La scomparsa del Belgio, Pierfrancesco Prosperi

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In uscita il 29/7/2022 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2022 (3,99 euro)

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PIERFRANCESCO PROSPERI

LA SCOMPARSA DEL BELGIO

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA SCOMPARSA DEL BELGIO Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-561-5 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Luglio 2022


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SE È MARTEDÌ DEVE ESSERE IL BELGIO

Se è martedì deve essere il Belgio. Il film di Mel Stuart del 1969 figura tra quelli disponibili sul catalogo EasyJet per il volo appena decollato da Milano Malpensa per Bruxelles, ma Bruno – oltre che averlo già visto anni prima – sa che non avrà il tempo di guardarlo; il volo dura poco più di due ore tutto compreso. E poi, il Belgio occupa già abbastanza i suoi pensieri. Continua a risuonargli nella testa la telefonata di Alfonso, il giorno prima. «Bruno? Sono vivo per miracolo. Dovrei mettere un cero grosso così alla Madonna.» «Cazzo, dunque c’eri anche tu su quella metro!» «Eh già. Devo ringraziare una signora francese, tra l’altro piuttosto grassa, che era tra me e la bomba e ha ricevuto buona parte delle schegge che altrimenti mi avrebbero crivellato. Così ne ho prese solo qualche decina nel fianco destro e nella gamba. Oltre alla botta in testa che ho rimediato quando il vagone si è ribaltato. Tutto sommato mi è andata di lusso.» «Ma quanti…» «Qui in ospedale non hanno saputo darmi notizie precise, ma parlavano di almeno quattro morti e un numero imprecisato di feriti.» «Sono stati gli islamici?» «E chi, se no? Sembra una riedizione del massacro del 2016. Sembrano sicuri di poter fare tutto il loro comodo quassù.» «In quale ospedale ti hanno portato?»


«Al Brugmann – Horta. Ne avrò per una quindicina di giorni. Ma non scomodarti a venire quassù, sono assistito benissimo e non ho bisogno di nulla.» «Scherzi? No, no, vengo appena possibile. Domani stesso, se trovo un volo.» «Se proprio vuoi.» In aereo, ha divorato l’articolo del Corriere dedicato all’attentato. E ha scoperto che sembra esserci una diretta continuità con il massacro del 22 marzo 2016, quando tre esplosioni, due all’aeroporto di Bruxelles e una sulla linea 1 della metropolitana, provocarono trentadue morti e più di trecento feriti. E la stazione Schuman in cui è avvenuta l’esplosione che poteva costare la pelle ad Alfonso, è immediatamente prossima a quella colpita allora, Maelbeek o Maalbeek a seconda che la si guardi dal lato vallone o da quello fiammingo. Una differenza importante, però, tra i due fattacci consiste nel fatto che quelli del 2016 furono tre attentati suicidi, con altrettanti terroristi islamici che si fecero saltare assieme alle loro vittime; quello della metropolitana era fratello di uno dei due dell’aeroporto. Stavolta, invece, nessuno si è sacrificato. Sembra che abbiano deposto la loro borsa o zaino con il proprio contenuto omicida su un sedile e si siano dileguati alla fermata successiva. Nessuno shahid questa volta. Evidentemente la materia prima comincia a scarseggiare. Inoltre, secondo il giornale, anche le tracce di esplosivo richiamano direttamente gli attentati del 2016. Come allora, la borsa o zaino conteneva vari chilogrammi di perossido di acetone, alcuni litri di acetone e di perossido di idrogeno, più un campionario di chiodi e bulloni per rendere il tutto più letale. Nel 2016, l’ISIS che rivendicò subito l’attentato intendeva punire il Belgio per aver preso parte alla coalizione che combatteva il neonato stato islamico in Iraq e Siria. Questa


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volta non c’è un riferimento preciso, ma solo il perpetuarsi della espressione di un odio feroce, e ingrato, per la nazione che ospita la percentuale più alta di foreign fighters; tra tutti i paesi europei, il Belgio è quello che ne ha mandati di più a combattere, e a morire, in Siria, Iraq e Libia. E parecchi di loro sono tornati, tutt’altro che ben disposti.


ED È COSÌ CHE L’ISPETTORE FRÉDÉRIC

Ed è così che l’ispettore Léon Frédéric del Départment de Police Criminale di Bruxelles Centro ha trovato la mano. Fuori servizio, ha raggiunto con la sua Toyota ibrida la stazione di Bruxelles-Nord (che come tutto là attorno ha un secondo nome: Brussel-Noord) per accompagnare lo zio Jules a prendere il treno per Liegi. Come altre volte, nell’avvicinarsi all’alta torre dell’orologio che segnala la presenza della stazione nel panorama del quartiere di Schaerbeek – che in realtà è un comune autonomo – ha ripensato a quel collega britannico che mesi prima, in visita di lavoro, ha qualificato di ‘mussoliniana’ l’architettura massiccia del manufatto. Ha detto che ricorda le torri littorie di tante ‘città nuove’ del ventennio fascista italico. Dimostrando così di ignorare 1) che il Belgio non ha conosciuto un vero e proprio movimento fascista, se si eccettua la breve esperienza del partito rexista di Léon Degrelle tra il 1935 e il 1945, 2) che la costruzione della stazione e della sua torre risale al 1952. Partito lo zio in perfetto orario con l’Intercity 510 della SNCB, ha pensato di fare una visita alle toilette della stazione prima di rimettersi in viaggio per Place des Bienfaiteurs, l’equivalente vallone di Weldoenersplein, la piazza circolare su cui convergono sette strade residenziali, a modesta imitazione dei parigini Champs-Élysées. Ed è là, ai piedi di un lindo lavabo marmoreo, che ha trovato la mano. D’istinto, nel chinarsi ha estratto di tasca uno dei guanti usa-egetta che ha preso l’abitudine di portarsi sempre dietro da


