Quattro ombre azzurre, di Massimo Valentini

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"JQUATTRO OMBRE AZZURRE" di Massimo Valentini

Titolo: QUATTRO OMBRE AZZURRE Autore: Massimo Valentini Genere: Fantascienza Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Opera Prima Pagine: 160 Prezzo: 12,90 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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Massimo Valentini

QUATTRO OMBRE AZZURRE

www.0111edizioni.com


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QUATTRO OMBRE AZZURRE 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Massimo Valentini ISBN 978-88-6307-183-2 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Aprile 2009 da Global Print - Gorgonzola (MI)




Prefazione

Chi decide di tracciare un racconto o un romanzo dovrebbe farlo perché “ha qualcosa da dire e non perché vuol dire qualcosa.” Una sottile differenza di carattere semantico frutto della mente di Francis Scott Fitzgerald che tracciò la linea di confine tra un vero scrittore e chi scrive solamente. Di certo, la sofisticata e caustica creatività di Massimo Valentini lo rende uno scrittore “vero”, un uomo per cui il senso del mistero e un’insopprimibile desiderio di libertà intellettuale costituiscono il massimo scopo della vita. E quel che ha pubblicato finora, da “Alfa e Omega” allo struggente romanzo “Ultima Thule”, rendono atto della sua stupenda capacità descrittiva. Un talento che risulta evidente anche in questo “Quattro ombre azzurre” dove percorre le mille strade di un’unica realtà tracciando le paure, le sfide e le salite che la vita riserva. Il suo è uno stile che può essere definito leggero e vigoroso insieme. E questi racconti, che non esito a definire autentiche perle, trattano grandi temi come la sovrapposizione della morte alla vita, il perdersi e il ritrovarsi, cercare la via che porta all’Essenza senza la presunzione di lanciare un messaggio univoco. Già, perché la verità, come insegna Valentini nelle sue presentazioni, non è mai assoluta. Ed infatti in “Soffio Vitale”, “Logica di Mercato”, “Frammento del passato” e “Il mondo delle bambole”, lo scrittore non vuole insegnare ma suscita possenti reazioni emotive in chi legge. Permette a chi si accosta alla sua narrativa di capire e aprire la mente, rispettando in pieno il precetto di Joseph Conrad quando affermava che "il compito che mi spetta e che cerco di assolvere è di riuscire, con il potere della parola scritta, a farvi UDIRE, a farvi SENTIRE… Di riuscire, insomma, a farvi VEDERE.” Che siano uomini di scienza, semplici cittadini o antieroi, i protagonisti di queste quattro storie hanno una cosa in comune: la capacità di mantenere la purezza critica nei confronti di una società orientata solo al potere affrontandola a muso duro e diventandone, a volte, anche vittime. Questo concorre a fare di questo libro un’opera che seduce il lettore con un vortice dalle più disparate emozioni, come se tutti gli elementi naturali si scatenassero contemporaneamente e cambiassero il destino di chi non si sente ar-


tefice del proprio. “Quattro Ombre Azzurre” mostra prepotente l’insicurezza dell’essere umano che si evolve e, a sue spese, impara che è necessario andare oltre le apparenze di una realtà che sembra perfetta ma non lo è. Un libro da leggere senza mai fermarsi e da rileggere per sempre, scritto perché il mondo possa continuare a sognare e, soprattutto, a riflettere. Antonella Caruso, giornalista


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Soffio Vitale “Sono convinto che il Sé o l’Anima dell’uomo non sia soggetta alle leggi dello spazio e del tempo.” Jung

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Sono sempre stato uno scienziato piuttosto serio, lontano anni luce da molti miei colleghi più interessati al prestigio personale che alle proprie ricerche. Come uomo di scienza, inoltre, non mi sono mai avvicinato al mondo del trascendente né al misticismo, roba che per me è più vicina alla frode di qualsiasi altra cosa. Il mio credo è la Scienza e quel che essa rappresenta, ovvero tutto quello che può essere sperimentato e misurato senza possibilità di dubbio. Come fisico, sono interessato per motivi professionali alla struttura dell’universo e godo di una certa notorietà nel mio ambiente. Logico quindi, che una persona come me si circondi di amicizie dotate di una personalità il più possibile scevra da preconcetti. Eppure, il mio migliore amico era tutto tranne che razionale. Roger, infatti, pur disponendo di un notevole acume rimaneva un testardo dualista, cosa che a volte rappresentava il punto cruciale di molte nostre discussioni. Diversamente dal sottoscritto, abbastanza pignolo su molti aspetti della propria vita, Roger appariva trasandato, intollerante alle mode, alle convenzioni e agli obblighi della società contemporanea. Apprezzavo questo aspetto della sua personalità, anche se il suo essere fuori dagli schemi faceva spesso e volentieri uscire dai gangheri il rettore della nostra università. Ambientalista e fiero avversario della caotica vita metropolitana, Roger aveva comprato un boschetto limitrofo alla nostra città per salvarlo dalla cementificazione selvaggia. Là aveva eretto una casetta dove viveva insieme alla moglie nel più completo isolamento. Molte volte mi aveva invitato a trascorrere qualche ora in un


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ambiente più vicino alla vita ideale come amava dire, mangiando salsicce rosolate al fuoco e bevendo tè verde in abbondanza. Fin dall’inizio della nostra amicizia, e ormai si tratta di parecchi anni, Roger aveva sempre trascorso la maggior parte della propria vita professionale dedicandosi allo studio della grande esplosione che miliardi di anni fa diede il via all’universo come noi lo conosciamo, il Big Bang. Materia questa, che attira la maggioranza dei fisici, compreso il sottoscritto, ma che per Roger aveva una valenza speciale dato che, a parte poche eccezioni, non trascurò mai di lavorarci sopra. Il lato che più lo affascinava era il sapore teologico che può essere applicato a questa teoria. Essa infatti prevede che non solo la materia, ma anche il tempo abbia avuto ufficialmente origine da una singolarità nuda quantistica, ovvero qualcosa che, detto in soldoni, significa che il cosmo è letteralmente fuoriuscito dal nulla all’esistenza. Creatio ex nihilo, Creazione dal nulla, appunto. Ê semplice applicare il concetto di Creazione soprannaturale al Big bang, in quanto esso si accoda all’idea agostiniana di un Dio atemporale e immutabile che esiste al di fuori del tempo e dello spazio. Roger ed io abbiamo discusso per anni di questo argomento: lo abbiamo fatto in privato, a casa sua, mentre sua moglie Stephanie serviva il suo piatto preferito, bistecche di manzo e patatine fritte. Ne abbiamo parlato nelle varie conferenze per confutare le più disparate ipotesi su un universo detto stazionario, cioè eterno, senza un inizio o una fine, non originato da un evento che appare molto simile a un atto divino. Devo dire che personalmente non ho mai condiviso le idee del mio amico fino in fondo, ma ne ho sempre apprezzato il lato allegro del carattere il cui segno più evidente era il sorriso sempre pronto. Tuttavia, dal giorno che vide la moglie morire in un banale incidente d’auto, non ho mai più rivisto quel sorriso. Roger aveva amato molto Stephanie, una donna minuta e gentile, non bella ma affascinante. Era una persona valida sia in senso professionale che umano ed era una mia ottima amica. Roger l’aveva conosciuta a Psichiatria, dove lei si sarebbe laureata qualche anno più tardi. Quando lo incontrai per la prima volta era già fidanzato con la sua futura moglie; avevano praticamente iniziato e terminato gli studi insieme. La sua morte lo scosse moltissimo naturalmente e dopo il funerale non lo vidi più per parecchio tempo. Aveva chiesto e ottenuto un breve periodo di ferie causa un esaurimento nervoso, ma non doveva passarsela bene perché estese le sue vacanze forzate più volte nel corso dell’anno. Ciò ebbe molte ripercussioni che


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gravarono profondamente sulla sua carriera all’università, ma Roger non sembrava importarsi molto di questo aspetto. Per quanto mi riguarda, mi preoccupai per le sue condizioni psicofisiche, e così lo andai a trovare alcune volte. In una di queste occasioni mi rivelò di accusare dei dolori al ventre e al petto, a causa della grave tensione che lo aveva minato dopo la morte della moglie. Capitava spesso che, quando andavo a trovarlo, mi facesse capire che preferiva rimanere solo e così non insistevo. Nonostante tutto la nostra amicizia non si affievolì perché, se non altro, ci sentivamo per telefono o tramite posta elettronica e così ho potuto fornirgli almeno un modesto aiuto morale. Per fortuna le sue ripetute assenze dal laboratorio non gli impedirono di mantenere la soglia minima di pubblicazioni che doveva realizzare per conservare la cattedra in Fisica Quantistica. Ciononostante, ogni volta che ci sentivamo non mancavo di fargli rilevare come questa situazione non sarebbe potuta durare ancora per molto tempo. Discutevamo spesso, a quell’epoca, della sua ostinazione a non tornare alla vita di sempre. Ma tutte le volte le nostre conversazioni subivano un brusco arresto, poiché Roger non voleva in alcun modo parlare della moglie scomparsa. Riuscii a convincerlo a ripensare alla sua posizione solo 4 anni fa quando ricominciò a farsi vedere alle lezioni. Aveva un aspetto emaciato e pallido, ma conservava gli occhi acuti di sempre. Andava di fretta e purtroppo anch’io dovevo ancora tenere la mia usuale lezione di Fisica del giovedì, così parlammo molto poco. Mi disse che in quel periodo stava lavorando a una idea innovativa, ma in quel momento non poté dirmi di più. Non accennò minimamente a qualsiasi cosa riguardasse Stephanie. Che la ferita che aveva nel cuore stesse cominciando a rimarginarsi? Non lo credevo, ma sperai che fosse così. In realtà non sapevo ancora che era stata proprio la morte di sua moglie il meccanismo che avrebbe dato il via agli eventi che sarebbero seguiti anche se, allora, non ne avevo la più pallida idea.


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Quando lo incontrai di nuovo aveva appena terminato la sua lezione ed era stranamente agitato. Stava discutendo animatamente con un’altra persona, un uomo che non avevo mai visto prima e che di certo non rientrava fra le sue amicizie abituali. Alto un po' meno di me, dai lineamenti marcati e una folta barba perfettamente curata, rispetto a Roger sembrava un elegantone. Si accomiatarono prima che potessi raggiungerli, così chiesi al mio amico chi fosse quel tizio: “Non capiresti!” Mi rispose con aria sibillina. “Non sapevo di essere diventato stupido all’improvviso, dottor Ellis.” Roger sorrise: “Ma non si tratta di questo: è solo che abbiamo discusso di cose che tu non approvi, tutto qui. Hai da fare?” “Non per il momento. Ho finito la mia lezione, non ho impegni in laboratorio né orario di ricevimento. In effetti pensavo di mangiare un boccone a mensa con te, dato che mezzogiorno è passato da un pezzo.” “Ê una buona idea!” Sbottò, “Verrò volentieri, ma non credere che non abbia capito il tuo gioco.” “Lo so che lo hai capito!” Sorrisi, “Ma a costo di apparirti invadente ti farò qualche domanda facile facile!” “Ci avrei scommesso, Alan, ma non ti risponderò se prima non mi prometterai di non discutere con me come al tuo solito.” “D’accordo!” Risposi, “Andiamo a mensa, intanto!” Ci avviammo verso il corridoio che ci avrebbe portato fuori dall’edificio dove sono raggruppate le aule della nostra facoltà parlando di cose amene come il tempo e le ultime notizie sportive. Roger non accennò neanche di sfuggita a Stephanie e questo non poté che farmi piacere. Quando arrivammo in sala mensa scoprimmo che gran parte delle pietanze era terminata, cosa del resto fin troppo prevedibile, data l’ora tarda. Roger si accontentò di pollo fritto e patatine mentre io scelsi un po' di spaghetti al pomodoro e, in mancanza di una bistecca, un hamburger. Innaffiammo il tutto con acqua minerale e portammo il nostro magro pasto a uno dei pochissimi tavoli ancora liberi: “Dunque!” Cominciò Roger, scartando rumorosamente le posate di pla-


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stica, “Da cosa vuoi cominciare?” Forse non intendeva darlo a vedere, ma era evidente una gran voglia di raccontarsi nel tono delle sue parole. Decisi di stare al suo gioco: “Tu cosa vuoi dirmi?” Roger mi guardò, ma riuscì comunque a mandare giù il suo primo boccone: “Sto lavorando a un’idea decisamente innovativa, ma non voglio che trapeli nulla fino a Harrison, sai com’è sospettoso nei miei confronti. Quell’idiota rischierebbe di rovinare tutto!” “Non ha tutti i torti!” Mormorai, “Ricordo ancora quella volta in cui facesti saltare mezzo laboratorio in aria a causa dei tuoi esperimenti sul flusso gravitazionale. Ci vollero trecentomila bigliettoni per rimettere tutto a posto e tu stesso ti salvasti a stento dall’essere cacciato fuori di qui senza tanti complimenti!” Roger liquidò la mia osservazione con un insolente gesto della mano: “Fu un manicotto non costruito secondo le specifiche, lo sai bene. Io non lo sapevo , così ci scappò il botto!” “Poteva scapparci anche qualche decesso, però!” “Alan, Alan!” Mi fermò con il suo solito fare accomodante: “Questa è roba vecchia.” “Che però lascia il segno!” “Oh, insomma: vuoi che ti spieghi tutto o no?” Inghiottii una forchettata di pasta e lo guardai: “D’accordo, vai avanti.” “Tu conosci bene la meccanica quantistica e i paradossi che essa solleva, no?” Annuii, ma non aggiunsi nulla. Volevo vedere dove intendeva arrivare: “Ebbene, penso di aver scoperto qualcosa di nuovo che riguarda la nostra stessa essenza ma che sfrutta i principi quantici per esistere.” “Stai parlando per enigmi!” Osservai. Roger posò per un attimo la forchetta sul piatto: “Non so se potrai accettare quanto ti dirò, ma sei il migliore amico che possieda e non è che negli ultimi tempi io ne abbia tanti di amici. Se ti rivelo questa cosa prometti che non dirai nulla a nessuno nel caso non fossi convinto?” “Non devi neanche dirlo, certo che te lo prometto. Avanti, sputa tutto.” Sospirò rumorosamente, guardandosi velocemente intorno, come se temesse di essere sorvegliato da qualcuno: “Da quando Stephanie è morta”, iniziò, “Sono rimasto ossessionato dall’idea della morte. Ho cominciato a studiare il più possibile sui fenomeni fisiologici che avvengono quando si muore cercando anche in testi non propri ortodossi. Tu


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sai che sono rimasto lontano dall’università per più di un anno e sai anche che il mio isolamento è stato praticamente completo in questo periodo.” “Si, un paio di volte mi hai anche messo gentilmente alla porta!” “Ti chiedo scusa, ma il fatto è che avevo bisogno di concentrazione e tu hai una mente troppo rigorosa, troppo scientifica.” “Ancora non ho capito se questa è un osservazione o una critica, ma ti concedo di continuare la tua esposizione.” Il mio amico fece un sorrisetto di sfida: “Per farla breve, ho letto tutto il possibile su quello che la scienza ufficiale conosce sulla morte insieme alle ultimissime teorie sul cervello umano. Non ho bisogno di dirti che lo studio della coscienza è ancora drammaticamente in alto mare, ma esistono altrettanti indizi non corroborati da prove certe che sembrano maledettamente convincenti. Tu lo sai, Alan, io sono famoso per le mie idee decisamente eccentriche. Ho quindi cominciato ad abbozzare qualche spunto su un certo progetto di ricerca che però non ha molti contatti con la scienza ortodossa. Ho anche contattato diversi neurobiologi e anche alcuni fisici per i dettagli più complicati delle loro teorie. Alcuni si sono dimostrati pronti a darmi una mano, altri hanno temuto di mettere troppo a repentaglio le loro carriere se mi avessero appoggiato. Poi ho pensato a te e...” “Stai cercando di dimostrare l’esistenza dell’anima, per caso?” Lo interruppi a bruciapelo. Un altro avrebbe forse negato, ma non Roger Ellis: “Qualcosa del genere, amico mio, qualcosa del genere.” Tacque per qualche istante, osservandomi con interesse: “Va’ avanti!” Lo incoraggiai. “Pensavo…” “…che dicessi qualcosa tipo sei pazzo o roba del genere?” Tagliai allora corto io. Roger fece spallucce: “Eh, più o meno!” “Eh no, caro: prima voglio vedere dove vuoi andare a parare!” “Allora ti dirò tutto: voglio studiare il modo di scoprire l’esistenza dell’anima!” Notai che parlava con veemenza, come faceva tutte le volte che si dedicava a un progetto che lo appassionava. Stavolta, però, mi pareva che si fosse spinto troppo oltre: “Chi era quell’uomo con il quale parlavi prima?” “Un resuscitato”!


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“Un... cosa?” “Beh, è una delle tantissime persone che ha sperimentato una NDE”! La parola mi ricordava qualcosa: “Ti riferisci a quelle persone che sono state dichiarate morte e che poi sono tornate in vita?” “Proprio a quelle: hanno sperimentato una NDE, ovvero una esperienza prossima alla morte.” “Interessante!” Commentai. “Raccontala a un altro! Lo so cosa stai pensando: come mai m’interesso a queste cose!” Scossi il capo: “Il perché è evidente, ma non credi che tutto questo sia insufficiente per far tornare Stephanie in vita?” Forse fui un po' troppo violento nel dirlo, ma quello era il mio pensiero e non volevo che il mio amico più caro potesse provare altro dolore attraverso un probabile fallimento. Roger allontanò il piatto da sé, ma non incrociò il mio sguardo. Capii di averlo ferito e me ne dispiacque, ma era meglio così piuttosto che assecondarlo nelle sue fantasie: “Non sono sciocchezze!” Sbottò, “Anche se può sembrarti assurdo, io credo alle esperienze di pre-morte. Sono troppo stupefacenti perché quattro idioti in un laboratorio possano liquidarle come scherzi della mente, assunzione di droghe e scemenze del genere!” Era davvero alterato, ma lo ignorai: “Ho letto qualcosa su questa roba, qualche libro, alcuni testi di neurobiologi interessati alle loro possibili implicazioni sul cervello, ma sono solo aneddoti, Roger, e gli aneddoti non hanno valore scientifico.” “No!” Disse in tono duro: “Il fatto è che la tua mente è troppo convenzionale, per niente aperta!” La gente stava cominciando a osservarci e la cosa non mi piacque affatto. Quella conversazione rischiava di diventare troppo rischiosa e glielo feci notare. Roger annuì: “Usciamo di qui!” Disse con veemenza. Senza darmi il tempo di rispondere si alzò e non mi rimase altro da fare che seguirlo velocemente fuori dalla mensa. Uno dopo l’altro, in fila indiana, percorremmo il lungo corridoio che portava ai laboratori di fisica e poi svoltammo a sinistra, verso una delle uscite. Mentre camminavamo a passo spedito lo affiancai ma non dissi niente. Quando uscimmo dall’edificio ci dirigemmo verso il campus per raggiungere il quale si deve prima oltrepassare un ampio spazio verde. Ci sedemmo a una delle poche panchine libere, a sufficiente distanza da alcuni studenti che parlottavano fra loro. Roger mi guardò: “Forse ho fatto un errore a par-


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larti di queste cose.” “Non dirò niente a nessuno, sta’ tranquillo.” Risposi ironico. “Sei così zelante nel tuo lavoro da non considerare degno di rispetto neanche chi la pensa in modo diverso da te?” Sembrava provare un sadico piacere a stuzzicare la gente in quel modo così passai al contrattacco: “Stammi bene a sentire e fa’ attenzione perché te lo dirò una volta sola!” Stavolta era il mio turno di alterarmi: “Io sono uno scienziato e lo sei anche tu! Non siamo filosofi, psichiatri e nemmeno comportamentisti: siamo fisici. Niente mi farebbe più piacere che sapere che esiste realmente una vita dopo la morte, ma dobbiamo guardare in faccia la realtà: non possiamo appellarci a niente che non sia dimostrabile in un maledetto laboratorio!” “Allora credi che le vere scoperte si fanno soltanto seguendo il rigido metodo scientifico?” “Esatto!” “Non sono d’accordo, amico mio. Secondo me serve qualcosa di più che la mera applicazione di un principio. Io credo che il progresso scientifico non sia semplicemente il parto dello studio rigoroso di un problema, quanto il risultato di una idea originale che spiani la via a tale studio. Pensa alla penicillina, alla gomma vulcanizzata, alla stessa radiazione di fondo che costituisce la prova del Big Bang! Tutte queste scoperte sono state fortuite, non previste su un tavolo da disegno.” “Non sono le sole!” Stavo cominciando a rilassarmi: “Molte altre sono state previste grazie a complesse formule matematiche, per esempio. Inoltre è fuor di dubbio che la radiazione cosmica del Big Bang, la penicillina e tutto il resto siano cose dimostrabili tramite l’analisi scientifica. Ma qualcosa di elusivo come le esperienze di cui parli non sono spiegabili a priori. Non esiste il punto di vista obiettivo, in terza persona, riguardo a esse. La scienza avanza altre possibili cause e...” “Ma non può provarle!” “Non può farlo neanche chi ci crede!” Obiettai. “Proprio questo è il punto: è una questione di fede. Esattamente come il pensare che il Big Bang sia scaturito dall’atto iniziale della Creazione, come il Principio Antropico che afferma che l’universo è troppo finemente organizzato per essere fortuito. Ma bisogna crederci, qui sta la differenza tra me e te. Un qualsiasi scienziato d’infima categoria può avanzare una teoria solo apparentemente più logica di queste ma non può provarla come non posso fare io.” Trasse un profondo respiro, co-


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me se si fosse liberato da un peso sul cuore: “Ma io voglio crederci, Alan, è un desiderio che provo nel più profondo del mio essere. Io devo sapere se Stephanie esiste ancora, cerca di capirmi!” Ciò detto tacque, chinando il capo. Gli posai una mano su una spalla e per qualche minuto condivisi il suo silenzio, non sapendo cosa dire. Guardai il cielo sereno di quella mattina primaverile e desiderai non essere lì, non vederlo in quello stato. Poi, come se quella discussione non fosse mai accaduta, tornò a incrociare il mio sguardo e cominciò: “Mi serve il tuo aiuto.” Pensai che scherzasse: “Cosa?” “Sei un fisico specializzato in quantistica, mi sembra.” “Non riesco a capire come possa aiutarti in tutto questo: cosa centra la meccanica quantistica con questa roba?” “Potrebbe essere più importante di quanto pensi.” “E chi sono gli altri? Hai detto che hai contattato altra gente.” “Ho parlato con Robert Chesterfield e Patrich Johnson. In più sono in contatto con una persona che ha già provato queste esperienze.” Ero inebetito: “Hai parlato davvero con loro?” Roger annuì. “E ti hanno dato il loro appoggio?” Annuì di nuovo. Conoscevo di vista le persone che aveva nominato e sapevo che erano molto conosciute nel loro campo. Chesterfield era un famoso neurobiologo impegnato da anni nello studio dei meccanismi cerebrali mentre Johnson era un neurofisiologo autore di una teoria molto inusuale sulla coscienza. Egli prospettava che la mente umana utilizzi la meccanica quantistica per funzionare ed era un convinto dualista. Il genere di persone che poteva pensarla come Roger ma secondo me troppo in vista per rischiare la faccia in un progetto sconsiderato come quello. Eppure sembrava proprio che fossero d’accordo: “Unisciti a noi”! Propose allora il mio amico, “Sei un ottimo ricercatore e voglio farti partecipe di questo progetto.” “Sai cosa mi stai chiedendo, vero?” Risposi sospettoso. “Lo so e per questo non posso obbligarti. Dovremo muoverci con estrema cautela per non far conoscere il progetto nei dettagli a osservatori esterni, ma se sarai dei nostri ne sarò felice.” Ci pensai sopra qualche secondo. Roger era mio amico ma dovevo pensare anche alla mia vita professionale. Non sono sposato né impegnato sentimentalmente; non ho quindi responsabilità verso una famiglia, ma


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ne avevo comunque verso me stesso: “Puoi farmi vedere qualcosa che si avvicina a una prova su queste esperienze?” “Sapevo che me lo avresti chiesto.” “Tu rispondimi solo si o no!” Risposi con fare aggressivo. “Una prova indiretta penso di potertela far vedere.” Si alzò dalla panchina e si stiracchiò come se niente fosse. Poi si voltò verso di me: “Saresti disponibile, diciamo, tra un paio di giorni?” “Per fare cosa?” “Per vedere la tua prova!” “Lo so che me ne pentirò!” Mormorai, “Va bene! Sono proprio curioso di sapere cosa escogiterai questa volta.” “Ottimo!” Rispose di rimando, “Penso che ti stupirai non poco. Ora devo andare, sono in ritardo per la mia lezione del primo pomeriggio. Ci vediamo tra un paio di giorni, d’accordo?” “D’accordo!” Ripetei, ma era già lontano, diretto di corsa verso il campus. Lo guardai percorrere di buona lena il tragitto finché non sparì all’interno dell’edificio, inghiottito dalle porte ad ante scorrevoli. Me ne restai seduto ancora un po', leggermente pensieroso: “Johnson e Chesterfield”! Dissi ad alta voce, come se stessi parlando con un interlocutore invisibile. Lanciai un’ultima occhiata al campus poi mi voltai e, lentamente, andai verso il parcheggio.


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III

Il posto che Roger aveva scelto per il nostro incontro era inusuale, ma era un dettaglio che avevo messo in conto, conoscendo il suo carattere piuttosto bizzarro. Si trattava dell’Hermitage Hospital, sulla sesta strada vicino Benefit Street. Al telefonino non volle anticiparmi nulla, ma ero atteso al reparto di rianimazione. Mi vestii con una certa fretta e uscii di casa. Abito in un palazzo non troppo lontano dal centro di Los Angeles, così impiegai un po' di tempo per raggiungere l’Hermitage che si trova in periferia. Quando arrivai, fermai la mia Mustang nel parcheggio coperto e cominciai a cercare il reparto. Non conoscendo quell’istituto dovetti chiedere al personale per sapere dove si trovava il reparto che m’interessava, cosa che mi fece perdere un po’ di tempo. Un infermiere si insospettì e mi chiese se stessi cercando qualcuno: “Mi chiamo Alan Grant e sto cercando il dottor Ellis: mi ha detto che avrei potuto trovarlo vicino al reparto di rianimazione.” “Ah, è per la riunione sulle nuove tecniche cardiache?” Non sapevo cosa avesse architettato Roger stavolta, così annuii senza aggiungere altro. Credevo che di lì a poco quel tizio mi avesse chiesto di andarmene e, invece, con mia somma sorpresa mi fornì l’informazione che cercavo. Seppi così che la mia destinazione si trovava al terzo piano, proprio sopra il reparto di cardiochirurgia. Lo ringraziai e proseguii per la mia strada. Quando raggiunsi il terzo livello vidi il mio amico venirmi incontro con un largo sorriso dipinto sul volto. Sembrava euforico e mi abbracciò come se non mi vedesse da un pezzo: “Ehi ehi, Alan!” Esordì, “Allora ce l’hai fatta a venire fin qui!” “Troppa grazia!” Dissi liberandomi dalla sua stretta ferrea, “Cosa cavolo stai combinando?” “Sempre sospettoso, eh? Vieni con me!” Lo seguii facendomi largo fra il personale medico e paramedico del reparto e lo vidi aprire una porta ed entrare. Quando feci altrettanto mi ritrovai in una sala di medie dimensioni attrezzata per videoconferenze. Notai quattro persone, tra le quali Patrich Johnson e Robert Chester-


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field. Riconobbi anche l’uomo che avevo visto parlare con Roger qualche giorno prima, ma non l’altra persona, un uomo alto e vigoroso che aveva tutta l’aria di essere un medico: “Ê un piacere per me vedervi, signori!” Esordii, stringendo loro a turno la mano. “Noi ci siamo già visti, dottor Grant!” Esclamò Chesterfield, “Alla conferenza dell’università di Yale sulle possibilità di incontro fra la fisica e la biologia, se non erro.” “Esatto! In quell’occasione feci un intervento in cui spiegavo perché, secondo me, un tale incontro non è possibile.” “Non sono d’accordo con le sue conclusioni ma ho apprezzato comunque la sua chiarezza espositiva.” Lo ringraziai: “Alan!” Intervenne Roger, “Permettimi di presentarti il dottor John McPherson, cardiologo.” Strinsi la mano di quell’uomo alto e vigoroso, mentre Roger continuava a parlare: “Nel corso della sua attività ospedaliera il dottor McPherson ha avuto parecchie occasioni di rianimare persone che avevano subito un arresto cardiaco. Molti dei suoi pazienti gli hanno rivelato in seguito di aver sperimentato una NDE.” “Le Near Death Experiences sono il mio pane quotidiano, ormai.” Sorrise questi. “Questi è invece il signor Richard Price, consulente per una grossa compagnia assicurativa.” Aveva continuato Roger, “Ê stato un paziente del dottor McPherson.” “Piacere!” Dissi. Stavo per parlare ma il mio amico mi precedette: “Vogliamo accomodarci?” Indicò un tavolo per conferenze posizionato al centro della stanza. Imitai gli altri e sedetti accanto al signor Price. Solo allora vidi che il dottor McPherson aveva con sé una borsa dalla quale trasse una considerevole quantità di documenti: “Bene signori!” Cominciò il nostro bizzarro anfitrione, “Prima di tutto ringrazio tutti voi di essere qui, oggi. Il vostro aiuto mi è indispensabile per garantire il successo del progetto che intendo portare avanti.” Uno degli astanti fece capire a Roger che voleva intervenire. Era McPherson: “Dottor Ellis”, Cominciò con un certo sussiego, “Prima che cominci a esporre la sua tesi vorrei chiarire la mia posizione...” “Non si preoccupi: se avrà la bontà di lasciarmi finire le spiegherò anche perché ho bisogno di lei. Poi, se vorrà, potrà decidere se ritirarsi o


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partecipare.” L’uomo assentì e lasciò che Roger continuasse a parlare: “Dunque!” cominciò, “Il mio scopo è quello di provare in modo inequivocabile se la coscienza umana è un entità indipendente dal corpo oppure se scaturisce dal nostro cervello.” I presenti cominciarono a mormorare e immaginai che Roger non avesse veramente detto proprio tutto a Chesterfield e Johnson, almeno a giudicare dalle espressioni a dir poco stupefatte che fecero. Confesso che, in quel momento, non avrei dato un soldo per le possibilità di successo del suo progetto: “Vi prego, signori, cercate di seguirmi solo per qualche minuto. Voi tutti siete in qualche modo collegati al campo che intendo esplorare e pertanto indispensabili per il mio progetto. Lei, dottor Johnson, ha ideato un’ardita teoria sulla meccanica quantistica e la mente umana mentre lei, dottor Chesterfield, è convinto che il cervello colleghi soltanto la mente al mondo fisico, ma non la origini. Tu, Alan, sei come me un ottimo fisico specializzato in quantistica e, grazie al tuo rigore metodologico potresti assicurare la precisione indispensabile agli esperimenti. Da parte sua, dottor McPherson, potrebbe assumersi la responsabilità del necessario punto di vista medico. Infine lei, signor Price, potrebbe esserci d’aiuto con la sua esperienza e i suoi consigli. Intendiamoci: è da quando la Filosofia è nata che si discute sulla mente e sull’anima e il mio progetto non può e non vuole essere definitivo.” A questo punto tacque, fissandoci a turno quasi volesse rendersi personalmente conto dei nostri pensieri. Diversamente da quanto mi aspettavo nessuno disse una parola e anzi lo guardarono con una certa attenzione. Roger ricominciò a parlare: “Vista l’evidente delicatezza della materia che intendo affrontare ho pensato di non divulgare l’esistenza di questo progetto. Non è infatti il caso di ricordarvi l’ostilità del mondo accademico su una ricerca del genere che molti scienziati definirebbero assai poco scientifica.” “Naturalmente!” assentì McPherson, “Ne andrebbero di mezzo le carriere di tutti se non riuscissimo a produrre risultati di un certo rilievo.” “Per questo siete qui. Voi tutti mi avete assicurato il vostro aiuto, ma non siete tenuti in alcun modo a rispettare tale promessa. C’è qualcuno, fra voi, che intende ripensarci?” Mi aspettavo che facesse marcia indietro la totalità delle persone presenti invece con mia somma sorpresa nessuno fiatò. Ero sbalordito dalla


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piega che stava assumendo la cosa e lo dissi: “Spero che vi rendiate conto di cosa significherebbe l’eventuale fallimento di una cosa del genere!” Esordii, “non potremmo più entrare in un laboratorio senza venire tacciati di ciarlataneria o qualcosa del genere.” “Alan...” Aveva cominciato Roger, evidentemente scocciato del mio intervento, ma lo ignorai: “Signori, cerchiamo di essere concreti, per favore. Da quali basi partiremmo? Lei dottor Johnson e lei dottor Chesterfield sapete benissimo cosa intendo dire!” “Ha ragione, dottor Grant!” Rispose Chesterfield, “la mia teoria basata sui microtubuli ha incontrato molte critiche a causa del fatto che la stessa materia su cui si basa, la meccanica quantistica, è ancora piuttosto sconcertante. Ma vede, personalmente mi stuzzica molto l’idea del suo amico e credo che anche Johnson sia d’accordo.” L’altro annuì: “Completamente! Io sono un dualista e mi sono fatto le ossa sulla neurobiologia umana arrivando alla conclusione che il cervello non origina la coscienza ma è collegato a essa. A causa delle mie idee pochi apprezzano il punto di vista al quale sono giunto. Per contro, anche gli scienziati convinti dell’origine biologica della coscienza si arenano davanti a problemi ancora insormontabili. Di conseguenza fino a quando qualcuno non mi porterà prove certe che la biologia avrà vinto sul dualismo in questo ambito manterrò la mia attuale posizione. Naturalmente sono consapevole che questo progetto è altamente speculativo, ma non vedo alcun problema a tentarlo lo stesso se il dottor Ellis ci assicurerà l’anonimato.” “Assolutamente!” “Non sono d’accordo!” Intervenni ancora io, testardo. Roger mi guardò fisso, ma non fiatò mentre fu Chesterfield a parlare: “Cosa c’è che la impensierisce?” “La nostra presunzione! Sedute a questo tavolo ci sono personalità di spicco nello studio del cervello umano, ma io e Roger non siamo soliti studiare i neuroni quanto la fisica delle particelle.” “Noi ci occuperemmo del nostro campo, Alan!” Disse Roger, “Integrando i nostri risultati con quelli dei signori Chesterfield e Johnson.” “Non sto dicendo solo questo, lasciami finire!” Guardai fisso i miei interlocutori: “Anche se questo progetto fosse portato avanti dalla totalità degli scienziati che sulla Terra si occupano di questo campo dubito che si arriverebbe a qualche risultato, soprattutto nel volgere di poco tempo. Quanti anni sono trascorsi da quando Cartesio esclamò il suo famoso


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principio, Cogito ergo sum? Da allora sono stati fatti parecchi progressi sul funzionamento del sistema nervoso, ma siamo arrivati alla scoperta definitiva? Siamo davvero in grado di dire che l’anima non esiste o viceversa? Ve lo dico io, signori: no! Forse sto facendo la parte del menagramo in questa riunione, ma vorrei rassicurarvi del fatto che personalmente detesto quegli idioti che credono di giocare a fare Dio in un laboratorio di cibernetica e non credo che un qualsiasi computer fatto di silicio o di altro materiale potrà mai arrivare all’autoconsapevolezza. Ma non per questo penso di essere all’altezza di un simile compito. Se la mente è davvero immateriale, allora la nostra scienza si fermerà davanti a essa, impotente. Ma se dovesse essere meramente biologica, riproducibile o meno non importa, allora lo scientismo avrà vinto e potremo tornarcene a casa a mani vuote.” “Le sfugge un dettaglio, però.” Intervenne McPherson, “Se l’anima esistesse davvero cosa le fa credere che la scienza sarebbe disposta ad ammetterlo?” “Acuta osservazione!” Aggiunse Roger. “Sarebbe difficile anche in quel caso, immagino.” Risposi io, un po’ confuso. L’uomo si accomodò meglio sulla sedia, poi disse: “Se per caso scoprissi che l’anima esiste ed è analizzabile, lei pensa che se le portassi i dati mi crederebbe? In altre parole: lei non direbbe che ho sbagliato gli esperimenti, non avanzerebbe teorie differenti in modo tale da non dover invocare a tutti i costi un’entità così stupefacente?” Detto questo tacque mentre un mormorio si levava dagli astanti. Tutti mi fissavano in attesa della mia risposta: “Probabilmente!” Ammisi con franchezza, “Ma è nella natura della scienza rifiutare qualsiasi spiegazione irrazionale: è in questo modo che avanza il sapere, non credendo alle leggende.” Il cardiologo non si scompose, ma aprì la valigetta in pelle che aveva posato sul tavolo e ne trasse una serie di cartelle che passò a ciascuno dei presenti. Chiesi di cosa si trattasse, ma fu Roger a rispondere: “Sono la prova che ti avevo promesso.” Afferrai qualcuno di quei fogli ma il medico obiettò: “La prego di non leggere niente per il momento. Prima vorrei farle sentire qualcosa che spero troverà interessante.” “Sta forse parlando di una prova? Dov’è?” Chiesi con garbo: “Alla sua destra!” Fu la sua risposta. Il signor Price, che fino ad allora non aveva parlato, mi sorrise affabil-


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mente: “Credo che ciò che il dottore voglia dire è di raccontare la mia esperienza.” “Va bene!” Risposi, “Cominci pure.” “Ero a casa quel giorno, appena uscito da un’intensa giornata di lavoro.” Price parlava con tranquillità, come una persona che guardasse alle cose che gli accadono intorno con un certo distacco. Cominciavo a capire il perché, mentre continuava nel suo racconto: “Stavo chiacchierando con mia moglie e alcuni amici nel salotto di casa mia. Ad un tratto avvertii quel dolore al petto e al braccio sinistro. Non capii subito che si trattava di un infarto, pensai che forse ero stressato. Muriel, mia moglie, mi fece stendere sul divano, poi mi diede un sedativo.” Scosse la testa: “Non servì a nulla perché cominciai sentirmi sempre peggio, cosa che spinse mia moglie a chiamare un’ambulanza. Fui trasportato d’urgenza in sala rianimazione. Feci appena in tempo a vedere il dottor McPherson, poi ebbi un altro attacco e persi conoscenza.” Lo disse con un tono talmente naturale che sembrava parlare di un’altra persona. Gli esternai il mio pensiero e il signor Price mi rivolse un altro dei suoi pragmatici sorrisi: “Ha presente il buio, dottor Grant? La sola cosa che mi venne in mente fu che era finita. Poi, non saprei dire quando, mi resi conto di continuare a pensare. In seguito quello strano buio si diradò e cominciai ad innalzarmi al di sopra del mio corpo. Solo allora vidi tutte quelle persone che erano accanto ad esso. Non sapevo che quello fossi io, pensavo si trattasse di un’altra persona. Lo seppi dalle parole che diceva il dottor McPherson. Un’infermiera m’iniettò nel braccio destro qualcosa, non posso dire di cosa si trattasse, poi il dottore cominciò a massaggiare il petto del mio corpo. In quel momento desiderai vedere mia moglie. Quando pensai a Muriel mi trovai istantaneamente nella sala d’aspetto e vidi che piangeva. Non capivo perché piangesse, in fondo ero lì, proprio vicino a lei. Fu solo allora che mi resi conto che non poteva vedermi: finalmente realizzai di essere morto. Era come se fossi un fantasma, mi segue? Allora mi guardai e vidi una sorta di proiezione luminosa che somigliava ad un braccio. Non so come spiegarlo, ma sentivo che il mio nuovo essere era completo. Voglio dire: aveva una sua forma, con qualcosa di simile a braccia e gambe ma non riesco a parlarne perché non trovo le parole per farlo. Ciò che posso affermare con certezza è che la mente era estremamente lucida e priva di qualsiasi incertezza.”


