo rumore e il gorgogliare festoso delle bollicine che premevano per uscire! Ne versai un po’ nel calice di cristallo: c’era sempre un vassoio coi bicchieri sul tavolino di fianco alla sedia, per gli ospiti di Giovanni.
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Pochi sorsi, sufficienti a farmi ingoiare il mio boccone amaro. Poi bevvi il resto vuotando il calice, e assaporai con voluttà quel nettare, fino all’ultima goccia. Col piacere della disubbidienza e della trasgressione, per quella che, dal punto di vista di Giovanni, sarebbe stata una scelta inaspettata. Sorrisi a quel pensiero e quasi provai rammarico, per non poter assistere alla sua sorpresa. Riempii un’altra coppa di spumante, lentamente, per non disperderne le bollicine e la gustai, mentre il sole, che, come me, stava morendo, mi riscaldava la pelle con i suoi ultimi raggi del giorno. Un’altra coppa ancora, senza fretta. Poi…, non ricordo più nulla. “Ehi, piantala di russare!” Aprii gli occhi: il suono della voce irata di Giovanni mi fece sobbalzare, proprio quando stavo per crollare addormentata. Strano, ero viva. Forse le pillole non avevano ancora fatto effetto. Ma non provavo alcun senso di stordimento, né dolori al ventre, o nausea. A dir la verità, non avevo idea dei sintomi che mi avrebbero causato quelle pillole, ma sicuramente ora stavo bene. Giovanni era al mio fianco in un letto che, però, non riconoscevo. Non era certo il nostro: la mia biancheria, sempre pulita e stirata alla perfezione, odorava di lavanda, mentre queste lenzuola erano stinte e maleodoranti, inoltre coprivano un materasso duro, poggiato su una specie di branda militare. Neppure Giovanni sembrava lo stesso uomo, ora che lo guardavo meglio. Mi appariva diverso, più giovane e allora lo fissai attentamente. “Che hai da sbirciare con quegli occhi da matta?” Oh si, era lui, sicuramente. Identificabile dal tono della voce. Carezzevole, come carta vetrata. Ma il suo viso non era solcato dalle rughe profonde che gli si erano formate negli ultimi anni e aveva ancora i suoi bei capelli neri sul capo. Meraviglia delle meraviglie. Mi colse improvviso un dubbio e scattai giù dal letto, con l’agilità di un gatto. Un balzo veloce, che non mi fece dolere la schiena. Altra stranezza. “Ma sei proprio scema? Che hai da saltare come un canguro?” Non badai alla sua grossolana ironia, ma corsi verso il bagno, alla ricerca di uno specchio. Non sapevo da che parte dirigermi, ma la casa era piccola e non ebbi difficoltà a trovarlo. Sostai strabiliata a fissare la mia
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immagine, nel piccolo riquadro di vetro male illuminato, mentre una miriade di domande si affollarono alla mia mente. Riconobbi la donna che vi appariva riflessa, certo che la riconobbi! Ero io, ma almeno una ventina di anni prima, o forse più. Che mi era accaduto, dove erano finiti tutti gli anni che mancavano all’appello? Ricordavo perfettamente gli ultimi istanti della mia vita, le pillole rosa che avevo ingoiato, la bottiglia di spumante italiano che mi ero letteralmente scolata e, soprattutto, era nitido in me il lento rimuginare che mi aveva indotto a prendere la decisione di togliermi la vita. E ora, che ci facevo qui, insieme all’uomo che, per la sua incapacità di amare, mi aveva spinto al suicidio? “Allora scema. Ti scappava la pipì tanto forte? Andiamo, torna a letto che ci facciamo una bella scopatina.” Mi venne voglia di vomitare e sentii le forze mancarmi. Sperai che fosse l’effetto delle pillole, ma non era così. Raggiunsi la camera da letto, passando da un piccolo corridoio che divideva la zona giorno dalla zona notte. Mi guardai attorno, cercando di identificare l’ambiente in cui mi trovavo: l’appartamento era piccolo, modestamente arredato, ma non ne riconobbi né i mobili, né i quadri alle pareti. Beh, chiamarli quadri era un’esagerazione. Quelli non lo erano di certo. Ritagli di vecchie riviste, immagini sbiadite dal tempo e male incorniciate. Robaccia priva di gusto e che, sicuramente, io non avrei mai scelto. Questa constatazione, così apparentemente banale, mi fece intuire che non avevo ancora subito il condizionamento psicologico e la conseguente perdita d’autostima. Dunque io e Giovanni, nell’attuale, bizzarra realtà, eravamo insieme da un tempo abbastanza breve. “Dov’è Flavia?” Azzardai la domanda con esitazione, mentre il cuore mi batteva forte. Lo sguardo stupito di Giovanni mi rispose, ancor prima delle sue parole: “Ehi, svegliati! Ti sei fatta per caso?” Scossi il capo e ritornai a letto, raggomitolandomi e comprimendomi lo stomaco. Dunque, Flavia non era ancor nata. “Sto male.” Mentii, per evitare ogni sua pretesa amatoria. In quel momento era l’ultima cosa che mi ci voleva. In effetti, stavo realmente male. Ero confusa, improvvisamente catapultata in una realtà virtuale che non aveva nulla a che fare con la mia vita: in verità, la vita io avevo tentato di togliermela. Perché mai ora mi trovavo qui, insieme a
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Giovanni in un tempo passato e di cui non ricordavo nulla? E mi si presentò un’agghiacciante prospettiva: stavo forse per rivivere daccapo la mia esistenza? Ma, se questa era la risposta ai miei dubbi, l’uomo che mi stava accanto, nel mio stesso letto, chi era? Sembrava Giovanni, come lui era arrogante, ma con educazione e stile completamente diversi. Questo era un essere rozzo e volgare, sicuramente assai peggiore dell’uomo per il quale mi ero tolta la vita. “Già! Stai sempre male! Ma che ti sei sposata a fare?” La sua voce sgradevole m’irritò e mi tappai le orecchie per non udirla. Ma risuonava nel mio cervello, come l’eco di un incubo che non se ne voleva andare. Mi pizzicai le braccia, sperando di risvegliarmi, ma sentii solo il dolore delle unghie che si conficcavano nella mia carne. Non mutò l’assurda realtà che stavo vivendo. Sperai che fosse soltanto un brutto sogno e cercai di addormentarmi, ma invano. Giovanni, al mio fianco, leggeva un settimanale e ne sfogliava rumorosamente le pagine: l’odore acre di stampa si spargeva nell’aria stagnante, insinuandosi nelle mie narici e rendendomi difficile il respiro. Contemporaneamente faceva schioccare la lingua tra i denti per pulirseli, ovviamente senza alcun riguardo per me. Finalmente spense la luce sbuffando e, rigirandosi nel letto, mi strappò letteralmente le coperte di dosso. Dopo pochi minuti cadde in un sonno profondo, simile a un letargo e iniziò pesantemente a russare. Non potrei certo dire che quella notte non chiusi occhio. Li tenni entrambi serrati, comprimendoli a tratti con le mani, con forza, come se quel gesto potesse sottrarmi all’incubo. Potrei, però, affermare con sicurezza che non dormii. Era questa la mia prima notte da suicida? Mi ero sottratta a una vita che mi rendeva infelice: stavo per caso scontando la mia debolezza? Questo luogo, nel quale mi trovavo, era la punizione che meritano i suicidi? Filtrava luce dalla finestra e mi alzai, abbandonando quella specie di scomodo giaciglio. Senza fare rumore, per non svegliare Giovanni. Che inutile riguardo. Come avrebbe potuto udirmi, se il suo russare copriva ogni altro suono?
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Mi avvicinai, comunque, a quella luce e guardai fuori, anche se non c’era nulla da vedere. E’ difficile descrivere lo zero assoluto e l’idea di esserne circondata: ma, da… cosa? Aria? Silenzio? Vuoto? Sì, la sensazione era di vuoto. Aprii la finestra e sporsi il braccio verso l’esterno, o per lo meno, tentai di farlo. Non mi fu possibile, il mio braccio destro non riuscì a superare l’inquadratura della finestra e rimase sospeso, come paralizzato. Lo riabbassai e ritentai di nuovo. Inutilmente. Provai con l’altro braccio, poi azzardai a sporgere con forza il busto, ma non riuscii a superare il vano rettangolare di quella strana finestra. Chiusi le mani a pugno e colpii, prima piano, poi con rabbia disperata, quella barriera invisibile e incorporea che m’impediva di uscire nel vuoto. Ma non c’era niente da colpire: i miei pugni chiusi si fermavano, senza incontrare nulla. Non esisteva nessun visibile ostacolo tra me e il vuoto. Rinchiusi la finestra e mi diressi verso la porta d’ingresso, bloccata all’interno da un catenaccio di sicurezza. Era arrugginito e lo aprii difficoltosamente, poi, con il cuore in gola, socchiusi l’anta e mossi lentamente il primo passo verso l’esterno. M’investì un chiarore accecante e null’altro. Nessun odore, rumore, né alito di vento. Chiusi gli occhi per ripararli da quella luce troppo forte, mentre tentavo di oltrepassare la soglia. Non avevo percezione dello scorrere del tempo e non saprei dire quanti minuti rimasi lì, con la gamba sollevata, nell’atto di varcare la porta per uscire. Infine, fui costretta a rinunciare. Non mi era possibile andarmene da quella casa. Una forza invisibile e inevitabile m’inchiodava lì dentro, costringendomi a restare. Scoppiai in singhiozzi aspri, senza lacrime, col desiderio di gridare, di chiedere aiuto. Mi sforzavo, tentavo di farlo, ma la voce non mi usciva. Sembrava che tutto mi fosse vietato, anche piangere. Logorante e intollerabile, udivo il russare di Giovanni, mi giungeva alle orecchie come amplificato da invisibili microfoni. Forse, era solo la mia mente a immaginarlo. Poi, improvviso, il silenzio. Volsi lo sguardo alla luce proveniente dalla porta ancora aperta. E intravidi un tenue chiarore, colori trasparenti che si sovrapponevano gli uni sugli altri, alternandosi ininterrottamente e dando corpo a una sagoma quasi umana.
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Poi udii quella voce, sembrava un insieme di suoni che, mescolandosi tra loro, formavano parole e s’imprimevano nella mia mente. “Questo è il dopo, Luisa”. “Che significa?” Formulai tremando la domanda e anche la mia voce aveva uno strano timbro. “Non ti eri mai chiesta cosa c’è dopo la morte?” “Forse…, non so… E’… è forse l’inferno?” Ero scossa da un tremito convulso. “Non essere sciocca. Non esiste l’inferno, ma un proseguimento di vita. La tua, è stata un vegetare inutile, l’hai lasciata in mani d’altri, preferendo la rinuncia. Questo, dunque, è il dopo che meriti.” “Cos’è allora? Una punizione?” Le parole mi uscivano con difficoltà, raschiandomi la gola. “Chiamala come vuoi. Per Giovanni ti sei uccisa e ora resterai con lui per sempre.” “Ma, lui…, come mai è qui?” “Già, tu non sai. La sera del tuo suicidio Giovanni era invitato a una cena. Ricordi Manuel Ruano?” “Si, certo. Ma lui… che c’entra?” “A quel party si è concluso un affare importante e… risolutivo. Manuel Ruano è stato ucciso, insieme a coloro che erano ritenuti suoi complici. Giovanni si è trovato tra il fuoco incrociato. È morto la stessa notte in cui sei morta tu.” “ Allora… Flavia è rimasta sola?” “Sì, ma lo era già. E tu lo sai bene.” Colpì il segno la sua risposta e provai la sensazione che mille coltelli mi trafiggessero il cuore. Ma non dissi nulla, rimasi in attesa. “Da questo momento, Giovanni sarà sempre con te.” “E… se non fosse stato ucciso, che ne sarebbe ora di me?” “Attenderesti il suo arrivo. Lui ti avrebbe raggiunto. Qui, il tempo è un fatto irrilevante, le giornate non sono che una sequenza di gesti, di movimenti, azioni senza scopo. Puoi ascoltarmi e capire quel che dico, perché sei ancora collegata alla tua vita terrena, ma non sarà sempre così. Tra un tempo indefinito, non ricorderai più nulla e non sarai altro che un essere come gli altri, apatico e senza emozioni.” “E, se la mia vita fosse stata diversa? Se avessi reagito, lottato per me stessa e per mia figlia? Che potrei aspettarmi in questo caso?”
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Dio, quanta fatica per pronunciare l’intera frase! “Oh, allora avresti avuto il tuo premio. Una specie di paradiso, con le persone che hai amato, con i tuoi cari. Eh Luisa, hai avuto cattivi insegnamenti. Pazienza e passività non meritano ricompense. Capisci cosa intendo?” Sì, capivo cosa intendeva. Le mie sofferenze non erano finite e uccidermi non era servito a nulla. Questo capivo. La luce non m’infastidiva più, ora potevo guardarla a occhi aperti, seguire i cambiamenti dei colori, che si spostavano continuamente, al suono metallico di quella voce strana e innaturale. “Sei delusa? Speravi in un dopo diverso?” “No, non speravo nulla. Io non mi attendevo un dopo.” “Già. Tu preferivi il nulla.” Il nulla, sì, il nulla. Chiusi gli occhi, ma continuai a vedere la luce; li riaprii e niente cambiò. “Vattene via e lasciami sola.” “Sì, me ne vado. Ma tu non resterai sola. Mai più. Giovanni sarà sempre con te.” Quell’ultima frase non era necessaria: udivo il suo pesante russare, superava ogni altro rumore. Infine, la scala di colori che davano corpo a quell’immagine svanì, insieme ai suoni che gli prestavano voce. Tutto sparì, inghiottito nel vuoto, oltre la finestra aperta. La richiusi, per quanto inutile fosse chiudere una porta che si apriva sul nulla. “Luisaa!!” “Che vuoi?” “Fammi vedere le cosce!” Strinsi con rabbia la mascella e deglutii. Ma mi mancava la saliva e la mia gola era secca, come lo erano i miei occhi. “Ninna nanna, ninna nanna, dormi bimba della mamma. Dormi, dormi bimba bella, mentre brilla la tua stella…”
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Mi rifugiavo in quella cantilena, era una nenia monotona, ma rassicurante, cullava il mio sonno, non lasciava spazio alle incertezze. “Stringi forte la mia mano e il tuo sogno va lontano. Sogni un canto melodioso. … Poi, un cielo tempestoso…” interrompe il tuo sognare. Ecco, improvvisamente l’atmosfera cambiava, non un alito di vento, c’era immobilità nell’aria, pareva annunciare qualcosa che stava per accadere. Rabbrividii, i capelli si elettrizzarono, li sentii che mi si raddrizzavano sul capo. “Or sei sveglia, o mia piccina, mentre il Male si avvicina! Bimba bella della mamma, è finita la tua nanna!” Era fondata la mia paura e ne ebbi conferma: sibilò il vento e un forte boato pose fine alla triste cantilena. Tremai alla vista dei lampi che illuminavano il cielo a giorno e all’udire uno stridere acuto, simile a un pianto disperato. Si era scatenato l’inferno e il cuore mi balzò in petto pulsando violentemente. Batteva forte, a un ritmo esasperato, sempre di più e sembrava voler scoppiare. Poi, le prime gocce di pioggia scesero a bagnarmi il volto. Erano calde e appiccicose, simili a sangue e presi a sfregarmele via con le mani, con raccapriccio! Ma non lo era, si trattava di una pioggia calda, che non bruciava e non lasciava segni sulla pelle. Infine mi scossi, il corpo pervaso da uno strano formicolio; mi passai più volte le mani sul volto e mi guardai attorno, come se mi trovassi in un mondo nuovo, sconosciuto. Pioveva forte, ma era solo acqua. Uno di quei temporali tropicali, che giungevano improvvisi e altrettanto improvvisamente se ne andavano. Dove mi trovavo? La mia mente era confusa, immagini strane e sensazioni sgradevoli la riempivano: sospesa tra cielo e terra, tra un mondo fantastico e uno reale.
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Mi trovavo sotto il salice piangente, i cui rami, appesantiti dalla pioggia, sfioravano il suolo: al mio fianco, c’era il tavolino con i bicchieri e la bottiglia di spumante italiano, piena a metà. E, a un lato del bicchiere, vidi il mucchietto di pillole rosa: erano bagnate, ma ancora intatte. Allora, il mio suicidio non era stato altro che un’intenzione? Il coraggio, all’ultimo momento mi aveva tradito? Eppure ricordavo perfettamente: avevo ingoiato la soluzione ai miei problemi, brindando al mio coraggio con una serie di coppe di spumante. Fino a vuotare l’intera bottiglia. Finalmente ero riuscita a decidere. O era stato soltanto un sogno? Mi guardai di nuovo attorno, per constatare che nulla di ciò che credevo fosse compiuto, lo era effettivamente. Ero al punto di partenza: ancora viva. Suicidarmi era stato solo un desiderio. La pioggia continuava a cadere, i miei abiti erano fradici e i capelli mi si appiccicavano al volto, ma non m’importava. Non mi spaventavano neppure i lampi accecanti e i tuoni che ne seguivano, scuotendo gli alberi del giardino. Mi alzai e m’incamminai verso casa, stancamente. Le gambe faticavano a sostenermi. Mi sentivo sconfitta. Ero viva, non avevo dunque chiuso i miei conti con l’esistenza e mi chiedevo quando e, soprattutto se, avrei trovato nuovamente il coraggio di mettere la parola fine a quel mio inutile trascinarmi. Poi, il trillo del telefono interruppe il mio rimuginare. “Si.” Mi stupii nell’udire il mio tono risuonare normale. “Ciao mamma.” Un tuffo al cuore. Che gioia mi diede udire la voce giovane di Flavia. “Ti ho telefonato più volte, ma non c’era nessuno. Nemmeno la segreteria telefonica. Tutto bene?” Come avevo potuto pensare di non rivederla più, di andarmene per sempre e di lasciarla sola? Potevo essere stata tanto egoista? Chiudere i conti con Giovanni, non significava cessare di vivere. Su questo dovevo riflettere. “Si, tutto bene. Ero uscita e sono rientrata in questo momento.” “Mamma, è in casa papà?” “No, sono sola.”
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“Volevo dirti una cosa importante e, magari, parlarne un po’ con te.” una breve pausa, “Papà s’incontra ancora con Manuel Ruano?” “Si…, certo. Questa sera è a cena alla sua villa. Perché questa domanda?” “Beh, vedi, ho conosciuto un tipo e siamo diventati amici: lavora alla Polizia, si occupa di investigazioni internazionali e, senza saperlo, mi ha dato delle informazioni.” Ancora un’altra pausa, forse alla ricerca di parole appropriate, “E allora?” la incalzai. “Manuel Ruano è ricercato dalla Polizia di Miami per traffico di droga e per omicidio.” disse Flavia, “Inoltre, è coinvolto con la mafia e pare sia un uomo molto pericoloso. Non so quali rapporti ci siano tra lui e papà, ma ho pensato fosse bene informarlo.” Sentii la pelle accapponarsi, mentre riudii la frase pronunciata dalla voce metallica: “Manuel Ruano è stato ucciso, insieme a coloro che erano ritenuti suoi complici. Giovanni, si è trovato tra il fuoco incrociato”. “Si, grazie… cercherò un modo per dirglielo. Però tu lo sai com’è papà. Non è facile parlare con lui, non ascolta consigli di nessuno, tanto meno i miei.” Mi tremavano le gambe: avevo forse avuto una premonizione? Il sogno appena fatto, era un presagio? Non riuscii a seguire il resto della conversazione: il mio pensiero era altrove. Ci salutammo e, per la prima volta fui contenta che Flavia fosse lontana. Qualcosa di terribile stava per accadere. Lo sentivo nella pelle. “Giovanni si è trovato tra il fuoco incrociato!” Quella frase mi si rigirò nella mente, malignamente. E all’improvviso lo desiderai: cioè, che accadesse veramente, che Giovanni morisse e, nell’attimo stesso in cui quel terribile pensiero mi sfiorò la mente, ne ebbi paura. Solo poche ore prima ero pronta a rinunciare alla mia vita, oppressa da disagi e insicurezze che si trascinavano da tempo e che mi avevano ormai convinta che la mia morte fosse l’unica via d’uscita. Ora si stava verificando un repentino rovesciamento dei miei desideri. Non la mia morte volevo, ma la sua.
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Aveva parlato con sua madre soltanto per pochi minuti: un breve colloquio che le aveva lasciato uno strano malessere. Lei, di solito sempre così premurosa, che ogni volta la colmava di raccomandazioni per la salute e per la vita privata. Ma non quella sera. Come se la sua mente fosse stata altrove. Beh, forse era così. Mica poteva pretendere di essere il suo unico pensiero. O forse, proprio lei le aveva dato qualcosa su cui riflettere: su Manuel Ruano, ad esempio. Chissà se mamma ne avrebbe parlato con papà. Il rapporto di parità tra loro, era stato sempre e soltanto un’utopia. Lei lo considerava un padrone, un mostro sacro da adorare e non un compagno col quale dividere gioie e dolori. Come se tutto ciò che riguardava lei, la famiglia, o la casa, non fossero altro che banali fantasie femminili. Troppo insignificanti per un uomo come lui, impegnato a risolvere problemi ben più importanti. Sia quando trascorreva lunghe ore al computer, o quando sembrava riposare, a occhi chiusi, immerso nei suoi lunghi silenzi. Flavia non era mai riuscita a comprendere lo strano rapporto che li univa e pensava che Luisa avesse commesso molti errori: ad esempio, con la supina accettazione del suo ruolo di moglie, aveva finito col trasformarsi inconsciamente in vittima. Forse era un atteggiamento insito nell’animo femminile di molte donne della generazione di sua madre: finivano con l’adagiarsi in situazioni insostenibili e le subivano. Quasi provavano piacere nel masochistico senso di martirio, che, probabilmente, le deresponsabilizzava dal dirittodovere di far valere il loro esistere. Lei aveva difficoltà a comprendere quel genere di comportamento: urtava il suo orgoglio. Ma, nonostante le riflessioni, che tendevano a sminuirne l’immagine, Flavia amava sua madre con tutto il cuore, era legata a lei profondamente e sapeva di essere corrisposta. Con suo padre i rapporti erano diversi, più distaccati e difficili, a volte quasi formali. Mancanza di tempo, forse. Giovanni aveva dato preferenza al suo lavoro, se n’era lasciato coinvolgere completamente, sentendosene appagato più che dalla sua stessa famiglia. Ma non era solo questa la motivazione, c’erano fattori caratteriali alla base, che acuivano le loro incomprensioni impedendo a entrambi di comunicare. L’atteggiamento di superiorità di suo padre, le toglieva ogni iniziativa e, in contrapposizione, il suo orgoglio smisurato, le impediva di fare il primo passo nello stabilire una base per un rapporto di confidenza.
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Così, quando i suoi genitori avevano deciso di lasciare l’Italia per trasferirsi in Costa Rica, lei non aveva fatto nessuno sforzo, né per seguirli, né per trattenerli. Aveva preferito rimanere lì, sola e senza particolari prospettive per il futuro, ma libera dalla loro presenza, a volte ingombrante. Non era stata facile la sua vita durante i primi anni, ma poi si era abituata. Aveva abbandonato gli studi: preferiva dedicarsi al lavoro per rendersi indipendente da suo padre, nonostante sapesse che la situazione economica dei suoi genitori fosse piuttosto buona. Ma non le importava, lei non amava la società consumistica imperante e la sua felicità non dipendeva certo dagli inutili orpelli che, famiglia moderna e società, tendevano a propinare a piene mani. Per la totale inesistenza di modelli positivi cui non riuscivano più a dare vita o, forse, per mancanza di tempo. Gli antichi valori appartenevano ormai a un lontano passato, svaniti nel nulla, o messi semplicemente da parte, tra uno spot pubblicitario e un salto di carriera. A volte, quando rifletteva tra sé o discuteva di questi problemi con le sue amiche, si sentiva più simile a un’anziana signora che a una sua coetanea. Ma non ne era turbata, la sua vita di single l’aveva trasformata o forse, intimamente, lei era sempre stata così. Quella notte non riusciva a dormire e aveva approfittato per telefonare a sua madre, sfruttando la differenza di fuso orario. Erano le nove di sera in Costa Rica, le due del giorno seguente a Roma. L’esito di quella telefonata, anziché tranquillizzarla, aveva peggiorato la sua insonnia, forse per lo strano tono di Luisa. O erano state le informazioni apprese quel giorno su Manuel Ruano? Flavia aveva recentemente compiuto venticinque anni, ma, nonostante la giovane età, provava, nei confronti dei genitori e per sua madre in particolare, uno strano sentimento, quasi di protezione. Inoltre, il suo incontro con Marco, aveva aumentato ulteriormente le sue ansie. Si erano conosciuti da poco, ma tra loro, si era stabilita un’immediata corrente di simpatia: forse, qualcosa di più forte da parte sua, nonostante la differenza di età. Marco, infatti, era più grande di lei di ben dieci anni. L’avevano colpita i suoi occhi: azzurri e rassicuranti. Lavorava presso il Dipartimento di Polizia e si occupava di traffico internazionale di droga. Quel giorno era passata dal suo ufficio per invitarlo a teatro e, mentre attendeva che lui terminasse una telefonata, aveva sbirciato distrattamente sulla scrivania, per pura curiosità, tra una serie di foto segnaletiche. E glie n’era balzata agli occhi una: quella di Manuel Ruano. Lo aveva co-
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nosciuto l’anno passato a una cena, durante una sua visita in Costa Rica. I suoi genitori glielo avevano presentato con orgoglio, come si trattasse di un personaggio degno del massimo rispetto, ma a lei non era piaciuto. Per il suo atteggiamento esibizionista e sbruffone, forse. Ma in fondo, non era affar suo. “Chi è quell’uomo?” “Perché me lo chiedi? Lo conosci, forse?” Marco aveva risposto con una domanda, scherzosamente, come se conoscerlo fosse un’evenienza piuttosto improbabile. Così, Flavia era stata evasiva, rispondendogli in tono un po’ frivolo. “Sembra un divo di Hollywood. Che ha fatto?” “E’ un pezzo grosso nel traffico della droga, ricercato dalla polizia di Miami. Inoltre, ha precedenti di vario genere: omicidio, legami mafiosi, insomma, un tipo che ti raccomando come amico. Ti basta?” Aveva simulato una risatina e alzato con noncuranza le spalle. “Come si chiama? Al Capone?” “Si chiama Manuel Ruano. Sempre che, nel frattempo, non abbia cambiato nome.” Poi, aveva messo tutte le foto in una cartella e l’aveva chiusa a chiave in un armadio. Ecco, ora quella breve conversazione la tormentava e si poneva delle domande. Perché suo padre frequentava un simile tipo? Che affari potevano esserci tra loro? Papà era stato dirigente ad alto livello in una grossa multinazionale: aveva abbandonato l’antica professione da tre anni con il progetto di cambiare vita e si era trasferito in Costa Rica, dove aveva iniziato una nuova attività nel campo della consulenza. Flavia non conosceva molto del suo nuovo lavoro, ma sapeva che rendeva piuttosto bene. Lo capiva dai discorsi di sua madre, oltre ad averlo riscontrato di persona dal loro tenore di vita. Forse suo padre aveva svolto per Manuel Ruano delle consulenze d’affari. Il solo pensiero di un suo possibile coinvolgimento in affari poco puliti, la faceva star male. Ma la sua apprensione era inutile, dal momento che non poteva farci nulla. Aveva fatto l’unica cosa possibile avvertendo sua madre: ora stava a lei agire. Si sdraiò sul letto vestita, mancavano poche ore al mattino e l’attendeva una giornata impegnativa.