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quando è scoppiata la recente pandemia. Adesso solleva il reperto tenendolo per il pollice, e lo studia alla luce algida dei neon. È una mano destra di maschio adulto, di un rosa acceso e fornita di una discreta dotazione di peli bruni sul dorso, tagliata di netto all’altezza dell’osso scafoide. Un colpo secco e pulito. Poco sangue, quasi del tutto disseccato. Qualche goccia scura cade pigramente a terra mentre depone con cautela l’oggetto, che sembra ancora dotato di vita – ma sono solo movimenti da riflesso spinale – sul bordo del lavabo. Frédéric sente che sta per scatenarsi una delle sue emicranie ricorrenti. Solleva lo smartphone. Giraud risponde al terzo squillo. «Émile, sono Léon. Ho trovato una mano… come? Sì, una mano maschile priva del proprietario, staccata da poco. Ai gabinetti della stazione Nord, corpo centrale. Quelli per maschietti, logicamente. Manda una squadra con il necessario per i rilievi. Sì, vi aspetto qui.» La seconda chiamata è per Gisèle. Compone il numero sotto lo sguardo sbalordito di un viaggiatore di mezza età che entra e contempla la scena per pochi secondi prima di infilare di nuovo la porta. «Gisèle? Ciao. Senti, farò un po’ tardi. No, zio Jules è partito regolarmente. Ho trovato del lavoro extra ai bagni della stazione. Poi ti spiegherò. Sto aspettando i colleghi, rincaso appena posso.»


PIÙ CHE UN OSPEDALE

Più che un ospedale, il CHU Brugmann è una piccola città composta da parecchi padiglioni – alcuni dei quali disegnati un secolo fa da Victor Horta – distribuiti in un parco nella zona nord di Bruxelles, non lontano dall’Atomium; e Bruno ha il suo daffare per districarsi in una selva di insegne e cartelli bilingui, come tutto là attorno. Finalmente lo trova, in una camera a due letti di cui è l’unico occupante. A parte la vistosa fasciatura attorno alla fronte, è l’Alfonso di sempre. Mentre si abbracciano frettolosamente – e Alfonso ha una piccola smorfia di dolore, indicando con il mento le altre fasciature che gli avvolgono il torace, l’inguine e la gamba destra – gli viene in mente che è un anno esatto che non si vedono. «Ti trovo bene» gli fa poi Alfonso. «Magari un paio di chili di troppo.» «Vorrei poter dire lo stesso di te» è obbligato a replicare Bruno. «Comunque, ti è andata bene.» Alfonso gli rivolge uno dei suoi sguardi adoranti, e Bruno è costretto a ricordare di essere stato per decenni, per il fratello venuto al mondo otto anni dopo di lui, un’autorevole figura di riferimento. Tanto che non ha ancora digerito del tutto la sorpresa di vederlo lasciare all’improvviso la Toscana per le nebbiose Fiandre e per un incarico di professeur détaché di italiano presso la École Europeenne Bruxelles 1 a Uccle. Oltretutto senza nemmeno consultarlo.


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È chiaro, chiarissimo che molta parte in quella inopinata decisione l’ha avuta Denise, la bella animatrice turistica belga conosciuta da Alfonso durante una gita agli scavi di Pompei. La cosa strana è che quando, dopo qualche mese di travagliata convivenza, Denise lo ha mollato per dedicare le proprie attenzioni a un più giovane e aitante bruxellois, Alfonso non ha rifatto i bagagli e ha deciso di proseguire quella esperienza internazionale. Bruno si siede sull’unica sedia a fianco del letto, impacciato come si può esserlo in occasioni del genere. «Che… che cosa ti ricordi di quello che è successo?» Lui lo guarda con espressione fiera e, sembrerebbe, un po’ risentita. «Ricordare? Io l’ho visto, Bruno.» «Visto… cosa?» «Quel figlio di puttana. Quello che ha messo la bomba.» «Davvero? Sei… sei sicuro?» «Come adesso vedo te. Ero a pochi metri di distanza. È salito alla fermata di Arts-Loi. Aveva uno zaino scuro che ha deposto su un sedile. Lui è rimasto in piedi, guardandosi attorno di continuo. Appariva nervoso e muoveva le gambe in continuazione, come uno che sta per pisciarsi addosso. Poi è sceso a Maelbeek.» «E lo zaino è rimasto lì.» «Eh già. Mi si è acceso immediatamente un campanello d’allarme. Mentre mi guardavo attorno per cercare un sorvegliante, un poliziotto, insomma un cazzo di divisa, siamo arrivati a Schuman ed è successo il finimondo.» «Lo hai visto bene? Che tipo era?» «Lo ricordo bene. Un mediorientale alto e grosso, bello scuro, sulla quarantina, con uno zucchetto di lana in testa e un giaccone sformato. Il classico prodotto di Molenbeek. E aveva un braccio solo.» «Un braccio solo? Sei sicuro?»