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“Riesce a ricordare qualche sensazione? Come si sentiva nel suo nuovo corpo?” Il signor Price mi guardò, serafico: “Mi sentivo in grado, se solo lo avessi desiderato, di poter andare dovunque a velocità vertiginosa. La mia vista era eccellente, molto migliore di quella normale. Ma non ricordo di poter toccare gli oggetti. Infatti, quando mi avvicinai a Muriel e tentai di abbracciarla, la mia mano, o qualcosa che sembrava una mano, passò attraverso la sua carne come se fosse composta d’aria.” “Non provò nessuna sensazione tattile, quando lo fece?” Chiesi incuriosito. “Una sensazione si, ma strana. Ha presente quando tocca qualcosa percorso da una leggerissima corrente elettrica? Beh, la sensazione era la stessa.” “Riusciva a sentire quel che sua moglie diceva?” Chiese Chesterfield. Price annuì: “Non come in questo momento sento lei. Ogni volta che guardavo una persona chiedendomi cosa stesse pensando conoscevo i suoi pensieri un istante prima che aprisse la bocca per esprimerli! Beh, me ne stavo lì, a guardare Muriel piangere, impotente. La vidi chiedere a un infermiera mie notizie ma la donna non sapeva cosa risponderle e venne verso di me. Ricordo che arretrai quando la vidi venirmi incontro, ma quella non mi vedeva e continuò per la sua strada. Le passai letteralmente attraverso e la cosa che mi è rimasta impresso di quell’attimo fu che vidi il suo corpo dall’interno per un istante prima di sbucare dalla sua schiena! Fu così che mi accorsi per la prima volta di poter attraversare qualsiasi cosa, non importa quanto spessa. Tornai in sala rianimazione e vidi il dottor McPherson applicare quelle strane racchette sul petto del mio corpo...” “…l’elettrostimolatore!” Disse il medico. “Proprio quello, ma non volevo che lo facesse. Tentai di fermarlo e di nuovo provai quella strana sensazione quando le mie mani oltrepassarono le sue braccia. Poi avvenne la scarica. Il mio corpo sussultò in un modo orribile, ma non dava segni di vita. Il dottore ripeté più volte la procedura e ognuna di queste avvertivo una sorta di ronzio. Vedendo che il mio corpo continuava a restare inerte temetti di restare in quella specie di Limbo per sempre. Allora dissi fra me: Dio, non so cosa fare, aiutami! Subito mi ritrovai in un vortice nero che ruotava su sé stesso e lo percorsi a velocità vertiginosa. Non provavo più paura ma ero sereno e tranquillo. Sbucai in un altro luogo, come un bellissimo giardino dove


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ogni pianta aveva una sua luce interna.” “Può parlare di questa luce?” Lo incoraggiai. “Tutto in quel posto era luminoso, così mi guardai in giro. Era tutto così splendido, inondato da una luce purissima e nello stesso tempo tiepida…” “Come sarebbe a dire tiepida?” “Non so spiegarglielo, ma quella luce era, come dire, non solo una luce come quella di una lampadina o quella del sole. Insomma, non era solo visibile ma anche palpabile.” L’uomo fece spallucce, impotente: “Non so spiegarglielo, in realtà.” “Continui, signor Price.” Propose il dottor McPherson. “A un tratto percepii qualcosa, un’Entità infinitamente potente. Mi voltai e vidi quella Luce meravigliosa. Emanava un amore assoluto, una sensazione così intensa che tutto il mio essere fremeva dalla gioia. Era molto più potente della luce che pervadeva quel posto ma era diversa: mi chiese se fossi pronto a restare lì .” “Era una persona?” Chiese Johnson. “Posso dire soltanto che avvertivo chiaramente i suoi pensieri anche se non sentivo nessuna voce. Non c’era modo di sbagliare, non potevo non capire cosa mi chiedesse. Non c’è dubbio che fosse una Entità Cosciente ed era molto piacevole stare in sua compagnia!” Il signor Price era sudato e respirava fatica, ma nei suoi occhi lessi una gioia incontenibile: “Secondo lei cosa poteva essere quella Luce?” Domandai. Il signor Price sorrise, scuotendo leggermente la testa: “Lei vuole proprio mettermi alla prova, vedo.” “Deve cercare di capirmi: le cose di cui sta parlando non sono proprio ovvie.” L’uomo assentì, continuando a sorridere: “E va bene, glielo dirò. Quando vado in chiesa e il sacerdote parla di Gesù Lo descrive come la Luce del mondo. Io ho potuto constatare di persona cosa intendesse dire.” “Capisco.” Mormorai, quindi aggiunsi: “Cosa rispose?” “Non volevo più tornare indietro. Dalla Luce venivano un amore e una compassione incredibilmente potenti. Avrei voluto restare lì per sempre, ma quell’Essere mi disse che Muriel aveva bisogno di me. Non volevo andar via ma subito mi sentii come risucchiato di nuovo nel tunnel che mi aveva portato fin lì. Un attimo dopo vidi di nuovo il dottor McPherson alle prese con il mio corpo. Quando il dottore attivò


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un’altra volta quel maledetto apparecchio il mio corpo sussultò e io mi ritrovai in esso.” Detto questo non aggiunse altro. L’aria si era fatta pesante, carica di un misterioso silenzio. Devo ammettere che il racconto di quell’uomo mi aveva profondamente impressionato ma ricordai a me stesso di essere uno scienziato, così lo stuzzicai: «Non ho intenzione di offenderla, signor Price, ma ha mai pensato di aver vissuto un’allucinazione?” “Non era un allucinazione.” Ribatté pronto. “Come fa a dirlo con tanta sicurezza?” “Perché il dottor McPherson ha confermato ciò che ho visto mentre ero fuori dal mio corpo.” Guardai Roger: “Questa non è una prova, ma un aneddoto.” “Aspetta, non hai ancora sentito tutto. Ti ho promesso una prova indiretta e l’avrai. Dottor McPherson, vuole invitare le persone qui presenti a leggere i suoi documenti, per favore?” “Si certo!” Concordò il medico e disse: “I fogli che ciascuno di voi si trova davanti sono solo una minima parte dei resoconti che ho registrato in venti anni di lavoro al reparto di rianimazione. Posso affermare senza tema di smentita che almeno quattro pazienti su sei hanno riferito un’esperienza di pre-morte.” “Non tutti?” Chiesi. “No dottor Grant, ma statisticamente parlando sono una percentuale rilevante.” “E ricorda se queste persone erano sotto l’effetto di anestetici?” Chiese Johnson. “Solo alcune, ma dai loro racconti l’esperienza che dichiaravano di aver vissuto era meno vivida dei pazienti che non avevano ricevuto alcuna sostanza sedativa. Non tutti sperimentano l’esperienza completa del signor Price, alcuni parlano solo dell’abbandono del corpo, altri di un nulla buio, altri ancora dell’incontro con amici e parenti morti da tempo.” “Ho letto un po' di letteratura sull’argomento ma si liquidava questa faccenda ricorrendo alle turbe psichiche, ad allucinazioni da anestetico, alla mancanza di ossigeno nel cervello e via discorrendo.” Proposi, ma il medico non era deciso a demordere: “Messa in questi termini la questione può essere interpretata in mille modi diversi. Ebbene, dottor Grant, queste esperienze sono qualcosa di più che uno scherzo della mente. Lei avanza queste soluzioni perché


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non può presentare una risposta certa, suffragata cioè da prove concrete. Tuttavia la sua posizione evita il problema, non lo risolve. Dire che la scienza ufficiale nega queste cose o inventa teorie è come negare gli stati mentali perché non si vedono e non si toccano. Certo, non posso provare che il signor Price abbia visto davvero un Essere di Luce, anche se personalmente credo alle sue parole, ma i casi di abbandono del corpo sono inequivocabili. Se legge quei fogli vedrà che esistono casi di persone cieche dalla nascita che sono state in grado di fornire tutti i dettagli che avvenivano in quei drammatici momenti. Una volta ho operato al cuore una donna di quarantaquattro anni. Purtroppo l’organo si arrestò a un certo punto dell’intervento e io mi diedi da fare per farlo tornare a funzionare. Al risveglio la paziente non solo descrisse tutti gli strumenti chirurgici che avevo usato, ma addirittura mi rivelò i pensieri che mi avevano attraversato la mente in quei difficili istanti. Pertanto io credo a queste cose, dottore, e non ho bisogno di alcuna prova diretta.” “Che te ne pare, Alan?” Roger era visibilmente soddisfatto, “La prova indiretta che ti avevo promesso è stata di tuo gradimento?” “Molto interessante, amico mio, ma dovremmo stabilire qualche esperimento per verificare in modo scientifico questi aneddoti.” “Si potrebbero stabilire alcune procedure o sistemare alcuni oggetti che non siano comuni in una sala di rianimazione.” Propose Chesterfield, “Se il paziente ne parla dopo il risveglio è chiaro che è avvenuta un’esperienza extracorporea.” “Personalmente non apprezzerei che il medico che dovrebbe salvarmi la vita si gingilli con un oggetto, lo riterrei poco etico oltre che estremamente rischioso.” Intervenne Johnson. “Senza contare la responsabilità civile del medico che tentasse la rianimazione.” Aggiunsi io, “Ma un modo deve pur esservi.” “E infatti c’è: il dottor Ellis e io abbiamo già svolto parecchi esperimenti in tal senso.” Disse McPherson, “Ma siamo ricorsi ad alcuni schermi a cristalli liquidi fissati al soffitto. Attivati da un banale interruttore si illuminavano a giorno, in modo tale che un eventuale entità che uscisse dal corpo di un paziente avrebbe dovuto vederli.” “Si tratta di un progetto finanziato con soldi miei.” Aggiunse Roger, sornione. Lo fissai: “E la direzione dell’ospedale non ha obiettato?” “No, perché gli schermi vengono attivati automaticamente e non distraggono i medici dalle loro mansioni.” Aggiunse McPherson e conti-


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nuò: “Ora non potete vederlo perché è stato tolto per fare spazio al nostro tavolo, ma di norma al centro di questa sala c’è un lettino imbottito di sensori sensibili all’elettricità. Come sapete, in caso di arresto cardiaco è necessario usare l’elettrostimolatore: ciò fa scattare un relé che a sua volta attiva i pannelli sul soffitto.” “E?” Dissi. McPherson sorrise: “Tutti i pazienti che ricordavano un’esperienza del genere mi hanno detto di averli visti!” “Siete assolutamente sicuri che non fossero visibili?” Esclamò Chesterfield. “Guardi sopra di lei.” Propose allora Roger, “Questa è la saletta dove sono avvenute quelle rianimazioni.” Tutti alzammo la testa verso il soffitto, all’unisono, ma personalmente non vidi niente di niente: “Fantastico!” Esclamò allora Johnson, “Quanti casi avete esaminato in questo modo?” “Quattrocentonovanta.” Lo informò il medico, “Di questi solo novanta non hanno riferito alcun elemento.” “Il che potrebbe significare?” Chiese Chesterfield. “Che le esperienze di cui sopra non avvengono a tutti o che esiste un meccanismo cerebrale che cancella il ricordo.” Risposi io. “Non mi preoccuperei di questo dettaglio.” Disse Roger, “Perché le statistiche sono a nostro favore. Tuttavia, se vogliamo avanzare a tutti i costi qualche ipotesi, potrei portarvi l’esempio dei sogni o dell’anestesia totale. E’ praticamente impossibile ricordare i sogni di un’intera notte come non esiste paziente al mondo in grado di sognare sotto anestesia completa. E inoltre questo tipo di esperienze, se sono reali, riguardano la mente immateriale e non il cervello.” “Queste esperienze accadono solo in pazienti che stanno per morire?” Chiese di nuovo Johnson. “A quanto pare solo a quelle.” Rispose Roger. Nel periodo in cui sono stato al di fuori dell’università io e McPherson abbiamo contato il maggior numero possibile di medici e i casi da loro esaminati. Il risultato fu che tali eventi avvengono in caso di arresto cardiaco, alcuni tipi di coma o interventi chirurgici. Sembra quindi che il rischio di morte sia un elemento necessario perché si possa verificare un caso del genere.” In quel momento si sentì un trillo nervoso: “Ê il mio cercapersone!” Disse McPherson, “Devo andare, ora. Come rimaniamo?”


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“Siete tutti solidali con me e il dottor McPherson?” Chiese allora Roger. “Non abbiamo ancora discusso della tua idea.” Gli feci notare. “Non c’è tempo, ora. Lo scopo di questa riunione era di conoscere il vostro parere. I dettagli li discuteremo in seguito, quando i nostri rispettivi impegni ce lo permetteranno.” Johnson e Chesterfield si dichiararono d’accordo. Il signor Price non aveva ben chiaro il suo ruolo, ma il mio amico lo tranquillizzò informandolo che lo avrebbe interpellato solo per chiedergli eventuali consigli o pareri sulla sua esperienza. La riunione fu rimandata a data da definire e tutti ci alzammo per tornare ai nostri rispettivi impegni. Dopo i saluti di rito, Roger mi trattenne un attimo, chiedendomi: “Sarai davvero dei nostri?” Non ebbi esitazione alcuna: “Sei il mio migliore amico, no? Ti aiuterò, Roger, lo prometto.” “Grazie.” Disse semplicemente, porgendomi la mano che strinsi con vigore. Per un momento mi sembrò che i suoi occhi diventassero lucidi, ma non posso dirlo con esattezza perché subito dopo si congedò e uscì dalla saletta. Rimasi solo e indugiai ancora un po' in quella stanza, lanciando brevi occhiate verso il soffitto alla ricerca dei famosi schermi fissati al soffitto. Non vidi nulla e sorrisi, pensando alle parole di McPherson. Davvero il signor Price aveva vissuto quella magnifica esperienza? A voler essere scettici a tutti i costi avrei benissimo potuto pensare che McPherson e il signor Price erano d’accordo e il fatto che eminenti scienziati come Chesterfield e Johnson non avessero sollevato il dubbio poteva non voler dire nulla. Per scoprire un prestidigitatore serve un illusionista, non uno scienziato. Eppure sapevo che racconti simili avvengono dovunque nel mondo e in tutte le culture. Certo sono storie affascinanti e ormai avevo dato a Roger la mia parola. Lo avrei aiutato, ma con la riserva di fermarmi se le cose fossero diventate troppo difficili. Con questi pensieri uscii dalla stanza.


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IV

Non vidi né sentii Roger per tutto il resto del week-end. Non aveva lezioni all’università e sapevo che non stava conducendo alcun esperimento nel laboratorio. Decisi di non chiamarlo al telefono né tentare in altro modo di contattarlo. Pensavo che mi avrebbe chiamato se avesse avuto qualcosa da dirmi. Perciò tornai al mio lavoro e alle mie lezioni sulla fisica delle particelle. Una sera mi telefonò e ne approfittai per chiedergli se avesse fissato la data per la riunione decisiva, ma fu restio a parlarne, adducendo come scusa il fatto che in quei giorni era impegnato in alcuni esperimenti dei quali, per il momento, non si sentiva pronto a parlarmi. Mi chiese perciò di pazientare ancora e di continuare la mia vita come se niente fosse. Il fatto però che mi tenesse all’oscuro di ciò che faceva m’indispettì, ma non ne feci parola dato che in fondo erano affari suoi. Conoscendolo, sperai soltanto che non si cacciasse in qualche guaio e accantonai la questione. La settimana seguente lo vidi soltanto nel laboratorio dell’università ma al di fuori si eclissava e cominciò a non rispondere neanche al telefonino. Questa storia durò per un paio di mesi durante i quali ci vedemmo sempre meno. Capitava che trascorressero anche dieci giorni senza che si facesse sentire in qualche modo. Spesso e volentieri non veniva nemmeno alle lezioni, cosa che fece alterare profondamente il rettore, Harrison, che chiese più volte a me di sostituirlo. Inoltre, quando Roger mi veniva a trovare, non si mostrava molto disponibile ad affrontare questioni inerenti i suoi misteriosi esperimenti. Man mano che i giorni passavano diventava sempre più reticente a parlare anche di argomenti comuni ai nostri campi d’interesse. Soprattutto evitava di parlare delle esperienze di pre-morte. Più di una volta ebbi l’impressione che tale argomento lo indispettiva e immaginai che stesse incontrando problemi seri che non riusciva a risolvere. Ma c’era anche un altro lato del suo comportamento che mi preoccupava e riguardava il suo equilibrio mentale. Le rare volte che lo vedevo sembrava invecchiato anzitempo, come se per quanto lo riguardava il tempo trascorresse molto velocemente. Le rughe intorno agli occhi si erano fatte più evidenti, i tratti meno decisi, gli occhi dilatati e


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spesso circondati da occhiaie profonde. A volte accusava ancora delle fitte allo stomaco e doveva inghiottire ansiolitici e calmanti per non gettare la spugna. Ma questi elementi non erano riusciti a cancellargli dal volto quella ferrea determinazione che avevo letto nei suoi occhi in più di una occasione. In seguito cominciarono a circolare per i corridoi della Facoltà le prime voci sul mio amico. Sembra che Roger avesse cominciato a frequentare assiduamente la facoltà di medicina e più di una volta era stato visto bazzicare per ospedali per visitare posti abbastanza bizzarri come le sale di autopsia. Queste erano chiacchiere che a me parvero senza costrutto ma che fecero indignare, se era possibile, ancora di più Harrison che una volta mi chiamò per chiedermi del mio amico. Usò termini molto seri e alquanto duri, dicendo in sostanza che se Roger non si dava una calmata correva seriamente il rischio di non mettere mai più piede al dipartimento di Fisica. Fu così che quando una mattina ci vedemmo al laboratorio gli chiesi cos’avesse in mente e gli rivelai le voci sul suo conto e ciò che ne pensava Harrison: “Non m’interessano affatto le chiacchiere sul mio conto.” Mi aveva risposto con tono insolente, “Harrison è un idiota e lo sai. I posti che frequento sono importanti per le mie ricerche sul fenomeno della morte. Sono interessato a studiare ogni dettaglio dei processi fisici che avvengono nell’istante decisivo. Gli altri pensino pure a quel che vogliono, non è cosa che mi riguardi!” Gli feci notare il rischio che correva se si ostinava su questa posizione, ma con mio sommo disappunto ci rise sopra: “Credi veramente che Harrison possa fermarmi? Ormai sono andato troppo oltre, non posso tornare indietro. Tu lo sai, la Conoscenza è tutto per uomini come noi. C’è qualcosa di terribilmente affascinante nel Sapere ed è la consapevolezza di poter dissipare il buio della nostra ignoranza. Ormai per me è diventata una mania, un’ossessione che mi divora, che mi spinge a continuare, insaziabile, fino a quando non avrò svelato il mistero che intendo svelare. Tutto il resto non conta perché niente ha più importanza di questo. Pensaci bene! Se riuscissi a dimostrare che esiste veramente un’altra dimensione dell’essere, la morale e l’etica umana andrebbero reinterpretate. Riesci a capire, adesso, perché non m’importa di quello che pensano le persone come Harrison?” “Capisco!” Mormorai con un tono appena intelligibile, ma Roger non sembrò avermi sentito. Aveva lo sguardo perso nei suoi pensieri e il suo sguardo m’ispirò una sensazione terrificante che ancora adesso non so


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spiegarmi. Leggevo la follia di un uomo che cerca con tutta l’anima qualcosa d’irrealizzabile. Glielo dissi, ma ancora una volta Roger rise in quel modo che trovavo così insolente: “Tu, piuttosto! Sei per caso pentito di aver accettato la mia precedente offerta di partecipare al mio progetto?” “No.” Risposi deciso, “Ma sono preoccupato per te. Non so cosa ti stia succedendo, tutto qui, e non voglio che Harrison o qualcun altro ti sbatta fuori dall’università.” Roger mi batté una mano sulla spalla, “Scusami, amico mio, ma non riesco a fermarmi. Tutte quelle persone che hanno vissuto quelle esperienze non possono essere pazze, non più di me e di te. Deve esserci un modo per provarlo e sono intenzionato a scoprirlo.” “Però questo non risponde ai miei dubbi!” Sbottai alterato, “Non so nemmeno cosa intendi fare, non so niente.” “Vuoi veramente sapere cosa mi passa per la testa?” “Certo, ma forse lo so già.” M’ignorò: “Parleremo di questo a casa mia, insieme a Johnson e Chesterfield. Vieni da me stasera e ti dirò tutto, d’accordo?” “Va bene!” Replicai in tono rassegnato, “verrò da te e parleremo.” Roger mi sorrise, ma notai che il suo sguardo non era cambiato affatto. I suoi occhi non mi vedevano né avevano percezione dell’ambiente esterno. Era come se fosse prigioniero in una gabbia invisibile, una prigione molto robusta e nello stesso tempo decisamente elusiva quando si trattava di uscirne. La verità era che paventavo ciò che il mio amico invece agognava con tutto sé stesso. Avevo l’impressione che stesse mirando troppo in alto, verso un lato della nostra esistenza che non riguarda la sfera umana. Forse, tra noi due, chi era più religioso in quel momento non era Roger.


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V

Fui restio a presentarmi a casa sua e più volte arrivai al punto di tornare indietro, chiedere una vacanza e dimenticare tutta quella strana situazione. Allora non mi sarebbe importato più nulla di Roger, dei suoi esperimenti e del continuo sbraitare di Harrison. Ma ogni volta che questo desiderio si faceva strada nella mia mente c’era qualcosa che m’impediva di cedere a quell’istinto irrazionale. Non saprei dire cosa fosse esattamente, se la speranza che Roger avesse torto o il timore di una rivelazione che avrebbe potuto cambiare la concezione stessa del mondo. Tuttavia mi recai lì, in quella bizzarra abitazione che rispecchiava, nel modo stesso in cui era stata fabbricata, la personalità del suo architetto. Fuori, nello spiazzo che serve da giardino, vidi due auto parcheggiate accanto alla sua, con ogni probabilità quelle di Johnson e Chesterfield. Quando entrai vidi infatti i due scienziati tranquillamente seduti davanti al grande tavolo che troneggiava al centro della sola stanza del pianterreno. Era in quella stanza che Roger pranzava, cucinava e trascorreva la maggior parte del suo tempo quando non era assorbito dal lavoro. Vi era solo un altro piano oltre a quello, il primo, ma era interamente occupato da una stanza da letto e un completo laboratorio personale. Salutai i presenti per educazione, ma non avevo molta voglia di fare conversazione. Al contrario, Chesterfield e Johnson erano stranamente loquaci e molto propensi alle ipotesi più estreme e originali. Chiesi a me stesso se ero io la persona fuori posto o se non fossi piuttosto il solo essere umano con tutte le rotelle a posto. Quando arrivai trovai la tavola già apparecchiata e la cena ancora fumante. Da quando Stephanie era scomparsa Roger aveva dovuto ingegnarsi un po' di più in cucina e i risultati non sempre si erano rivelati promettenti. Quella sera mi avrebbe rivelato che il pollo allo spiedo e le patatine fritte provenivano da una friggitoria cinese e che aveva dovuto pagare un extra al garzone a causa della posizione di casa sua, non propriamente costruita in un posto facile da raggiungere. I suoi due ospiti stavano banchettando rumorosamente quando arrivai, ma si fermarono educatamente non appena mi accomodai al tavolo. Sedetti accanto a Chesterfield e


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mi servii una modesta porzione di cibo. Il mio vicino di posto, invece, sembrava digiuno da un paio di giorni, a giudicare da come faceva lavorare le mascelle. Le sole bevande presenti erano birra e acqua, la seconda praticamente ignorata, mentre spiccava l’assenza del pane. Roger stava discutendo animatamente con Johnson di fisica quantistica. Da parte sua, Chesterfield continuava a dichiarare il suo appassionato gradimento alla cena e io lo invidiai per questo. Il mio stomaco non avrebbe potuto essere più refrattario, in quell’istante: “Dottor Grant!” Aveva esclamato Johnson, tra una parola e l’altra, “Ê arrivato giusto in tempo. Stavamo quasi per dar fondo a tutte le provviste del nostro ospite.” Roger rise di gusto mentre Chesterfield abbozzò quello che probabilmente doveva essere un sorriso: “Vorrei una buona volta conoscere le tue idee!” Gli domandai. Il mio tono era più che serio, quasi scontroso. Roger smise immediatamente di mangiare e mi guardò. Persino Chesterfield mi degnò di un’occhiata, ma non lasciò andare la sua ala di pollo che ora gli pendeva pateticamente dalle labbra, in attesa di essere trangugiata: “Ok!” Rispose il nostro anfitrione, “Hai ragione, è proprio ora che te ne parli.” Mi versai il primo bicchiere di birra e cominciai ad assaporare lentamente la bevanda, in attesa delle sue parole: “Immagina per un momento che la realtà come tu la conosci scompaia!” Cominciò, “Che il tempo e lo spazio non siano esattamente come li sperimenti ogni giorno. Prova a pensare, insomma, che la tua realtà non sia più quella fisica e rassicurante che noi tutti conosciamo, ma quella della realtà quantistica dove tutto e il contrario di tutto possono accadere senza soluzione di continuità. Ora questa è la mia idea: se le teorie di Chesterfield e Johnson sono valide allora il cervello non è il luogo che realizza la coscienza, ma solo un organo collegato a essa. Esso serve da collegamento fra la coscienza immateriale e il mondo materiale rappresentato dal corpo fisico. Ma se la nostra coscienza non dipende dal cervello deve essere costituita da una sostanza diversa da quella fisica in senso ortodosso. Io postulo, allora, che essa sia un’entità quantistica.” “Questo è il tuo dualismo interazionista, mio caro!” “Siamo tutti dualisti, qui!” Mi corresse Chesterfield, “E lo è anche lei, altrimenti non parteciperebbe a questa riunione.”


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Assentii per qualche secondo, poi mi scossi e cominciai a parlare: “Non sono un dualista e non nutro molte speranze in questo progetto; credo ve ne sarete accorti tutti. La mia presenza qui, stasera, si deve solo alla precisa richiesta di un amico! Gli ho promesso che lo avrei aiutato e lo farò. Niente di più!” Un lieve sorriso apparve sulle labbra di Roger, ma fu solo per un attimo poi assunse un’espressione decisamente seria. Era chiaro che ciò che stava per dire non era rivolto solo a me, ma a tutti i presenti: “Signori!” Cominciò, “Per seguire il mio ragionamento è necessario che abbandoniate, per un momento, le nozioni scientifiche che conoscete allo scopo di liberare la vostra mente dai preconcetti intellettuali. Ipotizzate che il cervello non origini la coscienza ma che sia collegato ad essa e che l’interazione fra le due entità sia quantistica, esattamente come ipotizzano le vostre teorie. Vorrei chiedere a tutti voi di ignorare, per un attimo, le ferree leggi deterministiche che conoscete e di accettare per trenta minuti del vostro tempo il mio punto di vista, d’accordo?” Annuimmo quasi all’unisono. Roger, allora, continuò: “Poniamo per un momento che il dualismo abbia vinto, che l’anima esista e sia separata dal corpo. Come potrebbe essere fatta? Quali proprietà avrebbe? Ricordate il signor Price? Asseriva che poteva attraversare qualsiasi superficie materiale, che provava una sensazione elettrica quando le sue, diciamo, mani eteree, passavano attraverso il corpo di un’altra persona. Diceva, inoltre, che la mente era molto lucida e che era in grado di leggere nel pensiero delle persone. Il suo nuovo corpo sembrava fatto di pura energia ed istantaneo nei movimenti. Ora, se accettate come vera la spiegazione di Price, allora dovrete cercare un senso per queste straordinarie caratteristiche. Cominciamo dalla capacità di attraversare persone e muri. Alan, questo ti ricorda qualcosa?” Purtroppo non riuscii a trattenermi: “Un racconto di fantasmi?” Mormorai, pentendomi immediatamente delle mie parole. Roger girò cautamente intorno alla mia ironica risposta, proseguendo: “Più o meno, solo che io stavo pensando al cosiddetto effetto tunnel quantico. Tutti voi sapete cosa intendo dire, ma lo spiegherò ugualmente.” Afferrò una forchetta e continuò a parlare: “Poniamo il caso che io adesso lanci questa posata contro il muro alle vostre spalle. Se lo facessi la forchetta rimbalzerebbe sul muro e ricadrebbe a terra. Badate bene: questo avviene sempre nella realtà che sperimentiamo tutti i giorni ma non nella realtà quantistica. In essa la forchetta raggiunge il muro, lo


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attraversa senza produrvi alcun danno, e sbuca intatta dall’altra parte. Nel mondo dei quanti la forchetta potrebbe essere una particella, magari un elettrone, e il muro un invisibile campo di energia. Stando al principio di indeterminazione di Heisemberg sappiamo che è impossibile conoscere con precisione la posizione della particella in un certo istante temporale. Non sappiamo come possono le particelle fare una cosa del genere, ma la capacità dello spirito di fare qualcosa di analogo è molto intrigante. Passando a un altro dettaglio vorrei concentrarmi sulla velocità istantanea del corpo spirituale. Ora, è evidente che il tempo non scorre nello stesso modo per lo spirito disincarnato e le persone che gli stanno intorno. Da vari rapporti che il dottor McPherson mi ha fatto esaminare, se ne deduce che il tempo per le persone sembra scorrere più lentamente. Se ciò è vero, sarebbe perfettamente in accordo con l’ipotesi che prevede uno spazio-tempo diverso entro cui si può muovere lo spirito, una sorta di mondo parallelo quantistico in cui si può osservare cosa accade fuori, ma non interagire con il mondo della nostra dimensione. Dopotutto, a pensarci bene, se realmente lo spirito vola verso un altro mondo dove un Essere di Luce o i parenti morti lo attendono, subisce l’esame della vita e via dicendo, è necessario che esso trascorra un determinato periodo di tempo che non combacia con quanto accade sulla Terra. Secondo le persone che hanno sperimentato una NDE lo spirito legge i pensieri delle persone, il che potrebbe voler dire che esso sarebbe perfettamente in grado di interagire con l’attività quantistica che avviene in un altro spirito, lasciando però all’oscuro la parte materiale della persona, il cervello appunto. Ê un ipotesi che non fa certo a pugni con la sua teoria del cervello di collegamento, dottor Chesterfield. L’ultima questione che vorrei affrontare è il tunnel che l’anima deve attraversare per raggiungere l’altra parte.” “Ti riferisci ad un worm-hole?” Intervenni io. “No, Alan, ma penso si tratti realmente di un tunnel, ovvero di un passaggio dimensionale che colleghi per un istante questo mondo all’altro a sua volta aperto in una qualche maniera. Alla fine dell’esperienza, spesso i pazienti affermano di essere rientrati nel loro corpo attraverso la testa e quindi, io credo, attraverso il cervello di collegamento.” Ci guardò alternativamente con uno sguardo di trionfo che mi mise in un grave imbarazzo. Se un giorno qualcuno mi avesse detto che il mio migliore amico avrebbe potuto tenere un discorso del genere lo avrei preso per pazzo. Ero letteralmente senza parole. Fu Johnson il primo a


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parlare: “Come facciamo per rendere tutto questo analizzabile?” Non era la domanda che mi attendevo, tuttavia la risposta di Roger fu in qualche modo meno assurda del suo stesso discorso: “La scienza si occupa della materia e non penso abbia i mezzi per indagare su cose che sono al di là di essa.” “Appunto!” Continuò Chesterfield, “Secondo me dovremmo concentrare i nostri sforzi unicamente sul concetto di spirito o, come preferirei io, di soffio vitale.” Non credevo alle mie orecchie: “Queste sono idee molto suggestive.” Replicai allarmato. “Ma vorrei fare appello ad una maggiore prudenza. Anche se aveste ragione sul cervello di collegamento e tutto il resto, lo studio di una sostanza elusiva come l’anima mi sembra ben al di là delle possibilità della Scienza. Ma se anche fosse, quali mezzi potremmo usare? Le storie come quella del signor Price sono bellissime, d’accordo, e personalmente penso che si tratti di credervi o meno. Ma voler indagare su di esse pretendendo di ottenere risultati di rilievo mi sembra azzardato. Forse dovremmo limitare le nostre aspettative.” “Forse l’anima ha una natura tachionica!” Era stato Roger a parlare. Mi guardò con aria di sfida mentre lo diceva. Le sue parole mi stordirono di rabbia. Avvertivo il sangue scorrermi furioso nelle tempie, il respiro farsi accelerato, il cuore battermi all’impazzata nel petto. Per un momento pensai seriamente di balzare al collo di Roger, di scuoterlo selvaggiamente, dargli dell’idiota, e di trascinarlo a viva forza in un istituto per il trattamento della schizofrenia. Non so perché, ma la bizzarra situazione in cui mi ero trovato mi parve in quegli istanti foriera di pesanti conseguenze se fosse andata avanti. Da parte sua Roger esibiva un sorriso candido che non contribuiva certo a farmi ritrovare la calma. Lo mandai mentalmente e ripetutamente a quel paese, ma riuscii a fare un po' di ordine nei miei pensieri. Quando le parole mi uscirono dalle labbra avevano un tono tranquillo ma a un osservatore attento non sarebbe sfuggito che si trattava di un’apparenza: “L’esistenza dei tachioni non è ancora stata provata con certezza, lo sai.” Replicai fissandolo a mia volta. “Pensaci bene!” Mormorò in risposta, “Conosci le limitazioni della relatività di Einstein: nessun oggetto fisico può viaggiare più veloce della luce. Questo perché viaggiare a più di trecentomila chilometri al secondo equivarrebbe a viaggiare indietro nel tempo, con tutti i misteri e i paradossi che seguirebbero.”


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“In realtà la teoria della relatività prevede che si possa raggiungere una velocità più elevata di quella luce, ma solo a condizione che non si sia mai più lenti della luce stessa.” Precisai. Roger sorrise: “Capisci adesso dove voglio arrivare?” “Perfettamente!” Ammisi, “Ma non ci credo.” Chesterfield disse: “Lei sta dicendo che un oggetto non può attraversare la barriera della luce diminuendo o aumentando la propria velocità.” “Esatto!” “Ma questo cosa ha a che fare con i tachioni e la nostra questione?” Chiese ancora. “In teoria i tachioni sarebbero particelle in grado di viaggiare ad una velocità superiore a quella della luce.” Gli spiegai e poi: “Il paradosso che sollevano è che, viaggiando ad oltre trecentomila chilometri al secondo, potrebbero essere usati per inviare segnali nel passato. Ma per il momento nessun laboratorio di fisica, che io sappia, è ancora riuscito a provare la loro esistenza.” Roger assentì: “Se il soffio vitale, come lo ha chiamato lei, dottor Chesterfield, è un’entità tachionica allora il suo tempo scorre in modo differente dal tempo che sperimentiamo noi. Un minuto, per esso, potrebbe durare un nanosecondo per noi e viceversa.” Roger era raggiante: “Se ci pensate bene, la rianimazione di un uomo che ha subìto un arresto cardiaco dura in genere quattro/cinque minuti al massimo. Se per assurdo salissi su un velivolo ipersonico per andare in Paradiso, l’Aldilà o dovunque risieda l’Essere di Luce, vedessi la mia vita, incontrassi i miei amici morti e tutto il resto non impiegherei meno di un ora ma probabilmente molto di più. Ma invece, quando avviene il fenomeno della pre-morte il tempo segnato dai nostri orologi sulla Terra combacia con quei famosi cinque minuti. Qualcosa allora non quadra.” “Ma come facciamo a rendere visibile ai nostri sensi qualcosa che per definizione non lo è?” Chiese Chesterfield. “Dovremmo usare un qualche tipo di apparecchiatura che non è stata ancora inventata.” Disse Johnson. “Ma anche così...” Proseguì Chesterfield, “…quale sarebbe il nostro ruolo? Come stabiliremmo gli esperimenti? E sarebbe possibile svolgere esperimenti su questo genere di cose?” Toccava a Roger rispondere e infatti non si fece pregare. Prima però si allontanò dal tavolo e si alzò in piedi con estrema tranquillità: “Serve un nuovo approccio sperimentale, nuove apparecchiature e un


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po' di tempo.” Disse con voce pacata. “Nel tempo che sono stato via ho avuto modo di riflettere su questa roba e mi sembra di aver capito l’approccio giusto. Ma ho bisogno del vostro aiuto. Una volta alla settimana io e Alan possiamo accedere al Supersincrotrone di Yale per fare esperimenti sulle particelle subatomiche. In base ai risultati che otterremo, e anche in base a quelli che otterrete voi nel campo della Neurofisiologia, potremmo costruire una macchina che ho in mente da parecchio e che...” “Che tipo di macchina?” Lo interruppe Chesterfield. “Una macchina che devo ancora definire nelle sue linee essenziali. Vi spiegherò tutti i dettagli man mano che i nostri esperimenti andranno avanti. Naturalmente dovremo condurre i nostri affari con estrema discrezione e questo è un punto a nostro sfavore perché allunga i tempi del nostro progetto. Comunque, se le cose andranno come spero, forse riusciremo a dimostrare la vittoria del dualismo nel modo più brillante che sia mai stato concepito. Ma non voglio ingannarvi: occorreranno anni, abnegazione e parecchia fortuna. Che ne dite?” “E se le cose dovessero sfuggirci di mano?” Chiesi. Alla mia domanda fece eco una serie di mormorii di approvazione. Johnson, a questo proposito, disse: “Non intendo espormi se incorreremo in un fallimento. A quel punto negherò semplicemente di aver mai preso accordi con nessuno di voi.” “Così faremmo tutti.” Assentì Roger, “Ma vorrei esortarvi lo stesso a non sopravvalutare troppo le conseguenze in caso di fallimento. Nessuno dei nostri accordi è ufficiale, non esisteranno relazioni scritte accessibili da parte di chiunque, nessuno di noi dovrà parlarne a chicchessia e per nessun motivo. Il dottor McPherson avrà un suo ruolo nella faccenda, ma solo se le cose porteranno a certi risultati. Ê comunque una persona fidata e soprattutto è completamente d’accordo con noi in merito ai rischi.” “A questo punto resta solo quel tale, Price!” Gli fece eco Chesterfield. “Io non mi preoccuperei!” Lo ammonì Roger, “Gli ho parlato parecchie volte e posso affermare di conoscerlo abbastanza bene, ormai.” Chesterfield annuì, ma si riservò un po' di tempo per decidere. Johnson si dichiarò d’accordo. Personalmente, invece, assicurai da subito appoggio al mio amico ma affermai di voler riconsiderare i termini del mio contributo. Roger disse che avrebbe contattato personalmente ognuno di noi a tempo debito: “Devo solo risolvere alcuni dettagli!” A-


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veva detto, ma assicurò che presto ci avrebbe fornito le direttive apposite. Quella strana riunione volse quindi a termine e uno dopo l’altro lasciammo la casa del mio amico. In cuor mio non ero sicuro che gli altri si sarebbero più fatti vivi, ma avevo assistito a cose un tantino curiose da quando quella storia era cominciata. Chesterfield e Johnson potevano benissimo decidere di partecipare, dopotutto. Quando tornai nel mio appartamento mi accorsi che si erano fatte le tre del mattino. Mi spogliai e mi misi a letto, inquieto, ma riuscii ad addormentarmi soltanto alle prime luci dell’alba.


