Il manifesto 24 dicembre 2016

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Oggi su Alias

Mandala di Natale

Buone feste

I MIGLIORI TITOLI DEL 2016

SOTTO L’ALBERO Profumi, ironia,

A MARTEDÌ Il «manifesto»

Le tradizionali «top ten» di film e libri Le migliori Graphic Novel, le «top ten» dei Games, Dvd e della musica

invenzioni. Itinerari per affrontare le feste con leggerezza

non uscirà il 25 e il 26. Ci vediamo di nuovo in edicola il 27 dicembre

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SABATO 24 DICEMBRE 2016 – ANNO XLVI – N° 309

Sesto San Giovanni, la polizia intorno al corpo senza vita di Anis Amri foto Reuters

Immigrazione

A chi serve «sparare» nel mucchio GUIDO VIALE l terrorismo che colpisce nel mucchio è difficile da combattere. Ma scoprire una cellula attiva tra popolazioni insediate da tempo in Europa (base indispensabile per ogni attività terroristica) è molto più difficile che individuare un terrorista imboscato tra un gruppo di profughi. Soprattutto se alla loro registrazione all’arrivo - o alla partenza con corridoi umanitari - corrispondesse il diritto a una libera circolazione in tutta Europa. Perché ciò per cui i profughi si oppongono alla registrazione, o la rendono inefficace, è il timore di rimanere intrappolati nel paese di sbarco. Che poi si traduce spesso nel famigerato decreto di espulsione differito che lascia allo sbando decine di migliaia di profughi (come Amis Amri) che il governo italiano non sa né rimpatriare né controllare rendendo facile il loro reclutamento da parte della Jihad. La gravità della situazione impone di alzare lo sguardo sulle radici del problema. Dal secondo dopoguerra l’Europa, a partire dai suoi stati centrali, è diventata un’area di massiccia immigrazione: profughi dai paesi dell’Est (circa 10 milioni), migranti dai paesi meridionali (quasi altrettanti), poi anche dai paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo, dalle ex colonie africane e del subcontinente indiano. Dall’ultimo decennio del secolo scorso gli arrivi sono proseguiti investendo anche i paesi dell’Europa mediterranea che prima avevano alimentato una parte cospicua di quel flusso.

I

Fine della caccia all’uomo. Anis Amri, il presunto attentatore della strage di Berlino, è stato ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni. Dalla Germania all’hinterland milanese passando per la Francia, ha mandato in crisi l’intelligence europea. Il governo italiano teme reazioni. pagine 2, 3 E ora Angela Merkel cede alla linea dura sugli immigrati

Poste Italiane Sped. in a. p. - D.L. 353/2003 (conv. L. 46/2004) art. 1, c. 1, Gipa/C/RM/23/2103

Monte dei Paschi

In punta di piedi, altro che nazionalizzazione VINCENZO COMITO rmai è certo che la ricapitalizzazione privata di Mps, ricercata con accanimento e con molto dispiego di forze da politici e «tecnici», nazionali ed internazionali, è fallita e che lo Stato interverrà sino a 20 miliardi di euro per salvare anche le due banche venete e le quattro banche regionali di cui si è tanto parlato. Il tutto richiederà al massimo una quindicina di miliardi e quindi c’è anche lo spazio per affrontare eventuali altri casi. Resta da superare l’ostacolo di Bruxelles (e, non tanto dietro le quinte, di Berlino); si immagina che Schauble e il suo fido scudiero Dijsselbloem faranno la faccia feroce, come è il loro solito (hanno già cominciato), in particolare quando si tratta di paesi «mediterranei», prima di dare il via libera.

O

— segue a pagina 6 —

NIENTE VETO USA, STORICA RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA ONU

«Illegalilecolonied’Israele» II Il Consiglio di sicurezza Onu, grazie alla storica astensione degli Stati Uniti, ha approvato una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Le colonie - si legge nel testo - «non hanno validità legale». Per impedire il voto e la posizione di astensione soste-

nuta dal presidente Usa uscente Obama, era intervenuto duramente in precedenza l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, giudicando la risoluzione di condanna degli insediamenti nei territori occupati palestinesi come una «iniziativa palestinese che punta a far ma-

ALMAVIVA

Assembleeinfuocate, decideunreferendum

le a Israele. Chiediamo - commentava - agli Stati Uniti si essere con noi e ci attendiamo che il nostro maggiore alleato ponga il veto sulla risoluzione» . La risoluzione era stata presentata dall’Egitto. Ma Al Sisi era stato riportato all’ordine da una telefonata del neo-eletto presiden-

biani

te Usa Donald Trump. Ma altri Paesi, Nuova Zelanda, Senegal, Malesia e Venezuela l’hanno ripresentata ottenendo un risultato storico: dichiarare, con l’astensione Usa, l’illegalità degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati.