«Sicurissimo. A meno che non avesse l’altro braccio nascosto sotto il giaccone. Aveva la manica sinistra vuota, e in genere la gente non va in giro così se non ha un buon motivo.» Bruno si gratta il mento. «Be’, è un po’ strano. Voglio dire, oggi è difficile vedere in giro un monco totale. In genere hanno delle protesi.» «Be’, questo non l’aveva. E i motivi possono essere tanti. Mancanza di soldi, oppure la protesi la sta aspettando, oppure gli piace stare così.» Pausa. «Be’» fa poi Bruno «questo dovrebbe facilitare le ricerche. Lo hai detto alla polizia?» «Scherzi? Li avevo attorno al letto fino da quando mi sono svegliato quaggiù. Gli ho raccontato per filo e per segno quello che ho detto a te, e adesso stanno cercando quel figlio di puttana in tutto il Belgio.» «Già. A meno che poi un braccio finto non se lo sia messo dopo, per depistare le ricerche. Oppure che non avesse sul serio il braccio vero sotto la giacca.» «Comunque, per quanto se ne sa, per ora non l’hanno trovato né col braccio né senza.» Bruno si alza e muove alcuni passi su e giù per la stanza. «Sembra che siamo di fronte al solito dannato attentato islamico.» «Puoi giurarci. Ai tempi dell’ISIS inteso come stato territoriale, un giornale belga di destra titolò ‘Bombardate Molenbeek, non Raqqa.’ Quei fottuti terroristi sono sempre stati incistati in quel maledetto quartiere, alimentati per di più dai tanti foreign fighters di ritorno, quelli che non ci hanno rimesso la pelle.»


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IL PROPRIETARIO DELLA MANO

«Hanno trovato il proprietario della mano.» L’annuncio di Émile Giraud strappa l’ispettore Frédéric ai suoi malinconici pensieri mattutini. Che da un po’ di tempo riguardano il settore immobiliare, e segnatamente un preavviso di sfratto arrivatogli per posta elettronica certificata qualche giorno prima. Frédéric vive da anni in affitto in un grande appartamento comodo come un paio di scarpe vecchie, incastrato in un decoroso condominio ottocentesco nei pressi di Place des Bienfaiteurs, ispirato al modello degli hotels particuliers parigini. Come la maggior parte degli inquilini, ha optato per il contratto da nove anni, per cui in teoria non potrebbe essere mandato via se non a ciascuna scadenza triennale. Eccettuati i casi di forza maggiore, specifica il contratto in caratteri opportunamente microscopici. E quale causa di forza maggiore può esserci più grossa del fatto che il proprietario dell’immeuble, che è poi una compagnia di assicurazioni con adeguato pelo sullo stomaco, ha venduto in blocco il palazzo e i due accanto a una multinazionale dell’edilizia che li raderà al suolo per costruire un nuovo scintillante ensemble di negozi uffici e appartamenti, sfruttando lo spazio disponibile al centimetro? Al posto di quarantotto logements ne spunteranno fuori settantadue, con bagni minuscoli e angoli cottura in luogo di quelle belle cucine d’antan con tanto di camino. Assieme a una ventina di altri affittuari, Frédéric ha costituito un comitato di lotta e resistenza a oltranza, che sta cercando di opporsi allo sfratto in sede


legale, accampando ipotetici pregi architettonici dell’attuale complesso edilizio, ma le speranze di successo non sembrano molte. Così, si strappa ai propri rimuginii girandosi verso il collega. «Ah sì? E dove?» «Lungo la scarpata ferroviaria sulla linea per Anversa, tra le stazioni di Vilvoorde e Weerde. Da quanto si è potuto ricostruire finora, sembra che gli abbiano tagliato la mano sul treno, poi lo abbiano accoppato e buttato di sotto. Dopo di che qualcuno di quei gentiluomini ha raggiunto la stazione Nord per lasciare quel ricordino nei cessi.» Scuote la testa. «Un momento. I treni non sono più quelli di una volta, i finestrini non si aprono e tanto meno le porte, se non nelle stazioni. Come hanno fatto a…» «È per questo che sappiamo, o immaginiamo, su quale convoglio è avvenuto il fattaccio. Risulta che l’Intercity 1330, partito dalla Nord alle 10:32, aveva una porta malfunzionante, che potrebbe essere stata aperta in corsa. Un fatto teoricamente impossibile.» «Ma… non ci dovrebbe essere un allarme, un sistema di sensori che scattano quando si verifica un fatto del genere?» «C’è, ma non ha funzionato.» «Magnifico. Si sa almeno chi è il disgraziato?» «Un giovane sui trent’anni. Di nome Albert Brusselmans. Impiegato al Bruxelles Diamant Centre, sposato con un figlio. Per adesso non si sa molto altro su di lui. Pare che stesse andando ad Anversa per conto della ditta.» Si leva in piedi. Il mal di testa sta bussando alle porte del suo cranio, e sa che non potrà opporsi. «Bene. Cerchiamo di sapere tutto, ma proprio tutto su questo Brusselmans e di capire chi potesse avercela con lui fino a fargli fare una fine così brutale.» «Certo, ci siamo già attivati.»


