Sette passi nel fantastico (fantasy)

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"SETTE PASSI NEL FANTASTICO" di Virgilio Tuzzi

Titolo: SETTE PASSI NEL FANTASTICO Autore: Virgilio Tuzzi Genere: Fantasy Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Gli Inediti Pagine: 148 Prezzo: 12,60 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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Virgilio Tuzzi

SETTE PASSI NEL FANTASTICO Racconti

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SETTE PASSI NEL FANTASTICO 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Virgilio Tuzzi ISBN 978-88-6307-206-8 In copertina: immagine shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Luglio 2009 da Digital Print Segrate – Milano




IL VIAGGIO DI UN SOGNO Genere Fantastico Anno 2009



Il viaggio di un sogno

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L’infermiera sbuffò, mentre cercava il modo meno faticoso di reggere le numerose cartelle cliniche. L’afa, nei corridoi dell’ospedale, gravava come una cappa. Erano gli ultimi colpi di coda di un’estate che non voleva andarsene. Piccole gocce di sudore le imperlavano la fronte, quando raggiunse lo studio del dottor Sutri. Bussò. «Avanti» disse con voce annoiata l’uomo all’interno. La donna aspirò rumorosamente con il naso poi entrò e, con un sorriso di circostanza, appoggiò la pila di esiti da studiare sulla scrivania. Sutri sospirò svogliato e ricambiò il sorriso: «Grazie Giusy». L’infermiera chinò la testa e uscì, senza aggiungere una parola. Il dottore iniziò quel tedioso lavoro di routine, prese la prima cartella e cominciò a leggerne i valori riportati. Per ognuna di esse richiamò i dati memorizzati nel programma di gestione dei pazienti sul computer, e digitò la diagnosi che, in seguito, sarebbe stata consegnata al relativo destinatario. Guardò, con una punta d’invidia, i passanti e passeggiavano in strada, poi passò all’ennesima cartella. Il nome sul frontespizio lo scosse dalla noia. Ricordava bene chi fosse: era molto bella, forse un po’ aggressiva ma piena di vita. Era un’assidua donatrice di sangue, con cui aveva un cordiale rapporto. Aveva un nome singolare, raro e difficile da scordare. Lesse alcuni dati che lo preoccuparono. Si riassestò sulla poltrona e cercò i valori del test HIV. “Positivo”, scosse la testa deluso. Non se lo aspettava, non da quella donna. Chiamò di nuovo l’infermiera. Nell’attesa digitò la diagnosi con cura, la stampò e la consegnò alla donna appena entrò nello studio: «La prego rintracci questa signora e la convochi per approfonditi accertamenti. Con urgenza!» «Sì, subito dottore» rispose l’infermiera, notando il cambio d’umore del medico. Cassandra chiuse il gas, tirò la frizione e scalò due marce. Piegò a destra ed entrò nel parcheggio con una manovra fluida e sicura. Tolse il casco e


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Sette passi nel fantastico - Virgilio Tuzzi

scosse la testa, liberando i lunghi capelli neri. Lasciò la Road King sul cavalletto laterale, tra gli sguardi sorpresi, ammirati e un po’ costernati, della gente di passaggio sul marciapiede. I jeans attillati evidenziavano la sua bellezza femminile, nonostante gli stivaloni e il giubbotto di cuoio. Con passo deciso attraversò l’ingresso dell’HoneyJob, l’austero palazzo totalmente occupato da società di ogni genere, tanto che, a volte, era sufficiente passare da un piano all’altro per cambiare lavoro. Raggiunto l’ufficio, salutò distrattamente i colleghi; posò il casco sulla scrivania, proprio accanto al computer. Il cellulare squillò. Rispose decisa, pensando a una chiamata di lavoro. «Sì, sono Nimuli.» Restò in silenzio per un istante, sotto gli sguardi, vagamente dissimulati, dei presenti. «Ma, devo preoccuparmi?» Aggiunse sottovoce, ponendo quella domanda cui nessuno risponde al telefono. Ruotò lo sguardo intorno a sé, leggendo sui volti dei colleghi una curiosità morbosa. «D’accordo. A domani.» Si lasciò cadere sulla poltrona. Automaticamente accese il computer, il cuore, in tumulto, sembrava volesse uscirle dal petto. Il sole, che di solito le illuminava il viso, sembrò oscurato da nuvole tempestose. «Tutto bene Cassandra?» domandò Stefano Comelli, il titolare dell’azienda. La donna tentò di scuotersi da quello stato di apatia e annuì: «Sì, sì, tutto ok.» L’insolita distrazione della sua migliore collaboratrice preoccupò il giovane imprenditore, ma solo professionalmente. Cassandra era responsabile di un contratto molto importante, così si assicurò che, qualunque fosse il problema, non influisse sul lavoro: «Sei pronta con la presentazione per Wiss?» «Certo, rifinisco alcuni particolari e te la invio.» «Domani c’è lo start-up della campagna» le ricordò Stefano. «Mi raccomando vestiti da donna.» Cassandra sbuffò, rispondendo con sarcasmo: «Pensi di non vendere, senza un bel paio di gambe da esporre?» Stefano alzò le spalle, schiacciò l’occhio e tornò nel suo ufficio. «Uaooo,» esclamò Martino leccandosi le labbra «vedremo la Cassandra in mini e tacchi a spillo!»


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«Cretino!» Sbottò lei, troncando sul nascere ogni commento e tuffandosi nel lavoro.


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Il mattino seguente, alle otto in punto, Cassandra si presentò all’ospedale. L’ansia le impediva di stare ferma. Camminava avanti e indietro lungo la sala d’attesa, quasi a misurarne l’ampiezza. Cercò di calmarsi pensando che, almeno, avrebbe saputo di cosa si trattava. Finalmente giunse l’infermiera. Con cortesia la invitò a seguirla nello studio del medico. «Buongiorno signora Nimuli, si accomodi.» il dottore le strinse la mano e sorrise gioviale. Lei sedette e, incapace di resistere, saltò ogni preliminare. «Dottore qualcosa non va?» Sutri si fece serio, pur cercando di mascherare la preoccupazione: «E’ un mio scrupolo, ma vorrei che si sottoponesse di nuovo al test HIV.» Cassandra si sentì mancare. Arrossì e poi impallidì. «Che cosa?» «L’esito del suo ultimo esame è positivo. Vorrei ripeterlo, per sicurezza.» spiegò il medico con calma. «Com’è possibile… io…» balbettò la donna. «Mi ascolti, anche se il test confermasse la positività, non significa che in lei la malattia sia in atto. Solo che è presente.» «E cosa cambierebbe?» ribatté lei con un filo di voce, trattenendo le lacrime «Sarà come vivere sul ciglio di un burrone.» «Capisco, tuttavia prima di preoccuparci verifichiamo. D’accordo?» Cassandra annuì e si preparò per il nuovo prelievo. Il lancio della campagna pubblicitaria per Wiss fu un successo. La multinazionale dell’alimentazione accettò la proposta dell’agenzia, per la sua linea di alimenti bilanciati e leggeri, con entusiasmo. Merito del pregevole lavoro di Cassandra e, in parte, della minigonna stratosferica che aveva indossato. Comelli era raggiante: «Fantastica, sei stata fantastica. Il posto da direttore è tuo.» disse con enfasi, divorando una pizzetta. Clienti e colleghi apprezzarono il servizio di catering abbuffandosi, momentaneamente indifferenti alla firma del prezioso contratto.


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Cassandra annuì stancamente. Stava vivendo il momento decisivo della sua carriera, quello per cui aveva lavorato mesi con dedizione e professionalità. C’era riuscita, sarebbe stata nominata direttrice della Record Ink Pubblicità eppure non riuscì godersi il meritato successo. Quante volte fantasticato su questa serata, invece il suo sogno era stato sconvolto. Le parole del dottor Sutri le riempivano la mente. «Cassandra hai capito cosa ho detto?» ribadì Stefano, incapace di comprendere le emozioni di lei «Sarai tu la direttrice.» «Sì, sì ho sentito» rispose la donna in tono assente. «Scusami ma ho un forte mal di testa.» Comelli rimase contrariato, immaginò fosse una specie di reazione, un momento di rilassamento dopo tanto lavoro. «Capisco. Vai a casa, mi occupo io del resto. Ci vediamo domani in ufficio.» Cassandra fu sollevata per quelle parole; Stefano era un capo esigente ma sapeva quando fermarsi. Indossò il soprabito e uscì dalla sala riunioni. Prese un taxi e tornò a casa. Passò la notte in bianco, succube di mille pensieri, tutti negativi. Il mattino seguente si truccò più del solito, nel banale tentativo di mascherare l’insonnia sopportata; con puntualità svizzera tornò nello studio del dottor Sutri. Sedette in silenzio fissando il medico, quasi fosse un giudice, in attesa del suo terribile verdetto. Il dottore non la guardò, e lei lo interpretò come un presagio nefasto. Sutri richiamò i dati sul monitor, poi tornò a leggere la cartella. Infine tolse gli occhiali, si sfregò gli occhi nell’angolo vicino alla radice del naso tra pollice e indice, e fissò Cassandra. «Mi dispiace, lei è sieropositìva. La malattia è già in atto.» Cassandra tacque, rimase immobile come trapassata da un invisibile raggio che ne avesse spezzata la vita. Le sembrò che un’invisibile mano avesse cancellato il tempo a sua disposizione. Le lacrime sgorgarono copiose dai suoi occhi nocciola. «Fa uso di droghe? Ha scambiato siringhe?» domandò il medico, snocciolando le domande di routine con fatica. Lei scosse la testa. «Ha avuto rapporti occasionali non protetti?» Scosse di nuovo la testa poi, improvvisamente, fissò Sutri come se una luce avesse squarciato il buio nella sua mente. Si alzò: «Grazie dottore.»


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Uscì dallo studio quasi di corsa. Sutri la rincorse sulla porta: «Aspetti…» L’infermiera, udendo quel trambusto, lasciò la sua postazione precipitandosi in corridoio. Vide Cassandra infilare le scale e si voltò con aria interrogativa verso il dottore; lui abbassò la testa scuotendo la mano. Entrambi, silenziosamente, tornarono al proprio lavoro. Cassandra indossò casco e guanti. Per un istante osservò la potente moto impugnandone il manubrio, poi premette il pulsante dell’avviamento e, con un ruggito del motore, partì a tutta velocità. Raggiunse il centro della città, si fermò di fronte a un vecchio palazzo nobiliare. Sullo sfondo, sopra i tetti resi grigi dallo smog, campeggiavano le guglie del Duomo di Milano: bianchissime sotto i raggi del sole di fine estate. Fissò il portone e ripensò a quell’incontro di tre mesi prima. «Cassandra, sei proprio tu?» Lei si voltò al suono di quella voce familiare, riportando alla memoria lontani ricordi adolescenziali. «Luca?» Disse ad alta voce,rammentandolo più a se stessa per la sorpresa. Luca annuì abbracciandola; lei si sottrasse con eleganza, badando più a salvare il boccale di birra, indecisa su come comportarsi. «Fatti vedere,» aggiunse lui, ignorandone la reazione istintiva «sei uno splendore. Ancora più bella di quando…» Lasciò la frase in sospeso, ricordando momenti passati. «Sei il solito esagerato.» rispose Cassandra. I due sedettero a un tavolo appartato del pub. «Che hai fatto da allora?» Chiese lei con curiosa allegria. Lui la fissò dritto negli occhi, con una carica di dolcezza eccessiva, quasi imbarazzante: «Ho viaggiato. Molto, troppo a quanto sembra e mi sono perso te.» Cassandra si fece seria, distolse gli occhi visibilmente turbata: «Fu una tua scelta.» Luca bevve un lungo sorso di birra: «Già, volevo conoscere il mondo.» aggiunse con autoironia. «E l’hai conosciuto?» «Sì!» rispose lui, con una nota di tristezza nella voce. Il cuore di Cassandra accelerò: «Beh, cos’è questa tristezza? Raccontami, dove sei stato.»


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«Oh, un posto vale l’altro. Tu invece hai realizzato i tuoi sogni? Sei andata a Milwaukee?» Cassandra sorrise: «A Milwaukee no, però la moto l’ho comprata.» Indicò con la birra oltre la vetrata, in direzione dell'Harley Davidson Road King verde nel parcheggio. Luca rise di gusto, alzò il boccale per brindare: «Brava ragazza!» Sfiorò la mano di lei, appoggiata sul tavolo in attesa che qualcosa accadesse. Cassandra rispose al brindisi senza ritrarre la mano, sempre più turbata dal calore di quel contatto. Non era da lei ma si lasciò stordire, trascinata in un gioco perverso di ricordi e bevute. Non comprese mai perché accadde, eppure lo seguì a casa sua. Forse fu il caldo, la birra o il ricordo di un amore giovanile, fu così che cedette e finirono a letto. Il mattino seguente raccolse le sue cose e fuggì lontano con la sua Road King. Scacciò quel ricordo, gelosamente conservato nello scrigno più prezioso e profondo della sua mente, scese dalla moto. Misurando ogni gradino, raggiunse l’appartamento sito al quinto piano. Fremente di rabbia e dolore suonò il campanello. La chiave nella toppa girò con rumore metallico, la pesante porta di legno si aprì. L’ombra di Luca la salutò, quasi l’aspettasse: «Entra.» Cassandra osservò quell’uomo pallido, sporco e sudato, che tremava visibilmente per la febbre. La domanda, che risuonava nel suo cervello da ore, aveva già la sua risposta. Portò la mano alla bocca, trattenendo l’urlo che spingeva per uscire con violenza dalla sua gola. Alla fine, riacquistato il controllo di sé, disse: «Perché Luca, perché?» Lui abbassò gli occhi, prese una sigaretta che accese sedendosi. «Volevi sapere cosa avevo trovato per il mondo? Ora lo sai.» spiegò cinicamente. «Ma io cosa c’entravo?» domandò lei con voce tremante e prossima a un pianto isterico. «Volevo vivere la mia vita fino in fondo, quel poco che ne restava, senza essere ghettizzato. Non ti avrei avuto altrimenti.» La rabbia crebbe intensa nell’animo di Cassandra, si avvicinò a quel relitto umano e lo fissò disperata: «Bastardo!» Esclamò dandogli uno schiaffo.


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Poi scappò via. Via da quella casa, via da quell’odore, da quella vista che aveva tutta l’aria di una finestra sul suo futuro. Affidò tutta se stessa all’unica amica che sentiva incapace di tradirla: la sua moto. La guidò fuori dalla città e, nel medesimo tempo, si lasciò portare lontano. La voce del motore pulsò regolare e rassicurante, erogando la potenza racchiusa nei lunghi e cromati cilindri senza strafare. La velocità rese i raggi delle ruote invisibili, dando l’impressione che la moto galleggiasse sugli pneumatici. C’era armonia nell'azione del mezzo meccanico e del suo pilota sulla strada, curva dopo curva. Cassandra e la Road King fendevano l’aria unite, fuse in un nuovo essere. La donna smise di piangere, liberò la mente da ogni pensiero e si beò del rumore prodotto da quella nuova parte di lei, e del mondo che scorreva ai lati, fino al punto di congiunzione oltre l’orizzonte. Accarezzò la superficie del serbatoio, percepì la liscia forma tondeggiante provandone piacere. In quel momento pensò che avrebbe viaggiato per sempre e che niente e nessuno l’avrebbe ghermita, neanche la morte.


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Come avrebbe affrontato la malattia? La domanda le si era conficcata nel cervello come una lama rovente. Nel buio della notte guardò la città vuota dalla finestra della sua stanza da letto, e si rese conto di quanto amasse la vita e di come si sentisse derubata degli anni migliori. Comprese Luca che, sbagliando, aveva negato la sua malattia per regalarsi gli ultimi attimi di vita normale. Avrebbe fatto altrettanto? Fu tentata. Avrebbe goduto un po’ delle fatiche compiute per tanto tempo e poi… Scosse la testa stringendo tra le dita la tenda di seta, strappandola. Avrebbe anche lei donato questa nuova realtà a qualcun altro? Si sentì molto sola. Vinta dall’angoscia, si ritirò in un pianto silenzioso. Abbracciò il cuscino, gettandosi sul letto. Passò in breve dal dormiveglia al sogno. Era di nuovo bambina, faceva freddo perché era inverno, guardò fuori dalla finestra: nevicava. «Mamma!» urlò «Mamma nevica.» «Sei contenta tesoro?» disse sua madre. «Sì, tra poco Babbo Natale e la Befana saranno pronti e mi verranno a trovare.» Sua madre la abbracciò, baciandola sulla fronte. Poi volò aggrappata a un fiocco di neve. Il vento la trasportò lontano sopra montagne e mari, fino a una foresta di abeti e pini. La neve copriva tutto e il silenzio era totale. Vide due casette di legno e si avvicinò, trascinata dal cristallo ghiacciato. Osservò attraverso la finestra della casetta più piccola. Vide una donna che si affaccendava attorno a uno strano mezzo e degli gnomi che entravano e uscivano dalla stanza portando giocattoli, sistemandoli in un grosso sacco senza fondo. La donna non sembrava molto vecchia ma era vestita da… Befana. Cassandra sorrise, appoggiò le manine al vetro e per magia si ritrovò all’interno della baita. Meravigliata guardò intorno: si era aspettata giocattoli e gnomi al lavoro, qualche scopa al massimo e invece. La Befana si avvicinò: «E tu? Cosa fai qui piccolina?» «Oh, signora Befana, non volevo disturbarla.» rispose arrossendo.


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«Stai sognando» spiegò la Befana. «Ti piace questo sogno?» La piccola annuì: «Cos’è?» domandò indicando lo strano mezzo al centro della stanza. La Befana sorrise: «Quella è la mia moto. Tutti pensano che usi una scopa. Vuoi provarla?» Cassandra annuì, la Befana la sollevò mettendola a cavalcioni della moto, lei toccò le lisce forme metalliche e rise: «Un giorno anch’io mi comprerò una moto.» La Befana la baciò tra i capelli: «Certo e mi verrai a trovare. Ora va, devi tornare dalla tua mamma.» Il fiocco di neve riapparve e la bambina si afferrò ai suoi cristalli di ghiaccio, volando lontano. Cassandra si svegliò di soprassalto, ormai albeggiava. Ripensò al sogno. Da bambina sognava spesso di raggiungere la casa della Befana su un fiocco di neve, sentì nostalgia per quell’età così spensierata mentre preparava un caffè molto forte. La bevanda calda scese nello stomaco svegliandola completamente, aveva deciso: lei non era come Luca, avrebbe affrontato la malattia lottando. Quel mattino giunse in agenzia stravolta da una nuova notte insonne, ma decisa ad andare fino in fondo. Raggiunse l’ufficio del suo capo fermandosi per un attimo davanti alla porta, trattenuta da un brivido. Bussò. La voce di Comelli risuonò decisa: «Avanti!» Prese un profondo respiro ed entrò. Stefano l’ascoltò senza interrompere. Tuttavia una profonda tempesta emotiva si era scatenata in lui. Il suo ruolo gli aveva insegnato a mascherare molto bene i suoi sentimenti. Quando Cassandra finì, restò in silenzio per qualche istante. Fissò la donna in piedi di fronte alla scrivania poi tolse gli occhiali, si alzò e raggiunse la finestra. Osservò la città che si agitava frenetica sulle strade. Strinse i pugni sulle reni e si schiarì la voce più volte, rinviando il momento di esprimere ciò che aveva già deciso. «Stefano io non sono cambiata.» aggiunse Cassandra con un filo di voce, temendo quel silenzio prolungato. «Tu no», rispose Stefano «ma il tuo corpo sì.» La donna aprì la bocca senza riuscire a parlare, quelle parole avevano il sapore di una sentenza. «Ho bisogno di pensare» proseguì Comelli. «Vai a casa, riposati. Ti chiamo io.» Lei abbassò la testa: «Va bene.»


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Cassandra cercò di riempire il tempo lavando la sua moto e preparando accessori che non avrebbe dovuto usare: borse, guanti, giaccone e pantaloni termici. Il tutto con un occhio al cellulare che si rifiutava di suonare. Quando non ebbe altro da fare sedette a gambe incrociate nel box, fissando la Road King, in attesa di quella telefonata. Aveva quasi deciso di chiamare Stefano, quando il cellulare squillò: il display però non riportava il nome di Comelli. «Nimuli.» rispose in preda all’ansia. «Ciao Cassandra, sono Alessia.» «Ciao come va?» domandò sorpresa. Alessia era una collega, anche se in ufficio poteva considerarla qualcosa di più. «Bene. Ascolta ti ho chiamato per dirti una cosa.» Proseguì Alessia titubante. «Ti ascolto.» disse Cassandra, temendo di capire cosa fosse accaduto. «Ecco, io non l’ho trovato giusto e per questo ti ho telefonato» Alessia pensò di avere commesso un errore a chiamare l’amica. «Beh, insomma Stefano ha dato il posto da direttore a Franco Rime.» In fondo se lo aspettava, tuttavia il gelo strinse il cuore di Cassandra in una morsa; non pianse, aveva già versato troppe lacrime: «Grazie Alessia.» «Mi dispiace… Ciao.» aggiunse flebilmente l’amica. “Vigliacco!” pensò Cassandra, tirò un calcio contro lo scaffale per sfogare la rabbia che sentiva crescere. Smarrita, si trovò a fissare il calendario: era il ventotto settembre. Un’idea si formò nella sua mente. Strana e bislacca. Ruotò su se stessa e osservò la moto ferma sul cavalletto, pronta per affrontare un lungo viaggio. «Sì cara amica, hai ragione. Non devo sprecare nemmeno un minuto con chi non può comprendere.» Corse in casa, raccolse l’indispensabile, chiuse il gas e la corrente, salutò mentalmente la sua casa: rimase per un attimo sulla soglia, chissà se ci sarebbe tornata. Tornò dalla moto, la spinse fuori dal box, indossò casco e guanti poi avviò il motore. La Road King ruggì, fedele come sempre. Cassandra sorrise ed esclamò: «Finlandia arriviamo!» Innestò la prima marcia e partì.


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Se la prese comoda, non usò l’autostrada. Da vera biker scavalcò le Alpi curva dopo curva, tornante dopo tornante. Era felice: c’era il vento sul viso, c’era il rombo del motore nelle orecchie, c’erano le vibrazioni sulla pelle e c’era il paesaggio per i suoi occhi. Guidò tutto il giorno, attraversò la Svizzera e raggiungendo la Germania. Esausta si fermò a pernottare a Francoforte. La mattina successiva partì prestissimo. Solo restando in sella si sentiva davvero bene. A sera inoltrata raggiunse Oldenburg in Holstein, ultimo paese teutonico, prima di traghettare in Danimarca. Dopo tre intensi giorni di viaggio raggiunse Copenhagen, il freddo si faceva già sentire; sfinita decise di fermarsi per un paio di giorni. Quella notte non dormì in preda a brividi di febbre; non volle pensare a un sintomo dell’aids, decise che doveva essere solo stanchezza. Nei giorni successivi la situazione migliorò lievemente, così, il tre ottobre decise di ripartire per il nord della Svezia. Il cielo era plumbeo e una pioggia fine, ma intensa, la accompagnò fino a pomeriggio inoltrato. Cassandra raggiunse Sundsvall con la forza di volontà: aveva percorso quasi duemiladuecento chilometri patendo un freddo ormai pungente, mentre le forze si dileguavano come neve al sole. Si gettò, vestita, sul letto del piccolo bed & breakfast, addormentandosi subito. Sognò! Era di nuovo bambina e volava sul fiocco di neve. Raggiunse una tranquilla pianura ai margini della foresta di pini e abeti. La neve copriva la natura come un bianco mantello. Del fumo usciva dai comignoli di due baite di legno. Da una delle rimesse proveniva il fragore di un motore capriccioso, violando la serenità che quel luogo suscitava. La piccola Cassandra, incuriosita, si avvicinò all’ingresso scrutandone l’interno: il forte odore le fece pizzicare il nasino, un misto di benzina, fumo e olio ricinato. Una donna in tuta si affannava sul motore di una stranissima moto; Cassandra la udì brontolare mentre provava di nuovo ad avviare il propulsore. Il dispettoso meccanismo si accese, tossì e si spense. La donna


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divenne rossa di rabbia, tirò un calcio sulla ruota posteriore, sproloquiando improperi di ogni genere. Cassandra rise, mettendo la manina sulla bocca per non farsi sentire. Improvvisamente si sentì un urlo provenire dalla casa accanto: «Nan! basta con questo strazio. è dalle cinque che mi trapani i timpani!» La donna sbuffò spazientita, raccolse uno straccio e si pulì le mani, avvicinandosi all’ingresso. «Allora mettiti i tappi nelle orecchie!» Rispose contrita. «Mi stressa tutto l’anno con i suoi jingle natalizi.» aggiunse sottovoce, scuotendo la testa inviperita. Si fermò di colpo notando la bambina. Mise le mani sui fianchi e con voce tutt’altro che burbera disse: «Oh guarda chi c’è. Ti stai divertendo?» La bimba annuì: «Sì, signora Befana.» Un omone grande e grosso apparve all’ingresso: «Per tutti i pini della foresta», esordì con voce tonante «non sarebbe ora di sostituire quel catorcio?» Cassandra restò a bocca aperta: «Babbo Natale…» La Befana lo fissò furente, quasi l’avessero ferita al cuore: «Non sai quello che dici» sibilò. «Questo motore ha un carburatore doppio corpo invertito, albero a cammes con profilo racing su mio disegno. Scarico aperto artigianale quattro in uno. Non vorrai paragonarlo con qualche insulsa diavoleria moderna, spero.» attese la risposta con le mani poste sugli esili fianchi, in segno di sfida. Il fiocco di neve tornò a prendere Cassandra, trascinandola via. La donna si svegliò di soprassalto, era madida di sudore. Si alzò, passò davanti allo specchio dandosi un breve sguardo: aveva un pessimo colorito. Dopo una doccia calda ripartì, non mangiava dal giorno prima, ma aveva la nausea e preferì evitare conseguenze peggiori. Raggiunse Luleå nel pomeriggio. Il freddo la costrinse a fermarsi. Si sforzò di inghiottire un boccone, poi sistemò la Road King al coperto e andò a dormire. Durante la notte nevicò. Solo una leggera spruzzata di bianco che non rovinò le strade, ben tenute dai solerti addetti svedesi. Cassandra ripartì in una splendida mattina invernale, la neve ai lati della strada rese questa tappa suggestiva. La moto rispondeva a meraviglia, al contrario del suo fisico sempre più debilitato. Aveva vomitato e adesso lo stomaco gli doleva perché era vuoto; tuttavia era felice, oggi sarebbe entrata in Finlandia, era prossima alla meta.


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Sopportò il freddo che congelava le dita, rendendole insensibili, fu sempre più faticoso tirare la leva della frizione per cambiare marcia. Oltre il confine le strade divennero scivolose e, un paio di volte, slittò intraversandosi. Per fortuna raggiunse Rovaniemi al tramonto. Il gentilissimo proprietario del piccolo camping la accompagnò nel suo bungalow. Cassandra tremante e sudata s’infilò sotto le coperte senza riuscire a scaldarsi. L’uomo, dopo aver messo la moto al riparo, tornò da lei con un brodo caldo, obbligandola a berne un po’. Quella notte nevicò!


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Cassandra si alzò in preda alla febbre, si vestì come un automa e spinse la moto fuori dalla rimessa. Aarne, il proprietario del camping, si precipitò fuori dal suo minuscolo ufficio gesticolando animatamente. In un inglese un po’ stentato e con qualche parola di italiano, cercò di fermarla. «Impossible today! No drive the bike. Male su moto.» Si mise davanti alla Road King. «Look the sky. It’s going to snow. Tanto. Again… Ancora.» Le strade erano pulite e Cassandra non volle sentire ragioni. Era visibilmente stremata e pallida. Aveva le labbra esangui e tremava, ma la sua volontà era incrollabile. «Devo andare più a nord», disse con un filo di voce «prima che sia davvero impossibile.» «Why? Perché?» domandò Aarne, sinceramente preoccupato. «Ho promesso… Ho promesso alla Befana che le avrei mostrato la mia moto.» L’uomo restò sconcertato da quelle parole. «You are fool! Tu pazza. Fever. You have the fever…» Cassandra avviò il motore: «Ti prego, spostati.» disse, lasciando intendere che lo avrebbe investito se necessario. Aarne si spostò. La vide partire facendo slittare la ruota posteriore, scivolando sul leggero strato di ghiaccio. L’uomo guardò di nuovo il cielo poi, sospirando, entrò nel bungalow preparandolo per un nuovo cliente. Mentre usava la scopa elettrica, non riusciva a togliersi dalla mente quella strana donna italiana. Si domandava se lasciarla andare non fosse stato imprudente. Era indubbio che fosse ammalata: ma era malata nel fisico o nella mente? E perché se la prendeva tanto a cuore, quanti turisti aveva conosciuto un po’ bizzarri? Infilò la scopa elettrica sotto al letto, improvvisamente aspirò un foglio di carta. Con un rumore sordo l’attrezzo si spense! Aarne si inginocchiò e infilò le dita nel foro di aspirazione, con qualche difficoltà riuscì a estrarre il foglio accartocciato finito, chissà come, li sotto. Incuriosito lo lisciò e lo lesse. Era intestato a Cassandra Nimuli “È di quella donna” pensò. Conosceva solo qualche parola d’italiano, impa-


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rata durante le vacanze nel bel paese, ma capì che si trattava di esami clinici, soprattutto quando lesse TEST-HIV. Provò una fitta la cuore “Sta cercando la morte”, quel pensiero lo fece star male. Lasciò cadere la scopa elettrica e corse fuori dal bungalow, prese le chiavi del suo Land Rover e si gettò sulla strada.