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VI

La cosa che più mi aveva impressionato di quell’incontro era l’accenno di Roger alla macchina che aveva detto di voler costruire. Fino ad allora non mi aveva mai detto niente di simile e, in realtà, aveva sempre mantenuto una posizione alquanto misteriosa sulle sue reali intenzioni. Mantenne però le sue promesse e cominciò a farsi vivo con Johnson e Chesterfield. Entrambi avevano ribadito la loro partecipazione e così avevo fatto anch’io. Si sentì per telefono con i due neuroscienziati mentre con me s’incontrò parecchie volte per discutere dei dettagli. A quanto pareva, Chesterfield si era mostrato entusiasta della possibile realizzazione della strana macchina che secondo Roger sarebbe stata in grado di studiare il soffio vitale che costituisce l’essenza di ogni essere umano, come egli stesso aveva detto una volta. A discapito della mia adesione, però, ero leggermente perplesso. A mio parere tutta la faccenda si sarebbe risolta in un enorme flop e sperai soltanto che le nostre carriere riuscissero a sopravvivere alla cosa. Il progetto comunque era ufficialmente iniziato, ma sia Chesterfield che Johnson dipendevano da noi per i loro esperimenti. Partendo, infatti, dalle considerazioni che Roger aveva esposto a casa sua, intendeva affrontare una serie di esperimenti su scala subatomica che potessero in teoria essere applicati alle ricerche cerebrali dei due neurofisiologi. Man mano che i risultati, se ve ne fossero stati, procedevano, il dottor McPherson avrebbe condotto studi comparativi in modo da fornirci un appoggio statistico alle nostre teorie. Inutile dire che Roger cercava di velocizzare al massimo le cose. Alla fine, i dati sarebbero serviti alla realizzazione della macchina che il mio amico aveva in mente ma di cui non mi aveva ancora mostrato alcun disegno. Ad ogni modo per i nostri esperimenti riuscimmo ad accedere a un computer davvero potente. Roger aveva preso accordi con un collega dell’università di YALE per poter accedere al loro sistema CRAY X a 6400 nodi, uno dei più potenti sistemi informatici esistenti. Riuscimmo ad usarlo almeno due volte alla settimana, un risultato notevole e dovuto in buona parte alla notorietà mia e di Roger nel nostro ambiente. Harrison non fu molto entusiasta quando apprese la cosa, ma


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Roger riuscì a risolvere il tutto avanzando la necessità di una maggiore capacità di computo per i suoi nuovi esperimenti vertenti sul vento solare. Non saprò mai come fece a sedare il nostro amato rettore ma la cosa parve funzionare. A poco a poco mi resi conto di quanto il mio amico fosse determinato e geniale nel suo campo. Gli esperimenti che facemmo erano fenomenali e, per certi versi, inimmaginabili per chiunque non avesse seguito una linea di pensiero che era l’opposto di quella classica. A volte i nostri dati si rivelavano errati di un fattore quattro e allora trascorrevamo intere settimane alla ricerca degli errori che avevano provocato quei risultati incoerenti. Ma altre volte i risultati erano sbalorditivi e decisamente inquietanti. Ad intervalli prestabiliti c’interfacciavamo con gli altri componenti del gruppo per accedere alle informazioni in loro possesso e confrontare il progetto dai rispettivi punti di vista. Tutte le carte, i dati e i dischetti venivano però rigorosamente conservati da Roger a casa sua e alla fine di ogni giornata trascorsa in laboratorio impiegavamo almeno un’ora nello scovare e distruggere qualsiasi traccia potesse rivelare la vera natura delle nostre ricerche. Certo, lavoravamo su dati che erano tutt’altro che scientifici, almeno all’apparenza, e i nostri risultati erano squisitamente teorici, ma le prospettive che aprivano erano incredibili. Più il tempo passava più mi scoprivo realmente appassionato a quegli studi, il che alimentava la mia voglia di saperne di più. Nonostante l’estremo interesse che nutrivamo per il nostro progetto, dovevamo pensare anche all’aspetto più tradizionale del nostro lavoro. Johnson, per esempio, aveva procrastinato una serie di conferenze per lavorare sui dati che gli avevamo fornito, ma anche nel suo caso era arrivato il momento di partire. Chesterfield, da parte sua, era incorso nelle ire della moglie a causa dei suoi impegni, fra segreti e di lavoro, che lo portavano ad assentarsi per lunghi periodi da casa. McPherson, infine, doveva stare dietro alla sua professione medica e non poteva dedicare più di un certo tempo al progetto. C’è da dire che il suo contributo alle ricerche era giocoforza limitato, perlomeno in quelle fasi iniziali, e quindi non perdette molto in termini di ore lavorative. Anche noi avevamo qualche problema: lezioni da fare, orari da rispettare e libri da terminare per assicurare la necessaria continuità al nostro lavoro in ambito universitario. Quanto al dolore al ventre che occasionalmente Roger accusava si rivelò essere un’ulcera piuttosto seria la cui causa fu identificata nello stress da lavoro oltre che nella scomparsa di Stephanie. Ciò provocò un allungamento naturale dei


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tempi ma la cosa che mi preoccupava non era soltanto questa. Temevo infatti che i nostri amici fisiologi dovessero presto dichiarare forfait a causa dei loro problemi, anche familiari, cui la ricerca li esponeva. Ma l’amore per la conoscenza che entrambi provavano si rivelò più robusto dei loro timori così tennero duro, anche se furono molti i momenti di assoluto sconforto che sperimentarono in quel periodo. A ciò si aggiungevano anche le convinzioni personali che ciascuno di noi nutriva. Personalmente c’erano giorni in cui, al mattino, mi risvegliavo dicendo a me stesso che si trattava di illusioni, di speranze statistiche vane e artificiose, ma quando mi recavo al laboratorio per condurre gli esperimenti mi trovavo nuovamente in mezzo a cose che mi riempivano di meraviglia e stupore. Cose tradizionali, perfino banali se viste con un occhio da riduzionista, ma che assumevano un aspetto nuovo quando venivano interpretate con i dati che andavamo accumulando. Rabbrividivo ai misteri ultimi che la materia sembra celare in sé, all’incredibile numero di coincidenze cosmiche racchiuse nella stessa struttura del mondo. Fortunatamente c’era il lato positivo della medaglia. Una buona parte dei nostri risultati erano applicabili anche a ricerche più tradizionali cui imprimevano un decisivo passo avanti. Lo stesso avveniva per Johnson e Chesterfield che riuscirono a perfezionare notevolmente le loro teorie dando vita perfino a una fattiva collaborazione di facciata con noi. Il risultato di tutto questo assunse forma concreta tramite svariate pubblicazioni di opere fatte a quattro mani tra noi e loro nelle quali erano racchiuse molte delle nuove nozioni che avevamo conquistato. Persino Harrison era soddisfatto e cominciò a concedere alcune sovvenzioni a noi necessarie con un po' meno sforzo del previsto. Impiegammo sei anni per arrivare alla fine della fase teorica dei nostri studi. Sei anni sono una vita, un periodo di tempo cioè, in cui tutto e il contrario di tutto può accadere. Verso la fine di tale periodo parecchi di noi subirono qualche cambiamento, non sempre positivo. Chesterfield, per esempio, vide la propria teoria subire svariati attacchi da parte dei riduzionisti più accaniti e, anche se disponeva dei mezzi per rispondere non sempre riuscì a farlo, a causa dell’obbligo al silenzio sui punti chiave del progetto. La stessa cosa toccò a Johnson che però si vide assegnata la cattedra di neurofisiologia sperimentale nella sua università, un premio cui ambiva da tanto tempo. McPherson non trasse giovamento, nella sua carriera, dal programma segreto anche perché il suo contributo fu marginale. L’aiuto vero lo avrebbe infatti dato solo nella fase decisiva, quella pra-


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tica. Né io né Roger conquistammo cattedre o riconoscimenti per i nostri studi ma eravamo soddisfatti così. L’importante era proseguire il lavoro il più possibile e pur tra mille problematiche sembravamo riuscirci. Pensandoci adesso mi accorgo di quanto fummo fortunati a non vedere infrante le nostre speranze, a mantenere vive le collaborazioni, a fare in modo che il nostro vero scopo fosse celato da altre voci. Il prezzo da pagare si era rivelato esiguo se confrontato con le nozioni che avevamo acquisito. Si cominciò a parlare seriamente della macchina quando riuscimmo ad arrivare ad alcuni risultati meno teorici di quelli cui eravamo giunti in tutti quegli anni. Al punto in cui eravamo diventava possibile condurre esperimenti pratici sulla materia e stabilire così se le proprietà quantiche da noi scoperte potevano essere riprodotte a nostra discrezione. La macchina che Roger aveva in mente avrebbe dovuto sfruttare tutti i nostri risultati ma nessuno sapeva se avrebbe funzionato davvero. Si trattava, infatti, del primo meccanismo costruito dall’uomo in grado di usare la meccanica quantistica per funzionare. Tanti, però, erano gli interrogativi che si affacciavano all’orizzonte: come avremmo costruito quell’apparecchiatura? Quanto sarebbe costata? Come si sarebbero reperiti i fondi? La nostra tecnologia attuale era sufficiente per la sua realizzazione? E per ultima, ma non meno importante, la domanda cruciale: avrebbe funzionato? Non lo sapevo anche se tutte le meravigliose conoscenze che avevamo acquisito potevano forse sollevare il velo che ci separava dalla Conoscenza Ultima. Personalmente, però, avrei preferito che quel velo restasse al suo posto.


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VII

Trascorsero altri quattro mesi, fu un sogno per Roger e un incubo per il sottoscritto, ma finalmente ci decidemmo sulla costruzione della macchina. Le discussioni che noi tutti affrontammo, interminabili, complesse e sfiancanti, avevano rischiato più di una volta di far naufragare l’intera faccenda. Chesterfield cercò di ostracizzare in tutti i modi la costruzione dell’apparecchiatura dicendo che avevamo già raggiunto buoni risultati con la teoria. Johnson lo aveva accusato di egoismo, in quanto l’amico aveva già ottenuto la cattedra che gli interessava. Cominciò dunque il solito gioco di interessi personali, ipotesi, paure e contraddizioni che sorgono spesso in simili casi, ma Roger fu abbastanza testardo da imporre comunque il suo punto di vista. Fu deciso che i finanziamenti sarebbero derivati per il novanta per cento dalla nostra iniziativa mentre alla restante quota avrebbero pensato Chesterfield e Johnson in percentuali più o meno uguali. Solo McPherson si tirò fuori dal discorso economico in quanto non gli era derivato alcun ritorno, sia esso d’immagine o di carriera. Ma una volta raggiunto un accordo su questo i problemi non erano ancora finiti: restava il dilemma del luogo dove costruirla, dato che non avrebbe dovuto essere accessibile da persone indesiderate. Fuori discussione quindi l’università o qualsiasi altra struttura pubblica. La sola opzione non poteva che essere una costruzione privata e Roger non ebbe alcuna remora a proporre la propria abitazione. Disponeva già di un completo laboratorio al primo piano, dell’energia sufficiente e di un conto in banca capace di coprire almeno le spese vive. Il resto lo avremmo recuperato gonfiando leggermente i budget degli esperimenti all’università, una cosa poco piacevole dal punto di vista legale, ma assolutamente necessaria. E poi a Roger non sarebbe dispiaciuto spillare un po' di soldi ad Harrison. Fu così che cominciammo lentamente a stilare il progetto di massima in modo da costruire lo strumento pezzo per pezzo. Per avere certe caratteristiche di funzionamento la sua struttura di metalli rari e costosi come il vanadio e l’Arseniuro di Gallio, quest’ultimo molto usato nella costruzione dei satelliti artificiali. Nel lavoro d’assemblaggio vero e proprio ci avva-


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lemmo degli stessi tecnici specializzati che provvedevano alla manutenzione degli strumenti installati nel laboratorio della facoltà di Fisica ai quali davamo false specifiche di utilizzo. In ogni caso ciascuna fase costruttiva subiva controlli scrupolosi. L’arseniuro di Gallio, per esempio, doveva essere puro al 99,99%. La realizzazione dei componenti minori fu affidata a ditte specializzate disseminate un po' ovunque sul territorio nazionale. Un subappaltatore del Wisconsin produceva i componenti ottici mentre tutti i circuiti elettronici provenivano da una ditta che già realizzava elementi per i supercomputers della serie CRAY, in Texas. Molti componenti come il rivelatore laser, però, venivano dai noi recuperati da strumentazioni presenti nel laboratorio di fisica all’università. Per assicurare allo strumento la necessaria affidabilità erano necessarie temperature prossime allo zero assoluto. Realizzammo pertanto un sistema criogenico a elio liquido che avrebbe assicurato le basse temperature richieste. Ci vollero sei mesi per terminarla ma altro tempo fu necessario per i controlli. L’aspetto esteriore della macchina era semplice: si trattava di un cubo metallico alto circa un metro e quaranta al cui interno era installato un generatore di particelle ad altissima precisione e tutta una serie di specchi la cui esatta curvatura era stata determinata grazie a molti mesi di studio. Il sistema generava un potente fascio di energia che, almeno in teoria, avrebbe dovuto emettere tachioni. Roger e io ne eravamo giustamente orgogliosi anche se la nostra felicità era mitigata dal fatto di non poter rendere pubblica tutta la faccenda. Tuttavia il fatto di aver potenzialmente costruito uno strumento tachionico era una scoperta eccezionale per la fisica e una conquista intellettuale seconda solo alle teorie einsteniane sulla luce. Unico neo era l’impossibilità di trasporto dell’apparecchiatura, cosa questa che non prevedeva la sperimentazione in un ospedale in collaborazione con McPherson. Non era un problema da poco in quanto la sola altra strada percorribile andava contro ogni etica e c’era da dubitare che McPherson acconsentisse a una tale soluzione. Ne parlammo una sera com’era diventato ormai prassi, tra noi, a casa di Roger.


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VIII

Questa volta fui il primo ad arrivare anche se neanche gli altri si fecero troppo attendere. Quando a sua volta arrivò, McPherson era scuro in volto e contrastava palesemente con il buonumore degli altri. Non ci perdemmo in convenevoli e mostrammo subito lo stupefacente oggetto conservato al piano di sopra: “E’ fantastico, non credete?” L’orgoglio che sprizzava da ogni poro della pelle di Roger sarebbe stato evidente a chiunque ma non toccò il medico che si limitò ad annuire pensieroso. Personalmente non me la sentivo di dar torto al mio amico visto che anch’io ero piuttosto fiero del nostro lavoro. Il laboratorio privato di Roger era relativamente angusto se rapportato a quello dell’università, ma non scarno. La macchina tachionica era semiaddossata alla parete più sgombra della grande stanza in modo da essere bene in vista. Era attiva, ma il ronzio che si sprigionava da quel cubetto di metallo era coperto dalle nostre voci. Chesterfield toccò il cubo come se si trattasse di un manufatto alieno. Lo squadrò da ogni visuale possibile, esaminò il sistema a superconduttori, l’apparato criogenico e le aperture praticate in una delle sue pareti. Johnson se ne tenne a distanza ma il suo interesse restava evidente. Solo il cardiologo pareva indifferente alla macchina. Come ho detto, era inquieto, come se non vedesse l’ora di andarsene al più presto. Che avesse intuito cosa stavamo per chiedergli? Ancora non lo sapevo, ma di lì a poco ne avrei avuto la conferma. Chesterfield fu il primo a porre le domande: “Non sono un fisico, anche se la vostra materia la mastico un po’, ma potreste spiegarmi come funziona quest’affare?” “Perché non ne parliamo a cena?” Proposi io. Per qualche motivo non me la sentivo di restare nel laboratorio. Provavo un brutto presentimento ed era il medico ad ispirarmelo. Temevo una sua eventuale reazione che potesse danneggiare l’apparecchiatura anche se naturalmente mi rendevo conto della stranezza di questa paura. Gli altri comunque acconsentirono ed io mi sentii sollevato a fare marcia indietro e uscire dal laboratorio. Sedemmo davanti alla tavola già imbandita, ma stavolta non avremmo consumato il piatto preferito di Roger, ma piatti a base di


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pesce. La cena era stata recapitata da una rosticceria specializzata in tali tipi di piatti e come al solito anche questa aveva preteso un supplemento a causa della strada in pessime condizioni. Nessuno mostrò appetito, comunque, perché tutti eravamo sovraeccitati da ciò che quella macchina rappresentava. Chesterfield tornò alla carica, ma fui io a rispondergli: “E’ essenzialmente un generatore di particelle che emette, probabilmente, solo tachioni.” “Perché probabilmente? Potreste aver sbagliato qualcosa?” Era stato McPherson a parlare. “Questo mi porta a dover spiegare il significato degli esperimenti che abbiamo fatto.” “La prego!” M’incoraggiò il mio interlocutore. Lanciai una rapida occhiata a Roger che incrociò il mio sguardo. Evidentemente anche il mio amico aveva capito che qualcosa in McPherson non andava. Feci finta di nulla e diedi inizio alla mia esposizione: “Il nostro dispositivo è, a tutti gli effetti, un generatore laser che emette fotoni. Questi vanno ad impattare contro un cristallo che muta ogni fotone in altri due fotoni uguali e distinti che escono da esso e seguono ciascuno una propria strada. Tali particelle gemelle sono riflesse da una coppia di specchi che le indirizzano verso una lastra chiamata divisore del fascio. Il nostro dispositivo sfrutta quell’effetto tunnel di cui abbiamo già parlato la prima volta che ci siamo riuniti qui. In altre parole, il divisore riflette solo una metà dei fotoni e ne trasmette il restante 50%. A causa del principio d’indeterminazione di Heisemberg non possiamo conoscere quale dei due fotoni sarà trasmesso e quale verrà invece riflesso. Stando alle leggi meccanica quantistica non potendo sapere quale fotone abbia imboccato un certo percorso, dobbiamo considerare il mondo subatomico come una struttura costituita da entrambe queste realtà potenziali che di fatto coesistono in entrambi gli stati.” “Se ho ben capito si tratta di qualcosa che avviene solo nel mondo subatomico ma non interessa i livelli più elevati di organizzazione della materia! Siamo quindi a livelli di pura teoria.” Azzardò il medico. “Non è esatto!” Mi fece eco Roger, “Quanto detto da Alan porta a realtà fisiche concrete. Nel nostro apparecchio abbiamo posizionato una barriera: il fotone che se la trova davanti dovrà passarvi in mezzo, ma non potrà incontrarsi con il suo gemello. Opportuni meccanismi ritarderanno i fotoni mentre i percorsi dei loro gemelli saranno compensati allungandoli di poco. Abbiamo già svolto esperimenti come questi e ab-


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biamo scoperto che il fotone che attraversava la barriera era anche quello che arrivava per primo! In pratica è come se la barriera rendesse il fotone più veloce. E proprio qui sta il punto del nostro ragionamento. Come sapete, la luce è una forma di materia ed i fotoni non sono altro che schegge di luce che viaggiano alla massima velocità possibile dell’universo, cioè circa trecentomila chilometri al secondo. Ma i fotoni che attraversano la barriera viaggiano già alla velocità della luce e quindi la attraversano ad una velocità superiore.” “Quanto più veloce?” Chiese Johnson. “Abbiamo stimato una velocità superiore del 24%!” Spiegai. “Meraviglioso!” Scattò Chesterfield, “Avete davvero scoperto i tachioni!” “Non possiamo esserne sicuri, purtroppo.” Intervenne Roger, “perché non è la stessa cosa dedurre, dopo le nostre prove, che una determinata particella possa aver superato la velocità della luce. Sapevamo, inoltre, che se avessimo sottoposto a osservazione tale processo non saremmo stati in grado di cogliere l’evento. Dovete ricordare che la meccanica quantistica presuppone la bizzarra necessità di un osservatore esterno perchè si realizzi un evento del genere. E’ come se la natura chiedesse allo scienziato di osservare il fenomeno, altrimenti esso attraversa due stati contemporaneamente. La materia come noi la conosciamo non è solida ma in continua ebollizione. E fenomeni come quelli che si verificano a livello subatomico, in mancanza di un osservatore generano particelle fantasma in ogni momento. E’ questo il motivo per cui ipotizzo che l’anima abbia una struttura tachionica. La macchina che vi abbiamo mostrato dovrebbe effettivamente produrre i tachioni, ma non abbiamo installato su di essa alcuno strumento di misura. Se funzionerà per davvero allora produrrà un fascio tachionico che sarà appositamente modularizzato e schermato al fine di variarne la lunghezza d’onda. Dopodichè sarà indirizzato verso il nostro bersaglio, un corpo umano, e se realmente lo spirito esiste forse vedremo qualcosa a causa della diffrazione dell’onda. Forse non avranno lenzuola o catene, forse saranno solo oggetti infinitesimi nello spazio, ma i fantasmi sono ovunque, signori, solo che noi non ce ne rendiamo conto.” Mentre Roger parlava osservai il medico. Non mi parve affatto convinto al contrario degli altri i cui commenti furono molto positivi. Gli chiesi se nutrisse qualche perplessità: “Direi che è qualcosa di più di una perplessità. Avete detto che il nostro


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bersaglio sarà un corpo umano! Ma avete anche considerato la possibilità che il vostro strumento potrebbe non servire a nulla.” “Certo, è una possibilità, ma dobbiamo tentare ugualmente.” Osservai. “Sono d’accordo!” Aggiunse Chesterfield. “E qui entro in ballo io…” Fece il medico, sornione. “Vi è un altro dettaglio, dottor McPherson.” Dissi, “Lo strumento è intrasportabile. Anche un minimo spostamento potrebbe danneggiare il sistema criogenico e rendere la macchina imprecisa.” “Questo in un certo senso mi solleva il morale, dottor Grant! Temevo che avreste posizionato quell’aggeggio in una sala di rianimazione facendomi rischiare di perdere i miei pazienti.” Ignorai deliberatamente il suo tono ironico: “Nessuna direzione di un ospedale che si rispetti assentirebbe ad una cosa del genere, lo sa bene! L’esperimento sarà svolto qui.” “Ma non possiamo certo sperare che qualcuno abbia un infarto e portarlo qui. Non sopravvivrebbe al viaggio, questo è garantito!” Obiettò Chesterfield, ma subito dopo tacque. Stava cominciando a capire il senso delle mie parole. “Chi?” Chiese allora semplicemente il neurofisiologo. Roger sorrise: “Io, naturalmente!” “Non se ne parla proprio!” Disse McPherson, alzandosi per andarsene. Roger si alzò a sua volta e lo trattenne per un braccio: “Firmerò un documento che vi libererà tutti da ogni responsabilità morale.” “Lei è pazzo! Come può concepire una simile follia?” “Pensavo le interessasse sapere cosa c’è dall’altra parte!” “Non in questo modo, dottor Ellis.” Si liberò dal braccio di Roger e si diresse rapidamente verso la porta che aprì con una certa violenza. Prima di sparire si volse brevemente verso di noi: “Un’ultima cosa: io le vite le salvo, non le perdo. Addio signori.” La porta fu richiusa di slancio e, per i minuti che seguirono, nessuno disse più niente.


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IX

Nessuno si era fatto più vivo dopo quella sera. Se il cardiologo non aveva più risposto alle telefonate mie e di Roger anche gli altri componenti del team sembravano essersi dati alla macchia. Roger non era riuscito più a trovare un attimo di pace e ogni volta che lo vedevo continuava a ripetere fino alla nausea lo stesso discorso. Diceva che al punto in cui eravamo ormai era da stolti non completare gli esperimenti. Quanto a me non biasimavo troppo il comportamento del cardiologo. Procedere ad un esperimento medico come quello che avevamo prospettato sarebbe stato un azzardo imperdonabile. Anche ignorando i rischi potenziali sarebbe stato un giochetto assolutamente illegale. Naturalmente Roger non era d’accordo ma era palese che il suo atteggiamento nei confronti del progetto stava cominciando a rasentare la follia. Una sera il mio amico mi chiamò a casa dicendomi che aveva delle novità che non si sentiva di rivelarmi per telefono. Ricordo esattamente l’ora in cui mi chiamò: erano le 21.00. In quel momento ero appena tornato da una conferenza e stavo per concedermi una banale ma tranquilla serata a base di pizza e un buon film. In un’altra occasione lo avrei mandato a farsi friggere ma qualcosa nel suo tono mi consigliò di non farlo. La verità era che mi parve parecchio ubriaco. Per questo finì in fretta il mio pasto solitario e andai dritto a casa sua. Mi stupii nel trovare la porta dell’ingresso accostata e le luci del piano terra spente. Lo chiamai a gran voce ma non ottenni risposta. Non trovandolo, salii di sopra ed accesi le luci in tempo per scorgere una bottiglia di bourbon sul pavimento. Lo cercai in camera da letto ma trovai soltanto un paio di bottiglie di birra sul comodino senza trovare traccia del mio amico. Quella casa sembrava disabitata. Finalmente decisi di controllare il laboratorio e fu allora che vidi il lettino contornato da strane apparecchiature. Su di esso, un corpo a stento celato da una coperta termica con una flebo di qualcosa che arrivava al suo avambraccio sinistro. Il volto emaciato, le labbra bluastre e tremolanti, le profondo occhiaie intorno ai suoi occhi mi dissero che stava morendo per assideramento. Levargli la flebo e trascinarlo di peso fino al letto fu questione di pochi attimi. Ro-


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ger tentò di reagire, ma ero pronto a convincerlo a schiaffi se fosse stato più deciso. Con una certa rudezza lo depositai sul letto e lo coprii con una coperta. Poi tornai al piano terra, attivai i termosifoni, e preparai una caraffa di caffé bollente che gli schiaffai in bocca senza tanti complimenti. Lo frizionai vigorosamente sulle braccia e i polsi e lentamente tornò in sé. Decisi che avrei trascorso la notte lì in modo da controllarlo meglio. Quando poté mettersi a sedere normalmente lo interrogai, ma dovetti fare appello a tutta la mia pazienza: “Vorrei sapere cosa cavolo pensavi di fare!” Il mio amico mi guardò con un sorriso di sfida: “Non è molto complicato da capire, volevo morire!” Gli avrei volentieri cancellato quel sorriso da ebete con un pugno ben assestato, ma naturalmente mi controllai: “Sei un idiota, questo lo sai?” “Può darsi, ma restano affari miei.” Fu la sua sardonica risposta. “No!” Ribattei deciso, “Se mi rompi le scatole alle nove di sera per farmi precipitare in questa landa desolata che chiami casa solo per vederti fare l’imbecille sono anche affari miei!” “Roger si puntellò sui gomiti, ma non si alzò: “Hai ragione! La prossima volta vedrò di non chiamarti più, d’accordo?” “No! La prossima volta ti denuncio direttamente alle autorità competenti, ti faccio perdere la cattedra cui, sia detto per inciso, non sembra tu tenga tanto, e farò in modo di mettere tra te e me il maggior spazio possibile, mi sono spiegato?” “E’ una buona idea!” Replicò flemmatico. Doveva aver tracannato una notevole quantità di liquore. Riuscì ad alzarsi, anche se con una certa fatica, e si avvicinò alla finestra che dava sul tenebroso paesaggio che si estendeva al di là della casa. Non ero mai riuscito a capire come facesse a vivere in quel posto isolato specialmente dopo aver perso Stephanie. Il silenzio si frappose tra noi con ali di piombo. Sospirai, mentre cercavo di organizzarmi mentalmente per trascorrere la notte lì ed avvertire che il giorno dopo avrei fatto ritardo al dipartimento di Fisica. Roger continuò a fissare il nulla poi, come se si fosse svegliato da un sonno profondo, mormorò: “Grazie, Alan. Senza il tuo aiuto non ce l’avrei fatta!” Sospirai di nuovo: “Dire che sei una persona bizzarra equivale a farti un complimento!” “Non sei la prima persona che me lo dice!” Mi rispose voltandosi lentamente. Aveva uno sguardo vacuo e per un istante temetti che stesse


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per svenire. Invece sedette su una sedia e mi fissò con occhi stanchi. Era evidente che vi era qualcosa che non andava, ma conoscevo troppo bene Roger Ellis per capire che non avrei saputo nulla di quel che gli passava per la mente fino a quando egli stesso non avesse deciso di parlare. Così lo precedetti: “Potresti spiegarmi cosa volevi fare?” Roger sorrise, e stavolta era serio: “Sono stato debole, Alan. Tutto qui. Volevo fermare il mio battito cardiaco utilizzando le basse temperature e sperimentare una NDE personalmente. Un temporizzatore avrebbe attivato uno stimolatore cardiaco dopo tre minuti.” Scossi la testa, sorpreso: “E credevi di farla liscia? Ti saresti ucciso certamente! Ti serviva almeno un medico esperto!” “Non è stato un comportamento molto intelligente, il mio.” Mi rivolse uno strano sorriso: “Ma ho bevuto molto, te ne sarai accorto! E’ stato un bene che quella coperta termica non funzionasse a dovere altrimenti non avrebbe ritardato l’assideramento ed ora non sarei qui a parlare con te.” “Da quando hai cominciato a bere?” “Qualche bicchiere negli ultimi tempi ma non ho mai raggiunto livelli allarmanti. Per quanto riguarda questa sera diciamo da un’ora prima che tu arrivassi, penso.” Sorrise, “Non sono un bevitore abituale!” “Passerò la notte qui, va bene?” “Non è necessario, sto bene, ora. Andrò a dormire immediatamente tanto per farmi passare questo bel cerchio alla testa da dopo sbornia. Tranquillo, non farò altre sciocchezze; ti ho già procurato abbastanza problemi.” “Sicuro?” Annuì: “Certo.” Gli credetti, così lasciai che mi accompagnasse alla porta. La bottiglia che avevo fatto rotolare per le scale si era sparsa per tutto il pavimento insieme al suo contenuto. Roger si fermò un momento a contemplarne i frammenti, pensieroso: “Sono stato stupido, eh?” “Non pensarci!” Risposi, poi raggiungemmo la porta. Prima di andarmene dissi: “Avevo pensato di contattare gli altri e fare un ultimo tentativo.” Roger mi guardò: “Ho capito bene?” Annuii: “Ti dò la mia parola, ma a patto che tu non escogiti altre sciocchezze!”


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“Perché lo faresti?” “Sei il mio migliore amico! Hai bisogno di altre spiegazioni?” Mi tese la mano che strinsi energicamente. Notai che i suoi occhi erano lucidi, forse troppo. Immaginai che fossero i postumi della sbornia. Roger non era tipo da abbandonarsi a facili lacrimucce: “Grazie!” Mormorò. Un sorriso fu la sola risposta che ottenne da me poi mi voltai e, senza dire altro, m’inoltrai nel giardino.


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X

Non fu facile per me mantenere quella promessa poiché nessuno se la sentiva di affrontare quella sperimentazione così inconsueta. Sostanzialmente, si trattava di arrestare le funzioni vitali di Roger per pochissimi minuti durante i quali avrei azionato la macchina tachionica. Subito dopo bisognava riportarlo in vita. Era senza dubbio una scommessa seria e rischiosa. Nessuno poteva essere sicuro che una volta arrestate le funzioni vitali del mio amico saremmo poi riusciti a farle ripartire di nuovo. Gli unici che avrebbero avuto il loro da fare sarebbero stati McPherson e Johnson. Io mi sarei limitato a usare il generatore tachionico mentre Chesterfield avrebbe avuto più che altro il ruolo di osservare e registrare i dati. Anche se alla fine entrambi i ricercatori vinsero la propria ritrosia, McPherson non arretrò di un millimetro dalla sua posizione. Niente sembrava capace di smuoverlo, neanche la possibile scoperta di una prova irrefutabile su ciò di cui egli stesso aveva sentito parlare in tanti anni di professione. Devo ammettere che lo ammirai per la sua incrollabile fede nel lavoro che considerava più vicina alla missione di salvare il maggior numero possibile di vite umane che una fonte di mero guadagno personale. Un giorno, Roger ebbe una violenta discussione con il cardiologo cosa, questa, che non contribuì certo a semplificare le cose. Il tempo, inoltre, non ci era d’aiuto. Il mio amico era sempre più nervoso, a volte per giornate intere. Furono molti i momenti in cui temetti che fosse sul punto di rifare la stessa, sconsiderata azione dalla quale lo avevo salvato a stento. Per fortuna, però, non lo fece mai, anche se in seguito mi avrebbe confessato di esserci andato fin troppo vicino. Ad ogni modo non se la sentiva di passare il suo tempo con le mani in mano così, considerato l’attuale stallo della situazione, decise almeno di provvedere all’attrezzatura che avrebbe potuto servire all’esperimento. Era sua intenzione sostituire gli strumenti che aveva usato per sé stesso la prima volta con altri più efficienti. Incaricammo una nota ditta di Seattle di consegnarci a domicilio buona parte degli apparecchi mentre il resto ce lo procurammo per vie traverse, in un ospedale. Una volta completata l’acquisizione, stipammo il materiale in


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una stanza dell’abitazione di Roger che diventò così una saletta di rianimazione privata. Contemporaneamente eseguimmo diversi test di controllo sulla nostra macchina tachionica alla ricerca di qualsiasi anomalia costruttiva. Scoprimmo in questo modo che alcune guarnizioni del sistema criogenico per la refrigerazione dei laser erano a rischio di tenuta e le sostituimmo. Inoltre rieseguimmo i controlli di base in modo da fare in modo che il sistema fosse pronto. In realtà non sapevamo ancora se lo strumento avrebbe funzionato, né per quanto tempo, ma quello che stavamo facendo serviva a questo punto più per distrarci che ad altro. Non ci sfiorò minimamente il pensiero che tutti i nostri sforzi avevano buone possibilità di essere inutili dato che l’esperimento non era affatto certo. Spesso ripensai a questo importantissimo dettaglio, ma non ne feci mai parola con Roger. Quando discutevamo dell’esperimento, delle sue incredibili potenzialità, traspariva dal suo sguardo una sicurezza oggettivamente strana che mi dava da pensare. Il mio amico non aveva il minimo timore di un insuccesso. Come ebbe a dirmi una volta, era convinto che si trattasse solo di una questione di tempo. Tuttavia questa sua sicurezza non era sufficiente perché in molte occasioni ebbi modo di notare quanto fosse teso. Continuava ad accusare problemi allo stomaco che sedava facendo ricorso a compresse di cui non vidi mai le confezioni. Più di una volta gli feci domande in merito, ma di norma rispondeva che si trattava solo della sua ulcera da stress e nient’altro. Tuttavia i farmaci che i medici gli avevano prescritto non sembravano essere molto efficaci per tenerla a bada. Continuava a ripetermi che tutto si sarebbe risolto una volta che avremmo completato gli esperimenti. Sulle prime gli credetti, ma non mancai di notare ugualmente che in certi giorni il suo volto pareva simile ad una maschera, come se cercasse di controllare una violenta emozione. Poiché era ovvio che non mi avrebbe mai detto la verità fino in fondo decisi d’indagare per conto mio. Per un certo periodo trascorsi buona parte del mio tempo da Roger, spesso fino a tardi. Così una volta ne approfittai per dare un’occhiata discreta al suo armadietto dei medicinali. Le fantomatiche compresse che inghiottiva, però, erano sempre contenute in buste di plastica trasparente. Il dettaglio m’incuriosì non poco dato che il resto dei farmaci era contenuto in normali confezioni con tanto di foglietto esplicativo. Poteva naturalmente trattarsi di farmaci fitoterapici che il mio amico si faceva preparare da qualche farmacia ben attrezzata, ma rimanevo dubbioso lo stesso. Quella volta richiusi l’armadietto ma


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in seguito mi pentii di non essermi procurato un po' di quella roba per farla analizzare. Il tempo trascorreva lentamente, ma il nostro lavoro era frenetico. Chiesi ed ottenni alcuni giorni di ferie arretrate perché il lavoro di controllo da Roger e soprattutto la tensione emotiva che cominciavo a sperimentare si rivelarono un po' pesanti per me. Roger aveva fatto lo stesso, ma stavolta i suoi motivi furono tanto seri da indurmi a preoccuparmi per la sua salute. Il dolore che saltuariamente accusava era cresciuto d’intensità e spesso doveva fare uso delle sue strane compresse svariate volte al giorno. Gli consigliai di andare da uno specialista, ma rifiutò sempre di farlo. Non conoscevo altri medici, ma potevo fare in modo di portarne uno al suo domicilio. Quando lo feci, Roger si rifiutò di farci entrare in casa facendo naturalmente infuriare il medico che pretese lo stesso il compenso dal sottoscritto. Devo confessare che l’accaduto offese parecchio anche me così per qualche giorno non ci sentimmo né mi recai a trovarlo. In effetti stavo passando un periodo buio della mia vita professionale. Se Roger era conosciuto in tutta l’università come un individuo bizzarro io ero, al contrario, noto per la mia precisione in ogni situazione che affrontavo. Non mi ero mai concesso un periodo tanto esteso di ferie e le mie lezioni si erano sempre svolte con precisione matematica. Ora invece non era più così, cosa che fu ben presto notata da Harrison, che pretese spiegazioni. Arrivato a quel punto vuotai il sacco, tralasciando naturalmente di rivelare qualsiasi dettaglio sull’esperimento. Stranamente, il rettore si mostrò comprensivo, tuttavia mi esortò a tornare nei ranghi e di cercare di far fare la stessa cosa a Roger, se ci teneva a restare nell’università. Gli promisi che avrei fatto il possibile, ma che non nutrivo molte speranze. Una sera, molto tardi, Roger mi chiamò al telefonino. In quel momento avevo appena finito di rileggere una relazione preparativa del prossimo corso che avrei dovuto tenere ai miei studenti e mi ero preparato un tè alla pesca, bevanda che di solito pone termine alle mie giornate di lavoro. Quando risposi non mi arrivò nessuna voce dall’altra parte, tranne un lieve rumore di sottofondo. Chiamai il mio amico a gran voce ma il solo suono che uscì dalle sue labbra era una serie di parole inintelligibili. Qualche istante dopo la comunicazione cadde, ma i miei tentativi di richiamarlo non portarono a nulla. Fu allora che provai davvero paura, perché rammentai la chiamata che Roger mi aveva fatto un paio di mesi prima quando aveva provato a tentare l’esperimento da solo. Lo chiamai a casa ma il telefono risultò staccato. Potevano esservi tanti motivi


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per cui la sua linea era interrotta, ma in quel momento non me ne veniva in mente neanche uno. Chiamai subito il centralino del pi첫 vicino ospedale ma tutte le linee risultarono occupate. Allora decisi diversamente e chiamai un altro numero. Sperai con tutto il cuore che McPherson fosse in casa.


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XI

Era da poco passata la mezzanotte quando la figura robusta del cardiologo sedette nella mia auto. Le luci della strada non erano sufficienti perché ne vedessi bene i lineamenti, ma il tono della voce non lasciava adito a dubbi circa il suo umore. Aveva con sé una borsa piuttosto voluminosa che immaginai contenesse il necessario per un primo intervento d’urgenza. Senza dire una parola ingranai la prima e partii il più velocemente possibile verso la casa del mio amico. Per tutta la durata del tragitto pregai mentalmente che Roger fosse vivo, che mi sbagliassi. Mi rifiutavo di immaginare il suo corpo stesso bocconi sul pavimento, rigido, immobile. Il dottor McPherson non fu molto loquace, limitandosi a rivolgermi solo poche parole di rito: “Quando lo ha sentito l’ultima volta?” “Circa un ora fa.” “Ê riuscito a dire qualcosa?” “No, dottore. Le ho già spiegato al telefono come sono andati i fatti. Ora spero soltanto che sia ancora vivo.” “Avrebbe dovuto farlo ricoverare per un controllo dopo il suo primo tentativo, dottor Grant. Spesso questi soggetti ripetono i loro tentativi.” “Lei non ha a che fare con un suicida!” Replicai allora io, “Era solo ubriaco.” “Non mi risulta che tutti gli ubriachi tentino sciocchezze del genere. Il suo amico è mentalmente instabile, probabilmente a causa dello stress. Ê fin troppo facile pensare che abbia ripetuto il tentativo dopo il mio ultimo rifiuto a collaborare. Lo ripeto: avrebbe dovuto farlo visitare da uno specialista.” Parlava in un modo talmente gelido da risultarmi odioso. Istintivamente lo biasimai, ma non dissi nulla. Non era il momento di abbandonarmi a sterili polemiche. Per fortuna quella sera il traffico era scarso e la mia guida poté essere abbastanza fluida. Trascorsero una ventina di minuti circa, quindi il medico parlò di nuovo: “Ha accusato qualche problema nei giorni passati?” “Cosa?” Feci io. Ero concentrato sulla guida e non avevo ben capito le


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sue parole. Gli chiesi di riformulare la domanda: “Sa se nei giorni passati ha avuto qualche dolore? Non so, al petto o ad una spalla?” “Non che io sappia.” Passò un altro minuto. Rammentai dei suoi strani dolori al ventre e delle pillole che trangugiava in quell’occasione ma non mi sembravano attinenti con quello che temevo. Se Roger aveva davvero tentato nuovamente l’esperimento non erano certo le compresse o lo stomaco i fattori a rischio. Ci pensai qualche secondo su, poi decisi di dirlo lo stesso. McPherson mi fissò, incuriosito: “Che tipo di compresse?” “Non lo so esattamente!” Un auto che superai con un certo brio mi suonò dietro per un po', protestando del mio sorpasso azzardato: “So solo che le conservava in una busta di plastica. Alcune erano capsule di gelatina verdognola. Le altre erano bianche del tipo più comune. Impossibile sapere cosa contenessero.” “Il suo amico fa uso di droghe?” Per un istante lo guardai: “Non è il tipo.” “Sto solo cercando di farmi un quadro, dottor Grant. Non ho portato con me tutta l’infermeria.” “Mi scusi! Ê solo che sono nervoso, tutto qui.” “Mi stava dicendo dei dolori che accusava?” Proseguì serafico il cardiologo, ignorando le mie ultime parole. Riusciva ad essere molto professionale e mi chiesi come ci riuscisse: “Degli strani dolori al ventre. Mi ha parlato spesso di un’ulcera causata dall’intenso stress degli ultimi tempi. Mi pare che abbia detto che fosse una forma congenita!” In quel momento uscii dalla provinciale per immettermi nella secondaria che ci avrebbe portato dritti a casa di Roger: “Ê mai andato da un medico per farsi fare un qualche tipo di esame?” Sorrisi amaramente: “Una volta ho tentato di portare fin lì un gastroenterologo ma non ha voluto riceverci.” Evitai di rivelare al mio ospite la reale reazione che aveva manifestato Roger in seguito al fatto. C’erano già abbastanza attriti fra i due uomini pertanto preferii non alimentare ulteriormente il fuoco. “Ha mai accusato perdita di liquidi?” “Che intende dire?” “Vomito, diarrea, sudorazione...”


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“Non lo so; perché mi fa queste domande?” L’uomo accanto a me trasse un lungo respiro prima di rispondermi: “Sto cercando di capire il problema, dottor Grant. Potrebbe darsi che il suo amico abbia commesso l’ennesima sciocchezza, ma forse abbiamo a che fare con qualcos’altro.” Tacque per un attimo, sorpreso dal violento sobbalzo che la mia Mustang subì quando terminò la strada asfaltata per lasciare il posto ad un viottolo quasi impraticabile. Eravamo ormai vicini alla nostra destinazione. Non feci altre domande al mio interlocutore e il medico mi riservò lo stesso trattamento. Uno strano, quasi palpabile alone di silenziosa diffidenza ci separò costruendo intorno a noi una barriera di silenzio rotta solo dal rumore della macchina che proseguiva indomita sul sentiero. Notai di sfuggita che McPherson stava fissando il nulla. Mi domandai a cosa stesse pensando. Forse si era pentito di aver ceduto alla mia richiesta di portarlo da Roger. Magari si era convinto davvero che lo stessi ingannando. Se così era non me ne preoccupai: presto avrebbe saputo che non scherzavo. Il viottolo che stavamo percorrendo si stava facendo sempre più difficile e questo mi costrinse a ridurre la velocità. Lanciai un’occhiata all’orologio dell’auto: era passata un’ora da quando McPherson era salito a bordo. Questo significava solo una cosa: se Roger aveva subìto un attacco cardiaco era già morto. Scacciai l’infausto pensiero dalla mia mente e non dissi nulla. McPherson lo sapeva, era ovvio, ma mantenne il suo tacito riserbo. Diventavo sempre più teso man mano che trascorrevano i secondi e ignorai le proteste degli ammortizzatori che mordevano lo sterrato. Ma dovevo stare attento: l’oscurità era assoluta e l’idea di urtare una pietra, una radice o quant’altro e restare isolato in quella landa desolata non mi attirava per niente. Così ridussi la velocità e accesi i fendinebbia per vedere meglio gli oggetti disseminati sul percorso. Perché quell’idiota di Roger aveva voluto abitare lassù? In quel momento pensai che neanche un elicottero avrebbe potuto atterrare vicino a casa sua, ma McPherson non mi aveva mai prospettato l’idea. No, non se n’era dimenticato; era ovvio che non mi credeva. Continuai quella corsa forsennata per una altra decina di minuti poi finalmente apparve la casa del mio amico debolmente rischiarata dai fari. Arrestai l’auto stremata e guardai il cardiologo: “Siamo arrivati!” Dissi infine.