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Le piaceva la sua nuova attività, anche se al momento le creava più preoccupazioni che guadagni e, nonostante la sua natura poco materialista, doveva pur campare! L’anno precedente aveva deciso di lasciare l’università e si era gettata a capofitto nel campo dell’editoria. Da sua madre aveva ereditato l’attitudine a scrivere, ma lei preferiva rivolgersi al sociale, tralasciando per il momento la fantasia. Insieme a due suoi compagni di università, con i quali condivideva stessi ideali politici, aveva fondato una piccola casa editrice. Pubblicavano una rivista culturale che avevano chiamato “L’alternativa”. La domanda che più spesso ricorreva era: “alternativa a cosa?” e la loro risposta variava in dipendenza da chi poneva loro la domanda, al punto da rasentare la banalità. Era abbastanza facile, infatti, rispondere “all’imbecillità” o “alla paura di cambiare” e altre facezie ancora. Aveva scelto una strada difficile, lo sapeva, ma non ne era spaventata. Se non avesse funzionato, era comunque pronta, in qualsiasi momento, a far le valigie e a partire per un paese del terzo mondo a prestare la sua opera di volontariato. A volte si chiedeva se il suo sentimento fosse dettato da puro altruismo, o non fosse piuttosto una forma di protesta contro una società che non le piaceva e che la sua famiglia le aveva preparato. Presentandogliela come un dono speciale, davanti al quale doveva solo ringraziare e, magari, fare anche la riverenza. Ecco perché aveva rifiutato l’assegno mensile che suo padre le inviava regolarmente dal Costa Rica e la conseguenza era stata pronta: da circa un anno, lui aveva quasi smesso di parlarle. Questo non aveva cambiato il suo atteggiamento verso la famiglia: continuava a nutrire per entrambi gli stessi sentimenti di un tempo, ma con diversa intensità e con meno sudditanza. Si girò su un fianco, cercando di dormire e chiuse gli occhi. Cadde in una specie di torpore, popolato da sogni strani e confusi, nei quali spiccava il volto minaccioso di Manuel Ruano e quello teso e preoccupato di sua madre. Si svegliò tardi, con medesima ansia e stanchezza. Trascorse parte della mattinata a preparare l’articolo di fondo per la pubblicazione che doveva uscire a inizio mese. La rivista aveva periodicità mensile e veniva distribuita, attraverso abbonamento, a un limitato gruppo di associati. L’argomento scelto per quel numero si riferiva alla guer-
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ra in corso in Iraq, ma quella mattina non riusciva a concentrarsi e fu quasi felice quando il telefono trillò. La voce era fioca e pareva provenire da lontano. “Flavia?” “Si, chi parla?” “Non importa chi sono, ma ciò che sto per dirti.” “Che cosa devi dirmi?” Pareva filtrata da strumenti elettronici, quasi metallica. “Tua madre si è “virtualmente” suicidata. L’ha fatto ieri sera e ha già sperimentato il dopo. Ora è di nuovo tra noi, ma non è la stessa donna di prima. E’ molto cambiata!” “Voglio sapere chi parla. Non mi piacciono gli scherzi stupidi.” “Non è uno scherzo. E lo potrai constatare di persona.” Chissà perché, ma diede credito a quella voce e, senza sapersene dare spiegazioni, intuì che non era una recita. Guardò il display telefonico: numero sconosciuto. Non si trattava dello scherzo di un amico. “Se hai qualcosa da dire, spara! Poi deciderò se devo crederti!” “Accetta il mio consiglio. poi, senza attendere. “Vai in Costa Rica. Ne vale la pena.” Udì il clic del telefono riattaccato, cui fece seguito il silenzio. Aveva in mano la penna per prendere appunti e iniziò a scrivere, come guidata da una voce che le dettasse il testo. Era ormai abituata a usare il computer per qualsiasi appunto che andasse oltre le dieci righe e la mano le doleva per lo sforzo. Riempì l’intera pagina del blocco a quadretti che le stava davanti. Le parole parevano sgorgare magicamente, senza interruzioni, dalla punta della sua penna. Finalmente aveva terminato e guardò il risultato con meraviglia. Quella calligrafia, perfettamente ordinata e leggibile, non poteva essere la sua! Troppo precisa, solo qualche svolazzo imprevisto e disordinato, qua e là, ghiribizzi della sua mano, non abituata a scrivere. Il sudore le imperlò la fronte e si accinse, non senza un tremito, a leggere il foglio scritto, senza che la sua mente ne avesse compreso il significato. “A chi la leggerà.
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Di solito non scrivo lettere, ma storie, le cui protagoniste sono donne, nel bene e nel male. Ma questa volta farò un’eccezione per spiegare, in modo sintetico il perché della mia decisione. Sono all’apparenza una donna fortunata…” Una pagina del suo notes, che terminava con la frase: “Finalmente, ho fatto la mia scelta.” In fondo c’era la firma: quella di sua madre “Luisa.” E la calligrafia… ecco di chi era: di sua madre. Si passò la mano sul volto e lo sentì madido di sudore. Dunque, aveva deciso di uccidersi. Si erano parlate al telefono la sera precedente, ecco perché le era sembrata strana, assorta in altri pensieri. Guardò l’orologio: erano le undici e trenta del mattino, le sei e trenta in Costa Rica. Compose il numero di telefono e attese. Il cuore le martellava in gola. Udì risuonare sei squilli, che per sei volte le trafissero il petto, poi finalmente, la voce assonnata di Luisa: “Pronto, chi è?” Un lungo respiro di sollievo: “Ciao mamma! Scusami, ho dimenticato che è ancora molto presto, lì. Come stai?” “Ma che dici? Ci siamo parlate solo poche ore fa! C’è qualche problema?” “No, volevo dirti che ho deciso di venire a trovarvi. Devo solo organizzare il mio lavoro, prenotare i biglietti aerei e disdire alcuni impegni.” “Sono contenta, ma come mai quest’improvvisa decisione?” “Ho voglia di vederti e di parlare un po’ con te.” Le parve di sentire un sospiro provenire dall’altro capo del filo, ma non le chiese conferma. Seduta, accanto al finestrino, chiuse finalmente gli occhi. Dopo cinque giorni di affrettati preparativi per la sua partenza, poteva concedersi un meritato riposo. Non sapeva bene perché si trovasse su quel volo: aveva seguito un presagio, il consiglio di uno sconosciuto che forse esisteva soltanto nella sua mente e aveva letto una lettera d’addio, che, forse, sua madre non aveva mai scritto. Si diede mentalmente della pazza, emotiva e incosciente. Poi, la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò.
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“Ha telefonato Flavia questa mattina. Fra pochi giorni verrà a trovarci.” Stavamo pranzando, seduti, al tavolo della grande veranda. Un sole caldo asciugava gli ultimi residui di pioggia e le tracce lasciate dal temporale, che la notte trascorsa aveva spazzato via alberi e piante, oltre ai tetti delle vecchie case in riva al mare, erano ancora visibili. Il cielo era terso, con qualche nuvola bianca, sparsa qua e là, a contrastare il suo azzurro intenso. La nostra villa era situata sulla costa del Pacifico, vicina a Parco Manuel Antonio. Era la fine di Marzo, si approssimava la stagione delle piogge e ne avevamo appena pregustato un anticipo. Mi sentivo inquieta: io non avevo dimenticato, né il temporale, né il mio sogno. Guardai Giovanni per scorgere una qualsiasi reazione al mio annuncio. Delusione profonda. Alzò lo sguardo dal piatto, impercettibilmente e mi fissò. Chiese: “Perché?” Come sempre riusciva a spiazzarmi, a spegnere ogni mia reazione. Perché Flavia veniva a trovarci? Che assurda domanda. Eravamo la sua famiglia, che Diamine. Stavo per rinunciare a rispondergli, mantenendo intatta la mia immagine di sempre, mite e sottomessa. Magari fargli eco con un semplice: “non so!” Ma non feci così. “Perché viene a trovarci? Che domanda senza senso. Non ci vediamo da un anno.” “Beh, ci siamo abituati a non vederla e non credo che neppure lei soffra di nostalgia. Non certo di me.” “Può darsi. Ma tra pochi giorni sarà qui. Dimostrale almeno un po’ d’affetto! E’ tua figlia, o l’hai forse dimenticato?” Maria mi porse il piatto colmo d’insalata e iniziai a spezzettarla con la forchetta, com’era mia abitudine, prima di portare i pezzi alla bocca. Cincischiai un po’ con le posate; da lui non mi attendevo reazioni. Un’ultima breve riflessione, prima di parlargli. “Flavia mi ha accennato qualcosa su Manuel Ruano. Un amico che lavora alla Polizia, le ha dato alcune informazioni.” Lo guardai negli occhi e lui non batté ciglio. “E allora?” “E’ ricercato dalla Polizia di Miami: spaccio di droga, connivenza mafiosa e altre imputazioni che non gli fanno certo onore.”
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Sparai quella risposta, senza smettere di guardarlo in volto. Mi sentivo stranamente a mio agio, sicura di me. “Beh, tutto qui? Ti meravigli?” “No, però mi preoccupa. E’ amico tuo, o no?” “Ruano non è un uomo qualsiasi, mi pare evidente. Ma la sua vita non ci riguarda e, tanto meno riguarda tua figlia!” “Oh! E tu… ritieni sia normale frequentare un tipo così “particolare”?” “Che c’entra? Non m’interessano i suoi guai con la giustizia, ma la sua serietà nei miei confronti. Tu hai le idee un po’ confuse, come al solito. Cercherò di chiarirtele in breve. Ho svolto per Ruano delle consulenze d’affari ed è stato molto gratificante, sia economicamente che professionalmente. Questo ti basta?” “No. Non ti chiedi come guadagna il denaro con cui ti “gratifica”?” “Ma dove credi di vivere? Questo non è Disneyland! E’ comodo fare la moralista quando c’è qualcuno che paga per gli abiti che indossi, per il parrucchiere e per l’estetista, non è vero?” Mi sentii avvampare, ma frenai l’impulso di scagliarmi contro di lui per graffiarlo. Gli risposi a denti stretti, a bassa voce e la sentii cattiva e piena di odio. Non ero mai stata così combattiva. “Non ti ho mai chiesto nulla di ciò che fai. Non amo spendere il tuo denaro, ma sono tua moglie. Ruolo che non mi piace più, da molto tempo.” “Senti, senti: e che ruolo preferiresti?” “Quello della donna libera e padrona di se stessa. Mantenendomi con il mio lavoro.” Sembrò sinceramente stupito per la mia risposta. Potevo credergli, del resto: non era abituato a nessuna forma di ribellione da parte mia. “Il tuo lavoro? Ti riferisci forse alle sbrodolature che scrivi?” Ancora una volta mi si arrossarono le guance e provai l’istinto irrefrenabile di reagire selvaggiamente. Ma, non so come, mi frenai. Da dove mi veniva tanta freddezza? “Come sai che scrivo sbrodolature, se non hai mai letto nulla?” “Non è necessario. Ma non entriamo nei particolari. Avresti tutto da perdere.” “Ne sei sicuro? Forse non è così. Ho ancora il tempo per una rivincita.” “Si, ne riparleremo: quando riceverai il Nobel per la letteratura!” La sua risposta era arrogante e sarcastica, come sempre. Ma il tono di voce tradiva una certa insicurezza. Lo avevo, in qualche modo, destabilizzato.
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Sorrisi tra me. “Non ci sarà nessun Nobel, ma forse non avrai il tempo per scoprirlo.” Fu soltanto un fuggevole pensiero. Naturalmente. Non ci furono ritardi; l’aereo atterrò puntualmente all’Aeroporto di San Josè e, dopo aver recuperato la sua valigia, Flavia s’incontrò all’atrio arrivi con la madre. Dopo quasi un anno. Fu uno strano abbraccio il loro, un rivedersi che pareva non tener conto del tempo trascorso dopo il loro ultimo incontro. Come si fossero lasciate la sera prima, ripresero il filo del discorso e ne intrecciarono altri, nel tentativo di completare la difficile tela e dare significato ad arabeschi e ghirigori, intricati e oscuri. Mancava un filo conduttore a quell’inesplicabile disegno. A casa, Flavia mostrò a Luisa gli appunti scritti sul blocco a quadretti e il volto di sua madre sbiancò. Non disse nulla, andò nella sua stanza e ritornò poco dopo, con una busta tra le mani. Conteneva la sua lettera. Perché quel che stava accadendo a me, coinvolgeva anche mia figlia Flavia? Perché il suo arrivo qui, a Villa Dorada, dove stava andando in scena l’ultimo atto della commedia? Io non volevo il suo aiuto, né che partecipasse alla parte finale della storia, al momento in cui, con la morte di Giovanni, avrei ottenuto la mia giusta compensazione. Era avvenuto in me un cambiamento misterioso, che non riuscivo a spiegarmi. Alcuni giorni fa, mi ritenevo sconfitta e non in grado di reagire: l’unica alternativa alla mia infelicità, mi era sembrato il suicidio. Ora ero una donna combattiva, le frustrazioni che per anni avevo alimentato dentro di me, erano esplose, trasformandosi in odio e desiderio di vendetta. Ed ero pronta a godermi la meritata rivincita. Ma Flavia, che c’entrava in tutto ciò? “Allora, il tuo amico ti ha dato informazioni su Manuel Ruano. E’ così?” Flavia si rivolse a me, come a cercare conferma nel mio sguardo, prima di rispondere. Ricordavo quel suo atteggiamento, ogni qualvolta tra lei e Giovanni s’instaurava un difficile dialogo. Le sorrisi incoraggiandola, come facevo quando era bambina. In fondo, per me lo era ancora. “Si. Come ho già detto alla mamma, sembra abbia delle pendenze con la Polizia di Miami. Ho pensato di avvertirti… poi, vedrai tu.” Giovanni sorrise ironicamente, facendo ghirigori sulla tovaglia, con la forchetta.
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“Ti ringrazio. Ma spero tu non sia venuta fin qui solo per questo. Una telefonata era più che sufficiente.” Flavia si alzò di scatto, lo sguardo acceso e combattivo. Posò le mani sullo schienale della sedia, quasi a bilanciare il risentimento per quelle parole e respirò profondamente. “No, non sono venuta solo per questo. Forse tu non lo ricordi, ma io sì. Non ci vediamo da quasi un anno.” “Certo che lo ricordo. Ma, vedi: tua madre m’informa regolarmente sulla tua salute, sul tuo lavoro… A proposito, ora ti sei dedicata all’editoria. E… rende bene?” “Sufficientemente per vivere senza il tuo aiuto. E mi basta.” “Ma bene! Siete ben sintonizzate tu e tua madre. Capaci di vivere senza il mio aiuto. Ma sapete entrambe che alle vostre spalle ci sono io: non è così?” Giovanni aveva alzato il tono della voce, ma io non mi spaventai. Anzi! Mi sentii autorizzata ad intervenire e, svincolata da qualsiasi condizionamento, mi alzai d’impulso. In piedi, davanti a lui, gli puntai un dito sul petto. “Io non ti voglio alle mie spalle. Sono finite le tue prepotenze. Non mi fai più paura.” Anche lui si alzò, scostò la mia mano dal suo petto e replicò con tono minaccioso: “Non permetterti mai più di alzare la voce con me.” In quel momento trillò il telefono e il suo volto si contrasse per l’irritazione. Udimmo la voce di Maria che rispondeva, poi l’avvicinarsi dei suoi passi: “El Senor Ruano, por usted.” Assentì col capo e prese il telefono che Maria gli porgeva. “Pronto... Si, va bene… questa sera. Alle nove.” Ascoltò per un tempo breve, sorrise amabilmente e si congedò: “A presto, Ramon!” Ci rivolse uno sguardo beffardo, un’espressione sul volto che pareva una sfida. Pensai a quanto era ingenuo e sciocco. Lo pensai quasi con rammarico. Stava andando inerme incontro alla morte, armato solo della sua sciocca presunzione, convinto di essere un prescelto. Non immaginava che quella sarebbe stata la sua ultima cena.
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Nei brevi istanti in cui i nostri occhi s’incontrarono, ebbi modo di ricordare il suo passato di uomo di successo, rammentai il suo carisma di un tempo e scorsi in lui quel poco che ancora ne restava. Avrei potuto avvertirlo, lanciargli un messaggio. Flavia l’aveva fatto, ma con quale risultato? Lo aveva rifiutato con spavalderia e altrettanto avrebbe fatto al mio tentativo. E così, lo guardai in silenzio. Era tempo di giustizia. Della mia. Flavia attendeva, volgendo lo sguardo ora a me, ora a lui. Compresi che intuiva i miei pensieri. Cenammo in silenzio quella sera, Flavia e io. Sedute, al grande tavolo della veranda, circondate dai rumori della natura e dai colori rossastri di un sole che pareva non voler cedere il posto alle prime ombre della sera. Quasi che, il buio che sarebbe sopraggiunto insieme alla notte, gli avrebbe per sempre impedito di risplendere ancora. Attendevamo che accadesse. Sapevamo che sarebbe accaduto.
“Luisa, ti sei ricordata di passare in tintoria a ritirare il mio vestito?” Mi riscossi dal torpore che mi aveva assalito e mi stropicciai gli occhi. Da un po’ di tempo mi addormentavo ovunque. Chissà perché. “Vado nel pomeriggio, stai tranquillo.” Mi guardai attorno e vidi solo disordine. I piatti, ammonticchiati sul tavolo di cucina, in attesa di essere riposti in lavastoviglie per il consueto lavaggio, alcune riviste, sparse qua a là, infine il telefono, quasi sepolto dalla posta che avevo ritirato, ma non ancora aperto. “Cerca di ricordarti. Il vestito grigio mi serve domani. Lo sai.” Il tono perentorio di Giovanni risvegliò in me il senso di colpa. Quello solito. Come se la responsabilità di un eventuale ritardo da parte della lavanderia, potesse essermi addebitata. Cominciai lentamente a sgomberare la cucina dai residui del pranzo di mezzogiorno. Senza alcun entusiasmo: mi sentivo confusa e fuori posto. Ero appena ritornata dal mio strano viaggio attraverso il sogno e non riuscivo ancora a collegarlo alla realtà. “Ciao, io vado. Ci vediamo stasera.” Il solito, avaro saluto, seguito da una carezza ruvida e fuggevole, a simulare un amore che non esisteva più.
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Un’inutile consuetudine che si ripeteva da tempo. Paragonavo il sentimento che mi dimostrava a quello per il suo povero cane: quando si era ammalato lo aveva abbandonato lungo l’autostrada, per non assisterlo. Probabilmente, non avrebbe riservato a me sorte migliore. Ecco, la cucina era di nuovo pulita e in ordine, la lavastoviglie stava facendo il suo dovere e io mi sedetti in poltrona e mi abbandonai al suo monotono rumore. Dovevo riordinare i miei pensieri e capire dove iniziava la realtà e dove finiva il sogno.
Lei, Flavia, non aveva che un ruolo marginale nella complessità di quel disegno. Solo dopo se ne rese conto, quando sua madre le raccontò tutto. Corrispondeva. Ogni dettaglio, anche lo stridere dei gabbiani, quando, dopo gli spari, ritornò il silenzio. Suonava strano nel buio della notte, inquietante come il latrare di un cane, o sinistro come il grido di un uccello notturno.
Accadde improvvisamente, non ci fu tempo per la paura, non ci fu tempo per le spiegazioni. Pochi minuti d’inferno, il fuoco incrociato, come la voce misteriosa aveva detto. Poi ritornò il silenzio, cui fece seguito, poco dopo, lo stridere di gomme d’automobile sull’asfalto: qualcuno stava fuggendo. Infine, le sirene della polizia. Chi attendeva il mio pianto, rimase deluso. C’era solo gelo dentro di me. Mi stupirono invece le lacrime che brillavano negli occhi di Flavia: chissà perché, da lei mi aspettavo indifferenza. Mi rimproverai per la mia superficialità: Giovanni era suo padre, il riferimento che le era sempre mancato e che io, con le mie frustrazioni, avevo contribuito a toglierle. Ora ero libera, senza avere commesso nessun crimine, se non con il pensiero. Ma si sa, le intenzioni non sono punibili. Villa Dorada era mia, il denaro depositato nelle varie banche, pure. Potevo ritornare in Italia come una ricca vedova, se lo volevo. Potevo dedicare il mio tempo, o la mia intera vita a Flavia, occuparmi di lei come quando era bambina. Se lei lo voleva.
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Un sibilo breve mi risvegliò. Il ciclo della lavapiatti era terminato. Mi trovavo di nuovo nella mia cucina, dalla finestra aperta potevo vedere il palazzo di fronte, con i panni stesi sui balconi, le piante anemiche dei gerani, che qualcuno, nell’ostinata illusione di possedere il pollice verde, tentava di far sopravvivere, in mezzo a tutto quel cemento. Villa Dorada era lontana, esisteva solo nella mia fantasia. O forse no. Era là, in Costa Rica, vicino a Parco Manuel Antonio, abitata da un’altra Luisa e da un altro Giovanni, con i loro problemi da risolvere. I miei erano ancora qui e io sopravvivevo con loro sulle mie spalle. Tutte le mie angosce, alimentate dalla sua prepotenza, nell’aridità di una vita senz’amore. Alzai le spalle: in fondo il mio destino non era diverso da quello di tante altre donne. Poi squillò il telefono e risposi. “Mamma, hai visto il notiziario internazionale?” “No. Perché?” “E’ accaduto.” Tacqui. Il mio respiro si fermò per un attimo. Poi riprese. “Come nel sogno?” “Si. Sei l’erede di tutto.” Chiusi gli occhi: il mio delirio era finito o stava per iniziare ora?
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Fiorenza È difficile per Fiorenza superare la morte del proprio figlio, ma è ancor più difficile perdonare colui che ritiene ne sia responsabile…
“Prego, si accomodi.” Mi guardava sorridendo e, chissà perché, provai la strana sensazione di averla già incontrata. Ma non avrei saputo dire né dove, né quando. La guardai con curiosità e in breve il suo volto si impresse nella mia mente, come un’immagine conosciuta e famigliare. Era abbastanza giovane, ovviamente dal mio punto di vista di sessantenne, non credo infatti avesse più di trentacinque anni, ma il suo volto era segnato. E non tanto dal tempo, ma forse più dalla vita, che aveva lasciato su di lei le sue tracce impietose. Mi stupì osservare i suoi capelli, ricci e completamente grigi, privi del trucco del colore che io pure, alla mia veneranda età, mi concedevo. Li portava raccolti sulla nuca, ma alcune ciocche sfuggivano ribelli alla costrizione delle forcine, rivelando la loro vitalità. Aveva lineamenti belli e regolari, gli occhi erano grandi, di un verde limaccioso, come acqua di palude e un alone scuro li circondava, sottolineando la loro malinconia. Non c’era ombra di trucco sul suo volto, che appariva severo, ma quella sua severità non riusciva a nasconderne la bellezza, misteriosa e crepuscolare, che si rivelava senza ostentazione. Mi chiedo ancor oggi perché, in quei pochi istanti, percepii ed immagazzinai tutte queste impressioni. Posai la gabbietta del mio micio sul tavolo dell’ambulatorio, che odorava di disinfettante e aprii la porticina. Ma Mozart si guardò bene dall’uscire, anzi, si accoccolò sul fondo, in posizione di difesa. Allora intervenne lei, con la sua dolce e serena determinazione. E Mozart uscì, guardandosi attorno con curiosità. Delicatamente, la dottoressa triste esplorò Mozart con la mano in ogni parte del suo corpo, instaurando quasi un dialogo con lui e ottenendo im-
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percettibili miagolii in risposta, al fine di scoprire il motivo per cui, da alcuni giorni, rifiutava il cibo. Dopo alcuni minuti, alzò gli occhi rassicuranti verso di me: si trattava di una banale infiammazione di una ghiandola salivare, mi disse, che, causandogli dolore, gli impediva la masticazione. Mi prescrisse la terapia, accarezzò delicatamente Mozart che, rapidamente, rientrò nella sua gabbietta. Compilò rapidamente una ricetta e mi porse la mano con cordialità. Ma c’erano inquietudine e malinconia nel suo sguardo. Ritornai verso casa rasserenata, ma al tempo stesso, pervasa da uno strano turbamento. Non per Mozart, ma per la veterinaria triste. Non pensai a lei durante la settimana successiva, impegnata com’ero a occuparmi della mia vita che, causa la mia precoce vedovanza, non mi dava troppe gioie. Ero indaffarata nell’arte della sopravvivenza, combattevo la solitudine cercando aiuto nella lettura, nel giardinaggio, nei rapporti con gli altri e, di tanto in tanto, qualche sporadica visita dei miei figli mi ridava un po’ il senso della vita, che un tempo anch’io avevo vissuto, quando Vincenzo era con me. Mozart era diventato il mio compagno, assiduo, silenzioso e coccolone. Poi, un mattino mi fermai all’edicola sotto casa e il ricordo della veterinaria triste, si riaffacciò alla mia mente. Stavo cercando una rivista letteraria che acquistavo di tanto in tanto, ma non ne ricordavo il titolo, quando mi balzò agli occhi un’immagine di copertina. Si trattava della foto di Giacomo Vanti, uno scrittore morto recentemente in circostanze misteriose, pubblicata sulla rivista “Conoscere”, un settimanale di arte e cultura. “Una morte aspettata”, diceva il titolo. Poi, proseguiva con un oscuro sottotitolo, dal contenuto ermetico, almeno per me: “La morte di Giacomo Vanti, scrittore affermato di questa nuova generazione di autori, che rifiuta il tecnomorfismo distruttivo, ci appare come una morte annunciata. Forse, annunciata il giorno della scomparsa del figlioletto Marco.” Guardai per alcuni istanti quella foto, cercando di metabolizzare la breve didascalia appena letta, ma la mia attenzione era stata catturata dalla foto che si intravedeva sullo sfondo, dai contorni un po’ sfocati. Acquistai d’istinto il settimanale e mi diressi verso casa, a passo svelto.
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Era ormai mezzogiorno e di solito a quell’ora mi dedicavo alla preparazione del mio pasto frugale, ma quel giorno feci uno strappo alle mie regole metodiche e pedanti di donna sola. Mi sedetti comodamente sul divano e mi apprestai alla lettura dell’articolo che aveva risvegliato la mia curiosità. Era un lungo articolo, tre intere pagine, corredato di fotografie e scritto con l’evidente scopo di catturare l’attenzione del lettore, a mezzo di un vocabolario che lasciava sottintendere una realtà stuzzicante, che andava oltre il reale contenuto del testo. Il solito sistema di fare notizia, pensai con irritazione, ma caddi nella trappola e lessi avidamente, fino in fondo. La mia attenzione era stata attratta dalla foto coi contorni sfumati, che mi aveva colpita quando mi ero fermata a curiosare davanti all’edicola, e ora era qui, davanti a me. Giacomo Vanti appariva al suo tavolo di lavoro, intento a rileggere pagine appena stampate di un suo ipotetico romanzo, il computer acceso alla sua destra, mentre a sinistra, un po’ in disparte, s’intravedeva la figura di una donna, i lunghi capelli ricci e neri, indicata dal giornalista come la moglie Fiorenza, nota veterinaria del paese dove la coppia viveva. La riconobbi subito, nonostante i capelli fossero attualmente grigi, divenuti tali in un tempo relativamente breve: era la veterinaria di Mozart, la donna che aveva suscitato in me quella strana emozione e leggendo quelle pagine, compresi il perché della sua tristezza. Nell’articolo era descritta la vita di Giacomo Vanti, dai tempi in cui, scrittore dilettante, viveva nella sua grande fattoria, circondato dai suoi animali e proseguiva narrando del suo incontro con Fiorenza Gualtieri, del loro amore conclusosi in matrimonio, corredando il testo con una foto scattata nel fatidico giorno, fino alla nascita del loro bambino Marco. Guardai a lungo la foto del matrimonio: Fiorenza vi appariva bellissima, un semplice velo bianco appuntato sui capelli, lo sguardo radioso. Poi, per Giacomo Vanti era arrivato il successo che aveva cambiato completamente la sua vita. La fattoria si era improvvisamente animata, aprendosi a nuove amicizie, tra le quali non erano mancate le donne, l’alcool e la droga. Erano divenute famose le sue feste, che proseguivano fino all’alba e la casa, che un tempo era stato il rifugio della giovane coppia, si era radicalmente trasformata, al punto che, la stessa Fiorenza, tra quelle mura, si sentiva quasi un’estranea. L’incomprensione tra i due innamorati era iniziata allora.