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ANCHE QUELLA SERA

Anche quella sera telefona a Giuliana. «Come sta tuo fratello?» «Un po’ giù di carrozzeria, ma lo spiritaccio è sempre quello. Giura di aver visto in faccia l’attentatore della metro e ne ha fornito accurata descrizione agli inquirenti.» «Davvero? Spero che lo becchino, se no c’è il rischio che sia lui a beccare Alfonso.» Non ci aveva pensato. «Lo spero anch’io. Lo stanno cercando per tutto il regno. Peccato che Hercule Poirot non sia più in servizio.» «A parte il fatto che abitualmente Poirot non lavorava per la polizia, non potresti escogitare qualche battuta un po’ meno scontata? Ci manca solo che ti metta a citare le piccole cellule grigie.» «Hai ragione. Be’, tutto bene in riva all’Arno?» «A meraviglia. Quando pensi di tornare?» «Credo che mi fermerò ancora un paio di giorni. Mi sembra che Alfonso non abbia bisogno di niente, ma un po’ di supporto fraterno non gli farà male.» Più tardi, rientrando in camera dopo aver cenato al ristorante dell’albergo, ripensa alla visita che ha fatto quel pomeriggio al campo di battaglia di Waterloo, a una ventina di chilometri dalla capitale. Sotto un cielo imbronciato che minacciava pioggia, ha pagato otto euro per salire i 226 gradini della scala che porta in cima alla Butte du Lion, l’immensa collina alta 43 metri con un diametro di mezzo chilometro, che domina i


luoghi dello scontro. Lassù, ai piedi del gigantesco leone d’acciaio brunito lungo quattro metri e mezzo, che ricorda da vicino la belva marciana simbolo della Repubblica di Venezia (ha letto da qualche parte che il Belgio nel 2005 ha chiesto di raffigurare la collina sulla propria moneta da due euro, incontrando però l’irremovibile opposizione della Francia) ha lasciato correre lo sguardo sull’immensa pianura circostante, riflettendo sulla casualità che domina le vicende umane. Ha ricordato di aver letto, in un articolo di uno studioso dell’Università di Napoli Federico II, che i continui e violenti temporali che nel giugno 1815 trasformarono quel campo di battaglia in una distesa di fango, paralizzando i movimenti delle truppe francesi, evento insolito per la stagione, furono probabilmente dovuti a un evento verificatosi dall’altra parte del mondo: l’apocalittica eruzione del vulcano Tambora, nell’arcipelago indonesiano della Sonda, che nell’aprile di quell’anno uccise 200.000 persone, generò tsunami con onde alte quattro metri e immise nella stratosfera una immensa quantità di ceneri che fece il giro del pianeta. Il 1815 venne chiamato l’”anno senza estate” e fu caratterizzato, specie in Europa, dall’offuscamento del sole, con temperature insolitamente rigide e piogge continue. Nelle sue memorie Napoleone attribuì le responsabilità della sconfitta al comportamento irrazionale dei suoi luogotenenti Ney e Grouchy, tacendo dei suoi innegabili errori di valutazione e della componente forse decisiva del tempo atmosferico. Così vanno le cose del mondo, ha pensato scendendo la scala della Butte du Lion. Ancora più tardi, prima di prendere sonno, gli torna in mente chissà perché il ricordo della sua prima visita in Belgio. Un ricordo che non è esattamente positivo. È stato nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la Guerra Fredda si avviava


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alla fine ma era ancora gagliardamente sostenuta, in Occidente, dall’atteggiamento di Ronald Reagan verso l’‘Impero del Male’ e dai progetti di guerre stellari. Ancora giovanissimo, ha partecipato a una visita cultural-ricreativa al quartier generale della NATO a Bruxelles, organizzata dalla sezione giovanile di un partitino di centrosinistra poi scomparso. Ricorda ancora vividamente la lunga giornata trascorsa presso la sede dello SHAPE (Supreme Headquarters Allied Power Europe) a Mons, fuori Bruxelles. Dove i giovani partecipanti sono stati imbottiti di filmati e diapositive che illustravano la potenza bellica e il pericolo rappresentato dalle forze armate di quel Patto di Varsavia che era in realtà così prossimo a dissolversi. Ricorda in particolare un filmato in cui veniva mostrato un prototipo di carro armato subacqueo che i comunisti, secondo gli autori, stavano sperimentando sui fondali del Volga o giù di lì. Ne ha ricavato la sensazione che la NATO stesse facendo del suo meglio per tenere alto un livello di allarme che in realtà non aveva più ragione di essere, dati i forti scricchiolii provenienti da oltre la Cortina di ferro. Ma la cosa che lo ha impressionato di più è stato l’ambiente fisico. Dopo aver visitato la capitale di giorno e aver ammirato la Grand Place e il resto del centro storico, ricorda perfettamente la mattina dopo. Alzatosi verso le otto, si è affacciato alla finestra dell’hotel per vedere la capitale che si era svegliata nel buio più pesto, con le scie luminose delle luci delle auto dirette verso il quartiere degli uffici. «Ma come fa la gente ad andare a lavorare quando fa ancora notte?» ha commentato con Giuliana che era lassù con lui – si conoscevano ma non stavano ancora insieme – e non ha mai rimpianto così tanto la luce e il sole d’Italia. Molto più tardi


suo fratello, quando ha iniziato a lavorare a Bruxelles, gli ha spiegato che dopotutto non è così male, che a quelle condizioni ambientali così ostiche ci si abitua. Ma l’impressione è rimasta.