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Con grande fatica la Road King portò la sua padrona oltre Ivalo. Nevicava già da un’ora e la luce scemava di minuto in minuto. Cassandra continuò per inerzia, poi cominciò a ripetersi tra se “Dove sei Befana, dimmi dove sei”. Il sole tramontò e la strada fu difficile da distinguere, senza accorgersene imboccò una via laterale che la portò in mezzo alla foresta. Marciava a passo d’uomo, il freddo era intenso, ogni tanto si fermava e appoggiava le mani guantate sui cilindri caldi. Guardò attorno conscia di essere allo stremo delle forze, ma non trovava quella piccola baita di legno. Improvvisamente le parve di scorgere un lume nel buio. Aarne si era diretto a nord, come aveva detto Cassandra, si convinse che avrebbe seguito la strada principale, almeno fino a Ivalo, però non trascurò di fermarsi in tutte le stazioni di servizio chiedendo informazioni su una Harley Davidson verde. Era ormai il tramonto e la neve cadeva copiosa quando un benzinaio gli confermò il passaggio della moto cercata. «Sì è passata di qui», disse grattandosi l’ispida guancia «strano mi è sembrato che invece di seguire la curva s’infilasse in quella laterale, a circa duecento metri.» L’uomo indicò una piccola strada che proseguiva dritto verso la foresta. Aarne ripartì sgommando sulla neve fradicia. Sperò davvero che l’italiana non fosse in grado di guidare su quelle strade. Cassandra diresse la moto verso quella flebile luce. Non sentiva quasi più mani e piedi; raggiunse un grosso tumulo, dove la neve scintillava. Spense il motore e con la mano sinistra scavò nel ghiaccio. “Ti prego fiocco di neve, guidami al sicuro” pensò. La testa le girava, il cuore palpitava nel petto. La neve cadde e la vista si annebbiò per un attimo, socchiuse gli occhi e vide degli gnomi costruire giocattoli, intravide anche una donna che li coordinava.


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Non aveva la forza per chiamarla, pensò “Signora Befana sono qui. Ho portato la mia moto, come avevo promesso”. La donna alzò lo sguardo vedendola alla finestra, le sorrise e uscì dalla stanza. Cassandra sentì una stanchezza infinita, un torpore che saliva dai piedi fino agli occhi “Ho sonno” pensò, “Adesso dormo un poco e poi chiamerò la signora Befana”. Si accasciò sul serbatoio, abbracciò i grossi cilindri della Road King e chiuse gli occhi. Le sembrò di precipitare in un vortice di onde colorate: gialle e rosse. Accelerò trascinata in una caduta infinita. Vide una mano tesa e l’afferrò, percepì calore ed energia che si diffusero per tutto il martoriato corpo. Le onde colorate svanirono e si trovò nella casetta di legno dei suoi sogni; la Befana le sorrideva. «Ben tornata Cassandra.» «Io…» la donna ruotò la testa a destra e a sinistra, incredula. «Signora, signora Befana?» «Sì, dubiti proprio adesso che mi hai trovata?» La giovane donna scosse la testa: «Volevo farle vedere la mia moto.» Cassandra indicò la Road King ferma sul cavalletto laterale. La Befana si avvicinò alla moto, toccandola ed esaminandola con cura e occhio esperto. «Molto bella», disse seria «ma niente di paragonabile alla mia Scavenges turbo duemilaquattro.» Entrambe scoppiarono a ridere. La Befana diede a Cassandra una piccola bambola di legno: una Biancaneve così ben fatta da sembrare viva. La donna la guardò con aria interrogativa. «Un piccolo dono per aver mantenuto la promessa.» Le onde gialle e rosse tornarono a vorticare intorno a Cassandra che urlò terrorizzata: «Aiuto! signora Befana…» La donna vide la Befana sorridere e salutarla. Aarne s’infilò nella stradina laterale, il Land Rover ondeggiò sulle buche ai margini della carreggiata e si fermò. Alla luce dei fanali il giovane finlandese esaminò l’unica traccia scavata nella neve, sicuramente da uno pneumatico troppo stretto per essere di un’auto. Ripartì a passo d’uomo, si fermò a ogni piazzola usando il faro sul cofano, cercando la sagoma dell’Harley Davidson. Finalmente la trovò: Cassandra era adagiata sul serbatoio. Erano quasi totalmente coperte dalla neve. Aarne raccolse quel corpo esanime e lo


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portò sul fuoristrada, coprendolo di coperte. Alzò il riscaldamento al massimo e partì sgommando per raggiungere un ospedale. Di nuovo in caduta nel vortice giallo e rosso, Cassandra sentì il respiro farsi pesante; mentre si accorse di perdere conoscenza, le sembrò che le onde si fermassero, trasformandosi e cristallizzandosi in un caleidoscopio di colori dalle forme più strane. Passò un tempo che non riuscì a quantificare, poi le onde ricominciarono a vorticare, solo che invece di cadere le sembrò di riemergere. Aprì gli occhi, la luce l’accecò anche se era tenue. Percepì un suono regolare e ritmato simile a quello del suo cuore. Voltò la testa e, addormentato, vide un giovane finlandese. «Aarne?» Disse flebilmente. L’uomo si svegliò di soprassalto, l’accarezzò con un sorriso e uscì. Tornò in compagnia di un medico. Il dottore controllò il cuore e la pressione annuendo soddisfatto. Aarne prese la mano di Cassandra. «You take a risk. Tu preso stupido rischio.» disse nel suo misto di inglese stentato e italiano maccheronico. Pallidissima e con un filo di voce, la donna guardò il medico e con sgomento cercò di avvertirlo: «Sono sieropositìva.» Il dottore la guardò un po’ stranito, poi scambiando un’occhiata con Aarne ricordò. «No, no. Nothing AIDS.» spiegò sorridendo e scuotendo la testa. «We have make a new test. My Darling Cassandra you are most healty… è sanissima, just a little fool.» sorrise e uscì. Cassandra tentò di mettersi seduta, non riuscendoci. Guardò Aarne e tossendo sibilò: «Vi sbagliate, ho una cartella clinica.» «This?» disse il giovane agitando un foglio spiegazzato. La donna annuì sbarrando gli occhi. «Maybe the… dottore italiano… have a mistake valutation… Forse sbagliare» cercò di spiegare Aarne sorridendo. «Or maybe you have received a gift with… with… da Befana? Do you under stand?» aggiunse il giovane indicando il comodino. Cassandra si voltò e vide Biancaneve, la piccola e perfetta bambola di legno. «You don’t give me the doll» Aarne rise sollevato. «I have make a great effort… Io faticato a prendere.» aggiunse. Cassandra tese le braccia e lui la strinse forte. Lei non riuscì più a trattenersi e pianse, ma questa volta di felicità.



ATTACCO MENTALE Genere Fantasy Anno 2008



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Vinto dalla stanchezza Alasdair spense il monitor, appoggiò la fronte sugli avambracci e si addormentò. Lentamente, dalla profondità della sua psiche, i demoni del passato riemersero, liberi dall’autocontrollo che li imbrigliava durante la veglia; il corsaro tentò di resistere, senza successo. La reminescenza assunse la subdola forma di una brezza, come un piccolo mulinello d’aria che raccoglie le foglie dal terreno, mischiando nel vortice il rosso con il giallo e il marrone, trasformandosi ben presto in un tornado. Alasdair boccheggiò, sentendosi annegare in quel mare di ricordi che lo trascinò inesorabile nel profondo del gorgo, inghiottendolo. Quando credette di soccombere, improvvisamente, ne fu letteralmente sputato fuori. Si agitò nel sonno farfugliando per un attimo. Emise un urlo stridulo sollevando la cassa toracica, obbligato dall’istintiva ricerca d’aria che i suoi polmoni, doloranti per lo sforzo; la vista lentamente si schiarì e una vecchia ferita si riaprì. Il cielo era terso, blu intenso, come solo la fredda primavera di Regal, la sua terra, sapeva donare. A destra si ergeva la fortezza di Flangesval, le cui mura possenti ricordavano un passato di gloria. Ai vertici della planimetria triangolare c’erano tre torri, dal rosso tetto a cono, su cui sventolavano gli stendardi reali. Alle spalle del maniero stormivano le fronde della foresta di Brumavoir, frusciando alla forza del vento. I cadetti erano schierati sulla pianura antistante, inquadrati in compagnie: l’accademia festeggiava i diplomati; per molti allievi ufficiali significava l’ingresso nei reggimenti, divenire adulti e poter finalmente servire il regno, proprio quando un’oscura minaccia si levava sul suo millenario orizzonte. Alasdair osservò la prima fila della compagnia Folkor. Provò nostalgia rivedendosi giovane, insieme ai suoi amici più cari: Darla Farragut, la principessa Larelise, Kashyan Oingler. Impettiti e orgogliosi, magnifici nell’alta uniforme rossa con le mostrine celesti, e le spade cerimoniali che li distinguevano dagli altri cadetti


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perché di nobile casato. Com’erano giovani allora – quanto tempo era passato, una vita? – invece erano trascorsi solo otto anni. Il corteo reale si avvicinò al suono dei tamburi e delle pipes, sua maestà Alatri I, il padre di Larelise, li avrebbe onorati. Improvvisamente il sole si oscurò, il tornado emotivo si rinvigorì, risucchiandolo di nuovo. Alasdair lottò per restare, ma non poté nulla contro la forza della sua coscienza. Quando riemerse per la seconda volta, tossì o sognò di farlo. Si trovò sulla plancia della Levornia, il suo primo comando. La sirena di allarme ululava e l’equipaggio correva ai posti di combattimento. Oingler era al timone e fissava atterrito la bussola radar: «Non se ne sono accorti. Finiranno in bocca ai Selzerorg.» «Non accadrà.» rispose Alasdair determinato. La torpediniera navigava a tutta velocità sulla rotta d’intercettazione dell’incrociatore Rigelgrad, la nave su cui prestava servizio Larelise. Per qualche motivo ignoravano le chiamate della Levornia; Dalseney ordinò di armare i siluri. «Siamo troppo distanti, non gli faremo nemmeno un graffio!» commentò Oingler. «Sì, ma l’esplosione metterà in allarme la Rigelgrad.» Il piano di Alasdair era semplice e geniale. Controllò la distanza dalla console di tiro, confrontò i dati con la radio bussola e ordinò il lancio. Il primo siluro esplose colpendo di striscio la corazzata Selzerorg senza danneggiarla; come previsto dal giovane Dalseney sulla Rigelgrad suonò l’allarme e rispose al fuoco nemico per tempo, riuscendo a disimpegnarsi. Il secondo siluro perse il segnale radio e, fuori controllo, sfiorò l’incrociatore regaliano, rischiando una vera catastrofe. Il tornado dei ricordi risucchiò di nuovo il corsaro ma non riuscì a trasportarlo altrove, il segnale di chiamata suonò lampeggiando sulla console, Alasdair si svegliò di soprassalto. «Che c’è?» Domandò, rendendosi conto di avere sognato di nuovo quel passato che voleva scordare. Scosse la testa, nel vano tentativo di scacciare quella tristezza che era la sua quotidiana compagnia. «Capitano, abbiamo intercettato una richiesta di soccorso.» spiegò il secondo di bordo. «Arrivo!» rispose, sfregandosi il viso con le mani, cercando di svegliarsi completamente. Appena giunto in plancia Aldan P’Trell gli porse il NEL, un vero e proprio notes elettronico, con il testo dell’intercettazione.


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«Sei sicura della decodifica?» domandò preoccupato. «Come della mia mano destra.» rispose in tono seccato l’altelniana. Ktehla corethiana di sangue reale e secondo in comando, fissò il fratellastro in attesa dei suoi ordini, intuendo quali fossero. Aveva solo dodici anni quando il padre di Alasdair l’aveva adottata, salvandola dallo sterminio della sua famiglia nei giorni bui della guerra civile. Questo le aveva insegnato che non tutti i regaliani erano doppiogiochisti e traditori. Dalseney si sentì addosso gli sguardi dell’intero equipaggio. L’Acheron non era una nave da guerra, e loro erano solo rinnegati senza bandiera, che vivevano depredando i mercantili. Quella guerra non li riguardava. Di solito ogni azione era concordata fra tutti i membri, perché per loro rischiare era una scelta, non un obbligo. Non questa volta però. «Rotta d’intercettazione, massima velocità.» Ktehla eseguì l’ordine senza commenti. Gli altri membri presenti in plancia mugugnarono senza avere il coraggio di contraddire il capitano; solo l’altelniana dalla pelle celeste s’infuriò, il volto divenne violaceo e le sue esili antenne frontali si agitarono frenetiche. «Ma sei impazzito?» sibilò con voce tagliente «Sono inseguiti dall’ammiraglia Selzerorg. Ci faremo solo ammazzare tutti.» Dalseney evitò gli occhi della donna, concentrandosi sulla radio bussola. Aldan lo afferrò per un braccio, obbligandolo a guardarla: «Lo fai perché lei è a bordo, vero?» Il capitano non riuscì a mentire, almeno non con gli occhi, anche se provò a cercare un motivo più importante. «Se Larelise… se la principessa cadesse nelle mani dei Selzerorg, l’intera rete telepatica di Regal cadrebbe, e sarebbe la fine.» Aldan sbuffò cinicamente: «Il mio popolo è schiavo dei regaliani da duecento anni, che cosa cambierebbe? Solo il padrone.» Alasdair scosse la testa: «No, credimi sarebbe molto peggio. Per i Selzerorg siamo poco più che bestiame. Il loro potere mentale è così forte che considerano i non telepati come animali.» Ktehla intervenne: «Hai un piano?» «Comunicate alla Mariner queste coordinate. Usate la frequenza reale e il mio vecchio codice.» Il primo ufficiale scosse la testa poco convinta, osservò la radio bussola: «Ma c’è una tempesta al largo del Soiler e valori indicano forti interferenze soniche. «Lo so», rispose il capitano «servirà a nasconderci.»


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«Ammiraglio ricevo un segnale.» Farragut si avvicinò deciso alla console di comunicazione, uno dei pochi sistemi operativi sulla Mariner. «E’ una nave della flotta?» domandò con ansia. Oingler deglutì, il sangue defluì dal viso lasciandolo pallido: «Ebbene!» ripeté seccato l’ammiraglio. «Questo è il codice di riconoscimento.» Oingler era visibilmente imbarazzato: «Forse sarebbe opportuno informare la principessa.» aggiunse passando il NEL a Farragut. L’ammiraglio corrucciò il volto, restando un momento senza parole: «Jolier, scorti la principessa in plancia.» Larelise si svegliò di soprassalto, le sembrava di essersi appena addormentata, invece dormiva da ore. L’azione telepatica sostenuta contro i Selzerorg l’aveva sfinita, ma era la consapevolezza di avere fallito a deprimerla. Seguì il marinaio della sicurezza che la guidò attraverso i ponti, tra rottami e piccoli incendi che l’equipaggio tentava di domare. Era rimasto ben poco dell’ammiraglia regaliana. Galleggiava, in una fuga senza speranza, unica superstite dell’orgoglio di un regno quasi sconfitto. Prima di entrare in plancia sistemò la giubba e i capelli, cercando quel contegno che l’erede al trono doveva infondere nei suoi marinai. «Principessa…» disse Farragut, chinando il capo in segno di sottomissione, mentre gli altri ufficiali presenti scattarono sull’attenti. «Niente formalismi.» disse Larelise, preoccupata di ricevere notizie peggiori, in una situazione già disperata: «Ebbene?» aggiunse spazientita. «Qualcuno ha raccolto la nostra richiesta di soccorso.» rispose seccamente Farragut, porgendole il NEL. La principessa lo afferrò con rabbia, guardando alternativamente Oingler e l’ammiraglio, cercando di capire perché non fosse una buona notizia. «Reale Marina Regaliana… Levornia?» lesse incredula ad alta voce: «Se è uno scherzo non l’ho apprezzato.» «Nessuno scherzo, principessa.» spiegò mestamente Oingler. «Kashyan… Oh, lascia stare» rispose con insofferenza. «La Levornia è affondata sei anni fa e il suo capitano era un traditore.» «Il codice è corretto.» confermò serio l’ammiraglio. «Solo una persona potrebbe usarlo ancora.» aggiunse Oingler, fissandola con occhi colmi di ricordi. «Alasdair!» Larelise pronunciò il nome di suo marito sommessamente, fissando un punto oltre l’orizzonte del mare.


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Sul castello di prua, Dalseney il corsaro scrutò l’orizzonte con il binocolo a infrarossi, sferzato dal vento freddo del nord. Un punto oscuro s’ingrandiva rapidamente. Il marinaio in coffa urlò: «Soffia, dritto di prua!» Alasdair prese il comunicatore: «Issate le nostre insegne.» Sull’albero maestro furono issate le due bandiere: quella corsara, una spada rossa rivolta verso il basso in campo blu come la notte e, subito sotto, quella dei Dalseney, una croce verde in campo bianco. Fissò le bandiere con orgoglio, poi afferrò la drizza del mascone di prua, volgendosi verso il destino. «Posto di combattimento!» ordinò. Sulla Mariner suonò l’allarme rosso. L’equipaggio, nonostante la stanchezza, scattò ai posti di combattimento. Ogni uomo era pronto a compiere il proprio dovere, proteggendo la casa reale, fino alla fine. L’ufficiale di puntamento irruppe in plancia ansante. «Hanno issato la bandiera corsara.» «Armate tutti i pezzi!» ordinò Farragut. «No!» urlò Larelise «Chiamateli e comunicate la nostra resa.» Sulla plancia calò un gelido silenzio. «Principessa, noi non…» l’ammiraglio fu interrotto dal perentorio gesto di Larelise. «Comunicate la nostra resa. E’ un ordine!» Ripeté seccamente la donna, rossa di rabbia. Seppur riluttante, Farragut si voltò verso Oingler annuendo. L’ufficiale obbedì e inviò il segnale di resa. L’Acheron si affiancò alla Mariner. L’imponenza della corazzata regaliana era mitigata dai gravi danni allo scafo e all’armamento. Dall’agile fregata corsara furono sparati i grappini di abbordaggio, cavi magnetici che mantennero le due navi avvinghiate, impendendo alle correnti marine di allontanarle. Il promontorio del Soiler si ergeva a poppa e il cielo plumbeo minacciava ciò che aveva lungamente promesso: le saette disegnavano strane linee e l’aria era elet-


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trica e frizzante addolcendo l’odore salmastro; l’Acheron manovrò trainando la Mariner nell’insenatura naturale. La principessa, seguita da Farragut e Oingler, attraversò la passerella salendo a bordo della fregata. Quando vide Dalseney arrossì per l’emozione, non era diverso da come lo ricordava, sicuramente l’aspetto era meno marziale, portava i capelli lunghi e non si radeva da qualche giorno. Tuttavia furono gli occhi a sorprenderla: sempre profondi, indagatori e colmi di una tristezza infinita. “Alasdair, sei vivo”pensò, invadendo la mente del corsaro, sorrise tendendo la mano, incapace di controllare la marea psichica che l’assalì. Dalseney, affiancato da Ktehla e Aldan, ebbe un identico fremito d’emozione: lei era di una bellezza altera, nonostante la stanchezza e la sconfitta ne segnassero il volto, ricordò i tratti delicati di una gioventù ormai lontana più nello spirito che nel fisico. L’emozione di Alasdair mutò subito in delusione notando il lieve rigonfiamento della vita di sua moglie, si controllò con la proverbiale eleganza del suo casato, ricorrendo al duro addestramento stoico cui fu sottoposto da adolescente. «Principessa…» disse con voce bassa e controllata, eseguendo un perfetto inchino. Ktehla e Aldan chinarono la testa, mostrando un rispetto appena accennato. Gli occhi dell’altelniana fiammeggiarono. Larelise avvertì la chiusura della mente di Alasdair intuendone il motivo, abbassò per un attimo lo sguardo su se stessa e, imbarazzata, avvampò ferita nell’orgoglio. Questa sua debolezza la fece infuriare, così tornò ad assumere un’aria formale. «Siamo vostri prigionieri, capitano?» domandò riassumendo il controllo di sé e un tono ironico. Dalseney elargì un cinico sorriso ai suoi ospiti: «Ho solo risposto alla vostra richiesta di soccorso.» «Se pensate di aiutarci con questa barchetta, contro una corazzata Selzerorg?» disse l’ammiraglio ironicamente, indicando la nave corsara «Allora o siete un pazzo o un arrogante, o entrambe le cose?» La mano di Aldan strinse il calcio di una delle sue pistole: «Attento ammiraglio, non abbiamo ancora deciso se siete nostri amici!» disse con tono tagliente. «Calmiamoci» intervenne Larelise, fissando con disapprovazione Farragut. «Abbiamo problemi ben più gravi. Avete un piano capitano?» terminò rivolgendosi a Dalseney e ignorando volutamente Aldan. «Certamente!» rispose Alasdair «Ma perché abbia successo, dovrete evacuare la Mariner.»


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L’abbandono dell’ammiraglia, orgoglio della marina di Regal, avvenne con ordine. Gli ingegneri delle due navi collaborarono per trasformare la Mariner in un’arma letale coordinati da Alasdair e da Farragut. Quando tutto fu pronto gli ufficiali superiori si riunirono per discutere gli ultimi dettagli. La tempesta si scatenò aldilà dell’alto picco del promontorio, limitandone gli effetti. I dati rilevati dai sensori la qualificavano come ideale per proteggere l’Acheron dal sondaggio mentale del nemico. Tuttavia la forte ionizzazione dell’aria limitava la potenza dei sistemi elettronici della fregata. Pertanto sarebbe stato necessario essere molto vicino alla corazzata per attivarne i motori. Dalseney non poteva delegare a nessuno questo compito, perché il piano era suo e perché non avrebbe chiesto ad alcuno di rischiare la vita al suo posto. Avrebbe comandato a distanza la Mariner a bordo di una lancia, attendendo fino a quando il nemico fosse stato a tiro. Ma non avrebbe investito la sua vita gratuitamente, del resto non era più un gentiluomo ma un corsaro, e il suo equipaggio meritava una ricompensa equiparata al rischio. Così espose i dettagli e il suo prezzo: «… chiedo il condono e la piena cittadinanza regaliana per ogni membro del mio equipaggio.» Li fissò dritto negli occhi, uno a uno. Poteva fidarsi? L’ammiraglio Farragut ricambiò con ostilità malcelata: odiava Dalseney. L’anziano ufficiale lo riteneva un vigliacco e un traditore, accusandolo della morte di sua figlia Darla. Oingler, l’amico d’infanzia, scosse la testa. Era deluso, aveva sempre seguito Alasdair ritenendolo un eroe, qualcuno da prendere come esempio, poi gli eventi lo avevano costretto a ricredersi, e adesso sentirsi imporre un prezzo per la salvezza di Larelise e del regno non lo accettò. «Non ti è rimasto un briciolo d’onore, vigliacco!» Disse con una punta d’odio nella voce. La principessa Larelise, sebbene fosse ancora sua moglie, di fatto lo aveva ripudiato. Evitò lo sguardo penetrante del corsaro, voltandosi imbarazzata; avrebbe voluto spiegargli che aveva provato a convincersi della sua innocenza, ma le prove erano schiaccianti. Pensò che Alasdair, in fondo, aveva quello che si meritava. Invece di cercare le prove per scagionarsi, aveva scelto la guerra di corsa, diventando un rinnegato e mi-


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schiandosi con la peggior feccia di Regal, Alteln e Corithìan. Guardò Aldan di sottecchi e provò gelosia: “Se quella è la donna che si è scelto…” pensò con una smorfia di disgusto. Sentì la bimba muoversi e arrossì: lei era la principessa, aveva dei doveri verso il regno – tentò di giustificarsi per l’ennesima volta – così, alla fine, aveva ceduto alle lusinghe di un altro. Ora era sola, punita da un destino crudele che le aveva tolto anche l’uomo in cui aveva cercato conforto. Sospirò tornando a concentrarsi sulla situazione, c’era in gioco la sopravvivenza del regno, del suo popolo, si fece forza e prese la sua decisione: «Accetto. Hai la mia parola.» Dalseney deglutì rattristato: «Restituirai l’onore alla mia Famiglia?» domandò senza enfasi. Larelise annuì, mentre Farragut grugnì esprimendo tutto il suo dissenso, bofonchiò improperi in direzione del corsaro. Il conte percepì molta amarezza nella principessa, sebbene non possedesse gli stessi poteri telepatici il legame che c’era tra loro era molto forte, ciò gli permise di avvertirne le emozioni; intuì i conflitti che la laceravano, ma non riuscì ad accettare quella gravidanza. Nonostante l’esilio cui era stato condannato, lei non avrebbe dovuto tradirlo, non in modo così plateale, in fondo era ancora sua moglie. «Molto bene», disse alzandosi «torniamo al lavoro.» Farragut e Oingler accettarono loro malgrado, Dalseney era la loro ultima speranza, ma se avessero potuto avrebbero rotto gli accordi, appena in salvo ovviamente. Tuttavia sapevano che l’ultima parola spettava al re e Larelise era molto influente. Del resto quelli erano solo schiavi e rinnegati, gente sacrificabile. Entrambi si scambiarono sguardi d’intesa, alla fine avrebbero convinto la principessa a desistere dal perorare questa causa. Aldan ammiccò verso il capitano con le delicate antenne, in un chiaro abboccamento sensuale. Alasdair annuì senza rispondere, l’altelniana era una donna affascinante, e di una bellezza letale, non solo per le perfette forme fisiche, ma anche perché capace di imbrigliare la mente di un uomo grazie a particolari ghiandole poste nelle antenne, in grado di produrre feromoni se il destinatario ne era degno; Aldan era una donna focosa con l’inclinazione a infiammarsi, la cui gelosia era proverbiale. L’altelniana aveva molti motivi per odiare Larelise e ciò che rappresentava, per anni aveva alimentato la sua passione per Alasdair con quel sentimento: l’aveva tutto per sé e lei lo aveva perso; ma adesso lei era lì a pochi centimetri, e con l’istinto di una donna sentì riaccendersi in la passione. Si domandò se l’amasse davvero ancora, paragonandolo a ciò


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che provava lei, alla sua relazione con Alasdair concluse che forse, tra loro, c’era solo un’intesa sessuale. Improvvisamente avvampò di rabbia, tamburellò con le dita sul calcio della pistola. L’interfono gracchiò. «Capitano, la Svedta sta doppiando il promontorio.» «Attivare il disturbatore», ordinò Alasdair con decisione «oscuriamone le menti.» Provò a sciogliere la tensione con una battuta, tristemente ironica: «Signori, siete tutti invitati al ballo.» Nessuno rise, gli ufficiali della reale marina regaliana avrebbero preferito morire, piuttosto che chiedere aiuto a un rinnegato; ma a bordo della Mariner c’era la principessa e non avrebbero mai rischiato che cadesse in mano alla Coscienza Selzerorg: il regno di Regal sarebbe stato perduto. L’oscurità della sconfitta incombeva minacciosa. «Aldan», disse Dalseney, trattenendo l’altelniana delicatamente per un braccio «se fallissi proteggi Larelise, con la vita se necessario.» La donna, si divincolò con sensualità, lo fissò con i suoi profondi occhi neri, inebriandolo di profumo. «Lo farò», rispose tagliente «perché sei il mio capitano e… per te solo.» Si allontanò decisa, lanciando un’occhiata in tralice a Larelise che, a sua volta, li fissava incredula “Alasdair, è una schiava come hai potuto…” pensò con ribrezzo. Dalseney tentò di parlarle ma lei si allontanò, mostrando tutto il suo disgusto, doveva organizzare i telepati per schermare la mente di suo marito dai Selzerorg, altrimenti il piano sarebbe fallito. Il corsaro non provò a trattenerla, raggiunse il turbolift a capo chino. Salendo in coperta usò l’energia mentale rimastagli, cercando di contattare sua moglie “Se tu mi avessi dato il beneficio del dubbio”. L’imbarcazione di soccorso fu rapidamente approntata. Dalseney salì a bordo, sistemandosi alla console di manovra. «Lancia a mare!» ordinò. «Capitano», rispose Ktehla al comunicatore, cercando di mascherare l’emozione «buona caccia.» La lancia prese il mare allontanandosi lentamente dallo scafo della fregata; senza rispondere Alasdair annuì sorridendo amaramente, chiuse la comunicazione e impostò la navigazione. Pilotò raggiungendo la gondola di dritta della Mariner, ormai nave fantasma. Osservò l’Acheron, la sua nave, la sua casa degli ultimi cinque anni, allontanarsi aggirando il Soiler da est per entrare nella tempesta e nascon-


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dersi, adesso era di nuovo solo, come tanto tempo fa. Scacciò quel ricordo con forza, rabbrividendo.


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Aldan guidò il gruppo dei telepati nella stiva, al centro dello scafo dell’Acheron, digitò il codice e le porte si aprirono con uno sbuffo pneumatico. I regaliani entrarono guardandosi attorno meravigliati. Videro merci di ogni tipo e valore: dall’oro e preziosi a costosi ricambi elettronici, armi e spezie. Era un vero tesoro. «Questo è il luogo più sicuro dell’Acheron.» spiegò l’altelniana. «Ci credo», disse un telepate «meritereste la forca!» Aldan si atteggiò in un sorriso cinico, che non alterò la perfezione della sua bocca. «Siete molto bella, per essere una schiava» disse Larelise per provocarla. Aldan tornò seria, portando d’istinto la mano alla pistola: «Ho ucciso per molto meno, principessa.» rispose sibilando e trattenendosi a stento. Tutti i regaliani scattarono verso la corsara; Larelise alzò un braccio bloccandoli. «Deve avere indubbie qualità per essere riuscita a infilarsi nel letto di un nobile regaliano» aggiunse la principessa con cattiveria. «Quali siano, è ovvio.» Il cuore di Aldan perse un battito, conosceva la differenza sociale tra lei e Alasdair, anche ora che lui aveva perso tutto. Le parole di Larelise le rammentarono che i nobili decaduti dimenticavano in fretta e, se lui fosse tornato a essere il conte di Dalseney, forse l’avrebbe scacciata con lo stesso disprezzo che leggeva sul viso della principessa. “No!” pensò con forza “Lui mi ama davvero”, ricordò la promessa fatta ad Alasdair, deglutì prendendosi qualche secondo per controllare la sua rabbia e poi diede la sua stoccata. «Perché non ha annullato il matrimonio con Alasdair.» disse socchiudendo gli occhi. Larelise arrossì: «Io… io lo amavo ma, ma avevo dei doveri.» balbettò colta alla sprovvista. «No!» incalzò Aldan «Lei ha sperato che Alasdair si facesse ammazzare. Liberandola naturalmente, senza dover prendere una decisione che molti avrebbero giudicato di comodo.»