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Con un’ipotesi azzardata, e forse maligna, l’autore dell’articolo ne addebitava la responsabilità principalmente alla donna, non ritenendola in grado di condividere il successo del marito, probabilmente per una forma di gelosia o per il timore di perdere il suo ruolo, chissà! Poi era avvenuta la tragedia: durante una gita, l’auto decappottabile sulla quale viaggiavano Giacomo e Marco, per la forte velocità, o forse per mancanza di lucidità da parte di Giacomo, causata dal probabile abuso di alcool o di droghe, si era scontrata contro un camion proveniente dalla direzione opposta. Marco era stato sbalzato fuori, rimanendo ucciso sul colpo, mentre Giacomo era rimasto illeso. La perdita del figlio era stata una prova devastante e insostenibile per Fiorenza: il trauma subito aveva sconvolto la sua mente al punto da indurla a un tentativo di suicidio, e apertamente aveva accusato Giacomo, attribuendogli la responsabilità di quella morte. Non riusciva a perdonargli la colpa di essere sopravvissuto. Aveva abbandonato Giacomo all’istante e ripreso la sua vita di un tempo. Poche volte era ritornata alla grande casa e soltanto in veste di veterinaria. Per prendersi cura degli animali che amava, e terminare l’addestramento dei due alani, acquistati recentemente da Giacomo come sue guardie del corpo. Ma aveva sempre evitato accuratamente, di incontrarlo. In quanto a Giacomo Vanti, aveva abbandonato ogni impegno sociale, e viveva in assoluta solitudine. Almeno apparentemente, aveva anche dato addio alla sua professione di scrittore. E questo poteva essere, di per sé, il finale di quella drammatica vicenda, ma non era stato così. Il destino vi aveva aggiunto un altro capitolo, per concluderla con un tragico epilogo, che pareva annunciato da una frase di Giacomo raccolta da un giornalista che aveva tentato un’intervista telefonica allo scrittore. “La mia vita artistica è finita e forse anche la mia vita di uomo comune. Ho appena terminato di scrivere il mio ultimo romanzo. Sono molto stanco.” Il corpo di Giacomo Vanti era stato trovato senza vita nel suo frutteto dalla domestica, che a giorni alterni si recava alla sua casa per accudirlo.
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Era morto per dissanguamento, probabilmente sbranato dai suoi due alani che, peraltro, erano svaniti nel nulla. Erano state organizzate ricerche nella campagna circostante, ma dei due animali non era stata trovata alcuna traccia. Il fatto appariva piuttosto strano, in quanto tutte le dichiarazioni raccolte, tra gli amici, i parenti e i conoscenti dello scrittore, concordavano nell’affermare che i due alani erano profondamente legati al loro padrone, essendo stati addestrati a proteggerlo e non certo ad aggredirlo. Fiorenza era rimasta in disparte, chiusa in un triste silenzio. Non aveva rilasciato interviste, rifiutando qualsiasi contatto, anche quello con i pochi amici rimasti, o che tali si professavano. Essendo ancora legalmente la moglie di Giacomo Vanti, aveva ereditato tutti i suoi beni, ma non ne aveva mai preso possesso. Aveva preferito rimanere nel suo piccolo appartamento nel centro del paese, e continuare a esercitare la sua professione di veterinaria. C’era una sua foto sul settimanale, scattata nel giorno del funerale, che la ritraeva vestita di scuro, il volto pallido incorniciato dai capelli grigi. Abbandonai quella rivista e chiusi gli occhi; non sentivo più l’esigenza di pranzare, l’appetito se n’era andato completamente. La storia che avevo appena finito di leggere, mi aveva colpita profondamente, mi aveva sconvolta e nella mia mente si affacciarono una serie di immagini, dolorose e terribili, che presero a susseguirsi in un crescendo senza sosta, finché caddi in un pesante dormiveglia. E in un sogno, molto simile a un incubo, mi parve di vederlo mentre moriva, dilaniato dai suoi cani, che si accanivano su di lui senza pietà, per allontanarsi poi nella desolante campagna. Fino a svanire lontano, inghiottiti da una fitta nebbia. Sembrava che conoscessero il loro percorso, o seguissero il richiamo di qualcuno. E sullo sfondo dominava l’ombra di lei, una malinconica figura, il cui sguardo verde lanciava bagliori nel grigiore della nebbia. Assisteva a quell’atroce dramma come un giustiziere, implacabile e solitario, una statua di marmo, immobile e severa. Quel sogno mi rimase impresso nella mente, per riaffacciarsi con ricorrenza, come una scadenza senza data, a ricordarmi un’impressione che, nonostante i miei vani tentativi, non riuscii più a rimuovere.
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Fiorenza era rientrata presto quella sera: la casa l’accoglieva col suo vuoto d’amore, come sempre. E pur se quel vuoto d’amore non contenesse molti ricordi a rammentarle il passato, essi riaffioravano inevitabilmente, quelli belli e quelli brutti. Nonostante i suoi costanti tentativi di selezionarli. Non aveva voglia di cenare, c’era qualcosa che le premeva di più. Dalla scrivania, prese il libro di Giacomo e, tenendolo tra le mani, sedette sul divano per apprestarsi alla sua lettura. Era la sua ultima fatica letteraria, l’ultimo romanzo che Giacomo aveva scritto prima di lasciare, così tragicamente, questo mondo. Avrebbe dovuto occuparsi dell’eventuale pubblicazione: in fondo era lei la sua unica erede, ma non aveva nessuna intenzione di farlo. Il denaro aveva un peso irrilevante per Fiorenza, il successo postumo di Giacomo ancor meno. Non aveva neppure preso possesso della grande casa, di ciò che conteneva e dei terreni che la circondavano. Dopo la morte di Giacomo tutto era divenuto suo: un tempo vi era vissuta ed era stata felice. Un tempo. No, troppi fantasmi, ricordi di un passato troppo recente, che voleva eliminare definitivamente. Come aveva fatto con lui. Sentiva il groppo in gola ritornare, come ogni sera, quando la notte si avvicinava e insieme alla notte le sue inquietudini riaffioravano. E rivedeva il faccino paffuto di Marco, rivolto verso il suo in attesa del suo amore, come un pulcino morbido e tenero. Le pareva perfino di sentire il suo odore, un odore caldo di bimbo. La sua vicinanza l’aveva confortata, quando il successo aveva cambiato la loro vita, facendo piombare su di lei quella pesante cappa di solitudine. Perché proprio lui? No, non le sarebbe stato possibile vivere nella grande cascina. Durante la sua ultima visita, dopo la morte di Giacomo, aveva portato con sé solo due cose: il fascicolo che conteneva il suo ultimo romanzo, riposto nel cassetto della sua scrivania, e il disco sul quale era stato registrato. Prima di andarsene, aveva cancellato dalla memoria del computer l’intero file. Nessuno avrebbe letto quel testo, spettava solo a lei decidere se meritava la pubblicazione.
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Si accomodò in poltrona e riprese la lettura dal punto in cui, l’aveva interrotta. E, come la sera precedente, ebbe la sensazione che le parole volessero uscire dalle pagine, volessero assalirla, lanciare messaggi, creando un’atmosfera carica di suggestione che la coinvolse ancora, trascinandola all’interno di un dramma che lei conosceva, ma che non voleva ricordare. Sembravano far rivivere l’uomo di un tempo, quello che lei aveva amato, non certo quello che era divenuto dopo, quando il successo gli aveva arriso. Trasparivano, in quelle pagine, i suoi sentimenti più segreti, le sue paure nascoste, angosce e sensi di colpa, emozioni e fragilità di cui non lo riteneva più capace. E una domanda si affacciava alla sua mente: avrebbe forse potuto tentare di salvare quel che restava del loro rapporto, invece di...? No, che mai andava pensando. Sciocca sentimentale. Non doveva dimenticare: Marco non c’era più, era morto, morto! E lui era il responsabile della sua fine. Abbandonò la lettura, lasciò che l’intero fascicolo le scivolasse dalle mani, spargendosi sul pavimento. Doveva difendersi da quegli influssi negativi. Quel romanzo era una lettura pericolosa, il suo contenuto non rifletteva la realtà che lei conosceva bene. E chi, meglio di lei, poteva conoscerla? Era un imbroglio dell’autore, il protagonista vi appariva sotto una luce complice, quasi una vittima e non com’era realmente stato: un consapevole responsabile. Tuttavia, raccolse il fascicolo dal pavimento e continuò a leggere, fino in fondo. E gli occhi le si inumidirono di lacrime, e fu allora che si ribellò. Alzò il capo e respirò profondamente: doveva controllare le emozioni, mantenere saldo il suo punto di vista, non farsi coinvolgere dai sentimenti. In fondo, erano solo parole, puro esercizio letterario, abilmente costruito, glielo concedeva, ma solo al puro scopo di catturare l’attenzione di un nuovo pubblico di lettori. O forse, per riconquistare il suo pubblico di un tempo. Aveva caldo e andò in bagno per lavarsi il viso. Si guardò allo specchio e il suo sguardo la spaventò: gli occhi verdi erano infossati, avevano contorni rossastri e, all’ombra malinconica che vi albergava, si era aggiunta un’espressione cupa che non riconosceva come sua.
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No, non erano gli stessi occhi di un tempo. Non riflettevano solo la sua profonda angoscia, ma una maschera nuova, che rappresentava la sua trasformazione. Aveva affrontato due morti nella sua vita, ed era sopravvissuta a entrambe, ma la sua anima aveva perduto per sempre la sua identità.
Erano trascorse due settimane dalla lettura di quell’articolo sul settimanale “Conoscere” e la mia mente aveva rielaborato più volte l’intera storia. Avevo preso l’iniziativa di andare alla redazione del quotidiano più venduto in paese e avevo fatto una ricerca di tutti gli articoli che riguardavano la vita di Giacomo Vanti. Non avevo messo insieme molto materiale, ma a sufficienza per ricostruire i fatti: la storia di Giacomo e Fiorenza, dal giorno del loro matrimonio fino alla loro separazione, in seguito alla morte violenta del piccolo Marco. E, secondo me, lì era il nocciolo di tutta la questione: il dolore disperato di Fiorenza per la morte del figlio, che si era trasformato in un odio profondo verso il marito. Tutto ciò, confermato anche da alcune dichiarazioni di amici della coppia, che riferivano come lo strazio della donna l’avesse allontanata da tutti. Fino a giungere alla tragica conclusione finale. La mia mente aveva elaborato un’ipotesi, azzardata e terribile: mi ero convinta che Fiorenza avesse ucciso Giacomo addestrando i suoi cani a farlo, e questa convinzione mi spaventava. Ma poi, smitizzavo il tutto, dicendo a me stessa che si trattava di una mia interpretazione soggettiva, sicuramente fantasiosa, e inoltre, c’era una domanda che mi assillava e che non trovava una convincente risposta: dove erano finiti i cani? Fiorenza non poteva averli uccisi, di questo ero sicura. Ma nonostante la mancanza di risposte alle mie domande, la sensazione di essere depositaria di un terribile segreto permaneva, e volli scaricarmi da quel peso parlandone con mio figlio Saverio. Il quale, alle mie parole, mi guardò con occhi stralunati, come si guarda una pazza visionaria. Forse aveva ragione e io lo ero veramente. “Mamma, tu sei troppo sola.” mi disse, “Perché non vieni ad abitare un po’ con noi?”
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Saverio era sposato da due anni ormai e Sandra, mia nuora, era responsabile vendite di un’importante azienda multinazionale. Era un’attività molto impegnativa, che la teneva spesso lontana da casa. Mi sentii in colpa: non volevo certo causare preoccupazioni a mio figlio, né indurlo a volersi prendere cura di me, e così tentai di ridimensionare il mio castello di congetture. Ma cosa mi ero messa in testa, chi credevo di essere diventata? Miss Marple? Forse era veramente un problema di solitudine e io stavo diventando paranoica. Probabilmente la mia fantasia galoppava troppo e io non riuscivo più a controllarla. Ma, nonostante queste ragionevoli riflessioni, ebbi comunque un ulteriore guizzo e azzardai: “Perché non leggi tutti gli articoli di giornale che ho raccolto? Forse verrà anche a te qualche dubbio…” “Ma mamma. Ti rendi conto che la polizia ha già svolto le sue indagini? L’inchiesta è chiusa. Quello scrittore è morto, sbranato dai suoi cani e la moglie non c’entra per nulla.” A quel punto mi ritornò alla mente l’immagine di Fiorenza Gualtieri mentre visitava Mozart e provai un improvviso senso di colpa: come potevo addebitarle un simile delitto? Poi, ancora, l’insidia del dubbio, ripensando alle parole di quell’articolo: “… era ritornata alla grande casa soltanto poche volte e soltanto in veste di veterinaria, per prendersi cura degli animali, che amava, e per terminare l’addestramento di due alani…” Quella frase ballonzolava nella mia mente e non voleva abbandonarla. Le parole si ripetevano, rincorrendosi come in un girotondo di morte. Mi passai una mano sulla fronte, come a volerle cancellare. Sorrisi a Saverio e, quasi timidamente, ammisi: “Forse hai ragione tu, devo pensare ad altro.” Ma subito dopo aggiunsi: “Certo, però è strano, che i cani siano spariti.” “Mamma…!” La voce di Saverio lasciava trasparire un’evidente impazienza e così, nonostante i dubbi che mi assillavano la mente, decisi di ascoltare i suoi suggerimenti. Ma non di andare a trascorrere un periodo di tempo a casa sua: amavo troppo la mia indipendenza per non comprendere quanto fosse importante rispettare l’indipendenza altrui.
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La mattina seguente, andai all’agenzia viaggi e prenotai una vacanza di quindici giorni sul mar Rosso, riuscendo a coinvolgere nell’avventura anche due mie care amiche, anche loro sole come me. Pensai che fosse il modo migliore per togliermi dalla mente le ambizioni da investigatrice che vi si erano intrufolate. Tentai, in seguito, di scacciare per sempre quel tarlo fastidioso, convincendomi che era solo il frutto della mia fantasia, malata di solitudine. Ma nel fondo della mia mente il dubbio non si cancellò mai e la sensazione ingiustificata di essere complice indiretta di un omicidio, continuò a tormentarmi durante le lunghe notti in cui il sonno non arrivava. Che, purtroppo, erano sempre più frequenti. Forse non c’era nessun mistero nella morte di Giacomo Vanti, ma il volto di Fiorenza nascondeva una verità: quale? Forse quella verità che la mia presunzione mi faceva pensare di avere compreso?
Era una splendida mattinata di sole, abbastanza insolita per un giorno di dicembre. Fiorenza, dopo avere indossato il suo giaccone di pelo sintetico, si apprestava a uscire. Era domenica, aveva trascorso l’intero pomeriggio del sabato a sgomberare, liberando la sua casa e la sua vita dai ricordi. Poche cose, in verità, ma che riproponendosi ogni giorno al suo sguardo, avrebbero finito, prima o poi, col renderla schiava del suo passato. Il testo di Giacomo, scritto al computer, era rimasto lì, sul tavolino del salotto, ultimo cimelio che, ancora, attendeva il suo verdetto. Fiorenza lo guardò e, suo malgrado, le emozioni provate durante quella lettura la coinvolsero ancora. Si chiedeva, con crescente curiosità, se Giacomo avesse espresso tutto ciò per un intimo bisogno di liberare la sua anima dal peso dei rimorsi, o avesse invece fatto uso del dramma della sua vita, per proporla al suo pubblico di lettori come una commedia, affinché le emozioni che ne sarebbero scaturite, potessero riabilitare la sua immagine. Le stesse domande di sempre, gli stessi dubbi. Ma che senso avevano ormai? Il destino si era già compiuto, una specie di giustizia vendicatrice aveva ristabilito l’equilibrio. Ma non aveva riportato in vita Marco.
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Alzò le spalle, soffocando le sue ultime resistenze. Era solo un romanzo, da offrire in pasto ai suoi lettori, una nuova immagine che non avrebbe avuto più alcun seguito. Dunque, perché salvarlo? Prese il raccoglitore che conteneva l’intero testo del romanzo, vi aggiunse il disco sul quale era stato registrato e gettò il tutto nel sacco nero della spazzatura. Si avviò alla porta trascinando il sacco con sé, scese con l’ascensore e posò il pesante fardello accanto ai contenitori dell’immondizia. Poi, salì sulla sua piccola auto, parcheggiata nel cortile di casa e avviò il motore. Guidò per circa un’ora sulla monotona autostrada lombarda, finché avvistò il cartello che indicava l’uscita. Lasciò l’autostrada e proseguì per circa venti minuti in quelle strette stradine di campagna fiancheggiate dai fossi. Erano le due del pomeriggio, il sole splendeva ancora e ne sentiva il calore attraverso i vetri dell’automobile, ma sapeva che durante il ritorno, sarebbe calato dietro alle alte montagne che circondavano la pianura: Fiorenza si augurò che la nebbia non facesse la sua indesiderata comparsa, rendendole difficile il ritorno a casa. Finalmente era arrivata e parcheggiò l’auto davanti al cancello di quello che, all’apparenza, non era che un grande casolare. Su una piccola targa di metallo si leggeva la scritta: “Zooclinica GPL - Cura e addestramento - Studio associato”. Le giunse all’orecchio l’abbaiare dei cani chiusi nei loro recinti e alle narici l’odore acre degli animali, misto a quello dei disinfettanti. La clinica era situata in aperta campagna, lontana da qualsiasi centro abitato, non c’erano auto di visitatori parcheggiate nel cortile. Lì, non andava nessuno a fare visita. Prese il pacco dei medicinali posato sul sedile posteriore dell’auto e, dal bagagliaio, estrasse l’altro pacco, quello dei viveri, troppo pesante per lei da trasportare all’interno, e lo appoggiò al suolo. Alfio, il guardiano, le venne premurosamente incontro e la salutò con cordialità: “Salve dottoressa Gualtieri, come sta?” “Come sempre, Alfio. Stanca e coi minuti contati. Piuttosto invece, come stanno i miei amici?”
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Alfio portò i pacchi all’interno, caricandoseli entrambi sulle spalle e rispose alla sua domanda: “Eh, il gatto va male. Non mangia e non apre più gli occhi, temo che non arriverà a stasera. La filaria è una brutta bestia e non l’ha risparmiato. Gli altri invece stanno tutti abbastanza bene. I due alani poi, direi addirittura benissimo: mangiano e sono in perfetta forma. L’addestramento mi sembra ormai completato. Anzi, c’è una persona che li ha visiti e li vorrebbe comprare. Che ne dice?” Fiorenza scosse il capo: “E’ presto ancora, non credo siano pronti. Forse tra venti, trenta giorni. Voglio essere sicura Alfio, non posso correre rischi. Mi spiace per il povero gatto invece, ma l’ho raccolto che era troppo tardi. Del resto, non avrei potuto fare di più per lui. Solo aiutarlo a non soffrire. Andiamo un po’ a vederlo.” Si fermò prima nella piccola sala operatoria, dove era in corso un intervento, trattenendosi in silenzio una diecina di minuti, poi dopo uno scambio professionale con il medico di turno, si avviò per andare a visitare il suo paziente. Il grosso gatto nero giaceva intorpidito nella sua gabbietta, Fiorenza infilò la mano attraverso la piccola apertura laterale, gli accarezzò il capo e gli sollevò le palpebre. L’animale era privo di forze, ma emise un miagolio, debole e quasi inudibile. Fiorenza ritrasse la mano scuotendo il capo sconsolata. “Povero micio! Dovrò farti l’iniezione.” Si allontanò lentamente per dirigersi verso il recinto dei cani. Si fermò davanti allo spazio delimitato: i due alani le si avvicinarono scodinzolando e la guardarono con occhi speranzosi, come in attesa. Di una parola, di un gesto, forse solo di affetto. Fiorenza girò attorno il capo per assicurarsi che Alfio fosse abbastanza lontano per udirla. Quindi, emise un breve sibilo con le labbra: nessuna reazione. Ripeté lo stesso sibilo per altre due volte e gli animali rimasero immobili, ma continuarono a fissarla in paziente attesa. Fiorenza respirò profondamente, un lungo respiro di sollievo: sì, il condizionamento era terminato, l’assenza di reazione dei due cani confermava la sua ipotesi. Sarebbe rimasto un segreto fra lei e loro.
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Ma sapeva, in cuor suo, che il contenuto di quel segreto avrebbe tormento i suoi sogni notturni per il resto della sua vita. Sentì il passo di Alfio alle sue spalle: si stava avvicinando. Si volse e gli chiese: “Dove abita la persona che ti ha chiesto di loro?” “E’ uno di Bergamo, una persona di fiducia che ama le bestie. Lo conosco e può stare tranquilla.” Alfio era un uomo semplice e si esprimeva altrettanto semplicemente; Fiorenza gli era amica da anni e si fidava di lui. “Va bene, tra quindici giorni saranno pronti. Lo sai, sono senza pedigree e bisogna fare attenzione. Li ho trovati che girovagavano per la campagna e li ho salvati dall’accalappiacani, ma non per questo voglio avere delle grane.” “Certo, certo. Ma quel tipo è uno che non fa storie e paga bene.” “D’accordo allora. Abbiamo bisogno di soldi per la clinica, servono medicinali, nuove attrezzature.” Per un attimo pensò all’eredità di cui, da poco, era venuta in possesso, ma subito scacciò quel pensiero. Aveva deciso di rinunciarvi e devolvere il tutto all’Associazione Giovani Autori, di cui Giacomo era il principale fondatore. Questo, almeno, glielo doveva. Accettarla sarebbe stato contrario a ogni etica e Fiorenza aveva un grande rispetto per la filosofia morale: la sua, naturalmente. Ritornò al gatto nero: doveva fargli l’iniezione. Non voleva che soffrisse ancora. Dallo scaffale, prese la siringa sterile ed aspirò il liquido mortale da una piccola fiala; la sua mano era ferma mentre iniettava l’ago sul dorso dell’animale. Gli fece un’ultima, breve carezza e si allontanò da lui col cuore gonfio di pena. Aveva controllato l’evoluzione dei casi di cui seguiva personalmente la terapia, messo in pratica un’inevitabile decisione, ma, soprattutto, aveva completato e definitivamente chiuso la situazione che più le premeva. Lasciò la clinica che il sole stava calando dietro alle montagne e la strada al ritorno, ammantata dalle prime ombre della sera, le sembrò più lunga. Ma non era calata la nebbia.
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Guidò automaticamente, non c’era traffico e conosceva la strada a memoria. Si passò più volte la mano sinistra sul volto e sulla fronte come se, con quel gesto, volesse cancellare i cattivi pensieri. Sentiva la tensione allentarsi e se ne rendeva conto dal leggero tremito alle gambe, che parevano essere divenute più deboli. Aveva inoltre la gradevole sensazione che i lineamenti del suo volto si distendessero, abbandonando l’abituale rigidità, che ormai da anni li caratterizzava. No, non sarebbe ritornata molto presto alla clinica. Forse non vi sarebbe ritornata più. Avrebbe ceduto le sue quote a uno degli associati, sì, il dottor Palmieri che, da tempo, le faceva pressione. Era preferibile lasciarsi tutto alle spalle, dimenticare ed essere dimenticata, anche se sapeva che sarebbe stato un esercizio impossibile da attuare. Col tempo, forse, i ricordi si sarebbero attenuati, ma era consapevole che il passato non si può cancellare. Non provava rimorsi, non ancora. Aveva finalmente messo la parola fine a un capitolo della sua vita, il capitolo finale e il più tragico, che aveva contraddistinto un lungo periodo della sua esistenza. Non riuscì a fare a meno di ironizzare al pensiero di chiamare un periodo della sua vita con la parola “capitolo”. Era forse una deformazione conseguente all’influenza subita dalla professione di Giacomo? Come se la sua vita fosse stata un romanzo. Lo era stata? Si, forse lo era stata. Un romanzo di cui lei era autrice soltanto della parte finale. Sorrise amaramente a quel pensiero, mentre parcheggiava l’auto nel cortile. Sospirò e spense il motore: era arrivata a casa.
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Wanda L’adolescenza di Wanda è stata difficile, non ha dimenticato, né perdonato la mancanza d’affetto. Avrà l’occasione per vendicarsi e la coglierà come un suo diritto. Ma il futuro le concederà tempo per riflettere…
Il mio primo pensiero quando vidi la piccola chiave sul pavimento, fu che in quell’alberghetto trascurassero la pulizia. Poi mi chinai e la raccolsi, così, per curiosità. Era la chiave del residence dove Franco abitava e la riconobbi per la sigla che vi era incisa sopra. Ancor oggi, a distanza di tanto tempo, mi chiedo quale fu la molla che m’indusse a decidere di consegnargliela di persona. Forse, perché non avevo altri impegni per quella giornata, o più probabilmente, perché ero annoiata e non avevo alcuna fretta di ritornare a casa. E così, fu solo la casualità a farmi scoprire il gioco perverso in cui ero caduta. Durante il nostro ultimo incontro, nel solito albergo fuori città, Franco se n’era andato prima di me per un impegno di lavoro. Ero rimasta a letto a impigrire nella penombra della stanza, poi mi ero alzata, avevo fatto scorrere l’acqua nella vasca e mi ci ero immersa per un lungo bagno ristoratore. Quindi, mi ero preparata con calma per ritornarmene a casa. Ma, quella scoperta imprevista aveva fatto cambiare i miei programmi e, di conseguenza, anche la mia vita era cambiata. Mi ero fatta accompagnare all’abitazione di Franco da un taxi, avevo intenzione di lasciare la chiave in portineria. Ma, al mio arrivo, al banco ricevimento clienti non c’era nessuno. Quando si dice la fatalità! Avevo allora deciso di salire al dodicesimo piano, nel suo appartamento, pen-
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sando di restare ad attenderlo per un ultimo saluto. Lo avrei avvertito chiamandolo sul cellulare, o lasciandogli un sms. C’era penombra nella sala, le finestre erano socchiuse, lasciando filtrare una sottile lama di luce. L’aria deliziosa, proveniente dal grande terrazzo che si affacciava sul parco, era un chiaro invito ad accomodarmi. Mi tolsi le scarpe, mi adagiai sul divano e, quasi automaticamente, accesi la televisione. C’era una videocassetta inserita e premetti il pulsante per vedere di che si trattasse. Ero curiosa di conoscere i gusti cinematografici di Franco, forse perché tra noi, non esisteva un vero rapporto confidenziale; in pratica, sapevo ben poco di lui e della sua vita. Immediatamente le prime scene catturarono la mia attenzione, facendomi balzare il cuore in gola. Le immagini che scorrevano dinanzi ai miei occhi, altro non erano che le riprese filmate di uno degli incontri avvenuti tra me e Franco, proprio lì, nell’appartamento dove ora mi trovavo e nella sua camera da letto. Mi assalì un profondo disagio nell’osservarmi, ripresa inconsapevolmente nelle pose più scandalose e provocatorie, mentre facevo all’amore con lui. Strinsi gli occhi per non vedere, ma era una reazione inutile e infantile. Li riaprii e continuai a guardare: le immagini mi scivolarono davanti, sequenza dopo sequenza, nella loro scioccante brutalità. Mi pareva impossibile. Mi tornarono allora alla mente le ardite richieste di Franco, che in quell’occasione, mi erano sembrate eccitanti e piene di fantasia. In realtà non erano che il progetto di una regia precedentemente studiata per ottenere… che cosa? Lacrime di umiliazione e di rabbia mi punsero gli occhi. Dunque, non ero stata altro che un gioco per lui, o più probabilmente, un mezzo per raggiungere uno scopo. Ma quale? Ero turbata e non sapevo cosa pensare, che fare. In preda a un’ansia incontrollata, iniziai a frugare disordinatamente in ogni angolo dell’appartamento, nei cassetti, nell’armadio, tra il materiale fotografico e le videocassette, che erano racchiuse in un mobile del soggiorno. Di sicuro c’era un’apparecchiatura nascosta da qualche parte, predisposta per riprendere quelle scene, ma non persi tempo a cercarla. Ero terrorizzata, temevo il ritorno di Franco. Dovevo agire in fretta e sperare di avere fortuna.