— segue a pagina 15 —

MICHELE GIORGIO PAGINA 9

Cinque stelle

Ultima fermata Roma

all’interno Governo Il giglio magico

alla prova sottosegretari MARINA DELLA CROCE

SANDRO MEDICI n attesa di sapere se e come Roma passerà la nottata di capodanno, se sui ponti del Tevere o al Circo Massimo, se per qualche ora o per tutta la giornata, al mattino o perfino di pomeriggio, viene da chiedersi come Roma passerà il resto dei suoi giorni.

I

II Assemblee affollatissime ieri alla Cgil di Roma: i lavoratori hanno discusso l’accordo siglato giovedì notte, e si è deciso di andare a referendum. Si voterà martedì prossimo: aumentano quelli che vogliono tornare al tavolo con l’azienda, altri sono decisi a confermare il no. Intanto si dimette l’ad Marco Tripi.

— segue a pagina 15 —

ANTONIO SCIOTTO PAGINA 4

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PAGINA 6

Lavoro Al Carrefour

i voucher non fanno festa ERNESTO MILANESI

PAGINA 5

Terremoto A Norcia i primi

container, solo per pochi CRUCIATI, DI VITO

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la notizia del giorno

sabato 24 dicembre 2016

LASTRAGEDIBERLINO Sifermanelmilanese la fuga di Amri «l’attentatore» Ucciso ieri notte in uno scontro con la polizia a Sesto San Giovanni. Ferito un agente LEO LANCARI

Milano

II Ancora ieri mattina le au-

torità danesi segnalavano la sua presenza ad Aalborg, nel nord del paese. In realtà a quell’ora la fuga di Anis Amri, tunisino di 24 anni ma soprattutto per gli inquirenti l’autore della strage al mercatino di Natale di Berlino, era già finita da qualche ora. Migliaia di chilometri più a sud e nel modo più drammatico. Fermato da due pallottole a Sesto San Giovanni dopo uno scontro a fuoco con una pattuglia della polizia in cui è rimasto ferito anche un agente. INSOSPETTITI da quell’uomo dai lineamenti mediorientali che alle tre del mattino si aggirava davanti alla stazione del comune alle porte di Milano, i due agenti lo avevano fermato per identificarlo. Un normale controllo di routine, o almeno così sembrava. «Non ho i documenti ma sono calabrese, di Reggio Calabria», prova a sviare Amri. Una spiegazione che non convince i due poliziotti. Il capopattuglia, l’agente Christian Movio, gli chiede di svuotare lo zainetto che ha con sé. È a questo punto che Amri scatta. «Allah Akbar», grida mentre da sotto la giacca estrae una pistola calibro 22 con il colpo già in canna. Lo sparo ferisce Movio a una spalla. Il suo collega, Luca Scatà, 29 anni, agente ancora in prova al commissariato di Sesto, fa quello che gli hanno insegnato in accademia: si ripara dietro l’auto di servizio e risponde al fuoco. Un colpo solo che prende Amri al petto mettendo definitivamente fine alla sua corsa folle. «UNA SCHEGGIA IMPAZZITA,

un latitante pericolosissimo che avrebbe potuto compie-

Il luogo della sparatoria a Sesto San Giovanni, al centro barricate anti-tir proteggono il Duomo foto LaPresse

re altri attentati», spiega più tardi il questore di Milano Antonio De Iesu, mentre da Roma il ministro degli Interni Marco Minniti non ha dubbi sull’identità dell’attentatore, confermata dalle impronte digitali. Ma cosa ci faceva Amir alle porte di Milano mentre le polizie di tutta Europa lo cercavano altrove? Nelle tasche dell’uomo gli inquirenti trovano alcuni biglietti delle ferrovie francesi che consentono di ricostruire l’ultimo percorso del fuggitivo. Approfittando del vantaggio involontariamente offertogli dagli investigatori tedeschi concentrati per una notte su un immigrato pakistano, poi risultato estraneo alla