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Larelise impallidì dalla rabbia: «Come osi, schiava! Posso farti torturare per la tua impudenza!» «Io invece vi proteggerò», rispose l’altelniana, mantenendo un tono controllato e tagliente «perché l’ho promesso al mio capitano e al mio uomo.» La corsara fece per uscire, poi si voltò: «Sarò stata anche una schiava, ma lui mi ha ridato la libertà e non la cambierei con la vostra.» Le porte si chiusero, lasciando Larelise immobile a fissarle piena di dubbi, rabbia e incertezze. Dalseney occupò l’attesa ricontrollando i comandi di connessione tra la lancia e i sistemi a bordo della Mariner. Dopo un paio d’ore notò sul radar apparire il segnale della Svedta; adesso doveva solo pazientare che fossero a tiro. Lentamente, senza accorgersi scivolò di nuovo nella follia: all’inizio gli sembrò di avvertire solo un brusio. Il cuore accelerò i battiti, il respiro si fece pesante. Dalseney tremò consapevole che una nuova crisi era vicina. Il brusio degenerò in urla, lamenti e accuse, invadendo del tutto la sua mente. Confidò nella protezione dei telepati, cercò di convincersi che fosse opera della potenza mentale dei Selzerorg, ormai molto vicini. Si concentrò sulla missione, impegnò il cervello come aveva appreso fin da ragazzo con l’addestramento stoico, cercando di erigere un muro psicologico a difesa del suo io interiore. Il tremendo sforzo lo fece sudare copiosamente, staccò gli occhi dalla console sorprendendosi a fissare la paratia di prora, imbrattata da un fluido rosso. Lo toccò spargendolo sulle dita “Mio Dio è sangue” pensò con orrore. Le sfregò con disgusto, cercò di pulirle sugli abiti, ma il sangue continuava a sporcargli le mani. «Nooo!» urlò inorridito «Non e’ colpa mia!» Il panico l’assalì, le difese mentali si sgretolarono e la sua mente scivolò nell’incubo. Sulla fregata corsara Larelise sentì la mente di Alasdair vacillare, focalizzò quelle terrificanti emozioni, sepolte nel subconscio dell’uomo che emergevano con furia, come onde di un mare in tempesta. La principessa provò la stessa sofferenza di quel passato che suo marito riviveva tra allucinazioni e sensazioni fisiche reali. La donna si sentì soffocare dal sangue che vedeva, e dall’orrore che provava attraverso la mente di Alasdair.


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“Capitano può far cessare questo gioco infernale.” Ascoltò la stessa voce mentale, maligna e subdola che la Dalseney aveva sentito durante la prigionia. «No! Non vi darò mai la chiave per entrare a Regal.» rispose con un urlo carico d’angoscia. Solo adesso Larelise comprese che la mente di suo marito fu manipolata e sottoposta reiterati supplizi psichici nelle prigioni Selzerorg; per questo motivo non aveva mostrato tracce di tortura fisica; quella violenza era sepolta nel suo cervello. Sarebbe stato sufficiente credere alle sue parole durante la corte marziale, e analizzarlo in profondità. La principessa scosse la testa sgomenta, questa era la sua colpa, questo il vero tradimento, operato nei confronti di un uomo lasciato solo. I telepati le inviarono sostegno psichico, quella distrazione stava indebolendo la struttura di mascheramento telepatico. Larelise riprese forza e si concentrò di nuovo sulla rete. Una nebbia rossa avvolse Dalseney. Scattò in piedi afferrandosi la testa, vittima di un dolore lancinante. La voce nella testa lo torturava. “Dove sono i rilevatori, le prometto misericordia capitano. Darò a tutti voi una morte rapida e indolore.” «Maledetto!» Urlò, incapace di reagire. Una supplica superò la cacofonia di voci urlanti nel suo cervello, in una straziante richiesta di aiuto. Conosceva quella voce era Darla Farragut: «Diglielo per pietà, falli smettere!» L’amava come una sorella e pianse per l’impotenza che provò, costretto a guardare, ad ascoltare le sue implorazioni; doveva scegliere tra lasciarla soffrire o il rivelare la rete di difesa di Regal. Scosse la testa appoggiando le mani sul vetro che lo separava da lei e dal sangue che lo macchiava: quanto desiderò di morire, pregò gli dei di ucciderlo ma non accadde, invece guardò di nuovo quel bisturi affondare nella sua carne e lei urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Allora qualcosa in lui si spezzò, accasciato e singhiozzante sulla parete di vetro aspettò che le urla di Darla cessassero e fu una lunga attesa. In preda all’allucinazione del ricordo, vivido, implorò urlando: «Perdonami darla! Perdonatemi tutti, per carità divina! Invece sentì ancora la sinistra risata del suo aguzzino. Larelise, telepaticamente, fu colpita dall’intensità di quella manifestazione psichica. Un brivido la scosse per tutto il corpo. Scaricò in sé quell’energia maligna, consapevole che Alasdair era impazzito; adesso non aveva più alcun dubbio: a suo marito era stato riservato un destino peggiore della morte. Aveva portato dentro di sé questo demone per anni


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e l’ingiustizia, l’ingratitudine subita dal suo popolo aggravata da chi avrebbe dovuto amarlo lo avevano precipitato nella pazzia. Pregò perché si salvasse, pregò di avere il tempo per rimediare. La reazione del capitano mise in allarme la plancia dell’Acheron, in contatto radio con la lancia. «Per Cathrim», esclamò Ktehla, annichilita da tanta sofferenza «quei demoni sono vicini, bisogna fare presto.»


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Sulla plancia della Svedta regnava il silenzio. Non vi erano finestre e la luce era tenue, arancione. I Selzerorg si muovevano con efficienza, rapidi e concisi; ognuno sapeva esattamente cosa fare e quando. La comunicazione avveniva totalmente per via telepatica, la mente di ognuno concorreva a formare la coscienza dell’unità navale. La gerarchia, puramente piramidale, aveva nel suo vertice la connessione con un altro livello di unità, fino a formare la Coscienza Globale Selzerorg. I radar avevano individuato la corazzata regaliana, e i loro sensori a lungo raggio li avevano informati dei gravi danni subiti, e dell’impossibilità per il nemico di reagire. Tuttavia l’ordine era di catturare la principessa Larelise che, durante il fallito attacco, aveva mostrato doti cerebrali notevoli. La Coscienza Globale voleva studiarne la mente per scoprire il potenziale telepatico della sua razza e stroncarne l’evoluzione, prima che potesse diventare una minaccia. Così manovrarono la Svedta con cautela, cercando di avvicinarsi il più possibile per abbordarla. Anni di guerra li avevano convinti a non fidarsi dei regaliani, abili a ordire trappole letali. Fisicamente i Selzerorg non erano molto diversi dai loro nemici: erano solo più deboli e molto, molto pallidi. Esangui. Sopperivano a questo difetto con la potenza mentale, cui dedicavano tutte le loro energie. La personalità dei nuovi membri era cancellata, fin dalla nascita; ogni Selzerorg era connesso alla coscienza della sua unità e, da essa, alle coscienze superiori, fino a quella Globale. Una volta adulto la dipendenza dalla connessione era tale che, l’interruzione prolungata, ne provocava la morte. Nel frattempo, Dalseney, sopraffatto dalla pazzia e dalla marea di sofferenza, percepì i richiami mentali di sua moglie. La parte razionale del suo io interiore, rattrappito in un angolo della mente, cercò avvertirla, conscio dell’orrore e del pericolo che correva. «No!» urlò «Larelise non guardarmi, non adesso». Aldan sulla plancia dell’Acheron ascoltò attraverso la radio il delirio di Alasdair e pregò, nascondendo una lacrima: «Shakaree aiutalo.» “Devi attivare la Mariner” insistette la principessa.


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Larelise madida di sudore soffriva, il dolore provato le causò convulsioni sempre più frequenti, consumando la sua essenza vitale. Raccolse la forza mentale dei telepati connessi, sforzandosi di mantenere lucida la mente del marito, mascherandola ai Selzerorg. La Svedta era vicinissima, presto avrebbe attaccato. A bordo dell’Acheron trattennero il fiato, se il muro psichico avesse ceduto prima del tempo, il piano sarebbe fallito condannandoli a morte certa. La Coscienza dell’unità Selzerorg, scandagliò telepaticamente di nuovo la Mariner, cozzando contro l’energia mentale regaliana. Se lo aspettavano, tuttavia non capivano perché il nemico non reagisse tentando la fuga o attaccando. Aumentarono la pressione psichica. “Attiva il comando a distanza”, insistette Larelise; conscia di essere oltre la soglia delle sue capacità e di quelle del suo gruppo, forzò la mente di suo marito. Il corsaro aprì gli occhi, la nebbia rossa lo avvolgeva ancora; sulla console lampeggiava il segnale computerizzato: la nave Selzerorg era a tiro. Dalseney si mosse verso di essa con grande fatica, ansimò a causa dell’enorme volontà impiegata per raggiungerla. Improvvisamente le voci nella sua testa tacquero, riuscì a pensare a Larelise e alla bambina che cresceva in lei, emergendo dalla follia: «All’inferno!» Esclamò con odio profondo. Premette il pulsante: la Mariner tornò in vita. Con un urlo di dolore la principessa svenne, il contraccolpo psichico lasciò i suoi telepati confusi e semicoscienti. L’unità Selzerorg riuscì a perforare il muro telepatico regaliano. Avvertì una sola presenza, vicinissima e ne percepì tutto l’odio che provava - All’inferno! - finalmente compresero quale fosse la trappola. L’ordine di invertire i motori, creando nel medesimo tempo una sfera energetica, arrivò troppo tardi. La Mariner, in rotta di collisione, fu solo rallentata. Sulla Svedta furono attivati i negromanti: unità Selzerorg in grado di connettere la mente alla fonte di energia della nave. Usarono tutta la potenza disponibile per creare e rinforzare la sfera di protezione. La massa della corazzata regaliana spezzò le loro menti mandando in frantumi la sfera, e proseguì come un gigantesco proiettile; colpì la Svedta nella sezione di maestra, sfondandone la murata. Per un istante le navi sembrarono fondersi. Gli scafi, accartocciandosi l’uno sull’altro, deflagrarono con un’enorme fiammata.


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L’onda d’urto proiettò la lancia dei corsari all’interno dell’insenatura. Dalseney, sbattuto come una marionetta, urtò la paratia con la testa. Una chiazza di sangue si allargò sotto di lui; con l’ultimo barlume di coscienza pronunciò un nome: «Larelise.»



FERMATA D’AUTOBUS Genere Horror Anno 2005



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Alfred Hopkins tolse gli occhiali dalle spesse lenti e si grattò la fronte, proprio in mezzo ai brucianti piccoli occhi, appena sopra la radice del buffo naso a patata. Con il volto eccessivamente rotondo assomigliava vagamente a un porcellino. Con Malignità i suoi dipendenti lo avevano soprannominato “Il porco” soprattutto le donne che spesso si sentivano osservate con un desiderio tale che, definirlo poco elegante, era un eufemismo. Lavorava da ore a un importante progetto e per distrarsi decise di punzecchiare la sua segretaria. «Signorina Foster venga nel mio studio.» Pronunciò quelle parole in tono supponente, convinto di parlare a un’impiegata inefficiente e con l’intenzione di farglielo capire. L’architetto Hopkins era un uomo di successo, e per questo aveva sacrificato tutta la sua umanità. Senza famiglia, non usciva con gli amici – ma ne aveva mai avuti? – nessun hobbie o passione, tranne che per il denaro e il potere che ne derivava. Considerava i suoi impiegati alla stregua degli strumenti del suo lavoro: utili, e sostituibili quando trovava di meglio. Ogni azione o scelta era presa con il solo scopo di aumentare ricchezza e potere; così, gli uffici della Hopkins Inc. erano arredati con pregevole mobilio in legno massello, funzionali e impeccabili, ma solo perché davano prestigio al suo titolare. All’ingresso era posto un quadro in ottone, su cui era inciso il motto aziendale: Silenzio e Impegno Sono virtù del lavoro Lavorare per Hopkins era un male necessario, almeno fino a che la fortuna non ti sorrideva, permettendoti di licenziarti. Jane rispose a bocca piena: «Subito signore.» Alzò gli occhi al soffitto vittima di uno strisciante disagio e, visibilmente seccata, pensò “Corri Jane, il porco chiama”. Era sola, i suoi colleghi avevano lasciato l’ufficio da un paio d’ore; purtroppo il suo incarico le imponeva orari più tirannici, sopportando spesso il cinico divertimento di Hopkins. Guardò l’orologio a pendolo, di fronte alla scrivania, rendendosi conto di essere in ritardo per l’appuntamento con Jeff, il suo attuale accompagnatore.


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Si fermò un secondo davanti alla porta e inghiottì a fatica l’ultimo frammento di biscotto; sbatté la gonna, togliendosi la piccola soddisfazione di lasciare le briciole davanti allo studio. Si stampò il più falso dei sorrisi ed entrò. «Desidera signore?» Hopkins la squadrò indugiando a lungo sullo spacco della gonna di Jane; la donna, non era certo un’educanda, si sentì fortemente imbarazzata e tentò, inconsciamente, di coprirsi parzialmente con la mano. L’architetto sorrise emettendo un leggero grugnito. “Maiale” pensò Jane. «Voglio la relazione dell’ufficio tecnico comunale. Quella che le ho chiesto di compilare ieri.» disse l’architetto, con una punta di sadismo nella voce, sapeva di non averla mai chiesta. Jane strine i pugni lungo i fianchi: «Ma, signore, lei mi aveva chiesto di rivedere l’archivio…» «Si-gno-ri-na», scandì Alfred in tono saccente e interrompendola «mi sta dando del bugiardo?» Fece ruotare la poltrona di pelle Frau, mettendo in mostra il pingue ventre: «C’è in gioco un appalto da seicentomila dollari e lei mi parla dell’archivio? Lavori stanotte se necessario!» La segretaria arrossì, inghiottì il proprio orgoglio, rinunciando a una risposta a tono. Tuttavia tentò di prendere tempo. «Mi scusi signore, ma oggi è Halloween… ho un appuntamento per questa notte.» “Halloween?” pensò Alfred che scosse la testa sbuffando: «E cosa farà questa notte eh?» domandò maliziosamente. Jane si sentì spogliata da quello sguardo lascivo, portò istintivamente il braccio al petto; arrossì di rabbia per questa sua reazione infantile. «Non posso proprio rinunciarvi.» rispose insistendo ed evitando l’inopportuna domanda. Hopkins si batté una mano sulla coscia flaccida, rise e aggiunse con cinica ironia: «Certo si diverta. Con comodo dopodomani mattina mi porti quella relazione.» «Sì, certamente.» rispose Jane, fingendo di non cogliere il sarcasmo del suo capo. Chiudendosi la porta alle spalle rabbrividì e pensò che era il momento di cercarsi un altro impiego. Era decisa ad andarsene al più presto, prima che Hopkins ci ripensasse e anche perché il disagio era diventato paura. «Se perderò l’appalto dovrò riconsiderare il personale!» Urlò Hopkins, godendosi quella sensazione di potere: incutere timore nei suoi dipendenti.


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La malevola frase raggiunse la segretaria mentre si infilava il cappotto. La donna reagì mostrando la lingua in direzione dell’ufficio: “Stai attento a non schiattare… Porco” pensò con disprezzo. “Halloween” ripensò Alfred mentre inseriva un nuovo oggetto CAD nel disegno sul monitor, “Una festa per i morti, festeggiata dai vivi…”. Una smorfia di disgusto deformò il paffuto volto dell’architetto. Attivò il comando di rendering e l’elaboratore diede al disegno una consistenza tridimensionale, “Odio Halloween!” pensò infine con rabbia.


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Un’ora più tardi raccolse i documenti sparsi sulla scrivania e li infilò, quasi con rabbia, nella pregiata borsa di pelle; avrebbe proseguito il lavoro a casa. Voltò la testa verso la finestra e osservò la strada, si accorse che la notte era più buia e tetra del solito, una pioggia fine, ma intensa, aveva reso lucide strade e palazzi, lasciando i contorni della città indefiniti. Rabbrividì. D’istinto posò lo sguardo sull’orologio digitale, regalatogli dal sindaco per i suoi vent’anni di lavoro: “Sono un uomo di successo” pensò. Quanto erano cambiate le cose dai tempi del liceo, quando era solo l’impacciato e grasso Al, adesso aveva un conto in banca a sei zeri e in città nulla si costruiva senza che il suo parere fosse ascoltato. Prese cappotto e cappello e scese in garage. Pieno di sé attivò il telecomando della sua lussuosa BMW. Seduto al posto di guida premette il pulsante di avviamento: le luci del quadro si spensero e il motore emise un gemito agonizzante. Alfred guardò incredulo il cruscotto e provò di nuovo l’avviamento: niente, l’auto sembrò solo un costoso oggetto inanimato. “Grande!” pensò verde di rabbia, “Un’auto da ottantamila dollari e la centralina si è fottuta”. Scese sbattendo la portiera, avviandosi all’uscita. Si voltò solo una volta, e osservò l’auto come se gli avesse mancato di rispetto. In un secondo segnò la fine di quel gioiello: si sarebbe vendicato facendola demolire e questa volta avrebbe comprato una Mercedes. Questo pensiero lo consolò. Giunto in strada la pioggia lo colpì in volto – considerava l'ombrello solo una scocciatura – l’umidità gli penetrò nelle ossa; s’infagottò nel cappotto e con il suo passo un po’ meccanico raggiunse la fermata dell’autobus, commentando risentito ad alta voce: «Tempo ideale per Halloween!» E la pioggia, prendendolo in parola, aumentò d’intensità. I lampioni creavano strisce di fredda luce spettrale sulla strada semideserta. Un’auto si fermò al semaforo, la musica alla radio attirò il suo interesse, mentre batteva i piedi per il freddo. Era un vecchio successo degli


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anni settanta, lo riconobbe subito anche se gli giunse alle orecchie come ovattato: Baker Street di Gerry Rafferty. Il ricordo riaffiorò nitido e improvviso, come fosse stato coperto da un pudico velo d’imbarazzo, ora strappato dalle note di una canzone dimenticata. Anche allora era una piovosa vigilia di Halloween, Al deglutì cercando quel coraggio che un coniglio invidia a un leone: voleva invitare Sarah, la più bella ragazza che avesse mai visto, almeno per lui, alla festa di quella sera. Molto spesso l’aveva spiata fantasticando sul suo desiderio di possederla. Strofinò le spesse lenti con il fazzoletto, prese fiato tirando la pancia indietro meglio che poteva. «Ciao… Sarah.» salutò arrossendo. «Oh, Al… .» rispose la ragazza, nascondendo il piacere di leggere l’imbarazzo sul suo volto. «Bella giornata, vero?» proseguì Al, mentre Sarah sgranò gli occhi. «Ehm… per, per essere Halloween intendevo.» «Ah!» Annuì Sarah, elargendogli uno splendido sorriso, quel ragazzo impacciato le suscitava tenerezza. Vederla sorridere diede al giovane il coraggio di provarci, pur rimanendo l’impacciato Alfred. «Sarah io mi domandavo… anzi volevo domandarti.» «Al smetti di balbettare e tremare.» Hopkins si concentrò: «Sì ecco volevo…» «Volevi cosa, palla di lardo!» Don Siegle l’interruppe con tono ironico e carico di disprezzo. I due bulli che lo accompagnavano risero con sguardi maligni. «Don ti prego.» disse Sarah preoccupata. Lo spaccone la ignorò: «Allora ciccione cosa vuoi dalla mia ragazza?» Sarah aprì la bocca per protestare ma Don la zittì con un’occhiata: «Sto aspettando ciccione.» Al guardò la ragazza colmo di vergogna, lei abbassò gli occhi conoscendo già quel finale. L’autobus giunse come sbucato dal nulla e spezzò quel momento di tensione; Sarah salì senza una parola. Sedette vicino al finestrino: Al l’osservò partire conscio di tutta la sua codardia. «Non ci riprovare ciccione!» Aggiunse Don, torcendogli un orecchio.


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Un forte rumore di ferraglia riportò Hopkins alla realtà, sbuffò pensando “Odio Halloween!”. Si volse in direzione di quel fracasso e vide la sagoma di un vecchio autobus avvicinarsi. La luce dei fari lo abbagliò per un attimo, si schermò gli occhi con la mano e, prima di quanto supponesse, il soffio pneumatico dell’apertura delle porte lo sorprese. «Allora signore, vuole salire?» disse il conducente con voce un po’ gracchiante. «Sì, sì, ora salgo» rispose Alfred, afferrò il sostegno d’alluminio consunto e si issò a bordo. «C’è crisi nei trasporti o è un modo per festeggiare la notte delle streghe?» aggiunse ritrovando la sua vena sarcastica, osservando il fatiscente mezzo. L’autista scoppiò in una sonora risata e accelerò: l’autobus ripartì con un sobbalzo. L’architetto perse l’equilibrio sbattendo un ginocchio contro il sedile di legno “Dannazione!” imprecò tra sé. Sedette vicino al finestrino, fuori il buio era così pesto da risultare angosciante; il ritmico sussultare dell’automezzo ebbe un effetto narcotico. Senza accorgersene appoggiò la testa al vetro, e si appisolò. Con una brusca frenata l’autobus si fermò. Alfred si svegliò, tentò di pulire il finestrino con il dorso della mano sinistra, senza riuscire a renderlo trasparente. Le porte si chiusero e il vecchio automezzo ripartì. Hopkins osservò disgustato il volto del passeggero che si reggeva ai sostegni guardandosi intorno: era pieno di rughe, la pelle formava un numero impressionate di pieghe. L’odore rancido e dolciastro gli colpì le narici. Prese il fazzoletto coprendosi naso e bocca. L’uomo sorrise e si sedette proprio accanto a lui, nonostante il pullman fosse vuoto. «Pensi ancora alla piccola Sarah?» domandò improvvisamente il barbone. Il fiato, se possibile, puzzava ancora di più. Alfred trattenne un a stento un conato di vomito: «Come? Come dice?» L’uomo, con sguardo complice, sbatté la mano sulla pingue coscia dell’architetto: «Eddai Al, ammettilo. Vecchio sporcaccione.» e scoppiò in una sguaiata risata.


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Hopkins scrutò il barbone. Si domandò chi fosse costui, cosa sapeva di Sarah. Strinse gli occhi, dietro le spesse lenti. Quel volto non era sconosciuto, certo era stravolto dalle rughe eppure aveva un che di familiare. Improvvisamente deglutì. Spalancò la bocca incapace di pronunciare una sola parola. «Finalmente Al, ci sei arrivato» disse il barbone ruttando. «Ti facevo più intelligente.» «Ma è… impossibile!» Esclamò Alfred. Il ricordo irruppe nitido nella mente di Hopkins, come una saetta, e riportò l’architetto a quel maledetto trentuno ottobre millenovecentosettantotto. «Ti avevo avvertito palla di lardo!» Esclamò Don, picchiando con forza le dita sulla spalla di Al. Il giovane Hopkins arrossì staccandosi da Sarah. La musica s’interruppe e le altre coppie smisero di ballare, disponendosi a cerchio. «Ehi Don, è mascherato da vampirone» disse Samuel, uno degli amici del bullo. «Buuuuu.» Don rise sguaiatamente: «E i vampiri vanno palettati con il frassino. Giusto?» «Giusto, ma per il nostro vampirone lo faremo dove non batte il sole.» aggiunse l’altro spaccone. Alfred sudò freddo. Non avrebbe sopportato quest’umiliazione. Si rese conto di odiare Don con tutto se stesso; se ne avesse avuto il coraggio lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani. Con un’insospettata rapidità diede una spinta allo spaccone e corse verso l’uscita. Pensò che forse si sarebbero accontentati di vederlo fuggire, o forse avrebbe raggiunto la fermata mentre l’autobus sopraggiungeva, riuscendo a scappare. Non fu fortunato. I tre bulli lo raggiunsero proprio alla fermata. «Tenetelo!» Ordinò Don. Samuel e Frank afferrarono Al e il bullo si avvicinò con sguardo cinico, pregustando quella sensazione di potenza. Al si sentì perduto, Sarah e tutti gli altri partecipanti alla festa erano giunti, e avrebbero assistito al suo annientamento. Sentì crescere l’odio, dal profondo del cuore, per tutti loro, sapeva che nessuno sarebbe intervenuto in suo aiuto. Udì il rombo di un motore, il pullman stava arrivando. Hopkins si dimenò, Don gli afferrò la cintura dei pantaloni, armeggiando con la fibbia.


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«Maledetti! Lasciatemi!» Urlò. L’autobus era vicino. Al si liberò della stretta di Samuel e si girò verso la strada, si sorprese a pensare che forse poteva vendicarsi: “Se riuscissi a spingerlo un momento prima che l’autobus passi…”. «Sta fermo palla di lardo!» Urlò Don. L’autobus era a poche decine di metri, l’autista suonò il clacson notando il tafferuglio. Al si liberò anche di Frank e, allo stremo delle forze ma spinto dall’odio e dalla disperazione, diede un pugno a Don che barcollò sorpreso. Terrorizzato dalla possibile reazione del bullo, Al, conscio dell’autobus ormai prossimo, gli allungò un calcio sullo stinco e lo urtò con la spalla, come se cercasse di farsi largo per fuggire. Don perse l’equilibrio finendo in strada, proprio mentre il pullman sopraggiungeva: lo colpì in pieno, proiettandone il corpo cinque metri più in la. Sarah e gli altri ragazzi gridarono sorpresi e spaventati, poi il silenzio calò gelido. Al corse verso Don, incredulo di essere riuscito a vendicarsi. Lo spaccone gli puntò contro l’indice e spirò. Il ricordo svanì, Alfred fissò il barbone: «Tu sei morto…» disse flebilmente. Don fece una smorfia: «Beh, sì» allungò la mano facendola ondeggiare nell’aria. «Quasi.» «Oh mio Dio, ma cosa sto dicendo» Al si passò il fazzoletto sulla fronte. «Autista, scendo alla prossima fermata.» aggiunse alzandosi. Don gli mise la mano sulla spalla, costringendolo a sedersi: «C’è ancora tempo per la tua fermata.» Hopkins tremava visibilmente: «Che cosa vuole?» «Adesso che hai ricordato? Nulla che non sia già a tuo debito.» spiegò Don con un sorriso maligno. «Lei è pazzo! Tu sei pazzo!» Esclamò l’architetto, alzando la voce «Autista c’è un pazzo qui.» L’autista esplose in una risata sardonica. Alfred impallidì, convinto di essere vittima di una banda di criminali: «Volete soldi? Ne ho molti e posso pagare…» Don scosse la testa: «Il tuo debito non ha prezzo.» disse in tono serio. Hopkins cambiò tattica e provò ad assecondare il barbone: «Fu un incidente Don. Io volevo solo scappare, non ucciderti.» accennò un sorriso, cercando comprensione.


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«Non mentire ciccione!» rispose con rabbia l’ex bullo. «So che lo hai fatto di proposito. Tu mi odiavi, anche se riconosco che ne avevi il motivo» aggiunse tornando a un tono di voce più ironico. «Ma dimmi, cosa ne è stato della bella Sarah? L’hai sposata?» Alfred deglutì: «Io… Io non lo so! Lei mi ha lasciato.» Don afferrò il bavero del cappotto di Hopkins, apprezzando al tatto la ricca fattura: «Non farmi arrabbiare palla di lardo. L’hai lasciata tu, nelle mani di quei delinquenti che l’hanno violentata, perché sei davvero un codardo.» Hopkins provo un senso di nausea. La sua mente lottò contro la forza che scavava come una pala riportando alla luce l’atroce ricordo, da dove lo aveva sepolto con tanta cura. Era un caldo pomeriggio estivo, Sarah era sdraiata a occhi chiusi sul plaid colorato e dalla trama scozzese. Il bosco fuori città era sembrato, ai due ragazzi, il luogo più tranquillo per un picnic. Una brezza leggera giunse improvvisa, e sollevò l’angolo della gonna di Sarah, scoprendone la coscia fino all’inguine. Al la guardò pieno di desiderio. Iniziò a sudare e, come in trance, allungò la mano accarezzandone la pelle vellutata. Sarah scattò in ginocchio, fissandolo sorpresa: «Al, ma come ti permetti.» Il giovane si guardò intorno travolto dal forte desiderio sessuale, “Nessuno ci vedrà e lei lo vuole, fa solo un po’ la preziosa” pensò. Si avvicinò senza parlare. Sarah spaventata lesse la bramosia negli occhi del ragazzo: «Al mi fai paura.» disse alzandosi. «Andiamo so che lo vuoi.» rispose Hopkins. Il giovane afferrò la ragazza stringendole un seno. Lei reagì sferrandogli un calcio al basso ventre. Al emise un urlo strozzato e si accasciò in ginocchio. «Sei solo un porco!» Urlò Sarah. Senza pensarci si allontanò,era sconvolta e voleva tornare a casa. Percorse solo poche decine di metri e improvvisamente cinque uomini, sbucati dal nulla, la circondarono. Puzzavano di alcool: «Ehi bella, puoi avere di meglio di quel ciccione.» disse uno di loro. Il cuore della ragazza accelerò in preda al terrore. Fece un passo indietro. Due uomini la afferrarono alle spalle, lei gridò: «Al, aiuto!»


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Hopkins stava strisciando dietro a un cespuglio vittima di una paura anche peggiore. Uno degli uomini lo afferrò per il bavero: «Vieni, non vuoi goderti lo spettacolo?» Al deglutì pallido e tremante. Gli uomini trascinarono a terra Sarah, strappandole i vestiti; lei urlò con quanto fiato avesse il nome di Hopkins e la sua richiesta di aiuto. L’uomo fissò il ciccione e sorrise: «Ti piacerà!» Ad Al piacque davvero. Il ricordo svanì, lasciando l’architetto impaurito ed eccitato: «Avrei dovuto farmi ammazzare?» Esclamò con voce stridula «L’avrebbero violentata ugualmente.» «Già, meglio guardare…» commentò con amarezza Don.