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Nella mia affannosa ricerca, trovai infine un’altra videocassetta con etichetta simile a quella che avevo appena visionato: W file. Il mio nome era Wanda, dunque, forse si trattava della mia iniziale. La inserii e premetti play. Avevo fatto centro. Si trattava di un’altra registrazione dove io e Franco apparivamo insieme mentre conversavamo. Questa era dotata di sonoro. “Non l’ho certo sposato per amore,” dicevo sorridendo con indifferenza, “con lui mi sono assicurata il futuro. Ha ormai settant’anni e… devo solo avere pazienza.” Mi maledissi per quella mia fredda affermazione. Poi, iniziavo lentamente a spogliarmi e lo facevo in modo provocatorio, allo scopo di eccitarlo. Feci scorrere le immagini in velocità, provavo vergogna ad assistere a quella mia esibizione. La registrazione proseguiva riprendendoci entrambi, nudi e senza pudore, mentre lui mi accarezzava il corpo. Sembravo godere a quelle sue carezze e mi strusciavo contro di lui languidamente. “Forse torna questa sera.” dicevo con tono seccato, “Sai che barba!” Lo squallore del mio atteggiamento, quella mia ostentata sicurezza, così priva di stile, mi umiliava profondamente. Avrei voluto non riconoscermi in quella donna, ma non potevo. Ero proprio io. Rapidamente, cercai di sistemare ogni cosa come l’avevo trovata, o almeno, ci provai. Poi misi le due videocassette in borsetta e dopo un’ultima occhiata intorno, per evitare di lasciare eventuali tracce del mio passaggio, uscii chiudendo la porta a chiave. Scesi con l’ascensore, ma solo fino al primo piano. Feci l’ultima rampa a piedi e, riparata dal muro, attesi il momento opportuno per uscire senza farmi scorgere dal portiere. Stava leggendo il giornale, finalmente il telefono squillò, rispose e iniziò a conversare. Ne approfittai per sgattaiolare fuori. Per la prima volta nella mia vita, ebbi paura. Durante il tragitto sul taxi che mi riconduceva a casa, chiusi gli occhi e piansi. Quali avvenimenti mi avevano condotta al punto in cui ora mi trovavo?
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Gli anni trascorsi sotto i riflettori erano stati eccitanti e pieni di promesse, ma mi ero resa conto in fretta che, molte di esse, si sarebbero rivelate vane e presto, mi sarei ritrovata senza prospettive future, ancor giovane e già superata. Da altre illuse come me, ma più giovani. Mi guardavo allo specchio con consapevolezza, non ero alla ricerca di conferme: ero sempre bella. Avevo perduto la vistosa aggressività dei primi tempi, ma in cambio avevo acquisito fascino, e una discreta classe. Sicuramente, ora riuscivo a concedermi la libertà di essere me stessa. Mi ero resa conto di avere superato il limite, oltre il quale le porte del successo non si spalancano più, il giorno in cui avevo compiuto ventitre anni e una giovanissima modella, non ancora sedicenne, guardandomi con occhi spudoratamente ingenui, aveva esclamato: “Wanda, complimenti. Come top model, sei ancora bellissima.” Mi fu chiaro che, da quel momento, aveva inizio il mio declino. Dovevo trovare un’alternativa che mi consentisse di continuare a vivere la vita divertente e lussuosa che avevo imparato ad amare e alla quale mi ero abituata, durante quei brevi anni folli. Per calcolo, non certo per amore, avevo accettato di sposare Luciano Zagni, un industriale della ceramica dal nome importante, che aveva un considerevole peso nel mondo dell’economia e della politica, pari sicuramente a quello del suo portafoglio. Aveva quasi quaranta anni più di me, una personalità carismatica, i capelli completamente bianchi, uno stomaco in avanzato stato di arrotondamento e una spiccata simpatia, per non dire adorazione o dipendenza, per il mondo della moda. O dovrei dire, per le sue rappresentanti. Non mancava mai alle sfilate, acquistava sempre i capi più costosi per le sue amanti del momento e, quando non era già in dolce compagnia, trovava il modo di non restare solo. E così, avevo iniziato a frequentarlo, accettando la sua corte e i suoi regali, per finire poi, inevitabilmente, nel suo letto. Per la precisione in quello di un albergo di lusso, che immagino gli fosse costato, per una sola notte, il mio ingaggio di una settimana. Il giorno in cui mi chiese di sposarlo, caddi dalle nuvole: non mi aspettavo certo una proposta del genere da un uomo come lui. Immaginavo che avrebbe trascorso il resto della sua vita pagandosi il piacere della compagnia di giovani modelle, fino a esaurimento completo delle sue forze. Invece, mi offrì un diamante che non si poteva rifiutare, insieme a una domanda di matrimonio formulata quasi timidamente e senza cerimonie:
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“Vuoi sposarmi?” Non ero preparata a una simile proposta e lo guardai con la bocca semi aperta e un sorriso appena abbozzato sulle labbra. Poi, vidi i suoi occhi che mi fissavano con impazienza e compresi che dovevo dargli una risposta rapida. Non era uomo abituato ad attendere. Riflettei rapidamente sulla mia vita: la mia carriera di modella era agli sgoccioli e non ero abbastanza determinata a proseguire, neppure sul set di una casa cinematografica. Quel mondo in continua evoluzione, dove i canoni della bellezza cambiavano con la rapidità del lampo e le modelle invecchiavano molto più in fretta delle altre creature del mondo, non mi si confaceva più. Sposando Luciano, mi sarei messa al riparo da quella corsa contro il tempo e non avrei più dovuto lottare per ottenere nuovi ingaggi. “Si, ti sposo.” Non m’importava la differenza di età e, in quanto ai rapporti sessuali, beh… in fondo non era poi tanto male e, soprattutto non era più un ragazzino. Immaginavo che, una o due volte alla settimana sarebbe stato il massimo di dedizione che mi avrebbe richiesto. E tutto il resto del tempo sarebbe stato mio. Shopping, feste e vacanze. Luciano era uno degli uomini più ricchi d’Italia, avevo avuto una grande fortuna a essere stata scelta da lui. Quando confidai a mia madre la mia decisione di sposare Luciano Zagni, lessi nel suo sguardo una profonda disapprovazione, che le sue parole mi confermarono Ma non m’importava affatto. Che diritto aveva di biasimare la mia scelta? Lei aveva trascorso la sua intera vita dedicandosi solo ed esclusivamente a se stessa. Io non ero stata altro che un problema, accantonato in un angolo del suo tempo, così, come forse lo era stato anche papà. Dunque, diedi di spalle alle sue osservazioni, giuste o sbagliate che fossero. Sposai Luciano Zagni, nonostante tutto. Ecco, il taxì si era arrestato davanti al cancello della villa: mi strofinai gli occhi per asciugarli dalle lacrime e, dopo avere pagato la corsa, scesi ed entrai in casa. A quell’ora non c’era nessuno. Quando Luciano era fuori città, i domestici lasciavano la villa alle cinque del pomeriggio.
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C’erano diversi messaggi in segreteria e uno, era di Luciano. “Ciao. Non rientrerò a Roma come avevo previsto.” diceva, “Forse tornerò domani sera o domani l’altro, non so. Ti terrò informata. A presto.” Era la sua voce inconfondibile, rauca per le troppe sigarette. Sospirai di sollievo: il suo mancato rientro mi concedeva tempo per riflettere. Sì. Fino a quel giorno, potevo affermare di essere stata veramente fortunata. Dopo il matrimonio la mia vita era stata splendida e tutte le mie aspettative si erano realizzate, almeno durante i primi quattro, cinque anni. Poi, le cose, a poco a poco, avevano iniziato a peggiorare. In principio Luciano mi trattava come fossi una principessa, con adorazione, tanto da rendermi quasi naturale simulare i miei orgasmi. A volte, non era neppure necessario fingere, perché riusciva a farmi provare sensazioni intense, eccitanti. Era un uomo pieno di risorse, nonostante l’età, e incominciavo a provare per lui un affetto sincero e una certa attrazione. Ma improvvisamente il suo comportamento era cambiato. Aveva iniziato a prendersi degli spazi di libertà senza motivazioni. Beninteso, non ero gelosa, mi sentivo così stupidamente sicura di me, da credere di essergli indispensabile. Anzi, a volte le sue assenze alleggerivano la tensione che lui stesso riusciva a creare con la sua presenza, che stava diventando ogni giorno sempre più impositiva, spesso opprimente. Era decisamente cambiato, non accettava le mie opinioni e, se diverse dalle sue, le considerava mancanza di rispetto e non perdeva occasione per tacitarmi, anche in presenza di ospiti o di amici. Ma, fortunatamente, i suoi frequenti impegni di lavoro mi concedevano, in compenso, ampio respiro e inoltre, mi davano la possibilità di fare nuove amicizie. Già. Ed era stata proprio questa opportunità a mettermi nella situazione in cui ora mi trovavo. La simpatica amicizia tra me e Franco, ad esempio, sorta in un momento in cui il rapporto con Luciano mostrava i primi segni di declino. Fin dall’inizio avevo avuto la sensazione che, dietro l’apparente casualità, ci fosse stato un disegno prestabilito, ma riflettendo, mi chiedevo chi avrebbe avuto interesse a organizzare il nostro incontro.
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Ero rimasta a Portofino a terminare in solitudine una breve vacanza iniziata insieme a Luciano. Poi lui era dovuto rientrare a Roma per un improvviso impegno di lavoro. Avevo scoperto in seguito, che l’importante appuntamento non era con un onorevole, responsabile di non ricordo bene quale ministero, ma con una giovanissima modella, entrata da poco a far parte della scuderia del più famoso stilista del momento. No, Luciano non aveva perduto il vizio. Beh, per farla breve, stavo sorseggiando un aperitivo al bar dell’Hotel, assorta in cupi pensieri e amareggiata per la mia solitudine, quando Franco si era avvicinato al banco e, nel prendere il bicchiere colmo di Martini, inavvertitamente mi aveva urtato e il mio aperitivo si era sparso rovinosamente sull’abito azzurro, di seta pura, che indossavo. Non ero riuscita a trattenere un’esclamazione irritata. “Ma che accidenti fa?” Non avevo avuto la possibilità di continuare, perché il suo accattivante sorriso aveva spento la mia irritazione. Non era stata altro che attrazione fisica, dal primo momento e mai, neppure in seguito, quell’attrazione si era trasformata in amore. Non so cosa lui provasse per me. Durante i nostri incontri non perdevamo tempo a interrogare i sentimenti. Facevamo all’amore, trasportati dal desiderio e seguendo il nostro istinto, senza preoccuparci del domani, né del fatto che io fossi la moglie di uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia, mentre lui, per pagarsi gli studi universitari, fosse costretto a lavorare. Ma non mi pareva che lavoro e studio lo affaticassero troppo, trovava sempre tempo per incontrarmi, in qualsiasi ora del giorno o della notte, quando Luciano non c’era. I nostri appuntamenti avvenivano, a volte in un piccolo albergo fuori città, ma più frequentemente a casa sua. Franco abitava in un residence, in un appartamento all’ultimo piano, ampio, ben arredato e con un grande terrazzo. Mi ero chiesta spesso come potesse permettersi di pagare un affitto sicuramente elevato e da dove provenisse il denaro, sia per gli abiti eleganti che indossava, che per mantenere l’automobile sportiva e di grossa cilindrata. Ma, in fondo, non m’importava granché. Non chiedeva denaro a me, d’altronde io non gliene avrei certo dato. Mi piaceva fare all’amore con lui. Punto e basta. Giustificavo il mio modo d’agire, addirittura mi ero convinta che non si trattasse di un vero e proprio tradimento. Non amavo Franco e ciò che
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avveniva tra noi, era soltanto l’inevitabile conseguenza del comportamento di Luciano che, per primo, aveva deluso le mie aspettative. Salii al piano superiore ed entrai in camera da letto per cambiarmi d’abito. Luciano non sarebbe rientrato prima di domani sera, quindi, avevo tempo per riflettere. Ma non solo. Volevo dipanare quell’aggrovigliata matassa e scoprire la verità. Luciano era al corrente della mia relazione con Franco? Trascorsi il resto della giornata, fino a tarda sera, a frugare nei cassetti, nelle tasche dei suoi abiti, controllando minuziosamente ogni documento, con la precauzione di riporlo poi dove lo avevo trovato, ma non scoprii nulla che confermasse le mie paure. Infine, mi accostai al computer e lo accesi. Ma occorreva la password per l’accesso e io, ovviamente, non la conoscevo. Chiusi gli occhi stringendo i pugni per la rabbia. Quando li riaprii, mi colpì la mia foto che troneggiava in bella mostra sulla scrivania. Vi apparivo sorridente e radiosa e c’era la mia dedica, in basso: “Con amore, Wanda.” La mia firma era grande e chiara e allora tentai. Con mano tremante digitai il mio nome sulla tastiera e premetti invio. E in quel modo, riuscii a penetrare nel suo intricato mondo e ad avventurarmi alla scoperta dei suoi segreti. Tutto mi apparve facile all’inizio, poi mi resi conto che, in realtà, non lo era affatto. Ero abbastanza abile nell’uso del computer, ma certo, non ero un’esperta in informatica. Incontrai parecchie difficoltà, ritrovandomi spesso incastrata in percorsi che m’introducevano in file che non m’interessavano affatto, come in un labirinto da cui non riuscivo più a uscire. Ma infine, quando ormai disperavo, mi trovai all’interno di un documento interessante. Senza sapere bene come, ero entrata nel file di un istituto bancario che accese la mia curiosità, forse perché Luciano, almeno in mia presenza, non ne aveva mai parlato. Il che non significava molto, dal momento che non era uso parlare di affari con me, ma conoscevo le banche con cui aveva contatti e questa, non ne faceva parte. Tra l’altro, sembrava essere una banca estera. Il codice d’accesso era stato memorizzato e fu sufficiente premere invio. Mi stupì tanta leggerezza da parte di Luciano, quello fu sicuramente il
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suo grosso errore, che tuttavia, si rivelò tutto a mio vantaggio. Certo, lui non prevedeva che qualcuno e, nel caso specifico io, potesse introdursi nel suo sistema informatico. Scoprii una lunga serie di operazioni bancarie, per la maggior parte attinenti a movimenti non propriamente legali, come certi versamenti a favore di personaggi che gli erano utili per i suoi affari, i quali sicuramente non avevano dichiarato gli introiti ricevuti. Ma non ero interessata a quel genere di imbrogli. A un tratto, però, qualcosa attrasse la mia attenzione: si trattava di un bonifico risalente a quasi sei mesi addietro, per l’importo di cinquemila Euro e che, contrariamente agli altri, non riportava il nome per esteso del beneficiario, ma solo una sigla, F.C. (Franco Casati?) e il numero di un conto. Ne individuai altri, a distanza di un mese l’uno dall’altro, per il medesimo importo e con la stessa sigla. Il totale complessivo ammontava a venticinquemila Euro. Avevo conosciuto Franco circa sei mesi prima: ero forse sulla pista giusta? Provai un forte senso di stordimento: ero stupita di come tutto potesse essere così facile. Avrei potuto effettuare operazioni a nome suo, mi sarebbe bastato digitare l’importo, gli estremi di un conto corrente e confermare. Imprudentemente, forse a causa della sua scarsa memoria per i numeri, Luciano aveva memorizzato il codice anche per le operazioni bancarie. Fu in quel momento che l’idea mi balenò nella mente. Avrei potuto farlo, sì! Accreditare denaro a mio favore, sul mio conto bancario di Chiasso, quello che, più per pigrizia che per un suo utilizzo, non avevo mai chiuso. Ma prima, avrei dovuto organizzare un piano. Stampai le pagine più importanti per leggerle con calma, ma, soprattutto, volevo riflettere sulle azioni da intraprendere. Ero eccitata per quella scoperta e mi guardai attorno alla ricerca di altri indizi. Su uno scaffale c’erano dei raccoglitori contenenti dischi registrati, controllai accuratamente il loro contenuto, indicato su ogni etichetta. Per lo più si trattava di argomenti di lavoro e li riposi delusa. Poi mi colpì la busta bianca chiusa con un nastro adesivo, piegata in due e al tatto, sentii che all’interno c’era un disco. Sopra, scritta a matita, c’era un’iniziale: “W”. Aprii la busta con attenzione, inserii il disco ed entrai nel file che mi riguardava.
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Si trattava di una lettera, una specie di contratto, ed era indirizzato a Franco Casati. Mentre ne scorrevo avidamente il testo, un sudore freddo iniziò a imperlarmi la fronte. Con una forma legale che rasentava il ricatto, Luciano conferiva a Franco un terribile incarico. Doveva creare contro di me delle prove, gravi a tal punto da consentirgli di poter chiedere il divorzio per colpa. I mezzi che avrebbe usato non lo interessavano e non voleva conoscerli: tutti erano leciti. Gli concedeva sei mesi di tempo, durante i quali gli avrebbe versato, ogni mese, la somma di cinquemila Euro, un rimborso per le spese che avrebbe sostenuto, oltre all’uso di un appartamento al piano attico in uno dei suoi residence. Ma allo scadere dei sei mesi, la cuccagna sarebbe finita: (erano parole sue) a quel punto avrebbe dovuto consegnargli i risultati del suo lavoro. In caso contrario, lui avrebbe fatto pervenire alla polizia i documenti, che Franco ben conosceva, contenenti le prove che lo avrebbero accusato di omicidio. E non era il caso di entrare nei particolari: sapevano entrambi di che si trattava. Stampai quel contratto, feci una copia del disco e rimisi l’originale dove l’avevo trovato, sigillandolo con un nuovo nastro adesivo. Spensi l’elaboratore, ma ero gravata da un senso di inquietudine. Sicuramente Luciano avrebbe scoperto che qualcuno era entrato nei suoi file e avevo paura. A quel punto, l’euforia si spense, mi sentii sola e senza sapere che fare. Avevo appena scoperto che entrambi gli uomini, che nella mia vita avevano un ruolo importante, erano alleati contro di me ed erano privi di scrupoli. La data stampata sul contratto, m’informava inoltre che il termine stava per scadere. Mi restavano ancora dieci giorni di tempo, poi qualcosa sarebbe accaduto. Qualcosa di spiacevole. Mi serviva aiuto e in quel momento mi resi conto della solitudine in cui vivevo. La vita sociale che conducevo era solo apparenza, in realtà ero circondata soltanto da conoscenti, non esisteva nessun amico a cui potessi rivolgermi. E allora, mio malgrado, l’unica persona che mi venne alla mente fu mia madre.
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Mi riusciva incredibile accettare quella verità, considerando il rapporto conflittuale che esisteva fra noi. Possibile che fosse l’unico essere umano su cui potessi contare? Linda era una donna inquieta e bizzarra, lo era sempre stata. Eternamente alla ricerca di qualcosa che appagasse il suo ego, ma che pareva non esistere. Nei suoi confronti, covavo da anni una specie di sordo rancore, causato dall’amore che mio padre mi aveva sottratto per donarlo a lei, che non lo meritava e aveva saputo regalargli soltanto anni difficili, che probabilmente, gli avevano accorciato la vita. Papà l’aveva amata troppo e immeritatamente, ed era stato corrisposto da lei soltanto in minima parte. Povero papà. Era morto d’infarto dopo una loro ennesima lite e in seguito lei se n’era andata di casa lasciandomi sola e senza guida. Ero ancora adolescente, non ero mai riuscita a comprendere il loro rapporto tormentato e difficile, costellato da liti violente e sempre più frequenti, che mi avevano fatto desiderare di andarmene lontano. Non volevo più sentire l’eco delle loro urla, che mi facevano soffrire e temere per la loro incolumità. Forse, il mio sogno di diventare una famosa top model, che papà non aveva mai approvato, derivava da una profonda infelicità. Dopo la sua morte, mamma mi aveva lasciata libera di decidere della mia vita, e non lo aveva certo fatto per generosità, ma per essere lei stessa libera di vivere la sua. Ma non mi risultava che fosse mai riuscita a essere felice. Col passare degli anni i nostri rapporti non si erano rafforzati, tutt’altro. Erano rimasti freddi e privi di spontaneità, come se un invisibile muro ci dividesse. Nessuna di noi due aveva mai cercato di abbatterlo. Quel muro, rappresentava per me il ricordo di papà e forse anche per lei. Ma davamo ai nostri ricordi interpretazioni diverse. Tuttavia, nonostante i conflitti che ci dividevano, fu lei la persona cui pensai, l’unico riferimento che possedevo, quello che mi era sempre mancato, per quando debole fosse. Sapevo che avrebbe risposto alla mia richiesta di aiuto.
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Linda pensava spesso a sua figlia. Il passare del tempo aveva addolcito il suo carattere, l’aveva resa più sentimentale e spesso, si rammaricava per non essere riuscita a stabilire un rapporto affettivo con lei e che ora le mancava. Il loro era stato così difficile e spigoloso. Era stata solo colpa sua? Non voleva addebitarsi tutte le responsabilità, in vita sua aveva sempre cercato di scaricarsele dalla coscienza, creandosi alibi e giustificazioni. Forse, diceva a se stessa, se una colpa esisteva, andava ricercata nelle loro personalità così diverse e contrastanti. Ma continuavano a tormentarla ricordi lontani, e i rimorsi e i sensi di colpa assumevano sempre più spazio. Spesso si faceva carico dell’incapacità di non trovare la forza di fare il primo passo. Ripensando alla sua vita passata, riusciva a trovare alibi e giustificazioni sufficientemente reali a spiegare, almeno in parte, la sua condotta. Aveva partorito Wanda in giovanissima età, appena diciottenne e aveva un vivido ricordo delle sue inquietudini di allora. Era quel periodo in cui le attese sono di gran lunga superiori alle offerte della vita, che con lei, in realtà, non era stata molto generosa. Un matrimonio affrettato con un uomo che l’amava in maniera assolutamente possessiva e una gravidanza troppo precoce. E così, lo scontro violento con la realtà, le aveva annullato la gioia di essere madre, e la sua esuberanza giovanile, gliela aveva fatta vivere come una punizione. Aveva amato Giorgio, ma non la sua gelosia, né il suo attaccamento morboso. Linda aveva bisogno di libertà, non sopportava catene che la imprigionassero e nessun padrone che la dominasse. Durante la sua giovinezza, non era mai riuscita a frenare l’indocilità del suo carattere. Ma dopo la morte prematura di Giorgio, della sua ritrovata libertà non aveva saputo che farsene. Si era sentita improvvisamente sola, un cane senza padrone, con una figlia che aveva scelto, come lei, la sua indipendenza. E ora si portava appresso le responsabilità dei suoi fallimenti, sia nel suo ruolo di moglie, che in quello di madre. E più volte si chiedeva: se avesse avuto l’iniziativa di parlare con Wanda, sarebbe riuscita a stabilire con lei un contatto?
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Non era riuscita a comprendere perché avesse sposato un uomo tanto più anziano di lei. Forse era il bisogno di un padre, che credeva di avere trovato in lui, o più materialmente, era stata una scelta fatta al solo scopo di vivere agiatamente. Linda non aveva mai privilegiato il denaro nelle sue scelte di vita, e non era riuscita ad approvare la decisione di sua figlia. Le era rimasta dentro come una spina nel cuore, che acuiva il lacerante senso d’impotenza di non aver fatto abbastanza per impedirla. Oscuramente, era convinta che, prima o poi, Wanda avrebbe pagato quella decisione con l’infelicità. E così, quando quella mattina se la vide comparire davanti, ammantata da un’evidente inquietudine, gli occhi cerchiati da un alone scuro per la notte insonne, il suo primo pensiero fu che non gliela facesse più. Le raccontò invece una storia strana, quasi inverosimile, quel tipo d’avventure che accadono nei serial televisivi americani che, a volte, anche lei guardava per combattere la solitudine. Alla fine di quello sfogo delirante, Linda la fissò con espressione dubbiosa e le chiese: “Ma, sei sicura che ciò che mi hai raccontato sia tutto vero?” “Sì mamma, è la pura verità.” la voce di Wanda era ferma e decisa, “Ho bisogno del tuo aiuto. Devo uscire da quest’incubo, ma senza rimetterci. Se lui vuole riprendersi la sua libertà, deve pagarla.” Certo, il denaro non gli mancava, pensò Linda, ma… “Mi hanno usata tutti e due, capisci?” Aggiunse Wanda per rendere convincente la sua richiesta di aiuto. “Sì… capisco.” Linda stringeva gli occhi riflettendo per farsi un quadro della situazione. Un uomo ricco e potente da una parte, abituato a comprare tutto col suo denaro. Un giovane avventuriero dall’altra, in vendita al miglior offerente e con un passato da nascondere. E Wanda nel mezzo, con la sua impulsività e con le sue colpe evidenti. Le sembrava tutto chiaro: non esistevano innocenti, ma solo gradi diversi di colpa. Poi, c’era la sua improvvisa chiamata in scena e si domandava: perché Wanda si era rivolta a lei? Cosa si aspettava che facesse? Ma, come sempre, mancava il tempo per trovare le risposte. Forse in seguito, ma sarebbero servite? Ora era il momento di agire.
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“Cosa vuoi che faccia?” Rispose nell’unico modo che le sembrò possibile. Voleva aiutare sua figlia. “Grazie mamma.” disse Wanda. “Voglio avere la mia parte di soldi. Ne ho diritto.” Linda tacque. La situazione le sfuggiva: si chiedeva come ottenere quello che Wanda chiamava “un diritto”. Ma era pur sempre un’occasione che sua figlia le offriva per riavvicinarsi a lei e doveva afferrarla al volo. Era un modo che le si presentava per abbattere il muro che le divideva. Da quando era rimasta sola, la sua vita era priva di scopi e per lei, il trascorrere del tempo non era che un lento susseguirsi di giornate senza domani.
Bene, mamma mi dava il suo appoggio e, cosa strana, non pretendeva di elargirmi consigli. Ma non ero ancora disposta a rivelarle il piano che la mia mente aveva elaborato: forse lo avrei fatto in seguito, forse mai. Avevo riflettuto e preso la mia decisione e, per mettere in pratica la prima parte del mio piano, dovevo ritornare alla villa. Per la seconda volta, nello stesso giorno, penetrai nei file segreti di Luciano, ma non lo feci solo per guardare. La banca aveva sede in un’isola delle Bermuda, uno dei cosiddetti paradisi fiscali. Riuscii a visualizzare la lista movimenti dell’ultimo mese e sobbalzai per la sorpresa: il saldo attivo, in dollari americani, ammontava a circa sei milioni di Euro! Se avessi trasferito l’intera somma sul mio conto privato e l’avessi subito prelevata, Luciano non avrebbe avuto il tempo materiale per fermarmi. E non poteva certo denunciarmi, perché quei soldi non esistevano. Lo avrei battuto sul tempo. Quel mio conto bancario, che da tempo giaceva inutilizzato e dimenticato, mi tornava ora improvvisamente utile. Lo avevo aperto anni addietro su consiglio del commercialista che gestiva il mio patrimonio, quando ancora svolgevo la mia attività di modella e vi versavo parte delle mie entrate. “Risparmierai sulle tasse.” Mi aveva detto. Certo, io non avrei mai avuto una simile iniziativa, ma lui, il mio consulente di allora, aveva quella
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che si può definire una visione più ampia della mia. Beh, ora gli ero molto riconoscente. Non persi altro tempo a riflettere, ritenevo di averlo fatto abbastanza. Digitai l’ordine di trasferimento per cinque milioni e mezzo di Euro. Aveva inizio la danza e provai una strana eccitazione. Raggiunsi mia madre, nel suo piccolo appartamento al mare, che distava circa un’ora d’automobile dalla villa. Avevamo deciso insieme di lasciare la sua casa di Roma, dove Luciano mi avrebbe facilmente rintracciata. Era nostra intenzione trascorrere la notte lì, al mare, forse, sarebbe stata l’ultima che avrei passato in Italia. Dovevamo organizzarci e preparare la seconda parte del piano. La mia fuga. Non immaginavo che avrei trovato in mamma una collaborazione così costruttiva. Le scoprivo doti sconosciute. Era disponibile, intuitiva, intelligente e possedeva, inoltre, quel pizzico di trasgressione che, forse, io avevo ereditato da lei. Non certo da papà, sempre ligio e rispettoso delle leggi e delle sue regole, anche quelle più assurde e inaccettabili. No, lei non era così, forse da questo avevano avuto origine le frequenti discussioni che erano state il filo conduttore della loro vita. La sua alleanza si rivelò molto utile, perché ne ricavai sicurezza e fui felice per aver messo da parte, almeno momentaneamente, i rancori, e di avere trovato il coraggio di rivolgermi a lei. Ma la nuova situazione non mutava i miei sentimenti. Continuavo a non giustificare le sue colpe, ed erano proprio le sorprendenti doti scoperte in lei a farmi notare di più la sua antica assenza, durante gli anni in cui avevo avuto più bisogno del suo aiuto. Quelli che avevano segnato la mia esistenza. Mi svegliai presto quella mattina e non fu il sole che filtrava dalle persiane socchiuse a destarmi dal mio sonno agitato. Avevo messo in pratica una parte del mio piano, ora dovevo portarlo a termine. Senza commettere errori. “Sei sicura che lui non sappia nulla di quel tuo conto in Svizzera?” Il tono di voce di Linda era basso e vibrante e non c’era alcun timore nel suo sguardo. Intuivo che l’idea di deviare dalla normalità della sua vita
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l’affascinava ed era pronta a mettere in gioco se stessa: ne valeva la pena, se ciò le avesse fatto riconquistare il suo ruolo di madre. “No, non sono sicura di nulla. Luciano è un uomo pericoloso. Ma devo tentare. Ho trasferito su quel conto un milione di Euro, e cinquecentomila sono per te.” Mentivo, volevo il suo aiuto ed ero pronta a pagarlo, ma non volevo certo dividere tutto. E soprattutto, non volevo spartire con lei la mia vita. “Del denaro non m’importa nulla, lo sai. Non è mai stato importante per me.” Era la verità e lo sapevo. La sua vita era stata dominata dalle passioni. La guardai a lungo negli occhi e lei sostenne il mio sguardo. Eravamo in piedi, una di fronte all’altra e ci confrontavamo: la mia aggressività, esaltata dall’ansia di vivere della mia giovinezza, e la sua nuova maturità, così in contrasto con i miei ricordi di un tempo. Eravamo animate da sentimenti diversi. Notai i suoi capelli scuri, tra i quali comparivano i primi fili grigi ad attutire l’intensità dell’antico colore. Anche il suo sguardo aveva perduto l’irrequietezza che ricordavo: c’era malinconia nei suoi grandi occhi verdi da gatta. Ma erano decisi e determinati. “Prenderemo la tua automobile.” dissi, “Luciano non collegherà a te la mia fuga.” “D’accordo.” rispose. “Allora, la prima cosa che devo fare è spedire le videocassette all’albergo di Chiasso. A che ora partiamo?” “Riporto la mia auto alla villa. Poi prendo con me gioielli, passaporto e denaro. Luciano non arriverà prima di stanotte: c’era un altro suo messaggio in segreteria. Tu, raggiungimi là, non più tardi delle dieci.” “E dopo? Quando arriveremo a Chiasso e avremo sbrigato tutte le operazioni alla banca, chiuderai quel conto?” “Sì, preleverò tutto, ti darò la tua parte e lo chiuderò.” “Poi, cosa farai?” La mia risposta non fu quella che lei desiderava, ma, forse, quella che temeva. “Io proseguirò per Bangkok. Tu farai come credi.” dissi con voce neutra. “Ma penso che ti convenga ritornare qui, a Roma, alla tua casa e alla tua vita. Luciano non ti darà noie. Non rientri nella sua lista delle persone sospette.” “Ho capito. Noi ci diremo addio.” Era delusa, ma non obiettò, forse perché un groppo le chiudeva la gola.