In treno dalla Francia in Italia, tappa a Torino. Ma si tradisce all’ultima stazione

strage, Amri ha potuto allontanarsi da Berlino e dalla Germania riuscendo a raggiungere la Francia. E da lì l’Italia. I biglietti ferroviari lo collocano in transito giovedì da Chambery, in Alta Savoia, poi da Bardonecchia per arrivare infine alla stazione di Torino Porta Susa. I video delle telecamere di sorveglianza sono stati acquisiti dagli inquirenti che adesso cercano tracce del suo passaggio. Sembra accertato che nel capoluogo piemontese Amri si sia fermato qualche ora, prima di proseguire con un treno regionale verso Milano, dove arriva all’1,15 della notte tra giovedì e venerdì. Due ore dopo, alle 3,15, la pattuglia «Alfasesto» della polizia con a bordo gli agenti Movio e Scatà lo incrocia mentre si aggira in piazza Primo Maggio, a Sesto San Giovanni, davanti alla stazione. In tasca, oltre alla pistola, ha un coltellino e poche centinaia di euro ma non un cellulare del quale

probabilmente si è liberato subito per non essere intercettato, ma senza il quale sicuramente per lui sarà stato più difficile mettersi in contatto con chi avrebbe potuto aiutarlo nella sua fuga. GLI INVESTIGATORI tedeschi hanno accertato che nel periodo in cui è stato in Germania, Amri sarebbe stato in contatto con gruppi salafiti presenti nel Nordreno-Westfalia, cosa che rendere legittimo pensare che contati analoghi il tunisino possa averli avuti anche nel nostro paese. In particolare proprio a Milano dove, come a Napoli, l’attenzione di chi indaga si concentra sulla presenza di possibili basi che fanno riferimento al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, formazione che ha il compito di reclutare uomini di inviare nei teatri di guerra. Circostanza che, se confermata, smentirebbe ancora di più la figura di Amri come quella di un lupo solitario.

M5S E LEGA: BASTA SCHENGEN

Minnitieilpremiersicongratulano maèpolemicasuinomideipoliziotti Roma

II «Gli italiani potranno tra-

scorrere un Natale ancora più felice». Il primo a felicitarsi con parole che non trattengono l’orgoglio è il neoministro dell’Interno Marco Minniti. Un curriculum politico, il suo, di un ex pci di marca dalemiana ma di scuola Pecchioli, poi per anni eminenza grigia del sottogoverno, fra ambienti militari, Difesa e Servizi segreti - nel 2008 è stato il Viminale del governo ombra di Veltroni - il suo battesimo professionale non poteva essere più smagliante, se così si può dire con rispetto per i morti di Charlottenbourg. In una confe-

renza stampa convocata in fretta, forse troppo, Minniti elogia «tutto il nostro sistema di sicurezza». Il ministro descrive nei dettagli la scena della sparatoria di Sesto, senza lesinare encomi per Cristian Movio e Luca Scatà, i poliziotti che hanno fermato e ucciso Anis Amri, la cui identità è stata accertata per il ministro «senza dubbio». «Noi guardiamo a questi due ragazzi all’equipaggio della volante, come persone straordinarie che facendo semplicemente il loro dovere hanno fatto un servizio straordinario alla comunità», è la conclusione. Poco dopo fa altrettanto il premier Paolo Gentiloni, che

nel frattempo ha informato la cancelliera tedesca Angela Merkel e raccolto l’elogio di Berlino all’Italia: «Quanto accaduto mette in evidenza l’importanza di un accresciuto controllo del territorio e la stretta necessità di una maggiore collaborazione tra le agenzie di intelligence nazionali», dice, ma anche «consente a tutti i nostri concittadini di sapere che lo Stato c’è». Seguono le congratulazioni del presidente Mattarella e dell’ex premier Renzi. Ma Minniti e Gentiloni, nella foga, dicono qualche parola di troppo. Quattro, per la precisione, e cioè i nomi degli agenti del presunto - almeno fin qui - killer di Berlino.