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PER I BELGI PIÙ OTTIMISTI L’ATOMIUM

Per i belgi più ottimisti, l’Atomium del parco Heysel rappresenta per Bruxelles ciò che la Tour Eiffel rappresenta per Parigi. Per quelli più smaliziati, è solo una baracconata da parco dei divertimenti. Comunque, bisogna riconoscere che, a oltre sessantacinque anni dalla sua inaugurazione, il monumento in acciaio e alluminio alto più di cento metri che con le sue nove sfere raffigura gli atomi di un cristallo di ferro, fa ancora la sua porca figura. Con la torre di Parigi condivide un destino passato dall’effimero al permanente: la creatura di Gustave Eiffel avrebbe dovuto svettare sul Campo di Marte per una ventina d’anni, l’Atomium addirittura avrebbe dovuto restare in loco per appena sei mesi. Frédéric sbadiglia più volte rumorosamente mentre le scale mobili all’interno dei tubi di collegamento tra le sfere lo portano verso la sommità della struttura. Stretti e privi di finestre, quei lunghi cilindri danno un senso di claustrofobia. Anche stanotte ha dormito poco, per il solito problema dello sfratto. Hugo Sievert, il responsabile della sicurezza dell’Atomium, lo attende al centro della sfera più alta, che offre con le sue grandi vetrate un discreto panorama della città. «Venga, ispettore. È qua.» Sul davanzale della vetrata che guarda verso sud, in direzione della Grand Place, il reperto per cui è stato convocato: una


mano grassoccia, pelosa e quasi paonazza che sembra palpeggiare distrattamente il parapetto metallico. Frédéric si china a osservarla, appoggiando le mani sulle ginocchia. Anche in questo caso si tratta di un maschio bianco adulto. Nota inoltre che questa mano non è quasi asciutta come quella di Brusselmans. Una scia di goccioline di sangue scende fino a terra sulla superficie curvilinea dell’interno sfera, e prosegue sul pavimento in direzione dell’accesso a uno dei tre tubi che conducono lassù. «La scala mobile che porta alla sfera numero 6 è ferma per manutenzione» lo informa Sievert. «Ed è là che… Guardi.» Si affacciano all’estremità del tubo che scende ripido. A metà della scala mobile giace scompostamente a faccia in giù un cadavere, logicamente privo della mano destra. Il sangue dell’uomo chiazza i gradini della scala e i due parapetti in vetro. «La scientifica sta arrivando» dice a Sievert. «Non avrete toccato nulla, spero.» «No, assolutamente. Lo abbiamo trovato al termine del primo turno di visite, nel giro di controllo prima di fare entrare il secondo gruppo di visitatori.» «Non ha notato niente di strano nel primo gruppo di turisti?» L’uomo scuote la testa. «Niente. La solita gente vestita in modo bizzarro, tutti persi dietro le telecamere e gli smartphone. Le facce ormai non le vedo più. Ma non c’è nessuno che mi abbia colpito.» Più tardi, siede con Giraud sui buffi seggiolini rotondi e coloratissimi che consentono di riposarsi all’interno della sfera. Dimostrando una inventiva da capogiro, i progettisti hanno disegnato tutti gli elementi di arredo in forma di cerchio, o addirittura di sfera come i sedili sospesi che abbelliscono l’area giochi per ragazzi.


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«Sappiamo chi è?» chiede al collega mentre gli uomini in tuta bianca si affaccendano attorno all’imboccatura del tubo insanguinato. «Aveva i documenti nel portafogli» replica lui scrutando lo smartphone. «Jean-Luc Rainer, anni 38, residente a Uccle. Ingegnere idraulico.» «Prima di cercare tutti i dati possibili su quest’uomo» continua Frédéric «ricordiamoci che chi lo ha fatto fuori era al corrente che quella scala mobile era fuori uso. È probabile che siano venuti prima in sopralluogo. Bisogna far esaminare tutte le immagini delle telecamere di sicurezza per individuare persone che sono venute qui in precedenza oltre che oggi. In genere, quando uno visita l’Atomium gli basta per tutta la vita.» «Lo dirò a Sievert» replica Giraud. «Però può darsi che questi farabutti abbiano una talpa, un complice tra il personale della struttura. In questo caso non avrebbero avuto bisogno di sopralluoghi.» «Anche questo è vero. Però controlliamo lo stesso.»


BOMBARDATE MOLENBEEK

Bombardate Molenbeek. Forse quel giornale non aveva tutti i torti. Bruno non si azzarderebbe ad avventurarsi da solo in quel quartiere multietnico in cui i musulmani rappresentano il 40 per cento dei residenti e dove la polizia entra solo sotto forma di nutrite squadre armate fino ai denti. Dove le poche donne visibili girano pesantemente intabarrate e i richiami strazianti dei muezzin fendono l’aria assordanti cinque volte al giorno. E il bello è che non si tratta di un agglomerato periferico, di una baraccopoli cresciuta ai margini della città, ma di un grosso e in apparenza rispettabile complesso di edifici storici un tempo occupato da immigrati italiani, spagnoli e portoghesi, poi sostituiti dalla nouvelle vague mediorientale e nordafricana. Un cospicuo bubbone che sembra premere come una metastasi contro il tessuto centralissimo attorno alla Grand Place e al Manneken Pis, da cui lo separa solo il corso del canale Bruxelles-Charleroi. E Bruno non c’è mai entrato. Per passare quella che considera la sua ultima mattina brussellese ha scelto una zona più tranquilla, quella immediatamente a nord della Grand Place, non lontano dalla Banque National e dal cruciforme palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea. Era da un pezzo che voleva vedere il Centre Belge de la Bande Dessinée, ospitato in un palazzo art nouveau disegnato dal solito Victor Horta. Il fumetto è una delle sue passioni. Terminata la visita sta girellando, come un perfetto flaneur franco-belga, per una silenziosa strada residenziale con