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“Fammi almeno avere tue notizie,” disse, “ti prego.” Alle otto e mezza arrivai alla villa. Tutto era come il giorno precedente. Parcheggiai l’auto davanti al cancello, l’avrei messa dopo in garage. E fu un grosso errore non farlo subito. Salii al piano superiore e mi diressi verso il guardaroba per preparare la mia valigia. Mi resi conto troppo tardi del silenzio che regnava all’interno: di solito, a quell’ora, la servitù era attiva, impegnata nelle consuete pulizie. Pagai le mie distrazioni: la canna di un revolver mi premette il fianco. Mi voltai di scatto, tremante. Luciano mi stava fissando, un sorriso ironico sulle labbra, gli occhi freddi come il gelo dell’inverno. Non c’era né amore, né pietà in quello sguardo. Stupida cretina! Se fossi passata prima dal garage, avrei visto l’automobile di Franco. Ma non ebbi il tempo per recriminare, né di assimilare la sua improvvisa apparizione, che quell’altra si materializzò davanti a me. Franco venne avanti, proveniente dallo studio, ma lui non sorrideva. Sul volto portava i segni di un recente pestaggio e immaginai fosse opera del mio dolce consorte. Ma non provai compassione per lui, no di certo. Attesi tremante le loro mosse, ero preparata al peggio. “Fuori le videocassette.” Franco fu il primo a parlare, con tono di voce isterico, tipico di chi ha paura. Non risposi. Anch’io avevo paura. Luciano cominciò a ridere, sembrava invece divertito: “La mia giovane mogliettina, porno star per diletto.” Non rise più, i suoi occhi ritornarono di ghiaccio e mi colpì al volto, con la sinistra. La sua mano era grande e pesante. Sentii le nocche delle sue dita e la pietra dura dell’anello che portava all’anulare mi ferì la guancia. Strinsi i denti, non volevo iniziare subito a piangere. “Devi fare due cose per noi: restituire le videocassette e dare ordine alla tua banca di Chiasso di trasferire i miei soldi sul mio conto. E’ chiaro, puttanella a luci rosse?” “Non ho con me le videocassette e non ricordo il numero del conto.” Era una mezza verità: il numero del conto lo ricordavo bene, ma non avevo con me il resto. “Ecco, hai sentito? Le videocassette esistono, lei me le ha rubate.”
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Franco era sempre più isterico, si agitava come una marionetta senza fili. Come avevo potuto provare attrazione per un simile fantoccio? Sentii il sangue colarmi sulla guancia ferita e, d’istinto, tentai di prendere un fazzoletto dalla borsetta per pulirmi. La mano di Luciano, come una morsa, mi afferrò il polso e non riuscii a frenare un grido di dolore. “Ferma, bambolina. Penso io a leccarti la ferita.” E lo fece. Avvicinò il volto al mio senza abbassare la rivoltella, che continuava a premermi contro il fianco e, artigliandomi il polso con la sinistra, leccò sensualmente il mio volto. Sentii il suo alito che puzzava di alcool e fumo e il ruvido calore della sua lingua. Mi provocò un miscuglio di emozioni che mi sconvolsero: paura, sgomento e la consapevolezza di appartenergli e che in quel momento, lui solo poteva decidere della mia vita. Sentii le ginocchia tremare e piegarsi lentamente. A fatica sottrassi il volto, ma non riuscii a trattenere il pianto. Erano lacrime di rabbia per la mia debolezza e per l’impossibilità di ribellarmi. “Hai ragione a piangere piccola. La bella vita è finita.” In quel momento il mio cellulare squillò. Ci fu un attimo di silenzio, rotto dal ripetersi di quel trillo: i nostri occhi s’incrociarono. “Rispondi!” Detestavo il suo tono imperioso e non mi mossi. “Puttana. Rispondi e non fare errori. Hai una rivoltella puntata contro di te, ricordalo.” Sapevo che non avrebbe sparato, aveva bisogno di me. Solo io potevo dare ordine alla mia banca di trasferire i suoi soldi. Affondai lentamente la mano nella borsetta, senza fretta. Estrassi il mio cellulare e risposi. Sapevo che era mia madre. “Sono Wanda, chi parla?” “Quanto tempo ci hai messo. Io ho fatto tutto e sarò lì tra un quarto d’ora…” “Va bene, d’accordo. Ciao.” Interruppi la comunicazione bruscamente. “Era la mamma,” dissi, “domani mi aspetta a pranzo.” “Adesso basta. Dove sono le videocassette?”
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“Qualcosa non ha funzionato.” pensò Linda, “Il nostro piano frettoloso mostra le sue imperfezioni.” Aveva spedito il plico con le videocassette e aveva telefonato a Wanda, come d’accordo. Ma la brusca interruzione l’aveva allarmata: c’era qualcuno con lei. Accostò l’auto a destra, voleva riflettere. Poi rifece il suo numero. Questa volta le rispose la segreteria telefonica. Wanda era in pericolo, lo sentiva. Che fare? Probabilmente Luciano aveva scoperto tutto e l’aveva aspettata là, alla villa. Si rimise in marcia e premette sull’acceleratore. Doveva fare presto. Con la mano destra, frugò nella borsetta e la sentì: la sua bomboletta salva vita, con lo spray al peperoncino. Non era una grande arma, ma all’occorrenza poteva essere utile. Bastava usarla con prontezza, senza dare tempo all’avversario di reagire. Si augurò con tutte le sue forze che l’erogatore funzionasse, che non facesse cilecca. Arrivò in prossimità della villa in dieci minuti, a quell’ora il traffico era scorrevole e lei, all’occorrenza, era un ottimo pilota. Parcheggiò l’auto a distanza, scese e s’incamminò. La decappottabile di Wanda sostava davanti al cancello. Unica auto in giro. Si avvicinò lentamente, la villa era in aperta campagna, non c’erano altre case intorno e sperò che nessuno la vedesse dalle finestre. Il cancello era chiuso e, naturalmente, non poteva suonare. Camminò fiancheggiando la recinzione, alla ricerca di un punto in cui la siepe fosse meno folta e le consentisse un accesso. La rete metallica non era troppo alta e sarebbe riuscita a scavalcarla. Linda era una donna agile, frequentava regolarmente la palestra, inoltre indossava blue jeans e un paio di scarpe da jogging. Ecco, aveva trovato il passaggio che cercava. Si guardò attorno, salì sul muretto e fece leva sulle braccia: fu con un agile balzo dall’altra parte. I cani si avvicinarono abbaiando ed ebbe un attimo di smarrimento. Ma ricordò i loro nomi e li chiamò. Riconobbero la sua voce, per fortuna, e si acquietarono. Rimase immobile, abbassata nell’erba per un po’, al riparo dei cespugli, fingendo di giocare con loro, poi si avviò verso la zona della cucina. Era andata poche volte a trovare Wanda, ma rammentava che la porta della dispensa restava quasi sempre aperta, per consentire al personale di servizio libero accesso. Anche quel giorno lo era. La casa sembrava vuota, non c’erano i domestici. Linda avanzò lentamente, senza fare rumore.
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Le voci provenivano dall’alto, dal piano superiore: erano voci maschili, rauche e aspre. “Chiama quel cazzo di banca! Se non avrò i miei soldi entro sera, avrai finito di campare. Puoi giurarci.” “E’ quasi svenuta, hai esagerato con gli schiaffi. Non vedi?” “Sta zitto, imbecille. E’ una commediante, non l’hai ancor capito?” Salì le scale silenziosamente, trattenendo il respiro, la sua arma in mano, impugnata con fermezza. Doveva agire di sorpresa. Ma il cuore le batteva all’impazzata e temette che sarebbe esploso, spargendosi per tutto il pianerottolo. Ma non si fermò. Entrò nella stanza all’improvviso, un ingresso teatrale, da prima attrice: “Salve a tutti.” Aveva la voce un po’ stridula, ma loro non se ne accorsero. Furono colti di sorpresa: i due compari e anche Wanda, che non si aspettava l’arrivo dei nostri e non certo rappresentati da sua madre. Luciano fu il primo a riprendersi, dopo i primi attimi di stupore. Si avventò contro di lei imprecando, ma si scontrò con quel getto di spray. Si sprigionò senza fare cilecca dalla piccola bomboletta che Linda teneva tra le mani. Stupido idiota. Gli era sembrato un giocattolo per signora. Una bestemmia rauca gli uscì dalle labbra, si portò le mani agli occhi e si piegò in due, come colpito da una ben più potente arma. Franco intervenne, la rivoltella in pugno e pronto a sparare in direzione della donna. Ma poi, chi era quella, che c’entrava? “Ti ammazzo, brutta troia.” Ma Linda fu più rapida: un altro getto uscì, diretto contro i suoi occhi, centrandoli alla perfezione e fu allora che Franco, istintivamente, premette il dito sul grilletto e partì il colpo. Sparò senza guardare, fu un semplice riflesso condizionato e il proiettile saettò nell’aria sbagliando completamente bersaglio. Andò a conficcarsi nella spalla di Luciano, formando un piccolo forellino rosso, che gli macchiò la camicia candida. Una delle centinaia del suo guardaroba, tutte di seta pura. Stramazzò pesantemente al suolo, finendo sul pianerottolo e creando uno spostamento d’aria che trascinò con sé documenti, una sedia e il telefono. Il revolver stretto in pugno nella destra, mentre con la sinistra continuava a strofinarsi gli occhi. Gli bruciavano maledettamente, più del colpo di rivoltella appena ricevuto.
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Ma la caduta gli fu fatale, perché sbatté con violenza il capo contro la balaustra in ferro del pianerottolo. Si arrestò al suolo, il corpo scomposto, abbandonato. Senza vita. Wanda gridò, fu prontamente accanto a lui, il volto ancora sanguinante per gli schiaffi ricevuti. “Mamma… è morto?” Linda non rispose. Lei non aveva perso il controllo della situazione, anzi, la dominava. Si piegò rapidamente di fianco a Luciano e, con fredda lucidità, gli sfilò la rivoltella dalla mano. Wanda si avvide in quel momento che indossava un paio di guanti bianchi, di pizzo leggero. E la vide, puntare l’arma, appena sfilata dalla mano di Luciano, contro Franco, proprio mentre lui si avvicinava barcollando. “Fermo dove sei.” Wanda la fissò con stupore: non riconosceva la sua voce, così ferma e decisa. Franco continuò ad avanzare sogghignando e strofinandosi gli occhi, ma senza realizzare il pericolo. Lo sparo risuonò forte, rimbombando violentemente nelle orecchie di Wanda, che premette le mani su di esse per non sentirne l’eco. E vide Franco stramazzare al suolo, ma, questa volta, il colpo aveva centrato il bersaglio alla perfezione. Un piccolo foro alla tempia, che non gli aveva dato possibilità di scampo. Morì istantaneamente. Qualche attimo di silenzio, di fronte a uno scenario completamente nuovo e inatteso per lei. “Sono morti tutti e due. E ora, che facciamo?” “Prepariamo la scena per la polizia, poi ce ne andiamo.” “Ma, la polizia scoprirà tutto, mamma, ci arresteranno!” “Che cosa scoprirà? Si sono uccisi a vicenda, non capisci?” “Ma, non è vero, non è andata così. Sei… sei stata tu.” “Sbrigati, aiutami e non stare lì impalata!”
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Era stato solo un incubo, non poteva essere accaduto realmente, mi rifiutavo di crederlo. Sentivo i movimenti di Linda provenire dalla cucina e la sua voce, mentre canticchiava una canzone che andava di moda in quei giorni. Respirai sollevata. Non avrebbe cantato, se quello che ricordavo era accaduto realmente. Grazie al cielo, era stato solo un brutto incubo. Mi sedetti sul letto e mi stropicciai gli occhi. La luce del sole gettava riverberi sul pavimento della stanza: era giorno inoltrato. Poi, la porta si aprì e lei entrò. E il suo sguardo mi riportò bruscamente alla concretezza dei fatti. I suoi occhi riflettevano la verità. “Buongiorno cara.” disse con un sorriso, “Sono già le dieci, hai dormito come un sasso. Come stai?” “Che è successo ieri?” “Tutto, ma è finita piccola.”rispose, “Quei due figli di puttana hanno pagato per le loro colpe. Tu sei una donna libera e ricca. Sei l’erede legittima di Luciano, i soldi di Chiasso sono soltanto briciole. Ho sentito le notizie al telegiornale. Hanno scoperto i due cadaveri: devi andare alla polizia.” “Ho paura! Non posso andare.” Dissi col pianto nella voce. “No, non devi temere nulla. Ho pensato a tutto io.” “Ma… ci saranno delle prove, e la polizia le scoprirà.” “No. Ieri tu sei stata qui con me, nella mia casa al mare.” disse, “Hai appreso la notizia dal telegiornale questa mattina. Io lo testimonierò. Abbiamo ripulito tutto alla villa, o meglio: io l’ho fatto. Non ci sono tracce del tuo passaggio in quella stanza, credimi. Hai riportato qui la tua auto e… sei ricca cara. Ricca e libera.” Mi alzai, sentivo le gambe molli, mi sorprendeva avere dormito tanto. “Ti ho dato un sonnifero ieri sera. E’ stata una giornata troppo dura per te.” Mi diressi barcollando verso la cucina, avevo bisogno di una tazza di caffè forte. Il piccolo appartamento era inondato dal sole, dalla finestra si vedeva in lontananza la tenue striscia azzurra del mare. Aveva lo stesso colore del cielo e si confondeva con esso. Mi sentivo bene lì, ero al sicuro e non avrei voluto abbandonare quel rifugio.
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Ma per quanto tempo sarei riuscita a sfuggire la realtà? Inevitabilmente avrei dovuto affrontarla. Linda aveva ragione. La mia coscienza era pulita, tutto era avvenuto senza premeditazione, non eravamo colpevoli. Ma nessuno ci avrebbe creduto. Per questo dovevamo mentire. Non provavo sensi di colpa, né dolore: ero stata testimone della morte dei due uomini della mia vita, ma non c’erano lacrime nei miei occhi per loro. In fondo, avevano avuto quel che meritavano. Ma forse, mi sentivo in pace con me stessa, perché non ero stata io l’esecutrice materiale. Era stata lei. Finalmente, per la prima volta in vita sua, aveva fatto qualcosa anche per me. In piedi, accanto alla finestra, riflettevo su come si erano svolti i fatti, li rigiravo nella mia mente, e li trasformavo a modo mio. Linda aveva intuito che c’era qualcuno con me ed era arrivata alla villa, pronta a intervenire in mio aiuto. Ma io non glielo avevo chiesto. Io non ero in pericolo di vita. In fondo, Luciano non era un assassino, lui rivoleva indietro il suo denaro e dopo, liberarsi di me legalmente. Dunque, lei aveva ucciso di sua iniziativa. Perché? Era chiaro: voleva una parte di quei soldi. Tanto per intenderci, oltre ai cinquecentomila Euro che le avevo promesso, voleva una parte dell’eredità. Si, era andata così, me ne stavo convincendo. Lei aveva ucciso intenzionalmente e questo spiegava il perché della sua fredda lucidità. E allora, dicevo a me stessa, perché avrei dovuto essere sua alleata in un delitto che io non avevo voluto? Era questo il modo in cui mamma voleva instaurare quel rapporto affettuoso che, tra noi, non c’era mai stato? No, non credevo nel risveglio del suo istinto materno. Aveva avuto tutto il tempo, in passato per occuparsi di me, ma era sempre stata troppo presa da se stessa e dall’arte crudele di tormentare papà, con i suoi capricci, le sue pretestuose esigenze, impedendogli di amarmi. Finché lui, aveva rinunciato a vivere. Non le perdonavo le sue colpe e non credevo nella sua nuova generosità. Dunque, era giusto che pagasse. Mi accompagnò al Commissariato di Polizia e mentre guidava l’automobile parlava, parlava continuamente. Per infondermi coraggio e, forse, per infonderlo a se stessa.
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“Non preoccuparti cara. Tu eri con me, abbiamo passato la giornata e la notte insieme, nella mia casa al mare. Luciano era fuori Roma per lavoro. A prova di ciò, ci sono ancora i suoi messaggi registrati nella segreteria telefonica. Tu sei venuta da me, perché non volevi restare sola, è naturale. Stai tranquilla.” Non le rispondevo. Me ne stavo in silenzio a occhi chiusi e pensavo ai cinque milioni e mezzo di Euro sul mio conto di Chiasso. Avevo fatto bene a non parlargliene. Che m’importava dell’eredità? Un’azienda da mandare avanti, intrallazzi politici che Luciano aveva lasciato in sospeso e che, forse, avrei dovuto gestire io, un odioso gruppo di persone da frequentare, con quelle maledette pubbliche relazioni che detestavo. Infine… c’era lei, mia madre. Una donna che tentava disperatamente di riabilitarsi ai miei occhi, che voleva conquistarsi il mio affetto. Non le era mai importato nulla di me. Ora, che sentiva l’odore dei soldi, improvvisamente si accorgeva di avere una figlia e la pretendeva, come fosse un giocattolo. No, dovevo uscire da questa trappola e c’era una sola possibilità. “Siamo arrivate.” disse fermando l’auto. “Bene, si è liberato un posto comodo, io sono sempre fortunata coi parcheggi. Andiamo cara.” Scesi dall’auto e la seguii, sempre in silenzio. “Ora comincia la parte più difficile. Mi raccomando, mostrati triste e sofferente: ricorda che tuo marito è appena stato ucciso.” Fui triste, infatti. Piansi calde lacrime e mi fu facile simulare. Mi fu sufficiente guardare Linda negli occhi, leggere in essi sorpresa, sgomento, delusione e infine, vedere svanire ogni speranza. Mi sembrò di assistere allo sfiorire della sua giovinezza, mentre guardavo il suo volto perdere colore e luce e i sogni che avevano riacceso in lei nuove illusioni, morire miseramente, tra bugie e verità. Mi stupì la sua rinuncia a lottare, in lei, che aveva passato la sua intera vita a farlo. Ascoltò in silenzio il mio racconto, lasciandomi libera di dire la verità, quella che l’accusava di avere ucciso, ma non per salvare la mia vita e neppure la sua. Lo aveva fatto per l’eredità, quella che sperava di dividere con me, dopo avermi liberato della presenza di un marito anziano, ingombrante, prepotente e che lei non aveva mai approvato. Raccontai di come avevo tradito Luciano, ma non certo della trappola che lui mi aveva teso.
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“Mio marito aveva scoperto tutto.” Dissi piangendo al commissario che raccoglieva la mia deposizione e, mentre parlavo, Linda taceva e mi guardava con sbalordimento. “Sì,” continuavo imperterrita, “aveva scoperto che lo tradivo con Franco Casati e lo aveva invitato alla villa per parlargli.” Il commissario ascoltava il mio racconto senza interrompermi, e io confermavo di aver trascorso la notte a casa della mamma, al mare, dove intendevo trattenermi alcuni giorni. Poiché mi mancavano alcuni indumenti, quel mattino, ero tornata alla villa insieme alla mamma per prenderli, ma avevamo trovato Luciano e Franco che discutevano animatamente per causa mia. Il nostro arrivo aveva dato impulso alla disputa e i toni erano divenuti minacciosi, erano volati schiaffi, finché a un tratto, erano comparse le armi. A quel punto, mi ero spaventata e avevo tentato la fuga, ma mia madre mi aveva fermata. Poi aveva usato lo spray al peperoncino, con mossa rapida, che aveva colto di sorpresa i due uomini. Ed era partito il colpo che aveva ferito Luciano alla spalla. La sua morte era stata accidentale: cadendo aveva disgraziatamente battuto la testa ed era morto. Continuai tra i singhiozzi, raccontando come mamma avesse poi ucciso Franco, usando la rivoltella di Luciano, per poi rimetterla nella sua mano ancora calda. Quello, non era stato un incidente. Mentre procedevo nel mio racconto, sentivo lo sguardo di Linda su di me e, anziché sfuggirlo, mi voltai verso di lei e lo sostenni, spavaldamente. Chi di noi due era la più forte? Io, che l’accusavo di ciò che aveva commesso con la mia tacita complicità, o lei, che si lasciava accusare senza smentirmi? Mi aspettavo, di momento in momento, che reagisse, che raccontasse della mia operazione bancaria, del mio conto di Chiasso, della mia scoperta dei file segreti di Luciano, insomma, che esponesse l’altra parte della verità. Se lo avesse fatto, tutta la mia messa in scena sarebbe crollata miseramente. Ma non lo fece. Si limitò a guardarmi, in silenzio. Firmai la mia deposizione e, col cuore in gola, ascoltai la sua risposta alla domanda del commissario: “Conferma quanto dichiarato da sua figlia?” “Si, è la verità.”
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Linda è stata condannata a dieci anni di reclusione. Le indagini hanno rivelato che Franco era ricercato per omicidio su commissione, oltre ad altri fatti legati a spaccio di droga, usura e tentata estorsione ai danni di donne sole e ricche. Già, non era propriamente un galantuomo. Chi l’avrebbe mai detto! Così giovane, simpatico e, per di più, anche bello. Luciano ha lasciato un enorme patrimonio, di cui io sono la principale erede, insieme a suo fratello che non avevo avuto opportunità di conoscere e ad alcuni istituti di beneficenza da lui nominati nel testamento. Ma, a prova della mia innocenza, ho rinunciato parzialmente all’eredità, accettando solo la sua villa ai Carabi, dove ho deciso di trasferirmi, e un pacchetto in titoli azionari che dovrebbero darmi una rendita annua di circa cento, centocinquanta mila Euro. Per vivere credo che mi basteranno. In quanto agli extra, posso sempre contare sul mio salvagente di Chiasso. Ho infatti deciso di non chiudere quel conto e di non toccare il suo contenuto, per ora. Ho devoluto una parte considerevole della mia eredità, all’Istituto di Ricerca contro il cancro e, la parte restante, beh… a mia madre. Quando uscirà dal carcere, potrà almeno vivere decorosamente. Prima di partire sono andata a trovarla, dovevo affrontare il suo sguardo. Ho chiesto di avere un colloquio con lei, senza guardie intorno. “Domani parto,” le ho detto fissandola intensamente. “non so quando ci rivedremo.” “Ti auguro ogni bene.” Mi ha risposto senza mutare espressione. I suoi occhi verdi mi osservano cupamente, quasi senza interesse. Non c’è né amore, né odio in essi. “Abbi cura di te.” Ha aggiunto. La sua mancanza di reazioni mi è inaccettabile e non riesco a trattenere la domanda che mi brucia: “Perché non hai detto nulla?” “Cosa c’era da dire?” La sua voce è spenta, forse mi pare di udire una lieve incrinatura. “Sono stata una cattiva madre, tutto qui.” Vorrei risponderle: “Sì, è vero, sei stata una pessima madre, soprattutto assente!”
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Ma taccio, continuo a fissarla, e non posso fare a meno di pensare al bell’esemplare di figlia che io sono. Forse, il prevedibile risultato. Ricordo la sua bellezza, la sua vitalità e la sua inquietudine. E papà che l’adorava, mentre io… io restavo sola. In attesa delle loro attenzioni per me, del loro amore. Mi giungeva solo l’eco delle liti e delle loro tormentose riappacificazioni. E continuavo ad aspettare. Finché un giorno, tutto era finito. D’impulso le sfioro la mano: è fredda e immobile. Poi le sue dita rispondono al mio tocco, una stretta impercettibile, che si rafforza. “Perdonami.” Un lieve sussurro, non so se esce dalle sue labbra o dalle mie. Ma l’ho sentito, ne sono sicura. Qui il sole è meraviglioso, il mare ancor più. Ricomincia una nuova vita per me, ma mi porto appresso un pesante fardello di colpe. Tra una pausa meditativa e un bagno di mare, tra un esame di coscienza e una passeggiata sulla spiaggia, tra una sosta tra passato e presente e una cena al fuoco acceso dei falò con i miei nuovi amici…, la vita continua e io desidero viverla. Scrivo spesso a Linda, le racconto cose che lei non sa, riguardanti la mia vita di ieri e di oggi. Spero che, quando uscirà dal carcere, verrà a vivere con me, a scaldarsi al sole su quest’isola meravigliosa. Le farà bene, dopo tanto buio. Ho conosciuto un uomo: è giovane, bello e simpatico. Si è stabilito qui ed è uno scrittore. Credo di piacergli, come lui mi piace. Per la prima volta provo un sentimento d’amore, che mi entra dentro dolcemente e mi accarezza. Un’emozione nuova, per me. Vorrei raccontargli tutto della mia vita, ma ho paura di perderlo. Non sono certo, quel che si dice, un personaggio esemplare. Chissà, forse un giorno troverò il coraggio di rivelargli la vera me stessa… E lui, beh…, avrà materiale per scrivere un romanzo. Prendo carta e penna: voglio raccontare a Linda di questo incontro, renderla partecipe del mio nuovo sentimento, magari, chiederle consiglio. Ecco, ho finito, piego il foglio, lo introduco nella busta, vi scrivo sopra l’indirizzo e… ripongo il tutto nel cassetto. Insieme alle altre decine e decine di lettere che non le ho mai spedito. E che non le spedirò mai. Resteranno lì, a giacere nel cassetto, come le colpe che mi porto dentro.
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Testa rossa Ho lasciato a Claudia, l’eroina “Testa rossa”, la responsabilità di chiudere la mia serie di racconti. Voglio terminare con un messaggio positivo: non credo, infatti, che Testa rossa preferisca il “noir”, ma il colore dei sogni. Perché saranno proprio loro a restituirle l’amore di Alex.