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XII

Non c’erano luci a parte la modesta lampada che illuminava l’ingresso. Tutta la zona era completamente isolata dal resto del mondo. Una delle finestre del piano di sopra mostrava le imposte spalancate, ma da queste non usciva alcuna luce. Le altre finestre e quelle del pianterreno erano rigorosamente chiuse. Uscii dalla Mustang e mi avvicinai alla porta senza attendere McPherson. Bussai ripetutamente al campanello, inquieto. Nessuno venne ad aprire. Ripetei il tentativo, ma il solido legno della porta d’ingresso non si mosse: “Proviamo ad aprirla a spallate!” Propose il cardiologo che si era nel frattempo avvicinato. Feci come aveva detto ma senza risultati. Allora chiamai Roger a gran voce ma di nuovo niente. Facemmo il giro dell’edificio nella speranza di trovare qualche via d’accesso meno ostica di quella da noi tentata. Trovammo sul retro una finestrella, forse la sola via di luce naturale del seminterrato. Purtroppo era difesa da solide sbarre d’acciaio che cancellarono rapidamente le nostre speranze. Allora ritornammo dall’altra parte e riprovammo ad aprire la porta principale. Le spalle mi dolevano ma il legno dell’ingresso si limitava a scricchiolare senza cedere di un millimetro. Ci fermammo un attimo per riposare e quale non fu la nostra sorpresa quando avvertimmo chiaramente una chiave girare nella serratura. Avvertimmo inebetiti il familiare rumore, quindi la porta si aprì lentamente gettando una striscia di luce all’esterno. C’era una figura in quella luce, curva, vulnerabile. La sua faccia era contratta in una smorfia di dolore ma il sorriso sardonico era rimasto immutato. Prima che cadesse, afferrammo il mio amico e lo portammo a viva forza sul divanetto del soggiorno. L’interno della casa versava in uno stato di abbandono e disordine pietoso. File di piatti non lavati giacevano tristemente nell’acquaio della cucina, la tavola era ingombra dei resti di chissà quanti pasti. Cuscini, fogli di carta, appunti vari erano sparsi sul parquet. Sembrava che una banda di ladri avesse imperversato in quella casa per molte volte di seguito. Ma era Roger quello che mi preoccupava. Avevo creduto di trovarlo morto, ma il sollievo che avevo provato nel constatare invece che era vivo fu di breve


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durata. McPherson lo visitò a lungo, metodicamente. Non lo investii con le mie domande, lasciai che il medico svolgesse il suo compito. Dalla borsa che aveva con sé, il cardiologo trasse uno stetoscopio e alcune fialette di medicinali dei quali ignoravo la funzione. Non mi andava di stare a guardare quella figura debole e ansimante che era stata il mio migliore amico così mi sedetti su una sedia accanto a un tavolino. Il caso volle che sul ripiano del mobile fossero state posate alcune bustine di compresse. Riconobbi le capsule verdognole e le feci vedere a McPherson. Questi mi guardò: “Non è infarto!” Disse semplicemente, “Ma qualcosa di altrettanto serio.” Stavo per rispondergli quando Roger sollevò un braccio verso di me fissandomi con il suo solito sguardo ironico: “Non te lo aspettavi, eh?” Fece. Lo fissai sbigottito chiedendomi come faceva quell’uomo a restare ironico anche in un momento come quello: “Non cercare di parlare!” Gli dissi, “Conserva le energie.” McPherson lo aiutò a distendersi meglio sul divano, poi gli praticò una iniezione: “Questo l’aiuterà a combattere il dolore.” Disse. “Ma che cavolo sta succedendo?” Esclamai allora io. “Credo che il suo amico abbia un tumore all’intestino.” La voce del medico era piatta, quasi indifferente nella professionalità li lasciò inebetito per qualche istante. Scossi la testa meccanicamente, come se le parole che avevo appena udito non riguardassero me: “Come fa a dirlo? Non mi ha mai detto di avere un tumore.” Fissai il mio amico morente, gli posi una mano su una spalla, scrollandolo: “Avanti, razza d’idiota, diglielo che menti, che stai scherzando! Non mi hai detto mai niente, perché?” Non mi rendevo conto di ciò che stavo facendo, ma il cardiologo mi fermò: “Mi dispiace.” Disse. Solo in quel momento realizzai che era tutto vero. Roger era molto pallido, il sudore gli scorreva copioso sulle guance come se fossimo in piena estate. Si puntellò sui gomiti cercando di alzarsi. Non smise mai di fissarmi e in quel momento lo odiai con tutto me stesso: “Perdonami Alan, ma non volevo essere di peso a nessuno con i miei problemi!” “Sei sempre il solito incosciente!” Ribattei, “Ma non ti lascerò tirare le cuoia così, non ti darò questa soddisfazione.” Mi strinse un braccio con una mano e solo allora mi resi conto di quan-


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to fosse debole. Scosse tenuemente la testa. Il sorriso ironico era scomparso da quelle labbra emaciate: “Io non ce la farò, Alan, l’ho sempre saputo.” Un filo di saliva cominciò a fuoriuscirgli dalla bocca. McPherson usò una garza sterile per ripulirlo. Roger sospirò, poi chiese dell’acqua. Mi alzai di scatto e andai in cucina. Raccattai una bottiglia e un bicchiere di plastica da qualche parte e li portai al suo capezzale. Lentamente bevve mezzo bicchiere di liquido, poi ricominciò: “Sono anni che sapevo, da prima ancora che Stephanie morisse. Ho sempre pensato che sarei stato io ad andarmene e non lei, ma il destino ha voluto altrimenti. Per questo ho dedicato gli ultimi anni della mia vita a questo progetto. Volevo solo sapere se esiste davvero qualcosa dall’altra parte, se non siamo soli in questo mondo pazzo!” “Ma perché non mi hai mai detto niente? Avrei potuto aiutarti, capirti. Perché non me ne hai mai parlato?” Roger socchiuse gli occhi, respirando rumorosamente. Aveva tutta l’aria di provare un bel po' di dolore. Lo dissi a McPherson ma questi scosse il capo: “Gli ho dato una buona dose di morfina, impossibile fare di più.” La mia visione cominciò a diventare offuscata mentre le lacrime mi riempivano gli occhi. Mi alzai e tornai in cucina a cercare qualcosa con cui asciugarmi. Non volevo che Roger mi vedesse in quello stato. Tutto quel tempo a studiare l’impossibile, tutti quegli anni persi dietro un assurdo progetto e per scoprire cosa? Che tutti dobbiamo morire? Trovai alcuni tovaglioli di carta e tornai dai due uomini. Roger mi stava fissando. Probabilmente se n’era accorto, perché con un filo di voce disse: “Non avresti potuto fare niente per me, amico mio. Io stavo lentamente consumando la candela della mia vita e nessuno avrebbe potuto fabbricarmene una nuova. Ho seguito tutti i trattamenti possibili, all’inizio nemmeno io volevo crederci.” Sorrise, “Ê curioso: non pensiamo mai che certe cose possano accadere anche a noi, vero? Stephanie mi è stata sempre vicina, ma non ha mai detto nulla perché io avevo deciso così. Un anno dopo lei è morta e io mi sono ritrovato solo. Ho preferito mantenere il segreto e seguire le cure che i medici mi davano per rallentare l’avanzata del tumore.” Si fermò un momento per riposare. Lo esortai a non parlare oltre ma non volle ascoltarmi: “Stammi a sentire, Alan, perché dopo ti chiederò un favore. Dunque che stavo dicendo? Ah, ecco! Quello che ti ho sempre detto è vero, solo che non era tutta la verità. Volevo realmente conoscere la natura della


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morte per scoprire se mia moglie poteva ancora esistere da qualche parte. Ma volevo anche sapere se io avrei potuto raggiungerla.” Incurvò le labbra in un sorriso stentato: “E invece pare che lo scoprirò seguendo una via del tutto naturale. Ma forse è meglio così, non credi?” Annuii meccanicamente. Mi chiese un altro sorso d’acqua e io lo accontentai: “Siete arrivati giusto in tempo. Grazie, Alan, grazie dottor McPherson!” “Lei è molto stanco, dovrebbe riposare.” Gli fece eco questi, ma Roger non era d’accordo: “Avrò tutta l’eternità per riposare, ma pochi minuti ancora da vivere. Voglio che mi aiutiate.” “Io... io non so se... non credo di poterlo fare!” Sbottò il cardiologo. Ma io lo ignorai: “Dimmi solo che devo fare.” McPherson mi fissò: “Ê impazzito?” “Può venire di là un attimo?” Il medico protestò ma alla fine mi seguì in cucina, con lo sguardo torvo: “Cosa crede di fare, maledizione? Ê già rischioso che io mi trovi qui, stanotte. Portiamo quest’uomo all’ospedale e lasciamo che se ne vada tranquillamente. Non starò qui a giocare con lei per seguire i vaneggiamenti di un pazzo.” Lo aveva detto a voce bassa ma comunque abbastanza alta perché secondo me Roger lo sentisse. Il suo modo di fare mi diede la nausea e glielo dissi apertamente: “Ha finito?” Non rispose. Allora continuai io: “Vicino a noi, nell’altra stanza, c’è un uomo che sta morendo, lo ha detto lei stesso. Ê questo il suo compito, mi sembra di averglielo sentito dire una volta, no?” “Il mio compito è quello di salvare vite umane e qui non c’è più speranza, purtroppo. Inoltre sono un cardiologo, mi capisce?” “La capisco, ma non importa. Ê il suo ultimo desiderio ed intendo seguirlo. Se vuole andarsene conosce la strada. Non dirò nulla a nessuno di quanto è accaduto stanotte, ma io resterò con il mio amico fino alla fine. Lei sta capendo me, ora?” McPherson imprecò, quindi mi diede le spalle, pensieroso. Lo lasciai solo e tornai da Roger per assicurarmi che fosse ancora vivo. Lo era e resi grazie al Cielo per questo. Gli posi una mano sulla spalla e vidi i suoi occhi a essere pieni di lacrime: “Sei il migliore amico che potessi avere, Alan e...” “Che devo fare?” Gli domandai, interrompendolo.


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Roger sorrise: “Portami di sopra.” Mi adoperai per portarlo a spalla dandogli meno noie possibili, ma il suo corpo era troppo pesante per me. All’improvviso il suo peso sembrò diminuire. Mi guardai indietro e vidi il cardiologo che mi fissava: “Pensavo se ne fosse andato!” Fu Roger a dirlo. “Ho pensato che non avevo altro da fare stasera!” Ci organizzammo per portarlo di sopra il più comodamente possibile. Arrivammo nella stanzetta dove si trovava la macchina tachionica e lo adagiammo su un lettino da ospedale. McPherson accese le attrezzature mediche che Roger ed io ci eravamo procurati mentre da parte mia attivavo la macchina. Il familiare ping della macchina che monitorava il suo battito cardiaco raggiunse le mie orecchie. Cercai di non farci caso, quel suono mi rendeva nervoso. Mi dedicai completamente alla macchina tachionica. Compivo quei gesti in modo meccanico e innaturale, ricacciando indietro le lacrime che lottavano per bagnarmi le guance. Non parlavo, non dicevo nulla perché, se lo avessi fatto, la voce mi sarebbe uscita dalla bocca in frantumi. Cercai l’interruttore del computer che comandava il sistema ma lo trovai già acceso. Evidentemente Roger ci aveva già pensato. Allora mi occupai dei parametri della zona bersaglio e inquadrai il mio amico. Solo allora mi accorsi che aveva voltato la testa nella mia direzione. Anche McPherson mi fissava, ma potevo leggere nel suo sguardo sentimenti diversi da quelli del suo assistito. Mi chiese se dovesse spostarsi. Con voce roca gli risposi di no. Non volevo che abbandonasse Roger nel momento supremo. Avrei voluto essere lì anch’io, ma era impossibile perché il sistema tachionico non funzionava in automatico e poi Roger non me lo avrebbe permesso. In qualche modo mi asciugai gli occhi poi dissi: “Siamo pronti!” Roger sorrise debolmente: “Anch’io!” Tossì di nuovo, “ora dobbiamo solo aspettare!” Lo disse con voce debolissima, quasi un mormorio. Il tempo cominciò a scorrere lentamente mentre la mia fronte si bagnava sempre più di sudore. Mi sentivo stupido. Stavo lì, a guardare il mio amico morire, nella speranza di vedere la sua anima! Roger cominciò ad ansimare. Si passava convulsamente le mani sullo stomaco. McPherson gli praticò un’altra iniezione e il mio amico si acquietò. Il suo respiro si mantenne comunque rumoroso. Mi guardò e le sue labbra si mossero. All’inizio le sue parole furono incomprensibili, poi diventarono più chiare. Voleva che distruggessi la macchina dopo l’esperimento.


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Non ne comprendevo il motivo: “Ma è la tua vita!” Protestai. Mi lanciò uno sguardo implorante, cercando nuovamente di parlare. Allora lo rassicurai: “Dopo che ti avrò visto, lo farò!” Sapevo che mi avrebbe capito e infatti tentò di sorridermi ancora. Lo esortai a non sprecare le sue ultime energie tentando di parlare ancora, ma parve non sentirmi. I suoi occhi mi fissavano ancora, ma erano diventati immobili e vitrei. Il tuffo al cuore mi assalì rapido e senza esitazione mi precipitai al computer. Ricordo che in quel momento pensai che fosse finita lì, che fosse ormai troppo tardi per eseguire l’esperimento. Comunque non mi persi d’animo e fui fortunato: Roger si riprese e restò fra noi ancora per qualche istante. Una rapida occhiata allo schermo mi disse che il sistema era pronto così lo attivai. Un ronzio acuto e persistente m’informò che il raggio tachionico era stato attivato. Era arrivato il momento in cui la natura esige l’osservatore per decidere in quale direzione volgere gli eventi, così guardai attraverso lo speciale schermo e aspettai…


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Epilogo

Soltanto adesso, dopo quattro anni di silenzio so di essere pronto per scrivere il resoconto di quello che accadde in quella notte. Eppure, nonostante io sia più razionale di allora mi rendo conto di quante assurde limitazioni leghino ancora la mia mano e la mia mente. Quello che ho visto potrebbe essere frainteso da altri o magari creduto simile alle scene che vediamo nel vasto panorama onirico di un sogno troppo vivido. Così me ne sto seduto qui, davanti alla scrivania del mio studio, nel mio appartamento di Hampton Road, tentando di mettere su carta tutto quanto, dall’inizio del sogno di Roger alla sua fine. In realtà non so esattamente cosa raccontare né da quale punto di vista farlo. Come scienziato, ho il dovere di attenermi ai fatti che ho vissuto e non andare oltre con disquisizioni fini a sé stesse. Posso quindi vantare l’audacia e le conoscenze derivate da un studio così complesso, le meravigliose implicazione scaturite dalla teorizzazione della macchina tachionica, ma non posso spingermi oltre. Non ho la prova della vita oltre la morte, non posso dire se esista davvero quella res cogitans teorizzata da Cartesio. Eppure proprio io, fisico e ricercatore, non me la sento di essere scettico sulla possibilità che ciò che noi chiamiamo vita non continui su basi completamente diverse dopo la disgregazione dei processi biologici. Dico questo nonostante la macchina tachionica non abbia funzionato o almeno così mi è sembrato, dato che sullo schermo non è apparso assolutamente nulla. Quando il mio amico, Roger Ellis, cadde in coma per qualche minuto, pensai veramente che avrei almeno intravisto il suo spirito immortale. Ma non sono riuscito a scorgere la sua anima volteggiare sul soffitto né entrare in un tunnel buio diretto verso un mondo che non è di questa terra. Non è stato così. Non c’era niente su quello schermo. Eppure nonostante questo ho capito che Roger aveva ragione su un punto: non si può pretendere di spiegare tutto, perché esistono cose alle quali non si addice la spiegazione dell’uomo. Pensare di poter dare un aspetto e una forma a qualcosa che per sua natura non è definibile è un’aleatoria utopia. Lo ripeto: nonostante tutto, penso che Roger esista ancora e che si sia riunito alla sua Stephanie in un dove e in un


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quando che noi esseri umani non possiamo lontanamente ipotizzare. Forse ora starà ridendo della sua e della nostra ingenuità di uomini. Sono sicuro che L’Essere di Luce avrà perdonato tutte le stravaganze che ha compiuto in vita. Ho chiamato il signor Price e l’ho informato dei fatti. Non è stato minimamente sorpreso. Chesterfield e Johnson lo sono stati, invece, ma loro sono scienziati. Paradossalmente è stata la loro mente ad essere troppo ristretta. Il dottor McPherson continua per la sua strada, ma è diventato un mio buon amico. Da parte mia non ho niente da rimproverarmi. Ho distrutto la macchina come Roger mi ha chiesto. Mi è costato un po' farlo, soprattutto ripensando a quante fatiche e rischi era costata la sua costruzione. Ma era un favore che facevo ad un amico che non rivedrò mai più e non me la sentivo di deluderlo. Devo dire che McPherson mi ha aiutato nel compito con un certo sollievo. Insieme, abbiamo cancellato qualsiasi prova della sua esistenza o del progetto che siamo riusciti a trovare in casa di Roger, eccetto questi appunti che conserverò finché avrò vita per ricordare la sua amicizia che mi accompagnerà sempre. Il giorno dopo ho chiesto e ottenuto da Harrison dieci giorni aggiuntivi di ferie per occuparmi di alcune faccende. La polizia ci ha messo del tempo per digerire la nostra versione dei fatti, qualcuno ha avanzato anche una grottesca insinuazione di coinvolgimento mio e del cardiologo nella vicenda, ma per fortuna non ci sono stati strascichi. Mi sono assunto il compito di organizzare il funerale: Roger non aveva parenti e nemmeno troppi amici, negli ultimi tempi. Chesterfield e Johnson non hanno partecipato. In compenso McPherson e molti studenti erano insieme a me. Ma non mi sono dispiaciuto in modo eccessivo né ho versato lacrime. La sola tristezza che ho provato è di non poterlo più rivedere, ma so che esiste ancora da qualche parte. Credo che sia arrivato il momento di scrivere cosa ho visto ma c’è qualcosa, nella mia mente e nella mia anima, che mi trattiene. La penna mi è caduta dalle mani e la mia fronte s’imperla di sudore. Alzo gli occhi dal foglio e guardo lontano, attraverso la finestra davanti a me, oltre i grattacieli ed i rumori della città. Faccio un profondo respiro per riordinare le idee ma esse restano insensibili al mio richiamo e continuano a vagare nella mia mente come foglie in balia del vento. Poi, ad un tratto, le dita della mia mano si tendono, afferrano la penna e scribacchiano qualcosa. In un supremo tentativo estraggo quelle foglie dalla mia mente per disporle sul foglio bianco tentando di dar loro una forma compiuta. Roger entrò in coma, quella sera, ed io ebbi paura che fosse finita


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prima di poter azionare la macchina. Ricordo perfettamente i pensieri che mi attraversarono la mente in quei fatidici istanti. Pensai che ormai fosse morto, l’esperimento fallito ancor prima di cominciare, il mio amico perso senza possibilità di appello. Ma non è stato così perché Roger si riprese per altri pochi e preziosissimi attimi. Un periodo brevissimo, ma sufficiente per pronunciare a fatica poche parole che resteranno impresse a lettere di fuoco nella mia memoria: “No, Alan, non è ancora finita: non me ne andrò prima che tu possa attivare la macchina, non temere.” Fu questa la frase che mi fece tremare perché riporta esattamente ciò che ho pensato in quei momenti. Mi rendo conto che uno scienziato non potrebbe mai accettare una spiegazione di tal fatta come una prova. Forse era stato solo un caso che mi avesse rivolto quelle parole. Sarebbe lo stesso atteggiamento che probabilmente mostrerei io se non avessi vissuto i fatti fin qui narrati. O forse no, non adesso. Davvero Roger mi aveva letto nel pensiero durante il suo breve coma? Devo credere a McPherson, cui ho rivelato il fatto dopo il funerale, che ha dichiarato di non essere affatto stupito della cosa? Forse l’ha fatto per aiutarmi a sperare e forse, per farmi capire meglio. A questo punto solo una cosa posso dire con certezza: Roger aveva ragione. Probabilmente una prova misurabile e riproducibile con certezza in un laboratorio su questo argomento non sarà mai possibile. Come il Big Bang può essere interpretato come un evento fortuito che ha generato un universo senza scopo o come l’inizio della Creazione da parte di un Essere Onnipotente anche la questione dell’anima, alla fine, è affidata al nostro libero arbitrio. Da uomo laico, prima ancora che da scienziato, sono consapevole che prove indirette come le NDE possano non convincere gli scettici. Ma non ha importanza ormai, non per me. Perché se la mia mente di scienziato non può affermare di aver contemplato il soffio vitale del mio amico morente, così non è per l’amicizia che ancora abita il mio cuore di essere umano per un amico che era, è stato, e non è più. Tutti gli altri, se vorranno trovare la risposta all’eterna domanda, dovranno semplicemente attendere.



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Logica di mercato “La creatura che chiamiamo uomo, non emotiva ma tutta emozione, ha un temperamento indomabile. Di niente ha paura…” M. Moore, Le poesie

Quando vidi Jonas Freeman per la prima volta dopo 24 mesi, non aveva un bell’aspetto. Pallido ed emaciato, mostrava la bocca contratta in una espressione stravolta, nonostante i suoi occhi rimanessero acuti e mobilissimi. Era ormai arrivato al termine del suo periodo di detenzione e l’oloterapia di tipo N non lo aveva privato della lucidità necessaria per affrontare un incontro con me. In qualità di direttore dell’Istituto Federale di Riabilitazione sapevo cosa aveva passato, ma non potevo provare alcuna pietà nei suoi confronti. Il signor Freeman era un assassino e il codice parla chiaro, in simili casi: l’oloterapia di tipo N non prevede alcuna possibilità di ricorso, nessuna attenuante, nessuna visita dei parenti. Per un periodo che può andare dai quattro ai quarantanove mesi nessuno deve aver contatti con il prigioniero. Nonostante le polemiche che si sono, a volte, scatenate sulla validità delle nuove istituzioni detentive la mia coscienza non potrebbe dormire sonni più tranquilli. Le oloterapie furono istituite nell’ormai lontano 2024 come risposta alla scarsa efficienza delle prigioni tradizionali. Queste non erano più considerate efficienti per svariati motivi tra cui la grande necessità di spazi e le troppe guardie per gestirle con apprezzabili margini di sicurezza. Le celle tradizionali, inoltre, non garantivano che i detenuti, una volta in libertà, non commettessero gli stessi crimini. L’abolizione della pena di morte tradotta in legge a partire dal 2019 ha reso le cose più complicate perché anche la detenzione a vita non era più sufficiente. A parte il maggior costo per il contribuente, il detenuto non aveva alcuna possibilità di reintegrazione produttiva nella società. L’oloterapia di tipo N risolse tutti questi problemi. Tanto per cominciare, gli edifici sono grandi solo un terzo rispetto agli istituti di pena tradizionali. Non richiedono guardie, ma solo una decina di tecnici qualificati e il loro tasso di efficienza è prossimo al 100%. Tutto ciò si deve a Philo Keats, un brillante


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psichiatra di Seattle, inventore del sistema primario di olodetenzione, una innovativa ed efficace macchina che ha rivoluzionato completamente le istituzioni di pena. L’oloterapia non si guarda, ma si sperimenta in prima persona direttamente nel cervello. Le visioni che il soggetto vede devono la loro crudezza in modo proporzionale al crimine di cui si è macchiato. Tali allucinazioni non sono solo mentali, ma comprendono tutte le sensazioni sensoriali possibili grazie al contemporaneo utilizzo di una divisa virtuale dotata di sistemi tattili e mnemonici e farmaci psicotropi molto efficienti. Ad esempio, nel caso del signor Freeman, egli ha rivisto l’assassinio e provato sulla sua pelle, il dolore, l’agonia e la sensazione sia fisica che psichica dell’evento. E questo si è ripetuto per tutti i 24 mesi della sua detenzione giorno dopo giorno, minuto per minuto. La stimolazione virtuosomatica olodetentiva presenta inoltre la stessa durata dell’evento reale, elaborata in base ad avanzanti algoritmi di simulazione. Il paziente non ha alcuna possibilità di fuga né interazione sociale con altri detenuti. A livello mentale, la stimolazione e il controllo dei pazienti si devono a microchip impiantati nella corteccia cerebrale che hanno anche il compito di interrompere le stimolazioni nervose nel momento in cui dovessero rilevare un probabile arresto delle funzioni vitali. Ma, quando le funzioni organiche tornano normali, ricomincia la stimolazione. Il lato negativo dell’oloterapia è che, costringendo l’organismo a subire una tale quantità di stress a tutti i livelli, sposta letteralmente l’età biologica in avanti. In altre parole, tutti i detenuti invecchiano di parecchio tempo esattamente come se avessero davvero scontato lunghi periodi di detenzione. Ma questo dettaglio, trattandosi di istituzioni penali, non è poi così rilevante. Dal 2024 ad oggi sono trascorsi quarant’anni e nessuno dei ricondizionati ha più violato la legge. Erano queste le cose a cui pensavo nel rivedere il signor Freeman, e ciò mi aiutava a non pensare alla terrificante esperienza che aveva sperimentato: “Come andiamo, oggi, signor Freeman?” La figura emaciata che si stagliava rigida davanti a me scosse la testa: “Non tanto bene, signor Garret.” “Avverte per caso capogiri, un senso di vertigine?” “Mi sento solo un po' stordito, signore.” Freeman era palesemente invecchiato da quando lo avevo visto per la prima volta. All’anagrafe era un giovane uomo di trentotto anni, ma ora ne dimostrava almeno venti di più. Al vederlo si sarebbe detto un reduce di guerra: “Ricorda per quale motivo è qui?”


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La sue labbra si atteggiarono ad una sorta di ghigno: “Ho ucciso un uomo. Lei sa tutto di me. Perché vuole che le dica questa roba?” “Ê per la sua sicurezza, signor Freeman. Ora si tranquillizzi e mi racconti la sua storia dall’inizio alla fine. Non dimentichi di fare anche i suoi commenti sul perché ha sbagliato, ha capito bene?” “Sono... ero un assicuratore, sposato con una giornalista della NFN. Io ed Helen eravamo una delle poche coppie felici. Il nostro lavoro ci piaceva, avevamo una bella casa e un figlio programmato in arrivo.” “Non ci siamo, signor Freeman: sta omettendo che sua moglie avrebbe voluto un concepimento naturale e che per questo eravate stati segnalati al Centro per il Controllo delle Nascite.” “Mia moglie aveva solo espresso il desiderio di qualcosa che era perfettamente legale fino a venti anni fa. Ê stata una nostra vicina, quella che un tempo ritenevo un’amica di famiglia, ad avvertire i federali.” “Lei dovrebbe sapere che è un reato avere un bambino senza il preventivo consenso dello Stato. Il mondo non può sostenere troppe nascite, se lo ricordi. Ê per tale motivo che veniamo tutti sterilizzati alla nascita, é la legge! Solo tramite la moderna ingegneria medica si può procreare un figlio. Non è una cosa per tutti: voi due eravate stati molto fortunati.” “Lo so. Posso continuare?” I suoi occhi si erano fatti di ghiaccio. Acconsentii. “Quando portai Helen al Centro per la Fecondazione Assistita le diagnosticarono quel tumore. Sapevamo che i tumori sono oggi quasi tutti curabili, tranne poche eccezioni. Helen si trattenne in day hospital per farsi esaminare più a fondo e, purtroppo, il risultato diagnosticò il Sarcoma di Stevenson, una delle poche forme tumorali non suscettibili di alcuna terapia. Qualcuno ci disse che il miglior specialista che potesse fare al caso nostro era un certo Sam Shepard. Sembra che costui si fosse guadagnato un paio di Nobel nello studio e nella scoperta di nuove terapie antitumorali. Addirittura, ricopriva un posto di altissima responsabilità presso la Trailer Corp, la più grossa multinazionale farmaceutica americana. Mia moglie e io ne fummo impressionati, devo ammetterlo, e pensammo che quello specialista fosse la soluzione per i nostri problemi. Scoprimmo che Shepard riceveva, a causa dei suoi impegni, solo due volte a settimana nel suo centro specialistico privato, a Baltimora. Il Servizio Sanitario non copre simili spese e noi non potevamo permetterci il prezzo delle sue visite. Decidemmo di rivolgerci ad altri medici, ma nessuno di essi sapeva come aiutare mia


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moglie. Impegnammo allora parte dei nostri beni per consultare Shepard. La lista d’attesa era praticamente infinita e tutt’altro che facile. A quattro mesi da tutto ciò Helen continuava a accusare frequenti perdite di memoria. Il suo corpo si ricopriva di minute chiazze scure e il suo sistema immunitario diventava ogni giorno più debole. Quando finalmente arrivò il nostro turno il dottor Shepard la visitò e disse quello che già sapevamo: una forma di tumore non comune ma che, a suo dire, poteva forse curare. Così, Helen andò in ospedale per sottoporsi alla sua terapia. Shepard le prelevò svariati campioni di sangue, preparò biopsie dei suoi organi interni, ma non accennava a migliorare. Dopo venti giorni di terapie inutili cadde in coma e morì. Non dimenticherò mai le parole che mi rivolse Shepard: disse che gli dispiaceva ma che, se lo avessimo consultato prima, forse mia moglie si sarebbe salvata! Lei non mi crederà, signor Garret, ma in quel momento l’avrei ucciso a mani nude. Recuperai invece gli effetti personali di Helen e li portai a casa. Il corpo mi sarebbe stato restituito dopo due giorni. Durante il viaggio di ritorno cercai di farmi una ragione per la morte di mia moglie, ma inutilmente. Possibile che dopo tutti i progressi della moderna medicina esistano ancora tipi di cancro che risultano fatali? Con questi pensieri che mi assillavano tornai a casa e mi gettai sul letto. Quando il suo corpo mi fu restituito non m’importava più nulla della cosa. Non volevo vedere come era stata ridotta, volevo ricordarla per come era prima. Feci in modo che il funerale durasse il meno possibile. Nessuno venne a piangerla però, nemmeno i suoi familiari.” “Veramente a me risulta che alla cerimonia fossero presenti!” Gli ricordai. “Erano solo le loro proiezioni, niente di più. Gli originali erano impegnati con i loro problemi, mi avevano detto!” “Il che può anche essere giusto, non trova?” “Non per come la vedo io, signor Garret.” Era evidente che voleva aggiungere qualcosa, ma ebbi la netta sensazione che si trattenesse. Mi pareva ovvio che Jonas Freeman non era in linea con i tempi della moderna società in cui viveva, e questo era un fatto nuovo per me. Sebbene fossi convinto che l’oloterapia avesse funzionato quell’uomo sembrava ostinarsi a non voler accettare la realtà del mondo che lo circondava. Mi chiesi se sarebbe tornato un individuo equilibrato, una volta rilasciato. Gli dissi di continuare la sua storia:


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“Trascorsi i mesi che seguirono in uno stato di profondo isolamento. Ero oberato dai debiti e molte delle mie notti le passavo da insonne. Un mattino stavo tornando dal lavoro quando qualcosa attrasse la mia attenzione. Era una videorivista lasciata da qualcuno su un muricciolo il cui video messaggio riportava le ultime notizie del giorno. Fra queste, i progressi della medicina nel campo dei tumori. Incuriosito, cominciai a leggerla. Il resto lo sa già!” Freeman era nervoso e la sua fronte stillava sudore. Completai quello che aveva ancora da dire: “Lei conobbe una delle leggi di mercato alle quali le industrie sono soggette. Esistono problematiche ignorate dalle grandi case farmaceutiche perché troppo rare o comunque economicamente non remunerative. Il Sarcoma di Stevenson è tra queste. Lei scorse tra le righe e lesse il nome di Shepard tra i medici che avevano condotto uno studio sul tumore di sua moglie. Sembra che i risultati fossero incoraggianti ma che proprio il dottor Shepard avesse deciso d’interrompere gli esperimenti perché la Trailer Corp. non intendeva portare avanti una ricerca su una forma tumorale tanto rara. Lei andò quindi di corsa dal medico e lo accusò di non aver voluto salvare sua moglie! Quindi lo uccise, giusto?” “Sbagliato! Shepard non è morto per questo, ma per quello che mi ha risposto. Lo ricordo come se fosse ieri, quando mi ha detto che non avrebbe mai rischiato la sua carriera per poche o addirittura una sola vita umana!” Tacque, ma i suoi occhi spalancati parevano non vedermi più. Cominciai a pensare che forse non era ancora pronto per rientrare nella società: “Non credo si renda conto di ciò che dice, signor Freeman. Lei è solo una pedina, tutti noi siamo pedine. Deve capire che ogni cosa, oggi, è programmata dal Codice. Il libero arbitrio non esiste. Quello che veramente conta non è un solo essere umano quanto la società. Mi ha capito bene?” “E se rifiutassi di capire?” Lo osservai bene. I suoi occhi si fissarono dentro i miei, ma non mi lasciai intimidire: “Allora dovrò distruggerla, signor Freeman.” Risposi semplicemente. L’uomo si alzò e parve sul punto di scagliarsi contro di me. Prima che potesse farlo premetti il pulsante che attivava la distruzione del microchip impiantato nel suo cervello. Freeman emise un grido spaventoso e poi cadde a terra, immobile. Feci portare via il corpo da uno dei tanti droidi per la pulizia e cominciai ad annotare le sue ca-


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ratteristiche salienti sul terminale della mia scrivania. Per un momento, lo compatii. Si trattava chiaramente di un emarginato sociale, di una persona fin troppo emotiva per continuare la sua misera esistenza. Non si era mai fatto impiantare un sistema per il controllo delle emozioni e ora ne pagava il prezzo. Comunque ero più che certo che la scienza medica avrebbe tratto vantaggio dallo studio del suo caso. Non mi restava che riprogrammare il mio cervello per la consueta attività giornaliera della mia istituzione. Portai quindi la destra all’altezza della mia tempia e aprii lo sportellino. A tentoni individuai il sottile tasto a sfioramento e lo mossi. Avvertii il noto e rassicurante scatto mentre il mio sistema per il controllo emotivo si posizionò sul livello di normale routine: indifferente curiosità.


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Frammento del passato “Una delle azioni più nobili che gli uomini possano compiere è la ricerca della verità.” M.V.

I

Non ho un ricordo chiaro di mio padre. Scomparve nel 2103 quando ero soltanto un bambino e a un anno d’età non si possiede una grande abilità nel ricordare i volti. La mia memoria conserva solo l’immagine di un uomo alto, pacato, che spesso era fuori per lavoro. Sono cresciuto in una casa minuta, a pochi passi dal centro, in una famiglia modesta che mi ha dato i mezzi per affrontare il mondo a mani nude. Vivo su Cassiopea N- 49, un pianeta terraformato nei pressi di Vega. Il mio è un mondo bello dove la natura è rigogliosa, gli oceani puliti e l’attuale tecnologia è rispettosa dell’ambiente. Ma non sono nato qui. Il mio pianeta madre, la Terra, è il mondo dove ho aperto gli occhi per la prima volta, dove mia madre mi ha svezzato e dove risiedono i soli ricordi che ho di un’infanzia felice. Fino a poco tempo fa non conoscevo il motivo che spinse i miei ad affrontare il costoso viaggio di trasferimento su questo pianeta ma da quando l’ho scoperto il mio modo di affrontare la vita è completamente cambiato. Quanto a mia madre, restò sola molto presto perché mio padre scomparve all’improvviso senza lasciare tracce. Dovevano passare circa sei mesi prima che i suoi resti fossero ritrovati nel bel mezzo dell’Oceano Orientale. Non credo che mia madre superò la cosa con troppa facilità né che perdonò mio padre di essersi andato a suicidare senza un motivo apparente a bordo del solo mezzo di trasporto della famiglia. Ma, da quando ne ho memoria, non ho mai sentito uscire dalle sue labbra una parola dura nei confronti dell’uomo che aveva scelto come compagno di vita. E’ stata, tuttavia, sempre avara di detta-


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gli su tutto ciò che lo riguardava. Nel corso del tempo mi parlava della sua figura come di una persona rispettabile, che lavorava sodo, che non chiedeva mai nulla per sé quando si trattava di aiutare la famiglia. Stranamente, non mi ha mai mostrato una sua immagine, un video, qualsiasi cosa, insomma, che potesse mostrarmi il suo aspetto. La spiegazione che mi ha sempre dato, che cioè gettò via tutto ciò che potesse riaprirle la ferita della sua scomparsa, non mi ha mai convinto ma ovviamente non potevo far niente per cambiare lo stato delle cose. Mia madre era una persona riservata, nervosa e molto discreta. Dopo la morte di mio padre si chiuse a riccio ancora di più e fino alla fine della sua esistenza parlò con me soltanto degli eventi quotidiani senza voler mai accennare al passato della famiglia. Quando lei andava a lavorare mi lasciava da una vicina di casa e si è sempre rifiutata di acquistare un droide-sitter per tenermi compagnia. Come conseguenza, i soli compagni della mia infanzia sono stati i libri e la mia fantasia che spesso suppliva alla mancanza di amicizie ed a quella paterna. Nel corso della mia vita ho percorso molta strada cadendo il più delle volte e rialzandomi quando proprio non ce la facevo più a mangiare la polvere degli altri. Mia madre ha dato tutta se stessa nell’allevarmi al meglio delle sue possibilità. Adesso che sono un uomo mi decido a mettere su disco queste note che spero un giorno possano essere lette da mio figlio che ancora non è nato. Proprio adesso che scrivo, il ricordo di ciò che ho vissuto e di quello di cui la vita mi ha privato fa sgorgare tiepide lacrime che si perdono in oblunghe gocce sulla mia scrivania. Evidentemente, scrivere mi fa bene. Lo faccio da sempre, spinto da un desiderio che non so spiegare e che mi porta a traslare le mie paure in sogni di carta tanto vividi quanto eterei nella loro esecuzione. Queste note, quindi, più che per mio figlio servono a me perché mi aiutano a pensare ad un passato che non mi appartiene ma che ha fatto di me ciò che sono. Insieme a mia moglie, mi occupo di una biblioteca specializzata in materiale, sia olografico che cartaceo, sulla Terra. Possediamo tutto il materiale esistente sul pianeta, di qualsiasi fonte, anche aneddotica, e chiunque può consultarlo liberamente. Io e mia moglie ci conoscemmo come tante altre coppie, per caso, durante una giornata di studio presso la nostra università. Da allora, pur con gli alti e bassi della vita, siamo spalla contro spalla, soli contro tutti, tanto pazzi da credere ancora in un mondo migliore. Ma è scrivere, per me, il mio vero lavoro, la passione che, sola, infonde il fuoco delle emozioni al mio cuore assopito. Non posso, non voglio farne a


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meno. Toglietemi il Tempo per mettere su carta quel che agita la mia anima e avrete ucciso il mio spirito prima ancora del mio corpo. Talvolta capita che venga dato alle stampe un volume che porta il mio nome, ma sebbene possa farmi piacere è niente rispetto a quello che provo quando contemplo un racconto appena completato o semplicemente rileggo quelli giĂ scritti. Devo a questa passione il merito dell’aver salvato la mia anima dalla rovina.