Marco Minniti e Franco Gabrielli foto LaPresse

La polemica si accende qualche ora dopo, proprio mentre si riunisce il consiglio dei ministri. Dilaga prima sulla rete, poi fra i sindacati di polizia che accusano: «una follia» aver esposto i due poliziotti e le loro famiglie alle ritorsioni da parte dei terroristi. L’imperdonabile gaf-

fe c’è, anche se dal governo non arriva nessuna replica. E a placare gli animi non può bastare la tempestiva circolare del capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, che invita alla «massima attenzione» appunto per la possibilità di eventuali «azioni ritorsive» nei con-

fronti dei poliziotti e delle altre forze dell’ordine. Non è l’unica polemica di una giornata tutto sommato positiva per il paese. Matteo Salvini e Beppe Grillo alzano i toni: «In Italia non deve entrare più neanche uno spillo. Bisogna ripristinare i controlli alle frontiere interne, siamo in guerra. Bisogna votare nel 2017, con primo punto lo stop all’ingresso di qualsiasi tipo di immigrazione, fatti salvi donne e bambini in fuga dalle guerre», dice il leghista. E il leader di M5S rincara la dose, in una competizione xenofoba forse senza precedenti in Italia: «Dobbiamo proteggerci: gli irregolari devono essere rimpatriati subito», dice. Il trattato di Schengen dunque «va rivisto e sospeso in caso di attentato». Dal resto d’Europa avanzano la stessa richiesta in coro la francese Marine Le Pen, l’olandese Geert Wilders e il britannico Nigel Farage. d.p.


la notizia del giorno

sabato 24 dicembre 2016

Fermato per un controllo, ha reagito sparando. Gli inquirenti non escludono possibili contatti in zona

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Tre mesi fa un’informativa degli 007 del Marocco avvertiva i servizi segreti tedeschi dell’attacco

GERMANIA

Profughi,Merkelcedeallalineadura SEBASTIANO CANETTA

Berlino

II «Grazie, e pronta guarigione ai colleghi feriti». Così la polizia di Berlino dopo l’uccisione a Milano di Anis Amri, 23 anni, tunisino, sospetto terrorista della strage al mercatino di Charlottenburg, celebra la fine dell’incubo natalizio costato 12 morti e 48 feriti. MA IL CASO è tutt’altro che chiuso e l’allarme attentati per niente rientrato. Giovedì a Oberhausen nel Nordreno-Vestfalia (che si conferma tra i germinai della galassia salafita in Germania) la polizia ha arrestato due fratelli kosovari di 28 e 31 anni sospettati di compiere un attacco all’outlet Centro, immediatamente evacuato. SU TELEGRAM spunta il video-selfie del giuramento di Amri al califfo Isis Al Baghdadi, firmato con il nome di battaglia Abu Al Baraa Al Tunsi, girato dopo l’attentato sul ponte Kieler nel porto fluviale di Berlino. «Sono ancora vivo. Mi rivolgo ai crociati che bombardano ogni giorno i musulmani: vi sgozzeremo come maiali. Voglio morire da martire» minaccia Anis, prima di incitare al jihad in tutta Europa. Ed emerge - soprattutto - l’inquietante informativa degli 007 del Marocco che ben tre mesi fa avvertiva i servizi segreti tedeschi dell’imminente attacco. IN GERMANIA scatta la caccia ai fiancheggiatori del tunisino, mentre il governo annuncia il giro di vite sull’immigrazione: «Se ci sono complici nella strage verranno assicurati alla giustizia. La democrazia è più forte del terrorismo ma dobbiamo riesaminare le politiche pubbliche che hanno bisogno di essere cambiate. La priorità è garantire la sicurezza dei cittadini» scandisce la cancelliera Angela Merkel. «Dobbiamo capire se dietro alla fuga di Amri c’è stata una rete di supporto, e se l’arma che ha sparato a Milano è la stessa impiegata a Berlino» aggiunge il procuratore generale Peter Frank. Eppure resta da comprendere, anzitutto, come Amri sia riuscito a varcare i confini con la Francia blindati dai posti di blocco. Perché l’Ufficio criminale del Nordreno-Vestfalia non ha preso

Australia, sventato attentato di Natale Sette persone sono state arrestate in Australia, sei australiani e un egiziano, sospettate di voler compiere un attentato terroristico, «molto significativo», sullo stile di quello di Parigi, ma a Melbourne, il giorno di Natale, con armi e esplosivo. E la firma dell’Isis. È il capo della polizia, Graham Ashton, a fornire dettagli sugli arrestati: «Si tratta di persone che si sono radicalizzare ispirandosi alla propaganda Isis», ha spiegato in una conferenza stampa indetta immediatamente dopo gli arresti. «La minaccia era molto reale, ma per fortuna, al momento è stata sventata grazie alla professionalità delle forze dell’ordine» ha detto il premier, Daniel Andrews.