“A cosa stai pensando?” “A nulla.” Mi resi conto che la mia risposta era stata troppo rapida, mi affrettai allora ad aggiungere con un sorriso: “Scusa, ma sto per crollare addormentata.” “Si pensa sempre a qualcosa,” Alex continuò con tono cauto, “magari a una sciocchezza qualsiasi.” Mentre parlava, mi fissava perplesso, come se volesse frugarmi dentro. Chiusi gli occhi per mettere meglio a fuoco i miei pensieri e alcune parole mi tornarono alla mente con insistenza: “la vecchia Loly, el Pozo, il pirata… “ Riaffiorarono i ricordi, piccoli frammenti di sogno si ricongiunsero, riempirono spazi vuoti, li colorarono e col colore si riaccesero luci dove prima c’erano soltanto ombre. Riaprii gli occhi e guardai Alex cercando di trasmettergli quella quiete che io stessa andavo cercando. “E’ bello essere ancora insieme.” Lo pensavo con tutto il cuore e mi accostai a lui fino a sfiorare il suo volto, mentre accomodavo il capo sul suo stesso cuscino. Sentivo il suo respiro, ascoltavo il battito del suo cuore e al suo ritmo regolare mi abbandonai e lasciai che i ricordi di quell’ultimo, strano periodo, prendessero corpo e rientrassero a far parte di me. Nonostante la loro incoerenza. Mi appartenevano, volevo mantenerli vivi nella mia mente per sempre.
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Fu la bizzarra decisione che presi quel mattino esplosa all’improvviso solo apparentemente, a dare una svolta alla mia esistenza tranquilla e normale. Sugli ultimi due aggettivi, forse potrei dissertare, considerando che, tra gli sbalzi di umore che avevano caratterizzato il mio comportamento negli ultimi tempi, e le inutili quanto sterili discussioni che ne erano state la conseguenza, di tranquillo e normale restava ben poco. Neppure i ricordi dei momenti felici mi davano conforto, al contrario. La mia fervida fantasia li paragonava ormai a piccoli frammenti vaganti nello spazio, non più parte integrante del sogno che avevamo realizzato insieme e che ora ci impegnavamo ostinatamente a distruggere. Sicuramente la mia amica psicologa avrebbe saputo illustrare meglio l’origine della mia inquietudine, descrivendo le motivazioni dei miei conflitti interiori: chi meglio di lei poteva farlo? Negli ultimi tempi avevo infatti trascorso un lungo periodo in terapia presso il suo studio, aprendo a lei cuore e mente, nella segreta speranza di ottenere in cambio un valido aiuto nella soluzione dei miei problemi. Ma avevo disertato le periodiche sedute sulla sua comoda poltrona, stanca di versarle regolari quote mensili senza ottenere in cambio i risultati sperati. Infatti, io ero sempre più inquieta e Alex sempre più egocentrico. L’unica a trarne profitto sembrava essere lei: tanto è vero, che utilizzando i miei guai come argomento di studio, era in procinto di organizzare sedute di gruppo al fine di dimostrare che la situazione creatasi tra me e Alex, era condivisibile con quella di tante altre coppie. Beh, non mi ero rivolta a lei per agevolarla nei suoi esperimenti, ma per essere aiutata a risolvere i miei problemi. Ero profondamente delusa, avevo speso tempo e denaro inutilmente, anzi, la situazione si era ulteriormente aggravata, al punto che bastò una scintilla a incendiare il mio animo, che in realtà, non attendeva altro. Quella scintilla mi si presentò, guarda caso, sotto le spoglie di una donna bellissima di nome Ingrid. A questo punto, devo fare qualche passo indietro e riandare a quella fatidica sera, quando fummo invitati da un collega di lavoro di Alex a una cena espressamente organizzata per presentarci la nuova compagna della sua vita, sposata recentemente dopo un doloroso, quanto difficile divorzio. Avevo incontrato Victor soltanto una volta, dopo il suo trasferimento in Italia dagli Stati Uniti, avvenuto da circa un anno; ero a conoscenza dei
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suoi problemi coniugali, anche se Alex non mi aveva informata sui particolari, ma non avevo avuto occasione di conoscere la sua ex moglie. In effetti, non ero molto incuriosita al riguardo e non mi ero curata di far domande; solo in seguito mio marito mi aveva raccontato qualcosa al riguardo, accennando brevemente al fatto che la moglie lo trascurava e che lui, essendo un uomo timido e sensibile, soffriva terribilmente di solitudine. In seguito, aveva avuto occasione di conoscere un’altra donna, e aveva trovato in lei la comprensione e l’affetto che la sua compagna non gli aveva saputo dare. La solita storia, avevo pensato con una punta di sarcasmo. Era poi sopraggiunto il divorzio, sanando così tutte le loro incomprensioni. Questo, era quanto mi era stato raccontato da Alex, e io ne avevo preso semplicemente atto. Così, quando quella sera fummo invitati a cena, avevo accettato serenamente. Ricordavo vagamente Victor: era un uomo maturo, con incipiente pancetta e, a quanto avevo appreso da Alex, desideroso di avere al suo fianco una compagna dolce e comprensiva. Dunque, mi aspettavo di fare la conoscenza di una donna con queste caratteristiche, ovvero il tipo di persona che io ritenevo adatta a lui. Non avrei mai pensato che Ingrid, così si chiamava la sua nuova compagna, potesse rappresentare il suo ideale. Oh, non che avessi obiezioni da fare al riguardo, tutt’altro. Era bellissima, intelligente, giovane, e… affascinante. Ma c’era un’altra cosa che non avrei mai potuto immaginare e cioè, che la sua attraente presenza, avrebbe influenzato l’atmosfera di quella serata, al punto da trasformarla in un’infernale tortura per me, con conseguenze catastrofiche sull’equilibrio già precario della mia vita coniugale. Mi resi immediatamente conto, dopo i primi convenevoli, dei poteri di seduzione di Ingrid e, soprattutto, del suo piacere nell’esercitarli. Era sicuramente molto bella, ma il fascino che emanava, non dipendeva solo dalla sua bellezza. C’era in lei qualcosa di speciale, oserei dire che sprigionasse un fluido diabolico, che lo spargesse attorno e che poi si riproducesse subdolamente in chi le stava accanto e che lei sceglieva. Una specie di virus, insomma. Mentre la guardavo e l’ascoltavo, mi pareva di assistere a una recita di cui lei era regina incontrastata, portatrice sana della sua infezione virale, alla costante ricerca di nuove vittime. E mi chiedevo, sempre più assilla-
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ta dall’ansia: Alex ne sarebbe stato immune? Era vaccinato contro quel tipo di virus? Mi ero più volte domandata perché esistessero simili creature, prevalentemente di sesso femminile, possedute dall’eterno bisogno di veder confermato il loro fascino, anche quando, come nel caso attuale, non ne avevano alcuna necessità. Beh, lo ammetto: non ero mai riuscita a darmi risposte convincenti e non mi sforzai neppure quella sera. Probabilmente neppure la mia protezione immunologica era nelle migliori condizioni e il risultato fu palese: nel breve spazio di due ore o poco più, il virus malefico di Ingrid fece i suoi danni anche su di me, riuscendo a dare il colpo di grazia ai miei già difficili rapporti con Alex, e vi assicuro che il suo aiuto non era necessario. “Sei una donna fortunata.” La sua voce musicale si spandeva nell’aria, ma il suo sguardo non era per me, pur se la frase mi era rivolta. Lei guardava Alex. I suoi occhi scorrevano languidamente su di lui, accarezzandolo, come se io non esistessi. “Hai un marito molto interessante. Desideravo conoscerlo: Victor mi ha parlato spesso di lui, con grande stima.” Poi, cambiando tono: “E tu che fai, a cosa dedichi il tuo tempo?” La sua domanda era formulata senza alcun interesse, gettata lì, come l’osso per il cane. Che capacità di trasformazione. Era forse la mia fantasia a notare quel cambiamento di tono? Beh, aveva sicuramente intuito a cosa mi dedicavo e sapeva già quale sarebbe stata la mia risposta: “Mi occupo della casa.” Forse avrei dovuto aggiungere la ciliegina: “nel tempo libero lavoro all’uncinetto, o ricamo”. Dio del cielo, voleva questo da me? Non le bastavano i favori di cui madre natura l’aveva dotata, voleva schiacciarmi anche nel mio ruolo di moglie? Fui presa dallo sconforto e, al tempo stesso, dall’irrefrenabile desiderio di risponderle con una parolaccia. Ma all’improvviso uno spirito bizzarro mi attraversò la mente. “Mi occupo dello studio dei caratteri,” era una grossa idiozia, me ne rendevo conto, ma malgrado ciò, proseguii, “in poche parole, m’interessa il lato oscuro delle persone.” Non contenta, aggiunsi, impantanandomi sempre più: “Lei non può immaginare quante ambiguità si nascondano dietro una facciata apparentemente perfetta. Ad esempio, dietro il fascino di una bella donna. Ma lei lo saprà sicuramente meglio di me.”
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Perché mai insistevo, cacciandomi in un simile ginepraio? Un calcio di Alex mi raggiunse con violenza la gamba destra, ma stoicamente non reagii e lo guardai invece con un sorriso esagerato. “Mia moglie ha molta fant…” Fortunatamente, in quel preciso istante il cameriere si avvicinò al nostro tavolo per le consumazioni, e Alex non riuscì a terminare la sua frase. Ne approfittai e, sempre sorridendogli esageratamente, risposi al suo calcio con uno ben assestato. Lui fu meno stoico di me e non riuscì a trattenere un gemito, che mascherò con un colpo di tosse. Da quel momento riacquistai il mio equilibrio e trascorsi il resto della serata mordendomi la lingua, tanto che, quando Ingrid riprese l’argomento interrotto relativo al mio tempo libero, finsi di non capire e risposi con tono frivolo:“il clima è veramente gradevole in questa stagione.” Poi, mi limitai soltanto ad ascoltare e a osservare. E ne notai di occhiate e di frasi allusive! Fui più volte solidale con Victor che, al pari di me, sembrava non apprezzare le piacevolezze della serata. Certo, pensai, non aveva una gran fortuna con le donne. La sua ex moglie lo trascurava e questa giovane bellezza sembrava seguirne le orme, curandosi più di se stessa e delle sue armi seduttive, che di lui. Alex e Ingrid, erano invece perfettamente a loro agio. Lui sorrideva sornione, si abbandonava al tenero vezzeggiamento di cui era oggetto, continuando a sprizzar fascino e simpatia da ogni poro. Mi fece una terribile rabbia constatare che il suo sfoggio esibizionistico era rivolto a un’altra donna e non a me. “Vediamoci presto.” Grazie al cielo eravamo giunti ai saluti. Lei, mi porse la mano morbida e affusolata e, sfoderando un radioso sorriso, aggiunse rivolgendosi ad Alex: “Perché non passi a trovarmi nel mio studio? Ho dei bozzetti molto interessanti da mostrarti. Mi farebbe piacere avere una tua opinione.” L’avrei uccisa, ma feci uno sforzo e sorrisi. Sfilai rapidamente la mia mano dalla sua: m’infastidiva terribilmente il suo contatto. La porsi a suo marito. “Ciao Victor, a presto.” Poi, smisi di mordermi la lingua e aggiunsi con complicità, simulando una metaforica strizzata d’occhio: “E… buona fortuna.” Quell’augurio mi sfuggì: in effetti, pensavo che ne avesse bisogno quasi quanto ne avevo io. Vidi una strana luce brillare negli occhi di Victor e
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un’espressione seccata in quelli di Alex, ma da quel preciso istante non mi importò più di nulla. Ero infuriata come una belva, mi ero sentita a disagio per tutta la serata, quasi in colpa per avere superato, da poco, i quaranta anni e per la mia bellezza discreta, non certo confrontabile a quella folgorante di Ingrid. Dovevo in qualche modo sfogare tutta la rabbia repressa durante quelle due o tre ore di tortura, o sarei scoppiata. “Questa sera hai dato i numeri. Cosa c’è, hai la luna storta?” Mi aspettavo da parte di Alex una reazione del genere, era il minimo che potevo attendermi da lui. Ma m’irritò lo stesso e feci spallucce. “Non so che cosa ti passi per la testa,” sembrava non capire, o più probabilmente, fingeva, “Victor e Ingrid sono una coppia splendida. Sono felice per lui, se lo merita, dopo quel che gli ha fatto passare la moglie.” “Già,” risposi laconicamente trattenendo, senza successo, il sarcasmo, “è la donna ideale per un uomo della sua età.” “Cosa intendi dire?” “Nulla, solo che una donna bella e giovane può sollevare il morale di qualunque uomo. Figuriamoci poi, di uno come Victor che non è certo più un ragazzino.” Poi, la mia lingua non riuscì a trattenersi: “Immagino che solleverebbe anche il tuo.” Certo, avrei potuto evitare quella frase, ma anche lui avrebbe potuto fare a meno di darmi quella risposta. “Già. Ma Victor è stato piantato dalla moglie, io no.” “Che fortuna ha avuto!” Non riuscii a trattenermi e mi voltai verso di lui con la mano destra alzata, pronta a schiaffeggiarlo. Non lo avevo mai fatto prima e non riuscii neppure quella sera, perché Alex mi prese il braccio immobilizzandomi. Ma non riuscì a frenare l’ira che avevo trattenuto per ore dentro di me. “Vuoi avere anche tu la fortuna di Victor?” Gli sibilai quella domanda tra i denti, schiumando rabbia da tutti i pori, ma non rimasi ad attendere la sua risposta. Mi divincolai da lui, raggiunsi la stanza degli ospiti e chiusi la porta alle mie spalle con un giro di chiave. Fu da quella notte che iniziammo a dormire in camere separate, e lo decisi io quella sera stessa. La mia impulsività mi causò terribili ansie notturne, che, se non altro, impedendomi il sonno, mi diedero l’opportunità di riflettere: ma non ottenni risultati costruttivi. Gli antichi rancori ebbero la meglio, facendomi ingigantire anche i più piccoli dissapori e tra-
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sformarli in irrisolvibili problemi. Finché, dopo vari ripensamenti, giunsi alla drastica decisione di porre Alex di fronte a un cambiamento radicale, presentandogli tutte le mie rivendicazioni. E così, quella mattina, come ho scritto nella prima parte del racconto, seguii l’impulso ribelle che mi animava e agii di testa mia e, buffo a dirsi, incominciai proprio da lì: dalla testa, intendo. Avevo i capelli lunghi da molti anni e la mia parrucchiera li curava quasi affettuosamente, arricchendoli con colpi di sole per dare più luce al loro colore biondo scuro. Il risultato, considerando la loro fragilità, era abbastanza apprezzabile. Li portavo raccolti in uno chignon morbido, lasciando alcune ciocche libere per dare la sensazione di una naturale spettinatura e, lo ammetto, anche per un’innata forma di civetteria femminile. Non amavo seguire le mode del momento e, del resto, ad Alex piacevo così. Almeno, era ciò che, tempo fa, lui stesso affermava. “Paola, tagliami i capelli a spazzola e tingili di un bel colore rosso vivo.” “Ma, sei proprio sicura? Ci hai pensato bene?” “Sì. Questa mattina ho deciso di cambiare completamente stile.” Uscii dalla bottega molto più leggera, i miei capelli biondi erano rimasti là, e mi si era stretto il cuore nel vederli così, ammucchiati sul pavimento e privi di vita. Mi ricollegavano alla mia immagine di un tempo, a quella che ero stata e che ora mi lasciavo alle spalle con il preciso scopo di costruirmi addosso un nuovo modo di essere e di apparire. A partire da questo momento avrei gestito la mia vita seguendo le mie aspirazioni e imparando a valorizzare le mie effettive potenzialità. Per non so quale alchimia mentale, ero convinta che la mia parte capelluta rappresentasse debolezza femminile, dunque, la sua eliminazione era il primo passo verso il mio affrancamento. Quel mattino, indossavo blue jeans, giaccone imbottito e un paio di stivaletti comprati a un mercatino rionale, un modello comodo e al tempo stesso originale che si adattava alla mia personalità. Così abbigliata mi sentivo perfettamente a mio agio e per la prima volta, dopo giorni trascorsi a elucubrare, provavo un senso di euforia, quasi una specie di risveglio. Dunque, tornai verso casa con spirito battagliero e pronta allo scontro. O Alex accettava la nuova Claudia, con la sua personalità e le sue ritardate rivendicazioni e ambizioni o, questa nuova donna se ne sarebbe andata
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definitivamente. Certo, se avessi dovuto scommettere, probabilmente avrei puntato sulla seconda ipotesi. Conoscendo quanto poco il mio compagno amasse gli ultimatum, immaginavo che sarebbe stata quella vincente. Sempre che la si potesse considerare una vittoria. “Che hai fatto alla testa? Ti sono uscite tutte le schifezze che ti frullano dentro?” Alex mi guardava stralunato, ma l’arroganza della sua voce era venata da una sorta di preoccupato stupore. Da giorni, i nostri dialoghi erano ridotti all’essenziale, decisamente inclini all’insolenza. “Che immagine poetica.” mi ero preparata ad affrontare le sue reazioni, ma non mi aspettavo quella battuta discutibile. Di solito il suo sarcasmo era più sottile. “Ho deciso di dare sfogo alla fantasia e ho cominciato dai capelli.” “Toh, prendi questo.” Stava guardando la televisione, aveva in mano il telecomando e me lo porse con l’atteggiamento di cedermi, in parte, il suo potere. “Usa la fantasia degli altri. Credimi, è migliore della tua.” Rifiutai con un gesto della mano la sua offerta e respirai profondamente per digerire la sua battuta. Assunsi un’espressione di dignitosa offesa e, guardandolo dall’alto, in considerazione del fatto che io ero in piedi e lui seduto, abbozzai un sorrisetto felino che scopriva appena i denti, alla Humprey Bogart, tanto per intenderci e mi diressi verso quello che lui considerava il mio regno: la cucina. “E’ tempo di cambiamenti.” canterellai con voce sottile, intonando un’arietta inventata al momento. “La vita ricomincia.” “Intanto, incomincia a preparare il pranzo. Al resto ci penserai dopo.” Ecco, il nostro scontro verbale era iniziato e sarebbe andato avanti per l’intera settimana, impantanandosi in sterili polemiche, riemergendo poi con le mie giuste rivendicazioni, affondando ancora in un mare di luoghi comuni, di frasi fatte e prese in prestito e per affogare definitivamente nel marasma ingarbugliato di silenzi accumulati nell’ultimo periodo di vita insieme. Dio del cielo, mi chiedevo angosciata, dov’erano finiti i momenti di tenerezza, le frasi sussurrate e le cene a lume di candela di un tempo? Mah! Comunque, giunse infine il fatidico mattino, quando, dopo un’accurata analisi relativa alla divisione delle nostre cose, me ne andai. In pratica,
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gettando in valigia i miei vestiti, i miei oggetti personali e lasciando sul pavimento, dopo averle scaraventate contro il muro, le foto del nostro matrimonio sulle quali avevo eseguito una danza tribale accompagnata da grida liberatorie. Lui, nel frattempo per agevolarmi, svuotava il mobiletto del bagno ricolmo dei miei preziosi cosmetici e li scaraventava nella spazzatura, incurante delle mie proteste disperate. “Ecco, questo è il loro posto.” decretava solennemente. “Ci vuol ben altro che una crema, o un nuovo colore ai capelli per te. E’ un cervello nuovo che ti ci vuole!” “Sei… sei… un miserabile cafone.” Strano: non ero riuscita a trovare un aggettivo più consono. “Ma va’! Mi fai veramente pena: ti auguro quel che meriti, testa matta.” “Lo stesso a te, lurido verme.” Il tonfo della porta sbattuta alle mie spalle, fece tremare il condominio. “Oddio, che succede?” La mia dirimpettaia mi fissava dal pianerottolo con occhi spaventati. “Nulla, stia tranquilla e si faccia i fatti suoi.” Non era proprio così che avevo immaginato l’inizio della mia nuova vita, ma era pur sempre un cambiamento. Più simile a una fine che a un principio, volendo sottilizzare, ma io non volevo. Spinsi la valigia con un calcio dentro l’ascensore e vi appoggiai sopra lo zaino stracolmo di non ricordo bene cosa; appena in tempo, prima che le porte di quel montacarichi infernale si richiudessero imprigionandomi un braccio. Scalciai contro la sua parete con rabbia e con contemporaneo sollievo: finalmente, non sarei stata più costretta a utilizzare quel mezzo fetente e traditore e questo era già uno dei primi vantaggi che la mia nuova libertà mi offriva. Salii sulla mia automobile e partii, avviandomi incontro alla mia futura esistenza. Per il momento presi la direzione del mare, verso i Lidi Ferraresi, dove avevo il mio mini appartamento che, pur con qualche disagio organizzativo iniziale, avrebbe rappresentato la mia nuova residenza. L’idea non mi dispiaceva affatto. Peccato che il periodo non fosse uno dei più propizi. Si avvicinava il Natale e, all’atmosfera dedicata alle gioie della famiglia, che certo non mi si addiceva, si aggiungeva il problema climatico da affrontare. Il mio appartamentino non era dotato di impianto di riscaldamento, ma semplicemente di una piccola stufa elet-
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trica, la quale, oltre a consumare un sacco di energia, non era sufficiente a riscaldarlo adeguatamente. Era ormai sera quando aprii la porta di casa ed entrai: mi accolsero un terribile tanfo di umidità e una temperatura glaciale. Misi immediatamente in funzione la stufa, controllai il livello della bombola a gas collegata alla cucina economica e accesi lo scaldabagno elettrico. Mi preparai mentalmente ad affrontare la mia prima notte di donna libera, dopo vent’anni di asservimento. Passata la prima mezz’ora, durante la quale feci l’inventario, ispezionando l’interno dei mobili, il funzionamento della televisione e del frigorifero, iniziarono i primi sintomi di assideramento e a quel punto, decisi di cercare un albergo per trascorrervi la notte. Sì, lo ammetto, non ho una forte resistenza alle basse temperature, ma in fondo, perché avrei dovuto averla? Non dormii molto quella notte, ma in compenso ebbi modo di riflettere sulla mia situazione. Decisi che, per affrontarla nel migliore dei modi, avrei avuto bisogno di un periodo di quiete assoluta, che mi consentisse di decidere in completa serenità come organizzare la mia vita futura. In pratica, avevo necessità di trascorrere una vacanza in un luogo tranquillo, lontano dal mio ambiente, dove il passato e il presente, con le relative implicazioni psicologiche, fossero completamente fuori campo. L’agenzia viaggi alla quale mi rivolsi, mi sottopose alcune alternative, tra cui una piccola isola dell’arcipelago delle Canarie: Hierro. Alcuni nostri amici vi erano stati e me ne avevano parlato come di un luogo fin troppo tranquillo e fuori dal mondo, dunque, pensai che fosse l’ideale per lo scopo che mi prefiggevo. Non persi tempo a decidere, ma fissai la prenotazione immediatamente, sul primo volo charter disponibile. Fui fortunata, perché, essendo appena iniziato il mese di dicembre, il periodo di maggior afflusso per i luoghi di vacanza non era ancora scattato. Dunque, sarei partita tra due giorni con un aereo diretto a Tenerife Nord e da lì, mi sarei imbarcata sul volo per Hierro. Era mia intenzione visitare l’isola, perciò non prenotai l’albergo per il completo soggiorno, ma solo il primo pernottamento in una pensione al porto di La Restinga. Vi sarei giunta su un’auto a noleggio, fissata direttamente dall’Agenzia Viaggi e che mi attendeva all’aeroporto di Valverde, capitale dell’isola. Era la prima volta che mi avventuravo da sola in un viaggio vacanza di queste proporzioni ed ero molto emozionata. Il che non mi consentì son-
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ni tranquilli, ma in compenso, mi offrì il vantaggio di farmi scordare completamente, almeno durante i due giorni precedenti la partenza, la situazione precaria in cui mi trovavo. Non pensai ad Alex, non mi sfiorò la benché minima preoccupazione per lui, su come avrebbe affrontato la sua nuova routine di uomo solo, se avrebbe ricordato di prendere le sue medicine, o come avrebbe risolto il problema dei pasti, della spesa, delle bollette da pagare, insomma, tutte le mille cosucce che erano i miei compiti di ogni giorno. Sinceramente, speravo che un suo eventuale rimpianto della mia presenza, non fosse collegato all’esecuzione dei miei compiti, che, più o meno bene, chiunque poteva svolgere. Mi auguravo gli mancasse il mio ruolo di moglie e di amante e l’amore che gli avevo dedicato per vent’anni della mia vita. Ma, come dicevo prima, non pensai a lui in quei due giorni, ma al viaggio che mi attendeva. Ammetto con un certo imbarazzo che, tra i mille timori che mi angustiavano, c’era quello assurdo di sbagliare aereo. Che sciocchezza! No, non sbagliai aereo e tutto avvenne con insolita regolarità. Strano, considerando che si trattava di un volo charter. Fu la prima anormalità di quella indimenticabile vacanza. Ma forse, la parola “indimenticabile” non era l’aggettivo esatto, come ebbi modo in seguito di rilevare. Sono leggermente confusa. Mi guardo attorno, il cielo è limpido e di un intenso color azzurro, la temperatura è mite, ben diversa da quella che mi sono lasciata alle spalle in Italia. Ma questo era prevedibile. Quello che invece non prevedevo e che non riesco a descrivere con chiarezza, è ciò che provo. Non è il paesaggio che mi aspettavo, ecco. E’ aspro, a tratti severo, incute rispetto e io sono ben disposta ad offrirglielo, ma nonostante la mia disponibilità, sento da parte sua una sorta di disapprovazione, come se considerasse indesiderata la mia presenza. Ed è la prima strana sensazione che questo viaggio mi suscita: un inspiegabile disagio. E’ una piccola isola, per raggiungere il porto di La Restinga, alla Pensione Casa Kai Marino dove ho prenotato la camera, si deve attraversare il parco naturale. La strada s’inerpica su un percorso in salita, a tratti sembra di essere in alta montagna, anche se l’altitudine massima non rag-
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giunge i mille metri; gli alberi, per la maggior parte costituiti da pini e abeti, sono alti e rigogliosi. Improvvisamente m’invade la solitudine, la sento arrivarmi addosso di colpo, simile a un animale che attendeva il momento per aggredire. Forse era già dentro di me, albergava nel mio animo in simbiosi da tempo, senza che io ne fossi consapevole e si è materializzata in questo luogo solitario, per tenermi compagnia. E così, ora non sono più sola. Benvenuta, compagna di viaggio. Il porticciolo mi incanta per la sua pittoresca semplicità. E’ ormai sera e i colori sono soffusi, sfumati, si confondono tra il cielo e il mare, che lambisce la piccola spiaggia dolcemente, senza l’arroganza che la sua forza potrebbe consentirgli. La pensione è abbarbicata sul promontorio roccioso, si confonde con esso e guarda il mare. La camera che mi hanno prenotato all’agenzia è a mezza costa. Ci sono fiori ovunque, nello spazio di terra su cui si apre la porta finestra c’è un minuscolo giardino dove una bungavillea si arrampica sulla parete, e c’è un orto in miniatura odoroso di rosmarino, tra fiori rossi e gialli di cui non conosco i nomi. L’intenso profumo mi stordisce e riempie l’aria. Quello salmastro del mare mischiato alle erbe aromatiche e ai fiori. Questo paesaggio non incute timore. Sono sicura che in questo luogo trascorrerò una notte serena, e riuscirò finalmente a dormire dopo le ultime, difficili notti. Domani mi avventurerò alla scoperta dell’isola. Avevo già guidato per quasi due ore, percorrendo solo una cinquantina di chilometri. La strada era ben asfaltata, ma saliva e scendeva, seguendo un tragitto tortuoso, tra montagne di roccia lavica che si trasformavano improvvisamente in paesaggi verdeggianti: a tratti s’intravedeva il mare, in basso, alla mia destra. Specchi d’acqua spumeggiante, dal colore cupo di mare profondo. Mi fermai più volte a scattar foto nei luoghi indicati come degni di interesse paesaggistico. Non so bene con quali risultati, dal momento che usavo la macchina fotografica per la prima volta. Era ormai uno stato di fatto che in famiglia, tutto ciò che richiedeva abilità tecnica, fosse competenza di Alex, il che lasciava presupporre la mia incapacità. Dal canto mio, non avevo mai sollevato obiezioni, accettando supinamente il mio ruolo subalterno.