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II

E’ sbagliato pensare che gli eventi fortunati siano forieri soltanto di cose positive. Una vincita, un’eredità inaspettata a volte trasformano il più pacifico degli uomini in una belva avida senza più alcuna stilla di umanità. Così è stato fin dagli albori dei tempi e così continuerà ad essere sempre. Per quanto mi riguarda, il caso fortuito che mi permise di capire la vera anima della società umana cominciò per caso in una bella giornata primaverile. All’epoca ero un idealista e un sognatore, poco avvezzo alle bassezze del mondo ed alle loro conseguenze. Nonostante i tentativi materni di farmi imboccare una strada più tranquilla ed economicamente sicura di quella dello scrittore non ho mai cambiato idea. Scrivevo come faccio ora, ma il mio stile era sobrio e lineare e piaceva ai miei amici ed ai miei lettori. Eppure, non ero felice. Nuova Terra, la mia città, era la tipica metropoli di medie dimensioni di un pianeta di provincia tanto distante dalla Terra quanto ipocrita e sciatto. A dispetto del suo bellissimo nome e della sua natura invidiabile, Cassiopea N-49 non può vantare una società molto progressista. Il Governo Terrestre Unificato ha tentato per molti anni di cambiare lo status quo delle cose riuscendoci solo in parte. Allora, l’ambiente era inquinato e la governance inetta. Qualche anno fa il Governo impose le tecnologie pulite prevedendo la sospensione degli aiuti economici e il rispetto del diritto al lavoro per i cittadini a seconda delle abilità di ciascuno. Ma lo fece soltanto perché il business delle tecnologie pulite ha un giro di affari enormi mentre alla mentalità politica non interessa un pianeta troppo lontano dal nostro. Così, giorno dopo giorno mi convincevo che la lontananza dal governo terrestre aveva indotto i governanti locali ad assumere una posizione poco degna di quella democrazia che tanto sbandieravano a parole. Le nostre leggi sembrano ideate in modo tale da favorire i potenti, non certo lo strato più debole della popolazione. Chi ha successo è spesso figlio d’arte, ma senza avere alcuna delle qualità che rendono l’arte sublime. Gli altri, quelli che non possono vantare una famiglia ricca e potente ed hanno un ambiente familiare fin troppo permissivo, passano il loro tempo a pavoneggiarsi con oggetti alla moda,


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abiti firmati terrestri, oggetti di lusso tanto appariscenti quanto inutili. Per conto mio, mi sono sempre rifiutato di seguire le mode e i futili passatempi dei miei connazionali anche se il mio gusto del bello non è mai stato assente. Ma non riesco a digerire una società fatta da gente che non sa governare, priva di veri ideali, morale e intelligenza. All’inizio, il mio stesso provincialismo mi ha portava a pensare di essere il solo a pensarla in questo modo. Poi, man mano che le mie conoscenze si allargavano ho conosciuto altri come me che lavoravano sodo in cambio di nulla, che arrancavano in salita per guadagnare un pasto vicino a quelli che il pasto lo hanno sostituito con un nuovo e costosissimo gadget. Per fortuna non ho mai perso il mio idealismo e i miei racconti sono diventati il solo luogo dove contemplo un mondo più vero della vita stessa. Quando inciampai nella fortuna avevo circa ventisei anni. Mia madre non esisteva più da un po’ ed ero rimasto solo davanti all’incognita della vita. Un giorno capitò che uno dei miei libri finisse nella mani di una persona competente che lo apprezzò al punto da convocarmi per un incontro. Era un uomo di una certa levatura, molto noto e sicuramente in grado di parlare con cognizione di causa. Mi riempì di complimenti per la qualità della mia produzione letteraria. Inutile dire che quello era un sogno che diventava realtà ed accettai di slancio. Ma presto scoprii la verità per tutti quegli elogi. Per ottenere il successo che tanto desideravo avrei dovuto sottopormi alle sue attenzioni ogni volta che lo avrebbe desiderato. So che molti non si fanno remore davanti a situazioni di questo tipo, e solo per vestirsi alla moda e vantarsi di competenze che in larga parte sono inventate. Ma io uscii da quel posto in preda alla rabbia di chi è troppo in basso per poter sperare di vincere chi ha i mezzi per insabbiare la propria meschinità. Arrivai al punto di non fidarmi di nessuno, di fuggire dalla seduzione delle donne e dalle promesse degli uomini consapevole di avere di fronte marionette imbellettate che avrebbero dato la propria madre per un secondo di celebrità. E incominciai a chiedermi se fossero loro i pazzi o se lo fossi io che non mi omologavo al sistema. Un giorno che mi svegliai piuttosto tardi da una notte trascorsa da insonne qualcuno bussò alla mia porta. Rovinai dal letto imprecando, biasimandomi in cuor mio per non aver disattivato il sistema di videocomunicazione del mio appartamento, ed andai ad aprire. Mi ritrovai davanti un postino della Space Union Mail con un plico in mano. Ricordo ancora un brivido quando scoprii che veniva dalla Terra, e lo aprii in preda ad una istintiva eccitazione. Lo inviava il


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“Bam & Bam”, uno studio notarile, e conteneva un vecchio olodisco protetto da una custodia di metallo lucido fatta per durare nel tempo. Insieme ad esso trovai alcuni documenti ingialliti e alcune oloimmagini stampate che ritraevano i miei genitori subito dopo la mia nascita. Quando realizzai la terribile implicazione di quelle foto, il cuore mi sussultò violentemente nel petto ed avvertii una fitta dolorosa nelle tempie. Per un attimo mi sentii mancare e la testa cominciò a girare come se fossi in preda all’axel, la droga di Sirio nota per le sue allucinazioni stupefacenti. Il mio primo pensiero fu che fosse uno scherzo, una crudele beffa di qualcuno senza scrupolo che traeva il proprio piacere da atti di questo tipo. Fui sul punto di scagliare il plico nel sistema di eliminazione scorie ma non lo feci perché la curiosità fu più energica e la mia mano troppo debole. Ma non fu necessario guardare la registrazione per capire immediatamente il motivo della reticenza di mia madre, delle poche e allusive parole che mi aveva detto su mio padre, del viaggio che tutti noi facemmo su Cassiopea N-49. E tuttavia, qualsiasi fossero state le ragioni di mia madre non poteva, non doveva fare una scelta simile. Sconvolto da ciò che vidi, rigettai il mio pranzo sul pavimento, poi la pareti del mio salotto si fecero indistinte e l’oblio avvolse la mia mente sconvolta da quel frammento di un passato che avrebbe dovuto restare sepolto per sempre.


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III

Quando mi svegliai non toccai quel maledetto oggetto, ma uscii di casa in preda ad una profonda inquietudine. Girovagai per le strade della città, andai in periferia verso l’astroporto commerciale e guardai le astronavi che atterravano dolcemente sulla pista cercando di non pensare. Quando si fece tardi tornai in casa e rividi il plico ed il suo contenuto sparpagliato sul pavimento. Afferrai il coraggio a due mani e mi costrinsi a dare un’occhiata a quei documenti. La detestabile immagine che mi aveva ridotto in quello stato riapparve ai miei occhi e la fissai con un senso d’orrore. Mio padre, pareva un bell’uomo. Alto poco meno di un metro e novanta, lineamenti delicati, nel complesso sembrava un molto distinto. Ma il suo sguardo pareva spento, amorfo, al contrario di quello radioso di mia madre che pareva entusiasta. In mezzo a loro l’immagine di me appena nato, ancora libero dalle insidie dell’esistenza. Trovai una polizza assicurativa stipulata da mio padre a nostro favore e compresi che il suo suicidio era servito per mandare avanti la famiglia. Allora afferrai il disco, lo ripulii dalla polvere del tempo, e lo posi nell’apposita fessura del mio lettore. Le immagini apparvero subito, ma il sonoro era leggermente distorto. Anche così potei avvertire la voce del mio genitore che scatenò il riaffiorare di remoti ricordi nella mia memoria assopita. Istintivamente tremai e mi strinsi nelle spalle. Riconobbi la cabina di una netrear antiquata, un sistema di trasporto personale capace di viaggiare sia su ruota che in aria, e soprattutto riconobbi quello sguardo enigmatico, vitreo, per niente rassicurante. La sua voce, però, era carezzevole e un po’ triste e si rivolgeva direttamente a me: “Figlio mio, quando vedrai questo video, sarai abbastanza grande da poter capire il senso della scelta di tua madre. Io non so se i vostri rapporti siano stati buoni, ma immagino che, se la società notarile cui perviene in tempo reale una copia di questo video farà il suo dovere, tua madre non esisterà più. Se nutri dell’astio nei suoi confronti ti dico fin da ora che non dovresti. Lidia ha solo eseguito il mio desiderio di


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non rivelarti nulla sulla nostra unione e sulla mia stessa figura una volta che non ci sarò più. Il motivo puoi capirlo da solo vedendo il mio aspetto. Se ti starai chiedendo il perchè del nostro matrimonio, con tante persone fisicamente più prestanti di me, sappi che tua madre ha avuto molte delusioni dalla vita. Lei cercava, tutte insieme, qualità di stima, affetto, senso di protezione e rispetto che nessun altro uomo ha saputo darle. E’ rimasta in stato di stasi riproduttiva per anni fino a quando non è andata in una società di riprogrammazione genetica dove ha conosciuto me. All’epoca io ero ancora libero e non ero stato prenotato da altre donne, neanche per motivi puramente sessuali. La Tecnolife mi diede in prova a lei per qualche tempo affinché si potesse fare un’idea di quel che comportava stare insieme a me. So che ti sembrerà strano, ma tua madre ed io ci siamo amati molto. Fui subito conquistato dai suoi occhi verdi, dal suo sorriso un po’ triste, dalla sua capacità tutta femminile ed umana di sentirsi felice con poco. Così Lidia impegnò tutte le sue risorse e fui suo per la vita. La nostra unione era possibile già sulla Terra, ma allora la gente non vedeva scelte come la nostra di buon occhio. Le leggi di Cassiopea N-49, grazie alla totale lontananza dai cappi religiosi, parevano più promettenti e partimmo subito dopo averti dato alla luce. Non sapevamo esattamente così ci attendeva ma eravamo felici, innamorati e spesso l’amore pospone certe cose in secondo piano. Trovai un posto come operaio in una ditta di informatica mentre lei decise di dedicarsi a te ed alla casa. A volte faceva lavoretti domestici per i vicini ma non ti privava mai della sua presenza. Mi rendevo conto, però, che il mio lavoro era sottopagato perché, a differenza degli altri, potevo lavorare giorno e notte senza posa con rischi ridotti. La nostra vita non era lussuosa ma in casa non sono mai mancate dignità, rispetto, fedeltà e amore. Un giorno fui sul punto di perdere il lavoro perché il mio braccio destro si ruppe e non avevamo molti soldi per farlo riparare. Ci riuscimmo impegnando le ultime risorse, questa netrear ed i mobili. Solo la casa rimase di nostra proprietà. La sinistra sagoma della miseria e, soprattutto, il tuo sguardo di bimbo affamato e senza un futuro, non la faceva dormire. Allora consigliai a Lidia di ripudiarmi e scegliere al mio posto un compagno benestante. Avrebbe potuto farlo: Lidia è una bellissima donna come ce ne sono poche su Cassiopea N-49. Non lo ha fatto e penso che, per un po’, mi abbia detestato. Io non ho avuto esperienze con altre donne, ma da quello che ho visto nella società umana, sono poche ad essere


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così degne di rispetto. Un giorno che fui consapevole della criticità della nostra condizione economica stipulai la polizza che vi avrebbe consentito di andare avanti anche senza di me. C’è però un problema e riguarda me. Come sai, le leggi imposte dalla Tecnolife impediscono a quelli come me di togliersi la vita autonomamente, a meno che non siano altri esseri umani a farlo. Ma non impediscono che a farlo sia una macchina. Così, oggi sono intento a compiere un ultimo viaggio verso il mio destino. Il mio serbatoio ha il pieno di carburante e ho deciso che questo viaggio lo farò verso il mare. Sai, io adoro il mare anche se non so bene cosa sia. I miei progettisti mi hanno detto che questa preferenza sarebbe da imputare ad un bug ma, se è un errore, è il più bello che abbiano mai fatto. Volerò dolcemente fino alla fine del carburante e ricorderò nei miei ultimi anni il tuo sorriso divertito quando ti sollevo in braccio. Penserò alla mia Lidia ed ai suoi occhi di perla quando ti guarda. Ricorderò la mia vita, breve ma intensa, spesa solo per voi. E non importa se ho vissuto poco, o se ho avuto poco da darvi, perché ciò che avevo ve l’ho dato tutto. Mi dispiace se quello che io sono potrà non piacerti, ma forse ti farà felice sapere che ciò che sono non è durato per molto. Nonostante potrei vivere, con opportuni accorgimenti, ben più di tua madre, scelgo questa via perché per quanto mi riguarda la vostra vita è più importante della mia. Tua madre non sa del mio gesto perché non me lo permetterebbe. Ma sei tu, figlio mio, quello che lascio con più disperazione. Il non poterti vedere crescere, aiutarti quando comincerai ad affrontare la durezza della vita, mi rattrista indicibilmente. Sono qui dove l’azzurro del cielo ha assunto una sfumatura cangiante che muove sul rosso pallido del tramonto. Mosse dal vento, le nuvole trascinano giochi di luci ed ombre sullo sconfinato oceano della vita e della morte. Io e tua madre, non abbiamo voluto sminuire la nostra unione amore con un deplorevole contratto acquistato al mercato delle consuetudini. Non abbiamo permesso che il nostro amore si omologasse a quello di altri, non abbiamo voluto infedeltà né bugie. Sarà stato un nostro limite? Forse, ma non importa, il premio riservatoci dalla nostra scelta di vita è stato grande: la tua nascita. La gioia della tua presenza mi ha reso uomo più di qualsiasi altra cosa. Vado incontro al vento, figlio mio, e vorrei che tua madre mi vedesse per chiederle perdono di non essere stato un uomo come gli altri. All’inizio della mia vita avrei voluto esserlo, ma dopo ciò che ho visto mi rendo conto che per alcuni versi il modello era inferiore alla copia. Solo a-


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desso capisco perchÊ piangete, ma io non potrei mai farlo. Ma nonostante questo e le montagne di elementi logici che compongono il mio cuore, mi pesa dover andarmene senza vedervi. Il computer di bordo segnala che il carburante sta per finire. Ecco, il motore perde regime e solo le ali mi sostengono vicino ad un Cielo dove io non potrò mai andare. Ma il ricordo di me resterà nel cuore di tua madre e, se anche ho vissuto per poco, la tua esistenza è stato un compenso ben superiore al prezzo della mia.


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IV

Come ho già detto, la netrear di mio padre s’inabissò nel Pacifico il 30 Aprile 2103 dopo un volo di circa quattro ore. Donovan NF 4009, questo era il suo numero di serie, si era distrutto affinché noi vivessimo dopo soli sei anni di esistenza. Sollevai gli occhi da quella vestigia di un passato che non volevo. Non riuscivo a credere che mia madre fosse stata capace di tanto. Nella mia vita non ho sentito quasi mai la mancanza di un padre, non quando ero bambino, almeno. Al contrario, l’ho avvertita in età adulta quando la sua presenza avrebbe potuto consigliarmi nelle mie scelte. Per tanti anni mi ero fatto un’immagine diversa del mio genitore, una figura a tratti offuscata dalle nebbie del tempo, ma simile a quella di tutti gli altri uomini. E adesso scoprivo la verità tramite il modo distaccato ed impersonale di un diario sopravvissuto allo scorrere del tempo. Ammesso e non concesso che l’esistenza di mio padre avesse potuto fregiarsi del termine vita! Per un istante compatii mia madre. Trascorsi qualche giorno in completo isolamento e mi concessi una breve vacanza dal lavoro. A mia moglie, invece, decisi di non rivelare nulla, per il momento. Avrei avuto il tempo di spiegarle in seguito quando fossi tornato in me. Più umano di noi. E’ questo lo slogan commerciale della Tecnolife, la grande multinazionale che produce macchine somiglianti fin nei minimi dettagli agli esseri umani. Automi semi-biologici da relazione. Usando ovuli umani e tramite appositi programmi genetici è possibile costruire queste creature dove i servomeccanismi sono limitati allo stretto necessario. Congegni estremamente sofisticati, questi automi da relazione hanno conosciuto una nuova “giovinezza” dopo la legge quadro del 2049 che ha permesso di liberalizzare le unioni di fatto tra essi e veri esseri umani su quasi tutti i pianeti della Confederazione. Ma sono pur sempre macchine, come del resto era evidente dagli occhi strani, dalla pelle diversa da quella di un umano, dalla stessa espressione di mio padre. Seppi così di essere figlio di una donna e di un padre nel cui petto pulsava un cuore fatto di componenti elettronici. Non biasimai mia madre per la sua scelta. In fondo, neanche lei si era mai trovata bene nel mondo in cui viveva. Ma da quel


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giorno la mia vita sembrò un incubo da cui non riuscivo a svegliarmi. Per quasi un anno fui in bilico tra il terrore del reale e l’ombra della follia. Ero figlio di un mostruoso connubio tra una donna e una macchina e spesi una fortuna in esami medici per sincerarmi che il mio corpo fosse del tutto umano. Una volta arrivai sul punto di acquistare un’arma e farla finita. Fu mia moglie ad impedirmelo ed allora le confessai tutto. Non mi lasciò come temevo, ma invece mi aiutò a superare il terrore, a non vergognarmi delle mie origini. E quando, alcuni mesi fa, mi ha rivelato di essere rimasta incinta ho conosciuto un nuovo motivo per vivere. Ieri sono andato a trovare la tomba di mia madre e per la prima volta da quando l’ho seppellita ho rivisto la sua immagine. Quella di una donna così spaventata dall’orrore scatenato dagli uomini dall’aver cercato rifugio in uno strumento da essi stessi realizzato. Lentamente, il mio animo in tumulto è riuscito a tornare sulla via della ragione. Ho sempre ripensato ai tempi andati, a quando si amava, si odiava e si versavano lacrime vere per emozioni che non erano svendute a poco prezzo in un talk show videovisivo. Mio padre era probabilmente della stessa idea. La sua vita non era stata sorretta dall’intenzione di sollevarsi dalla miseria della propria esistenza grazie alla lucida estetica della moda. Aveva dato la sua breve vita per le cose più concrete, sua moglie e il suo bambino. Era questo il dettaglio che più contava. Ho deciso di non distruggere il solo frammento che mi riporta alla sua figura ed anzi lo conservo tra gli oggetti più cari. Ed ho imparato ad apprezzare il suo gesto. Perché in un mondo pazzo dove le persone hanno perso la capacità di provare emozioni, mio padre, una macchina, mi ha insegnato che quelle emozioni sono fondamentali per essere realmente umani. Per questo, quando mio figlio mi chiederà notizie su Donovan NF 4009, gli risponderò che era artificiale, ma era mio padre e la capacità di amare è il dono che mi ha fatto.


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Il mondo delle bambole “Noi siamo solo macchine, macchine per sopravvivere.” Richard Dawkins

Prologo

Erano trascorsi quattrocento anni da quando l’Umanità aveva abbandonato il pianeta più bello del sistema solare, la Terra, ormai ridotto ad un ammasso di detriti e materiali inquinanti, per stabilirsi su planetoidi artificiali concepiti come le nuove arche che avrebbero dato ospitalità all’uomo. Ognuno di essi, grande un quarto della Luna e fornito di terra, alberi, rocce e fiumi, era progettato come un ecosistema in miniatura. Percorrendo un’orbita polare intorno al nostro sole, le arche avevano l’aspetto di enormi, fantastici poliedri, roteanti nell’infinito vuoto interstellare. Degli iniziali nove miliardi di individui, gli esseri umani si erano ridotti notevolmente di numero arrivando a poco meno di 64 milioni. L’inquinamento, l’avidità economica e gli utilizzi sbagliati della scienza avevano falcidiato gli esseri umani nel nome di un non ben identificato progresso. Erano scoppiate guerre sanguinose fra parecchi stati e la nuova tecnologia applicata all’arte militare aveva dato un generoso contributo per abbattere il problema dell’incremento demografico. Soltanto quando quel mondo un tempo florido fu ormai ridotto ad un’immensa discarica gli uomini cominciarono ad interrogarsi sul proprio futuro. Con un ammirevole sforzo di volontà fu istituito un Governo Unificato che approvò la costruzione delle quattordici Arche, denominate senza troppa fantasia con il termine Terra seguito da un numero via via crescente. La tecnologia fu chiamata in causa ancora una volta, soprattutto per ovviare ad una problematica piuttosto curiosa. Decenni di terapie geniche volte ad eliminare gli inestetismi del corpo avevano causato la


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morte o la sterilizzazione di moltissime donne con il risultato che sui 64 milioni di persone che formavano i superstiti delle popolazioni mondiali, più del novanta per cento erano uomini. Il Governo aveva allora cercato una soluzione a questo problema che minacciava lo stesso futuro della specie umana. Furono istituite terapie volte a determinare il sesso dei nuovi nati, ma le poche donne sopravvissute risultarono per un ignoto motivo refrattarie ad ogni trattamento. Decenni di contaminazione genetica avevano provocato il danno e la ricerca di una soluzione appariva sempre più remota. Neanche con le varie tecniche di clonazione si riuscì a ristabilire l’equilibrio fra il numero degli uomini e quello delle donne. Sul finire dell’anno 2490, tuttavia, gli scienziati annunciarono di aver risolto, seppure solo parzialmente, il problema, avendo trovato il modo di superare l’incapacità femminile di generare bambine. Le procedure erano avvolte dal mistero poiché gli ospedali appositamente progettati si trovavano sul quarto planetoide, una struttura interamente dedicata alla scienza medica e alla tecnologia. Chi voleva una moglie doveva perciò farne richiesta. Una commissione avrebbe vagliato le attitudini psicocomportamentali del candidato e solo in caso di risposta affermativa si sarebbe soddisfatto il suo desiderio di formarsi una famiglia. Nessuno conosceva con precisione il metodo con il quale le nuove donne venivano alla luce rendendo in tal modo il quarto planetoide l’oggetto di leggende metropolitane più o meno fantasiose. C’era chi diceva che fossero ancora usate le tecniche di clonazione, chi si dichiarava certissimo che su Terra 4 vivessero soltanto donne che ricorrevano alla fecondazione guidata artificiale e in grado di generare solo bambine. Quest’ultima ipotesi era corroborata dal fatto che il personale di Terra 4 era quasi del tutto femminile. C’era poi il dettaglio, affatto insignificante, che le donne erano tutte esteticamente attraenti e dotate di un elevato grado d’intelligenza. Ma il Governo Centrale aveva adottato tutte le precauzioni possibili per proteggere il segreto di Terra 4 dalla curiosità della popolazione, un planetoide che veniva sempre più considerato come una vera e propria risorsa strategica. Di preciso c’era solo la soddisfazione di chi aveva visto accettata la propria richiesta e aveva trovato la compagna con cui dividere la propria vita. E Mark Pembleton era uno di questi.


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I

L’immagine che mi sono sempre fatta delle donne è quella di creature dalla grande agilità mentale. La capacità di arrivare alla soluzione dei problemi spesso in modo fantasioso e diverso da quella maschile mi hanno sempre attratto. Di più, le donne sono, secondo il mio modo di vedere, più sensibili, dolci e meno portate ai difetti tipicamente maschili. Non sono così certo che queste caratteristiche le abbiano sempre avute, perlomeno ai tempi in cui la Terra era ancora abitabile. Dopotutto non conosco tutti i dettagli del Grande Esodo, se non quello che insegnano i libri di scuola. Come tutti i cittadini delle Arche anch’io ho parecchie lacune sul passato dell’Umanità. Per me, la Terra è quasi un posto mitico, uno splendido diamante che ruota silenzioso nella cosmica vastità dell’universo, scintillante come pochi altri pianeti, ma velenoso come la maggior parte di essi. Naturalmente anch’io sono stato un ragazzo e le fantasie sulle donne dei tempi d’oro del mondo sono state anche alla mia portata. Vecchi libri e decrepite video-riviste ci mostravano creature filiformi, modificate dall’ingegneria genetica e assai diverse, pare, dalle vere donne che da sempre avevano abitato la superficie del nostro pianeta natale. Fu così che, quando decisi di aver compiuto realmente un processo di maturazione tale da poter tentare di sposarmi, feci domanda all’apposito ufficio, temendo per quasi quattro mesi che la mia richiesta fosse respinta. Non fu così ed ora la mia giovane sposa, Donna, riempie di gioia la mia casa e la mia vita. Spesso, quando né io né lei dobbiamo lavorare, mi ritrovo intento ad osservarla con un misto tra l’ammirazione e la curiosità. La sua bellezza così radiosa, la sua pelle serica e morbida, mi hanno conquistato dal primo momento in cui l’ho vista. Il nostro è stato un fidanzamento molto breve e il matrimonio è seguito subito dopo. Non sono uno di quegli uomini che è solito sfoggiare la propria moglie ma devo ammettere che, quando i miei amici vengono a trovarci a casa, il mio petto si gonfia di orgoglio. Donna ha gli zigomi alti, profondi occhi verdi, fluenti e morbidi capelli ca-


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stani che ricadono in gran quantità sulle spalle e da quando la conosco, circa due anni, il nostro legame diventa ogni giorno più saldo. Io stesso non so spiegarmi il perché del successo che da sempre riscuotono le unioni organizzate dal Governo con le nuove mogli. Questo perché si tratta pur sempre di esseri umani, con pregi e difetti. Eppure, ogni volta che carezzo mia moglie, ogni volta che mi perdo in quegli specchi di giada che sono i suoi occhi, mi sembra di contemplare una creatura esotica di un altro mondo. Forse, la loro eccezionalità dipende dal fatto che tutte le donne sono cresciute su Terra 4 secondo precisi standard comportamentali che le rende scevre da comportamenti psicotici o antisociali. Questo è importante perché in una società come la nostra non possiamo permetterci di avere problemi coniugali. D’altro canto la loro fragilità è evidente allo stesso modo della loro delicata bellezza. Tutte le donne devono infatti recarsi a cadenze annuali su Terra 4 per una variegata batteria di esami medici. Quanto a Donna, nonostante sia stata, con me, sempre prodiga di dettagli, in realtà io stesso non so molto di lei. Quando la incontrai per la prima volta mi disse di essere stata allevata da sola ed educata a un rigido rispetto delle leggi. Non ha mai conosciuto la madre, se pure ce n’è stata una, e neppure suo padre. Nonostante queste stranezze fui naturalmente felice di averla accanto e, con il trascorrere del tempo, questi dettagli si persero sempre più nei meandri della mia mente. Tuttavia, a differenza delle altre donne che io e lei conosciamo, Donna non deve recarsi su quella rugosa massa di metallo e plastica con troppa frequenza ma solo una volta all’anno. Né dove abitiamo noi, su Terra 6, né su tutte le altre Arche esistono ospedali dedicati alle donne. Quanto a lei, Donna si è mostrata sempre piuttosto piena di dettagli su quel posto e più di una volta mi ha parlato delle meraviglie tecnologiche che la scienza medica riserva alle rappresentanti del gentil sesso. Spesso mi raccontava di quanto fossero semplici e quasi rilassanti le visite cui si sottoponeva su Terra 4, della gentilezza del personale, della competenza dei medici. In breve, la curiosità ebbe il sopravvento sulla logica e cominciai a provare il desiderio di visitare quel planetoide. Fu così che, quando arrivò per lei il momento di partire le chiesi di poterla accompagnare. Donna cercò di dissuadermi spiegandomi che probabilmente mi sarei annoiato visto che Terra 4 non era certo famoso per i suoi percorsi turistici. Ne parlammo in una serata piacevole, in occasione del nostro secondo anniversario di matrimonio. Mia moglie aveva preparato una deliziosa cena a base di arrosto e ver-


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dure alla griglia ed avevamo fatto in modo che amici e impegni di lavoro fossero, almeno per una sera, fuori dalle nostre vite. Non uscimmo per la pioggia battente che rendeva le strade impraticabili. Terra 6 è infatti una delle Arche più ricche di vegetazione e per quella sera il programma ambientale del nostro planetoide prevedeva pioggia a beneficio delle foreste dell’emisfero orientale. Per noi non cambiava nulla ed anzi lo stare in casa poteva rendere la serata più intima. Così, quella sera mi ritrovai a fissare mia moglie attentamente, concentrando la mia attenzione sul suo vestito che ne dipingeva le curve come una seconda pelle. Con un guizzo degli occhi capì e sorrise, ma restò della sua idea: “Tesoro non vuoi proprio ripensarci?” Le sorrisi: “Lascia a me l’incombenza di decidere. In fondo chiedo di accompagnarti solo per questa volta, cosa ti costa?” Ricambiò il mio sorriso con una strizzatina d’occhio: “A me nulla, è solo che ti conosco e finirai per annoiarti tutto il tempo, guardare me che chiacchiero con altre donne e bighellonerai in giro per cercare di distrarti.” “Può essere, ma ormai ho deciso!” “Sei testardo, lo sai?” “Mi hai sposato!” Risposi semplicemente, guadagnandomi una finta occhiataccia da parte sua. Si versò un altro bicchiere di vino e lo portò alle labbra con delicatezza senza smettere di fissarmi. Allora mi avvicinai e le carezzai le spalle scoperte lentamente, beandomi del profumo dei suoi capelli. Avvertii che il suo corpo si abbandonava al mio abbraccio allora divenni più audace, le tolsi il bicchiere ormai vuoto dalle dita e la baciai a lungo. Quando le nostre bocche si staccarono la sollevai come una bambina e la portai in camera da letto. Per istanti che mi parvero eterni la contemplai come un artista ammira il proprio capolavoro. Era meravigliosa ed io mi sentivo finalmente un uomo felice: “Vieni, dai!” Sussurrò lei, lasciva. Non me lo feci ripetere: le andai vicino, l’abbracciai dolcemente e per quella sera il mondo non ci fu più.


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II

Il giorno seguente salimmo sulla navetta delle nove e venti diretta su Terra 4. Il viaggio sarebbe durato meno di un’ora ed io ero intenzionato a godermi quella gita fuori porta come se si fosse trattato di una vacanza. Scoprii ben presto che gli altri passeggeri erano per la maggior parte donne e alle mie orecchie arrivarono per tutta la durata del volo i loro squillanti cicalecci. La cosa non mi turbò minimamente perché impiegai il mio tempo contemplando il panorama mozzafiato della Terra che splendeva nello spazio. Ho sempre amato i viaggi spaziali perché la visione dei pianeti stagliati contro lo sfondo inquietante del cielo nero come la pece è per me molto suggestiva. Arrivammo troppo presto per i miei gusti, ma in tempo per quelli di Donna che era rimasta per tutto il viaggio silenziosa. Una volta sbarcati mi diedi ad osservare con curiosità la nostra destinazione. Squallida. Questa fu la prima parola che mi apparve nella mente mentre contemplavo quell’immensa distesa di cemento, vetro ed acciaio che si stendeva a perdita d’occhio. Terra 4 mi pareva molto differente dalla nostra Terra 6 che pure ne condivide in toto la struttura. A differenza delle altre arche, Terra 4 ha pochissimi alberi, impiantati più per motivazioni ornamentali che altro, ma è priva di animali o moduli abitativi. Ê solo una gigantesca massa di metallo che scivola nel cosmo, costituita da ospedali e industrie, fabbriche e centri medici. All’emisfero nord dovrebbero trovarsi i nidi, le strutture dove le donne sono generate, ma in quei posti nessuno può entrare, comprese le donne già sposate. Dove sono i vialetti dalle siepi ordinate e le rigogliose foreste che si estendono per gran parte della superficie del nostro planetoide? Dove gli oceani artificiali composti di acqua purissima che bagnano le sponde di Terra 9? Solo fabbriche, palazzi e strutture tanto ardite quanto sterili che svettano in un cielo reso torbido dagli scarichi gassosi delle industrie. L’altra cosa che notai era la pressoché totale mancanza di uomini. Ogni lavoro, ogni incarico, ogni compito sembrava svolto dalle donne. Erano tutte molto attraenti, efficienti e silenziose nei loro compiti. E se questa parte della popolazione di Terra 4 poteva costituire indubbiamente l’attrattiva di qualsiasi uomo


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che si fosse recato da quelle parti devo confessare che mi sentii stranamente a disagio. C’era qualcosa, in quelle aitanti figure, che mi procurava una certa soggezione. Androidi non ne vidi, eccettuati quelli del servizio di polizia, solo donne! La mia impressione fu, però, che anche il paesaggio ‘femminile’ fosse piatto, perché a parte una grande varietà nella tinta dei capelli, nella statura e in altri dettagli di poco conto, provai la sensazione che fossero tutte molto simili fra loro. Forse era vera, dopotutto, la diceria secondo la quale le donne erano tutte cloni. Chiamammo un taxi e facemmo rotta per la Struttura 49, il nuovissimo edificio assegnato a mia moglie come centro di controllo, ma quando entrammo nella hall mi accorsi con profondo rammarico che non eravamo soli. Nella grande sala d’attesa c’era almeno una trentina di persone, naturalmente donne, che aspettavano diligentemente il loro turno. Alcune le conoscevamo perché erano le mogli di nostri amici, altre ci erano sconosciute. Donna attaccò subito a parlare con un paio di loro ed io mi ritrovai solo in quella moltitudine, per di più osservato con una certa curiosità. Ogni tanto un’infermiera chiamava le pazienti e queste scomparivano dietro una porta ermetica. Per fortuna non esistevano le file perché ciascuna donna reca impiantato nella testa un microchip con la propria anamnesi completa. Mi ritrovai a contare i secondi, poi i minuti, infine le ore. Eravamo arrivati alle dieci e ora si erano fatte le undici e venti senza che avessimo ancora combinato nulla: “Avresti dovuto darmi retta!” Mi rimproverò ad un certo punto lei, “Così ti saresti risparmiato questa attesa.” Cercai di sorridere: “Donna, ormai sono qui. Vorrà dire che la prossima volta, se ti accompagnerò ancora, mi porterò dietro qualche rivista da leggere.” Mia moglie mi schioccò un bacio su una guancia, poi si ributtò a capofitto nella conversazione con le sue amiche che, per mia fortuna, non tentarono di coinvolgermi nelle loro chiacchiere. Dato che non sapevo cosa fare mi diressi verso un distributore automatico di bibite. Infilai la mia card nell’apposita fessura e schiacciai il pulsante. Un istante dopo afferrai la mia birra liofilizzata, la scossi per impastare l’acqua con i principi attivi della bevanda, e iniziai a sorseggiarla restando in piedi dov’ero ad osservare Donna chiacchierare con una bella brunetta. Il fatto che le donne siano così vulnerabili da richiedere strutture ospedaliere esclusive mi preoccupava non poco. Da quando ci siamo sposati mia moglie non ha mai avuto grossi problemi, ma non volevo rischiare di


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perderla. Stavo così pensando quando qualcuno, dolcemente ma con fermezza, mi chiese di farmi da parte. Era una infermiera che spostava una lettiga sulla quale vi era un corpo. Dico così perché il lenzuolo copriva completamente il contenuto. Quella vista mi mise addosso una certa inquietudine ed istintivamente mi spostai, lasciandole campo libero. Aveva una certa fretta perché qualcosa scivolò via dalla barella e cadde a terra, sparpagliandosi sul pavimento. Doveva essere la prognosi o la scheda di quella sfortunata. Ma non appena mi chinai a terra per aiutarla cominciando a raccogliere i fogli a casaccio, quella si girò chiedendomi di non toccare nulla. Mi stupì non poco perché mi levò i fogli dalle mani, li rimise rapidamente a posto e scomparve oltre la porta. Se questo fatto mi lasciò di stucco, non fu la sola sorpresa che mi attendeva. Sul pavimento reso lucido dall’impatto di migliaia di piedi notai un curioso oggetto che sulle prime mi parve una sorta di grosso cristallo. Il mio primo istinto fu di richiamare quella donna per farle notare la cosa ma, ricordandomi il suo fare brusco, ci ripensai. Con fare indifferente misi un piede sull’oggetto, quindi mi guardai intorno per vedere se qualcuno mi stesse osservando. Ancora adesso non so spiegarmi perché mi comportai in quel modo, ma in quell’istante non ci pensai ed anzi lanciai uno sguardo distratto a Donna che mi fece segno di tornare da lei. Allora mi chinai, posai la birra a terra e con un rapido movimento ficcai l’oggetto in tasca senza guardarlo. Mia moglie non parve accorgersi di nulla così feci finta di allacciarmi le scarpe, vuotai la bottiglia, e andai da lei: “Che è successo?” Mi chiese quando le fui accanto. Le spiegai la situazione, ma non le parlai di quello che avevo trovato. D’altronde poteva benissimo non essere niente, e forse tutta quell’aria di mistero su Terra 4 aveva cominciato a nuocere al mio equilibrio mentale. Accatastai temporaneamente il problema nel mio cervello fino a quando non arrivò il turno di Donna. Lei entrò da sola e ne uscì una mezz’ora dopo. Le chiesi come si sentisse: “Tutto bene!” “Hai bisogno di medicine?” Scosse la testa: “Mi hanno già dato tutto il necessario tesoro, sta’ tranquillo. Era solo una leggera emicrania. Mi hanno fatto un esame e dato una compressa multipla”. Sorrise, “E tu? Non deve essere stato piacevole per te avere a che fare con quell’infermiera.” “Volevo solo aiutarla!” Mi diede un buffetto su una guancia: “Hai ragione ma vedi, Terra 4 non è esattamente come le altre Arche. Qui sono tutte donne e ognuna


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di loro è consapevole della fragilità della propria esistenza.” “Alla faccia del sesso debole!” Donna scoppiò a ridere: “Secondo me è l’atmosfera di questo planetoide. Stare sempre a contatto con tutte quelle patologie, i cadaveri, lavorare dalla mattina alla sera, non avere svaghi... ammetterai anche tu che una cosa del genere non è proprio il sogno di una vita!” “Non lo è di sicuro ma resta il fatto che il lavoro lo hanno scelto loro…” Mi guadagnai un’occhiataccia da parte sua, ma non dissi niente. Salimmo sul taxi che nel frattempo era arrivato mentre mia moglie, per nulla intenzionata a lasciare cadere l’argomento ricominciò a parlare: “Tesoro sei un uomo veramente testardo!” Sorrise: “Forse la prossima volta potresti lasciarmi venire qui da sola, così non correrai il rischio di incontrare qualche altra svitata”. “Ti prometto che ci farò un pensiero, d’accordo?” “Cos’è, sei geloso?” Sussurrò maliziosa, dandomi un leggero buffetto su una guancia. “Sempre! Sei o non sei il mio tesoro più grande?” Mi schioccò un bacio sulle labbra e si strinse alla mia spalla. Le nostre mani s’incrociarono e rimanemmo in questa posizione fino all’astroporto, dove arrivammo giusto in tempo per salire sulla navetta per Terra 6. Il viaggio di ritorno fu più tranquillo perché la navetta era semi vuota e percorreva un’orbita più breve. Donna era un po’ stanca e schiacciò un pisolino mentre io mi dedicai a scorrere le pagine di una videorivista. Quando scendemmo andammo alla nostra macchina e tornammo a casa nel volgere di pochi minuti. Se Donna si gettò immediatamente sotto la doccia, io ne approfittai per dare finalmente un’occhiata al misterioso oggetto che avevo trovato su Terra 4. Tra le mie dita brillava di una luce metallica e di nuovo provai l’impressione che si trattava di una sorta di cristallo, ma artificiale. Per quanto lo avvicinassi agli occhi per vederlo meglio non ne ricavai niente di speciale così andai nel mio studio e accesi l’antiquato ma ancora funzionante microscopio che troneggiava sulla mia scrivania. Lo strumento non era molto di più di una reliquia di moltissimi anni prima, quando studiavo all’università e per comprarlo avevo speso i miei primi risparmi, ma era ancora funzionante ed in perfette condizioni. Posai l’oggetto sull’apposito ripiano, lo tenni fermo aiutandomi con una pinzetta e diedi un’occhiata. Fui stupito da ciò che vidi e non riuscii a trattenere un


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urletto di ammirazione. Era senza dubbio un meccanismo molto complesso che a prima vista mi parve una vera e propria cellula vivente. Vidi qualcosa che somigliava molto a una pompa rotativa e migliaia di microingranaggi costruiti con mirabile precisione. La meraviglia suscitata in me dall’oggetto mi riempì di stupore perché, anche se non ne conoscevo la funzione, mi sembrava diverso dagli altri meccanismi con cui, per lavoro o diletto, avevo usualmente a che fare. Rimisi pertanto quello strano souvenir del viaggio in tasca e comunicai a Donna che sarei uscito per fare due passi giusto per arrivare affamato all’ora di cena. Lei non ebbe sospetti, limitandosi solo a ricordarmi di non fare tardi. Così mi diedi una sommaria ripulita, indossai abiti nuovi e uscii di casa. Una volta in strada saltai in macchina e percorsi due isolati in direzione ovest, verso il centro. Avevo intenzione di mostrare quell’oggetto ad Howard Shapiro, un amico che conosco da anni. Se c’era qualcuno che poteva aiutarmi a fare luce su quell’aggeggio questi era proprio Howard, un tecnico genetico di prim’ordine oltre che persona assolutamente affidabile. Sperai soltanto di trovarlo in casa.