Anis Amri mentre giura fedeltà all’Isis, nel video rilasciato dall’Amaq

sul serio la “soffiata” di un agente sotto copertura che già il 21 luglio rivelava il piano di Amri. Come mai il tunisino non era stato espulso nonostante il foglio di via, i precedenti penali, l’informativa della polizia italiana via Interpol, e gli avvertimenti al Bnd (i servizi esterni tedeschi) datati 19 settembre e 11 ottobre della Direction générale de la surveillance du territoire (Dgst), l’intelligence del Marocco. Ancora: per quale motivo non ha funzionato il «monitor» dei 500 soggetti pericolosi tenuti sott’occhio dal controspionaggio, tra cui proprio Amri. Domande tuttora inevase. IERI MERKEL ha telefonato a Beji Caid Essebsi, presidente della Tunisia. Oggetto della conversazione: la procedura di rimpatrio di Amri sospesa perché il giovane non aveva un passaporto valido, e l’implemento delle “deportazioni” cresciute (da 17 nel 2015 a 117 nel 2016) ma non abbastanza. EGUALMENTE INSUFFICIENTE appare il controllo delle moschee sun-

nite “radicali”. Solo ieri sera il segretario agli interni del Land di Berlino Torsten Akmann ha preso in considerazione la possibilità di chiudere l’associazione Fussilet 33 che si sospetta possa aver appoggiato l’attentatore di Breitscheidplatz. ALL’OBITORIO di Berlino si è conclusa l’identificazione dei 12 cadaveri (6 uomini e 6 donne) della strage. In attesa dei nomi è stata

La democrazia è più forte del terrorismo ma dobbiamo riesaminare le politiche che hanno bisogno di essere cambiate. La priorità è la sicurezza Angela Merkel

Angela Merkel alla fine della conferenza stampa di ieri foto LaPresse

diffusa la lista delle nazionalità: 8 tedeschi, una ceca, un’israeliana (Dalia Elykim, 60 anni), un polacco (l’autista del Tir Lukasz Urban) oltre all’italiana Fabrizia Di Lorenzo, 31 anni, di Sulmona, il cui decesso è stato confermato mercoledì dal ministro degli esteri Angelino Alfano. TRA I 45 FERITI - la maggior parte ancora ricoverata nei tre ospedali universitari della Charité - un israeliano (Rami, marito di Dalia) oltre a cittadini di Spagna, Regno Unito, Ungheria, Finlandia e Libano. «Fra loro 14 risultano sempre in gravi condizioni» precisa Andreas Geisel, ministro dell’Interno della Città-Stato. Prima di puntare il dito contro le autorità del Nordreno-Vestfalia, «Non siamo certo noi a non essere stati sufficientemente attenti. A Berlino Amri non è mai stato registrato». Se non al Lageso (ufficio sociale) a luglio 2015 dopo il trasferimento dalla cittadina di Kleve sul confine olandese. È LO SCARICO delle responsabilità nel caos della gestione (troppo) federale della sicurezza nella Bundesrepublik incardinata sull’autonomia locale. E si registrano anche stoccate della Polizei berlinese ai colleghi di Amburgo che si sarebbero attivati con ore di ritardo nella diffusione dell’identikit di Amri. Tra gli effetti collaterali dell’attentato (oltre alla crescita nei sondaggi dei populisti di Afd) si segnala il rinvio al 29 gennaio della puntata della popolare serie Tatort trasmessa da Ard: contiene la scena di un attentato islamista a Dortmund.

SPAZIO GIUDIZIARIO COMUNE

DaEurojustaEppo,laProcuraeuropeachenonc’è ANNA MARIA MERLO

Parigi

II L’estremismo di destra si

butta sul dramma di Berlino e la mobilità dell’attentatore in Europa, chiedendo più frontiere. La razionalità suggerisce, al contrario, che è proprio la carenza di cooperazione che permette alla grande criminalità di operare senza tener conto delle frontiere, che invece continuano a esistere come barriere. Quarant’anni fa aveva cominciato a germogliare il progetto di creare uno spazio giudiziario europeo. Era una vecchia idea che il francese Valéry Giscard d’Estaing aveva delineato nel ’77. Nell’82 è stata avanzata la proposta a favore di una Corte