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“El Pozo de Las Calcosas”. M’incuriosì il nome indicato dalla freccia, ne seguii la direzione e in breve raggiunsi il posto. Decisi di fare una sosta, era ora di pranzo e il mio stomaco, con i suoi gorgoglii, me lo rammentava. Parcheggiai l’auto nello spazio apposito davanti a una costruzione in mattoni giallastri, la cui insegna, insieme agli odori appetitosi che riempivano l’aria, stuzzicarono il mio appetito. Prima di entrare in quella che, all’apparenza sembrava una trattoria, feci un giro attorno per ammirare il panorama e raggiunsi uno spiazzo delimitato da un parapetto rustico, in legno. Mi sporsi e guardai in basso, lungo il pendio roccioso e un improvviso rimescolio mi sconvolse lo stomaco. Non saprei dire fino a che punto si trattasse di una naturale impressione suscitata dal paesaggio sottostante, o non fosse invece una specie di presagio. Un sentiero scosceso, parzialmente costruito con gradini in sasso, scendeva sul fianco della montagna fino al mare, a tratti interrotto da piccoli spazi erbosi, creati appositamente per spezzare il cammino. In fondo all’aspro percorso, s’intravedevano i tetti di un villaggio abbandonato, o per lo meno era ciò che sembrava essere a questa distanza. Era posizionato sulla riva del mare, tanto che le onde quasi lambivano le case, incuneandosi tra la costa frastagliata e le sue innumerevoli insenature. Alcune di esse mi attrassero in particolar modo, perché dal punto da cui le guardavo, sembravano piccole piscine naturali. Udivo distintamente il rumore del mare e il suo fragore inquietante, vedevo le sue onde spumeggianti infrangersi contro gli scogli e ritornarsene indietro, ritmicamente, verso la profondità cupa dell’oceano. Sulla riva, la trasparenza dell’acqua rifletteva nitidamente i suoi colori, la cui tonalità mutava, e il blu intenso diventava azzurro verde, quasi smeraldino, poi anche quella gradazione si attenuava, schiariva, fino ad assumere una trasparenza vitrea, attraverso la quale, i sassi rivelavano il loro colore naturale perfino a questa distanza. Era un gioco di riflessi, su cui il sole giocava con i suoi raggi, in un avvicendamento ininterrotto. Ne fui talmente attratta che dimenticai il vuoto allo stomaco che mi aveva indotto alla sosta e iniziai a scendere, verso quell’irresistibile attrazione. Procedevo lentamente, tenendomi salda al corrimano in legno, in verità piuttosto precario. Qualche breve sosta nei piccoli pianerottoli erbosi a osservare il quadro sottostante e le sue variazioni, mano a mano il mio avvicinarmi. Finché mi approssimai alle prime case e mi accorsi, non
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senza stupore, che non erano abbandonate e cadenti come dall’alto mi erano sembrate. Si trattava di piccole costruzioni in sasso, non abitate, ma non per questo prive di cura. Alcune di esse erano adornate da piante fiorite e avevano tendine alle finestre, con tavoli e sedie nei piccoli spazi esterni, oltre alla targhetta con il nome sulla porta. La piccola spiaggia, di roccia vulcanica e sabbia scura, era lambita da un mare in movimento, a tratti quasi arrabbiato e il mio sguardo si perse ancora, affascinato dai vorticosi mulinelli che le sue onde formavano. Passeggiai un po’, nella solitudine di quello strano luogo, lasciandomi accarezzare piacevolmente dal sole e mi avvicinai a un’insenatura, quella più grande: era una delle piscine naturali che, dall’alto, più delle altre, aveva colpito la mia fantasia. Salii i pochi rudimentali gradini di sasso che la delimitavano e fui sul suo bordo irregolare, anch’esso di roccia vulcanica ruvida e scura. C’erano una scaletta in ferro e un vecchio trampolino per i tuffi, l’acqua era trasparente, con sfumature iridescenti. Mi prese una voglia irresistibile di immergermi e, senza riflettere, mi sfilai i bermuda e mi tolsi la camicia: sotto indossavo il due pezzi, un vecchio costume che mi apparteneva da almeno dieci anni, riesumato per l’occasione. Da quanto tempo non facevo un bagno in mare? M’immersi lentamente: l’acqua era fresca e stimolante, e iniziai a muovere le prime bracciate. Provai subito una sensazione meravigliosa, quasi una sorta di euforia e presi a nuotare senza alcun timore, come non avevo mai fatto prima. In realtà, non ero mai stata una gran nuotatrice, avevo sempre avuto paura dell’acqua, ma ora mi pareva di essere immersa nel mio ambiente naturale e mi muovevo con scioltezza, con lo stile e l’energia di un’ondina e non avevo alcun timore della profondità. Il tempo sembrava essersi fermato, mentre io lo rincorrevo, disegnando ghirigori nel suo spazio illimitato. Continuai a nuotare a lungo, ininterrottamente, da una sponda all’altra, in quel mare tutto mio, senza spossatezza, la mia resistenza fisica sembrava inesauribile: cambiavo stile con disinvoltura, armoniosamente, come solo nei sogni riuscivo a fare. Ero fiera di me, perché per la prima volta nella mia vita, ero in grado di realizzarli. Non so per quanto tempo rimasi in acqua, poi mi colsero i primi sintomi di stanchezza e decisi di uscire. Mi sdraiai sulla roccia più vicina e lasciai che il sole mi asciugasse il corpo. Chiusi gli occhi e rimasi immobile ad ascoltare il rumore del mare.
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Ricordo che pensai: “Sono dentro una conchiglia che mi protegge e mi culla, sono al sicuro.” “Signora, si svegli. Tra poco calerà il sole.” La donna mi guarda con curiosità, forse con una punta di preoccupazione. Ovviamente si rivolge a me nella sua lingua e, cosa strana, comprendo ogni sua parola alla perfezione. E’ singolare, ho appena iniziato a studiare la lingua spagnola e ne ho appreso solo le prime frasi, quelle indispensabili per cavarmela sul posto: ora le devo rispondere, ma non so che dire. C’è un vuoto nella mia mente. Mi sollevo faticosamente dalla roccia dura, sono ancora stordita. “La ringrazio per avermi svegliato. Devo risalire il sentiero.” Ho parlato con scioltezza sorprendente, le parole mi sono uscite con naturalezza, come se lo spagnolo fosse la mia lingua madre. “Le piace questo luogo?” La guardo con curiosità: è molto anziana, il suo volto è segnato da rughe profonde, pare che il tempo vi abbia impresso tracce millenarie, o forse è stato il troppo sole. I suoi occhi, però, non hanno età: sono azzurri, grandi, innocenti. Occhi di fanciullo. “Sì, mi piace. E’ un posto speciale, quasi non sembra vero.” “Infatti, questo è un sogno. C’è magia in questo luogo.” guarda lontano, verso il mare aperto. “Un tempo i pirati nascondevano qui i loro tesori. Nella piscina grande. Dicono che l’acqua ne contenga ancora i residui. Dell’oro dei pirati, intendo.” Le solite leggende, penso. Ma ne sono vagamente affascinata. “Ci vive qualcuno qui?” “Sì e no. Ogni tanto qualche persona affitta una di queste case, per lo più si tratta di scrittori, o comunque, di artisti. Hanno anche girato un film una volta, ma per viverci è un luogo troppo isolato. La gente preferisce stare vicino alle strade, per potere usare l’automobile. Qui, ci vogliono gambe buone.” “E lei, ci abita qui?” “No, io ci vengo ogni giorno a custodire la casa di mia figlia.” fa una breve pausa. “È vuota, lei non tornerà più.” Un’ombra oscura il suo sguardo, che improvvisamente sembra trasformarsi. E’ diventato triste e senza vita. Sono imbarazzata, temo di averle rievocato, involontariamente, un dolore grande. “Mia figlia è morta.”
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Mi stupisce riudire così presto la sua voce e, più ancora, mi stupisce il suo sguardo. E’ ritornato a essere limpido e sereno, come prima. “Mi dispiace.” Le sfioro la mano istintivamente: è fredda e legnosa. Una ruvida mano abituata al lavoro, dico a me stessa. “Lei abita qui vicino?” “Bella signora, ti piacerebbe vedere la casa di mia figlia?” Ha eluso la mia domanda e la sua offerta mi sorprende e mi crea inquietudine, ma sono curiosa. Improvvisamente desidero con forza vedere quella casa. “Sì, con piacere.” Mi infilo i bermuda e la camicia e la seguo. Il percorso è breve. È la prima costruzione, si erge su quattro colonne come una palafitta e guarda lo specchio di mare dove, poco prima, ma quanto tempo fa? ho nuotato a lungo. Una scala stretta, in sassi disuguali, sale fino a un piccolo pianerottolo, adorno con vasi fioriti, ce ne sono di tutti i colori. Mi colpisce la porta in legno grezzo, percossa dal vento e corrosa dalla salsedine, nella quale spicca, per la sua forma rudimentale, il grande buco della serratura che sembra dividerla in due parti: una superiore e una inferiore. La donna ha in mano una grossa chiave, apparentemente arrugginita, e la introduce: due giri, sorprendentemente morbidi e la porta ruota sui cardini con un lieve cigolio. La donna, il cui nome Loly lo conoscerò più tardi, entra prima di me invitandomi a seguirla. Appena all’interno, mi colpisce un odore dolciastro, forse di cere profumate e ne ho conferma vedendo bruciare lentamente una candela dentro un vaso di vetro decorato posato sul tavolo, che occupa lo spazio al centro della piccola stanza. Le pareti sono imbiancate a calce bianca, porosa, il pavimento è in pietra rosata, lucidato a cera. Immagino faticosamente da mamma Loly. In quell’interno semplice, mi colpiscono i mobili di legno grezzo, verniciato nel delicato colore azzurro pervinca, mentre le gambe della tavola, le mensole applicate ai muri, gli sportelli della credenza, hanno decorazioni in fiori, rosa, gialli e arancione. Le finestre piccole, che evidenziano lo spessore dei muri, sono adornate da tendine in pizzo, che sembrano fatte a mano. Tutto l’arredamento è curato, nella sua semplicità, con amore del particolare, essenziale e al tempo stesso raffinato nei piccoli dettagli che lo compongono. Loly precede ogni mia domanda e sembra felice di ogni mio apprezzamento. Poi, mi fa strada nella stanza da letto di sua figlia e a quel
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punto, ho la netta sensazione di sentire all’interno la sua presenza. Ogni oggetto e lo stesso arredamento della stanza, sembrano attendere il suo ritorno. Sul letto a baldacchino, in legno azzurro, pende una zanzariera bianca e leggera, la coperta è anch’essa bianca lavorata all’uncinetto, apparentemente un prodotto artigianale e, tra i due cuscini, spicca un delicato mazzolino di fiori freschi, color lillà. Forse, orchidee. C’è una fotografia incorniciata al lato destro del letto, sulla parete bianca: uno sfondo sfumato a tenui colori, più simile a un ritratto d’artista che a una foto e rappresenta il volto bellissimo di una giovane donna. Mi guarda e sembra voler uscire dalla cornice in legno che la imprigiona, è viva, è l’immagine stessa della vita, i suoi occhi mi parlano, sono azzurri come il cielo, come il mare, come… Giro lo sguardo e incontro quello di Loly e non so più quali occhi sto guardando: chi è la donna del ritratto? “Quella è Melinda, mia figlia. E’ bella, vero?” Già, dovevo immaginarlo. Mi avvicino alla parete per osservarla meglio. Sì, è bellissima, i capelli neri le scendono sulle spalle morbidamente, adornando un volto dall’ovale perfetto, dolce e languido, da innamorata. Gli occhi sprizzano gioia di vivere, l’azzurro sembra dilatarsi e fuoriuscire dai contorni che ne delimitano la forma, allungata languidamente verso le tempie. Sono strani occhi orientali, ma con il mare dentro. “Melinda.” pronuncio quel nome, assaporandone il suono melodioso. “E’ un nome dolce, bello come lei. Ma gli occhi…, gli occhi sono simili ai suoi.” “Si, tutti lo dicevano, ma non le sono serviti a nulla. Con quegli occhi non ha visto la realtà, ma un paradiso che non esisteva. Per questo l’ho perduta.” “Lei mi ha detto che Melinda è morta.” “Sì, morta o perduta, che differenza fa? Non c’è più. Questa casa è vuota, io ci vengo ogni giorno, la pulisco, innaffio le piante, metto il mazzolino di fiori sul letto. Ma lei non c’è.” “Melinda abitava qui da sola?” “No, lei ci viveva con il suo uomo, l’avventuriero. Era ritornato qui per riprendersi il tesoro nascosto nella piscina, solo per questo: per riportarselo via. Sto parlando dell’oro, quello di cui ti ho detto prima.” s’interrompe per scrutarmi negli occhi. “Ma… t’interessa? Vuoi che continui a narrare?” “Sì, m’interessa molto. Questo luogo mi risveglia sensazioni strane, di cose accadute, segrete e… non so spiegare. Continui, per favore.”
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“Beh, il fatto è che un giorno, lui ha trovato quel che cercava e se n’è andato. Ma senza di lei. Povera Melinda. Ha pianto per tanto tempo, era convinta che sarebbe ritornato, lo sperava. Ma non s’è più visto. Era un pirata, giovane e bello, uno di quelli veri. Capisci cosa intendo?” Si ferma a fissarmi e l’azzurro dei suoi occhi irradia una sorta di strana magia. Quando riprende a parlare, la sua voce è bassa e vibrante: “Non ci credeva nessuno, solo io. Lo avevo capito dal momento in cui lo avevo incontrato. No, non sarebbe ritornato. Ma Melinda credeva in lui. Così, un giorno mi disse addio e partì per raggiungerlo. Era convinta di sapere dove fosse andato, aveva con sé le carte nautiche e tutti i riferimenti. E così, bella signora, se ne andò via di primo mattino.” La voce le si spezza in un singhiozzo soffocato, ma si fa animo e riprende il suo racconto. Fino in fondo. “Era l’alba. La sua barca era colma di viveri, fornita di bussola e di tutto quel che occorreva per un lungo viaggio. Ma lei era fragile e sola.” Si avvicina alla finestra che guarda verso il mare. “Io ero qui e l’ho vista partire. Non ho potuto fare nulla per trattenerla. L’oceano è troppo grande.” D’impulso l’accolgo in un abbraccio: vorrei consolare il suo dolore, ma riesco solo a sentire i suoi singhiozzi sulla mia spalla. “Forse è riuscita a raggiungere il suo pirata e ora sono insieme, felici.” Voglio in qualche modo consolarla e le parlo col cuore, pur rendendomi conto di dire assurdità. Di che pirata sto parlando, dov’è finita la mia razionalità? Non riesco a spiegarmene le ragioni, ma quella donna ha fatto presa su di me. “No, non l’ha raggiunto. Non si può raggiungere chi che non esiste.” “Cosa intende dire? Esiste, è vissuto qui insieme a Melinda. Lei stessa ha detto di averlo incontrato, non è forse così?” “Io? Ti ho detto di aver visto un uomo molto bello e giovane, sì, ma non era reale. Questo non l’ho mai creduto.” “Perché?” “Non ho mai sentito il tocco della sua mano, neppure quando è partito.” le labbra le si increspano in una lieve smorfia. “Sono stata felice allora, oh sì! Ho pensato che Melinda sarebbe ridiventata la ragazza di un tempo. Felice e spensierata. Non è stato così, lei voleva vivere nel sogno.” Improvvisamente mi esce dalle labbra la domanda: mi stupisce la mia iniziativa, non credo che, in nessun’altra circostanza, gliela avrei mai formulata.
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“Me la potrebbe affittare per due settimane?” Mi riferisco alla casa, naturalmente, ma quasi, non oso nominarla nella mia domanda. Sorride e lo sguardo diviene malizioso, intrigante. “Vuoi viverci una storia anche tu?” Non mi aspettavo questa frivola insinuazione, e la fisso sbalordita. Lei continua con quel suo sorrisetto enigmatico, mentre si guarda attorno con espressione compiaciuta. “E’ tutto quel che ho, quel che mi resta di Melinda.” Parla lentamente, preparandosi a una decisione importante. “Non l’ho mai concessa a nessuno,” dice, “ma a te la voglio dare.” “Quanto vuoi per l’affitto?” Mi rendo conto di darle del tu, come se la conoscessi da tempo. “Lo vedi quel vaso sulla credenza?” “Sì.” Rispondo senza capire dove vuole arrivare. “Quando te ne andrai, mettici dentro quel che credi. E’ un vaso fatto da artigiani dell’isola. Io so che sarai giusta e darai l’equivalente per quel che avrai ricevuto, dalla vecchia, pazza Loly!” Fu in quel momento che mi disse il suo nome, sorridendo, mentre mi porgeva la chiave. Mi sfiorò con la mano e, per la seconda volta in quel giorno, sentii la sua ruvidezza contro la mia. Non mi diede tempo di chiederle spiegazioni, ma se ne andò rapidamente, leggera e silenziosa come una nuvola. Non udii i suoi passi. Mi accostai alla piccola finestra per seguirla con lo sguardo, ma era già sparita. Il sole era calato dietro la parete di roccia e la piscina, dentro la cui limpida acqua avevo nuotato lungamente, apparve ai miei occhi come un pozzo scuro e profondo. El Pozo de Las Calcosas. Ma cosa? Mi allontanai dalla finestra e premetti l’interruttore: si diffuse una luce fioca e giallognola. Ero smarrita e mi guardai attorno con apprensione chiedendomi che ci facevo in quello strano posto. Non ebbi necessità di risalire il sentiero e raggiungere la sommità per acquistare qualcosa da mangiare. Il frigo era ben rifornito, come se Loly attendesse qualcuno o fosse preparata a ospitarmi; mi mancava la valigia con l’occorrente per la notte, ma il bagno era provvisto di ogni cosa, an-
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che di creme e cosmetici per il trucco. E nell’armadio c’erano abiti e biancheria della mia taglia e di mio gusto. Ero affamata e cenai, ma non ricordo cosa. Il vino sì, lo ricordo bene. Il primo sorso aveva un gusto asciutto, che lasciava in bocca un aroma fruttato. Mi piaceva il suo colore: rosso rubino. Riempii più volte il bicchiere e lo alzai, per ammirarne le sfumature contro la luce della lampada. La gradazione di tono, da rubino si trasformava e assumeva iridescenze arancio, mentre il suo sapore diveniva vivace, spumeggiante. Ma se volgevo il calice dalla parte opposta, lasciandomi la luce della lampada alle spalle, allora il colore assumeva toni violacei e il nettare, dall’aroma asciutto e fruttato, si trasformava in un gusto asprigno e penetrante, che sembrava impastarmi lingua e palato. Ma anche quel sapore mi piaceva e bevvi l’intero contenuto della bottiglia. Da quel momento il ricordo si perse in una vaga, impalpabile confusione, e sprofondai in un mare di sensazioni, mentre un’altra vita iniziò a prendere forma, parallela alla mia. E si sviluppò da quel calice, il cui nettare profumato, sprigionava la sua magia. Mi addormentai. Bussano alla porta con insistenza. Scendo dal letto, scostando prima la bianca cortina che funge da zanzariera e mi guardo attorno con smarrimento: dove sono? Il bussare si fa più insistente, più forte: ho paura. Un improvviso flash mi riporta alla memoria frammenti disordinati: ora rammento il luogo in cui mi trovo e quel ricordo mi rivela un’ingrata consapevolezza. Non ho vie di scampo: c’è l’oceano davanti a me, alle mie spalle un sentiero buio e scosceso che s’inerpica con difficoltà sulla roccia. Il cuore mi batte all’impazzata, giro attorno lo sguardo alla ricerca di un’arma, ma non vedo nulla che possa aiutarmi nella difesa. Poi, una voce rauca, maschile: “Melinda, apri! So che sei in casa.” Odo un fragore più forte, che neppure quello del mare riesce a coprire e la porta si spalanca. Un tremito violento mi scuote, fragilità e insicurezza in quel momento sono le mie uniche certezze: mi sento debole come una foglia sul ramo di un albero in balia della tempesta. Poi lui compare nel riquadro della porta che immette nella camera da letto. La stanza è improvvisamente illuminata dalla luce bianca della luna e la figura, che sembra riempirne lo spazio, è un’ombra scura, incombente. Si avvicina lentamente e scorgo i contorni di un corpo scattante, muscoloso, poi il mio sguardo si abitua all’oscurità e distinguo il suo volto
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chiaramente. E’ lui, lo riconosco. E’ il mio Alex. Ma i capelli scuri gli raggiungono le spalle e ha un orecchino, appeso al lobo sinistro dell’orecchio, che manda bagliori strani verso di me. Il battito del mio cuore rallenta la sua intensità e la paura sembra svanire di colpo, per lasciar spazio a una sorta di strana eccitazione. No, non è Alex! E io chi sono? Non Claudia, no… io non la conosco. “Melinda.” Ancora quel nome, è un sussurro che esce dalle sue labbra, quelle del mio pirata. Sì, è lui, è tornato a me, non mi ha dimenticata. Io sono Melinda. D’impeto, mi getto tra le sue braccia, che mi avvinghiano con passione, quasi a volermi soffocare. Vorrei gridargli la mia gioia, ma le sue labbra premono con forza contro le mie e me l’impediscono. L’odore e il sapore del mare che emanano dalla sua pelle, si mischiano alle mie lacrime di gioia. Si stacca da me per guardarmi, c’è gioia e stupore nel suo sguardo, mi sfila la camicia di dosso, con dolce fermezza e accarezza il mio seno nudo, lo stringe dolcemente, poi le sue mani forti scendono e il suo tocco mi provoca brividi di gioia. Tento di soffocare i miei gemiti, ma non riesco trattenere il grido di piacere, che rompe il silenzio, seguito dalla sua voce rauca e appassionata. “Melinda, quanto ho atteso questo momento.” Il letto ci accoglie, attraverso la trama bianca della zanzariera, il mio sguardo si perde nella cupa immensità del cielo, attratto dallo splendore della luna: una fetta di luce che rischiara il buio della notte, una trasparenza striata da sfumature rosa, arancio e d’oro, da raggi che si rincorrono nell’infinito ed entrano dalla mia finestra aperta, a irradiare i nostri corpi uniti in un abbraccio, che la passione trasforma in un corpo solo. Lo sciacquio delle onde è una musica dolce che ci accompagna, è un gorgoglio di note gocciolanti e vibranti, è un grande concerto, che il mare suona solo per noi. Poi lo sento arrivare: è dentro di me, intorno a me, sopra di me. E’ l’oceano, con la sua potenza incontenibile, dominante, che viene da lontano per abbattersi qui, su questa piccola spiaggia solitaria ed entrare nelle case, nella mia, per poi travolgermi e trascinarmi con sé. Ora sto navigando tra i suoi flutti, il mio natante è questo letto azzurro a baldacchino, da cui pende la grande vela bianca, trasparente e leggera, che si agita nel vento della notte. Che all’improvviso è diventata buia e senza stelle.
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Apro lentamente gli occhi e le prime luci dell’alba li feriscono filtrando attraverso i vetri della finestra chiusa. Strano, ieri sera era rimasta aperta, ne sono sicura. Lui dorme, ne sento il respiro, regolare e leggero. Non ricordo il suo volto e non conosco il suo nome: chi è l’uomo che dorme accanto a me? C’è una bizzarra confusione nei miei pensieri: rammento il mare, una passione travolgente, e una voce che mi chiama “Melinda”. Ma chi è Melinda? Sono forse io? Oh, non so. Lo ero questa notte, e ho fatto all’amore con lui, con il pirata di cui la vecchia Loly mi ha parlato. E con il mare. Sì, ora rammento: questa notte il mare mi ha amata, mi ha trascinata lontano con sé, sulla mobilità impetuosa delle sue onde. Devo vederlo in volto, subito. Devo sapere chi è. Mi muovo cautamente e con tocco delicato, sollevo un lembo del lenzuolo che gli copre parzialmente il volto. Un grido mi esce dal petto, un grido forte, che fa male. Un’impronta, profonda e scura è impressa sul cuscino, ma di lui non v’è traccia. Eppure esiste, io lo so… l’ho sentito, l’ho visto, mi ha tenuta tra le braccia. Ci siamo amati, mentre il mare inondava i nostri corpi e ci trascinava lontano. Perché ora, accanto a me non c’è nessuno? Mi prendo il capo tra le mani con disperazione e grido, grido con quanto fiato ho in gola, e la mia voce rimbalza sulle pareti bianche della stanza, emettendo note alte, cadenzate e gocciolanti, spruzzi d’acqua che scintillano, come piccoli frammenti di cristallo. Poi, ancora il silenzio. Il sole entra dalla finestra aperta e sfiora il mio corpo, che al suo dolce tepore si risveglia. Mi alzo lentamente e mi guardo attorno con curiosità: è graziosa questa casa, mi piacciono i colori tenui che l’arredano. Ora è inondata dal sole, illumina le sue pareti bianche e tutto è limpido, luminoso e senza segreti. La notte appena trascorsa, sembra non aver lasciato tracce. C’è uno strano vuoto nella mia mente. Ho bisogno di un caffè, preparo meccanicamente la macchinetta, la pongo sul fuoco e nell’attesa, mi accingo ad aprire la porta per uscire: voglio vedere il mare, respirarne l’aria salmastra e immergermi nella freschezza delle sue acque. Strano: la porta di casa è dischiusa e la grossa chiave
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giace sul pavimento, come se qualcuno fosse entrato forzando la serratura. Un brivido mi percorre la schiena: mi chino a raccattarla e la infilo nella toppa nel tentativo di richiuderla, ma qualcosa non funziona, la chiave s’inceppa e la porta non si chiude più. Tremo, all’improvviso una serie di strane immagini balzano alla mia mente e la sconvolgono. Ricordo la presenza di un uomo, ricordo il mare burrascoso, la sua musica, mentre io navigo tra le onde, una vela bianca mossa dal vento, la luna che m’illumina e la sua voce che chiama: “Melinda.” Io non sono Melinda. E lui? Chi è l’uomo che questa notte ha gridato quel nome? Il caffè è pronto, il suo odore è forte e ne verso un’abbondante dose nella tazza. Ho bisogno di svegliarmi, devo mettere a fuoco i miei ricordi confusi, devo capire. Porto la tazza alle labbra, e noto il tremore della mia mano. Devo risalire il sentiero, rivolgermi ai proprietari di quella locanda e chiedere loro dove posso trovare la vecchia Loly. A un tratto odo il trillo del mio cellulare: com’è possibile? L’avevo spento, qui non c’è segnale. Sul display leggo il nome di chi mi chiama: Alex. Non vorrei rispondergli, ma ho bisogno di parlare, devo raccontare a qualcuno ciò che mi sta accadendo per scaricare la mia tensione. “Si.” “Ciao, testa rossa. Come stai?” E’ la stessa voce rauca che questa notte gridava “Melinda” con passione e mi batte forte il cuore. “Sto bene, e tu?” “Mi manchi, sai? Sono passati già cinque giorni. Che ne diresti di vederci, di parlare un po’?” “Mi è difficile incontrarti. Non sono in Italia.” “E dove sei?” “In un’isola delle Canarie. Sono a El pozo de Las Calcosas.” Mi aggrappo quasi disperatamente alla sua voce lontana, scordando l’ultimo periodo di vita insieme, il suo comportamento egoistico e la sua incapacità di capire i miei problemi. Ho bisogno della sua comprensione. “La solita matta.” la sua voce ha perso l’iniziale dolcezza. “Nel pozzo di ché?” “Alex, ascoltami, per favore.” la mia voce è prossima al pianto. “Sono in un posto molto strano e ho paura. Mi sta succedendo qualcosa d’inspiegabile. Aiutami!”