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L’autobus si fermò, le porte si aprirono e una donna salì. Era emaciata, pelle e ossa, indossava jeans e una felpa con cappuccio. «Vuoi vendetta?» domandò Alfred al barbone sibilando. «Chi? Io?» rispose Don «No non io, lei» aggiunse scuotendo la testa. «Ciao Sarah.» La donna si avvicinò e abbassò il cappuccio. Il volto era così magro da sembrare un teschio, contornato da fini capelli stopposi, dal colore indefinito. La pelle era disgustosa a causa delle numerose pustole. Sarah era solo l’ombra della bella ragazza di un tempo. Hopkins distolse lo sguardo. «Ti rimorde la coscienza Al?» — domandò Sarah. «Io non capisco. Che cosa significa tutto questo?» «Leggi!» La donna tese un quotidiano ad Alfred. L’architetto guardò la prima pagina, notandone la data: SCOMPARSO L’ ARCHITETTO HOPKINS La polizia indaga negli ambienti della malavita «Ma questo è il giornale di dopodomani.» disse fissando alternativamente Don e Sarah. «È il tuo futuro.» rispose Sarah. «Ascolta Sarah, posso aiutarti. Ho molto denaro, pagherò le tue cure.» propose Hopkins, visibilmente spaventato. «È tardi. Sono morta tre anni fa. Overdose. Sai la depressione per la violenza mi ha fatto cadere vittima della droga. Ho passato la vita tra comunità, carcere e prostituzione.» «Ed è colpa mia?» urlò Alfred alzandosi. «Siedi!» ordinò Don. «Ho sprecato la mia vita», disse Sarah «e sto pagando, ma ho chiesto al mio carceriere che anche chi ne è stato la causa pagasse.» «E tu, mio caro ciccione», intervenne Don «sei gretto, avaro, egoista e lascivo, oltre che vigliacco.» L’autobus si fermò, le porte si aprirono e una strana luce rossa riverberò all’interno.


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Sarah e Don afferrarono per le braccia Alfred, invitandolo a seguirli. L’architetto tentò di resistere ma si rese conto che il suo corpo non ubbidiva, anzi docilmente seguì i suoi carnefici. I tre scesero dal pullman, Alfred vide le fiamme agitarsi alte ed eterne, allora non si trattenne e urlò, pazzo di terrore.


Fermata d’autobus

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Un uomo solo, nell’alba fredda e desolata, camminava lungo la strada deserta della city. Un foglio di giornale, portato dal vento, si fermò contro la sua gamba. Senza la minima emozione lo raccolse: era datato sette novembre duemilanove, sorridendo con maligna ironia ne lesse il titolo: TROVATO IL CORPO BRUCIATO DELL’ARCHITETTO HOPKINS. La polizia segue la pista del regolamento di conti. L’uomo scoppiò in una diabolica risata, nelle iridi dei suoi occhi, per un attimo, dardeggiarono le alte fredde fiamme dell’Inferno. Accartocciò il giornale e lo gettò via, preda di nuovo del gelido vento invernale, e proseguì per la sua strada.



RITORNO A SAINT ALVERY Genere Fantastico Anno 2008

Dedicato a chi non crede che la vita sia un mix di scelte ponderate, fortuna e improvvisazione



Ritorno a Saint Alvery

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La vecchia corriera rallentò, affrontò la stretta curva a sinistra quasi a passo d’uomo, arrancò come un maratoneta il cui vecchio cuore, logorato dai chilometri e dall’età, non ha più la forza della gioventù. Il cielo era terso, di un azzurro acceso, unito, all’orizzonte, con la campagna dai campi dorati coltivati a grano. Rari alberi, qua e là, protendevano i nodosi rami verso il giallo sole, creando piccole oasi di ombra. Era una di quelle giornate estive, di rara bellezza, che ti entrava nel cuore, regalandoti un caldo ricordo, nelle fredde giornate d’inverno. «Prossima fermata, Saint Alvery.» Annunciò l’autista lavorando di braccia per sterzare, sull’ennesima curva, con il grande volante. La corriera si fermò con uno sbuffo idraulico di freni. Remy Fournell prese il suo zaino dalla rastrelliera sopra la sua testa, alzandosi infilò gli spallacci. Scese dal vecchio bus fermandosi dopo pochi passi a osservare la piazzetta, all’ingresso del piccolo paese. Era cresciuto lì e non gli sembrava molto diverso da quando se ne era andato, trent’anni prima. Aveva diciotto anni e una sola idea in testa, vedere il mondo per raccontarlo. Ci era riuscito, e aveva percorso molta strada. Lavorava per il Times, come corrispondente di guerra; Iraq, Afghanistan, ancora Iraq e Libano, erano state le sue imprese più famose, era sempre stato in prima linea. I suoi servizi dal fronte avevano fatto scuola. Premi e soldi erano come piovuti dal cielo eppure, la sua sete di viaggiare, mostrando il lato disperato del mondo, non si era placata. Stava preparandosi a partire per il Darfur, quando, in quell’estate del duemilaotto, aveva improvvisamente sentito la necessità di tornare a casa, al punto di partenza, come per completare un percorso circolare. Si era preso due settimane di vacanza, lui che non sapeva cosa fossero le ferie, ed eccolo li. Si mise in testa il consunto cappello a falda larga, infilò le mani nelle cinghie dello zaino e si avviò lungo la strada. Possedeva ancora la casa dei suoi genitori, ora disabitata, ne avrebbe approfittato per verificarne lo stato.


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Percorse quasi un chilometro, il sudore già gli impregnava la camicia color cachi, quando il suo sguardo, guizzante su ogni particolare alla ricerca di vecchi riferimenti, fu attratto dall’antica casa colonica all’altro lato della strada. L’aveva scordata in tutti questi anni, ma rivederla rinfrescò i ricordi di quando era bambino, accantonati in un angolo della mente: era la casa delle tre megere, così si diceva allora in tutto il paese. Sorrise scuotendo la testa per quella superstizione locale. Non sembrava molto cambiata, anzi. Il giardino era sempre incolto, ma non più di come lo ricordava, anche la casa, pur nel suo stato di abbandono, sembrava la stessa di quarant’anni prima, con l’intonaco annerito dalle intemperie, le imposte scrostate e, in alcuni casi, cadenti. Chissà che fine avevano fatto le tre sorelle ci vivevano. Si fermò fissare quel luogo, che tanto aveva acceso la sua fantasia durante l’infanzia, era innegabile che i misteri lo avessero sempre affascinato. Anche gli adulti, però, non ne parlavano volentieri. Nessuno amava passare di li, soprattutto nelle fredde e nebbiose sere d’inverno. Attraversò la strada deserta, raggiungendo il piccolo cancelletto di ferro battuto. Lo spinse in avanti, facendone cigolare i vecchi cardini. Mosse un passo oltre la soglia della proprietà bloccandosi di colpo, il cuore prese a battergli forte, sorprendendolo per l’ansia che lo stava assalendo, lui, che armato di una sola telecamera aveva ripreso la guerra, ignorando nugoli di pallottole fischianti. Ricordò quando, una sera della lontana estate del sessant’otto, a otto anni, convinse due amici a esplorare la casa stregata. «Dobbiamo scoprire cosa fanno in quella casa, per avvertire i grandi.» «E se ci sorprendono?» domandò Alain. «Se accadesse cosa potrebbero fare, loro sono vecchie e noi veloci come il vento.» spiegò Remy. I due amici scossero la testa, fissandolo poco convinti. Remy, spazientito reagì sbuffando, cercò rapidamente un’alternativa di compromesso. «Va bene, allora esploreremo il deposito sul retro.» Alain e Antoine annuirono sollevati. Attesero il calar della sera, sgusciarono fuori dalle loro case all’insaputa dei genitori, incontrandosi alla vecchia quercia. Qui, dopo essersi sputati sul palmo della mano sinistra, se le strinsero una sull’altra, giurandosi aiuto e protezione reciproca. Si fermarono ai margini del giardino, scambiandosi gli ultimi accordi. «Entreremo», disse ai suoi amici «strisciando tra quei rovi.»


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Raggiungere il vecchio magazzino fu divertente, carichi di adrenalina a causa di quella sensazione di pericolo incombente, unita all’incredibile gusto di sporcarsi tra erba, terra e polvere, gli fece superare ogni paura. Lo stato di abbandono del giardino li aiutò a nascondersi. Raggiunsero una finestra da cui osservarono, impazienti, l’interno, attraverso i vetri sporchi. Con grande delusione videro enormi e lunghe filiere di lana. In cima a ognuna vi erano gomitoli di diverso volume, mentre un filo pendeva al disotto. Su ogni filo, casualmente per numero e posizione, si trovavano dei nodi. I tre ragazzini si scambiarono sguardi dubbiosi. Alzarono le spalle e quatti, quatti, raggiunsero la porta che, essendo incredibilmente aperta, li lasciò visibilmente delusi. Entrarono. Si aggirarono, silenziosi, tra i filari di lana. Era solo semplice e stupida lana, colorata ma lana. Sopra ai gomitoli c’era un’etichetta, che non riuscirono a leggere. Alzarono le spalle voltandosi per andarsene, si aspettavano misteri innominabili, riti di stregoneria, nella loro incoscienza anelavano davvero che ci fosse un pericolo da affrontare, ma un deposito di lana proprio no. Non fecero nemmeno un passo, rimanendo bloccati e a bocca aperta: le tre megere erano li, nell’ombra, impedendogli una rapida fuga. «Ragazzi che ci fate qui.» disse una di loro, con voce sorprendentemente calma e dolce. Il piccolo Remy si assunse ogni responsabilità, fece un passo in avanti: «Sono stato io a convincerli, volevo vedere se nascondevate qui le vostre vittime.» Le tre donne risero, una risata argentina. Remy e i suoi amici aguzzarono gli occhi, tentando di vedere i loro volti, ma, nell’oscurità del crepuscolo, non ci riuscirono. Il piccolo capobanda notò che portavano vecchi abiti lunghi, ognuna di colore diverso: rosa, celeste e nero. Quella col vestito rosa disse: «Non sapete che solo i ladri entrano di nascosto nelle case altrui?» I tre ragazzini strisciarono i piedi, abbassando lo sguardo, imbarazzati. «Credo sia meglio che andiate ora.» disse burberamente quella col vestito nero. «Che cosa sono questi… questi cosi?» domandò Remy. «Non lo vedi?» rispose la donna con il vestito celeste «Sono filari di lana, caro.»


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Remy voleva a tutti costi svelare un mistero, altrimenti che gusto c’era nel vantarsi di essere entrato nella casa stregata, se era solo un deposito di lana. «Ma, che ci fate, con tutta questa lana?» chiese con voce imbronciata. «Ci guadagniamo da vivere, Remy!» spiegò quella dal vestito rosa. Il ragazzino alzò la testa di scatto: «Come sa il mio nome?» domandò sorpreso. La donna dal vestito nero batté le mani, spostandosi e indicando l’uscita: «E’ ora di andare ragazzi, su uscite di qui.» I tre ragazzini si avviarono verso l’uscita, in fila indiana. Remy, sempre più frustrato, si voltò improvvisamente: «Non è giusto, voi sapete chi siamo e noi no…» Le tre donne sospirarono, quella con il vestito celeste rise della protesta del bambino: «Io sono Annette, lei è Clodine», indicando la sorella col vestito rosa «e lei è Luiselle.» indicando la donna col vestito nero. «E ora fuori!» Concluse spazientita, Luiselle.


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Fournell ricordò quella piccola grande avventura in quei pochi attimi. “Chissà se nel deposito…” pensò con la medesima curiosità di quarant’anni prima. Si avviò verso il retro della casa, “Tanto, ormai, sarà disabitata” si disse, deciso a entrare nuovamente nel capannone. Come allora trovò la porta aperta. Fournell infilò la testa, guardando a destra e a sinistra, la penombra dell’interno gli impedì di capire cosa ci fosse però manteneva una gradevole temperatura. Entrò, chiudendosi la porta alle spalle, apprezzando il fresco sollievo che il luogo gli dava. Quando i suoi occhi si abituarono alla poca luce, rimase letteralmente allibito: i filari di lana erano ancora tutti lì, ben disposti e puliti. Nessuna ragnatela, qui il tempo sembrava cristallizzato. Senza parole osservò gli infiniti gomitoli di lana, posti sulle filiere. Volumi diversi, colori diversi e fili, che si allungavano verso il pavimento. Raggiunse il più vicino, lo fece scorrere tra le dita, percependone i nodi sparsi senza alcun ordine. Notò le etichette sopra ogni gomitolo, questa volta riuscì leggerle. Spalancò gli occhi per la curiosa stranezza: ognuno aveva un nome. Istintivamente cercò di immaginare come potesse essere il gomitolo che portasse il suo. «Non sei cambiato per nulla, Remy.» L’improvvisa voce alle sue spalle lo fece sussultare, nonostante fosse dolce e serena. «Sempre il solito ficcanaso.» aggiunse una seconda voce, seccata. Si voltò di scatto, urtando un filare con lo zaino e rischiando di innescare una caduta in sequenza delle filiere successive. Lo afferrò appena in tempo, rimettendolo a posto, senza notare che le donne erano trasalite. Fournell le scrutò, il loro volto era sempre in penombra, invisibile. I loro vestiti, invece, erano incredibilmente gli stessi che aveva visto da bambino. Cercò nella sua memoria. «A… Annette?» «Sì, sorpreso?» Rispose la donna, con una punta d’ironia nella voce. Remy rimase senza parole, gli sembrava di vivere un vero e proprio deja-vu, non solo si domandò se avesse realmente udito quelle voci o se le


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avesse sentite solo nella sua testa. Quando aveva otto anni non ci aveva fatto caso. L’uomo sentì l’ansia crescere, dovendo riconoscere di essere un po’ spaventato. Cercò di assumere un’aria spavalda, rifugiandosi nell’ironia: «Vedo che non seguite la moda.» Clodine non trattenne una risata argentina. «Sei sempre il solito teppista, essere spiritoso non ti rende più simpatico.» disse seccamente Luiselle. Fournell indicò con la mano l’intero magazzino: «Voi continuate a commerciare lana, vedo.» «Tu, invece, sei diventato ricco e famoso.» rispose Annette, incrociando le mani in grembo. Remy arrossì come bimbo sorpreso con le dita nella nutella: «Ma, quanti anni avete?» chiese balbettando leggermente «Vi chiamavano megere, quand’ero bambino.» «Più di quanto tu possa immaginare.» rispose sbuffando Luiselle, che aggiunse: «È meglio che te ne vada, ora.» Remy sollevò il sopraciglio destro, in verità quel luogo lo metteva a disagio, e voleva davvero andarsene in fretta. Tuttavia la sua innata curiosità lo tratteneva. Sentiva che in quel luogo c’era di più. «Perché avete attribuito un nome ai gomitoli?» chiese ignorando l’invito di Luiselle. «Per ricordarci su chi dobbiamo lavorare, semplice vero?» rispose Clodine. «Posso dare un’occhiata?» insistette Fournell, sfoderando uno dei suoi sorrisi più accattivanti. «Non è…» accennò Luiselle, interrotta da Annette. «Ma sì, che male c’è.» Remy si liberò dello zaino e cominciò a muoversi tra le filiere. Notò che, con impressionante lentezza, i gomitoli ruotavano in senso orario. Alcuni erano finiti e il filo al disotto era teso, altri erano come nuovi, con un filo cortissimo. Annette e Clodine lo seguivano a breve distanza, in silenzio. Remy si voltò: «Quale è?» domandò improvvisamente. «Quale è cosa.» chiese Annette. Luiselle trasalì, portando la mano destra al petto. «Il gomitolo con il mio nome.» rispose Fournell in tono ovvio. Le due donne si scambiarono uno sguardo interrogativo, poi Annette prese l’iniziativa: «Da questa parte.»


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Remy seguì la donna, il cui volto restava incredibilmente in ombra. Raggiunsero una filiera poco distante, dove lei indicò un gomitolo di colore rosso, molto intenso. Fournell lo fissò in silenzio. L’etichetta riportava proprio ‘Remy’, ruotava lento e non vi era molta lana ancora. Prese delicatamente il filo pendente, percorrendone i bei nodi decisi. Un brivido gli percorse la schiena, quasi un presentimento. Si voltò scuro in volto, tornando sui suoi passi: «È ora di andare.» disse con improvvisa tristezza. Le tre donne lo accompagnarono alla porta, lui prese lo zaino e salutò, uscendo con passo deciso da quel giardino. Clodine guardò le sorelle, Annette scosse la testa mentre Luiselle sbuffò alzando le spalle, ognuna tornò alle proprie faccende.


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Due mesi più tardi Remy Fournell ebbe a disposizione l’intera terza pagina del Times. L’articolo di spalla riportava la seguente introduzione: Carissimi lettori, ho il triste compito di informarvi che questo è l’ultimo servizio dal fronte di Remy Fournell. Il nostro apprezzato corrispondente ci ha prematuramente lasciato, vittima di un’imboscata dei ribelli nel Darfur, insieme a altri due bravi giornalisti. La sua vitalità e il suo coraggio, vivranno per sempre nei nostri cuori… Nel deposito della lana, a Saint Alvery, le tre sorelle guardarono il gomitolo rosso intenso, sulla cui etichetta campeggiava il nome di Remy. Luiselle prese il filo, ormai teso per la mancanza di lana: il gomitolo era finito. Clodine aprì la bocca, interrotta da Luiselle. «No, Cloto tu hai filato questo gomitolo, Atropo l’ha lavorato con i suoi nodi», disse seccamente «ora è il mio turno, il mio compito.» Atropo annuì, tristemente: «Ha avuto la vita che desiderava, intensa e avventurosa.» Lachesi prese il filo tra le dita e, con un gesto rapido e deciso, lo spezzò. Cloto prese un nuovo gomitolo, appena finito di filare, di un bel verde smeraldo, tolse quello di Remy e lo sistemò con la sua nuova etichetta: Malcolm.


LA RABBIA E L’ONORE Genere Guerra Anno 2008

Dedicato a quegli eroici uomini Che hanno solcato i cieli del primo Novecento, sognando la libertĂ



La rabbia e l’onore

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Il biplano volava con la prua rivolta a occidente, verso un sole rosso sangue, in un tramonto indimenticabile. Il cielo s’incendiò, combinando indaco e azzurro. Sotto le ali le nubi scorrevano vivaci; eterogenei batuffoli di cotone dalle forme più strane e incredibili, come solo la natura può creare. Il motore faceva un baccano d’inferno, violando quella silenziosa bellezza. C’era la guerra e l’uomo non sapeva più bearsi di simili spettacoli; il pilota, abituato a un simile fragore, era concentrato a scrutare l’orizzonte ma solo alla ricerca di nemici. Harald von Hettelberg era pieno di rabbia. Suo fratello era stato abbattuto il giorno prima, sul fronte italiano, e lui ne era stato informato da meno di un’ora. Gli sembrò di essere stato trafitto da un pugnale al cuore. Kurt e la sua passione per il volo, quella sensazione di libertà che solo il mare aveva dato all’umanità, fino all’invenzione più ambita: volare. Kurt ci si era buttato a capofitto, aveva conseguito il brevetto e, quasi fosse l’unica ragione di vita, ne parlava in continuazione. Ogni giorno lavorava al suo aereo, pulendolo e controllandolo con meticolosa pignoleria, “ Se ti prenderai cura di lui, non ti tradirà mai!” diceva a tutti quelli che lo canzonavano. Così era diventato uno dei primi assi della giovane aviazione tedesca. Harald lo aveva sempre ammirato, si considerava arruffone e incostante, mai realmente appagato o soddisfatto. Perciò invidiava la genuina passione del fratello, fino a rimanerne affascinato. Tanto da seguirlo, arruolandosi nella Luftstreitkräfte e appassionandosi a sua volta. Con sua sorpresa aveva trovato un punto fermo nella vita e lo doveva a Kurt; ora suo fratello era morto e lui sentiva di aver perso un riferimento sicuro, una guida. “Vigliacchi!” pensò “Solo con una fucilata a tradimento potevate vincerlo”. Assurdamente considerò che se Kurt fosse caduto gloriosamente in un duello aereo, avrebbe sofferto di meno. In realtà a-


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veva paura di dover vivere compiendo da solo le sue scelte, assumendosi la responsabilità di sbagliare. La sua squadriglia – Jagdstaffel 23 – era appena atterrata all’aerodromo di Jametz, dopo un’estenuante missione di copertura della fanteria, in ritirata sulla linea Hindenburg. Mentre osservava i buchi dei proiettili sulla fusoliera, era stato avvicinato dall’ufficiale di complemento, che gli aveva consegnato uno scarno rapporto: “Due sole righe” pensò con disprezzo, “Due righe e una linea sui registri di squadriglia e un grande pilota non esiste più“. Il solo ricordo gli fece ribollire il sangue. Senza una parola aveva afferrato il meccanico per il bavero, obbligandolo a fare il pieno di carburante e ricaricare le mitragliatrici, poi era decollato di nuovo: solo, come un lupo in caccia. Voleva vendicare Kurt, certo non avrebbe ucciso quel bastardo italiano che aveva spezzato la vita di suo fratello, ma qualcuno avrebbe pagato, di questo era certo. L’aria gelida gli sferzò il viso riportandolo alla realtà, controllò con un’occhiata gli strumenti di bordo e la posizione; poi tirò a sé la cloche, diede più gas alla manetta e il suo Albatros alzò il muso, librandosi nello spazio infinito. Volava da quasi un’ora, ma sembrava che il nemico si fosse rintanato nelle sue miserevoli tane. Iniziò a dubitare di riuscire a trovare qualcuno su cui sfogare la sua rabbia. Controllò di nuovo il carburante, ancora pochi minuti di caccia e sarebbe dovuto rientrare. Improvvisamente notò un punto scuro emergere a ore due. Forzò gli occhi contro l’intensa luce crepuscolare, passò lo spesso guanto sinistro sugli occhialoni per pulirli. L’espressione del viso mutò in ghigno famelico; desiderò con tutte le sue forze che anche il nemico lo vedesse e, come lui, bramasse lo scontro. Armò il cane della mitragliatrice da otto millimetri, lavorò di pedali e cloche e aumentò il gas: l’Albatros rollò inclinandosi a destra e scattò, con un ruggito rabbioso del motore Mercedes, in direzione dell’avversario. Il pilota francese si accorse del nemico e, per nulla intimorito, virò inclinandosi sull’ala sinistra, picchiando verso il caccia tedesco. Quando furono a meno di duecento metri il cuore di Harald perse un colpo per l’eccitazione, riconoscendo la sagoma del Nieuport e le insegne di Douvignì sulla fusoliera, il triplo asso francese con quindici vittorie. “Meglio, avrò più gloria” pensò. Concentrato sull’imminente battaglia dimenticò Kurt, smettendo di soffrire almeno per un po’. Virò di un paio di gradi a sinistra, puntando drit-


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to sulla preda. “Oggi aggiungerò l’ottava croce” rifletté convinto “E diventerò un asso”. A circa cento metri, i due biplani iniziarono una specie di danza, girandosi intorno, uno sopra l’altro. I due piloti si scrutarono come belve prima dello scontro, e mentre l’adrenalina nel sangue li preparava, la frenesia della battaglia si insinuò nei loro cuori. Completarono questa fase rituale, rispettando un codice d’onore mai scritto. Fu proprio il tedesco a rompere gli indugi entrando in azione. Spinse in avanti la cloche e abbassò i flap, diede gas e manovrò il timone. L’Albatros si tuffò in picchiata, ruotando verso destra sul proprio asse. Harald completò la manovra eseguendo una perfetta cabrata, anticipò le manovre del pilota francese mettendosi in coda al Nieuport. Con un riso maligno aprì il fuoco. Douvignì, sorpreso dalla manovra del nemico, reagì seguendo l’istinto. Tolse il gas, spinse la cloche in avanti usando i flap come un freno. La brusca manovra ridusse a zero la velocità del Nieuport facendolo stallare, per un istante l’aereo rimase immobile nel cielo, poi la forza di gravità lo fece cadere come un sasso. Il peso del motore fece ruotare di centottanta gradi il biplano. Il pilota francese tirò il timone a sinistra iniziando una picchiata in vite. La raffica di Harald andò a vuoto e la sua velocità gli fece superare l’aereo nemico. Douvignì diede gas ed eseguì un perfetto tonneau, una rotazione completa trasversale, cercò la coda dell’Albatros e lo inseguì. Il caccia tedesco diventò improvvisamente una preda. Von Hettelberg adesso era nei guai, toccava a lui mostrare la sua raffinatezza di pilota. Tirò la cloche, usò la velocità accumulata nella picchiata precedente e cabrò rialzando la prua dell’aereo; rollò inclinandosi a sinistra salendo di quota diagonalmente. La terra di fronte al pilota tedesco ruotò velocemente, prima verso destra poi scorse sotto il caccia fino a rimanere in coda, lasciandolo circondato solo dal cielo. Il francese non si fece sorprendere. Tirò la manetta del gas accelerando al massimo, cabrò rimanendo in coda al caccia tedesco. I due aerei volarono in verticale e bucarono diverse nuvole, raggiungendo la quota massima permessa dalla loro struttura. Douvignì cercò di inquadrare von Hettelberg nel mirino della mitragliatrice leggera Lewis. Harald manovrò facendo ondeggiare orizzontalmente il suo biplano, per non offrire un bersaglio facile. Il francese aprì il fuoco: la raffica colpì l’ala superiore e la fusoliera del caccia tedesco, appena dietro l’abitacolo. Von Hettelberg sentì distinta-


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mente il rumore secco dei proiettili che colpivano e perforavano il rivestimento esterno. Improvvisamente Harald spinse completamente in avanti la cloche, l’aereo iniziò una picchiata impossibile, quasi verticale. Il pilota accelerò aumentando il gas cercando di sfruttare la maggior potenza del suo aereo. Douvignì però era davvero un asso e lo seguì, deciso a non concedergli nessuna possibilità. Su entrambi gli aerei le strutture gemettero per lo sforzo. Il cielo ruotò di nuovo per entrambi i piloti scorrendo sopra di loro e fermandosi alle loro spalle, adesso era la terra a riempire la loro visuale, avvicinandosi a velocità vertiginosa. Il Nieuport fece di nuovo fuoco, usando la Vickers, con proiettili incendiari. Il tedesco avvertì il caratteristico rumore della mitragliatrice pesante, istintivamente tirò a sé la cloche spinse sul pedale sinistro e sfruttando l’enorme velocità eseguì una virata a sinistra iniziando di nuovo a salire. I tiranti d’acciaio delle ali si tesero come corde di violino, vibrando nell’aria per lo sforzo aerodinamico e producendo una sinfonia mortale che fece rabbrividire Harald. La scarica di Douvignì colpì il timone forandolo senza incendiarsi, per fortuna. I due piloti tornarono a salire. Incrociarono continuamente la rotta in una danza elegante, per portare o evitare l’attacco. Harald non avrebbe resistito a lungo, alla fine quel grande pilota lo avrebbe abbattuto, decise di tentare una manovra rischiosa, provata solo a livello teorico ma che gli avrebbe dato una possibilità di scampo. Riprese un assetto orizzontale, volando parallelo al suolo. Accelerò alla massima velocità, seguito dal Nieuport; poi, improvvisamente, premette il pedale tirando il timone a sinistra, spostò la cloche a destra incrociando i flap – il destro su e il sinistro giù – l’aereo vibrò di nuovo per la tensione cui fu sottoposto, compì un’imbardata di coda verso destra eseguendo un testacoda, una rotazione di centottanta gradi che gli fece invertire il senso di volo. Senza guardare Harald premette il grilletto e fece fuoco. Douvignì fu sorpreso e rischiò la collisione tanto era veloce: si salvò grazie al suo istinto e per l’imprecisione della raffica nemica. Rollò a destra eseguendo una rotazione completa sull’asse; questo gli fece perdere velocità, e l’inferiore potenza del Nieuport gli impedì di recuperare in fretta l’assetto ottimale di volo. Harald ne approfittò virando rapidamente a sinistra, riuscendo a mettersi in scia al caccia francese. Von Hettelberg in-


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quadrò il nemico nel mirino delle sue mitragliatrici: per un brevissimo istante pregustò la vittoria imminente poi premette il grilletto… Invece della scarica di colpi udì il suono metallico del cane che sbatte sulla culatta delle sue LMG e null’altro, provò di nuovo, e ancora, ancora… Non accadde nulla; la mitragliatrice si era inceppata. Il suo cuore perse un battito, vide il Nieuport cabrare davanti a sé. Douvignì salì in verticale ed eseguì un loop, disegnando un cerchio perfetto che lo portò in coda all’Albatros. Gocce di sudore freddo imperlarono la fronte di Harald, ancora scioccato dal destino che lo aveva privato della vittoria. Non fu il freddo pungente a farlo rabbrividire mentre attendeva la raffica finale. Fu come se il tempo si fosse fermato, von Hettelberg si sorprese a pensare “Spara e facciamola finita” ma le mitragliatrici tacquero. Sentì il motore del Nieuport aumentare di giri, Douvignì eseguì un mezzo tonneau, portandosi sopra di lui e guardandolo a testa in giù. Volarono così, a meno di cinquanta metri, nella serenità del tramonto. Il francese sorrise, salutò militarmente accennando a un incontro futuro. Poi virò allontanandosi, lasciando Harald solo e sbigottito. “Avrà capito che ero disarmato?” pensò, “E’ stato un gesto di cavalleria?”. Improvvisamente la rabbia svanì nel giovane tedesco. Riemerse, prepotente, il pensiero di Kurt morto, e per la prima volta si rese conto del vuoto che questi avrebbe lasciato. Suo fratello non sarebbe tornato a casa, neanche per il prossimo Natale, il resto era poco importante. Virò a destra eseguendo la manovra meccanicamente, senza la frenesia di qualche minuto prima. Volò incontro al buio della sera, mentre qualche stella si accendeva in quel cielo blu, sulla rotta per Jametz. Cercò di comprendere perché oggi un nemico lo avesse risparmiato: rabbia, vendetta e onore, cosa contava davvero in guerra? Quanti ‘Kurt’ non sarebbero tornati a casa da ambo gli schieramenti, quante famiglie avrebbero provato quel senso di perdita che lui stesso provava, adesso. Pensò a quanto sarebbe stato meraviglioso volare con Kurt, liberi perché in cielo non c’erano confini, perché volare poteva essere un gioco e perché l’uomo poteva scegliere. Vide le luci dell’aerodromo, regolò i comandi preparandosi all’atterraggio. Avrebbe compiuto il suo dovere fino alla fine, ma adesso aveva bisogno di scaldarsi il cuore. Raggiunse il circolo dei piloti, prese la bottiglia della morte, quella per festeggiare i duelli vinti, e si scolò un lunghissimo sorso tra gli sguardi silenziosi dei suoi compagni, poi tornò nel suo alloggio: aveva una lettera da scrivere.