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boutiques e negozi caratteristici ospitati da portici, subito alle spalle della trafficata Rue Royale. A un tratto si paralizza nel vedere avanzare in uno spiazzo due stranieri, anche se sono più bruxellois di lui, appena discesi da un furgone scuro. Un musulmano alto e grosso con zucchetto di lana e giaccone sformato. E un braccio solo, il destro. Al suo fianco, un correligionario basso e rotondetto, che regge una pesante borsa portadocumenti. Bruno inizia a sudare benché la giornata sia tutt’altro che calda. D’istinto, si appiattisce al riparo del grosso pilastro in pietra di un portico. Ed è sempre con movimenti automatici che estrae di tasca lo smartphone, lo mette in modalità ‘camera’ e dal suo riparo scatta un paio di istantanee di profilo al grosso arabo mentre gli passa a poca distanza, ringraziando il cielo che queste moderne fotocamere non producano click o suoni similari. Spariti i due in direzione di Rue Royale, Bruno cammina nervosamente su e giù riflettendo sul da farsi. È praticamente certo che l’omone mutilato corrisponda all’identikit tracciato da suo fratello. E quella borsa portata dal suo compare non gli piace per niente. Dovrebbe avvertire la polizia. Anzi, deve. Anche se questo farà saltare il suo programma, con il volo prenotato per il pomeriggio. Tra deposizioni e adempimenti vari, perderà parecchie ore, se non giornate. D’altra parte, si sente in dovere di fare qualcosa. Lo deve soprattutto ad Alfonso, che poteva rimetterci la pelle. E a tutti quei morti. Camminando è arrivato all’altezza del furgone, che pur parcheggiato regolarmente gli dà una sensazione di estraneità, quasi di minaccia con quella tinta scura uniforme, priva di scritte, e quei vetri oscurati. Quando ha ormai sciolto la riserva e sta per comporre sul telefonino il 112, numero di emergenza


europeo, un nuovo forsennato rumore di passi lo fa voltare nella direzione opposta. I due musulmani stanno correndo a perdifiato verso di lui, o meglio verso il furgone. E il piccoletto non ha più la borsa. Bruno fa appena in tempo a defilarsi, fingendo di passeggiare senza meta, mani in tasca, e i due gli passano accanto ignorandolo e si fiondano a bordo. Il piccoletto mette in moto e parte come se avesse l’inferno alle calcagna. Il senso acuto di pentimento per non aver agito subito dura pochi secondi, il tempo di vedere il furgone arrivare sgommando al primo incrocio e di avvertire un acuto fracasso di lamiere. D’istinto Bruno si trova a correre in quella direzione. Ignorando un segnale di stop, il veicolo si è schiantato contro la fiancata di un altro mezzo da lavoro, un furgoncino bianco carico di Coca-Cola e bibite similari, a quanto si evince dalle scritte e soprattutto dal sinistro rumore di vetri che è arrivato alle orecchie di Bruno assieme al frastuono dell’urto. Continua a correre. I due veicoli si sono mezzo incastrati, e il musulmano monco è sceso a discutere con il conducente dell’altro furgone, un belga o francese, comunque un bianco, lungo, mingherlino e decisamente incazzato. Mentre i due altercano violentemente urlando a piena voce, il piccoletto arabo scende a sua volta armato di una grossa mazza da baseball. Bruno è arrivato ansante all’altezza del furgone. Mentre i due arabi iniziano a prendere a mazzate il conducente avversario, ancora una volta si lascia trasportare dall’istinto. Afferra la maniglia del portellone posteriore, che è del tipo a due ante. E non è chiuso a chiave. Con la sensazione acuta di compiere una pazzia – ma la tentazione di intervenire è troppo forte – entra nel comparto


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posteriore, che è separato da una paratia rispetto all’abitacolo. E si rannicchia là dentro. L’autista del furgoncino di bibite non grida più. Deve essere ridotto a una spoglia sanguinolenta. Questo almeno immagina Bruno nel sentire i due risalire a bordo borbottando parole incomprensibili. Il furgone innesta la retromarcia e con un paio di stridenti manovre riesce a districarsi dalla fiancata dell’altro mezzo. Mentre percorre il breve tratto di strada che lo separa dai viali di circonvallazione, un rombo cupo e sordo non troppo lontano fa vibrare il suolo e le stesse lamiere del furgone. Oh, cazzo. Bruno sente i capelli che gli si rizzano sulla testa. Crede di aver capito, è certo di aver capito. La conferma gliela danno i lamentosi suoni di sirene che arrivano subito dopo dalla stessa direzione. Si stende tremante e confuso sul fondo sporco e puzzolente del bagagliaio, cercando di pensare alle prossime mosse. Si sente vagamente in colpa, quasi corresponsabile di quanto è accaduto, per non aver agito più tempestivamente. Se avesse dato l’allarme subito, appena avvistato il monco, avrebbe potuto forse impedire quello che sicuramente è stato un attentato. O forse no. Più probabilmente no, non ce ne sarebbe stato il tempo. Però avrebbe potuto almeno provarci. Il furgone corre per le strade della città. Siamo sempre in centro, a giudicare dal rumore tambureggiante e dalle scosse provocate dal pavé che si alterna ai tratti asfaltati. I suoni del traffico avvolgono il viaggio con le consuete sinfonie di clacson e di rumori di motori, inframezzate di tanto in tanto dagli acuti delle sirene. D’un tratto una vibrazione più forte, che fa gemere tutte le lamiere del mezzo, gli fa temere che ci sia stata un’altra esplosione. Ma non ci sono boati, e il tremolio si smorza gradualmente.