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“Che mai posso fare? Potevi startene a casa tua, i guai te li vai proprio a cercare.” “Credimi, per favore. C’è qualcosa di anormale qui: questa notte ho fatto un sogno, un sogno che… come posso spiegarti? Credo sia realmente accaduto.” Il telefono gracchia, la linea sembra disturbata. “Se credi di prendermi in giro, ti sbagli di grosso. Racconta le tue balle a qualcun altro.” “Vaffaunculo.” Interrompo la comunicazione con rabbia, ma tanto si sarebbe interrotta da sé. Non c’è più segnale. Sono tagliata fuori dal mondo. Scoppio a piangere. Che stupida. Se avevo una sola speranza di trovare collaborazione in Alex, l’ho distrutta con la mia impulsività. Mi vesto rapidamente, prendo la mia borsa ed esco di gran fretta. Devo risalire il sentiero, cercare la vecchia Loly e chiederle spiegazioni. Poi, me ne andrò da questo luogo, tornerò a La Restinga e trascorrerò i giorni di vacanza che ancora mi restano alla pensione Casa Kai Marino. Cosa mai mi ha spinto a fermarmi in questo strano luogo? Mi avvio su per il sentiero con passo deciso, ma dopo cinque minuti ho il fiato corto: già, come al solito dimentico di non avere più vent’anni. Abbasso lo sguardo in direzione del mare e lo scenario che ieri mi ha colpito, suscita ancora su di me la medesima attrazione. Ma proseguo il mio cammino e, faticosamente, raggiungo la cima. Una breve sosta per riprendere fiato, poi mi accosto alla mia auto. E’ ancora lì, regolarmente chiusa: una breve perlustrazione al suo interno e tutto sembra come l’ho lasciato. Bene, mi sento più tranquilla e mi dirigo verso la costruzione in mattoni giallastri, che sembra essere un po’ di tutto: locanda, trattoria famigliare, spaccio di generi alimentari. C’è penombra all’interno. “Buenos dias!” Saluto con un sorriso, attingendo al mio scarso vocabolario le parole più idonee, ma improvvisamente mi pare di non ricordare nulla: mi confondo e mi esprimo a fatica in una lingua che non è la mia. Giù, alla palafitta di Melinda, parlavo correttamente, senza errori. A spizzichi e a bocconi, aiutandomi un po’ a gesti, chiedo dove posso trovare Loly e la descrivo come una donna anziana, che ogni giorno scende giù al Pozo de Las Calcosas, a custodire la casa della figlia Melinda, quella bella fanciulla bruna, con gli occhi azzurri, che se n’è andata via per mare e non ha più fatto ritorno.
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La signora mi guarda senza capire, poi chiama in aiuto il marito e il figlio, ma nessuno sembra conoscere la vecchia Loly, né avere mai sentito parlare di Melinda. Tra l’altro, mi dicono che nessuno abita al Pozo de Las Calcosas. Non si può vivere laggiù, non c’è né acqua, né luce, né telefono e di notte il mare lambisce le case. In particolare quella davanti alla piscina, simile a una palafitta. Una volta le onde l’hanno sommersa completamente. Per questo nessuno ci abita più, da oltre trent’anni. Si può scendere solo di giorno, prima che salga la marea: ma come mai, non ho visto i cartelli? E’ proibito restare laggiù dopo le cinque del pomeriggio. “Io ci ho passato la notte.” Affermo candidamente e i loro occhi mi fissano increduli. “Esta mujer es un poco loca!” (Questa donna è un po’ matta) Stanno parlando tra di loro e non sembrano tenermi in gran considerazione. Pensano che io sia un po’ scema e forse hanno ragione. Ringrazio ed esco dallo spaccio avvilita. Provo un senso di frustrazione per la magra figura fatta, senza alcun risultato. Ma, allora, è stato tutto un sogno? Dal momento in cui sono scesa laggiù, dopo aver fatto il bagno in mare, tutto quello che mi è accaduto è stato frutto della mia fantasia? E la telefonata di Alex, anche quella fa parte di un sogno? Probabilmente sì. Del resto, ragionando a mente fredda, lontana dalla strana atmosfera che aleggia in quella casa, tutti gli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore non possono essere altro che il risultato di un sogno, o peggio, di un incubo. Il mio stesso comportamento non ha nulla a che fare con me: io sono una persona razionale, con i piedi per terra e, tra l’altro, non certo amante delle avventure pericolose. No, non avrei mai deciso di trascorrere una notte al Pozo de Las Calcosas. Allora, che mi resta da fare a questo punto? La cosa più saggia sarebbe quella di andarmene via immediatamente, senza tornare laggiù. Ho le chiavi dell’auto con me e la mia borsa con i documenti: cosa è rimasto nella casa di Melinda? Il mio cellulare, ecco cosa è rimasto là. E mi serve, e poi, voglio soddisfare la mia curiosità e verificare se risulta in memoria la telefonata di Alex. Sì, devo scendere per riprendermelo e, perché no? Voglio controllare la serratura della porta, vedere se è rotta, se la grossa chiave funziona ancora. Già, stavo per dimenticare. La chiave… Perché ho con me questa chiave, se è stato tutto un sogno? Chi me l’ha data, se la vecchia Loly non esiste?
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Maledetta curiosità. M’incammino lungo il sentiero per ritornare laggiù. Il mare, la casa di Melinda, con il suo letto a baldacchino, il vaso di coccio in cui mettere l’importo per l’affitto secondo gli accordi presi con Loly, mi attendono. La discesa è più facile, è ormai un percorso conosciuto e in breve sono nuovamente al Pozo ed eccomi alla palafitta di Melinda. Salgo i gradini e raggiungo il pianerottolo: la porta è chiusa. Inserisco la chiave nella toppa e la giro due volte. Un lieve cigolio e la porta ruota sui cardini lasciando intravedere il suo interno. Sento lo stesso odore e provo la stessa sensazione di ieri, quando la vecchia Loly mi ha fatto strada. Tutto è in ordine, sul tavolo, al centro della stanza, la candela nel vaso in vetro decorato, emette una piccola fiammella, sprigionando il suo odore dolciastro. Non c’è traccia del mio passaggio, nella camera il letto è rifatto alla perfezione e, in mezzo ai due cuscini, fa bella mostra di sé un mazzolino di fiori freschi, ma non sono gli stessi che c’erano ieri. Questi sembrano violette di campo e, come loro, profumano delicatamente. Mi avvicino respirando affannosamente, un’ansia terribile mi divora, mi assillano domande che non trovano risposte, in un crescendo sempre più forte. Scosto i cuscini, nella vana ricerca dell’impronta del suo corpo, ma il corpo di chi? Mi sembra di essere pazza. Non ci sono impronte, i lenzuoli sono candidi, odorano di violette e di lavanda, come se nessuno li avesse sfiorati. Poi, la mia mano, nel risistemare meticolosamente il cuscino, incontra qualcosa, un piccolo gingillo, che mi punge lievemente. “Ahi!” Mi porto il dito alle labbra e succhio la piccola stilla di sangue che fuoriesce, poi subito riporto la mano tra le lenzuola e frugo ancora. Stringo tra le dita quell’oggetto e lo guardo: è lo stesso orecchino che pendeva al lobo dell’orecchio sinistro del pirata, o di Alex o di chi non so. Allora non è stato un sogno, qualcuno ha dormito in questo letto insieme a me e proprio in questa casa. Forse la vecchia Loly esiste veramente. Stringo l’orecchino nel pugno, nel timore che mi sfugga e torno nella saletta, dove la sera prima ho cenato e ho bevuto il nettare magico. Sul tavolo, a fianco del vaso in vetro decorato, c’è il mio cellulare: strano, poco fa non l’ho visto. Per prima cosa voglio mettere al sicuro l’orecchino, è l’unica prova che mi riallaccia al pirata; lo introduco in una tasca del mio portafogli, poi accendo il mio portatile e controllo le telefonate ricevute: quella di Alex mi salta subito agli occhi. Allora mi ha realmente
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chiamato, non è stato un sogno. Ripongo rapidamente l’apparecchio nella mia borsa e cerco con lo sguardo il vaso di coccio. Eccolo. E’ lì, sulla credenza azzurra, ha una forma strana, irregolare, ceramica cotta in forno, è panciuto, come il ventre di una donna incinta. Lo prendo tra le mani con precauzione per posarlo sul tavolo, davanti a me, ma improvvisamente sembra prender vita, quasi volesse sfuggirmi. Lo stringo forte, ma non sono preparata a quella sua vitalità e non riesco a trattenerlo. Mi schizza tra le mani, balzando con sorprendente rapidità per andare a infrangersi contro il muro bianco, scrostando parte del suo intonaco granuloso. Non mi esce alcun suono dalla gola, eppure ho gridato. Tremando mi piego accanto ai cocci infranti, forse per raccattarli. Non so. C’è uno strano odore, lo sento e si materializza in un vapore azzurrognolo, che si sprigiona dai frantumi di ceramica, è denso, dolciastro e penetra nelle mie narici, insinuandosi dentro di me come una presenza viva, ma invisibile, che stimola i miei sensi e s’impadronisce del mio corpo. Il profumo inebriante mi confonde, mi accascio lievemente sul pavimento e mi abbandono al piacere sottile che la mia coscienza ottenebrata mi procura. Prima di chiudere gli occhi per lasciarmi andare a quel gradevole torpore, mi par di udire il fragore del mare, l’infrangersi delle onde, che si avvicinano sempre più. Neppure il bagliore di un lampo sfolgorante, cui fa seguito la rumorosa scarica del tuono, interrompe la mia strana quiete. C’è tempesta questa sera, ma non ne sono turbata e i miei occhi si chiudono, mentre i miei sensi si perdono nella dolce introduzione al sogno.
“Dolores! Vieni a darmi una mano. La tempesta di questa notte ha inondato tutto. Che disastro! Anche la macchina dell’italiana, è semi allagata.” Dolores, la proprietaria della locanda, si guarda attorno sconsolata: per ripulire tutto ci vorranno giorni. Poi, improvvisamente esclama: “Madre del cielo! Ma quella turista dove sarà? Come mai la sua auto è qui?” I due si guardano negli occhi con apprensione, poi, corrono verso la balaustra in legno e guardano giù, verso il “Pozo de Las Calcosas. Il mare ha sommerso parte delle case distruggendole e la palafitta sembra spaccata in due, come se un’onda gigantesca l’avesse investita, aprendola e dividendola in due parti.
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“Dai Pablo! Scendiamo, dobbiamo vedere se quella pazza, ieri sera è andata laggiù. Prego Dio che non l’abbia fatto, altrimenti la troviamo morta. Se il mare non se l’è portata via.” Ma la casa è vuota e nonostante le macerie del tetto parzialmente crollato che ingombrano la sala, c’è uno strano ordine all’interno. Dolores e Pablo si guardano negli occhi interrogativamente: sembra che qualcuno, dopo il disastro, sia passato a riassettarla. E c’è un’altra stranezza: nella camera matrimoniale, manca il letto e nello spazio vuoto, sul pavimento, spicca un delicato mazzolino di fiori, forse orchidee. Sulla parete, è intatta la fotografia di una bellissima fanciulla, il cui sguardo azzurro sembra irradiare intorno a sé gioia di vivere. C’è una strana atmosfera in quella stanza, dove ogni cosa sembra essere perfettamente in ordine. Peccato che il mare abbia fatto uno scempio negli altri locali. Beh, almeno di quell’italiana stramba non c’è traccia, dunque non era qui questa notte. Risalgono il sentiero per far ritorno alla locanda, ma giunti sulla sommità, li attende una sorpresa: l’auto della forestiera non c’è più e, mistero profondo, non sono rimaste tracce della sua sosta sul terreno, nonostante la tempesta della notte, avesse scavato attorno alle sue ruote solchi profondi. Altro sguardo interrogativo tra i due, poi, concordemente, con un’alzata di spalle, si scrollano di dosso dubbi e perplessità. C’è da fare alla locanda.
Sentiva una strana inquietudine. Dopo la breve conversazione telefonica della mattina, malamente interrotta da quella squilibrata, Alex non riusciva a concentrarsi nel suo lavoro. Gli erano rimaste impresse nella mente le parole di Claudia: che gli aveva detto con precisione? “Sono in un posto strano… c’è qualcosa di anormale… ho fatto un sogno…” Frasi smozzicate, pronunciate con tono di voce ansioso, confuso e, nonostante fosse terribilmente irritato con lei per il suo comportamento, non riusciva a fare a meno di preoccuparsi. Aveva ritentato altre due volte di chiamarla sul cellulare, ma sembrava che la linea non funzionasse: forse, dove si trovava, non c’era copertura o, più probabilmente, considerando la sua testa vuota, aveva dimenticato a casa il carica batteria. Gli aveva detto di
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essere in un’isola delle Canarie, al pozo di… mah, di qualcosa. Ma che mai le era saltato in testa. Facendo uno sforzo mnemonico, gli sembrò di ricordare che Giacomo e Marina, una coppia di amici con i quali, a volte, lui e Claudia s’incontravano, erano andati in vacanza alle Canarie anni addietro, in una piccola isola poco turistica e Claudia era rimasta affascinata dai loro racconti. Impulsivamente, alzò la cornetta del telefono e chiamò Giacomo. Si erano sentiti alcune settimane fa, prima che la lite catastrofica tra lui e Claudia, avesse causato la loro momentanea separazione e la sua pazza fuga. “Ciao, scusa la chiamata inattesa,” era lievemente imbarazzato per l’intromissione durante le ore di lavoro, “ma vorrei domandarti una cosa.” “Dimmi, se posso esserti utile, con piacere.” “Come si chiama quell’isola delle Canarie dove siete andati in vacanza tu e Marina alcuni anni fa?” “Vuoi dire quel posto desolato? Non vedevo l’ora di ritornarmene a casa. Non vorrete per caso andarci tu e Claudia?” “Mah, forse. Come si chiama?” “Hierro. E’ una piccola isola vulcanica, ideale per la caccia subacquea, ma non c’è altro che mare, rocce e vegetazione. C’è un solo albergo, quasi nessun negozio, proprio niente. Se andate là, vi annoiate a morte, credimi.” “C’è un luogo che si chiama “Pozo di qualcosa, non so…?” “Ah, sì! El Pozo de Las Calcosas! E’ un posto insolito, nient’altro che un gruppo di case abbandonate, a ridosso della roccia e con l’oceano davanti. E’ pittoresco, ma non ci si può vivere. Sembra che il mare abbia trascinato via parte delle case. Perché questa domanda?” “Una curiosità, ho un’amica che ce ne ha parlato e, sai com’è fatta Claudia. S’invaghisce delle cose più strampalate.” “Beh, dille che ci sono posti migliori dove andare in vacanza. Piuttosto, vediamoci uno di questi fine settimana. Potremmo organizzare qualcosa.” “Sì, ottima idea, ne parlo a Claudia e ti telefono presto. Ciao e grazie. Saluti a Marina.”
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Ecco dove s’era cacciata quella matta. Ma, adesso che lo sapeva, a che gli serviva? Alzò nuovamente la cornetta e rifece il numero del suo cellulare: “l’utente chiamato non è al momento raggiungibile.” Non poteva neppure lasciarle un messaggio nella segreteria. Sentì un improvviso vuoto intorno a sé. Di solito, a quell’ora della giornata, Claudia gli preparava una tazza di tè, glielo portava nel suo studio e subito se ne andava, per non distoglierlo dal suo lavoro. Non era stata una cattiva idea trasferire a casa la sua attività. Gli consentiva questi piccoli piaceri e inoltre non doveva affrontare i disagi del traffico per raggiungere l’ufficio. Si passò una mano sulla fronte, quasi a voler spazzar via l’ansia. Che cosa mai era accaduto tra loro di così grave da indurre Claudia ad andarsene di casa sbattendo la porta, dopo una serie di liti furibonde? A ben ripensarci, forse qualche motivo c’era stato per essere giunti a quel punto. Doveva riconoscere le sue colpe: negli ultimi tempi, l’aveva trascurata parecchio e probabilmente la lite dell’altra sera e la sua violenta ribellione, non erano che la conseguenza di una lunga serie di incomprensioni che non erano mai state chiarite. Ma perché perder tempo in chiarimenti? Era una sua vecchia teoria quella di non approfondire le situazioni: di solito si finiva col rivangare su cose passate, senza risolvere quelle del momento, anzi, si esacerbavano gli animi e s’ingigantivano i problemi. A dire il vero, lui aveva accettato la scelta di dormire in camere separate senza farsene un cruccio in quanto gli consentiva maggior libertà: ad esempio poteva leggere finché voleva, senza sentire i brontolii sommessi di Claudia e lo stesso valeva per lei. In fondo, non erano più due ragazzini, venti anni di vita insieme sono tanti. Ma Claudia non aveva il senso della realtà, era un’irriducibile romantica, con la testa ancor piena di sogni. Certo, la serata passata con Victor e Ingrid, non si era rivelata un successo, anzi, aveva dato il colpo di grazia al loro rapporto traballante. Ancor oggi, però, non riusciva a comprendere il perché dell’assurda gelosia di Claudia. Ingrid era una bella donna è vero, ma lo era anche lei, e con atteggiamenti meno divistici. Forse, avrebbe dovuto dirglielo più spesso. Da troppo tempo ormai, non lo faceva. Già, dimenticava sempre che le donne hanno bisogno di costanti conferme. Comunque, nell’ultimo anno Claudia era cambiata, aveva strani sbalzi di umore, malinconie improvvise. Aveva iniziato ad andare da quella psico-
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loga, che forse, invece di aiutarla a ritrovare il suo equilibrio, le aveva fatto perdere quello che possedeva. Grilli per la testa le aveva messo, null’altro. Come se non bastassero quelli che già aveva. C’era stato perfino un tentativo di convincerlo a partecipare a quelle sedute. A far cosa, si chiedeva? A raccontare i suoi pensieri più intimi, a parlare delle sue debolezze, perché era così che funzionava, no? Beh, erano fatti suoi e tali sarebbero rimasti. E poi, non era mica lui ad avere i problemi. Ma intanto, Claudia non c’era e chissà dove si trovava in quel momento e che le stava accadendo. Sì, doveva ammetterlo, era seriamente preoccupato. Si passò una mano tra i capelli e gli sembrarono insolitamente lunghi: strano, era andato a tagliarli la settimana scorsa. Cercò di distogliere il pensiero da lei, ma, stranamente, non solo non riusciva in quel proposito, ma aveva la strana sensazione che se lo avesse abbandonato, avrebbe perso ogni contatto con lei. Aveva sonno e si stropicciò gli occhi più volte, per evitare che gli si chiudessero: certo, gli mancava la consueta tazza di tè pomeridiana e decise di andare a prepararsela da solo. Ma non era la stessa cosa, doveva ammetterlo. Claudia gli mancava. E non solo per quei piccoli servizi che gli rendevano più comoda la vita, ma era la sua presenza rassicurante e affettuosa di cui ora sentiva la mancanza. Si diresse verso la cucina e passò dall’anticamera, sfilando davanti allo specchio, appeso al muro, quello che tanto piaceva a Claudia. Aveva la cornice in legno scuro, intagliata e lavorata a mano, ricordava che lo avevano acquistato insieme, durante un loro viaggio in Toscana. Come sempre, gettò un’occhiata distratta all’immagine riflessa e sussultò violentemente: chi era l’uomo che vi appariva? Fece un passo indietro, per osservarsi meglio ed ebbe un secondo sussulto. Era lui sicuramente, il volto gli apparteneva, ma non l’espressione, non i capelli e neppure il genere di abbigliamento che indossava. L’uomo che lo guardava era più giovane di lui, bello e abbronzato, i capelli gli scendevano incolti raggiungendo quasi le spalle, indossava una camicia bianca ampiamente aperta sul davanti, che gli lasciava scoperto il torace muscoloso, e inoltre, all’orecchio sinistro, gli pendeva un orecchino, con una pietra che mandava strani bagliori. Stava sognando, non poteva esserci altra spiegazione. Corse in bagno e mise la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda: gli ci voleva una bella rinfrescata e tutto sarebbe ritornato come prima. Magari
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era solo un sogno, anche la fuga di Claudia, l’isola di Hierro e tutto il resto. Si strofinò l’asciugamano con forza e, con una sorta di timore, si guardò nuovamente allo specchio: gli apparve lo stesso uomo di prima, bello, abbronzato, con i lunghi capelli bagnati e l’orecchino appeso al lobo sinistro. No, non si trattava di un sogno, ma di un incubo. Si mosse per andare… dove? In realtà non sapeva da che parte dirigersi, aveva sonno, desiderava abbandonarsi, dormire, dormire, dormire… Si ritrovò così, disteso sul letto della sua camera, a guardare il soffitto che gli girava intorno, ma senza arrecargli fastidio, finché gli occhi si chiusero e giacque così, ammantato da una foschia leggera, soffusa e priva di suoni.
Melinda aprì lentamente gli occhi: aveva sognato durante tutta la notte, forse anche di più. Era circondata dal sole e i suoi raggi tiepidi si posavano su di lei, riscaldandole il corpo. Sorrise al nuovo giorno che l’accoglieva, si sentiva serena, lui era finalmente ritornato e non l’avrebbe lasciata più. Allungò il piede sinistro, fino a toccare la sua gamba e sentì un tuffo al cuore: era veramente lì, accanto a lei, il ritmo lieve del suo respiro le dava sicurezza e gioia insieme. Si avvicinò al suo volto e lo sfiorò con un bacio, leggera come una nuvola, per non destare il suo sonno. Ma lui si svegliò e, senza parlare, la prese tra le braccia e la strinse forte a sé, come a proteggerla dalle intrusioni del mondo, dalle forze di una natura avversa, dalle sue stesse paure. Tutte le ansie che da tempo l’accompagnavano, svanirono immediatamente. Il velo bianco della zanzariera, mosso da una brezza leggera, attutiva il chiarore accecante del sole che inondava tutto. Si sentiva l’odore del mare e si udiva lo sciacquio dolce delle onde. Il fragore della tempesta era un ricordo lontano, i giganteschi cavalloni che l’avevano trascinata, navigatrice solitaria in quella notte senza stelle, erano svaniti, svaporati, come un sogno che non lascia traccia, come gli odori densi, che fuoriuscivano dal vaso di coccio. E il suo letto a baldacchino, che aveva sfidato il furore burrascoso del mare, ora accoglieva entrambi, finalmente insieme, per sempre. Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla dolcezza dell’abbraccio del suo pirata.
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E continuò a navigare nell’oceano profondo e misterioso, sul suo piccolo natante azzurro, con le bianche vele che sventolavano al sole e al vento.
Era ormai buio, quando l’aereo atterrò sulla pista dell’aeroporto di Bologna ed ero molto stanca. Il viaggio di ritorno, da quella mia strana vacanza, mi aveva affaticata più del previsto. O era stato l’ultimo periodo trascorso sull’isola a causarmi quella strana stanchezza? Mi sentivo addosso la febbre, o forse erano i postumi del troppo sole preso durante l’ultimo giorno alla pensione Casa Kai Marino, a causarmi quella spossatezza. “Quando torni? Ho voglia di vederti. Mi sei mancata.” Mi avevano emozionata le sue parole, non mi aspettavo una simile dichiarazione da parte di Alex, dopo le liti furibonde che avevano contraddistinto il nostro ultimo periodo di vita insieme. Per un attimo, uno spiritello maligno mi aveva suggerito di rispondergli con una frase cattiva, sul genere “hai bisogno di qualcuno che ti cucini il pranzo?” Poi, per fortuna, avevo frenato quell’istinto perverso e mi ero limitata a rispondere con un breve e sincero: “Anch’io.” E così, lui sarebbe stato all’aeroporto ad attendermi, per condurmi a cena nel nostro ristorante preferito, dove andavamo in passato a festeggiare i numerosi anniversari: il primo incontro, il matrimonio, i compleanni. Sì, una volta ci eravamo amati con passione, lo ricordavo bene. Poi, era subentrata una certa abitudine, quella malattia che insidia quasi tutti i matrimoni, o le lunghe convivenze. Ma saremmo riusciti a salvare i nostri ricordi più preziosi e ne avremmo inventati altri, per iniziare un sogno nuovo e trasformarlo in un progetto di vita da costruire insieme. Con spirito rinnovato e consapevole, perché si sa, c’è un’età per tutto: anche per gli amori più grandi. Continuavo a riflettere sugli effetti della mia recente vacanza e non riuscivo a capire se i giorni trascorsi a Hierro mi avevano aiutato a ritrovare il mio equilibrio interiore, o se mi avevano, invece confusa di più. Non rammentavo cronologicamente gli avvenimenti, né i luoghi visitati, tanto meno le persone che avevo incontrato. Ricordavo chiaramente soltanto il mio primo giorno, quand’ero atterrata all’aeroporto di Valverde: avevo preso possesso dell’auto all’agenzia di noleggio e guidato fino al porto di La Restinga, dove avevo pernottato alla pensione Casa Kai Marino.
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Poi c’era una strana nebbia nei miei ricordi, con qualche flash improvviso, di tanto in tanto. Solo le sensazioni mi erano rimaste impresse: come lo strano rapporto con il mare, la forte emozione di un amplesso con un uomo la cui esistenza era per me un mistero. A volte lo identificavo come “il pirata”, altre volte la sua immagine coincideva con quella di Alex. Poi, quei vuoti di memoria improvvisamente si riempivano, sembravano reali per qualche attimo e subito svanivano, mi abbandonavano, lasciandomi svuotata, come o più di prima. Forse avevo bisogno di un controllo medico. Chissà se era il caso di riprendere le sedute con la mia amica psicologa. L’impiegato allo sportello mi restituì il passaporto e lo introdussi meccanicamente nella borsetta. Non mi ero quasi accorta di essere sbarcata e di avere già ritirato il mio bagaglio, presa com’ero dai miei pensieri confusi. “Ciao testa rossa.” “Ciao pirata.” Alex mi guardò interrogativamente, senza chiedermi perché lo avevo chiamato così. Meglio, o non avrei saputo cosa rispondergli. Mentre mi abbracciava, sentii un calore dolce riempirmi il cuore e desiderai con tutta me stessa di essere nella nostra casa, e nel nostro letto. “Posso dormire con te questa notte?” “Devi.” Ecco, il solito maschilista. Ma non era il caso di discutere, l’idea mi piaceva molto. Del resto, i pirati sono tutti maschilisti, credo. O no? La serata è stata deliziosa e come per miracolo la stanchezza del viaggio è svanita. Abbiamo cenato a lume di candela, come ai nostri tempi migliori, poi siamo ritornati a casa ed è stato bellissimo. Ho assaporato il piacere di rivedere le mie cose, di toccarle, di risentire la stessa atmosfera di un tempo, di quello migliore, naturalmente. Alex è stato dolcissimo, è riuscito a farmi dimenticare tutti gli antichi rancori, mi ha fatto la corte come una volta, e devo ammetterlo, mi sono sentita di nuovo giovane e piena d’energia, come… come Melinda. E chi è Melinda? Ogni tanto questo nome mi rimbalza nella mente, non so perché. Forse ho visto un film, letto un romanzo, o qualcuno mi ha parlato di lei, non so… Che bello, poter dormire ancora nel mio letto. Beh, dormire non è la parola esatta, non lo abbiamo fatto molto, in verità. Ogni tanto mi svegliavo, nel mezzo della notte e mi sembrava di udire il fragore del mare; a-
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privo gli occhi e riconoscevo la mia stanza di un tempo e l’unico rumore che giungeva alle mie orecchie, era il sottofondo distante del traffico metropolitano, che si perdeva lungo le vie della città. Hierro era lontana, mi appariva in una visione sfocata, tra rocce scure, mare e… quel sentiero scosceso, che portava laggiù, al Pozo de Las Calcosas. Durante uno dei miei risvegli notturni, mi sono alzata, piano, senza fare rumore, per non svegliare Alex. Avevo un lieve malessere alla testa e volevo prendere un cachet, ma non ricordavo dove fossero riposti: ultimamente avevo perso il contatto con la mia casa. Sapevo di averne uno in un taschino del mio portafoglio e in punta di piedi, ho preso la mia borsa e sono andata in cucina per bere un bicchier d’acqua. Ero un po’ stordita e ho frugato a lungo nel vari scomparti del mio portafogli, finché l’ho trovato. Ma, insieme a lui, c’era un altro oggetto, che non mi apparteneva, di cui io non conoscevo l’esistenza. Lo guardo attentamente più volte, apro e chiudo gli occhi per assicurarmi che ciò che sto vedendo è reale: si tratta di un orecchino, sembra un oggetto antico, di valore e la pietra incastonata manda strani bagliori, che catturano il mio sguardo. Io l’ho già visto, ne sono sicura. Non so dove, non so quando, non riesco a ricordare. E il fragore del mare è un improvviso turbinio che irrompe nella mia mente, la riempie di sensazioni, di stupori, di paure. “Ehi! Tutto bene testa rossa?” Alex è sulla porta della cucina e mi guarda con apprensione. D’impeto mi getto tra le sue braccia, cercando la sua protezione. Ma lui sarà in grado di proteggermi dai fantasmi che la mia mente si porta appresso?
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