penale europea. Il Trattato di Maastricht getta le basi per una cooperazione giudiziaria, con il “terzo pilatro” e nel ’99, al Consiglio di Tampere (Finlandia) viene delineato Eurojust, che nascerà nel 2002, con il mandato d’arresto europeo (mutuo riconoscimento delle sentenze). Eurojust ha sede all’Aja, come Europol, e permette di costituire dei gruppi di inchiesta comuni e di scambiare informazioni. Al vertice di Nizza è stata respinta la proposta della Commissione di istituire un Procuratore europeo. L’articolo 31 permette però azioni in comune nel campo della cooperazione giudiziaria. Bisognerà aspettare il Trattato di Lisbona, nel 2009, per avere le basi giuridiche per una Procura

europea (art.86). L’ambizione era di creare un Fbi europeo. La Procura europea, organismo indipendente, avrebbe dovuto essere competente riguardo alla grande criminalità transnazionale e anche al terrorismo. Ma il progetto si è arenato, negli egoismi nazionali. Solo nel 2013 sono iniziati i negoziati. Ma l’ambizione si è ristretta a una giustizia europea competente solo sulla difesa degli interessi finanzia-

I paesi membri non intendono cedere sovranità nel campo della giustizia

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ri della Ue (con molte restrizioni: c’è una “soglia” per esempio che in caso di co-finanziamento della Ue, questo deve essere almeno del 50%, in caso contrario la competenza è nulla). La Procura europea allo studio attualmente non sarà neppure competente su casi di frode legati ad altre criminalità (come la tratta di esseri umani). Addirittura, ci sono fortissime limitazioni persino nel campo di competenza finanziario: non potrà intervenire sulle frodi all’Iva, un vero baratro (si calcola che siano intorno ai 160 miliardi, più del bilancio Ue che è sui 150 miliardi, mentre la competenza è limitata alle frodi che al massimo arrivano a 3 miliardi l’anno). Questa Procura europea,

man mano che i negoziati avanzano, prende sempre più l’aspetto del vecchio Olaf (Ufficio lotta anti-frodi), un servizio amministrativo in carica dal ’99, con meno di 500 dipendenti. I paesi membri non sembrano aver nessuna intenzione di cedere sovranità nel campo della giustizia. L’Eppo - la sigla della futura Procura europea - se mai vedrà la luce sarà troppo decentralizzato, avrà una struttura troppo complessa e non verrà dotato di competenze di ultima istanza, che resteranno a livello nazionale, nelle mani delle strutture giudiziarie degli stati membri. Non sarà, in altri termini, una struttura federale (come negli Usa), ormai le F-words sono parolacce.


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economia

sabato 24 dicembre 2016

SENZARISPOSTA Le cuffiette Almaviva divisesull’accordo Sivaalreferendum Assemblee infuocate: molti vorrebbero tornare al tavolo, altri non tollerano ulteriori tagli ai salari. Si dimette l’ad Marco Tripi ANTONIO SCIOTTO

Roma

II «Voi non potevate firmare il nostro licenziamento al posto nostro!». «E scusate, voi invece dove eravate quando per mesi abbiamo fatto assemblee e presidi sotto all’azienda e al ministero?». Il popolo di Almaviva è diviso, l’accordo sui 1.666 licenziamenti siglato giovedì notte brucia, e la folla davanti alla Cgil di via Buonarroti a Roma è incontenibile. Intanto dal quartier generale del colosso dei call center si viene a sapere che si è dimesso Marco Tripi, l’amministratore delegato di Almaviva contact (il ramo della holding che controlla i servizi in cuffietta), pare per motivi riconducibili agli esiti della vertenza. URLA, QUALCHE SPINTONE, accuse reciproche, ci vorranno ben quattro assemblee, dalle 11 alle 18, per riuscire a far partecipare tutti alla discussione sull’accordo. E alla fine si è deciso di indire un referendum: si terrà martedì prossimo, nella stessa sede della Cgil di via Buonarroti, dalle 10 alle 17. Tanti sono per mantenere il no: non si possono permettere ulteriori tagli a stipendi già bassi, in media tra i 500 e i 600 euro, perché c’è il part time, senza contare la cassa integrazione, la solidarietà. Lucilla è venuta in assemblea con il pancione, suo figlio nascerà in aprile: spiega che la sua busta paga lorda, per 20 ore settimanali, è di 807 euro. Se ci metti anche il 17% di taglio richiesto oggi dall’azienda e la cassa integrazione arrivi a 550 euro. Sempre lordi: immaginiamo il netto. Chi sceglie oggi la via del licen-