Bruno comincia a riflettere sulla follia che ha commesso. Prima o poi il veicolo si fermerà, presumibilmente nel covo dei terroristi, e dovrà tentare l’impossibile per cavarsela. Se, come è altamente probabile, qualcuno verrà ad aprire i portelli posteriori – anche se nel comparto in cui si trova non c’è praticamente nulla da prendere: solo qualche latta d’olio e degli stracci unti e bisunti – dovrà cercare di schizzare via con tutta la velocità possibile. Ammesso che riesca a farlo, rischierà seriamente di prendersi una pallottola o qualcos’altro nella schiena, e se il mezzo si fermerà all’interno di un garage o di un cortile anziché per strada, le sue possibilità di togliersi d’impaccio saranno praticamente nulle. Per cui non gli resta che augurarsi disperatamente che nessuno apra quei portelli. Alla fine il momento arriva. Ai rumori assordanti del traffico dei viali si sostituisce il brusio di una strada residenziale, con il borbottio e le chiacchiere dei passanti, il frastuono dei motorini e le grida dei ragazzi. Desidererebbe spasmodicamente poter dare un’occhiata fuori. Secondi interminabili di attesa, mentre le sospensioni del furgone gemono leggermente segnalando la discesa dei due occupanti, prima il piccoletto – si direbbe – poi il monco. Sudando copiosamente, Bruno aguzza l’udito per distinguere i passi dei due uomini, ma c’è troppo chiasso all’intorno, il che gli fa pensare e sperare che siano fermi per strada anziché in uno spazio chiuso. Poi, sente o crede di sentire che qualcuno si è fermato dietro il furgone. Ordina al suo corpo di prepararsi a scattare, ma si rende conto con autentico terrore che i tanti minuti trascorsi in quella posizione rannicchiata gli hanno fatto intorpidire le gambe e contratto i muscoli. Probabilmente, quando tenterà di precipitarsi fuori crollerà a terra divorato dai crampi.


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Una mano pesante sfiora il portello. Attimi eterni, dilatati in cui Bruno crede di vedersi passare davanti tutta la vita – almeno i momenti più importanti, insomma. Poi, dei passi che si allontanano quasi riluttanti. E restano solo i rumori della strada. Attende alcuni minuti cercando di calmare i battiti furiosi del cuore, respirando profondamente. È in un lago di sudore. Quanto gli conviene aspettare? Cinque, dieci minuti? Mezz’ora? O più? Dopo parecchi minuti in cui non è successo assolutamente nulla, e con il terrore che da un momento all’altro il veicolo riparta, si decide a muoversi. Una leva sul lato interno del portello, che all’inizio resiste fredda e cocciuta, si sblocca poi permettendogli di aprirlo, con uno scatto che gli sembra assordante. Spinge piano, pianissimo il battente, lo sguardo offuscato dal sudore che gli cola sulla fronte superando le sopracciglia. La luce del giorno lo ferisce come una lama. Continua a spingere il portello lanciando occhiate all’intorno. Gli spezzoni di realtà esterna che riesce a intravvedere lo tranquillizzano. Relativamente, certo. Come ha immaginato, il veicolo è fermo all’aperto, lungo una strada residenziale. Ma è una strada che sembra appartenere a un altro mondo. Così, è finito a Molenbeek, in quell’angolo di Medio Oriente trapiantato nel cuore delle Fiandre. Il tratto di strada che riesce a vedere inquadrato nell’apertura del portellone gli dà la sensazione di trovarsi al centro di un suk in Libano, Siria o Marocco. Una doppia fila di bancarelle copre le facciate ottocentesche dei palazzi che avrebbero bisogno di più che un semplice intervento di manutenzione. Le grida alte e stridule dei venditori si susseguono di continuo come in un botta e risposta interminabile. Monelli vestiti di stracci si inseguono tra le pozzanghere urlando e agitando fionde e fucilini di legno.


L’odore pungente delle spezie e degli incensi satura l’aria. Donne in burqa scorrono veloci sfiorando appena il suolo, come se volessero rendersi invisibili. Passano carretti tirati da somari e muli. Siamo a cinquecento metri dal palazzo ottocentesco della Borsa fondata da Napoleone, ma questo decisamente non è Belgio. Si decide a scendere piano, con movimenti cauti. Come aveva immaginato, ha le gambe anchilosate. Cerca di sciogliere i muscoli toccando terra, ma si regge appena in piedi. Grazie al cielo, nessuno in quel variopinto caos sembra prestargli attenzione. Infine, con le mani premute alla base della schiena dolorante si allontana dal veicolo di qualche passo camminando all’indietro. E alza lo sguardo. Il furgone si è fermato davanti a un palazzotto di tre piani con grandi fornici al piano terra, sormontati da una vistosa insegna su due righe. La prima in olandese, la seconda in arabo. VERKOOP VAN DADELS Non sa quasi nulla di olandese. Gli sembra di ricordare che il termine verkoop significhi vendita, commercio, ma non è sicuro. Comunque, sugli scalini davanti al palazzotto si addensano casse piene di frutti scuri e odorosi. Con passi tremebondi si allontana cercando di assumere un’aria indifferente, anche se si rende conto di essere in pratica l’unico con la pelle chiara. Ma nessuno sembra fargli caso.