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III

Quando bussai alla sua porta, lo trovai solo perchè seppi che sua moglie era andata a sistemarsi i capelli. Howard era un uomo rubicondo, un po' meno alto del sottoscritto, dal sorriso sempre pronto e gioviale. Lo avevo conosciuto in occasione di una vacanza nel sistema solare quando insieme ad Sheila, sua moglie, era in viaggio di nozze. A quell’epoca, io ero uno scapolo impenitente ma con il desiderio, come tutti, di potermi un giorno sposare. Da allora sono cambiate tante cose ma non la nostra amicizia che si mantiene più salda che mai. Sposato da molto più tempo di me, circa dieci anni, ostenta spesso la genuina aria scanzonata di chi ha capito che la vita, già difficile di per sé, non ha bisogno delle complicazioni tipiche degli esseri umani. Sua moglie, una donna minuta ma ben proporzionata, era bruna e graziosissima con due occhi marroni grandi e profondi. Non appena mi vide fece un finto fischio di ammirazione poi diede sfoggio al suo consueto carattere giocherellone: “Ehilà grande Mark! Tua moglie ti sta facendo ingrassare per il cenone di Natale, eh? A che devo l’onore della tua visita?” Risi: “Mi serve un favore, Howard, e pensavo che potessi aiutarmi.” “Ma che espressione seria tiri fuori! Dai, ricaccia indietro le lacrime e siediti. Ti raggiungo subito con il necessario approvvigionamento di cui ogni uomo ha bisogno”. Il necessario approvvigionamento era una buona scorta di birra che a suo dire “scioglieva la lingua ed allontanava i crucci”. Sedetti su uno spazioso divano in attesa che riapparisse all’orizzonte. La casa di Howard non era grande, ma comoda ed ordinatissima e del resto Sheila aveva fama di essere una casalinga di prim’ordine. Dopo qualche secondo lo vidi con un carico di birre della più varia provenienza che posò sul tavolinetto davanti a noi in religioso silenzio. Mi porse la prima poi disse: “Tutto bene con Donna? E’ da un po' che non vi vediamo. Sheila pensa di invitarvi a cena, martedì prossimo, che ne dici?” “Ne saremmo felici, grazie!” Inghiottii il primo sorso di birra e attesi che scendesse giù: “E voi, come ve la cavate?” Howard si strinse nelle spalle: “Sheila esagera con la cucina: sono in-


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grassato di due chili e mezzo.” Scoppiai a ridere: “Ma non ero io quello pronto per il cenone?” Fece un ghigno che doveva essere un sorriso: “Beh, ci sei molto vicino!” “Ah, grazie, ma è anche per questo che siamo sposati, ti pare?” Sbuffò divertito: “Davvero?” Scosse le spalle, poi: “Allora, capito il concetto che se mi faccio vedere in giro con te che dici queste cose, le nostre mogli prima ci sparano e poi ci piangono, che favore ti serve?” “Sapresti dirmi cos’è quest’affare?” Gli mostrai il curioso oggetto che avevo trovato su Terra 4. I suoi occhi esperti lo percorsero molte volte, ma restò in silenzio. Poi, come se si fosse svegliato da un sonno profondo, mi chiese: “Dove lo hai trovato?” “Su Terra 4. Donna c’è andata per uno dei soliti controlli e stavolta l’ho accompagnata anch’io. Questo coso è caduto da una barella”. “Incredibile!” “Allora sai cos’è!” “Ho bisogno di alcune conferme. Vieni con me.” Mi portò nel suo laboratorio dove si trovava un apparecchio molto più potente del mio vecchio microscopio. Lo pose su un ripiano ed attivò lo strumento che si animò con un sottile ronzio. Su uno schermo apparve l’immagine dell’oggetto rivelandone ogni dettaglio: “Fantastico!” Disse. “Vuoi farmi partecipe o no?” “Scusa, Mark, ma hai trovato quello che potrebbe essere un componente biomeccanico.” “E che roba è?” Il mio amico allungò i piedi sul tavolino e mi porse la seconda birra, poi cominciò: “Un componente biomeccanico è un meccanismo che imita in tutto e per tutto il funzionamento di un organismo vivente. Vedi tutti quei circuiti? Ora guarda!” Estrasse l’oggetto dallo strumento, lo mise in un contenitore e vi versò sopra un liquido giallastro. I minutissimi circuiti cominciarono a muoversi, a roteare, a incastrarsi uno nell’altro come se fossero animati da una misteriosa fonte di energia: “Vedi!” Continuò Howard prevenendo la mia domanda: “Ho messo il tuo oggetto in una soluzione fisiologica del tipo che si usa per sostenere le funzioni vitali di una persona molto debole. Come ti accorgi da te, va bene anche per questo meccanismo.”


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“Sembra vivo per davvero!” Osservai. Howard mi guardò: “Se non lo è ci va vicino. I biomeccanismi rispondono a precise norme di base che si rifanno al dna degli esseri viventi.” “Secondo te cosa ci faceva su Terra 4?” “Forse fa parte di qualche macchina speciale”. “E allora perché era su una barella?” “Senti, Mark, ci possono essere mille ragioni per cui quell’affare si trovava lì però la domanda è un’altra e porta più lontano: perché si costruiscono cose del genere quando la loro fabbricazione è vietata da più di quarant’anni? Forse hai scoperto qualcosa di grosso, vecchio mio, e né io né te ce ne rendiamo conto.” “Che tipo di macchine sarebbero quelle che fanno uso di questi aggeggi?” Howard sbuffò: “Tutto cominciò molto tempo prima che la Terra, quella vera intendo, diventasse ciò che è ora. Forse sai che dopo gli sconvolgimenti ambientali causati dall’inquinamento i governi mondiali si riunirono per studiare una soluzione al problema. Non si pensò subito alle attuali arche, ma alla possibilità di rendere abitabile qualche altro pianeta, terraformandolo. All’epoca, Marte era considerato il candidato più probabile ma ci sarebbe voluto troppo tempo e il mondo non poteva permettersi di aspettare qualche migliaio di anni per dar il via ad un inizio di atmosfera. Sarebbe stato più logico andare alla ricerca di pianeti già adatti ad ospitare la vita come noi la intendiamo. Si decise allora di inviare sonde automatiche in esplorazione, ma anche qui si presentò un problema: i loro computers di bordo non possedevano quella capacità decisionale che solo le creature viventi possono vantare. Non dimenticare che le sonde dovevano percorrere milioni di miglia nello spazio profondo, atterrare, analizzare la composizione del suolo dei pianeti incontrati e tornare alla base. Impossibile prevedere gli imprevisti cui sarebbero andate incontro. Per farla breve, alle sonde sarebbe servito un computer capace di far fronte agli imprevisti come un organismo vivente.” “Stai parlando delle sonde biologiche, vero? E’ l’argomento tipico di tutti i testi di Astronautica, mi pare.” “Infatti, vecchio mio. Le nuove sonde, composte sia di circuiti che di cellule viventi, furono chiamate biomacchine perché riunivano insieme le capacità degli organismi viventi e la robustezza delle strutture meccaniche. Una volta lanciate in orbita terrestre crescevano letteralmente,


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sviluppando apparati sensoriali biologici e vagando nello spazio alla ricerca di pianeti dalla caratteristiche favorevoli alla vita. La loro chimica poi, le rendeva capaci di alimentarsi dei composti che trovavano nello spazio ottenendo in tal modo un’autonomia pressoché illimitata. Furono un enorme successo per l’astronautica e la scienza in generale. Per decenni funzionarono bene, agendo in relativa autonomia dalla Terra e scoprendo svariati nuovi pianeti. Il prossimo passo sarebbe stato quello di realizzare enormi astronavi simili agli attuali planetoidi che si sarebbero spinte alle stelle più vicine portando con sé esseri viventi, mezzi e materiali in modo da consentire alla nostra specie di rendere possibile la fondazione di un vero e proprio impero nello spazio nell’arco di poche centinaia di anni. Purtroppo, i pianeti scoperti non sembravano adatti ed il tempo stringeva. Fu così che, quando ormai erano già pronti i progetti delle future astronavi in grado di percorrere distanze di alcuni anni-luce, si scelse l’ipotesi di realizzare le arche mettendole in orbita direttamente intorno alla Terra. Quanto alle biomacchine, la loro tecnologia era considerata riservata, ma alla fine ci fu chi tentò di lanciare sul mercato robot domestici basati sulla tecnologia delle biosonde, ma senza successo”. “Io ho letto che i primi prototipi di quegli aneroidi non erano poi così affidabili e non se ne fece niente.” Howard assentì: “Fu un gran pasticcio! Quei robot non furono mai lanciati sul mercato ufficialmente per il loro costo sproporzionato rispetto ai droidi tradizionali. Ma il vero motivo era un altro: molte delle biosonde cominciarono ad impazzire senza un motivo apparente. Alcuni ricercarono la causa nelle radiazioni cosmiche, altri nell’imperfetta progettazione. Sta di fatto che oltre un certo numero di anni molte si autodistruggevano e la paura che questo potesse accadere anche ai robot basati sulle stesse tecnologie spinse le industrie coinvolte a non farne niente.” “Questo non lo sapevo!” “Fidati di me, Mark. Dopotutto io sono piuttosto ferrato nel mio campo, dato che mi occupo di progettazione neurale.” “Certamente non mi permetto di mettere in dubbio le tue parole, ma forse ormai la tecnologia è abbastanza matura. Mi hai detto che tentarono di produrre robot domestici. Magari adesso li usano per costruire automi infermieri o specializzati per operazioni delicate.” “Non ti ho detto ancora tutto, Mark.”


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“Cosa vuoi dire?” “Ci provarono, ma solo molti anni più tardi, praticamente quarant’anni fa. Quando furono lanciate in orbita le prime quattro Arche realizzarono un nuovo prototipo di androide chirurgo per operazioni speciali al cervello. Terra 4 era già progettata per diventare il centro industriale dell’umanità dato che riuniva le migliori menti scientifiche a disposizione. Quell’automa era in tutto e per tutto identico agli automi che fabbricano oggi, ma aveva un cervello biologico, capisci?” “Vuoi dire che il suo cervello era simile a quello umano?” “Non proprio, ma era fatto di cellule nervose. Un automa del genere era migliaia di volte più sofisticato di quelli attuali e decisamente più vicino all’intelligenza umana di qualsiasi altra macchina. Lo provarono prima su altri automi poi sui cadaveri. Pare che i risultati fossero eccellenti. Beh, ne vuoi sapere una? Alla vigilia del primo intervento l’androide diede i numeri e si fece letteralmente a pezzi. Non oso pensare cosa avrebbe fatto al paziente, se lo avesse avuto sul tavolo operatorio! Per questo la tecnologia dei biomeccanismi fu considerata nuovamente immatura e stavolta la costruzione di simili congegni severamente vietata.” “Allora quello che c’è nel tuo microscopio non dovrebbe esistere.” “Esatto, Mark, non dovrebbe esistere.” “Sei sicuro di quello che dici?” Mi guardò in un modo niente affatto lusinghiero: “Io facevo parte dei consulenti per quelle macchine. Non dimenticare che prima di stabilirmi su Terra 6 lavoravo per il settore Ricerca e Innovazione del governo.” “Ok!” Ammisi, “Secondo te, qual è la funzione di questo affare?” “Così, su due piedi, non saprei, ma se fossi uno che scommette direi che ha tutta l’aria di una micropompa aspirante/espirante. Non so, magari serve per alimentare un sistema di drenaggio liquidi o qualcosa del genere.” Il mio amico si alzò ed estrasse dal microscopio l’oggetto misterioso, porgendomelo: “Fossi in te lo distruggerei.” Mi disse serio. “Vedrò di pensarci, va bene?” Assentì, ma non disse nulla. Mi porse il meccanismo che finì dritto nella tasca della mia giacca, poi parlammo del più e del meno per un po’. Quando arrivò l’ora di pranzo mi scusai e mi preparai per andarmene. Howard capì, mi accompagnò alla porta e mi strinse la mano con vigore: “Fammi sapere per quell’invito”. Disse.


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“Donna ne sarà felice!” Risposi. Oltrepassai il giardino della sua abitazione e andai verso la mia auto. Pochi minuti dopo ero già in direzione di casa.


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IV

Non saprei dire per quale motivo le parole di Howard rimasero a vorticare tra i miei pensieri per tutto il tragitto verso casa. Nonostante la totale fiducia nei suoi confronti mi chiedevo se davvero l’oggetto che avevo ritrovato potesse in qualche modo combaciare con quel che mi aveva detto. Non mettevo in dubbio la sua professionalità ma francamente mi sembrava curioso che un meccanismo illegale fosse presente su Terra 4, il planetoide più controllato di tutte le arche. Con questi pensieri parcheggiai l’auto davanti al vialetto del mio giardino e scorsi mia moglie intenta a portare in casa le buste della spesa: “Sono stato da Howard!” La informai mentre l’aiutavo e lei, di rimando, mi chiese come stesse Sheila: “Non l’ho trovata: era andata a farsi i capelli, ma ci hanno invitati per martedì prossimo.” “Splendido! Dobbiamo ricordarci di portare loro qualcosa. Che ne dici di una bottiglia di vino? Poi, naturalmente, dovremo ricambiare l’invito. A proposito di cena, cosa vuoi che ti prepari stasera?” “Beh, non so tesoro. Penso che una bella bistecca in salsa rossa, patate fritte e una birra mi andrebbero più che bene”. Lei fece una smorfia: “Non dovresti mangiare sempre robaccia del genere; sai che ti fa ingrassare!” Per tutta risposta le andai dietro e le cinsi la vita con le mani, affondando il volto nei suoi capelli: “Non sono poi così grasso.” Lei sorrise: “Cos’hai intenzione di fare, cattivone? Sono una donna seria io.” “E io sto seriamente pensando di farti vedere la mia camera da letto.” Donna rise di nuovo. Mi piace il suo tono quando è divertita, è molto femminile: è una delle cose che più apprezzo di lei. Avvicinò le sue labbra alle mie in un lungo bacio: “Accontentati di questo, per ora. Devo cucinare ma non ti farò quello che mi hai chiesto e puoi scordarti la birra. Tanto ti sarai certamente servito da Howard!” “Va bene, ma più tardi faremo i conti!” “Vedremo!” La lasciai e raggiunsi il mio studio. Avevo ancora un bel po' di pezzi da


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scrivere per il Daily Planet, il giornale del mio distretto, e così tentai di recuperare un po' del tempo perso. Ero assorto nel lavoro da un’oretta, quando sentii un urlo acuto e terribile provenire dalla cucina: era Donna. Mi alzai di scatto e corsi da lei in tempo per vederla gettata a terra: “Donna!” Gridai. Lei volse la testa e mi guardò: “Sono stata sciocca, Mark.” Mi chinai su di lei e vidi che presentava un taglio piuttosto profondo sul braccio destro. I bordi della ferita erano netti ed era possibile vedere i tessuti sottostanti e, tra di essi, un nervo biancastro. L’aiutai ad alzarsi e la feci accomodare su una sedia. Poi andai in bagno e afferrai il kit del pronto soccorso che disponeva del necessario per fasciarle il braccio. Le pulii la ferita con delicatezza e le spruzzai sopra una sostanza lenitiva che avrebbe aiutato i tessuti a ripararsi in fretta e senza antiestetiche cicatrici. Per tutto il tempo, mia moglie mi guardò con un misto di gratitudine e irrequietezza. Pensai che le stessi facendo male, ma scosse il capo: “No, va tutto bene, grazie. Stavo solo pensando che mi sono tagliata in modo così stupido. Dovevo affettare la carne e invece mi sono affettata io”. Sorrise: “Da non crederci.” “Sono cose che succedono. Come ti senti, ora?” “Non è nulla, ma grazie però!” Mi scoccò un bacio di gratitudine. “Ti prometto che modernizzerò questa cucina, così non correrai più rischi inutili.” Sorrise: “Ma a me va bene così. Lo sai che sono d’accordo con te sugli automi, no? Non ne voglio in giro per casa. E poi abbiamo già abbastanza macchine per la pulizia dei pavimenti, del giardino, dei vetri. Non ne servono altre anche per fare da mangiare.” Le sollevai la testa fra le mani e le baciai la fronte. Lei si alzò e fece per tornare ai suoi compiti: “Cosa credi di fare?” Le chiesi, allarmato. “Devo preparare la cena, te ne sei scordato?” “Niente affatto. Mangeremo il solito pasto automatizzato del sistema di gestione domestica.” “Ma guarda che ho un taglietto al braccio, non chissà cosa. Lasciami andare, dai!” “Ma, tesoro...” Mia moglie mi sorrise amorevolmente: “Mark, ti prego! Apprezzo moltissimo la tua preoccupazione per me, sul serio, ma vorrei tu capissi che non è successo niente! E’ soltanto un taglietto un po’ profondo, ma non c’è problema. Grazie alla tua medicazione non avverto più nessuna sen-


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sazione spiacevole!” Le posai un casto bacio sulle labbra: “Sei sicura?” Lei annuì e mi rivolse il più bel sorriso che avessi mai visto: “Non temere. La tua Donna resterà con te ancora per molto, molto tempo!” “Va bene, amore! Ma promettimi che, se avessi bisogno di aiuto mi chiamerai.” “Farò di più! In caso mangeremo roba sintetica d’accordo? Ma non so se ti converrà. Ho in mente una bella cenetta e vorrei farti provare alcune nuove ricette.” Sospirai: “Va bene!” La lasciai ai suoi compiti mentre io me ne andai nello studio. Scrissi un po’ ma a volte mi sorpresi a fissare come inebetito lo strano meccanismo. Ora che lo osservavo con più tranquillità rimasi stupito della terribile complessità della sua costruzione. Più che un componente di una macchina più grande pareva esso stesso una macchina completa in ogni dettaglio. Ripensai di nuovo alle parole del mio amico e ricordai quando aveva gli versato sopra quel liquido nutritivo. Lo rimirai per qualche minuto ma a parte la superficie esterna non vidi altri dettagli. Sospirai, aprii un cassetto della mia scrivania e ve lo riposi quindi continuai a lavorare. Mi distrassi in tal modo fino all’ora di cena quando Donna mi chiamò per andare a tavola. Allora mi alzai, spensi il computer e la raggiunsi in salotto. Aveva già preparato tutto il necessario così non rimaneva molto da fare per me. L’aiutai a sistemare gli ultimi dettagli poi feci onore alla cena consumando con appetito ogni portata. Non volli fare altre osservazioni sul suo braccio per evitare di turbarla e parlammo invece di uno dei suoi argomenti preferiti, la Terra. Da quando la conosco, mia moglie ne è sempre rimasta affascinata. In casa abbiamo molti libri sull’argomento e spesso, in occasione delle festività più importanti, mi chiedeva di noleggiare uno di quei voli economici che prevedono la circumnavigazione dell’orbita terrestre. Non sono poche le volte in cui mia moglie ed io discutiamo di come doveva presentarsi il nostro pianeta prima del Grande Esodo. Ne è sempre stata entusiasta e una buona quota del suo stipendio finiva, oltre che nei viaggi, in libri e riviste sull’argomento. Al contrario di lei, invece, io non ero così propenso sulla cosa. Apprezzo, è vero, la bellezza della storia che riguarda la Terra, ma non avrei cambiato per nulla al mondo la mia casa su Terra 6 con qualsiasi abitazione, per sofisticata ed elegante che fosse, sulla superficie terrestre. Alla sua atmosfera mefitica ed ai continenti devastati dalle guerre e dai processi inquinanti ho


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sempre preferito i pianeti esterni del nostro sistema solare. Gli stessi oceani, all’apparenza piacevoli da osservare, sono in realtà masse olezzanti di idrocarburi che si riflettono in un cielo scuro e nuvoloso. Solo pochi e selezionati ricercatori sono scesi sulla sua superficie per motivi di studio. A volte i giornali parlano delle spedizioni per cercare di salvare alcune delle ultime piante e creature che ancora esistono laggiù. Ma, che io sappia, niente di umano può sopravvivere sulla Terra se non a prezzo di pesanti limitazioni e in ambienti controllati. Certo, ai tempi in cui la follia degli uomini non l’aveva ancora distrutta, la vita doveva essere stata piacevole. Ma era altrettanto vero che qualsiasi paesaggio terrestre non poteva competere con quelli ricostruiti sulle arche. E se è vero che si tratta pur sempre di ambienti artificiali il loro fascino è evidente per chiunque. Dopo cena ci spostammo su un comodo divano per bere un drink. Non le accennai nulla, invece, sull’oggetto che avevo trovato. Non era una questione di poca fiducia, ma avevo la netta sensazione che non mi avrebbe capito se gliene avessi parlato. La nostra serata trascorse in questo modo piacevolmente per un po’. Andammo a letto piuttosto presto.


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V

Trascorremmo in questo modo alcuni giorni in completa armonia. La ferita di Donna si rimarginò presto e lei tornò alla vita di sempre. Tra noi due sono io quello che resta più a casa: il mio lavoro a volte mi porta in giro, ma l’attività di insegnante di storia antica all’università porta mia moglie a casa solo nel pomeriggio. Una sera Sheila telefonò per invitarci a pranzo e fu così che Donna mi trascinò alla ricerca di un pensiero per quasi tutta Terra 6. Quando si tratta di fare un dono a qualcuno mia moglie è molto difficile e detesta fare brutte figure. Tra le opzioni che aveva previsto figuravano un dolce fatto in casa, una bottiglia di vino pregiato, un attrezzo da cucina e un kit da bagno per signore. Decidemmo per la bottiglia di vino che acquistammo in un negozio specializzato nel settore ovest di Terra 3, il solo planetoide che ostentava negozi per tutti i gusti e tutte le tasche. Donna ne approfittò per fare un po’ di shopping ma tornammo a casa in tempo per prepararci e arrivare dai nostri amici con un buon anticipo. Gli Shapiro vivevano in una graziosa villetta vecchio stile che Howard aveva costruito pezzo per pezzo in previsione del proprio matrimonio. Anche il giardino, minuto ma ordinato, era frutto della sua passione per il fai da te. In casa non avevano alcun sistema di monitoraggio domestico così che, chiunque volesse far loro visita, poteva agevolmente oltrepassare il delizioso cancelletto artigianale prima di bussare all’ingresso vero e proprio. E’ quello che facemmo anche noi, ma Donna retrocedette d’istinto non appena la porta fu aperta: “Buonasera. Voi siete attesi. Entrate, prego.” Queste parole, pronunciate con cortesia, non appartenevano a nessuno che conoscevamo, ma ad un droide. Per un momento pensai di aver sbagliato abitazione ma ben presto mi accorsi che non era così. Donna, non sapendo cosa dire, balbettò un grazie alla macchina ed entrò. Io esitai un attimo ma poi, vedendo Howard venire verso di noi, seguii la mia consorte: “Ciao Sheila, ciao Howy!” Esordì Donna, “Come state?” Le due donne si abbracciarono, mentre noi ci tendemmo semplicemente


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la mano: “Mark!” Mi abbracciò la moglie del mio amico, “Sbaglio oppure è da tanto che non ci vediamo?” Le mostrai il sorriso più gentile del mio repertorio: “E’ da un po’, in effetti. Spero ci scuserai.” “Dovreste farci visita più spesso!” Mi rispose lei, garrula. Dal canto mio, mi sentivo in imbarazzo, a differenza di Donna, tutta presa a consegnarle la bottiglia ed a parlare di argomenti femminili. Al contrario, Howard mi sembrò stranamente taciturno così per tentare di farlo sciogliere gli chiesi del loro nuovo acquisto: “Ah già, quello!” Proruppe, indicando l’automa che in quel momento era occupato a preparare la tavola: “Sheila diceva che ci serviva un aiuto e così l’ha comprato.” Osservai meglio quella macchina. Era decisamente umanoide, con arti di plastica che gli consentivano una libertà di movimenti tale da potersi occupare dei servizi casalinghi. Le mani erano provviste di sole quattro dita, una delle quali opponibile, mentre i piedi erano costituiti da semplici strisce metalliche. I suoi movimenti non erano a scatti, ma molto fluidi perché tutto il robot funzionava con sistemi pneumatici. La sua parte più impressionante era la testa. Non disponeva di un viso come un essere umano, ma una selva di circuiti sormontati da un paio di microtelecamere mobili piuttosto inquietanti. Il sistema sensoriale atto a raccogliere i suoni sembrava posto all’altezza del petto mentre una sottile apertura splendeva a giorno ogni volta che il robot emetteva dei suoni. Confesso che non mi piaceva affatto l’idea che un aggeggio del genere potesse girare giorno e notte in casa e lo dissi ad Howard, ma egli parve non preoccuparsene: “E’ solo un ammasso di metallo e plastica, una bambola. Tu avresti paura di una bambola?” “Non è esattamente una bambola graziosa: quel coso è orrendo!” Howard scoppiò a ridere: “Non dirai sul serio! Quell’aggeggio è meno intelligente della tua auto, Mark!” “Forse hai ragione!” Assentii, “Ma quando quell’affare mi guarda provo il desiderio di farlo semplicemente a pezzi! Chiamala paura, paranoia o come ti pare, ma questo è quanto!” “Allora è meglio che tu non lo veda, altrimenti penso che sarà Sheila a provare questa sensazione verso di te. Con tutto quello che l’ha pagato!” “Perché, quanto costa?” “Oh, circa tre stipendi.”


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“Caspita! Ma vi serve davvero?” Howard fece spallucce: “Detto fra noi non molto: è lento, ci vuole un sacco di tempo perché possa imparare anche i compiti più semplici e ogni quattro ore scarica le batterie. Ma Sheila ha insistito tanto, sai come sono le donne. La verità è che ne hanno uno simile i nostri vicini, ecco cosa.” “E tu paghi!” “Veramente l’ha pagato lei.” “Almeno questo!” “Già, almeno questo!” Dopo queste parole Howard tacque. Mi accorsi che fissava le due donne che parlottavano fra loro e il suo sguardo mi parve parecchio inquieto. Gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava: “No, Mark, non proprio.” “Che razza di risposta è?” Gli chiesi io, che stavo cominciando a incuriosirmi sul serio. Howard mi fissò e nei suoi occhi lessi qualcosa di simile alla disperazione: “Cosa c’è, Howard?” Lo incoraggiai. “Forse ho scoperto qualcosa, ma...” “…ma?” Il mio amico tornò a fissare Donna e Sheila, poi si alzò dal divano e mi fece cenno di seguirlo. Alle due donne disse che avremmo fatto due passi. Non sospettarono di nulla. Lo seguii in giardino che si mise a percorrere apparentemente senza motivo. Per un attimo credetti che avesse un esaurimento, ma cambiai idea quando si voltò verso di me e cominciò a parlare: “Non so se possiamo parlare qui, ma di certo non possiamo farlo a casa.” “Howard!” Cominciai, “Penso che tu abbia lavorato troppo ultimamente. Ti stai comportando in modo strano.” “Magari fosse”. Respirò a fondo: “Ricordi quell’affare che mi portasti a vedere?” “Si, lo possiedo ancora. Allora?” “Ti avevo consigliato di distruggerlo.” “Non so perché, ma non me la sono sentita.” “Ne hai parlato a Donna?” “Non ho fatto neanche questo.” “Hai fatto bene. Forse ho scoperto a cosa serve.” “Sono tutto orecchi.”


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“Dovrebbe essere una sorta di cuore artificiale o comunque qualcosa che ne fa le funzioni. Non penso però sia parte di un droide.” “Una protesi bionica?” “Qualcosa di simile.” “E tu come lo hai scoperto?” “Il droide che abbiamo comprato ne ha uno simile tra i suoi pezzi di ricambio. Non è così sofisticato, ma ci si avvicina parecchio.” “Non sapevo che anche i droidi avessero un cuore.” “E infatti non lo hanno: possiedono solo un aggeggio che serve per pompare i liquidi di stasi che li fanno funzionare. Concettualmente questi pezzi possono essere equiparati ai cuori.” “E perché tanti misteri, amico mio? Cosa c’è di così assurdo che non vuoi parlarne in casa?” “Perché ho fatto due più due: ho ricordato dove avevi trovato il tuo, su Terra 4.” “Beh, potrebbe servire per i droidi che vi lavorano.” Mi fissò serio: “Ma se non lo credi neanche tu!” “Hai ragione, ma se quel meccanismo è illegale comincio a non voler sapere altro di quel che succede su quel planetoide!” “Sono pronto a scommettere che se facessimo vedere il tuo pezzo in giro ci farebbero un bel po' di domande.” “Sai!” Sussurrai allora, “Non mi piace non poter parlare liberamente con Donna di questo affare, ma provo la strana sensazione che non mi capirebbe.” “certo, dovresti dirle che lo hai rubato…” “Prelevato!” Precisai allora io. “Cosa cambia?” “Cambia che non voglio dirglielo e basta. E’ molto apprensiva e si preoccuperebbe troppo se lo sapesse. Comincerebbe a farmi domande e magari si tratta solo di una sciocchezza. Quando sarà il momento lo distruggerò e pace!” “Eppure sono pronto a scommettere che quel biomeccanismo non era destinato a essere visto da te. Per questo quell’infermiera ti ha fatto quella scenata. C’è un mistero su quel planetoide, un mistero nel quale mi piacerebbe vedere chiaro.” “Sai cosa penso io, invece? Che stasera andrò a casa, troverò quel coso e lo getterò tra le fiamme del caminetto. Dopodichè mi dimenticherò che sia mai esistito e porterò Donna a fare una gita sugli anelli di Satur-


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no. Che te ne pare?” “Che sei pazzo o sei più saggio di me. Decidi tu!” Stavo per rispondere quando Donna fece capolino, chiamandoci: la cena era stata già portata in tavola.


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VI

Trascorse parecchio tempo da quella serata e vidi Howard solo saltuariamente. Il mio lavoro era molto impegnativo ed anche Donna si trovava indaffarata con i nuovi corsi cui doveva presiedere. A volte riuscivamo a vederci per pranzo, altre eravamo più fortunati potendo trascorrere quasi tutta la giornata insieme. Contrariamente a quanto avevo detto al mio amico non distrussi il meccanismo che avevo trovato, ma ne parlai a Donna ed anche lei mi consigliò di distruggerlo. In realtà continuai a conservare quell’oggetto. Forse stavo cominciando a diventare paranoico, forse no, comunque lo conservai. Di tanto in tanto mi sentivo con Howard e a volte facevamo una puntatina in qualche bar per bere una birra e passare un po' di tempo insieme. Ma quello che per noi era un periodo tranquillo fu scosso da una serie di notizie piuttosto curiose sui giornali. Sempre più spesso i media riportavano notizie di matrimoni sciolti e di vere e proprie liti nelle coppie di più recente costituzione. In molti quartieri cominciavano a sentirsi urla, grida e tutta una serie di bizzarri fenomeni che spesso terminavano con uno o più interventi della polizia. Anche alcuni nostri vicini litigarono in questo modo dando prova di un odio represso che non ci aspettavamo. Non si trattava delle solite esagerazioni di cui spesso danno prova i giornali perché lo stesso governo, evidentemente allarmato dal fenomeno, cominciò a varare provvedimenti di urgenza da un lato, per invitare moltissime donne ad una visita specifica su Terra 4, dall’altro a limitare le voci che volevano uomini dei più vari ceti sociali intenti a ritirare la propria domanda di matrimonio. E se comportamentisti e neurologi si affrettavano ad apparire in video per tranquillizzare gli animi asserendo che si trattava solo di fenomeni di scarsa importanza, era indubbio che ciò che stava succedendo coinvolgeva ormai la totalità delle arche. Ma se Donna si mantenne piuttosto tranquilla sull’argomento non così mi parve per Howard nei cui occhi vedevo, ogni volta che lo incontravo, una velata apprensione. Una sera che lo chiamai mi invitò ad una partita di pesca con un tono di voce inusuale. Capii che quello era il suo modo per chiedermi aiuto su qualcosa così decidemmo di organizzare una partita


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di pesca per chiacchierare più liberamente. Fu così che alle otto in punto di un bel mattino fece un salto da noi carico di attrezzature sportive. In quel momento stavo giusto finendo di mangiare e così lo invitai in casa per un caffé. Dapprima Howard nicchiò poi si arrese, salutò Donna che gli versò una tazza di caffé, quindi gli chiese se gradisse qualcos’altro: “Niente, grazie. Il caffé è anche troppo.” Poi rivolto verso di me: “Tua moglie è più svelta di te, Mark.” Feci spallucce: “Se preferisci andare a pesca con Donna non hai che da chiedermelo! Basta che però mi presti Sheila!” “Ehi! Io non sono in prestito, furbacchione!” Gorgheggiò di rimando lei, continuando nelle sue faccende domestiche. Mentre mangiavo Howard tornò alla carica: “I pesci non aspettano, lo sai.” Annuii, ma non risposi. Invece finii il mio toast, poi il caffé e salutai mia moglie: “Ah, già a proposito, Donna!” Aggiunse il mio amico prima di richiudersi la porta alle spalle, “Sheila ti aspetta fra un’oretta. So che voi due andrete a fare shopping su Terra 3, oggi. Posso chiederti un favore?” “Dimmi tutto.” “Puoi cercare di non farle comprare troppa roba?” Donna sorrise: “Sta’ tranquillo, non spenderemo molto. Più che altro sarà una mattinata di chiacchiere e negozi. Terrei però a far notare a lorsignori che non saremmo andate da nessuna parte se non ci fosse stata alcuna partita di pesca.” “Sono cose che agli uomini servono, di tanto in tanto.” “Anche lo shopping serve a noi donne, di tanto in tanto.” Howard sbuffò: “Ho capito. Ci vediamo Donna.” “Ciao e cercate di pescare qualcosa!” Salimmo sull’auto di Howard e facemmo rotta verso la provinciale. Non trovammo molto traffico e quindi potemmo mantenere una media di crociera piuttosto elevata. Durante il tragitto discutemmo di molte cose anche se l’argomento più gettonato era il modo migliore per catturare la trota salmonata. Il mio amico impiegò poco più di venti minuti per uscire dal traffico e imboccare la strada che ci avrebbe condotti a Lake Whitesnow, uno dei quattro laghetti artificiali di Terra 6, così chiamato perché la spiaggia bianchissima che lo circonda è costituito da una miscela di quarzo bianco sintetico simile a neve. Quel posto fu una scelta mia perché, da bambino, mio padre mi portava spesso a pescare


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lì. Imboccammo la statale molto rapidamente e solo dopo che le condizioni del traffico diventarono più fluide il mio amico attivò il pilota automatico, piegò indietro il suo schienale e mi invitò a fare altrettanto: “L’anno scorso pescai circa due chili di trote, non molto a dire la verità, ma abbastanza per risolverci la cena.” Cominciò, “Ricordo che Sheila non ne toccò neanche un po'. Lei odia il pesce e lo cucina solo per farmi piacere.” La tensione nei suoi lineamenti era evidente e mi stupii che ancora non avesse vuotato il sacco. Pertanto decisi di dargli una mano io: “Cos’hai scoperto?” Gli domandai a bruciapelo. Howard strabuzzò gli occhi per un attimo, poi sbuffò di schianto, cambiando completamente espressione: “Sto diventando pazzo, Mark, questo è quanto. Hai notato che quei casi di matrimoni sciolti sono sempre più frequenti? Questa mattina il Forrestal News ne ha riportati altri sei. Sei, capisci?” “Pensavo volessi parlare dell’aggeggio che ho trovato su Terra 4, non di tutti quei matrimoni a pezzi!” Sospirò: “Non ho buone notizie!” “Che intendi dire?” “Che anche nel mio quartiere, si verificano liti più o meno gravi e sai qual è la cosa strana?” Non capivo dove volesse arrivare: “No.” Risposi stancamente, “Qual è?” “Sono tutte coppie sposate da un bel pezzo. E’ strano, non ti pare? Voglio dire: in genere le persone che si sposano filano d’amore e d’accordo. Lo sappiamo tutti che si deve superare una specie di esame prima di sposarsi. E le donne sono sempre piuttosto tranquille, di carattere. Perché allora sta accadendo tutto questo?” “Stai cercando di dirmi che alcune donne sono pazze?” “No. Sto solo dicendo che mi sembra tutto diverso dalla solita, noiosa routine.” “Stai scherzando? Anche io e Donna litighiamo, almeno una volta al mese. Cosa c’è di tanto strano?” “Quanto tempo impiegate, in media, a litigare?” “Non tengo il conto di queste cose, Howard.” Ma il mio amico proseguì, testardo: “Un’ora, due?” “Non so, poco meno di un’ora credo. A volte però, un po' di più.” “Ma poi fate pace, giusto?” Stavo cominciando ad annoiarmi: “Non capisco cosa...” “Ti prego Mark, rispondimi. Poi ti spiegherò.”


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Sbuffai: “Naturalmente poi facciamo pace anche se a volte capita che Donna mi tenga il broncio.” “E chi è che fa pace per primo, fra voi?” “Dipende, ma perché?” “Beh, mia moglie è invece sempre così dolce!” “Beato te, ma io cosa centro con questa storia?” Il mio amico mi guardò come se fossi diventato idiota all’improvviso, poi sbottò: “I nostri vicini hanno litigato in modo molto più... violento, credo. Ho sentito urla, piatti rotti, oggetti in frantumi. Hanno continuato fino a tardi. Poi qualcuno ha chiamato la polizia per farli smettere.” “Non ho letto alcuna notizia del genere sui giornali. E non capisco come questo riguardi quel congegno!” “Capirai se mi lasci finire, Mark. Ti ho già detto che i miei vicini hanno litigato di brutto e che è dovuta intervenire la polizia per fermarli, giusto?” “E allora?” “Allora gli agenti hanno prima chiesto di aprire la porta e non ottenendo risposta hanno provveduto a buttarla giù con il risultato che l’uomo è fuggito di casa urlando frasi sconnesse, mentre la donna giaceva per terra, in una pozza di sangue.” “Ed è… morta?” Qui il mio amico assunse una curiosa espressione: “No. E’ stata portata insieme al marito su Terra 4. E’ tornato qualche giorno dopo in uno stato confusionale. Non ricorda di aver mai avuto una moglie”. “Come sai che la donna era caduta a terra?” “Io e Sheila l’abbiamo vista solo per un attimo. E’ stata caricata in fretta e furia su un’unità di emergenza. Di lei era visibile solo la testa perché il resto del corpo era coperto da uno di quei teli che usano in simili occasioni. Sembrava in delirio ed era parecchio agitata. Tutti avevano una fretta terribile e pareva che non vedessero l’ora di andarsene. Noi e tutti quelli che erano usciti dagli appartamenti siamo stati invitati bruscamente a tornare in casa.” “E perché temi di essere diventato pazzo?” A queste parole Howard mi fissò e lessi nei suoi occhi una paura indicibile che non gli riconoscevo: “So che sarai scettico ma mi è parso di vedere un vuoto sotto il telone tra la testa di quella donna e il suo corpo.” “Era viva, almeno?” Ironizzai io, ma me ne pentii all’istante.


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Howard mi fissò: “Avanti, dimmelo che non mi credi!” Sospirai: “Se tu fossi al mio posto, mi crederesti? Sii sincero.” “Penso di no, ma è quello che ho creduto di vedere.” “La spiegazione più semplice è un errore o un’allucinazione. Dopotutto la donna era coperta da un telo ed hai potuto assistere alla scena solo per pochi istanti.” “Sheila ha detto la stessa cosa!” Sbottò con una strana espressione di stupore sul viso. “E aveva ragione!” Insistei. “Lo so che è assurdo ma più penso a quegli istanti più sono convinto che non mi sono sbagliato. Se così fosse si spiegherebbero molte cose, Mark.” Eravamo appena arrivati davanti al laghetto ma nessuno dei due scese dall’auto, poi: “Pensi che sia pazzo?” Biascicò. Scossi la testa: “No. Ti conosco come un uomo di provata affidabilità. Hai visto sicuramente qualcosa, ma converrai con me che una donna senza testa ancora viva è impossibile! Personalmente penso che sei molto stressato e le recenti notizie sulla follia di alcune donne hanno fatto il resto.” “No, Mark, non posso pensare che si sia trattato solo di una visione dovuta alla stanchezza. Ammetto che il telone, la confusione e l’agitazione del momento giochino contro la mia affermazione, ma tu sei il mio migliore amico e devi credermi quando ti dico che non ti mentirei. Tra la testa e il corpo ho visto uno spazio vuoto. La testa urlava come un’ossessa frasi senza senso mentre il marito era letteralmente terrorizzato. E se questo è vero allora i poliziotti sanno qualcosa, Mark, perché non ho visto nessuno di essi apparentemente sconvolto dalla situazione. Al contrario, sfoggiavano un atteggiamento professionale ed impassibile. Mi rendo conto che nel loro lavoro ne devono vedere di cose strane, ma andiamo! Io dico che sanno qualcosa che gli altri non sanno.” “Insomma mi stai dicendo che esisterebbe un complotto!” “Più o meno.” “Ma ideato da chi e su che cosa?” Ma Howard non rispose. Fissò invece la tranquilla superficie del laghetto appena increspata da una brezza leggera. Stavo per parlare, ma un suo cenno di diniego mi fermò ed io capii che non intendeva affrontare più l’argomento. Rispettai la sua decisione ed indicai le canne da pesca:


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“Che ne dici, si pesca sul serio?” Mi rivolse un pallido sorriso: “E’ per pescare che siamo qui, no? Andiamo!” Assentii.