TEMPUS EDAX RERUM Genere Fantasy Anno 2008



Tempus edax rerum

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PROLOGO

Ci sono malattie che maturano lentamente, formando un ascesso purulento, poi, improvvisamente, scoppiano e diffondono l’infezione con efficienza: è l’istinto di sopravvivenza, alla base di ogni specie in evoluzione. Ogni creatura, dai batteri agli individui intelligenti e senzienti, lo possiede; ma se per i primi si tratta di genetica, per un soggetto pensante si tratta di una scelta. La malvagità si può considerare un’epidemia se, una volta maturata in un luogo remoto, dopo aver corrotto i suoi abitanti, esplode diffondendo i suoi germi nel proprio e in altri Universi. Un germe esaminò, grazie alla tecnologia avanzatissima, la destinazione della sua prossima coltura: «È promettente. Hanno esplosioni emotive così elevate che, se ben incanalate, ci sostenteranno a lungo.» osservò a voce alta. «Sì, se governerai le loro emozioni, eliminando ogni freno inibitore.» aggiunse il compagno. Il germe annuì, fremente di agitazione, sorridendo con cinico sadismo. «Vai allora» disse il compagno. «Come tutti noi, prendi ciò che ti spetta. Noi sopravvivremo!» Domenica 8 ottobre 1094 La folla urlò la propria gioia, appena ricevuta la benedizione impartita dal Primicerio di San Marco. La cerimonia di consacrazione della basilica omonima era conclusa. L’orgoglio dei veneziani, palpabile, risplendeva più del pallido sole autunnale. Il nome di Vitale Falier dè Doni, Doge in carica da meno di un anno, risuonò per l’intera piazza. Solo il conte Nicolini Bon rimase calmo ed enigmatico, in attesa di essere ascoltato. Vitale salutò la folla, poi, con aria regale, raggiunse il porticato di palazzo ducale, ricevendo gli omaggi dei nobili. «Vostra grazia», disse il consigliere Gradenigo «il conte Nicolini Bon vorrebbe sottoporvi una petizione.»


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Il conte s’inchinò rigidamente in avanti, porgendo il rotolo di pergamena, chiusa con un nastro di raso blu e ceralacca. Il Doge guardò con sufficienza il nobile, che serrò la mascella per la rabbia: «Di che si tratta?» «Istituire una festa ricorrente, vostra eccellenza.» rispose il conte, modulando la voce. «Festa?» domandò Vitale. «Servirebbe a far sfogare il popolo» intervenne Gradenigo. «Distrarlo, solo per qualche giorno l’anno, rendendolo più malleabile e facile da controllare.» Il Doge soppesò quelle ultime parole. Era salito al potere rovesciando il suo predecessore; distrarre il popolo e soprattutto la nobiltà poteva tornargli vantaggioso. «E così sia.» disse con enfasi, usando l’opportunismo come concessione. Gradenigo rivolse un sorriso soddisfatto al conte, seguendo il Doge. «Grazie, vostra eccellenza!» rispose Nicolini Bon, inchinandosi nuovamente. Una fitta lo fece tremare intensamente, aveva bisogno di energia, delle emozioni di quegli stupidi esseri umani. Da quanto non provava quella sensazione inebriante di assorbire la paura, il terrore, il dolore? Troppo, pensò, ma ormai tutto era pronto: avrebbe liberato le peggiori emozioni degli uomini e ne avrebbe goduto. Giovedì 19 febbraio 1097 Avigail, la prima adepta della rabhi Yehoudith, si avvicinò porgendole la torcia. L’anziana Serva la gettò nel braciere sacro, pronunciando una formula rituale: le fiamme crebbero, danzando nella penombra dell’ampia sala circolare. Erano i giorni della pazzia a Venezia: le maschere avevano cancellato ogni differenza e ci si divertiva senza freni. Fiumi di emozioni scorrevano. Non sarebbe stato un male, pensò Yehoudith, se non si fosse degenerato nella crudeltà, liberando la malvagità all’ombra di quelle folli giornate. L’energia evocata formò un cerchio luminoso e mostrò figure mascherate che danzavano al ritmo ossessivo di un tamburo; la rabhi osservò quei volti distorti e maligni “Maschere demoniache”, pensò. Al centro di quella danza, legate a pali, alcune persone tremavano di puro terrore. Il tamburo cessò. Uno dei danzatori si avvicinò alla prima vit-


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tima, impugnò il coltello e ne lacerò lentamente il petto: l’uomo urlò e la sua paura fu letteralmente divorata dai ‘demoni’. Yehoudith, sopraffatta dall’orrore, crollò semisvenuta. Il cerchio di luce svanì. Avigail corse al suo fianco, sollevandole il capo con delicatezza e l’amore di una figlia. L’anziana Serva aprì gli occhi, colmi di tristezza. «Avigail, convoca il consiglio. Fa presto…»


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Giovedì 19 febbraio 2009 Ogni anno, dal millenovecentonovantotto, Miranda tornava a Venezia, per il carnevale. Non sapeva perché, ma sentiva un bisogno fisico di farlo. Era come se, intimamente, sperasse di riuscire a dare un significato alla sua vita, ormai vuota e solitaria. Ricordava quanto colmo d’amore fosse il suo cuore, come non lo sarebbe mai più stato; avrebbe voluto odiare questa città che le aveva strappato l’amore, ma non ci riusciva, qui era stata felice. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Adesso era una web-designer di successo, aveva dei collaboratori e un’agenzia di cui era orgogliosa. Poi tornavano febbraio e il carnevale, allora il passato invocava il suo spazio, riemergendo imperioso con tutto il suo peso emotivo; ogni volta la razionale Miranda provava a resistere, reclamando la libertà di vivere la sua vita, vuota, ma con una carriera invidiabile. Ma come sempre usciva sconfitta da questa lotta interiore. Telefonava all’Hotel Canal prenotando il solito appartamento; così, mentre la città galleggiante si perdeva nel divertimento e nella spensieratezza, lei tornava per compiere quel rito personale: raggiungere il Ponte delle Guglie dove, a mezzanotte in punto, gettava una rosa rossa nel canale, osservandola sparire nell’oscurità trascinata dalla corrente, ricordando quando era solo una donna innamorata. Seduta sul vaporetto, seguendo sfuggenti pensieri, guardava distrattamente le miserie della Venezia odierna, sporca e reclamata dal mare. I palazzi affacciati sul Canal Grande si susseguivano decadenti, in perenne attesa di un salvataggio che era sempre più solo un’illusione. Miranda si scosse all’urto, leggero, contro il pontile dell’imbarcazione. Riconobbe la fermata, le Fondamenta di Santa Lucia, raccolse rapidamente borsetta e trolley, sbarcando tra le imprecazioni sue e degli altri passeggeri: il carnevale riempiva ancora di anime la città, a dismisura. Osservò indispettita le calze di nylon, massacrate dagli urti con il suo bagaglio. Riuscì a mantenere l’equilibrio sulle assi di legno, nonostante i tacchi da dodici centimetri. Si aggiustò il cappotto e, riassunta una posizione stabile, raggiunse le Fondamenta Santa Croce, quindi l’hotel.


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Alla reception, le diedero il benvenuto con la consueta giovialità: «Bentornata, signora Riccardi.» salutò Donà, il portiere. «Grazie Giacomo» rispose Miranda. «Tutto esaurito?» chiese solo per cortesia. L’uomo annuì con aria sconsolata: «Sempre sola, vedo.» Miranda sorrise con circostanza: «Il tempo delle mele per me è passato.» Giacomo prese la chiave dell’appartamento porgendola alla donna, facendo cenno al fattorino in attesa di farsi avanti. «Potrei fare in modo che abbia un appartamento diverso…» suggerì. Miranda lo fissò spazientita: «No! Questo non la riguarda.» esclamò in tono seccato. Il portiere non si offese, anzi, provò a insistere: «La direzione organizza il veglione per i suoi clienti più affezionati. Se volesse unirsi a noi, quest’anno.» La donna non rispose, raggiunse l’ascensore seguita dal fattorino. Giacomo sospirò sinceramente rattristato. Miranda si bloccò davanti all’appartamento: il numero dodici, affisso sulla porta, le vorticò nella testa. Quel numero aveva il potere di fissarsi nella sua mente per ore, come se dovesse risolvere un enigma. Prese un profondo respiro e aprì. Come ormai da molto tempo, solo il silenzio la accolse. La stanza era finemente arredata nello stile, un po’ barocco, di una città che faticava a mettersi al passo con la moda del momento. Tappezzeria e mobili erano coordinati in tonalità chiare e riposanti, a Miranda piaceva per questo e perché conservava il ricordo di tempi passati. Tolse guanti e cappotto gettandoli sul sofà alla sua destra, diede una buona mancia al fattorino, liquidandolo in fretta: voleva restare sola. Entrò nella stanza da letto con il cuore in gola, mentre il suo io razionale la insultava per tanta stupidità, tuttavia, ciò che vide la lasciò senza fiato. Incrociò lo sguardo con le vuote orbite di una maschera, dai tratti femminili. Su un manichino, sistemato a lato del comò, c’era il costume degli ambigui, indossato da chi solitamente nascondeva la propria reale natura, soprattutto riguardo agli usi sessuali: la Gnaga. Il messaggio sottinteso la lasciò sconcertata, “Chi può essere così indiscreto” pensò. Appuntata sul corpetto c’era una piccola busta dorata, profumata alla vaniglia; Miranda reagì al capogiro che provò afferrandola, con foga esagerata. Aprì il biglietto trattenendo il respiro, quasi al culmine di un’attesa durata anni, nondimeno sbarrò gli occhi, non credendo a ciò che leggeva. Portò la mano alla bocca tra la sorpresa e il terrore, pensando “Rossella”.


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Sedette sul letto per non cadere, le gambe non la reggevano. Rossella era morta undici anni fa, affogata nel Canal Regio, e lei aveva smesso di vivere. Chiamò la direzione, certa di ricevere una spiegazione logica: era solo uno stupido scherzo. «Signora Riccardi, l’abito ci è stato consegnato per lei da un fattorino. Ho pensato che si fosse organizzata per partecipare al carnevale. Non ci saremmo mai permessi…» Spiegò il direttore, costernato. Miranda rimise il cordless sul comodino, riflettendo su chi potesse prendersi gioco del suo dolore, guardò l’abito poi il biglietto, stretto ancora tra le sue dita: lo rilesse scuotendo la testa. Vieni al Ponte delle Guglie, questa sera alle undici. Rossella Miranda si rannicchiò sul letto, fissò gli stucchi sul soffitto color verde acqua, “Anche se è carnevale, è uno scherzo di cattivo gusto” pensò, eppure il cuore le batteva forte, in preda all’ansia e all’attesa. Immersa tra pensieri e ricordi la donna scivolò nel dormiveglia. Si ritrovò nell’oscurità più nera, ma non aveva paura. Rossella, al suo fianco, la teneva per mano, esortandola a seguirla. «Vieni dobbiamo fare presto, o il portale si chiuderà…» Lei invece si sentiva inchiodata al pavimento, improvvisamente percepì un pericolo incombente. «Rossella, non possiamo, non adesso. Loro sono qui.» Nel sogno sentì l’angoscia salire, stringerle lo stomaco. Rossella la guardò con dolcezza, accarezzandole il viso: «Allora andrò io. Se fallirò, toccherà a te.» Miranda scosse la testa cercando di trattenerla, ma la sua mano le scivolò via, inesorabilmente. Si svegliò di soprassalto colma d’ansia. Il telefono squillava. «Sì?» rispose con voce incerta. «Signora, mi scusi per il disturbo. C’è un ispettore che la attende nella hall. Dice che è urgente.» spiegò il portiere. Miranda balbettò un – sì, scendo – non ancora del tutto sveglia.


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L’ispettore Nicolini era un uomo sui quarant’anni, dal fisico discretamente atletico. Aveva la carnagione scura e portava curati baffi. Le andò incontro affabile, salutandola con una delicata stretta di mano, invitandola a sedersi a uno dei tavolini della sala: «Prende un caffè?» L’uomo sorrideva. Lei scosse la testa, sedendosi di fronte all’ispettore, lo scrutò sospettosa, cosa che ne evidenziò il taglio allungato dei suoi occhi dall’iride violacea. Accorgendosi di essere troppo nervosa, si spostò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, modulando il tono di voce: «A cosa devo questa visita?» L’ispettore si appoggiò allo schienale della poltroncina in raso rosso e, con aria informale, rispose: «Sono nuovo, mi hanno assegnato un po’ di vecchi casi irrisolti…» «Irrisolti?» Interruppe allarmata Miranda. «Il corpo della signorina Tonon non fu mai trovato.» «È stato un suicidio.» spiegò Miranda, in tono più stridulo di quanto volesse, tradendo l’ansia e la paura provate. «Lei fu l’unica testimone ma non ricordava nulla. Era sul Ponte delle Guglie in stato catatonico.» le ricordò Nicolini, percependo con piacere le emozioni della donna, quasi gustandole. Miranda sussultò: «Dissero che ero sotto choc.» L’ispettore annuì, nascondendo l’appagamento provato cambiando argomento: «Perché torna qui ogni anno, sempre nello stesso appartamento. Che cosa cerca? Non sarebbe meglio dimenticare?» «Questo non la riguarda!» La sua lingua era una lama tagliente, poi in un moto di orgoglio o, forse, per un debito di cuore aggiunse: «Undici anni fa dovevo nasconderlo. Ora posso dirlo: io amavo Rossella, con tutta l’anima.» «Oh. Forse la signorina Tonon voleva lasciarla?» Incalzò l’uomo, forzandola psicologicamente, torturando quel subconscio duramente provato. Miranda impallidì, strinse il bordo del tavolino con forza tale da sbiancare le nocche. «Come osa…» sibilò. Nicolini si alzò: «Non si scaldi», disse un po’ contrito «per ora è tutto. Le auguro un buon carnevale, ma eviti di tornare su quel ponte.» aggiunse serio, sapendo di ottenere esattamente una reazione contraria. Miranda alzò la testa di scatto: «È una minaccia?» «Solo un consiglio. Arrivederci.»


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L’ispettore si allontanò percependo la tempesta emotiva della donna, sentendo il suo sguardo addosso, fino a quando non scomparve in mezzo al via vai di clienti che affollavano la hall. “Per ora era sufficiente” pensò deliziato. Appena in strada fu urtato da due passanti mascherati con la demoniaca; li fissò gelido. Questi, riconoscendolo, s’inchinarono con rispetto, allontanandosi in fretta. “Perché rimestare nel passato?” rifletté Miranda con una fitta al cuore, “Se solo ricordassi cosa accadde realmente”. Si domandò se fosse solo una coincidenza aver ricevuto il misterioso invito e la visita dell’ispettore. Un particolare le balzò in mente “Anche undici anni fa era giovedì, diciannove febbraio”; si passò tra le dita il biglietto dorato, quasi a cercarne lì la risposta. Discretamente Giacomo, il portiere dell’hotel, si avvicinò: «Va tutto bene, signora Riccardi?» chiese chinandosi, fingendo di sistemare il centro di pizzo sul tavolino. Miranda tornò alla realtà: «Sì, è tutto a posto.» Improvvisamente prese una decisione, convinta da una necessità quasi fisica di sapere, sarebbe andata all’appuntamento e lo avrebbe fatto indossando il costume che le era stato inviato: quella notte avrebbe assunto l’identità della Gnaga, un’ambigua figura sessuale, come ambigua era stata la sua vita, per undici lunghi anni; questa volta avrebbe cercato se stessa, a ogni costo. “E se non fosse solo uno scherzo?”, pensò che avrebbe dovuto informare l’ispettore dell’invito; invece diffidava di quell’uomo, senza motivo si disse, ma provava un’irrazionale repulsione. Era sola, la sfiducia nei suoi simili la isolava, anche se costatarlo di nuovo, la rese più triste. La paura crebbe, tanto irrazionale quanto presente. Avvertì il pericolo incombere, come se la sua vera natura, assopita da tempo, si stesse risvegliando, attivando nuovi sensi. «Giacomo, mi chiami la polizia, per cortesia.» disse con tono garbato ma deciso. Il portiere annuì, tornando velocemente con il cordless: «Commissariato? Un momento prego.» disse porgendo l'apparecchio a Miranda. «Cerco l’ispettore Nicolini, può passarmelo?» domandò. L’agente di turno grugnì, seccato per l’attesa. «Mi dispiace signora ma, Nicolini, non c’è.» «Non è in ufficio?» insistette. «No, non c’è nessun ispettore Nicolini.» rispose seccato l’agente. «Chi è lei?»


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Mi scusi, mi devo essere sbagliata‌ chiuse la chiamata fissando pensierosa nel vuoto. Con chi aveva parlato solo pochi minuti prima?


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Il pomeriggio trascorse lentamente. L’attesa rallentò la percezione di Miranda allo scorrere del tempo, dandole la convinzione di essere prossima a scoprire la verità. Fece un lungo bagno caldo poi, verso le cinque, cominciò a prepararsi. Indossò il costume come fosse un rito, curando ogni gesto, ogni bottone che chiudeva o nastro che allacciava. Si spostò di fronte allo specchio dalla cornice di legno intarsiato, mettendosi, con rigore, la cuffietta di cotone bianco. La allacciò sotto il mento, leggermente a punta, con un bel fiocco, lasciando sciolti i lunghi capelli biondi. Osservò soddisfatta la linea snella del suo corpo, trovandosi ancora attraente, nonostante avesse superato i quarant’anni; il costume era confezionato con stoffe pregiate: la gonna blu lasciava le caviglie scoperte, mentre le tre sottovesti le davano volume. Le gambe erano coperte da pesanti calze bianche. Evitò gli alti zoccoli, scegliendo scarpe dal tacco quadrato, leggermente rialzato, nere, con una fibbia rotonda in ottone. Sopra la camicia, sempre bianca, mise il corpetto a tre quarti verde. Mise la maschera, dai lineamenti vagamente felini. Infine indossò un lungo mantello nero con cappuccio, non solo per ripararsi dal freddo ma anche per confondersi meglio nelle ombre della sera. Era pronta! Prese un profondo respiro e uscì. Venezia era vestita a festa, più addobbata che a Natale. L’opulenza però era solo apparente: le sue calli, i suoi vicoli, i canali, ogni angolo, per quanto secondario, sporco o infimo era colorato e pregno di voglia di vivere, divertirsi e dimenticare. In fondo era carnevale. Mai come in quell’inizio di duemilanove si voleva dare un calcio, almeno per una notte, alla recessione, al riscaldamento atmosferico, alla fine inesorabile di una città che, ormai, viveva solo di ricordi. La notte calò fredda, esaltando l’affascinante gioco di luci colorate, la nebbia sorse dai canali, Venezia sembrò galleggiare sulle nuvole, tra le stelle, nascondendo le sue ‘rughe’. Adulti e bambini, si sentivano liberi di osare; era giovedì grasso e non esisteva il domani, contava solo lasciarsi andare. Al riparo della maschera tutti erano uguali, liberi dalle convenzioni comuni e da ogni differenza sociale.


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Il caos era intenso, Miranda camminò senza meta, trascinata dal flusso umano che danzava, scherzava, beveva. Svoltò a destra, cercando un po’ di riparo da tanta promiscuità, ritraendosi d’istinto al ribrezzo che, un arlecchino puzzolente e appiccicoso, le diede. Il ghigno su quel volto la fece sussultare. Era davvero una maschera? Si tirò di lato e proseguì con il cuore che le pulsava in gola. Guardò più volte indietro, con la sensazione di essere osservata, seguita. In un paio di occasioni le sembrò che due persone la guardassero. Indossavano la demoniaca: una rugosa maschera dorata con strisce rosse e due corna sulla fronte, conferendogli l’aspetto di demoni pronti a ghermirla. Si rincalzò il cappuccio e proseguì. All’ingresso di piazza San Marco un bambino vestito da Power Ranger sbucò dalla folla inatteso, tagliandole la strada, rincorrendo un coetaneo mascherato da Batman, tempestandolo di colpi con una finta spada laser lampeggiante. Miranda proseguì sorridendo tra se; notò una Colombina accarezzare il suo Arlecchino, finendo per baciarlo appassionatamente. Assalita dalla nostalgia, distolse lo sguardo. Coriandoli, stelle filanti, fischi, pernacchie facevano da sfondo alla necessità di sentirsi liberi: era lo spirito del carnevale che prendeva possesso delle anime, oltre che delle menti. In piazza, dove la concentrazione di corpi era già elevata, muovendosi a fatica, raggiunse una bancarella, acquistò una veneziana e del vino caldo, gustandoseli osservando la folla. Quando ne ebbe abbastanza, si fece largo avviandosi all’ingresso della basilica, cercando un po’ di tranquillità. L’interno le tolse il fiato, come ogni volta che vi entrava. La tipica architettura bizantina dalla pianta a croce greca, era impreziosita da mura e colonne che sembravano rivestite d’oro. Si fermò sotto la cupola della Genesi, osservandone le miniature decorate in oro e blu. Un Brighella si avvicinò, fingendo d’interessarsi alle immagini riprodotte. «Signora Riccardi, non si spaventi.» disse con voce calma. Miranda si girò di scatto. «Finga di scherzare» disse l’uomo. «La seguono.» aggiunse, indicandole due ‘demoni’ dalla pesante veste di stoffa grezza, marrone scuro. Cingendole la vita e spingendola in avanti, spiegò: «Venga, la farò uscire da una porta laterale.» La donna obbedì, credendo di riconoscerne la voce: «Giacomo, è lei?» «È poco importante chi io sia», spiegò Brighella «farò in modo che raggiunga il suo appuntamento, incolume.»


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Il cuore di Miranda accelerò i battiti, “In quale guaio sono finita?” pensò, seguendolo per una serie di scale piccole e tortuose. Uscirono in una strada oltre piazza San Marco, la nebbia aleggiava per la fredda umidità. I rumori giunsero distanti, ovattati. C’era calma, anche se il luogo incuteva timore e ribrezzo, per il puzzo di rifiuti che emanava. Brighella guardò l’orologio: «Sono le dieci, deve far presto il Ghetto è distante.» «Come posso ringraziarla…» Miranda provò a parlare, ma l’uomo portò l’indice alla bocca, scuotendo la testa e indicandole la direzione da prendere. La donna si alzò il cappuccio rabbrividendo, allontanandosi decisa. Si voltò un istante ma Brighella era già svanito nella nebbia, come un fantasma.


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Miranda raggiunse il Canal Grande nei pressi di Rialto. Piena di luci e colori, soprattutto lì, in prossimità di piazza San Marco, la principale arteria di comunicazione della città pullulava di gondole, motoscafi e vaporetti, intasandone il flusso. Nugoli di maschere, festanti e chiassose, sbarcavano instancabili. Fremente d’agitazione la donna si fece largo sul pontile, per salire sul vaporetto che l’avrebbe portata al sestiere Cannaregio. Inciampò su un’asse, ma evitò la caduta grazie al sostegno di un uomo in costume del seicento, velluto scuro e maschera da medico della peste. Impacciato dal lungo becco, il ‘medico’, chinò la testa salutandola al suo ringraziamento: «Di nulla, buon divertimento.» Lentamente l’imbarcazione si portò al centro del canale, Miranda sedette esausta. Osservò le poche persone che, come lei, si allontanavano dal centro del carnevale, cercando di capire se la seguissero. Scese alla fermata di San Marcuola. Sola. La nebbia, sua unica compagna, diede al luogo un’aria spettrale, l’odore di muffa e di legno marcio investì il suo naso, il cuore le saltò in gola in un misto di paura e attesa, tra pochi minuti, forse, avrebbe rivisto Rossella. Cercò le indicazioni per Rio Terà San Leonardo, addentrandosi in Calle del Cristo, superò Palazzo da Mosto e svoltò a sinistra bloccandosi, come trattenuta da invisibili catene: dal sottile strato di nebbia le apparve il Ponte delle Guglie, come fluttuasse su una nuvola. Deglutì, nonostante il rito ripetuto per undici anni, quel luogo la sgomentava ogni volta. Aguzzò la vista, cercando, nelle false ombre create dall’umidità intensa e lattiginosa, la figura snella e flessuosa di Rossella. Salì pochi gradini con passo malfermo: c’era qualcuno sul ponte, più di un’ombra, una persona, una donna. «Rossella!» esclamò. Paura, gioia, sorpresa; vinta dalle emozioni rimase stordita, incapace di muoversi e comprendere se fosse realtà o la magia del carnevale. Lì di fronte, per quanto incredibile le sembrasse, c’era l’amore della sua vita.


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Rossella indossava un costume blu brillante in raso, con finiture lavorate in fili d’oro. Corpetto e gonna ne fasciavano il corpo, dal cappello di velluto scendeva un velo impalpabile, dandole un aspetto ultraterreno. Il viso ovale, aveva uno sguardo triste, occhi e labbra erano truccati ugualmente di blu. «Sì Miranda, sono io» disse la donna, con voce piena di nostalgia. «Perché?» domandò la Gnaga vinta dall’inganno. «Non c’è tempo. Bevi questo.» rispose lo spettro blu, porgendole una piccola ampolla. Tendendole la mano aggiunse: «Vieni, è quasi l’ora…» Miranda fissò l’ampolla, bloccandosi stizzita: «Perché dovrei ascoltarti?» «Bevi e lo saprai.» rispose Rossella, sfidandola. «Sono passati undici anni», disse Miranda, indicandosi con ironia «e tu non sei invecchiata di un solo minuto. Sei forse una strega?» «Il sarcasmo non serve, come non serve classificare le persone. Bevi e, forse, scoprirai che siamo uguali.» A Miranda non importava più nulla, aveva pianto undici anni un amore che non lo meritava, cosa le restava adesso? Bere! Inghiottì il contenuto in un solo sorso, “Speriamo sia veleno e facciamola finita” pensò cinicamente. Fu ascoltata: una tremenda fitta allo stomaco la fece piegare in avanti, fissò Rossella sorpresa, come se non se lo aspettasse veramente. La giovane, sostenendola per la vita, la guidò sotto il ponte, dove si trovava un motoscafo, aiutandola a sedersi a poppa. Miranda iniziò ad avere le convulsioni, come se spirito e corpo lottassero per riunirsi. Il viso, pallidissimo, era imperlato di sudore, nonostante il freddo umido. I muscoli si contraevano indipendentemente dalla sua volontà, provocandole forti dolori. Immagini frammentarie del suo passato iniziarono a tornarle in mente. Rossella avviò il motore e partì. Si ritrovò inginocchiata in una stanza circolare. Intorno a lei, lungo il perimetro, altre giovani donne erano inginocchiate salmodiando una preghiera. Tutte portavano un velo di seta bianca, il cui bordo era impreziosito da un filo d’oro, intrecciato in ebraico antico. Non capiva come comprendesse la lingua, ma riconobbe le parole come formule cabalistiche. Al centro, una donna anziana invocò, con fervore, l’apertura delle sette porte dello spirito e la protezione delle dodici entità su tutte loro. Osser-


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vò la compagna alla sua sinistra, che ricambiò lo sguardo con un sorriso: era Rossella. Un dolore fortissimo al petto la fece urlare, ansimò per lo sforzo di rimanere cosciente, ricordò le dodici entità della Cabala e la sua ossessione per quel numero. Guardò Rossella al timone, senza riuscire a odiarla. «Perché mi uccidi con tale supplizio?» disse sibilando. Rossella si voltò, il suo viso esprimeva la medesima sofferenza: «Non ti sto uccidendo. Ti sto liberando dal demone, dal maleficio che loro ti hanno fatto…» Miranda fu sbalzata dalla mente in un altro tempo. Si trovò di nuovo nella stanza circolare, questa volta lei e Rossella erano nel mezzo, ai lati di un braciere ardente. Le loro sorelle, inginocchiate, ripetevano un’antica formula rituale. La stanza fu pervasa da una grande energia luminosa. Tonfi sordi provenivano dal portone di robusta quercia intarsiata, all’ingresso della Schola. «Aprite! In nome del doge.» urlarono. «Non possiamo lasciarvi rabhi», disse Miranda in ebraico «non adesso che il pericolo ci minaccia.» «Voi sarete la nostra salvezza» rispose la rabhi. «Voi riporterete il fiume del tempo nel suo antico letto. Andate figlie mie.» «Streghe! pagherete per la vostra immonda lussuria!» urlò il capo delle guardie. L’energia si concentrò in un cerchio luminoso, proprio di fronte alle due giovani, Rossella afferrò la mano di Miranda trascinandola nella luce. La massiccia porta di legno cedette, il marchese Nicolini Bon, alla testa delle sue guardie, si fermò poco oltre la soglia, guardandosi attorno con sadico cipiglio. Puntò l’indice verso Ester, la rabhi, pronunciando la condanna. «In nome di papa Bonifacio ottavo, vi condanno a morte per stregoneria!» Le Serve di Kronos chinarono il capo, incrociando le mani sul petto. Il marchese, traendo un piacere immenso, ordinò di procedere preparandosi ad assorbire tutta quell’energia, carica di violenza, che si stava scatenando. Gli uomini sciamarono nella stanza, metodici e letali nell’uso di spade e coltelli: Miranda si voltò per un istante e, prima che la porta del tempo si chiudesse, vide le sue sorelle trucidate dai soldati della Serenissima.