ziamento, ribellandosi «a un abbassamento della dignità che non avrebbe mai fine» - spiegano dal palco - pensa di poter fare causa contro l’azienda: ma sono vertenze legali lunghe, il cui destino non è mai certo. Altri, invece, sono per ritornare al tavolo. E rispetto a soltanto una settimana fa, quando le assemblee compatte davano mandato alle Rsu di non accettare tagli ai salari e controlli individuali a distanza sulla produttività, sono decisamente in aumento. Adesso che hanno visto le lettere di licenziamento tremendamente vicine e un buio fitto sul futuro, in molti stanno cambiando idea. Altri che non avevano mai fatto capolino agli incontri si staccano dai social e finalmente discutono vis à vis con i colleghi. CRISTINA HA UNA FIGLIA invalida, anche lei lavora 20 ore a settimana, è iscritta all’Ugl. Manuela e Claudia sono dipendenti Almaviva da oltre 15 anni: una è iscritta alla Cgil, l’altra non ha tessere. Tutte e tre non hanno partecipato alle assemblee, anche se hanno preso parte ai presidi, ma adesso sono venute perché non si sentono rappresentate dal no all’accordo. Anche Laura è per il Sì: «Io - spiega dal palco - lavoro al call center da 20 anni: e a fine anni Novanta, quando gli stipendi erano più alti e venivamo pagati in lire, riuscivo a comprarmi tante cose. Ora i tempi sono cambiati: i nostri concorrenti stanno in Albania e Romania, dobbiamo prenderne atto. Saremo più poveri, ma si deve pur lavorare». Le urla bloccano spesso chi parla al microfono, ma tanti fanno

quadrato intorno alle Rsu. Assurdo accusarli di aver firmato per tutti quasi per capriccio, soprattutto se non ti sei mai presentato a una assemblea. «Non ha perso il sindacato, non ha perso il governo: abbiamo perso tutti noi, perché non ci siamo mai nei momenti in cui si deve lottare». Cinzia è un po’ la memoria storica di Almaviva, ha cominciato con il proprietario - l’ingegner Alberto Tripi, padre di Marco - quando lavorava a Santi Apostoli, il primo nucleo del call center era accanto al comitato dell’Ulivo di Prodi. «ABBIAMO BUTTATO l’anima per fargli costruire un impero, e adesso come veniamo ripagati? - dice in un intervento appassionato e ascoltatissimo - Con i tagli ai nostri salari lui ci paga i viaggi per costruire i suoi nuovi call center in Romania. Abbiamo sbagliato tutte quelle volte che abbiamo votato il sindacato solo perché ci assicura le ferie agevolate, e ora cosa ci ritroviamo? Ma non potete ottenere quello che volete stando sul divano e scrivendo frasi incazzate sui social. Le nostre Rsu ci sono sempre state, e sono rimaste sole quando hanno dovuto firmare. Adesso metteteci anche voi la faccia o tutti a casa». Stefano Cardinali, della segreteria Slc Cgil, spiega come è andata nei tre giorni di trattativa: «Non riuscivamo a trovare un accordo con l’azienda, e il lodo che ci aveva proposto il governo a un certo punto non poteva certo andare bene perché avremmo dovuto firmare alla cieca. Ma intanto le ore passavano e si avvicinava la scadenza della procedura». «Abbiamo chiesto allora - pro-

Con le riduzioni ai nostri stipendi l’azienda ci paga i viaggi per insediare nuove sedi in Romania. Dobbiamo dire basta Cinzia, dal 1996 operatrice di Almaviva

segue il sindacalista - di sospendere per un anno il pagamento degli scatti di anzianità, ma l’azienda l’ha ritenuta una proposta irricevibile. A quel punto è arrivato il governo, con la sua proposta. Visti i contenuti, abbiamo chiesto di fermare le trattative per 12 ore, per poter discutere in assemblea e avere un nuovo mandato. Ci è stato detto di no, e allora le Rsu hanno ritenuto di rispettare la scelta che voi lavoratori - spiega Cardinali alla platea - avevate fatto nei precedenti incontri». IL REFERENDUM permetterà di potersi esprimere di nuovo, e tra

l’altro a quel punto non è neanche detto che l’azienda ne tenga conto, visto che in realtà un accordo c’è già ed è stato firmato. E come tale è pienamente valido. Ma sarà sostenibile, d’altronde, scegliere di licenziare 1.666 persone senza avere più neanche l’avallo del sindacato? «Un’eventuale vittoria dei sì - dice a fine giornata la Slc Cgil di Roma e Lazio - non porterà alla riapertura immediata della partita ma sicuramente sarà un segnale di una diversa volontà dei lavoratori di cui il governo e la stessa Almaviva dovranno tenere conto».