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VII

Quella notte il mio sonno fu inquieto e caratterizzato da frequenti risvegli. Nel corso dei miei movimenti da insonne svegliai Donna che mi chiese se mi servisse qualcosa, ma sapevo che nessun sonnifero, per quanto potente, mi avrebbe fatto effetto. Così aspettai che si addormentasse di nuovo e mi alzai facendo attenzione a non fare il minimo rumore. Trascorsi il resto della notte in salotto, con un bicchiere di bourbon in mano e facendo zapping sul videovisore. A volte rigiravo tra le dita lo strano oggetto che avevo trovato su Terra 4 e che ormai era diventato, per me una mascotte, un portafortuna. Fu allora che mi venne l’idea ma inizialmente fui restio a metterla in pratica. Restai seduto su un divano fino all’alba guardando senza prestarvi attenzione alcuni insulsi programmi videovisivi. Verso le sei del mattino finalmente mi scossi e andai in cucina dove mi procurai una delle lame a impulsi che mia moglie aveva usato la sera prima per pulire i pesci. Non ero affatto assonnato ed anzi mi sentivo riposato come se avessi realmente dormito per tutta la notte. Attivai la lama e l’accostai leggermente alle dita, ancora esitante. Allora sospirai e premetti leggermente, lasciando che il minuto raggio rosato bruciasse un po’ la superficie del mio dito indice. Repressi un gemito istintivo ma non sollevai il dito dal raggio che asportò lo strato più superficiale di pelle. Il sangue cominciò a scorrere copioso coprendo completamente il minuto oggetto che avevo nel frattempo sistemato in un piattino di metallo. Allora gettai via la lama laser e feci scorrere dell’acqua sulla ferita che attenuò la sensazione di bruciore. Mi medicai alla buona, poi portai l’oggetto nel mio studio per osservarlo con il mio vecchio microscopio. Anche se la risoluzione era scarsa mi era possibile scorgere ugualmente i delicati meccanismi attivarsi e iniziare a roteare. Provai la strana sensazione che quell’affare letteralmente si nutrisse di fluidi biologici anche se per il momento non ne capivo il concetto che stava alla base del suo funzionamento. Poteva essere una sorta di trasmittente che informava i medici dello stato di salute delle donne? Scossi involontariamente la testa come se quel semplice gesto servisse a levarmi dalla mente un’idea impossibile. Non credevo, infat-


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ti, che di questo le donne non fossero informate e a quale scopo, poi? Donna non mi aveva mai detto niente in proposito e quando le avevo fatto vedere il meccanismo si era mostrata sorpresa quanto me. Lanciai nuovamente uno sguardo al visore del microscopio e vidi che il congegno sconosciuto era ancora in funzione. Howard mi aveva suggerito che quell’aggeggio potesse essere una sorta di pompa, ma io non riuscivo a vedere altro che i microscopici meccanismi roteare vorticosamente lasciando peraltro immobile il sangue. Osservai affascinato ancora per qualche istante poi disattivai il microscopio e ripulii il piattino. Come prevedevo, quando il sangue abbandonò il congegno questi arrestò la propria attività. Allora decisi di svolgere un altro esperimento e immersi il congegno nell’acqua che però lo lasciò indifferente. Poteva dunque funzionare soltanto con qualcosa di vivo. Sospirai rumorosamente, interdetto, e tornai in camera da letto dove mi adagiai accanto a mia moglie ma non dormii, non potevo. L’immagine di quel bizzarro congegno rimase impressa nei miei pensieri fino a quando il sole non fu di nuovo alto nel cielo. Mi assopii per un po’, non saprei dire per quanto tempo, ma fu sufficiente affinché Donna si svegliasse e si preparasse per andare al lavoro. Quando finalmente mi svegliai a mia volta di lei era rimasto solo il profumo di che aleggiava nell’aria del salotto. La immaginai percorrere elegantemente il vialetto e salire in macchina diretta all’università. Sospirai perché in quel momento avrei voluto affondare il viso nei suoi morbidi capelli e stringerle delicatamente la vita in un dolce abbraccio. In cucina scoprii che oltre al caffé Donna mi aveva lasciato un pasto completo e un delicato videoinvito a non lasciare tutto in disordine come al mio solito. Sorrisi, poi ripensai alla mia notte in bianco, alle parole di Howard sullo strano congegno ed alla indefinita paura che entrambi provavamo in merito agli ultimi avvenimenti su quel che stava succedendo un po’ in tutte le arche. Consumai distrattamente il mio spuntino poi il trillo familiare del sistema domestico mi avvisò di una chiamata in arrivo. La figura che apparve sul grande schermo davanti a me era quella di un poliziotto: “Il signor Pembleton?” “Sono io!” La voce mi uscì dalle labbra monotona, quasi indifferente. “Dovrebbe venire alla Centrale, signore. Abbiamo fermato una persona che ha chiesto di lei.” “Di me?” “Esatto!” Assentì la figura in divisa, “Un tale Howard Shapiro ha chie-


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sto di vederla e noi vorremmo farle qualche domanda. Una pattuglia sta arrivando al suo domicilio per prelevarla. Si tratta di pochi minuti.” “Cosa è successo?” Chiesi allarmato ma quello fu irremovibile: “Non si preoccupi; dobbiamo solo chiederle informazioni riguardo al sospetto. La rilasceremo in poco tempo.” Il video si spense ed io restai solo con i miei pensieri. Mi chiedevo cosa avesse potuto fare Howard per essere arrestato. Non ce lo vedevo nei panni di un delinquente, lo conoscevo da troppo tempo ormai. Che avesse litigato aspramente con Sheila com’era successo ai suoi vicini? Oppure lo avevano fermato perché aveva assistito a quella lite un po’ troppo da vicino? No, non poteva essere. Lasciai un video messaggio a mia moglie, mi vestii ed aspettai i poliziotti. Non ci misero molto ad arrivare, prelevarmi e portarmi alla Centrale. Quando uscii di casa mi sentii in imbarazzo e sperai che i vicini fossero tutti al lavoro. Non ci tenevo a far la parte di quello arrestato dalla polizia. Salii in macchina rapidamente e giungemmo a destinazione in pochi minuti perché la polizia e gli altri servizi statali hanno le proprie corsie che i normali cittadini non possono utilizzare. Fui ricevuto da un uomo tarchiato e burbero di cui deprecai in cuor mio i modi nient’affatto cordiali. Fui interrogato per un mucchio di tempo sulle abitudini del mio amico, sulle sue conoscenze, sulla sua vita sociale. Chiesi cosa avesse fatto e mi diedero una risposta sbalorditiva, inesplicabile. Domandai se potessi vederlo, ma mi obbligarono a finire l’interrogatorio. Fu solo dopo l’ora di pranzo che lo vidi in una stanzetta fiocamente rischiarata da una lampada, senza finestre, e una guardia robotica alle sue spalle che ci osservava indifferente con telecamere inespressive. Eravamo uno di fronte all’altro separati soltanto da una sottile barriera laser a bassa potenza. Un sistema che, sebbene non letale, poteva però fare un bell’arrosto se avessimo sfiorato i raggi. Howard mostrava profonde occhiaie, il volto spiritato e le spalle curve. Non somigliava affatto all’uomo allegro che conoscevo da più di sei anni ma ad un’altra persona. Avrei voluto chiedergli molte cose, fornirgli il mio aiuto, qualsiasi cosa avessi potuto fare. Lo rifiutò con una voce flebile e timorosa che non gli riconoscevo. Era ovvio che fosse spaventato: “Non ci credo, Howard!” Biascicai dopo un’eternità. Passarono alcuni secondi di silenzio che sembrarono anni: “No, è tutto vero!” “Ma perché?”


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Il mio amico mi fissò con uno strano ghigno al posto delle labbra. Un ghigno beffardo e sardonico: “Sheila…” Disse, strascicando la parola come se il pronunciarla gli costasse molta fatica, “…non è Sheila!” “Non capisco! Come posso aiutarti se…” “Quello che ti ho detto è vero, Mark! Ricordi la lite dei nostri vicini di cui ti parlai? Ho indagato, incuriosito da quell’episodio perchè avevo una mia teoria, una cosa terribile!” “Ma ucciderla, Howard, come hai potuto?” “Tu non capisci!” Urlò allora con un vigore che non mi aspettavo. Subito la guardia robotica emise un ronzio poi fece un passo minaccio nella sua direzione: “Restare immobile, prego. Altrimenti sarò costretto ad usare l’energia pubblica!” “Cerca di controllarti!” Lo redarguii io. “O quel barattolo di latta ti friggerà a puntino!” Ma Howard mi ignorò: “Non l’ho uccisa, l’ho solo ferita!” “Ma se mi hanno detto che l’hai quasi decapitata?” A queste parole il mio amico dette prova di una strana reazione. All’inizio mi guardò con occhi increduli, quasi spaventati. Poi, come se gli avessi detto chissà quale facezia, scoppiò in una risata isterica per alcuni secondi. Temetti che il droide si attivasse di nuovo ma restò assolutamente immobile. Evidentemente era programmato solo per reagire ad eventuali comportamenti aggressivi. Stavolta, però, fui io ad ignorarlo: “Cos’è successo di così strano tra voi?” Il mio amico si tranquillizzò, poi sedette su una sedia. I suoi occhi erano rigati di pianto: “Ieri non ti ho detto tutto, Mark! Da un po’ di tempo anche Sheila era cambiata, somigliava a quella donna. Era nervosa, cominciava a dire cose senza senso. Non gridava spesso come quella Margareth ma in compenso era ironica, cattiva. Non la riconoscevo più.” “Non era un buon motivo per ucciderla!” Howard scosse la testa: “L’altra sera abbiamo litigato ed ha cercato di ferirmi con un’arma da taglio. Pensa, stava preparando una fetta di pesce per me. Ha sempre detto che detestava il pesce!” Inghiottì rumorosamente “Mi ha aggredito senza preavviso, tentando di infilarmi la lama nel cuore. Invece le ho afferrato il braccio, torcendoglielo per farle allentare la presa sull’arma. Si è girata di scatto cercando di mordermi. Non credevo avesse una simile agilità. Era impazzita!” Sospirò profondamente mentre i suoi occhi cominciavano ad inumidirsi. Per qualche


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attimo tacque senza però distogliere lo sguardo da me. Mi dispiacqui a vederlo in quello stato, ma in quel momento non poteva fare niente per aiutarlo. Gli chiesi di continuare il suo racconto: “Le ho strappato l’arma dalle mani ma nel farlo la lama ha bruciato la sua pelle praticandole un profondo taglio all’altezza della spalla. Allora è caduta a terra, in delirio. Resomi improvvisamente conto di quanto era successo mi sono precipitato su di lei, temendo di averla uccisa, ma non era così. Si è alzata e…” “…si è alzata?” Howard sorrise: “E’ arduo uccidere le donne, Mark!” “Ma che dici?” Ma Howard non mi vedeva più. Sembrava un fiume in piena ed i suoi occhi erano pozzi neri spalancati sull’abisso di una paura terribile e ancestrale: “Sheila mi ha fissato con un odio tale che ho stentato a riconoscerla. Mi ha dato uno spintone facendomi cadere violentemente sul pavimento. La mia testa ha urtato contro qualcosa, penso il tavolino del soggiorno. Ricordo solo il suo sguardo trionfante poi sono svenuto e mi sono risvegliato qui. Di lei mi hanno detto solo di averla portata su Terra 4 e che non la rivedrò più. Come sai, in questi casi il governo sancisce di fatto il divorzio tra i coniugi. Meglio così, meglio per me.” Tacque per qualche minuto mentre io mi limitai a fissarlo incredulo. Non sapevo cosa dire perché qualsiasi parola in quel momento sarebbe stata meno che inutile. Ma il mio amico non aveva finito: “Mark!” Sbottò ancora: “Stai attento a tua moglie! Il mio caso non è il solo te l’ho già detto!” “Donna non è così!” “Neanche Sheila lo era!” “Howard io…” “No, amico mio! Nessuno avrebbe potuto sopravvivere a quella ferita. Le ho reciso la carotide, avrebbe dovuto morire dissanguata.” “Non sei un medico!” “No! Il sangue usciva a fiotti, ricordo ancora l’orrendo gorgoglio delle sue labbra… so che è viva. Mark c’è qualcosa di orrendo in tutto questo e coinvolge tutti, anche loro!” Con un rapido cenno del capo indicò un gruppetto di poliziotti che, lo notai solo in quel momento, guardavano in modo strano verso di noi. Poi uno di loro si staccò dal gruppo e venne nella nostra direzione: “Devi andare ora, ma ricorda: solo su Terra 4 potrai sperare di sbroglia-


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re questo mistero. E’ lì che tutto deve essere cominciato.” Avrei voluto fargli altre domande, ma si alzò allontanandosi dalla mia vista. Un istante dopo l’agente che si era allontanato dal gruppo mi avvisò che l’ora a nostra disposizione era finita. No, non potevo sperare in un passaggio della polizia ma avrei dovuto uscire dalla Centrale con i miei mezzi. Probabilmente avrei almeno potuto videochiamare da lì e, d’altra parte, non c’era altro da fare. Feci la mia chiamata ed aspettai Donna nella saletta d’aspetto incerto su cosa dirle e su cosa fare. Quando arrivò le raccontai ogni cosa ma tralasciai i dettagli più delicati per non turbarla più di tanto. Restò inebetita, incredula che quanto le dicevo corrispondesse all’oggettiva verità. Per conto mio cominciai a lambiccarmi il cervello su ogni modo possibile di aiutare il mio vecchio amico ma non ero molto fiducioso. Sia Donna che io sapevamo che simili delitti sono considerati molto gravi dal governo. Le donne sono viste come una risorsa strategica, una risorsa fondamentale per la stessa sopravvivenza della razza umana. Tentare di togliere loro la vita, sia pure involontariamente e per difesa personale, è un reato capitale passibile dell’oloterapia di tipo N, un orrore di fronte al quale persino la morte rappresenta un’alternativa più desiderabile. L’olodetenzione, infatti, fa rivivere all’autore di un delitto lo stesso dolore della sua vittima dal punto sia fisico che mentale per un periodo che può arrivare a 24 mesi continui di stimolazione. Ed Howard vi sembrava condannato. La sua situazione aveva tutta l’aria di essere disperata. Mia moglie ed io ne discutemmo fino a tardi, ma senza riuscire a trovare una soluzione. Solo verso mezzanotte riuscimmo ad andare a letto.


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VIII

Un congegno strano, illegale, che funzionava solo se immerso in fluidi biologici, dallo scopo ignoto. Una serie di leggi fin troppo permissive riguardo le poche donne esistenti che diventavano sempre di meno e sempre più preziose. Un planetoide progettato al solo scopo di preservare l’organismo femminile. Un amico terrorizzato da fatti strani e apparentemente bizzarri di cui personalmente non riuscivo a trovare il nesso logico. Donne prima normali e tranquille che diventavano improvvisamente isteriche mentre programmi videovisivi emanati dal Governo Unificato cercavano di scongiurare il rischio che gli uomini non volessero più formare delle coppie. Il mondo come io lo conoscevo sembrava sul punto di sgretolarsi nella sua componente più delicata, quella femminile. Solo questo sapevo, ma era più che sufficiente a farmi provare una paura sottile che non riuscivo ad identificare. Io stesso conservavo nella mia casa quel bizzarro congegno che esercitava sulla mia mente un’attrazione quasi ipnotica. Più il tempo passava e più mi convincevo che il minuto oggetto che avevo trovato sul quarto planetoide fosse la chiave di volta di un mistero più grande. Non so spiegare perché lo pensassi, forse era quel che la gente chiama “sesto senso”. Restava il fatto che ne ero affascinato e spaventato insieme. La lite di Howard poi, mi aveva fatto capire che neanch’io ero al riparo da quel che succedeva un po’ su tutte le arche. Non immaginavo certo che anche Donna potesse impazzire da un momento all’altro, ma non potevo scartare questa possibilità. Quanto al mio amico non sapevo cosa pensare. Era forse plausibile che, per qualche motivo a me ignoto, fosse diventato paranoico al punto da autoconvincersi che Sheila volesse ucciderlo? Non conoscevo Howard come un uomo avventato ma, al contrario, attento e metodico, né mi aveva mai dato motivo per dubitare delle sue condizioni mentali. Per svariati giorni pensai al modo di liberarlo e insieme a mia moglie contattai molti avvocati senza peraltro arrivare ad alcun risultato di rilievo. Nessuno volle assumersi il rischio di rischiare la carriera in quella che da più parte fu definita come una causa persa in partenza. Fu così che non vedemmo più il mio amico. Alla Centrale non


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ci consentirono mai di poter affrontare un dialogo con il prigioniero avallando un pretesto ogni volta diverso. Cosa mi aveva detto, che anche i poliziotti erano coinvolti? Un giorno ripensai ad un fatto apparentemente banale cui fino a quel momento non avevo fatto caso. La quasi totalità dei poliziotti viveva in quartieri abitati solo da rappresentanti della legge e non era molto portata a mischiare la propria esistenza a quella dei normali cittadini. Eseguii diverse ricerche statistiche sulle unioni matrimoniali e scoprii che, degli uomini sposati su Terra 6, gli agenti di polizia e i federali erano solo il 9% del totale. Curiosamente, scoprii che anche la maggior parte dei medici erano scapoli. Era come se il mondo medico e quello di sorveglianza vivessero in una sorta di Terra 4 privata. Cominciai a fare caso a tutti gli avvenimenti che in un modo o nell’altro riguardavano le unioni matrimoniali registrando con precisione le ultime notizie che i media fornivano in simili occasioni. In tal modo scoprii che la polizia si limitava a spedire le donne su Terra 4 e gli uomini in una struttura di riabilitazione. In seguito alle donne era concessa la scelta di tornare dai partner, ma solo in alcuni casi. I giornali si mantenevano piuttosto avari di notizie e spesso riportavano informazioni approssimative. Non mancai di andare a trovare l’ex vicino di Howard, l’uomo che il mio amico aveva visto litigare e che Sheila aveva descritto come imbambolato. Non volle parlarmi e quando gli chiesi della moglie si mostrò sospettoso ed incoerente negando di averne mai avuta una. Deciso a saperne il più possibile tempestai Donna di domande su quel che accadeva quando si recava su Terra 4 per le solite visite di controllo. A suo dire non avveniva alcun fatto strano ma solo visite e i normali controlli burocratici. E il fatto che gli uomini non fossero ammessi alle visite era spiegato solo dalla necessità di mantenere gli ambienti delle sale mediche il più possibili sterili senza troppe persone intorno. Donna mi diceva, infatti, che a volte era sedata durante gli esami di controllo e che i medici erano per la maggior parte uomini, almeno nel suo caso. Eppure l’opinione ufficiale, cioè che l’organismo femminile, se sottoposto ad interventi, era molto più fragile di quello maschile, non mi convinceva. Le rigide misure di sicurezza e il fatto che, eccettuato il personale medico, gli uomini non avessero accesso alle strutture rendeva le cose più complicate. Trascorsero i giorni e la soluzione all’enigma mi appariva sempre più lontana e inattuabile. Donna, per fortuna, non mostrò mai segni di esaurimento nervoso ed era anzi più dolce che mai. Al contrario, gli episodi di violenza femmi-


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nile conobbero una diffusione talmente ampia da convincere il Governo Unificato a diramare la notizia di una strana patologia nervosa che interessava soprattutto le donne causata dalla cattiva qualità dell’aria dei planetoidi. Fu nominata una commissione d’inchiesta composta da esperti appartenenti alle più disparate discipline che dopo un paio di mesi puntò il dito contro i sistemi di filtraggio dell’atmosfera. Fu spiegato che il relativamente scarso contenuto di ossigeno aveva effetti destabilizzanti sulle delicate cellule nervose femminili inducendo a comportamenti aggressivi. Solo Terra 4, al solito, pareva al riparo dal fenomeno grazie ai sistemi di filtraggio molto potenti necessari in una struttura disseminata di fabbriche. La commissione raccomandò alla popolazione femminile di tutte le arche, di recarsi per un controllo sul quarto planetoide che avrebbe potuto comportare un lieve intervento chirurgico per contrastare il fenomeno. Il Dipartimento per la Salute Femminile stilò un piano secondo cui tutte le donne sarebbero state chiamate a gruppi prestabiliti per un periodo di permanenza non più breve di tre giorni su Terra 4 per dar modo ai medici di effettuare tutti i controlli del caso. Quando mia moglie mi diede la notizia capii subito che potevo sfruttarla per i miei fini, anche se non sapevo ancora in che modo. E se Donna non si sarebbe mai sognata di accettare che mi cacciassi in una situazione potenzialmente rischiosa, io ero più che mai determinato a sapere qualcosa di Terra 4. Fu così che a sua insaputa comincia a bazzicare i bassifondi e i quartieri difficili. Frequentai bettole d’infimo ordine e cercai di fare le conoscenze giuste, rimediando a volte qualche strapazzata a causa delle mie domande. Fui anche derubato, una volta, ma persi solo pochi spiccioli. Dopo un mesetto conobbi le persone che facevano al mio caso, noti nel giro per la propria esperienza in travestimenti. Per una somma abbastanza consistente, Rudolph e Garrison, esperti in scasso e in travestimenti, avrebbero fatto in modo di farmi diventare una donna per il tempo sufficiente al mio scopo.


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IX

Prima di agire aspettai che arrivasse il turno di mia moglie di partire. Donna mi salutò in lacrime in parte perché temeva un eventuale responso negativo, in parte perché non eravamo mai stati separati per tanto tempo. Cercai di consolarla in ogni modo e quando arrivò il momento di andare all’astroporto le promisi che una volta tornata da me avremmo fatto una bella vacanza. Lei mi sorrise e si tenne stretta a me mentre tiepide lacrime le rigavano il viso. Le carezzai le labbra in un lungo e intenso bacio, poi la salutai e rimasi a guardarla mentre saliva le rampe che l’avrebbero portata alla navetta. Quando partì tornai a casa e mi sdraiai sul divano. Stavo per fare la scelta giusta? Mi chiesi se fosse corretto rischiare la mia vita e il mio matrimonio per qualcosa di aleatorio che non dava alcuna promessa di successo. Ed anche se fosse, Howard non sarebbe tornato alla sua vita di sempre e forse neanch’io. Trascorsi tutto il giorno in quel modo, confuso e spazientito. Quando la sera finalmente arrivò mi scossi e mi preparai un boccone. Non avrei potuto chiamare Donna per nessun motivo durante il suo soggiorno su Terra 4 e la cosa mi dispiacque moltissimo. Indossai dei vestiti piuttosto logori, una pistola al plasma che avevo acquistato a poco prezzo in una certa zona della città e la somma necessaria. Tutta roba questa, che avevo attentamente nascosto lontano dai posti dove mia moglie avrebbe potuto guardare. Mi sentivo una persona disonesta soprattutto nei confronti di mia moglie. Ma uscii e tentai di non pensare alle possibile conseguenze in caso di un insuccesso. Non usai la mia auto ma camminai a piedi per qualche isolato poi chiamai un taxi e mi feci portare alla periferia della città. Pagai l’autista con un’apposita carta di credito falsa, altro grazioso oggettino che avevo comprato in periferia, e percorsi di buona lena gli ultimi isolati che mi separavano dal mio obbiettivo. Mi sentivo sporco, sciatto e soprattutto spaventato. Avevo paura che qualcuno potesse derubarmi o peggio, uccidermi. Temevo che la polizia potesse fermarmi e mi facesse un sacco di domande. Arrivai a destinazione piuttosto tardi, intirizzito dalla umidità della notte. Il posto era squallido e buio situato com’era nella zona più degradata di Terra 6. Era un


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vecchio edificio diroccato che si reggeva in piedi seguendo le leggi della probabilità e del caso. Digitai il codice che mi era stato detto sulla piastra del sistema di sorveglianza che occhieggiava mestamente sul portone dell’ingresso, poi entrai. I miei anfitrioni apprezzarono subito il contante e mi mostrarono quello che, in un momento di euforia, avevano osato chiamare laboratorio. Era una stanza larga e capiente disseminata di strumenti, ma niente affatto invitante. Le pareti erano scrostate, le luci fioche, le apparecchiature avevano visto giorno migliori. Rudolph e Garrison ricorrevano al laboratorio ogni volta che dovevano compiere una rapina in qualche banca. In giro si diceva che non fossero mai stati catturati a causa di un travestimento. O almeno così mi avevano detto. Rudolph era abbastanza alto, un po’ più di me, magro e dal volto emaciato. Una cicatrice sottile gli correva per tutto il labbro superiore conferendogli una curiosa espressione sorridente. Vestiva sciatto esattamente come me in quel momento, ma nell’ambiente era conosciuto come l’elegantone del quartiere quando si travestiva. Garrison, al contrario, era tozzo e robusto. Aveva una zazzera di capelli che probabilmente non aveva mai conosciuto il significato del termine pettine ed era ciarliero quanto l’altro era taciturno. Anche il suo modo di vestire era più pratico che alla moda, ma faceva sfoggio di qualcosa di simile ad una cravatta. In seguito mi avrebbe rivelato che in realtà si trattava di un pezzo di stoffa proveniente dall’abito di un banchiere, ricordo della sua prima rapina. Gli portava fortuna, diceva. Sperai tanto che un po’ di quella fortuna fosse utilizzabile anche da me. Chiesi loro come intendessero procedere e m’invitarono a sedermi su una logora poltrona di cuoio. Quando mi sedetti mi stupii di trovarla comoda. Uno dei due amiconi si assentò per un attimo mentre l’altro si versava un drink da una bottiglia semivuota posata su un bancone da lavoro. Mi invitò a servirmene ma rifiutai. In quell’istante tornò il suo degno compare con in mano qualcosa di biancastro: “Questa è una sostanza chiamata Telskin, una pelle sintetica molto credibile e costosa.” M’informò Garrison, “La usano per rivestire gli androidi più sofisticati ed è virtualmente irriconoscibile anche perchè simili macchine si riconoscono dai loro movimenti meccanici, non dal rivestimento.” Quella roba aveva un aspetto poco invitante, ma non lo dissi. Il mio interlocutore continuò: “Per farla aderire al tuo corpo ti forniremo una speciale tuta molto sottile, in modo tale che non svilupperai alcuna reazione anafilattica. Naturalmente lasceremo appositi spazi per gli occhi, bocca e gli altri orifizi


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naturali. Dovrai spogliarti, indossare questa ed entrare in quella camera laggiù. E’ tutto chiaro?” “Quanto durerà il procedimento? Non è che rischio di rimanerci secco o qualcosa del genere?” Garrison emise qualcosa di simile ad una sonora risata ma io non ci trovai nulla di spassoso. Ripetei la domanda: “Rilassati!” Mi redarguì Rudolph con uno strano ghigno dipinto sulle labbra, “il processo dura pochi secondi durante i quali tutto quello che dovrai fare sarà chiudere gli occhi e la bocca. Pensi di potercela fare?” Lo ignorai: “Sono ansioso di cominciare.” Garrison mi batté una mano sulla spalla: “Benissimo allora! Rudolph, attiva gli strumenti.” Mi fu data la tuta che trovai sottilissima e piacevole al tatto. Mi spogliai velocemente non senza un certo imbarazzo, poi indossai la tuta ed entrai nella camera al cui centro troneggiava una sorta di piattaforma girevole. Sul soffitto, le pareti e persino sul pavimento notai innumerevoli spruzzatori ricoperti di una patina biancastra. Garrison mi ordinò di sedermi sulla sedia metallica, poi spinse via la porta che si richiuse con un rumore soffocato. La luce fioca, quasi assente, l’ambiente squallido e l’aria pesante mi fecero sussultare per qualche secondo. Poi una voce gracchiante m’invitò a chiudere gli occhi mentre la piattaforma sulla quale ero salito cominciò a roteare lentamente. Un istante dopo avvertii il sibilo degli spruzzatori e la curiosa sensazione di una materia vischiosa che premeva sul mio corpo. Tutto finì nei tempi previsti, ma era tale l’afrore che insozzava l’aria che quando la porta fu riaperta balzai fuori tra l’ilarità dei due buontemponi. A quanto sembrava, per loro dovevo essere un bel divertimento. Ansimai per un po’, ma i due compari mi guardarono in un modo che non mi piacque per niente: “Che ne pensi?” Fece Garrison all’amico. L’altro abbozzò un sorriso: “Secondo me può andare.” E poi, rivolto a me: “Datti un’occhiata!” Mi guardai in uno specchio che mi porgeva ma vidi solo un’immagine strana e grottesca. La mia nuova pelle, anche se artificiale, sembrava assolutamente realistica, bianca e delicata. Niente peli, nei o imperfezioni epidermiche. Il mio volto era stato perfino truccato in modo ineccepibile. La cosa che più mi stupì era il seno. Incredulo, ne tastai uno trovandolo morbido al tatto ed estremamente naturale. I due compari mi spiegarono di aver programmato il sistema per i travestimenti in modo


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da aerografare letteralmente le caratteristiche dermiche tipiche di una donna e dato che le donne hanno i seni era necessario anche per me possederli: “In questo modo eliminiamo la necessità di protesi amovibili che potrebbero compromettere la tua nuova identità.” Mi spiegò Garrison, “questi sono in Telskin, ovviamente, e sfido chiunque a riconoscere che sono finti.” Era davvero un ottimo lavoro. Notai che persino i capezzoli e le areole erano stati riprodotti in tutte le loro sfumature. Chiesi dove si fossero procurati l’attrezzatura: “E’ evidente che non hai mai frequentato uno di questi posti dove per pochi spiccioli può gingillarti con un’androide da compagnia!” Disse Garrison con una strizzatina d’occhio. “Avete svaligiato una fabbrica di androidi?” “Abbiamo fatto di meglio!” Intervenne Rudolph. “Diciamo che abbiamo piani e attrezzature per produrre in serie una pelle sintetica di qualità simile a quella usata per i trapianti e gli androidi. Siamo professionisti e quando lavoriamo badiamo ad ogni dettaglio!” Sorrisi: “Avete pensato a tutto!” “Non proprio!” Biascicò Garrison, “La forma generale del tuo corpo non rispetta in pieno i canoni femminili. Dovresti avere i fianchi più larghi e la vita più sottile. Anche le gambe sono poco armoniche ma è un buon compromesso. Adesso il dettaglio più evidente lo hai in mezzo alle gambe.” Non mi ero guardato più in basso così sulle prime non capii. Quando lo feci notai una preoccupante mancanza sostituita da qualcosa che aveva tutta l’aria di essere una vagina: “Non preoccuparti!” Continuò Garrison in tono garrulo: “Il tuo pisello è ancora al suo posto e puoi andare in bagno come al solito, ma dovrai fare più attenzione. I fori per le normali funzioni escretorie sono più minuti, adesso. La vagina che vedi è finta, è solo un disegno. Adesso applicheremo una normale peluria pubica, una parrucca e le unghie finte. Ti daremo anche i vestiti e gli indumenti intimi.” “E se i capelli o altro si dovesse staccare?” “Una volta uscito da qui potrai anche nuotare in piscina così conciato.” Ridacchiò Garrison. “Come farò a togliermi di dosso tutta questa roba al momento opportuno?” Rudolph terminò ciò che stava facendo prima di rispondere: “E’ piuttosto semplice. Ti basterà incidere la pelle artificiale sul petto all’altezza


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del cuore. In quella zona vi è un tasto a sfioramento sulla tuta. Spingendolo provocherai la fuoriuscita di una sostanza che farà sciogliere tutta l’impalcatura senza danni. Stai solo attento a non premerlo per errore. Bene, amico mio, le unghie sono a posto. Adesso dimmi: vuoi essere bionda o bruna?”


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X

Me ne andai dal quartiere alle prime luci dell’alba perché non sarebbe stato saggio uscire durante le ore notturne conciato in quel modo. Riuscii a dormire poche ore in un albergo sbilenco dando al portiere le credenziali false che i due mi avevano fornito in modo da testare la mia nuova identità. L’uomo, un vecchio dai capelli a spazzola, non fece commenti e mi assegnò una camera dove l’acqua e i pasti erano razionati. A mezzogiorno chiamai un taxi e mi feci portare verso il centro, ma una volta in giro per le strade della città mi sentii ben presto goffo ed impacciato. Temevo che qualcuno potesse riconoscere la mia vera natura, o che mi fermasse la polizia. Per farmi coraggio entrai in un bar e ordinai una bibita. Era semideserto e anche così non mancai di avvertire gli occhi degli avventori girare intorno al mio corpo. Come ho già detto, le donne nella nostra società sono molto poche ed ogni volta che se ne vede una, per giunta sola, sembra di assistere alla festa del paese. Questo comportamento è assolutamente normale e in fondo ero lì per questo: vincere la mia naturale paura. Qualcuno si fece avanti per offrirmi una bibita, un altro chiese il mio nome e domandò se fossi sposata. Recitai la parte della donna seria e ritrosa e quelli che si erano fatti avanti desistettero quasi subito. Non è possibile fare la corte troppo serrata ad una donna, la legge federale parla chiaro in proposito. Le donne non sposate sono poche nella nostra società, quasi tutte confinate su Terra 4. Le altre, in genere, sono impegnate o promesse e per limitare qualsiasi rischio alla solidità delle coppie il Governo proibisce avances troppo audaci. La non osservanza di tale legge significa almeno sei mesi di olodetenzione. Ad ogni modo, cominciai a provarci gusto a quelle attenzioni. Mi chiesi cosa sarebbe successo se quei tizi avessero saputo la verità. Comunque finii il mio drink, pagai ed uscii. Una volta all’aria aperta mi sentii meglio, come se mi fossi tolto un peso dallo stomaco. Chiamai un altro taxi e mi feci portare direttamente all’astroporto. Non avrei mai potuto tornare a casa in quelle condizioni e non solo perché il sistema di sicurezza non mi avrebbe riconosciuto. Vi era infatti la possibilità di essere visto dai vicini e la cosa non mi allettava affatto. Or-


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mai disponevo di una nuova identità, un nuovo nome ed un nuovo aspetto. Se nel mio intimo rimanevo a tutti gli effetti Mark Pembleton, per tutti gli altri ero Samantha Neville, 38 anni, non sposata, medico presso il Nono Distretto di Terra 4. Possedevo documenti completamente nuovi, che attestavano le mie generalità, un paio di carte di credito false utilizzabili per almeno una decina di volte senza rischi. Nella borsetta un paio di passepartout elettronici ed un microcomputer adatto a scoprire la combinazione di tutte le serrature che prevedibilmente avrei potuto incontrare sulla mia strada. Rudolph e Garrison mi avevano inoltre fornito alcuni vestiti, un sintetizzatore sonoro per rendere la mia voce perfettamente femminile integrato nella struttura posticcia dei seni artificiali, ed un taglio di capelli alla moda ma non troppo appariscente. I miei vestiti erano di buona qualità, eleganti quel tanto che bastava per non essere sciatti ma nulla di troppo estroso. Aiutavano il mio corpo ad esibire le curve giuste tramite opportune imbottiture distribuite nelle zone strategiche. Non avevo il microchip che ogni donna reca impiantato nella propria testa per motivi medici, ma non pensavo a questo come a un dettaglio rilevante. Naturalmente, tutta questa roba avrebbe potuto rivelarsi completamente inutile su Terra 4, ma era un rischio che avevo preventivato. Arrivai all’astroporto con un buon margine di anticipo ed aspettai in una sala di attesa facendo attenzione a sedermi lontano sia dalle donne sia dai pochi uomini presenti. Acquistai una rivista che finsi di leggere fino a quando non arrivò il momento di partire. Trascorsi in questo modo circa quaranta minuti in completo isolamento. Quando finalmente un altoparlante gracchiò l’arrivo del mio volo mi alzai e seguii docilmente le altre persone verso la navetta. Il mio viaggio era cominciato.


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XI

Arrivai su Terra 4 in un’ora circa, esattamente come la volta in cui avevo accompagnato Donna. Il mio viaggio non fu dei migliori a causa di una donna di mezza età che mi aveva scelto come sua compagna di volo e che aveva deciso di confidarmi tutte le sue ultime tendenze in fatto di moda. Sbarcai dalla navetta con vero piacere e mi diressi rapidamente verso le toilettes dell’astroporto. Nonostante le rassicurazioni fornite dai due amiconi non ero tranquillo e temevo che qualcosa della mia pelle finta potesse staccarsi rivelando il mio vero aspetto. Cercai di non pensare a questa eventualità e di concentrarmi invece su cosa avrei dovuto fare. Non volevo rischiare di incontrare Donna e per questo avevo chiesto ai due amiconi di fornirmi un pass per la struttura 24 e non la 49 dove invece si reca abitualmente mia moglie. Dopo aver pranzato al ristorante dell’astroporto chiamai un taxi per raggiungere la zona che avevo scelto. Per distrarmi lanciai un’occhiata pensierosa al paesaggio trovandolo deprimente. Come ho già detto, pochissimi alberi sono stati importati su Terra 4, ma per il resto tutto è fatto di cemento, vetro e metallo. Arrivai alla Struttura 24 con un certo anticipo sulla mia personale tabella di marcia ed anche lì non vidi uomini ma solo donne che attendevano diligentemente il loro turno. Alcune erano davvero belle, eleganti, e si muovevano con una grazia fluida che toglieva il respiro. Altre mi parvero più austere, ma notai ben presto che questo dettaglio non era dovuto ad un aspetto meno affascinante quanto al semplice modo di porsi. Entrai nell’edificio e mi diressi istintivamente verso i bagni dove indossai il camice che avevo portato con me e la finta targhetta di riconoscimento, preparandomi a recitare la parte del medico donna in una struttura per sole donne. Quando mi trovai pronto, attraversai la sala d’aspetto con naturalezza ed imboccai un corridoio. Vidi molte porte a chiusura ermetica, ma nessuna infermiera. Dalla borsetta estrassi una delle chiavi elettroniche in mio possesso e la usai su una delle prime porte che incontrai. Il sistema elettronico della serratura emise un ronzio, ma non si aprì. Riprovai di nuovo, imprecando sottovoce, e stavolta la porta arretrò silenziosamente sui propri cardini. Mi ritrovai in una


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stanzetta angusta alle cui pareti erano addossati scaffali di indumenti per infermiere e attrezzature di poco pregio. Allora ne uscii e mi richiusi la porta alle spalle con attenzione. Avevo intenzione di visitare l’edificio il più possibile per farmi un’idea sommaria di cosa contenesse e, magari, di portarmi dietro qualche souvenir poco ingombrante. Se fossi stato fortunato forse avrei trovato un dettaglio importante, documenti o scattato immagini che avrei potuto dare in pasto al mio giornale e sollevare così un polverone. Raggiunsi un elevatore e salii al secondo livello che scoprii essere dedicato al ricovero delle donne che dovevano affrontare interventi chirurgici. Scansai alcuni robocamerieri e m’infilai in una corsia. Anche lì le porte erano chiuse ermeticamente, il che mi fece innervosire non poco. A quanto pareva Terra 4 era una sola, immensa porta chiusa ermeticamente! Usai di nuovo la mia chiave e la porta arretrò subito. Le infermiere presenti nel corridoio non dissero nulla ed io le ignorai accedo attenzione a richiudere anche qui la porta alle mie spalle. La stanza non presentava nulla di strano. Alcune capsule vitali, completamente trasparenti, contenevano donne che a prima vista sembravano profondamente addormentate. Mi avvicinai per guardare meglio ad una di esse e vidi una donna sui trent’anni, in animazione sospesa. Era completamente nuda, senza neanche indumenti intimi cosa che mi mise un po’ in imbarazzo. Notai uno squarcio molto esteso all’altezza del seno destro ma notai subito i contorni netti e puliti della ferita indizio che era stata provocata volutamente con strumenti chirurgici. Si stava rimarginando piuttosto rapidamente. Un minuto tubicino opaco fuoriusciva dalla ferita ed un altro, più grande, spuntava dal ventre. Non m’intendo di medicina ma non mi parve ci fosse in quel che vedevo nulla di strano. Mi spostai e guardai un altro corpo. Stavolta la donna era più anziana dell’altra, sui quarant’anni ma aveva una pelle da fare invidia ad una ventenne. Ancora una volta pensai a quanto le donne fossero differenti dagli uomini vista la loro capacità d’invecchiare meglio e molto più lentamente. Questa non aveva alcuna ferita apparente ma era unita alla capsula dai soliti tubicini. La fissai per qualche minuto, affascinato dalla compostezza di quella figura placida, poi uscii dalla stanza ed entrai in un’altra. Vidi le solite cose: corpi che potevano presentare ferite in via di cicatrizzazione, ma nessuno strumento strano, nessun oggetto che potesse stupirmi, nessuna testa parlante. L’ambiente in cui mi trovavo aveva tutta l’aria di essere un normalissimo ospedale anche se proprio questo non ne giustificava l’accesso alle sole donne.