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Miranda tornò cosciente, uno spruzzo di acqua salata le sferzò il viso, poi, una nuova fitta la strappò alla realtà. La scena cambiò, si ritrovò sul Ponte delle Guglie con Rossella, quella notte maledetta del diciannove febbraio millenovecentonovantotto. «Non siamo sicure della data» disse. «Se fallissimo, potremmo commettere un errore irreparabile.» «Ma se non tentiamo subito, sua grazia ci troverà e potremmo non avere altre possibilità» rispose Rossella. Miranda si voltò verso palazzo Da Mosto impallidendo: «Sono vicini, molto vicini. Li sento!» Sibilò. Rossella guardò la compagna con dolcezza, le accarezzò la guancia, mentre una lacrima le rigò il viso: «Allora tenterò da sola, se fallirò, avrai un’altra possibilità.» Iniziò a recitare la formula rituale per l’apertura della porta temporale. Miranda, indecisa se fermare colei che amava o se fuggire seguendone il piano, la guardò lottare per potenziare l’incanto, nonostante usasse solamente la propria energia vitale. Improvvisamente percepì un’altra fonte energetica, oscura, malefica. Un senso di gelo le attraversò le membra immobilizzandola. Provò a gridare per avvertire la sua compagna ma non ci riuscì. Lentamente si accasciò sugli scalini, contro il parapetto. Un lampo improvviso colpì a pochi metri da lei: la porta del tempo si chiuse e Rossella scomparve. In preda alla disperazione, lottò per rimanere cosciente, riuscendo a sentire tre voci distinte: «Cosa ne facciamo di questa strega?» «Separate non possono fare granché. Tuttavia non possiamo correre il rischio che ci riprovi. La useremo come esca.» fu la risposta. «Sì vostra grazia, ma come potremo controllarla senza che lei usi il suo potere» chiese la terza voce. «Bloccheremo la sua memoria con l’incantesimo della psiche indotta. Ricorderà solo parte di ciò che è accaduto, la indurremo a tornare qui, ogni carnevale e noi la sorveglieremo. Se si riuniranno, le uccideremo entrambe.» Miranda fu presa da una fortissima nausea, senza forze si trascinò sulla fiancata del motoscafo liberandosi con forti conati di vomito. Lentamente il dolore scemò, lasciandola spossata, ma viva. Adesso ricordava tutto. «Perché non ci hanno fermato?» chiese con un filo di voce. Senza voltarsi Rossella annuì: «Giacomo li ha distratti con successo.» «Giacomo?»


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«Sì, lui. Nonostante il marchese Nicolini Bon sia riuscito a modificare il corso temporale», spiegò Rossella «una parte della Schola è sopravvissuta, creando una rete di osservatori che ci hanno aiutato.» Il motoscafo attraversò il canale di Giudecca, Miranda raggiunse la giovane Serva, ritta al timone: «Torniamo a casa?» domandò conoscendo la risposta. «Sì, torniamo sull’isola di Giudecca. Alle rovine della Schola, lì il nostro potere è più forte. Lì apriremo di nuovo la porta del tempo.» “Se sua grazia, non ci ucciderà prima” pensò Miranda. Si avvicinò a Rossella, le cinse la vita e lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Senza guardarsi entrambe piansero.


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Giunte all’imbocco del Canal San Biagio, Rossella spense il motore, prese un remo e lo infilò nello scalmo. «Sarà meglio procedere a remi.» suggerì. Miranda annuì, prese l’altro remo spostandosi verso l’altra fiancata dell’imbarcazione. Improvvisamente un motoscafo uscì dal canale a tutta velocità, virando a prora evitò di poco l’impatto; le onde fecero rollare la barca delle due Serve. Il ‘capitan Fracassa’, che pilotava il ‘Riva’ dei ragazzi, urlò qualcosa di incomprensibile, mostrando la bottiglia di birra, probabilmente ubriaco. Le due donne iniziarono a remare, il motoscafo si mosse lentamente, navigando nello stretto canale. Nel buio completo raggiunsero la Sacca di San Biagio. Approdarono a un vecchio pontile di legno fradicio. Conoscevano la strada, l’antica Schola era lì, poco distante, almeno ciò che ne restava. Le antiche mura erano coperte di rampicanti secchi. La zona era stata recintata dalla sovrintendènza ai beni archeologici. Recenti scavi per saggiare l’edificabilità del terreno, avevano riportato alla luce l’antico insediamento. Il piccolo lucchetto, che bloccava il cancello temporaneo, si aprì senza problemi sotto l’incantesimo pronunciato da Rossella. Illuminata dalla torcia, la nebbia creò ombre fantastiche. Miranda indicò un sentiero in lastre di pietra, seguendolo trovarono l’ingresso della stanza circolare. Per un istante le due donne restarono senza fiato di fronte al triste spettacolo delle rovine; Miranda ne raggiunse il centro, dove un moncherino indicava ciò che restava dell’antico supporto del braciere sacro, ne sfiorò la superficie con le dita. Un vento improvviso si alzò nell’antica stanza, liberandola totalmente dalla nebbia, una luce di origine incantata illuminò il luogo. Entrambe sorrisero tristemente. «Non mi hai ancora chiesto dove sono stata per tutto questo tempo» disse Rossella. «Ti avrei creduto morta anche senza l’incanto di Nicolini Bon» rispose Miranda. «Non sarei sopravvissuta a quel colpo diretto» spiegò Rossella. «Mi hai protetto tu, istintivamente, con la tua energia.»


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Le due donne si fissarono silenziose, colme di nostalgia per un frammento di tempo, distante ben più degli ottocento anni trascorsi, addirittura cancellato, come non fosse mai accaduto. Furono assalite da dubbi: sarebbero riuscite a rigenerarlo, restituendo la vita alle persone che amavano? Sarebbero riuscite a tornare indietro? Miranda si scosse da quei pensieri, conscia che il tempo ormai stringeva: «Dicevi?» «Finii in una sorta di limbo, fuori dallo spazio e dal tempo» spiegò, Rossella concentrandosi di nuovo. «Mi ci sono voluti dieci anni per raccogliere l’energia sufficiente a tornare.» La giovane Serva raggiunse la compagna al centro della stanza: «Ma ho potuto studiare la linea temporale», continuando con enfasi «scoprendo dove il marchese l’ha deviata. Il diciannove febbraio milleduecentonovantatré.» Pronunciò una formula, creando una vista temporale. Nel cerchio di luce si formò l’immagine di un palazzo veneziano di epoca medievale, con tre archi e l’intonaco rosa che spiccava in contrasto con il bianco marmoreo dei piani superiori, “Ca’ da Mosto” pensò Miranda. I soldati, guidati da Jacopo Nicolini Bon, entrarono con arroganza, salirono le scale raggiungendo l’appartamento padronale. Un uomo si pose davanti alla porta di legno d’ebano. «Antonio da Mosto, cedete il passo, o arresterò anche voi» ordinò Jacopo. «Marchese non avete alcuna giurisdizione qui!» rispose Antonio. «Ho l’ordine patriarcale, suffragato dal Canon Episcopi, spostatevi!» Due soldati afferrarono Antonio da Mosto, trascinandolo di lato, altri due minacciarono la servitù. Jacopo sfondò la porta con un calcio: la contessa fronteggiò con dignità l’intruso; pallida, in un pregiato abito di velluto blu notte, pur impaurita, non indietreggiò di un passo. «Sara da Levin, maritata da Mosto, vi arresto con l’accusa di stregoneria e di frode, per aver nascosto di essere ebrea.» Sara, senza una parola, uscì dalla stanza scortata da quattro soldati, mandò un bacio ad Antonio che si dibatteva nel tentativo di liberarsi. L’uomo invocò il nome della moglie invano. L’immagine scomparve: «Sara era incinta» spiegò Rossella. «Quel bambino non nacque e non divenne Enrico Cadamosto il riformatore, doge e condottiero.»


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«Capisco, ma salvando Sara non fermeremo quel demonio.» disse Miranda. «So cosa vuoi dire ma, se intervenissimo sul tempo, senza adeguati studi, rischieremmo di deviare la linea temporale in chissà quale direzione» aggiunse Rossella. «Ripristiniamone la parte che conosciamo, poi potremmo analizzare una soluzione definitiva.» Miranda annuì poco convinta, Nicolini Bon avrebbe potuto modificare di nuovo il tempo, con interventi così sottili da non essere individuabili. Senza il supporto della Schola e della sua rabhi sarebbe stato impossibile comprenderlo; era lui il loro vero obiettivo, ne era certa. Ciononostante seguì Rossella nel rito di apertura della porta temporale, pronunciò le formule incanalando la propria energia vitale con quella della sua compagna. L’energia calda e luminosa invase il luogo, convergendo verso il centro e formando un cerchio: la porta era aperta, tenendosi per mano le due donne accennarono un passo in avanti. «Non muovetevi streghe!» La voce di Jacopo Nicolini Bon risuonò nell’aria, crudelmente, proprio quando erano prossime al successo. Le Serve si voltarono; l’uomo puntò la mano destra, carica di energia simile all’elettricità, pronto a scagliare il suo raggio mortale. «Ispettore via quale teatralità per un uomo di legge» disse Miranda con plateale sarcasmo. «Crede di poterci fermare?» aggiunse in tono tagliente. «Ne sono certo», rispose Jacopo «anzi, uccidendovi, eliminerò per sempre le Serve.» La donna lasciò la mano di Rossella, allontanandosi lentamente. La giovane intuì le intenzioni della compagna. Pensò come questa volta fosse lei a dover scegliere, tra il dovere e l’amore. Scosse la testa, fissando Miranda piena d’angoscia. Improvvisamente una seconda voce maschile risuonò, senza incertezze, nella stanza: «Abbassa quel braccio demonio!» Brighella uscì dall’ombra, puntando la sua ‘beretta’ contro il negromante. Miranda sorrise al suo angelo custode “Appena in tempo, Giacomo” pensò. Il negromante rimase freddo, spostò lentamente il piede destro all’indietro, mettendosi di lato per controllare sia le donne sia il loro tirapiedi. La Serva calcolò con la coda dell’occhio la posizione di Rossella, nessuno sembrò voler fare la prima mossa.


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Fu Jacopo a colpire: ruotò il braccio con sorprendente velocità verso Giacomo, il raggio d’energia scoccò, fulminando Brighella al cuore. Sentendo che la vita lo abbandonava, l’uomo premette il grilletto cadendo. Miranda spinse Rossella nella porta temporale. Il proiettile, come al rallentatore, raggiunse il negromante alla spalla sinistra, distruggendo il talismano che portava al collo mentre completava la rotazione su se stesso, per scoccare un secondo raggio verso Rossella. Il passaggio temporale si richiuse salvando la giovane Serva; Miranda invocò l’apertura delle sette porte dello spirito e le dodici entità. La stanza prese a ruotare velocemente, un raggio di energia calò dal cielo investendola. La Serva ne assorbì la potenza. Si alzò a due metri dal suolo, pronta a colpire. Jacopo reagì, nonostante la ferita. La perdita del talismano l’aveva indebolito ma riuscì a creare uno scudo energetico. La scarica di Miranda giunse in ritardo di una frazione di secondo: ci fu una tremenda esplosione che proiettò la Serva e il negromante attraverso un tunnel caleidoscopico di colori. Miranda comprese che Nicolini, con grande opportunismo, aveva sfruttato l’energia del suo colpo per aprire un passaggio nella quarta dimensione, e raggiungere un luogo più favorevole al suo potere. L’accelerazione dei loro corpi aumentò vertiginosamente, superando la velocità della luce. Miranda vide scorrere galassie, stelle, sistemi e mondi sconosciuti, perdendo la cognizione del tempo. Con grande concentrazione riuscì a non perdere coscienza, attendendo la fine della corsa. Improvvisamente la porta dimensionale si aprì, proiettandola con violenza sulla superficie di un mondo arido e deserto. Non senza sforzo riassunse una posizione eretta. Si guardò attorno e vide solo rovine. Nessun albero, nessun ramo, per quanto secco, spuntava da quella terra morente. Saette blu elettrico squarciavano nubi rosso rubino, colorando il cielo di un malsano rosa cupo, simile a sangue. Respirava con difficoltà. Anche l’aria, povera d’ossigeno, non sosteneva più la vita. Fissò le rovine di un’immensa piramide, forse, un tempo, alta più di cinquecento metri, che si ergeva ancora minacciosa. Di fronte all’ingresso vide Jacopo, il marchese negromante. Entrambi si tolsero la maschera, coscienti che non fosse più necessario ricorrere al carnevale e ai suoi riti, per raggiungere i propri scopi. La Gnaga e la Demoniaca furono trascinate via dal vento. “Niente più ambiguità” pensò Miranda.


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Un’intuizione le rese tutto più chiaro: «Questo è il vostro mondo, almeno ciò che ne resta» disse indicando con la mano il desolato luogo circostante. «Non siete umano!» Jacopo si avvicinò, fermandosi a circa trenta metri da lei. «Sì, avete indovinato. La nostra fame di violenza l’ha distrutto, eoni fa.» «Voi vi alimentate con l’energia sprigionata dalle emozioni violente?» domandò incredula Miranda. «Noi le assorbiamo.» rispose Jacopo sorridendo cinicamente «E’ un piacere irrinunciabile. Voi la definireste una droga.» «Così avete plasmato la linea temporale della Terra per generare più violenza» continuò Miranda, spiegandolo più a se stessa. «Ho diritto a sopravvivere.» affermò l’alieno. «Voi siete un’infezione!» sibilò Miranda «E come tale sarete trattato!» La Serva iniziò a pronunciare le formule d’invocazione, muovendo le mani e le braccia secondo il rituale, per caricarsi di energia. «Guardati intorno, strega», disse Jacopo «noi siamo gli antichi, noi abbiamo raggiunto la conoscenza, voi non siete più senzienti di un gatto ai nostri occhi. Noi soli abbiamo il diritto di sopravvivere.» Il negromante puntò il braccio destro, la mano stretta in un pugno, preparando una nuova radiazione, meno intensa. Entrambi scoccarono, contemporaneamente, l’energia. Magia contro scienza. I due raggi cozzarono come lame di spade in duello, annullandosi per un istante, poi quello di Miranda prese il sopravvento colpendo Jacopo, che fu sbalzato a terra. Il negromante si rialzò, sorridendo cinicamente: «Siete molto potente Serva di Kronos, ma qui, all’origine del tempo, dove tutto ricomincia, io sono il più forte!» Miranda comprese che quel demonio aveva ragione, Jacopo attingeva, tecnologicamente, all’energia vitale di quello stesso pianeta morente, fornendogli la forza sufficiente a sconfiggerla. Pensò in fretta, doveva scoprire quale fosse la fonte del suo potere e interrompere quella connessione. “La piramide!”, l’idea balenò improvvisa nella mente della serva. Raccolse tutta l’energia che poté accumulare nel suo corpo, quindi puntò entrambe le mani, unite come un’arma, e scoccò il colpo distruttivo verso l’antica costruzione. «Nooo!» urlò Jacopo. Il raggio penetrò le spesse pareti fondendo il rivestimento esterno, raggiunse le fondamenta, poi giù, nel cuore di quel mondo oscuro, oltre le


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rocce e il mantello, reagendo con il magma che si canalizzò attraverso le spaccature verso la superficie eruttando in numerosi vulcani. Parte del raggio proseguì colpendo il nucleo ferroso ancora pulsante, interrompendone la rotazione e squilibrandone il campo magnetico. Per un attimo tutto si fermò, con un pallore mortale Jacopo si guardò attorno incredulo. Le esplosioni si susseguirono a ritmo infernale, dai monti scese un fiume di lava bruciando e sterilizzando. Una fortissima vibrazione del terreno annunciò il terremoto: Grossi massi si staccarono dai resti della piramide che alla fine crollo, implodendo. Pazzo di rabbia Nicolini si avventò su Miranda nel tentativo di strangolarla, ma non fece che pochi passi. Il pianeta esplose, disintegrandosi in milioni di particelle proiettate nello spazio. La Serva venne risucchiata dal tunnel interdimensionale, riaperto dall’energia sviluppata nell’esplosione di quel pianeta antico. Questa volta, sorpresa, perse i sensi.


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Miranda aprì gli occhi, sbatté le palpebre, mettendo a fuoco la stanza. Avvolta in fresche lenzuola di seta, fu percepì una serenità quasi dimenticata; quel luogo emanava una quiete rassicurante. La luce filtrava soffusa attraverso il tendaggio. Sentì una presenza calda al suo fianco, si voltò e vide il profilo seducente del corpo di Rossella. Resistette alla tentazione di abbracciarla e si alzò, indossò una leggera vestaglia e raggiunse la finestra. La giornata era radiosa. Oltre il canale della Giudecca, Piazza San Marco risplendeva dei suoi marmi bianchi e preziosi, l’oro delle guglie della basilica sfavillava sotto i raggi di un sole prematuramente caldo. Venezia era viva e cosciente del suo fulgore. Ovunque gli stendardi della Serenissima garrivano al vento. Tornò verso il letto, sfiorò un sensore e l’olotv si accese. Il telegiornale trasmetteva la notizia del giorno. Rossella si svegliò mettendosi seduta, senza dire una parola ascoltarono trattenendo il respiro. Il diciannove febbraio duemilanove è una data che resterà nella storia – disse il cronista con enfasi – Ieri il Doge Enrico nono Cadamosto, ha ricevuto Papa Benedetto sedicesimo. È singolare che, proprio ieri, giovedì grasso, si sia ratificato il trattato sulla libera circolazione della magia, propugnato dalla Serenissima… Le due donne si abbracciarono, baciandosi con passione ardente. Erano tornate a casa, la linea temporale era stata riportata nel giusto corso, la prova era il doge in persona, discendente di Antonio e Sara da Mosto. Inoltre il fulgore di Venezia ne mostrava la benevola sorte. Bussarono alla porta. «Avanti.» disse Miranda perdendosi nei bellissimi occhi del suo amore. Rabhi Ester entrò, avvolta nel cerimonioso abito bianco, intrecciato di fili d’oro. Miranda e Rossella chinarono la testa, alzandosi e portando le mani giunte al petto: «Rabhi…» dissero all’unisono. «Mie care, che gioia ritrovarvi.» disse Ester.


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«Ci siamo riuscite? Abbiamo ripristinato la linea temporale?» domandò Rossella, cercando la conferma di un fatto evidente. Ester annuì: «Sì, ma solo in quest’universo.» L’entusiasmo delle due Serve affievolì, cancellando momentaneamente la letizia dai loro visi. Si strinsero la mano cercando conforto l’una nell’altra. «Ci sono molti universi», spiegò Ester dolcemente «in questo abbiamo vinto. In altri chissà… rallegriamoci di vivere qui.» «Come sempre la vostra saggezza ci guida, rabhi» disse Miranda piegando la testa in segno di rispetto. Ester annuì, guardando con affetto entrambe le donne. «Sono felice che ieri vi siate sposate qui, nella nuova Schola del Servaggio a Kronos» disse l’anziana donna. «Volevo salutarvi, è tempo che torni al mio secolo.» «E noi?» domandò Rossella preoccupata «Non torniamo con voi? Non è il nostro secolo.» aggiunse scambiandosi un’occhiata con Miranda. «Voi resterete qui. Insegnerete alle nuove adepte che il tempo è come una fiera: se l’avvicinate con leggerezza o malvagità può divorarvi. È ora di andare.» Miranda e Rossella presero le mani di Ester portandosele alla fronte. «Ricordate, voi avete tutto il tempo del mondo per amarvi, niente di più e niente di meno. Vi benedico figlie mie.»



OGNI VITA Genere Fantascienza Anno 2009



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In plancia regnava il silenzio. Il ronzio dei sistemi di controllo, insieme al lampeggiare di qualche led, dava vita alla nave, differenziandola da un relitto alla deriva. Chiunque, solo in quella sala, avrebbe trovato così noiosa e costante la ripetitività di quegli unici stimoli, da subirne gli effetti ipnotici; qualsiasi evento che interrompesse quella monotonia sarebbe stato ben accetto, un antidoto contro i lunghi sbadigli, una sferzata d’energia per alimentare lo sforzo estremo di tenere aperte le pesantissime palpebre, e la mente sveglia. Alexjiei Olgarov si passò la mano sul volto, nel vano tentativo di scacciare il torpore che lo attanagliava. Ligio al dovere e ai regolamenti attivò l’ologramma della carta astrale, fare il punto sulla posizione era il primo dovere di ogni buon marinaio. Sfiorò alcuni tasti a console e aumentò il fattore d’ingrandimento, proiettando tridimensionalmente una riproduzione in scala della costellazione in cui erano appena entrati: il Centauro. Ricalibrò i sensori a lungo raggio puntandoli verso il centro, potenziandoli alla massima diffusione. Sbuffò, pensando a quante volte aveva usato quella procedura. Impostò il filtro radio per scandire la banda subspaziale su dodici megawatt, alla ricerca di un ripetitore. Si stirò emettendo un lungo gemito. Ciondolando raggiunse il replicatore alimentare: prese una tazza di caffè nero e bollente, bevendolo a piccoli sorsi. Rabbrividì per il bruciore che la temperatura del liquido gli creò nello stomaco. Imprecò mentalmente e aprì il comunicatore: «Sam preparati a ricevere i dati, ho avviato la procedura di ricerca.» «OK capo», rispose Craigner, l’analista di bordo, che in tono sconsolato aggiunse «e come al solito non troveremo nulla. Nessuno sopravvive nello spazio senza rifornimenti per quindici anni.» Invece Alexjiei, nonostante i numerosi fallimenti, ci sperava ancora. Forse Sam aveva ragione pensò, tuttavia era convinto che fosse necessario tentare. Per lui la missione aveva, soprattutto, un valore morale. I milioni di morti dell’ultima guerra avrebbero dovuto insegnare a comprendere il valore della vita, nessuno doveva essere abbandonato, tutti avevano dirit-


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to di tornare a casa. Prese un altro sorso di caffè e fissò sullo schermo le stelle: sì, lui ci credeva fermamente. Quella sera in quadrato – la sala adibita a luogo comune, per le riunioni o i pasti – l’equipaggio si ritrovò per la cena. Solo Sam rimase in plancia, sorbendosi il turno di guardia. Alexjiei sorseggiò la sua minestra di pomodoro, “Almeno è calda” pensò, non riuscendo a riconoscere il reale gusto dell’ortaggio vero. «Stiamo di nuovo scandagliando lo spazio?» domandò Tiara O’Bannon, il medico di bordo. «Sì.» rispose Alexjiei laconico e senza guardarla. «È promettente?» Insistette la donna, leggermente seccata dall’atteggiamento del capitano. «Ci sono molte emissioni» intervenne l’astrofisico di bordo, Flora Rimelli. «Il Centauro è una costellazione molto ricca di stelle, ma i nostri sensori sono abbastanza potenti.» Alexjiei alzò le spalle, ammettendo di non saperne di più. Tiara sbuffò e sedette rumorosamente al tavolo. Jesus Tiago, l’ingegnere motorista, scoppiò a ridere, imbrattandosi di sugo e attirandosi lo sguardo fulminante di Tiara. «Nessuno di voi ci crede, vero?» disse il capitano, esprimendo un sospetto velato di delusione. «Dopo quindici anni?» rispose Jesus scuotendo la testa, mentre si strofinava la blusa con il tovagliolo. «E tu ci credi?» intervenne Flora «Senza rifornimenti e ricambi, quelle piccole stazioni radio come potevano garantire la sopravvivenza.» «Avete dimenticato il discorso d’insediamento del presidente? ‘Ogni vita è preziosa e la condurremo a casa’. Così disse.» gli occhi del capitano brillarono per un istante. «Erano tutti criminali», sbottò Jesus seccamente «gente che si sarebbe fatta anni di galera, invece li ha barattati con l’isolamento nelle stazioni di amplificazione, per puro opportunismo. Abbiamo problemi più seri sulla Terra che cercare quei rifiuti umani.» «Allora perché hai firmato il contratto» lo schernì Tiara. «Per soldi» spiegò il brasiliano, nel suo inglese addolcito dall’inflessione portoghese. «Per cos’altro vale la pena di farsi cinque anni in questa scatola di latta, con quattro noiosissimi compagni.» Il capitano fissò il suo ingegnere duramente. Scaricò i suoi avanzi nel riciclatore biologico: «Ogni vita ha valore Jesus, ogni vita.»


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«Balle!» rispose secco il motorista «Non siamo migliori degli imperiali, solo molto spaventati. Dai tempo al tempo e, quando la paura sarà sbiadita, qualche nuovo figlio di puttana ci scaraventerà di nuovo nell’abisso.» Flora e Tiara abbassarono lo sguardo imbarazzate. «Allora sarà della tua genia!» concluse in tono sprezzante Alexjiei, fronteggiando il brasiliano con grande tensione. «Ehi ragazzi calma. Cos’è mal di spazio?» Intervenne Flora mettendosi tra i due uomini. «Ho un motore da controllare» disse Jesus. «Con il vostro permesso, capitano.» L’ingegnere uscì dal quadrato, non prima di aver scaricato la rabbia colpendo lo stipite con un pugno. L’interfono suonò, sciogliendo la tensione accumulata. «Alexjiei i sensori captano un segnale.» Il volto del capitano cambiò espressione, passando dal cipiglio dovuto allo sforzo di controllarsi, alla sorpresa mista a speranza. Scambiò sguardi eccitati con le due donne: «Arrivo subito Sam.»


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L’astronave K-19 Scout cambiò rotta, virando verso il quinto pianeta del sistema Tentoris. Ad Alexjiei non sembrò vero. Erano in missione da tre anni e in ogni settore visitato non avevano mai trovato nulla. Più di una volta aveva pensato che i dati, forniti dagli archivi della distrutta marina imperiale terrestre, con le coordinate delle vecchie stazioni di trasmissione dislocate nello spazio, fossero un falso o comunque incompleti. Colpa della battaglia finale combattuta sulla Terra, il cuore dell’impero. Ricordò molto bene cosa successe, allora era un giovane ufficiale, un traditore della marina imperiale. La flotta coloniale aveva travolto l’ultima difesa degli imperiali, schierata sull’orbita di Nettuno, invadendo il Sistema Solare. Le truppe d’assalto stavano sbarcando sulla Terra per mettere fine alla guerra. Il raggio teletrasporto materializzò Alexjiei Olgarov e i suoi uomini il più vicino possibile alla sala comando, dove gli imperiali coordinavano le operazioni di difesa. Se fosse riuscito a far saltare il loro computer avrebbe distrutto il sistema di controllo, abbreviando la battaglia e salvando molte vite. Il radar nel casco gli indicò le coordinate dell’obiettivo. «Sergente disattivate quelle porte.» ordinò. Due uomini armeggiarono con i circuiti, bloccando l’accesso e proteggendoli da un assalto alle spalle. Un raggio sorprese i guerriglieri, uccidendo due uomini. Alexjiei rispose al fuoco fulminando un imperiale. Il sergente lanciò una granata sonica, eliminando i restanti nemici. «Forza andiamo!» Urlò il tenente Olgarov. L’edificio vibrava per il bombardamento subito, gli scudi energetici, parzialmente, reggevano ancora ma avevano subito gravi danni, come dimostravano le macerie sul pavimento. Il gruppo raggiunse la sala comando, un plotone di guardia aprì immediatamente il fuoco: un coloniale cadde letteralmente senza testa. Alexjiei si gettò dietro un cumulo di detriti sparando alla ceca. Erano bloccati.


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Il tempo stringeva e stavano giungendo altri soldati di rinforzo. Alexjiei sapeva che i terrestri avrebbero fatto pagare molto cara la vittoria ai coloniali. Inaspettatamente un’esplosione fece crollare parzialmente il soffitto sui difensori. «Avanti!» Urlò di nuovo Olgarov, approfittando della confusione e della polvere che riduceva la visibilità. I guerriglieri abbandonarono i ripari, muovendosi tra fumo e scariche elettriche; piccoli incendi si innescarono riempiendo l’aria del puzzo di gomma bruciata. Fu un massacro senza distinzione di schieramento, l’odore del sangue e della carne cauterizzata dai raggi laser spaventò gli uomini, rendendoli più furiosi; sudore freddo e nausea assalirono Alexjiei. Intuì che erano tutti stremati ma dentro quella sala, nel computer centrale, c’erano dati importanti. Dati che sarebbero stati utili quando la guerra fosse finita, per tornare a esplorare lo spazio. «Sergente appena dentro mettete in sicurezza la sala. Dobbiamo bloccare il computer ma non distruggere le banche dati.» «Sissignore», rispose il suo secondo senza entusiasmo, lui odiava tutto ciò che proveniva dall’impero «ma voglio vederli tutti morti quei bastardi.» Piazzarono le cariche sulla porta, per un istante i due uomini si fissarono, leggendo l’uno negli occhi dell’altro tanta stanchezza. L’edificio ondeggiava come se ci fosse il terremoto; le esplosioni si susseguivano, il rumore era assordante, continuo e angosciante. Il martellamento annichiliva la volontà di ogni soldato, togliendogli ogni speranza, e regalandogli la certezza che la fine sarebbe giunta comunque, era solo una questione di tempo. Olgarov e il sergente si ripararono dietro i detriti del soffitto crollato. Le cariche saltarono creando un varco di tre metri nella parete, gli invasori irruppero facendo fuoco di sbarramento. «Area sterilizzata, signore.» il sergente usò la formula imperiale,più elegante, per dichiarare il massacro dei nemici. “Tre minuti, solo tre minuti” pensò Alexjiei: si tolse il casco scorrendo uno a uno i dodici cadaveri, ancora fumanti. Si scosse attirato dallo schermo sulla parete impostato in modalità di proiezione strategica: vi era schematizzato l’andamento della battaglia. «Hanno una riserva di navi!»sibilò, rendendosi conto del pericolo imminente «È una trappola.» «Signore senza il computer centrale non possono coordinare l’attacco.»