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NON C’È NESSUN COLLEGAMENTO

«Non c’è nessun collegamento tra le due vittime della banda di tagliatori di mani» dice Frédéric sprofondato nella sua poltrona preferita. «Albert Brusselmans e Jean-Luc Rainer non si conoscevano e molto probabilmente non si erano mai incontrati. Abitavano in zone diverse, facevano lavori diversi e appartenevano ad ambienti assai diversi. Sembra proprio che non avessero nulla in comune.» «Tranne, forse» osserva Gisèle «l’aver pestato, magari inavvertitamente, i piedi a qualcuno. A meno che questa banda non si muova random, colpendo dove capita.» «Possibile anche questo, ma improbabile» replica lui sorseggiando il suo scotch. «A me sembra gente che sa perfettamente quello che fa, scegliendo con cura luoghi, obiettivi e circostanze.» «Avete considerato la pista islamica?» chiede lei. «Per via del castigo coranico?» Frédéric ridacchia. «A parte il fatto che le amputazioni punitive non le hanno inventate i musulmani, bisognerebbe risalire almeno fino ai Romani o agli antichi Egizi…» «Sì, ma quelli sono tutti morti» ribatte lei con soave logica, «mentre al giorno d’oggi c’è chi pratica o praticherebbe volentieri mutilazioni esemplari in nome di Allah. E neanche tanto lontano da noi, appena oltre il canale.» «Non abbiamo notizie di fatti del genere a Molenbeek, almeno di recente» si difende un po’ imbarazzato l’ispettore. «Comunque, per quello che sappiamo né Brusselmans né


Rainer hanno mai avuto a che fare con l’Islam e con i suoi esponenti locali.» Pausa. Scorrono i titoli del telegiornale. Dopo qualche commento sui fatti del giorno, Gisèle cambia argomento. «Oggi ho visto la pubblicità di un quartiere davvero carino in Saint-Job. Sarebbe grande giusto per noi, e non è neppure troppo caro.» Lui manda giù le ultime gocce di liquore. «Scommetto però che non ci sarebbe abbastanza posto per i miei libri.» «Non lo so. Credo di no» ammette lei. «D’altra parte, Léon, devi riconoscere che questa casa adesso ci sta davvero grande. Andava bene finché i ragazzi stavano con noi, ma adesso che cosa ce ne facciamo di quattro camere?» «A me non sembra una piazza d’armi» replica il marito. «E poi abbiamo accumulato un sacco di roba, fino a riempirla.» «Per il vecchio vizio di non buttare via niente. Intendiamoci, anch’io qui ci sto bene, ma se saremo costretti ad andar via dovremo adattarci a un posto più piccolo, e meno caro da mantenere e riscaldare. Due camere ci bastano, giusto per il caso che uno dei nostri figli o qualche ospite abbia bisogno di dormire da noi.» «I libri comunque non c’entreranno» si lamenta lui. «E pazienza, ne venderò una parte o li sistemerò in qualche magazzino. Ma devo ancora rassegnarmi all’idea di lasciare questo posto. Non è ancora detta l’ultima parola.» «Le multinazionali ottengono sempre quello che vogliono, e io non ho troppa fiducia nelle Beaux-Arts. Anche perché quei farabutti sarebbero capaci di corrompere i funzionari, magari sotto forma di qualche munifica donazione.» «Lo vedremo» conclude lui duro. «Resisteremo fino all’ultimo.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

SE È MARTEDÌ DEVE ESSERE IL BELGIO....................................... 3 ED È COSÌ CHE L’ISPETTORE FRÉDÉRIC ....................................... 6 PIÙ CHE UN OSPEDALE................................................................ 8 IL PROPRIETARIO DELLA MANO ................................................. 11 ANCHE QUELLA SERA ............................................................... 13 PER I BELGI PIÙ OTTIMISTI L’ATOMIUM..................................... 17 BOMBARDATE MOLENBEEK ..................................................... 20 NON C’È NESSUN COLLEGAMENTO ........................................... 27 C’È QUALCOSA CHE NON VA ..................................................... 29 MA È COSÌ PICCOLO? ................................................................ 33 IL COMMISSARIO RIETVELD...................................................... 36 ASSO NELLA MANICA ............................................................... 39 UNA MONETA DA DUE EURO...................................................... 40 MAIN TOUR, HAND BEURT....................................................... 45 IN QUESTA BRUXELLES NON C’È UNA AMBASCIATA.................. 47 HO LA SENSAZIONE .................................................................. 53 È QUASI FINITA ......................................................................... 54 UNO A ZERO PER LA MULTINAZIONALE ..................................... 61 IL SUO SMARTPHONE È DA BUTTARE ......................................... 64 L’ORRORE! L’ORRORE! ............................................................. 68 ANCHE IL BRUGMANN .............................................................. 71 LA SQUADRA FRÉDÉRIC ............................................................ 76 HO CAPITO COM’È ANDATA ....................................................... 79 IL MERCATO DELLE PULCI ......................................................... 85 L’ISPETTORE FRÉDÉRIC? .......................................................... 87 IL MASTINO ............................................................................. 90


IL TUNNEL LEOPOLD II ............................................................. 94 HANNO INGHIOTTITO L’AMO E L’ESCA ...................................... 97 CENTRALE OPERATIVA.............................................................. 99 PUOI RINGRAZIARE AHMED .................................................... 101 CON MILLE PRECAUZIONI ....................................................... 104 IL BERSAGLIO GROSSO ............................................................ 106 LA MERCEDES SI FERMA .........................................................111 LA TUA SOSPENSIONE È SOSPESA ............................................ 116 IL MONCO È SCAPPATO ........................................................... 118 VERKOOP VAN DADELS ........................................................... 119 CHE TRISTEZZA ...................................................................... 122 ANCHE LA BANDA DEI TAGLIATORI ......................................... 126 COMMISSARIO VAN DE VELDE ................................................ 129


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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