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Cambiai piano e salii al terzo livello ma uno schermo m’informò che conteneva le stesse cose del secondo. Allora salii al quarto piano che sembrava contenere i magazzini delle attrezzature ed era popolato solo da macchine per il governo automatico. Entrai nel corridoio principale e vidi che le porte mostravano tutte strane etichette. Forse lì avrei scoperto qualcosa d’interessante. Alla prima porta lessi Magazzino generale: non m’interessava. Ma alla seconda trovai la scritta Pezzi di ricambio, Modello 6. Passai la mia chiave sulla fessura, ma non seguì alcun risultato. Provai di nuovo: nulla. La maledetta serratura si ostinava a non voler cedere. Ero testo per la paura di essere scoperto. Proprio in quel momento qualcosa mi sfiorò ed istintivamente emisi un urlo soffocato. Era un dannato robot portacarichi. L’automa continuò ronzando per la propria strada, ma io imprecai e provai la seconda chiave che Rudolph e Garrison mi avevano fornito. Stavolta la porta si aprì al primo tentativo e mi ritrovai in una delle stanze più grandi che avessi visto fino a quel momento ingombra da strani oggetti ordinatamente disposti sul pavimento. Un rumore di fondo, vagamente ritmico, pervadeva quell’ambiente in penombra. Vicino ad una parete notai quel che sembrava un tavolo operatorio completo di luci stroboscopiche e ripiani portaoggetti. Alle spalle di quest’ultimo, altre macchine dalle forme bizzarre che rivestivano tutta la parete. Mi avvicinai per dare un’occhiata da vicino agli oggetti disseminati in bell’ordine sul pavimento e notai che la parte superiore era in plastica trasparente appannata di vapore. Al tatto erano stranamente tiepidi, ma non riuscii a sollevare il coperchio. Tastai l’oggetto che avevo scelto tutto intorno fino a trovare un tasto che reagì immediatamente al mio tocco. Con un sibilo il coperchio si sollevò rivelando l’orrido contenuto. Un conato mi salì dalla bocca dello stomaco ma riuscii a mantenere il controllo. Ciò che vedevo era un braccio umano, completo di dita, gomito e tessuti, dalla pelle quasi implume. Era certamente femminile e notai che il moncone finale non era tranciato di netto ma lasciava sporgere le ossa e alcuni vasi. Qualcosa, però non mi convinceva allora mi feci coraggio e sollevai l’arto in questione. Appena avvertii il peso di quel macabro oggetto provai un istintivo impulso a gettarlo via ma chiusi gli occhi per un attimo, sospirai profondamente e guardai. Ho già detto che il taglio non era netto e che lasciava sporgere le ossa. In realtà vidi anche qualcos’altro che alla superficiale occhiata di un attimo prima non avevo notato. Un elemento metallico, una sorta di circuito integrato, sporgeva


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dall’osso circondato da sottilissimi fili di metallo. Con un moto di disgusto adagiai l’oggetto nel proprio contenitore e mi guardai intorno. Adesso immaginavo cosa potessero contenere gli altri contenitori ma il mio senso del macabro non sembrava soddisfatto spingendomi ad indagare ancora. Nel contenitore adiacente al primo vidi una gamba anche questa non recisa di netto e fornita di circuiti sull’osso che sporgeva dal moncone. In un altro dalla forma più squadrata un torso umano privo di arti, testa e della superficie ventrale. Stavolta diedi di stomaco espellendo il pranzo sul pavimento. Ansimando, mi rialzai a fatica tornando a guardare. Intestini, fegato e stomaco erano ben in evidenza ma anche avvicinando il viso non riuscii a scorgere traccia di circuiti. I seni, minuti e bianchi, erano la sola parte riconoscibile ma quando esaminai il punto dove avrebbe dovuto esservi la testa scoprii una larga piastra metallica che recava sulla superficie una sorta di piattaforma girevole. Era così integrata nella carne che non riuscii a separarla dal corpo. Richiusi di scatto il contenitore e sedetti sul pavimento. Adesso sapevo cosa contenevano le altre stanze e quale fosse lo scopo del tavolo operatorio. Più che una stanza quella era una sala degli orrori ma non potevo pensare a quel che avevo visto come a qualcosa di illegale. Sapevo benissimo, infatti, che le protesi bioniche non erano più prodotte da decenni. La biotecnologia metteva infatti a disposizione dei medici perfetti sostituti biologici di arti, organi e pelle lasciati letteralmente crescere su scheletri di corallo sintetico. Non mi spiegavo però, la presenza di cavi ed elementi metallici anche se la mia ignoranza in fatto di medicina mi spingeva a non fare ipotesi troppo avventate. Scattai comunque qualche foto quindi restai ancora qualche minuto nella stanza. Quando uscii percorsi il corridoio fino in fondo evitando di cedere alla tentazione di aprire le porte di altre stanze per sbirciarne il contenuto. Raggiunsi l’elevatore e salii direttamente al sesto livello. Mi ritrovai in un piano diverso dall’altro, chiuso da una porta più massiccia che recava una curiosa insegna: Modelli 1/10. Ancora una volta feci affidamento sulle mie chiavi elettroniche ma fallii miseramente i tentativi. Per un attimo mi sentii perso, non sapendo cosa fare. All’improvviso il familiare rumore di un elevatore che saliva mi fece voltare. Cercai di darmi un contegno, in fondo ero una donna e per di più un medico. Avrei inventato una scusa sul momento contando sul mio muovo aspetto. Sospirai di sollievo quando le porte dell’elevatore si aprirono rivelando un robocarrello che si fermò davanti a me, mi chiese educatamente di farmi da


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parte, e si arrestò davanti alla porta. Realizzai cosa avrei dovuto fare in un attimo e con un salto mi misi a cavalcioni dell’automa, in attesa. La macchina non diede segno di essersi accorta della mia presenza ed un minuto dopo estrasse dal proprio scudo frontale un’astina metallica terminante in una punta simile ad uno stiletto. L’astina fece scattare la serratura in un batter d’occhio e la porta arretrò lentamente. Ero stato fortunato ma, stranamente, non ero affatto sollevato della mia situazione. Una sottile inquietudine mi diceva di allontanarmi da quel posto il più velocemente possibile, ma non diedi retta al mio istinto. Ormai ero arrivato fin lì e non avrebbe avuto senso tornare indietro a mani vuote. Mi ritrovai davanti all’ormai consueto corridoio centrale irto di porte chiuse a chiave. Robot umanoidi di vari modelli ed altri simili al carrello automatico che mi era servito per accedere al piano popolavano quell’ambiente asettico rendendolo inquietante. Mi sentii a disagio in mezzo a tutte quelle macchine che sciamavano tra le varie stanze come buffe parodie di esseri umani. Immaginai che fossero adibiti alla manutenzione delle altre macchine. Quando mi trovavo vicino ad uno di loro puntavano le loro telecamere verso di me, mi chiedevano scusa di un torto inesistente e si spostavano continuando i loro compiti. Mi davano ai nervi. Cercai d’ignorarli il più possibile e lessi le targhette sulle porte. Su una campeggiava la scritta Modello 4, in un’altra Modello 6 e così via. Quando arrivai ad una che recava l’insegna Modello 10 ne tentai la serratura. La porta si aprì subito e mi ritrovai in una stanza dal soffitto alto e senza finestre. Conteneva una serie di oggetti dalla forma fin troppo riconoscibile la cui vista mi provocò un senso di repulsione: gli oggetti in questione sembravano in tutto e per tutto bare. L’ambiente emanava un lezzo di formaldeide o di un’altra sostanza chimica. Cautamente mi avvicinai ad uno di quegli oggetti oblunghi per esaminarlo. Era completamente opaco sormontato da un grosso pulsante grigio chiaro. Lo premetti ed il coperchio si alzò velocemente liberando una nuvola di vapore. Arretrai istintivamente ed attesi che i miei occhi mettessero a fuoco il contenuto. Di nuovo, il mio stomaco protestò contro la mia testarda curiosità, ma stavolta mi controllai voltandomi dall’altra parte e cominciando a camminare in tondo come un idiota per cercare di controllare i miei nervi. Ci volle un po’. Più tardi, diedi una timida occhiata al contenitore aperto. Distesa su un materiale traslucido era adagiata una giovane donna formosa che ad una prima occhiata mi sembrò morta perché non pareva respirare. Una miriade di tubicini fles-


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sibili spuntavano dal suo torace aperto che metteva in mostra lo sterno e i polmoni. Guardando meglio, vidi che la donna non era affatto morta perché uno dei polmoni era spostato in modo da esporre il cuore vivo e pulsante. Alcuni dei tubicini erano trasparenti e a quanto pareva portavano il sangue verso il cuore mentre altri lo espellevano. Per qualche istante, non saprei dire per quanto tempo, continuai a guardare quel cuore il cui ritmico movimento mi affascinava. Non capita tutti i giorni di guardare la vita stessa di una persona. Poi notai un dettaglio che sulle prime non avevo notato: vicino al cuore ed unito ad esso da sottilissimi fili argentei trovai un dispositivo identico a quello in mio possesso. Verificai estraendo quello che avevo trovato sul pavimento dalla borsetta: erano perfettamente uguali. Richiusi il contenitore e ne aprii altri a caso. Notai le stesse cose, la stessa ferita, lo stesso dispositivo. Howard aveva ipotizzato che potesse essere una pompa per il cuore, e forse, dopotutto, aveva ragione. Una ad una aprii tutte le bare e vidi che erano identici per contenuto e aspetto dei corpi. Non conoscevo ancora il motivo del perché quel meccanismo fosse impiantato vicino al cuore, ma scattai altre fotografie e richiusi tutti i contenitori. Mi stavo preparando ad allontanarmi da lì quando avvertii un rumore di cardini alle mie spalle. Provai un tuffo al cuore quando vidi tre individui oltrepassare la soglia della stanza per dirigersi verso di me. Due di loro erano poliziotti mentre il terzo, meno alto, indossava un elegante completo grigio ed aveva tutta l’aria di essere il capo del terzetto. Quando fu esattamente davanti a me mi porse la destra sorridendo: “Benvenuto su Terra 4 signor Pembleton, posso farle i miei complimenti?” Restai attonito per un istante, sentendomi perduto. Cercai di recitare la commedia ma era chiaro che il gioco era finito: “Sono la dottoressa…” “Suvvia!” Tagliò corto quell’uomo con fare falsamente accomodante: “Sappiamo tutto di lei. 36 anni, giornalista, sposato da un paio di anni con Donna Pembleton, docente di Storia Antica presso il Quarto Distretto Universitario di Terra 6. Abitate in una graziosa villetta nella Sezione 22, non avete figli e una volta ogni anno fate una crociera nel sistema solare. Le basta o devo continuare? Ah, a proposito: bel travestimento!” “Chi è lei?” Lo sconosciuto non rispose, ma in compenso uno dei gorilla m’immobilizzò senza tanti complimenti mentre l’altro estrasse un’arma corta dalla cintura: “No!” Gli ordinò il capo, “Non sono ancora pro-


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grammate alla vista di un uomo. Se si svegliassero ora andrebbero fuori fase. Lasciamolo così per il momento.” Poi, rivolto verso di me disse: “Venga con noi, amico mio.” I poliziotti mi afferrarono per le braccia obbligandomi a seguirli, ma non avevo nessuna intenzione di starmene buono buono mentre venivo portato chissà dove così cercai di liberarmi da quella morsa ferrea strattonando nel modo più violento possibile. L’uomo davanti a me arretrò subito, continuando a guardarmi fisso: “Non si fa così, signor Pembleton!” Prima che potessi parlare qualcuno mi diede una botta in testa. La vista mi si annebbiò istantaneamente mentre il mondo intorno a me cominciò a girare vorticosamente. Riuscii soltanto a vedere un sorrisetto di trionfo errare sulle labbra dello sconosciuto poi svenni e il mondo non ci fu più.


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XII

Quando mi risvegliai ero steso su un lettino e non avevo più il mio travestimento. Indossavo ancora un camice, ma questo era verde chiaro e piuttosto pesante. La testa mi girava, ma il dolore era molto scemato anche se scoprii ben presto che non potevo muovermi. I polsi e le caviglie erano immobilizzati da qualcosa che mi tratteneva, forse un microcampo di energia. Accanto a me, seduto dietro una scrivania, sedeva lo sconosciuto di prima. Mi fissava con un certo interesse ed appariva soddisfatto. Dal canto mio, invece, la situazione mi parve disperata: “Sono contento che si sia svegliato. Forse non lo sa, ma ha dormito per quasi quattro ore.” “Dove sono?” Biascicai. Mi accorsi che le parole mi uscivano dalla bocca con uno strano timbro e che la mia lingua etra impastata: “Mi avete drogato!” Sbottai quasi con stupore. “Le abbiamo dato un leggero sedativo per trasportarla fin qui. Era necessario. Non siamo più nella Struttura 24.” “Dove sono allora?” Ripetei. “Nel mio ufficio situato in una delle fabbriche di Terra 4.” “Posso almeno sapere chi è lei?” Lo sconosciuto sorrise: “Glielo dirò, dato che non le sarà di alcun aiuto saperlo.” Si alzò dalla sua poltrona e venne a sedersi su una sponda del lettino, giusto davanti a me, perché potessi vederlo bene: “Sono Stan Rosemberg, governatore di Terra 4.” Emisi un finto fischio di ammirazione: “Un pezzo grosso!” L’uomo m’ignorò ed aggiunse: “Lei è molto fortunato, signor Pembleton, lei è stato scelto! Dovrebbe essermi grato: le è stata concessa la possibilità di pensare da solo.” “Non so di cosa stia parlando, amico. Io non so niente di niente!” Il volto del mio interlocutore, un attimo prima pacato e quasi gioioso, si fece improvvisamente duro: “Mi dica, signor Pembleton, credeva davvero di poter arrivare su Terra 4, entrare ed uscire da qualsiasi stanza a suo capriccio e scattare foto per poi tornare dalla sua dolce moglietti-


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na?” “Questa era l’idea!” Ammisi flemmatico. Non volevo dargli la soddisfazione di vedermi alterato. “Allora lei è un pazzo. Qualsiasi essere vivente, qui sulle Arche, è monitorato costantemente giorno e notte. Nel suo caso, la sorveglianza era ancora più stretta a causa della sua amicizia con Howard Shapiro. Sapevamo già che aveva rubato il congegno energizzatore.” “Parla dell’aggeggio che ho trovato sul pavimento della Struttura 49?” “Proprio quello. I satelliti non l’hanno persa di vista un solo istante e naturalmente la polizia conosce tutti i suoi movimenti da prima che si recasse presso quei due gentiluomini che le hanno fornito quel suo grazioso travestimento.” “Non capisco!” Risposi, sinceramente sorpreso, “Perché?” “Gliel’ho già detto: lei è stato scelto! Ma prima che prosegua mi risponda… Cosa sono, secondo lei, i corpi che ha trovato? Avanti, mi renda partecipe della sua intelligenza.” “Beh, signor Rosemberg, non sono un medico né un genetista, ma vedendo quei corpi ho ripensato a quello che mi aveva detto il buon vecchio Howard alcuni mesi fa.” “E allora?” “Le donne sono cloni non è vero? Copie biologiche integrate da qualche elemento artificiale, anche se non mi spiego ugualmente il perché dell’assoluto divieto, per gli uomini, di presenziare alle visite.” “Ha solo in parte ragione, amico mio. In realtà tutte le donne sono sofisticatissimi organismi artificiali.” “Cosa?” Non potevo credere alle mie orecchie: “Sarebbero automi?” “Non automi!” Mi corresse quello, “Ma organismi cibernetici.” “Non è possibile!” Dissi allora, rabbioso: “Perdono sangue, si feriscono, provano emozioni. Ho visto braccia e gambe di carne solo…” Fu in quel momento che ricordai i fili e gli elementi metallici che avevo visto e lo dissi: “I fili!” “Vedo che comincia a capire.” Rosemberg arretrò un po’ in modo da stare più comodo: “Come lei sa,” Cominciò, “Il problema della scarsità delle donne è molto sentito nella nostra società. La scienza medica ha provato di tutto, dalla clonazione all’ingegneria genetica, ma senza risultato. L’esposizione alla nociva atmosfera terrestre aveva irrimediabilmente reso la razza umana condannando di fatto la nostra specie all’estinzione. Ma se il problema della sterilità maschile fu risolto nel


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giro di poco tempo per una ragione ignota non fummo mai in grado di fare la stessa cosa con embrioni femminili. Così, quarant’anni fa, facemmo uso della tecnologia biomeccanica che la scienza aveva inventato per costruire sonde spaziali adattandola in modo da costruire le prime donne che potessero ridare smalto alla vita umana.” Sospirai rumorosamente mentre la rabbia scuoteva violentemente il mio sistema nervoso, poi dissi: “Le Modello 1, vero?” “Esatto! Oggi ne esistono pochissimi esemplari solo qui, su Terra 4, ma sulle altre Arche sono state sostituite da tempo dai modelli delle generazioni successive.” “Quindi i Modello 10 che ho visto io…” “…sono di ultimissima generazione! Le donne Modello 1 sono invece una versione estremamente sofisticata di androidi. Molto affidabili, non hanno uno scheletro vero e proprio, ma uno chassis in metallo che non ha bisogno di manutenzione. Sono il punto di arrivo della Bionica di quarant’anni fa. Ma il loro rivestimento esterno è un normale tessuto umano fatto di carne, sangue, ghiandole e tutto il resto. Capelli, unghie e peli possono ricrescere ed eventuali ferite si rimarginano da sole. Il loro cervello, molto complesso, è frutto degli schemi neurali presenti nelle ultime vere donne dell’epoca. Ma il dettaglio più stupefacente è che esse non conoscono la propria vera natura, ma credono di essere persone come lei e me.” “Non è possibile! Come può una macchina pensare di essere umana?” Rosemberg sorrise: “I loro cervelli non furono programmati come computers, ma educati esattamente come normali esseri umani perché nelle loro teste pensa un cervello organico, non una macchina. Deve capire che la loro sofisticazione fu imposta ai progettisti dal fatto che i cyborgs erano destinati a diventare le compagne di uomini inconsapevoli di cosa questi fossero. Le macchine non hanno coscienza di sé e quindi sarebbero state facilmente scopribili. Ma un cervello umano clonato, anche se installato in una struttura artificiale, non pensa di essere una macchina. Tuttavia, se fosse loro fatta una banale radiografia il loro segreto non sarebbe più tale. Ecco dunque il Modello 2 progettato sulla base delle esperienze fatte con i modelli di prima generazione. Caratteristica di questa versione è uno scheletro in resina che imita quello vero e un sistema di visceri e organi fittizi con un cuore biomeccanico funzionante come uno naturale. La sua durata di vita è doppia rispetto alle Modello 1. In effetti è stata proprio la durata, la lacuna maggiore dei


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progettisti.” Tacque per un attimo guardandomi fisso, poi continuò: “Le donne che abbiamo realizzato non durano come gli esseri umani. Le Modello 1 andavano sostituite una volta all’anno, le Modello 2 ogni due anni e via di seguito. Ecco il perché dei controlli periodici diversi per ogni generazione. Se le scadenze non fossero rispettate esse potrebbero deteriorarsi rivelando la loro natura artificiale. Quanto detto vale soprattutto per le Modello 1, ancora dotate di un endoscheletro completamente metallico, circuiti, cavi e tendini in plastica per il movimento degli arti.” “Invece per le altre?” “Nel loro caso il problema è diverso: il loro scheletro non è simile a un droide ma è composto da ossa sintetiche. Sono i loro sistemi organici che possono deteriorarsi.” “Allora le leggi che vietano agli uomini di accedere negli ospedali valgono solo per le Modello 1.” “Non esattamente: è vero che dalla seconda alla decima generazione le donne dispongono di visceri e tutti gli altri sistemi organici ma come le ho già detto questi organi sono fittizi e servono solo ad eludere eventuali controlli radiografici. La loro fonte di alimentazione è in realtà una batteria posta all’altezza del cuore comandata dal meccanismo che ha trovato nella Struttura 49. Per ogni generazione la batteria ha visto estesa la propria durata ma finita l’energia inizia anche il deterioramento del loro organismo. La carne sintetica inizierebbe a sfaldarsi e loro stesse sarebbero in preda al panico, impazzendo.” “Ma sono pur sempre macchine! Come fa un androide ad impazzire?” “Lei non mi sta seguendo, signor Pembleton. Le ho già detto che gli organismi cibernetici non sanno cosa sono ma credono realmente di essere donne vere. Nelle loro teste pensa un cervello umano, nei loro batte un cuore fatto di carne. Possiedono istinti, desideri sessuali, volizioni. Assimilano il cibo e lo convertono parzialmente in energia, dispongono di normali funzioni escretorie. Se fanno attività fisica sudano, avvertono la fatica e il piacere esattamente come lei e me. Naturalmente, i loro cervelli non sono sofisticati quanto quelli realmente umani ma ne sono una buona approssimazione. Questo perché, artificiali o meno, si tratta pur sempre di organismi. Senza la batteria morirebbero ed in effetti così succede ogni volta che arrivano alla propria data di termine. Quando uno di questi organismi arriva al termine della propria vita operativa viene sostituito con uno di generazione successiva. Una macchina più


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moderna, durevole ed efficiente, ma identica in ogni dettaglio a quella esaurita. Anche il suo cervello è programmato con gli stessi dati in possesso del modello precedente. E’ in questo modo che miglioriamo costantemente la popolazione delle Arche. I mariti e gli uomini in generale non sono ammessi perché potrebbero pur sempre scoprire qualcosa, specialmente se medici. E se è vero che un normale esame non consentirebbe di scoprire la verità, in un ospedale con attrezzature sofisticate e medici inconsapevoli, uomini o donne che siano, scatenerebbe la fine della nostra civiltà. Mi capisce, vero?” “La capisco, ma non conti sulla mia approvazione!” Restammo in silenzio per un po’. Non capivo perché quel tizio mi stesse dicendo quelle cose e soprattutto non sapevo ancora quale sarebbe stato il mio destino dopo quella conversazione. Mi avrebbero fatto il lavaggio del cervello e avrei condiviso la sorte di Howard? Mi avrebbero ucciso? Per un attimo, il mio pensiero tornò a mia moglie. Chi o cosa avevo sposato? Il corpo che tante volte avevo ammirato, la donna con cui avevo fatto l’amore era dunque un mostro artificiale scaturito dalla fantasia di un gruppo di pazzi? Lanciai uno sguardo al mio antagonista scoprendolo più pensieroso di me: “Sta pensando a lei?” Mi chiese in un soffio: “Alla cosa che un tempo consideravo mia moglie.” Un pallido sorriso errò sulle sue labbra, ma non era di gioia. Sembrava di tristezza, come se lo avessi offeso in qualche modo: “La ama ancora?” Scossi la testa: “Al destino non manca certo il senso dell’umorismo! Chiunque sia stato a progettare Donna le ha dato anche un nome appropriato! Ma come avete potuto ingannare me e tutti quegli uomini là fuori sposati ad esseri meccanici mostruosi? Avete generato un orrendo connubio tra uomini e macchine e lei osa chiedermi se amo ancora quella cosa?” “Quella cosa?” Ripeté Rosemberg, e stavolta notai un guizzo di nervosismo nei suoi sporgenti occhi marroni: “Non credo che abbia capito la grandezza del nostro lavoro, signor Pembleton!” La sua voce era tagliente come una lama, ma non mi faceva paura: “Howard aveva ragione dopotutto!” Continuai, “Sheila non era una vera donna, ecco perché non è morta! Ed anche i poliziotti sanno, non è così? Avete bisogno di qualcuno che controlli i poveri ingenui che, come me, si sono sposati!” “So a cosa si riferisce. Il suo amico era sposato con una Modello 3. E’


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un problema che si sta verificando con tutte le generazioni che vanno dal modello 1 al 3: le sole macchine che ancora possiedono qualche componente bioelettronico con una programmazione tradizionale. I progettisti hanno scoperto troppo tardi che per un banale errore di programma questi modelli potrebbero andare in avaria e impazzire. Questo ci ha spinti a richiamare un gran numero di esemplari. Mentre io e lei parliamo, tutti i modelli vengono gradualmente sostituiti con altri più perfezionati, i Modello 10, che sono indistinguibili dalle vere donne in ogni dettaglio, anche il più insignificante. Un progetto di tale portata era nei piani ma la sostituzione completa con i Modello 10 avrebbe dovuto essere fatta nell’arco di un decennio, non di alcuni mesi. Ma i recenti casi di cui avrà letto sui giornali ci hanno convinto ad anticipare il programma immediatamente anche se costa moltissimo in termini economici. Se il suo amico avesse pugnalato uno di questi modelli esso sarebbe deceduto semplicemente. Una volta che tutta la popolazione femminile delle Arche sarà sostituita da questa generazione la totalità delle leggi discriminatorie sarà abrogata.” “In questo modo il vostro progetto sarà completo!” “Non avevamo scelta, dovevamo fare in modo che la nostra specie sopravvivesse. Vede, signor Pembleton, fa parte della nostra natura. Noi esseri umani siamo socievoli, abbiamo bisogno dei nostri simili. La scienza ha distrutto il nostro ambiente e con esso il nostro vero pianeta. Le nostre compagne si estinsero perché geneticamente sterili e vulnerabili. E tutto per soddisfare la nostra sciocca vanità ed interventi genetici frutto di una scienza ormai priva di etica. Toccava quindi alla scienza rimediare ai propri errori.” “Ma come fate per i bambini?” “I bambini si concepiscono in provetta qui, su Terra 4, naturalmente.” “Non mi dirà che sono sintetici anche questi!” Rosemberg sorrise: “”No, questo no! I bambini sono veri, ma li cloniamo noi. Gli organismi cibernetici sono dotati di uno speciale utero biomeccanico in grado di portare a termine la normale gravidanza di un feto di sesso maschile. Noi ci limitiamo ad impiantare gli embrioni nei loro corpi quando le coppie si dichiarano pronte ad avere un figlio. Dopo nove mesi disattiviamo la macchina ed estraiamo il bimbo, tutto qui!” “Mostruoso!” Dichiarai disgustato, “Ma presumo che per lei tutto questo abbia un senso!”


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L’uomo sospirò senza scomporsi: “Dal punto di vista dell’ingegneria è meraviglioso, ma forse il mio giudizio su di lei era errato, dopotutto.” Lo guardai ma non sembrava più arrabbiato, semmai rattristato. Mi stupii di me stesso quando cominciai a provare una sorta di rispetto per quello strano uomo. In effetti, guardando Sheila non mi era mai sembrata lontanamente simile al buffo droide che lei stessa aveva acquistato.” “Che ne è stato di Howard Shapiro?” “Non lo conosco personalmente.” Rispose flemmatico il mio interlocutore, “Di norma i soggetti che incappano nelle liti vengono trattenuti in stasi su questo planetoide per un breve periodo di tempo. I loro ricordi sono annullati ed in seguito sono rimessi in libertà.” Sospirai di sollievo: “Pensavo fosse stato condannato ad un periodo di olodetenzione.” Rosemberg scosse il capo: “L’olodetenzione è riservata ai criminali, non alle vittime. Il governo considera gli uomini che si trovano a dover fronteggiare una macchina impazzita come tali anche se eseguiamo sempre esami approfonditi di verifica. Ovviamente, le cose cambiano se gli uomini hanno commesso un’aggressione di proposito.” Socchiusi gli occhi, sollevato: “Lei è sposato?” La domanda mi sorse spontanea anche se conoscevo già la risposta: “Felicemente!” “Con…” Mi sentivo uno stupido, “…con quale modello?” “Sono sposato da vent’anni signor Pembleton. In quel periodo il modello più avanzato era il 6. Da allora ho cambiato moglie due volte ed attualmente la mia Sharon è un Modello 10, come quelli che ha visto lei stesso. Forse non mi crederà quando le dirò che non sono mai stato presente alla disattivazione delle Sharon 6 e 8. Quando ciò è successo per me è stato come aver perso realmente la mia compagna di vita.” Trasse un bel sospiro, si alzò in piedi e venne verso di me: “Non vuole sapere nulla su sua moglie?” “Non le sembra crudele rivolgermi questa domanda?” “No, se mi risponderà.” In quel momento lo odiai, ma sapevo che ormai non avevo più nulla da perdere: “A quale modello appartiene?” “Né al primo né al decimo, signor Pembleton. Gliel’ho detto che lei è un uomo fortunato, no?” “Cosa intende dire?”


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“Vede, tutta questa storia aveva il solo scopo di ricostruire una umanità composta da uomini e donne normali. Il Modello 1 era solo l’inizio, ma il Modello 10 rappresenta l’apice dell’evoluzione degli organismi cibernetici e non esiste un undicesimo modello.” “Continuo a non capire.” “Rosemberg sorrise: “E’ semplice: la sua Donna non ha una data di costruzione e non ne ha una di termine. E’ il nostro vanto, l’orgoglio di quarant’anni di ricerche genetiche. Sua moglie è un clone, una donna biologica completamente umana. I suoi organi sono reali e funzionanti. Non ha batterie né componenti elettronici, né ha bisogno di revisioni periodiche.” Sorrise a quella che evidentemente intendeva una battuta, “Ma soprattutto, signor Pembleton, come tutte le donne vere ha un vero codice genetico. Per la prima volta nella storia delle Arche, la scienza ha dato inizio ad una vita naturale di sesso femminile in grado di concepire in modo autonomo. Sua moglie potrà essere una madre vera come quelle che una volta costituivano più della metà della popolazione mondiale. Essa è il primo organismo che può concepire senza procedure complesse in ambienti controllati. Certo, è nata in una incubatrice, allevata da sola in un nido appositamente costruito per lei. Però ella vivrà, invecchierà e morirà come ogni essere umano. Quanti figli vorrà e se li vorrà lo deciderà da sola. E se la vorrà ancora, voi due sarete i primi esseri umani ad abitare nuovamente la Terra.” Ero incredulo: “Ma Donna viene ogni anno a farsi visitare qui, come le altre!” “Un normale controllo per la prima donna della nostra storia non è molto, le pare? Donna è un patrimonio per la nostra società ed al momento è un esemplare unico. Lei non immagina quanti anni, quante ricerche, quanti esperimenti falliti si sono succeduti prima di arrivare a lei.” “Non ci credo!” Dissi, “Sta mentendo! La Terra ha detto? Davvero pensa che possa credere alle sue parole?” Per tutta risposta Rosemberg sfiorò un quadrante della sua scrivania e subito il microcampo di energia che mi teneva immobilizzato scomparve: “Io non scherzo mai, signor Pembleton, non ne ho il tempo.” Mi alzai a fatica, un po’ stordito. La testa mi doleva e stentava a mantenermi in piedi. Dovetti sedermi sul lettino, ma avevo ancora tante domande da fare: “La Terra è abitabile?” Rosemberg non rispose subito, ma tornò a sedersi davanti la sua scrivania poi mi guardò fisso: “Il nostro pianeta viene da anni riportato al suo


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stato primigenio. L’atmosfera è stata purificata, molte rovine abbattute e asportate, gli edifici ancora in piedi restaurati e aggiornati. Abbiamo usato la clonazione per ricostruire le foreste e buona parte della fauna. Purtroppo non potremo mai ricostruire un ecosistema ricco quanto quello naturale perché molti organismi si estinsero o non furono importati sulle Arche all’atto del Grande Esodo, ma quello che abbiamo fatto è un buon compromesso. La Terra è abitabile, ora, anche se molti continenti sono ancora devastati. Questo era lo scopo ultimo del Governo Unificato, restituire agli uomini le donne prima e il loro pianeta dopo. Quando tutto ciò sarà compiuto, e ci vorrà parecchio, rivolgeremo la nostra attenzione alle stelle e cercheremo nuovi pianeti da abitare facendo uso di Arche come questa capaci di muoversi liberamente nello spazio profondo. Ma, ovviamente, per abitare nuovamente la Terra e ricostruire la nostra civiltà abbiamo bisogno delle donne. Le ho già detto che è un uomo fortunato. Adesso può capire il perché.” Detto questo il mio ospite tacque. Forse attendeva che dicessi qualcosa ma ero troppo sconvolto per poterlo fare. Cominciavo a capire i suoi motivi, le limitazioni, persino le leggi. Forse, se fossi stato al suo posto, avrei agito allo stesso modo. La primitiva arroganza della specie umana era stata la sola responsabile di tutto. E, soprattutto, mia moglie non era una macchina! “Donna è allora la chiave di volta perché può concepire autonomamente, cosa che gli organismi cibernetici non possono fare.” “Sua moglie è la donna in grado di sopravvivere autonomamente sulla Terra perché non necessita di alcuna struttura apposita che non sia un normale ambulatorio medico. Il nostro lavoro è servito per ridare speranza all’umanità per questo non abbiamo mai rivelato la loro vera natura.” “Una cosa non capisco, però.” Ammisi, “Esistono già ginoidi progettati per essere usati nelle case di piacere, macchine dalle sembianze femminili usate come prostitute dalle forme molto realistiche. Perché quelle sono state liberalizzate e le vostre macchine no?” “Costruire copie delle donne era possibile già allora, è vero, ma cosa sarebbe accaduto se avessimo usato la tecnologia delle biomacchine per liberalizzare le unioni fra macchine e uomini? La razza umana sarebbe piombata nel caos, senza motivazioni etiche, né speranza. No, amico mio!” Rosemberg fece un largo sorriso: “Noi volevamo imparare dagli errori del passato non ricaderci! Decenni fa la nostra arroganza insegui-


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va il miraggio della bellezza eterna e ha reso sterili le donne e la nostra mente. I droidi del piacere avevano causato la liberalizzazione delle pulsioni sessuali e non si celebravano più matrimoni duraturi. Chiunque poteva cambiare compagna a seconda del proprio stipendio e del capriccio di un momento. Questo non è stato un bene. E’ anche per questo che lei si trova qui, adesso.” “Ma immagino non sia semplice sostituire un modello 10 con un clone!” “Non lo è, infatti. Gli organismi artificiali sono fatti in serie e l’ingegneria della natura è superiore alla nostra. Gli esseri umani come la sua Donna non si fanno in serie perché servono decine di ovuli fecondati per dar vita ad un solo embrione vitale. Ecco perché la popolazione terrestre sarà separata da quella sulle Arche. Prevediamo che servano decenni prima che la popolazione mondiale cresca di un fattore significativo. Intanto le Arche continueranno la propria esistenza e gli uomini vivranno insieme alle loro compagne artificiali. Pochi sono i selezionati che abiteranno stabilmente sulla Terra. Lei e sua moglie potreste essere tra questi.” Sospirai: “Non mi sono mai sentito diverso dagli altri.” “Ha ragione! Lei è un uomo giovane, intelligente e curioso quanto basta. Volevamo vedere quanto la sua determinazione potesse farle affrontare i rischi potenziali di un’impresa disperata come la sua. Soprattutto, volevamo vedere come avrebbe reagito alla verità. Un giorno molto lontano questa storia sarà di pubblico dominio. Ma quel che la differenzia dagli altri è proprio Donna. Sapevamo che avrebbe apprezzato un uomo come lei e le abbiamo innestato nella memoria psicoimmagini di voi due. Un trattamento necessario, questo, almeno fino a quando non sarà nuovamente in auge il buon vecchio corteggiamento. Allora, signor Pembleton, cosa risponde? Vorrebbe andare sulla Terra?” “Presumo che la sua non sia una semplice offerta, ma un ordine.” “Temo abbia ragione. Capisce da lei che non posso liberarla adesso che conosce la verità e non vorrei cancellare la memoria sua e quella di sua moglie. La vostra unione è un successo, sarebbe un peccato ricominciare tutto da capo.” “Ma io sono nato su Terra 6.” Protestai, “Come vivremmo?” “Da esseri umani!” Fu la sua semplice risposta. “Era il sogno di Donna andare sulla Terra. Non fa che parlarne.”


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“E il suo qual è?” Risposi senza esitare: “Amo mia moglie, signor Rosemberg. Dovunque lei vorrà vivere.” Sorridendo, il mio ospite mi tese la destra che strinsi con vigore. Subito dopo, afferrò qualcosa da un cassetto della scrivania, un oggetto cromato delle dimensioni di una penna, e la puntò verso di me. Non feci in tempo a parlare ma riuscii a percepire le sue ultime parole: “Addio, signor Pembleton, è stato un piacere.”


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Epilogo

Mark Pembleton guardò il magnifico panorama che si godeva dalla sua abitazione. Era una incantevole mattina di Marzo, il cielo azzurro si specchiava sulla tranquilla superficie del lago e l’aria era permeata dal delizioso profumo delle primule in fiore. Fuori, oltre il suo giardino, si stendeva la vallata nella quale era immersa la modesta cittadina. Mark lanciò uno sguardo alla valle ed ai pochi simboli tecnologici della loro epoca. Alcune macchine ad antimateria, un rustico astrocargo, la grossa antenna per le telecomunicazioni satellitari accanto alla sua casa, le schiere di laboratori che si stendevano sulla riva sinistra del laghetto. Erano dieci anni che si trovava sulla Terra e non si era pentito della sua decisione neanche per un secondo. Era uno dei primi esseri umani ad aver messo piede sul pianeta e già non gli sembrava possibile che avesse potuto trascorrere parte della sua vita su Terra 6. Prima della sua famigliola, solo pochi tecnici accompagnati da una moltitudine di macchine per il trattamento ambientale avevano soggiornato sulla superficie terrestre. Le rovine delle antiche città occupavano allora gran parte della superficie abitabile, ma il duro lavoro delle squadre di ricostruzione avevano in parte cancellato i segni delle antiche follie umane. Il Governo Unificato incoraggiava le coppie sposate da non più di sei mesi a stabilirsi sulla Terra concedendo loro speciali vantaggi economici. Per motivi ignoti, invece, tali agevolazioni non valevano per le famiglie che avessero più di qualche anno di matrimonio alle spalle. Più di un sesto della popolazione selezionata accettò di buon grado quel viaggio irto di incognite, mentre il resto continuò a giudicare il pianeta troppo rischioso. Ma il tempo apportò le necessarie modifiche a questo stato di cose e, lentamente, la popolazione terrestre crebbe di numero. Era un buon segno e tutti ne erano felici. L’assistenza sanitaria era completa e vi era possibilità di lavoro per tutti: vi era un intero mondo da ricostruire! In un primo momento i villaggi erano sorti specialmente in prossimità della vecchie rovine, ottime fonti di materiali da riutilizzare. In seguito, man mano che le falde acquifere del pianeta furono disinquinate, le abitazioni cominciarono ad essere costruite anche vicino alle coste ed ai


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fiumi. Ciò consentiva agli abitanti di non dover più dipendere dalle Arche per l’approvvigionamento dell’acqua. I programmi per il recupero della diversità biologica diedero i loro frutti, consentendo di riportare molti ettari di suolo alla fertilità di un tempo. Le antiche foreste distrutte dalle piogge acide furono ricostruite e gli animali protetti da appositi programmi ambientali. La comunità di Mark annoverava poco più di mille abitanti che si occupavano prevalentemente della difesa del suolo e della biodiversità. Era un lavoro che richiedeva competenza e abnegazione, ma era felice di svolgerlo, così come Donna era contenta della sua nuova vita. Stava così pensando quando scorse una macchiolina all’orizzonte che si avvicinava sempre di più,assumendo lentamente un aspetto riconoscibile. Sapeva già di chi si trattava e così non si mosse, limitandosi a chiamare Donna perché lo raggiungesse. Qualche secondo più tardi la navetta atterrò davanti alla palizzata che separava il loro giardino dalla stradina. Le portiere del velivolo si aprirono e prima che Howard potesse fermarla, la bambina di circa sei anni gli corse incontro sorridendogli: “Papà! Papà! Su!” Gli disse. Mark sorrise e sollevò sua figlia tra le braccia. La bimba gli scoccò tanti baci sulle guance, cosa che lo indusse a vezzeggiarla per un po’: “Ciao Howard, come ti butta?” Disse tentando di scostarsi le manine della bimba dagli occhi: “Abbastanza bene!” Rispose l’amico, mentre aiutava sua moglie ad uscire dall’auto. La donna era al quarto mese di gravidanza e la sua felicità era evidente: “Tutto bene?” Le chiese Mark. “Magnificamente!” Sheila gli diede un bacio di cortesia su una guancia: “E Donna?” “E’ di là che si sta cambiando, ci raggiungerà tra poco. Vi sono molto grato per averci tenuto Sandra, stamattina.” “Non dirlo nemmeno!” Replicò Howard, serafico. “Tutte le volte che ne avrete bisogno contate pure su di noi.” Mark annuì in segno di riconoscenza. Howard ed Sheila erano da sempre i migliori amici sui quali potevano contare e più di una volta avevano beneficiato del loro aiuto. Ma adesso che Sheila era incinta, forse avrebbero dovuto trovare una soluzione alternativa: “Volete entrare in casa?” “No, grazie aspettiamo qui.” Rispose Sheila, “E’ una magnifica giornata e vogliamo goderne ogni momento.” Mark sorrise di nuovo, poi chiese alla donna se sua figlia li avesse stressati troppo: “Per niente. Sandra è una bimba adorabile.”


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In quel momento Mark avvertì qualcosa sfiorargli la spalla. Si voltò e vide sua moglie. Gli rivolgeva uno di quei sorrisi che esprimevano la stessa gioia di vivere, lo stesso reciproco sentimento che li legava indissolubilmente dopo oltre un decennio trascorso insieme. Donna era ancora molto bella e molto femminile. Aveva, è vero, alcune rughette di espressione intorno alle labbra, ma ai suoi occhi questo la rendeva ancora più affascinante e desiderabile. Avrebbe voluto dirle che l’amava, che era felice che fosse lei la madre di sua figlia, che non avrebbe mai fatto niente di buono senza la sua presenza. Ma c’erano i loro amici e comunque le parole erano superflue quando si guardavano in quel modo. Lei capì e gli sorrise. Anche Sheila capì e disse: “Perché non andiamo a fare una bella passeggiata in riva al lago?” “Buona idea!” Rispose Howard che non aveva intuito cosa intendesse veramente dire la moglie. “Mark vuoi dare a me Sandra?” Tornò alla carica Sheila. Mark la guardò, visibilmente imbarazzato: “L’avete tenuta tutta la mattina, vi abbiamo invitato a pranzo, non so se…” “Non importa!”rispose lei, “una bella passeggiata rende più robusto l’appetito, non lo sapevi?” “Tu che ne dici?” Chiese allora Mark alla figlioletta. La bimba sorrise: “Posso vedere i pesciolini?” “Sicuro!” Le disse Sheila, afferrandole la manina, “Lo zio Howy ti farà vedere tutti i pesciolini del laghetto.” Howard appariva perplesso, ma Sheila lo stava già tirando con sé obbligandolo a portare insieme a loro la bambina. Sandra agitò una mano in segno di saluto, poi seguì trotterellando la coppia. Mark guardò sua moglie che gli sorrideva ancora: “Ti amo!” Le sussurrò. Lei lo abbracciò languida ponendogli le labbra morbide sulle sue. Si scambiarono un lungo e intenso bacio, poi: “Non abbiamo molto tempo!” Gli disse lei, maliziosa. Mark la baciò di nuovo, quindi la costrinse dolcemente a rientrare in casa, mentre la porta si chiudeva silenziosa alle loro spalle. Lontano da loro, Sandra guardava felice i pesci che guizzavano rapidi tra le acque tranquille del lago, divertita dagli spruzzi che di tanto in tanto gli animaletti facevano per catturare le mollichine di pane che la donna lanciava verso di loro. Guardandola, Sheila vedeva in lei l’immagine del figlio che di li a poco sarebbe nato. Guardando loro a sua volta, Howard pensava al futuro che li attendeva, dimentico ormai dei fatti avvenuti su Terra 6. Egli sapeva cosa in realtà rappresentasse


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Sandra: non era solo una bambina, ma un simbolo. Era la speranza di poter un giorno vivere una vita diversa, migliore della precedente e soprattutto più saggia. Questo perché era convinto che all’umanità fosse stata concessa un’altra possibilità dopo gli errori commessi nel passato. Era sua opinione che la speranza fosse realmente presente nell’animo di tutte le persone arrivate sulla Terra dalle Arche, ma era anche consapevole che, esaurita questa, non ci sarebbe stata un’altra possibilità.



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