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Il sergente aveva ragione, Alexjiei lo sapeva e non c’era tempo per discriminare i dati da distruggere, ma così non sarebbe rimasto più nulla. «Tenente il computer va distrutto, adesso!» urlò il sergente scuotendolo con forza. Olgarov abbassò la testa e con voce atona diede l’ordine. «Distruggetelo.» Il sergente si collegò al computer dalla console principale, inserì un virus che, con un effetto domino, distrusse tutta la banca dati e tutto il network terrestre. Il ricordo sbiadì. Alexjiei tornò in sé, scosse la testa cercando di scacciare quello e altri rimorsi: alla fine le colonie avevano vinto, pagando un prezzo altissimo in vite umane e in capacità strutturali. Solo da cinque anni l’economia globale aveva permesso agli uomini di tornare nello spazio. Eppure quel segnale dimostrava che il passato non poteva essere cancellato. Le stazioni esistevano e lui ne aveva rintracciata una. Fissò quel piccolo sasso nello spazio che era Tentoris V, avvertendo l’emozione attanagliargli il cuore. Sperò con tutto se stesso in un miracolo. Doveva esserci un sopravvissuto: uomo o donna che fosse lo avrebbe riportato a casa, e sarebbe stato il simbolo della riappacificazione. Provò a immaginare cosa si potesse provare a vivere soli da almeno diciotto anni, ma non ci riuscì, era qualcosa di indescrivibile, sperò che non fosse impazzito di solitudine. Scacciò quel pensiero, lui credeva alle parole del presidente: “Ogni vita, Ogni vita…” ripeté a se stesso. «Sei emozionato, vero?» domandò Sam con voce bassa e controllata, quasi non volesse turbare i pensieri dell’amico. «Sì» rispose il capitano. «Forse siamo i primi a ritrovare una di quelle stazioni.» «Servivano ad amplificare e ritrasmettere le trasmissioni sub spaziali, giusto?» chiese Sam. «Già. Era un lavoro essenziale che permetteva i contatti radio tra astronavi e colonie. Ma per ridurre i costi le stazioni erano gestite da una sola persona, e quindi vi mandavano i criminali condannati a pene pesanti.» spiegò Alexjiei. «Lo sai che è impossibile che qualcuno sia sopravissuto nella stazione.» Alexjiei annuì: «Ma forse i miracoli avvengono. Per noi lo fu.» Il computer di bordo elaborò le coordinate di destinazione e calcolò il tempo di rendez-vous: «Otto ore e saremo nell’orbita del pianeta.» disse il capitano ad alta voce.


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«Jesus» Olgarov chiamò la sala macchine dall’interfono. «Riduci la potenza. Un quarto d’impulso.» «Un quarto d’impulso.» grugnì Tiago, ancora risentito per lo scontro verbale avvenuto in quadrato. Alexjiei scosse la testa, consultò la sua console e ordinò una correzione di rotta: «Sam riduci l’angolo di tangenza di tre gradi.» «Meno tre gradi di tangenza» rispose Sam. «Orbita stabilizzata.» La nave ebbe un lieve sussulto, adattandosi alla debole forza di attrazione di Tentoris V, galleggiando sullo strato più sottile della sua atmosfera: stavano sorvolando l’equatore. Lo schermo visualizzò l’immagine di un piccolo e arido pianeta grigio, non adatto alla vita umana. L’orbita intorno al proprio sole era sincrona, dividendo la superficie tra un eterno giorno e un’eterna notte. I due uomini provarono curiosità e delusione: «Credi ancora ai miracoli Alexjiei?» «Sintonizzati sul segnale.» disse il capitano, evitando la maliziosa domanda. L’interfono suonò: «Allora? C’è davvero una stazione?» domandò eccitata Tiara dall’infermeria. «C’è!» confermò Sam «È il segnale automatico, però. Significa solo che gli apparati sono ancora in funzione.» Il capitano aprì la comunicazione a tutti i comparti: «Riunione operativa in quadrato. Immediatamente!» ordinò con decisione «Sam inserisci l’automatico.» Il segnale proveniva dalla zona di confine tra luce e oscurità, unica area temperata del pianeta. Il computer di bordo ne elaborò una mappa geografica tridimensionale, dopo due orbite complete. Sam individuò la stazione nell’emisfero boreale, duecento chilometri a nord dell’equatore, settore Ω457. «Sbarcherò con lo shuttle da esplorazione.» esordì Alexjiei. Tiara lo fulminò con uno sguardo carico di disapprovazione. «Hai solo dodici ore di tempo.» disse Flora agendo sui comandi dello schermo olografico. L’immagine cambiò, spostandosi dal pianeta alla stella dalla luminosità rossastra. «Come sapete Tentoris è una nana rossa di classe M, e l’attività della sua fotosfera mi fa sospettare che a breve ci sarà un flare.» «Ne hai calcolato la potenza?» domandò il capitano.


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«Non ho abbastanza dati» rispose l’astrofisica. «Ma credo che il vento solare sarà molto energetico.» Ci fu un momento di silenzio. Tiago fissò Alexjiei con aria di sfida. Sam scosse la testa: «È un bel rischio.» Tiara arrossì: «Alexjiei, rinunciamo.» disse per una volta in tono sommesso, conosceva la sua fissazione. «No!» disse il capitano «Seguiremo il piano. Scenderò con lo shuttle da solo. Almeno per una ricognizione.» «Non è meglio scendere in due?» suggerì la dottoressa in tono secco «Se succedesse qualche imprevisto…» «Per una ricognizione otto ore saranno sufficienti» spiegò il capitano. «Riportare la Scout a casa in tre è troppo rischioso. Se mi accadesse qualcosa la missione sarà conclusa e tornerete immediatamente sulla Terra. È un ordine.» Il volto di Tiara avvampò di rabbia e uscì dalla sala: se avesse potuto sbattendo la porta. «Ho inserito nel computer le coordinate della stazione» spiegò Sam. «Fai attenzione è su un monte e l’area di atterraggio potrebbe essere ostruita.» Senza altro da aggiungere la riunione si sciolse, ognuno tornò ai propri compiti, preparandosi a un lungo turno di lavoro.


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Due ore più tardi Alexjiei era seduto ai comandi del modulo di esplorazione. Indossava la tuta pressurizzata senza il casco. Accese il quadro comandi e iniziò la procedura di sganciamento dalla nave. «Buona fortuna Alexjiei.» disse Sam in tono pacato. «Ci vediamo tra otto ore. Chiudo.» Il modulo si staccò dalla Scout con un sobbalzo, ruotò di centottanta gradi, gli ugelli del motore si colorarono di giallo rovente e schizzò verso Tentoris V. Nonostante l’atmosfera rarefatta non fu facile volare. Lo shuttle registrò una bassa presenza di ossigeno, mentre sulla superficie, quello che sembrava acqua ghiacciata si rivelò essere ammoniaca semiliquida. Il nucleo del pianeta, ferroso ed estremamente compatto, generava un debole campo magnetico che impediva l’evaporazione ma non la ionizzazione dell’aria. Alexjiei trasmise i dati a Flora. «Ricevuto Alexjiei, fai attenzione è un ambientino esplosivo.» disse l’astrofisica tra il serio e il faceto. «Sarò scrupoloso. Confermi il flare?» rispose il capitano. «Sì, e le radiazioni saranno molto forti. Ricordati hai meno di dodici ore.» Olgarov confermò e chiuse la comunicazione, lo shuttle cominciava a ballare e richiedeva tutta la sua attenzione. La ionizzazione dell’aria generò un forte vento, che aumentò di velocità nelle fenditure della catena montuosa. Alexjiei compì una discesa a spirale, cercando di tenere il vento in coda. Questo gli fece risparmiare un bel po’ di carburante, anche se lo costrinse a pilotare manualmente. Attivò i sensori e collimò il segnale emesso dalla stazione con le coordinate nel computer; osservò le immagini sul monitor: l’antenna, una torre cilindrica di tre metri di diametro e alta dodici, sembrava in buono stato. La cupola della stazione vera e propria sembrava integra, anche se erano visibili i segni di frane che ne avevano intaccato il rivestimento. La piattaforma di atterraggio era piena di detriti. Il capitano compì due passaggi circolari sopra di essa, cercando il punto più libero per l’atterraggio.


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Individuò uno spazio tra due enormi massi, a circa dieci metri dall’ingresso a tenuta stagna della stazione, attivò il sistema di atterraggio verticale: i due ugelli ruotarono di novanta gradi usando la spinta dei motori per posarsi sulla superficie. A tre metri di altezza attivò il carrello. Lo spazio di atterraggio costrinse Olgarov a posizionare lo shuttle trasversalmente rispetto al vento, rendendo difficile mantenere il velivolo in assetto. A un metro da terra, una folata improvvisa si insinuò sotto l’ala, spingendola in alto. Lo shuttle si inclinò a sinistra colpendo un grosso masso con la ruota, che strisciò sulla roccia sotto il peso del velivolo mettendone a rischio l’integrità strutturale. Lo shuttle si inclinò pericolosamente. Alexjiei reagì prontamente diminuendo la spinta nell’ugello di destra e dosando la potenza per spostarsi leggermente in avanti. La manovra riuscì parzialmente: il carrello sotto l’ala sinistra si piegò sotto la spinta delle due forze subite. Con uno schianto l’aereo atterrò appoggiando l’ala sui resti del masso frantumato. Il contraccolpo proiettò Alexjiei in avanti, urtando con la testa il pannello radio. Intontito si tastò la tempia, macchiando di sangue il guanto. “Dannazione” pensò. Indossò il casco e aprì il portello posteriore, la differenza di pressione fece uscire l’aria dalla cabina con forza, spingendolo verso gli scalini. Girò attorno al velivolo per controllare i danni. Purtroppo il carrello era inservibile; Alexjiei comprese che se non fosse riuscito a decollare al primo tentativo, il peso del velivolo avrebbe piegato irrimediabilmente l’ala. Informò Sam di essere atterrato, omettendo il particolare dell’incidente. L’aria fischiava intorno a lui, con passo malfermo raggiunse la porta della camera stagna della stazione. Nel cielo, blu scuro per l’assenza quasi totale dell’atmosfera, una serie di scariche statiche dardeggiavano di luce spettrale sulle rocce fredde. I tuoni che ne scaturivano facevano tremare l’instabile roccia, dando l’impressione di un’imminente nuova frana. Alexjiei accese la torcia sul casco, illuminando la tastiera sul pannello di apertura, digitò il codice e con uno sbuffo pneumatico la porta strisciò a lato. Varcata la soglia i sistemi ambientali ripristinarono un’atmosfera compatibile. L’analizzatore sul suo braccio indicò che l’aria era respirabile. Sorpreso si sfilò il casco: c’era odore di muffa ma tutto sommato niente di sgradevole. Premette il pulsante della seconda porta ed entrò nella stazione. L’illuminazione era scarsa ma sufficiente; molti detriti, soprattutto plastica mista a vetro, erano sparsi sul pavimento, e c’era polvere dappertutto, che si alzava in nuvolette al passaggio dell’esploratore. Lungo il cor-


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ridoio c’erano due porte, guardò attraverso l’oblò e nella prima vide vecchie tute pressurizzate: sperò che fossero ancora efficienti, altrimenti avrebbe avuto un problema con il superstite; entrò e si liberò della sua, per essere più agile durante l’esplorazione. Nella seconda vide parti di ricambio, impolverate ma ancora ben stoccate nei loro scaffali. Infine raggiunse l’ascensore per accedere ai livelli inferiori; era ancora funzionante “Meglio non testarne l’efficienza” pensò. «Olgarov a Scout.» chiamò di nuovo la nave prima di scendere ai livelli sotterranei. «Tutto bene li dentro?» rispose Sam. «Ci sono molti detriti ma la stazione sembra ancora funzionante. Scendo al livello due. Chiudo.» Usò il condotto d’emergenza e scese utilizzando gli scalini metallici. Tiara O’Bannon entrò in plancia, non resisteva sola in infermeria, l’ansia era troppo forte e Sam era un vecchio amico di Alexjiei. «Oh, Tiara» disse l’analista, accorgendosi della sua presenza. «Qualcosa non va?» «Sono preoccupata per Alexjiei.» «È un astronauta esperto», la consolò Sam «tornerà incolume, vedrai.» Tiara scosse la testa: «No, lui è sempre più lontano. Questa missione è diventata un’ossessione, come se volesse fare ammenda per qualche colpa commessa in passato.» Le parole uscirono come un fiume, Tiara portò le mani dalle dita esili al volto per bloccare le lacrime, i suoi profondi occhi neri divennero lucidi. Sam, confuso, si avvicinò e lei, cercando conforto, pianse sulla sua spalla. Si staccò quasi subito riprendendo il controllo: «Scusami, ma tre anni sono lunghi per trattenere un pianto.» «Giuro che non capisco» disse Sam. «Sei innamorata di lui?» Fu la prima sensazione che l’analista ebbe, per quanto gli sembrò così improbabile. «Innamorata?» rispose lei in tono sarcastico «Guarda.» Frugò nella tasca dei pantaloni e ne trasse un anello: una fede nuziale. «Siete sposati?» Sam impallidì per la sorpresa. Pensava di conoscere bene Alexjiei, avevano condiviso le miserie della guerra e molta sofferenza, invece si sentì un estraneo. «Sì.» confermò la dottoressa con un filo di voce. «Ma in questi tre anni non vi siete mai… mai… avvicinati.» Sam pensò alla loro amicizia, gli sarebbe piaciuto essere il testimone di nozze. Scac-


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ciò quel risentimento ricordandosi che forse Alexjiei non aveva mai superato la sua sofferenza interiore. «Quando Alexjiei si è offerto per la missione, stavamo per separarci. Perché soffre così tanto. Tu lo sai Sam?» Craigner sospirò profondamente. Sedette sulla poltroncina di comando e fissò lo spazio infinito, attraverso il monitor. Tiara si portò di fronte all’uomo fissandolo con decisione. «Tu lo sai?» domandò di nuovo, alzando la voce. Sam controllò la console poi guardò la donna: «Siedi, abbiamo tempo. Alexjiei, prima di divenire un eroe della ribellione era un guardiamarina imperiale. Lo sapevi?» Tiara spalancò gli occhi sorpresa. «Per tutta la durata della guerra fu considerato un traditore, soprattutto da suo padre: l’ammiraglio Olgarov…» Tutto cominciò su Arshawei, Alexjiei era nato lì perché suo padre comandava la locale base imperiale. La ribellione era già scoppiata: cinque colonie, su altrettanti pianeti, si erano dichiarati indipendenti dall’impero e l’ammiraglio Olgarov preparava una spedizione punitiva. Era un uomo orgoglioso e fedele alla corona, vedeva in suo figlio la continuazione di questa sua vita. Alexjiei aveva ottenuto ottimi risultati all’accademia: il suo sogno si era avverato. I coloni avevano buoni motivi per ribellarsi, l’impero li usava per espandersi, come aveva sempre fatto, ma questa volta nessuno voleva avventurarsi su nuovi pianeti e ricominciare daccapo, tantomeno su Arshawei e Alexjiei, che considerava quel pianeta la sua patria, la pensava allo stesso modo. «Ammiraglio, il guardiamarina Olgarov chiede di vedervi.» disse l’attendente ritto sulla porta. «Lo faccia passare.» rispose Olgarov con un enorme sorriso, avrebbe informato suo figlio della nomina a bordo della Romanov. «Guardiamarina Olgarov a rapporto» disse il giovane, impettito sull’attenti L’ammiraglio guardò il figlio pieno di ammirazione, lo vedeva splendido nell’uniforme; in lui rivedeva se stesso molti e molti anni addietro.. «Alexjiei, figlio mio.» l’ammiraglio si alzò e lo abbracciò. Il giovane si staccò imbarazzato. L’anziano ufficiale rimase confuso ma da buon soldato si riprese subito. «Sei stato nominato a bordo della Romanov, la mia nave.»


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Fissò il figlio aspettandosi gioia e soddisfazione. Ma il giovane abbassò lo sguardo. «Stai preparando la spedizione?» domandò con tono imbarazzato. «Sì! Sarà un ottimo inizio per te.» «Padre ci stanno cacciando dalle nostre case!» L’ammiraglio si rabbuiò, sedette alla scrivania e congiunse le mani davanti agli occhi. Alexjiei incalzò, appoggiandosi al bordo di pregiato legno. «Non c’è libertà in questo, non c’è voglia di viaggiare in questo!» disse con tono deciso. Quante volte ne avevano discusso, litigato perfino, ma sempre tra le mura domestiche, dove Nadia sua moglie era sempre riuscita a riappacificarli. Qui nella base imperiale però lui era un ammiraglio dell’impero, e Alexjiei un suo ufficiale. «Alexjiei! Guardiamarina Olgarov questa è sedizione!» rispose con tono molto formale. Alexjiei ignorò questo avvertimento e protestò ancora. «Ma Arshawei è la mia casa!» tentò di spiegare il giovane quasi con disperazione. Ma neanche il vecchio Olgarov ascolto il segnale sito nella voce di suo figlio. «Tu sei un ufficiale dell’impero. La tua fedeltà va alla Terra e alla corona imperiale!» ribadì l’ammiraglio alzandosi in piedi rosso in viso. «Quindi ordinerai allo squadrone di fare rotta verso Brechworld?» domandò Alexjiei conoscendo la risposta, aveva già deciso doveva solo avere la forza di andare fino in fondo. «Certamente e tu ne farai parte.» Alexjiei abbassò la testa e, con gli occhi lucidi, premette un pulsante sulla cintura. «Mi dispiace signore ma non obbedirò, non lo farò!» L’ammiraglio impallidì, non credeva alle sue orecchie. “Non è vero” pensò temendo l’irreparabile, ma non fece in tempo a tentare alcunché, due soldati entrarono nello studio con i fucili laser spianati. «Ammiraglio lei è in arresto.» disse deciso Alexjiei, ricacciando le lacrime nel fondo del suo cuore. «Traditore!» sibilò Olgarov «Mio figlio è un traditore.» All’ammiraglio mancarono le forze, l’età non c’entrava, avrebbe sradicato un albero con le sole mani. Era alto, ancora vigoroso, con un fisico perfetto ma in quell’istante invecchiò di ceno anni, le sue spalle si piega-


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rono, svuotato. Tutto quello per cui aveva lottato, in cui aveva sperato era svanito in un istante. Uno dei soldati disarmò l’alto ufficiale. «Restate qui», ordinò il guardiamarina «vado a verificare la situazione.» Alexjiei uscì ma non fece dieci passi, sentì urlare uno dei due soldati di guardia. Tornò di corsa nello studio di suo padre per vederlo riverso sulla poltrona. «Mi dispiace signore», disse il soldato «ha preso una pillola mi ha detto che, che era un medicinale.» Alexjiei accarezzò il volto rugoso e duro di suo padre, una lacrima gli percorse la guancia: «Portatelo a casa.» Quel giorno il governo locale di Arshawei si dichiarò indipendente, e aderì alla lega delle colonie ribelli. Ad Alexjiei fu offerto il comando della Romanov ma rifiutò. Prima di partire con la squadra navale, passò da casa per salutare sua madre. Nadia Olgarov accolse il figlio in silenzio, lo fissò a lungo senza parlare, con gli occhi colmi di pianto. «Madre… — Alexjiei si avvicinò cercando conforto in un abbraccio. La donna si ritrasse e lo colpì con un tremendo schiaffo: «Non osare parlare nella sua casa, traditore.» Alexjiei rimase ritto e in silenzio, guardò sua madre con il cuore gonfio di tristezza, chinò leggermente la testa battendo i tacchi: «Come desiderate, madre.» Si voltò per uscire. «Signore!» Nadia lo chiamò e aggiunse «Mio figlio è morto oggi, signore. Per voi sono e sarò solo la contessa Olgarov.» Il giovane ascoltò senza girarsi, le spalle sembrarono curvarsi sotto un peso immane: «Ai vostri ordini, contessa.» rispose con un filo di voce e proseguì. «Non si videro mai più.» Sam concluse il racconto e Tiara aveva il volto arrossato dalle lacrime. «È tutto ciò che so, Tiara.» «Mio Dio non mi ha mai detto nulla.» disse lei soffiandosi il naso e cercando di recuperare il controllo. «Perché sei qui a bordo?» domandò Sam. Tiara sospirò: «Non volevo che finisse così. Ho fatto domanda di essere imbarcata sulla Scout, a sua insaputa.»


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Flora, l’astrofisica chiamò all’interfono, interrompendoli: «Sam l’attività su Tentoris è in aumento. Manca poco al flare.» «Registra tutti i dati e cerca di calcolare i tempi di arrivo del vento solare.» rispose Sam aggiungendo «Sarà meglio restare in fase con l’orbita sulle coordinate della stazione.» Diede ordine a Tiago di attivare i motori e impostò la nuova rotta, mettendo la Scout in orbita sincrona con il settore Ω457.


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La discesa al livello due, utilizzando la scaletta di servizio, fu molto faticosa. Il sistema ambientale della stazione funzionava ancora, ma alcuni guasti ai componenti diffusi sui vari livelli ne rendevano scarsi gli effetti. Per fortuna l’energia non era un problema, visto che la fonte era geologica, Alexjiei si asciugò la fronte con la manica. Guardò in basso, scorgendo il portello del livello due dieci gradini più sotto. Sbuffò! Un forte vibrazione gli fece perdere l’equilibrio. Si afferrò con forza ai gradini metallici, mentre una pioggia di detriti lo investì imbiancandolo di polvere: tossì e starnutì. “Frana o terremoto?” pensò, si augurò che la cupola resistesse almeno per le prossime dieci ore. Fu costretto a forzare il portello usando la pistola laser. Si guardò attorno, vide l’ingresso alla sala comando e vi entrò con decisione. La luce era scarsa ma sufficiente, individuò la console primaria provando subito ad accedere alla banca dati. Sfiorò alcuni comandi e improvvisamente la luce aumentò, il monitor principale si accese e una voce, leggermente metallica ma tipicamente femminile, lo fece sobbalzare. Qui stazione Jota uno otto sette cinque punto nove tre. Fatevi riconoscere… Il capitano si voltò di scatto verso il monitor: vide l’immagine di una donna sui quarantacinque anni, capelli corti e castani, il volto ovale dalla carnagione chiara, ancora molto bella. Pensò che fosse una registrazione, così evitò di rispondere e tornò a scrutare la console. La voce continuò. Mio Dio c’è qualcuno? Vi prego rispondete… Questa volta Alexjiei si voltò lentamente, fissando quel volto speranzoso sul monitor. “Non può essere un messaggio registrato, questo…” pensò. Decise di rispondere, anche se gli sembrò stupido. «Sono il capitano Olgarov, della nave K-19 Scout.» Si sentì sempre più ridicolo, stava parlando a una macchina, ma la curiosità prese il sopravvento. «Lei chi è?» Sono la dottoressa Giselle Saint Fleury.


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Una vertigine colpì Olgarov, costringendolo ad appoggiarsi alla console alle sue spalle: «Come, come ha detto… prego?» Giselle Saint Fleury, ero una esperta di cibernetica sulla Terra. fece una pausa poi abbassò il tono di voce Molti anni fa. Alexjiei tentò di non farsi sopraffare dall’emozione. «Da dove chiama, da un livello inferiore? Posso raggiungerla?» nonostante i suoi sforzi la voce gli tremò. Ci fu un minuto di silenzio, l’immagine sullo schermo sembrò bloccarsi. Olgarov ebbe l’impressione che ci fosse una consultazione in atto. Non ci sono altri livelli. Mi può trovare nella stanza accanto. La porta pneumatica alla sua sinistra si apri con uno sbuffo, la luce diffusa aumentò. Leggermente titubante Alexjiei raggiunse l’ingresso, fermandosi a osservare. Flora irruppe letteralmente in plancia, il suo volto esprimeva una grande preoccupazione. Sam e Tiara se ne resero conto subito preoccupandosi a loro volta. «Che succede Flora?» domandò Sam alzandosi e avvicinandosi all’astrofisica. «Temo che questo flare sia di una potenza mai registrata, almeno in questo sistema.» rispose la donna con tono grave. «Quanto?» domandò Tiara. «Ho effettuato un’analisi spettrometrica della cromosfera e controllato le macchie sulla corona. Ho calcolato una classe X27, e visto che Tentoris V praticamente non ha una magnetosfera, i sistemi sulla stazione saranno distrutti dalle radiazioni. Per non parlare dei pericoli per la vita umana.» Sam si sfregò il mento: «Con questa potenza nemmeno gli scudi della Scout ci proteggeranno. Dobbiamo andarcene.» «Bisogna avvertire Alexjiei.» disse Tiara. «Quanto tempo abbiamo?» domandò Sam a Flora. «Dal momento dell’eruzione, se come penso la velocità sarà almeno di cinque milioni di chilometri all’ora, circa sei ore. «Ok. Flora monitorizza costantemente la stella e informaci appena l’eruzione avviene. Tiara prepara le iniezioni per la radiazione. Ora avverto il capitano.» Le due donne uscirono dalla plancia, Craigner chiamò Olgarov e poi sedette a fissare lo spazio, sempre più preoccupato.


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Olgarov entrò nella sala: era un comunissimo laboratorio. Le pareti erano interamente occupate da sistemi di elaborazione e controllo. Due console erano derivate agli estremi opposti. Al centro si trovava un grosso cubo di allumite, un leggero ma resistente metallo derivato da una lega. Aveva un lato lungo circa due metri. Molte spie e indicatori fornivano informazioni sul funzionamento. Il capitano si avvicinò al cubo, notò su di esso una specie di cilindro, probabilmente in plexiglass. A due passi si bloccò: in quella specie di teca vide un corpo umano, un uomo. Sembrava ben conservato. Lo osservò più da vicino. Il pallore ne indicava la probabile morte, ma non sembrava avere ferite. “Un momento, la sua testa” pensò. Girò alle spalle dell’uomo e, dapprima con disgusto poi con sorpresa, vide che la scatola cranica era aperta; ma non era un cervello umano quello: “Positronico” pensò. “Ma certo, allora per aiutare gli esiliati che si comportavano meglio, venivano forniti androidi positronici. Per simulare compagnia ed evitare che impazzissero”. Con la coda dell’occhio notò una seconda teca. Aggirò il cubo trovando il corpo di una donna. Questo non si era conservato, lei non era un androide, i suoi erano resti mummificati. Alexjiei sbiancò: dov’era Giselle? Tornò nella sala comando. «Dottoressa, non ho tempo da perdere» esordì in tono seccato. «Mi dica dove si trova.» L’immagine della donna tornò sul monitor. Mi ha già trovato, capitano. Disse in tono sommesso, controllando una forte emozione. «Ho trovato un androide e un… un cadavere. Non può…» Sono io, capitano. Quelli sono i miei resti mortali. «Lei è molto depressa, capisco che la solitudine …» Alexjiei provò a giustificare quel comportamento assurdo. Una seconda voce intervenne, il tono era maschile. L’immagine sul monitor cambiò. Giselle, ti prego, lascia parlare me ora. Olgarov osservò stupito quel volto: era l’androide che aveva visto nella prima teca.


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Capitano sono R. Jackson Frame. Androide classe Delta 9, serie uno quattro due sei. Sono stato assegnato alla dottoressa Saint Fleury, come compagno e assistente tecnico. Posso confermarle che il corpo umano che ha visto è quello della… di Giselle. Alexjiei, a bocca aperta per lo stupore, notò quel cambio di tonalità nella voce dell’androide, e l’intimo riferimento al nome di battesimo della donna. «Ma come è possibile, lei è morta.» Dimentica che la dottoressa era… è una esperta di cibernetica. Il cicalino del comunicatore del capitano suonò. «Alexjiei mi ricevi?» disse Sam. «Forte e chiaro Sam.» «Ci sono cattive notizie. Flora ha analizzato Tentoris: il flare sarà di classe X27. Brucerà tutti dispositivi elettronici e ci sarà pericolo di vita per gli umani.» «Capisco» rispose Alexjiei. «Quanto tempo abbiamo?» «Forse otto ore.» «D’accordo Sam. Chiudo.» Allora questa volta moriremo davvero. La voce di Giselle era colma di disperazione. Capitano abbiamo una sola possibilità. R. Frame intervenne con tono privo d’emozioni. Olgarov fissò lo schermo, non poteva essere vero ciò che quei due gli volevano dare a intendere, non era mai stato realizzato, era pura teoria. Questa volta fu Giselle a parlare e prendere posto sul monitor. Capitano so cosa pensa, ma io sono riuscita a realizzare la teoria del trasferimento. L’ho studiata per tutta la vita. Mi creda. Deve credermi. «E l’androide? Non mi dica che ha reso senziente anche lui.» No. Non sarebbe stato possibile. Avrei dovuto rigenerare la sua matrice, cancellando la sua personalità. Sarebbe stato come avere di nuovo un neonato di un metro e novanta. «Quindi?» insistette Olgarov. Quindi sono diventato senziente spontaneamente. Intervenne R. Frame. Alexjiei scosse la testa confuso, passò la mano sul volto sudato, cercando chiarezza in quella assurda situazione. Una forte scossa fece vibrare tutta la stazione, alcune lampade esplosero e una pioggia di vetro e detriti cadde dal soffitto. «Dannazione!» urlò il capitano. La stazione non reggerà a lungo. Constatò Giselle. Lei è la nostra ultima speranza.


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«Chi mi dice che non siate altro che un programma molto sofisticato.» Se le mostrassimo i nostri ricordi, ci crederebbe? Domandò R. Frame. Alexjiei alzò le spalle. Non la possiamo vedere capitano, deve rispondere. Spiegò Giselle. Olgarov pensò che era una pazzia, eppure era giunto in quella stazione grazie alla sua determinazione: avrebbe rinunciato proprio adesso? «Cosa devo fare?» Deve usare il casco cibernetico. Spiegò Giselle. «L’ha provato una sola volta. Funzionerà ancora?» protestò Olgarov. Una volta giunta qui, nel computer spiegò la dottoressa ho perfezionato il programma di gestione, rendendolo compatibile per una comunicazione diretta. La parte meccanica effettivamente è un po’ vecchia, ma non rilevo malfunzionamenti. Il capitano scosse la testa, sapeva che quell’aggeggio poteva bruciargli il cervello: “Al diavolo! Facciamolo e basta” pensò. «Va bene, lo farò. È come se vi credessi già, non lo trova stupido da parte mia?» No lo trovo coraggioso. Rispose Giselle. Comunque vada, e qualunque sarà la sua decisione finale, noi le saremo eternamente grati capitano. Disse R. Frame. Si sdrai sul cubo aggiunse Giselle, accanto ai miei resti e indossi il casco. Al resto penseremo noi. Alexjiei obbedì, indossò il casco e chiuse gli occhi. In un attimo sentì la sua coscienza come risucchiata in un gorgo, un vortice d’acqua che gli diede la sensazione di annegare. Durò pochi secondi, poi gli parve di fluttuare mentre in tutto il suo essere fluivano immagini ed emozioni. Olgarov si trovò in un tribunale terrestre, molto prima della guerra civile. La dottoressa era in piedi tra due agenti, di fronte al giudice, non c’era molta gente ad assistere a quel processo. «… e pertanto questa donna si è macchiata del peccato più grave che l’umanità possa commettere», l’avvocato dell’accusa stava concludendo l’arringa finale «“Ubris”» alzò la voce, sottolineando l’antico termine latino. «Sentirsi uguale o addirittura superiore a Dio.» La giuria rumoreggiò, con cenni di disapprovazione. Giselle scosse la testa, lei aveva solo sviluppato una teoria. L’avvocato dell’accusa proseguì: «Perché volere dare la vita a una macchina, renderla pari all’uomo, alla creazione di Dio è come sentirsi dei a sua volta» indicò Giselle condannandola. «Quella donna lo ha fatto, con i suoi studi sulla cibernetica.»


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La dottoressa abbassò la testa, sapeva di non avere alcuna possibilità di salvarsi. La giuria tornò in aula, erano stati sufficienti solo dieci minuti. Il giudice lesse il verdetto e si rivolse all’imputata. «Giselle Saint Fleury, questa corte vi ha riconosciuto colpevole di ubris. Il pericolo che tale idea si diffonda ci obbliga a essere severi. Pertanto vi condanno a trent’anni di carcere, pur riconoscendovi alcune attenuanti. Volete aggiungere qualcosa dottoressa Saint Fleury?» «No! Non servirebbe.» Il capitano percepì l’angoscia della donna, la sua tristezza per una colpa e una pena che non sentiva sue. «La corte vi propone di commutare la pena in quindici anni di servizio su una delle stazioni radio, ai confini dell’impero. Accettate?» Vi fu un attimo di silenzio. Giselle si guardò attorno poi tornò a fissare il giudice: «Accetto!» In un lampo l’immagine cambiò. Alexjiei riconobbe la stazione, totalmente funzionante e senza detriti sparsi ovunque. Giselle controllava i dati sulla console primaria. «Maledetta tempesta» disse ad alta voce. «Alzare gli scudi energetici, interrompere il segnale.» Il capitano si domandò perché la donna parlasse come se desse degli ordini, ma era ovvio che lo faceva per tenersi compagnia; era un effetto della solitudine di cui percepì in lei l’estrema sofferenza. Le pareti della stazione vibrarono. «Una frana. Verifica dei danni.» «Danni minimi, gli scudi tengono…» L’immagine cambiò: ora Giselle era nella sua camera, sdraiata sul letto e parlava ad alta voce: «Un altro giorno è passato, ora il totale è millecinquecentododici.» Era stanca, prossima a cedere alla rassegnazione. Un blip della console di derivazione l’attirò, il monitor proiettò un messaggio del comando di flotta. Giselle tornò a letto piangendo di felicità: «Avrò un compagno, avrò un compagno…» Nuovo salto in avanti: Alexjiei sentì l’intensità dell’attesa nella mente di Giselle; era il giorno dell’arrivo. L’energia del teletrasporto si dissolse e l’androide apparve ritto e immobile, al centro della sala comando. «Buongiorno dottoressa Saint Fleury», salutò l’androide con voce atona «sono R. Jackson Frame.»


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Olgarov percepì un pizzico di delusione nella donna, rendendosi conto che R. Frame era solo una macchina, ma lei scacciò subito quel pensiero. «Chiamami Giselle, io ti chiamerò Jack. Benvenuto.» Giselle girò attorno all’androide sfiorandone gli abiti e saggiandone la muscolatura delle braccia. «Sono forte a sufficienza per i compiti assegnatimi.» spiegò R. Frame. Anche il capitano si concentrò su Jack e, con sorpresa, sentì che l’androide si sforzava di controllare le sue reazioni, mantenendole il più neutre possibile. Quella notte la donna non riuscì prendere sonno, rigirandosi nervosamente nel letto. Improvvisamente si alzò e raggiunse la stanza dell’androide. Entrò senza riflettere. Non voleva riflettere, l’avrebbe fatta sentire meschina, ma era anche umana e l’attesa era stata lunga, la solitudine totale. Non voleva impazzire. Era disposta tutto per rimanere se stessa, anche a fingere una realtà impossibile. «Al diavolo se sei una macchina» disse in tono serio e deciso. «Oltre quattro anni di solitudine sono troppi» R. Frame la fissò. «Sei programmato per il sesso?» «Sì, dottoressa.» «Allora fa il tuo dovere.» Alexjiei percepì un cambiamento, ora i ricordi provenivano dall’androide. Sentì confusione, sorpresa e desiderio. R. Frame osservava di nascosto Giselle, il ricordo della notte passata insieme non lo abbandonava, e questo non era previsto dal suo sofisticato programma sessuale. Questa sensazione lo lasciava perplesso, sapeva che la sua mente si era evoluta in modo imprevisto, e lo aveva nascosto molto bene. Solo non sperava di riuscire a provare anche emozioni. Era bellissimo per lui provare amore e vi si lasciò andare. Con meticolosa attenzione cominciò a mostrare piccole attenzioni per Giselle, poco alla volta. Lei se ne accorse, ma la sua mente razionale le suggerì che fosse parte della programmazione, però era felice, perché si sentiva meno sola. Una nuova tempesta di ioni era in atto, il forte vento aveva danneggiato l’antenna. «Devo uscire a ripararla.» disse Giselle. « È pericoloso! È più opportuno che sia io a uscire.» suggerì R. Frame.


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Giselle fissò l’androide, si rese conto di temere che si potesse danneggiare. Era il suo unico compagno e, se fosse mancato, sarebbe impazzita: «Vado io è un ordine di priorità uno.» Assunse un tono deciso, di comando, tale che un androide non l’avrebbe potuto ignorare, vincolato dalle leggi della robotica. «No!» rispose seccamente R. Frame «Non ubbidirò!» Alexjiei percepì il terrore nella mente di Jack: la paura che Giselle morisse, di non vederla più. La donna rimase senza parole. Stentò a credere a ciò che aveva udito. Jack, l’androide aveva rifiutato il suo preciso ordine: era impossibile. Lo fissò in quegli occhi artificiali e ci lesse preoccupazione. «Ma non puoi, il tuo programma…» «No! Non ubbidirò!» R. Frame si voltò, raggiunse l’ascensore per salire in superficie, approfittando della confusione nella dottoressa. Mentre usciva dalla stazione, preda della violenza di quel mondo impossibile, l’immagine di Giselle riempì la sua mente. Adesso ne era sicuro: lui l’amava. La dottoressa restò impietrita in sala comando, non ancora sicura di ciò che era accaduto e non accettando ciò che il suo cuore le suggeriva. Temeva che potesse accadere ma aveva sempre pensato che sarebbe riuscita a distinguere l’uomo da una macchina. Era assurdo, contro natura, forse disperazione ma lei amava quell’androide e sentiva che ne era contraccambiata, Jack la amava come un uomo, era vivo, fatto di circuiti e metallo ma vivo. “Jack ti prego, fa attenzione e torna da me” pensò. Il nuovo salto in avanti portò Olgarov a tre anni dopo. Il capitano trovo i due amanti felici. Entrambi erano coscienti del miracolo che era accaduto e felici di essere li per poterlo vivere ogni giorno. Erano molto innamorati. La terra tremo di nuovo, per un periodo molto più lungo. I sensori segnalarono una perdita d’aria. «Vado io.» disse Jack. «No, tocca a me. Ricordi?» «Ma io sono più forte.» «Jack ti amo e abbiamo stabilito che siamo pari, tu vali quanto me e questa volta è il mio turno.» Giselle uscì con la tuta pressurizzata, la perdita era a due metri dall’ingresso. La raggiunse con molta fatica. Saette e tuoni riempivano la poca aria irrespirabile. La condensa interna la fece sudare e rabbrividire; si mise a lavorare. La terra tremò con forza, numerosi ciottoli caddero dal fianco della montagna.


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«Perdita individuata. Procedo a sigillarla» disse Giselle alla radio. «Jack, Jack mi ricevi?» «Forte e chiaro amore.» La dottoressa si voltò: lui era li, indossava la tuta ma solo per proteggersi dalle radiazioni. Lei sorrise: «Avanti allora, facciamo in fretta.» Una nuova scossa, più violenta, la fece cadere, perse i sensi per alcuni minuti. Si svegliò spaventata: «Jack?» «Sono qui… Giselle…» «Tutto bene?» «Non preoccuparti è.. è solo… un malfunzionamento.» Giselle scattò in piedi, vide la tuta di Jack: era squarciata sulla gamba sinistra e le radiazioni avevano intaccato tessuto e circuiti. «Mio Dio Jack!» Con fatica riuscirono a rientrare. Giunti in laboratorio la dottoressa fece distendere l’androide sul cubo. Esaminò il danno e il suo volto si oscurò. «Lo so è… è più grave di quanto… sembri, vero?» disse lui calmo, ma con molta fatica. «Amputerò l’arto, e fermerò la radiazione…» Jack scosse il capo: «No! Lo sai che… che è irreversibile. Sei una cibernetica.» Lei pianse: «Lotterò, non ti permetterò di lasciarmi.» «C’è solo un… modo.» suggerì Jack. «Quale?» chiese lei con speranza. «Devi… scaricare la mia banca dati… nel computer, prima che… che il mio cervello si danneggi…» Giselle impallidì: «Ma… ma, significa la fine del tuo corpo.» «Morirò totalmente… se non lo fai.» Giselle annuì, si spostò alle sue spalle, prese uno strano attrezzo con cui rimosse la parte superiore della scatola cranica. Prese dei cavi e alcuni connettori, faticava a vedere con gli occhi colmi di pianto. Collegò il cervello di Jack al computer, poi si avvicinò al volto di lui e lo baciò sulla bocca teneramente. «Arrivederci presto… amore mio.» disse R. Frame. Ancora un salto in avanti e un altro anno era trascorso, i contatti con la Terra si erano interrotti, da qualche mese, senza motivo. Giselle passava il suo tempo a studiare e a fare test di laboratorio. Aveva rinunciato a riparare il corpo di Jack, ma cercava un modo per tradurre in realtà la teoria del trasferimento: condurre la mente umana nella banca dati del computer.


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«Ancora sveglia amore?» la voce di R. Frame risuonò calda e paziente. «Sono a buon punto, caro.» «Devi riposare, altrimenti ti ammalerai.» «Che mi importa. Se potrò, cercherò di vivere con te anche in una realtà virtuale.» Il salto portò Alexjiei avanti di sei mesi, Giselle era sfinita, era pallida e magrissima, spesso non mangiava e dormiva solo qualche ora. Lavorava come divorata da una febbre. Si fermò contemplando la sua opera: il casco cibernetico di trasferimento era pronto, «Non l’hai collaudato. Giselle può ucciderti.» Jack era preoccupato, il momento era giunto. «Ho un solo tentativo, se si bruceranno i circuiti non potrei ripararli. Proverò e fra poco sarò con te.» Giselle si sdraiò sul cubo, indossò il casco e chiuse i contatti elettrici. Il suo corpo fu attraversato da una tremenda scarica elettrica, si inarcò e sussultò rigido come pietra. Urlò di dolore puro, con gli occhi sbarrati. Poi il silenzio. Un leggero fumo uscì dal casco e dal resto del corpo senza vita della donna. «Giselle, Giselle…» chiamò Jack, atterrito. «Sono qui amore.» la voce di lei lo raggiunse da un area precisa della banca dati. Jack la individuò subito, avrebbe pianto se avesse potuto, provò una felicità immensa, virtualmente si abbracciarono con forza e amore. Alexjiei si svegliò. Si accorse che le lacrime gli rigavano il volto. Tolse il casco e si mise in piedi. Un lieve capogiro lo sorprese ma tutto sommato si sentiva bene. Ripensò a quanto aveva visto e sentito: quello era un vero amore, così forte da vincere perfino la morte. L’aveva provato. Improvvisamente pensò a Tiara, a quello che aveva provato sposandola, e a quello che aveva perso a causa dei suoi sensi di colpa. Tutto bene capitano? La voce di Giselle era un sussurro. «Sì, sto bene.» rispose tornando nella realtà della stazione. Adesso ci crede? Capitano, ci crede? «Sì!» Olgarov annuì «Vi credo e troverò un modo per portarvi a casa.» Una violenta scossa fece tremare tutta la stazione, per un attimo l’energia si ridusse a zero, Alexjiei si rialzò e corse alla console primaria. Capitano non abbiamo più tempo disse R. Frame stiamo usando l’energia ausiliaria.


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Abbiamo solo quattro ore poi il computer si spegnerĂ Aggiunse Giselle e con esso anche le nostre menti.


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Flora Rimelli non aveva mai smesso di monitorare Tentoris, la stella del sistema, prossima a una emissione di radiazioni molto elevata. La vita del capitano e dei suoi compagni dipendeva dalla precisione dei suoi calcoli. Mentre osservava la corona solare con il telescopio elettronico di bordo, le sembrò di vedere sdoppiarsi la superficie. Si stropicciò gli occhi, il sudore le inumidì le dita. Tornò a fissare Tentoris: una enorme protuberanza stava letteralmente esplodendo nello spazio. “Per Diana” imprecò mentalmente. Misurò l’intensità luminosa del flare e ne calcolò il tempo di esplosione, riuscì a definirne l’intensità “Avevo ragione, sarà veloce e molto intensa”, scosse la testa a quel pensiero, quindi si precipitò all’interfono. «Sam, Sam.» urlò in preda alla tensione. «Che succede Flora.» rispose Craigner, preoccupato dalla voce dell’astrofisica. «Ci siamo Sam» spiegò la donna, controllando il respiro per calmarsi un poco. «Il flare è esploso.» Craigner si passò la mano sul viso, “Adesso si che si balla” pensò: «Quanto tempo abbiamo?» «Sei ore e cinquantotto minuti. Ma ci servirà almeno un’ora per allontanarci.» «D’accordo, avverto il capitano.» «Tiara puoi venire in plancia?» La dottoressa O’Bannon percepì più che preoccupazione nella voce di Craigner: fu come se si fosse reso conto di aver perso qualcuno che gli era molto caro. Subito il pensiero si fissò su suo marito; pallida raggiunse la sala comando. Entrò come un ciclone: «È successo qualcosa ad Alexjiei?» domandò con voce stridula. Sam la guardò molto seriamente: «Ascolta e dimmi cosa ne pensi.» Il secondo di bordo apri il contatto radio: «Alexjiei vuoi ripetere per cortesia?» Olgarov aveva immaginato che sarebbe stato difficile credere a una storia tanto assurda, però aveva contato sull’amicizia di Sam, invece lui aveva dubbi sulla sua sanità mentale. Forse Tiara lo avrebbe aiutato.


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«Ho trovato due superstiti: un uomo e una donna.» Il volto di Tiara si illuminò, stava per commentare con entusiasmo, ma Sam la bloccò. «Il problema», aggiunse Alexjiei con un attimo di incertezza «è che non sono fisicamente vivi.» Tiara spalancò gli occhi e scambiò uno sguardo con Craigner: «Cosa vuoi dire?» «Che solo le loro menti sono sopravvissute.» «E come, come… ci sarebbero riusciti?» chiese Tiara con voce angosciata. «Le hanno trasferite nei banchi di memoria del computer.» Sam scosse la testa, sospirando. «Alexjiei sai che è impossibile, forse le radiazioni hanno influenzato il tuo giudizio…» «Non è così, li ho trovati e sono vivi!» ribadì deciso Olgarov «Ho bisogno di aiuto per trasferirli nella memoria della Scout.» «Capitano sarebbe meglio che tornassi a bordo, scendo io a fare una nuova verifica e se hai ragione…» suggerì Sam con tono indeciso. «Sam non giocare con me», disse Olgarov «il mio cervello funziona ancora, ma abbiamo solo quattro ore, poi l’energia si esaurirà e li perderemo. Dovete credermi.» «Capitano ti ordino di risalire. Come medico ho questa autorità.» disse Tiara seccamente. «Allora partite subito e andate al diavolo, perché io non tornerò senza di loro.» Alexjiei chiuse il contatto e tornò a esaminare i dati nel computer centrale. «Che si fa?» domandò Sam a Tiara. «Dobbiamo assecondarlo», suggerì la donna «quando sarà convinto di essere riuscito a trasferirli a bordo tornerà, e potremo curarlo.» Sam annuì e richiamò il capitano: «Va bene Alexjiei, cosa dobbiamo fare?» Craigner chiamò la sala macchine: «Un quarto d’impulso Jesus.» Tiago confermò; gli ugelli della Scout si arroventarono spingendo la nave verso un’orbita più bassa. «Nuovo angolo di tangenza meno due gradi.» ordinò Sam. «Angolo inserito.» confermò Flora. La Scout scese a spirale entrando nell’atmosfera di Tentoris V; ora la nave vibrava e sussultava in preda al vento e alla ionizzazione dell’aria.


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«Cazzo Sam», urlò Tiago all’interfono «manderai in pezzi i miei motori.» «Orbita stabile.» disse Flora. «Alexjiei siamo in orbita.» disse Craigner alla radio. «Impostate il segnale sulla micro banda: zero punto due punte sette. Poi connettete il computer di bordo con la stazione.» ordinò il capitano. Sam si mise al lavoro, seguendo le istruzioni. Nonostante i disturbi l’amplificatore di bordo riuscì a realizzare una connessione stabile. Olgarov ricontrollò il segnale: erano pronti. Jack ti prego vai tu disse Giselle. Ne abbiamo già discusso, cara. Tocca a te. Io ti seguirò, appena il segnale sarà di nuovo libero. «Forza dottoressa, prima cominciamo e prima ce ne andremo da qui.» disse Alexjiei. D’accordo acconsentì la dottoressa. Non farmi brutti scherzi Jack. Dall’altoparlante si udì una risata. Procediamo capitano disse Giselle. «Sam sto per inviare i dati.» comunicò il capitano. A bordo della nave i dati si riversarono nel computer come una marea, Craigner non credeva ai suoi occhi: «Per la miseria», imprecò «è davvero sofisticato, per essere solo un programma.» Mezz’ora più tardi la trasmissione terminò. Tiara sfiorò la console, attivando la banca dati appena scaricata. «Giselle?» domandò con un sussurro. Sì? Rispose la cibernetica, anche la sua voce era incerta. Stava cercando di ambientarsi nei nuovi circuiti. Sono Giselle Saint Fleury, posso sapere il suo nome? Sulla nave scese il silenzio. Flora e Tiara fissarono Sam, tutti erano a bocca aperta e increduli. «Sono… Sono la dottoressa Tiara O’Bannon, piacere.» rispose il medico di bordo, provando una via di mezzo tra la meraviglia e la felicità “ vero, Alexjiei non è impazzito” pensò. Piacere e grazie. Perdonatemi ma sentire due voci nuove nello stesso giorno, dopo così tanto tempo… La voce si interruppe. All’equipaggio, forse preda della suggestione, sembrò quasi rotta da un pianto. «Sam tutto bene?» domandò Alexjiei.


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«Sì!» rispose Craigner ancora imbarazzato «Scusami se ho pensato che tu fossi impazzito, ma era, era così incredibile. Segnale pronto per nuova trasmissione.» aggiunse cambiando argomento. Su Tentoris V un’ulteriore scossa fece tremare la stazione; grossi calcinacci e detriti piovvero dal soffitto. Olgarov si riparò sotto la console primaria. La torre dell’antenna, già lesionata, non resse e crollò interrompendo il segnale. Sulla Scout ci fu un momento di panico, Sam tentò di ripristinare la connessione, senza successo: «Abbiamo perso il segnale.» «C’è stata una forte scossa di terremoto» disse Flora, controllando i sensori. «Abbiamo perso ogni contatto.» Sulla nave ognuno tacque, temendo che il loro compagno fosse rimasto ferito o peggio. Erano visibilmente spaventati. Mio Dio, Jack esclamò Giselle.


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Capitano, capitano R. Frame chiamò con tono alterato. È ferito? La prego capitano mi risponda. Olgarov spostò i detriti e si alzò, tossì per la polvere sospesa nell’aria e controllò la console: per fortuna c’era ancora energia. Tentò di riconnettersi alla Scout senza successo: «Sto bene Jack.» disse raucamente. Inquadrò sul monitor l’esterno della stazione: lo shuttle sembrava salvo, ma l’antenna era perduta. «Purtroppo l’antenna è andata. Non potrò inviare la sua mente sulla nave.» aggiunse con tristezza. Ci fu un momento di silenzio in cui i due uomini metabolizzarono la situazione, poi R. Frame riprese a parlare. Ha fatto ciò che poteva, e per me sapere che Giselle è salva è più di quanto sperassi. Ora salvi se stesso, torni sulla sua nave. Alexjiei deglutì “Ogni vita” pensò. «No, abbiamo più di due ore. Troverò un altro modo.» Tiara fissò Sam con un misto di speranza e terrore, attendeva le sue parole come una sentenza. Flora le prese la mano cercando di rassicurarla. Tiago chiamò all’interfono, urlando la sua rabbia, dalla sala motori: «Sam porca puttana, portaci via da qui. Non reggeremo a lungo.» Craigner non rispose all’ingegnere, distolse gli occhi da Tiara e chiamò Olgarov sulla frequenza d’emergenza. «Alexjiei, Alexjiei, mi senti?» «Sì, Sam sto bene.» Tiara riprese a respirare «L’antenna è andata. Non puoi fare più nulla, porta la Scout al sicuro.» «Puoi usare lo shuttle?» domandò l’analista. Il capitano attese un attimo prima di rispondere. «Funzionerà. Capitano può salvare Jack? Domandò Giselle. «Alexjiei ci serve un’ora per evitare il flare» disse Flora. «Torna a bordo, ti prego.» disse Tiara, cercando di controllare la voce. «Tiara», rispose Alexjiei «devo tentare, cerca di capirmi. Voglio chiederti perdono: è colpa mia se il nostro matrimonio è fallito. Ma ti assicuro che non ho mai mentito quando ho detto di amarti.»


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Una lacrima percorse velocemente la guancia della donna, che strinse i pugni: «Ti concedo un’ora e mezza, poi ti ordino di tornare da me.» disse con il tono più deciso che riuscì a usare. «Ci proverò» — la rassicurò Olgarov. «Sam procedi, vi raggiungeremo con lo shuttle.» Diede le coordinate di rendez-vous e chiuse la comunicazione. La Scout uscì dall’orbita di Tentoris V, pronta ad allontanarsi a tutta velocità.


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Capitano le chiedo di partire immediatamente. Disse Jack. «Dammi le dimensioni della tua banca dati.» rispose deciso Olgarov. Ma è inutile, non possiamo più trasmettere. «Non possiamo trasmettere alla Scout, ma allo shuttle sì. Basta usare i cavi e connettere la derivazione del computer centrale al livello uno, al suo.» R. Frame ci pensò un momento Sì, è possibile. Controlli i banchi da zero uno effe effe a due uno enne erre. Il capitano esaminò il volume dei dati e sorrise: «Si può fare Jack. Salgo al livello uno e monto i cavi.» Grazie capitano. «Chiamami Alexjiei.» Olgarov risalì usando la scaletta metallica, raggiunse il magazzino ricambi e prese due bobine di cavi ottici. Raggiunse la sala di compensazione e, dopo aver individuato la derivazione del computer, li collegò. Indossò la tuta pressurizzata e aprì il portello. L’aria uscì con violenza, il cielo era nero, solo le scariche elettriche lo illuminavano e il vento osteggiò ogni suo passo. Olgarov posò il cavo sui detriti, fino a raggiungere la derivazione esterna del computer sullo shuttle. Tornò nella sala di compensazione e attivò il comando di scarico dei dati, quindi raggiunse la coda del velivolo e salì a bordo, lanciando un’occhiata preoccupata all’ala danneggiata. Seduto al posto di pilotaggio controllò il cronometro: mancavano un’ora e cinquantatre minuti al punto rottura. Impiegò il tempo preparando lo shuttle al decollo, dopo circa trentacinque minuti il display segnalò il completamento dello carico dei dati. «Jack, ci sei?» domandò con apprensione «Jack?» Ci fu un momento di silenzio, il ronzio del computer sembrò interminabile. Cap… Alexjiei, sì ci sono. «Bene, decolliamo.» Olgarov spinse la leva degli iniettori, la potenza salì raggiungendo il settanta per cento, poi tirò la cloche facendo ruotare gli ugelli di novanta gradi. Il calore raggiunse il colore bianco, la potenza salì


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all’ottantacinque per cento e l’aereo tentò di alzarsi. Novantatre per cento, i detriti sul terreno si fusero. Lo shuttle vibrò per la tensione. La potenza raggiunse il cento per cento, il capitano aumentò la spinta tentando il decollo. Il velivolo sembrò andare in frantumi, la struttura gemette, ci fu un sobbalzo e si mosse, bloccandosi subito. Qualcosa lo tratteneva. Olgarov sapeva che se avesse desistito non avrebbe avuto una seconda possibilità, mantenne la potenza al massimo, sperando nella robustezza del velivolo. Alexjiei disse Jack è il carrello, è incastrato. Ma se producessi un corto circuito, la piccola esplosione lo farebbe staccare, liberandoci. «L’ala è danneggiata, potrebbe staccarsi.» spiegò il capitano. Non abbiamo alternative… Disse con un filo di voce Jack. L’aereo vibrava violentemente, Olgarov sapeva che Frame aveva ragione. Pensò a Tiara, alle cose che avrebbe voluto dirgli, ma fu solo un attimo. «Va bene tenta!» Sulla Scout tutto l’equipaggio era in plancia. Tiago fissò Craigner: «Cazzo Sam, usa i sensori a largo raggio e vedi se è riuscito a decollare.» Tiara si voltò verso l’analista con gli occhi lucidi in attesa della sua decisione. Può farlo Sam? Domandò la voce leggermente metallica di Giselle. «Sì posso», disse mettendosi al lavoro per calibrare i sensori «e se conosco un po’ quello stupido idealista ha usato il computer dello shuttle per scaricare i dati di R. Frame. Solo che così ha cancellato tutti i sistemi e dovrà pilotare manualmente.» Tiago si avvicinò a Craigner: «Dannazione!» esclamò. «Cosa succede?» chiese Tiara. «Lo shuttle ha i motori accesi, ma non decolla.» disse l’ingegnere. Flora si affiancò ai due uomini: «È vero, ma perché?» I sensori registrarono un picco di energia proprio sotto il velivolo: «Un’esplosione.» disse Sam, quasi sottovoce. Improvvisamente i sensori si oscurarono, Craigner tentò di ricalibrarli senza successo. «Sono i primi effetti delle radiazioni del flare» spiegò Flora. «Abbiamo cinquantasei minuti, poi dovremo andarcene a tutta velocità.»


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Uno schianto fece sussultare lo shuttle, il contraccolpo spinse verso l’alto l’ala sinistra, prima che si rovesciasse Olgarov tolse potenza all’ugello corrispondente. Il velivolo si stabilizzò e cominciò a salire. «Ce l’abbiamo fatta, Jack.» esultò il capitano. Le scariche e il vento fecero sobbalzare l’aereo, Alexjiei lo fece ruotare di centottanta gradi, poi puntò verso lo spazio e diede potenza ai motori. In breve si lasciarono alle spalle la catena montuosa e la rarefatta atmosfera di Tentoris V. Come troveremo la sua nave, senza sistemi di navigazione? Domandò Jack. «Ci troveranno con i sensori a largo raggio.» rispose con troppo ottimismo Alexjiei. Ma abbiamo solo trentadue minuti, poi il tempo di fuga dal flare non sarà sufficiente. Olgarov non rispose sapeva che Jack aveva ragione. Sperò che alla fine i suoi compagni se ne andassero. Ora si sentiva in pace, aveva fatto tutto quanto poteva e il suo debito era pagato, o almeno la sua coscienza ne era sollevata. Luce! urlò Jack Avete analizzatori spettrometrici a bordo? Alexjiei si scosse dai suoi pensieri: «Sì, certamente.» Allora accendiamo tutti i fari e mandiamo ossigeno ai bruciatori. Ci vedranno con quelli. Sam si massaggiava il mento, sapeva che senza sistemi di navigazione lo shuttle era ceco nello spazio e, per quanto bravo, Alexjiei non avrebbe potuto pilotarlo senza riferimenti. Il problema era che non sapeva come dirlo agli altri e solo lui poteva decidere di abbandonare le ricerche. Aveva solo mezz’ora, poi il tempo avrebbe deciso al suo posto. «È inutile mentire», disse con tono rauco «Lo shuttle è perso.» «No!» urlò Tiara «Non possiamo andarcene.» Tiago abbassò la testa: «Ma non possiamo rischiare tutti.» «Vigliacco!» sibilò Flora. La dottoressa si scagliò su di lui, tempestandone il petto di pugni. Sam le afferrò i polsi, trattenendola. «Un momento», esclamò Flora «gli indicatori spettrometrici indicano un picco in questo settore.» Tutti si fermarono per un secondo, poi Craigner si precipitò a console, digitò alcuni comandi. «Ma certo! Diavolo d’un Olgarov.» disse battendosi il palmo della mano sulla fronte.


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Tiago corse in sala macchine; la Scout fece rotta alle coordinate indicate dai sensori spettrometrici. «Alexjiei sei tu?» urlò Tiara alla radio. Con qualche disturbo, dovuto alle radiazioni in aumento, la voce di Olgarov giunse in plancia. «Ne dubitavate, ragazzi?» rispose tirando un sospiro di sollievo e mascherando la paura appena passata. Capitano Jack è con lei? Domandò Giselle. Sì amore, sono qui rispose R. Frame. Giselle non riuscì a parlare per l’emozione. Tiara non riuscì a trattenersi: «Alexjiei, Alexjiei, ti amo.» L’attracco dello shuttle alla Scout fu difficoltoso, ma riuscì perfettamente. Il capitano aprì io portello rientrando sulla nave. Tiara era lì e lo abbracciò, lui la baciò con passione. Insieme raggiunsero la plancia. «Forza Sam, portaci via a tutto gas.» ordinò tenendo per mano sua moglie. Alexjiei la voce di Giselle era un sussurro grazie, dal profondo del cuore, grazie. «Ogni vita ha valore Giselle, non importa quale forma abbia. Ora vi portiamo a casa.» Tiara si strinse a lui. La Scout si allontanò velocemente uscendo dal sistema Tentoris, evitando gli effetti del flare. La rotta impostata era diretta sulla Terra, a casa.


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