MONTESI, UNO DEI DELEGATI CHE HANNO DETTO NO

«Bastaconleaccuse,ilgovernocihalasciatidasoliafirmareilicenziamenti» II «Non solo il governo ci ha prati-

camente accusati di essere i responsabili del licenziamento di 1666 persone, ma sinceramente come Rsu non mi sono sentito coperto neanche dalla mia organizzazione. A questo punto fare un referendum è il minimo, anche se credo che ci si sarebbe dovuti impuntare per far sospendere la trattativa e andare al voto prima». Massimiliano Montesi è delegato della Slc Cgil, è uno dei tredici che alle tre di notte di giovedì scorso ha detto no all’accordo con Almaviva. Cominciamo dal racconto diquella notte. L’accordo da chi è stato elaborato? Quando tutto era in stallo, è stato il governo a venire dalle parti con un accordo praticamente già scritto. Un testo che recepiva tutti i temi proposti dall’azienda, in particolare il taglio del costo del lavoro e il controllo della prestazione individuale. In più: 3 mesi di cassa integrazione a scalare - dal 100% a zero ore al 70% e poi al 50% - preve-

Avremmo voluto chiedere un nuovo mandato alle assemblee, ma non ci è stato permesso. Ho sentito che non ci ha coperto neanche il sindacato Massimo Montesi (Cgil)

dendo che se entro il 31 marzo 2017 non si fosse arrivati a un’intesa, l’azienda avrebbe potuto procedere ai 2.511 licenziamenti già previsti nella procedura. È l’accordo a cui poi avete detto no. Come mai? Intanto va detto che un sindacato che firma una intesa su una futura trattativa, ma in cui sono già previsti dei licenziamenti, li sta praticamente avallando. E questo potrebbe creare tra l’altro problemi a chi in futuro volesse impugnarli. Abbiamo detto no perché avevamo ricevuto un preciso mandato dalle assemblee a non trattare su taglio dei salari e controllo della produttività individuale: erano ritenuti temi indisponibili. Ma erano venuti tutti i lavoratori alle assemblee? Alcuni contestano che le assemblee non rappresentano tutti. Noi abbiamo fatto assemblee al call center fino a una settimana prima delle trattative, abbiamo coperto tutti i turni: poi è chiaro che

quando hai la solidarietà al 45%, e se conti anche le ferie o le malattie, non puoi avere proprio tutti. Però chi era a quelle assemblee era d’accordo con noi, e la linea che abbiamo portato era quella delle segreterie nazionali. Abbiamo chiesto un preciso mandato, avvertendo chiaramente sui rischi: attenzione, abbiamo detto, perché se non si arriva a un accordo poi potrete ricevere le lettere di licenziamento a casa. A quel punto non venite a cercare noi, perché ci state dando un mandato preciso. E invece sono venuti a cercarvi, molti accusano voi Rsu di essere i responsabili di quelche è accaduto al ministero dello Sviluppo. Ad accusarci sono stati alcuni tweet del governo, i tg nazionali. Non i lavoratori che ci hanno dato quel mandato, sarebbe assurdo d’altronde. È vero però che adesso tanti stanno cambiando idea sull’opportunità o meno di accettare un accordo con l’azienda, e questo è sempre legittimo: non a caso

noi faremo un referendum. Certo che quel referendum sarebbe stato meglio farlo prima, quando avevi la proposta di accordo in mano. Ma infatti il sindacato ha chiesto di sospendere il tavolo e andare alle assemblee. Certo, è stato chiesto. Ma quando azienda e governo hanno detto no, ci si sarebbe dovuti impuntare di più. Tanto più se non hai ottenuto nulla di quanto era nella tua piattaforma: dovevamo chiedere un nuovo mandato, invece di provocare lacerazioni e accordi separati tra le due sedi di Roma e Napoli. Ma invece di tenere il punto, si è reputato di far firmare quell’accordo con la chiamata nominale delle Rsu. Puoi immaginare come ti senti se ti chiamano per nome e cognome a dire sì o no al licenziamento dei tuoi colleghi. Però noi avevamo ricevuto un preciso mandato, con tanto di riprese pubblicate sui social. Se l’avessimo tradito ci avrebbero praticamente menato. Mandato a parte, personalmente

cosa pensi dell’accordo? E cosa credi che prevarrà al referendum di martedì prossimo? A me quell’accordo non piace perché sancisce dei licenziamenti, e poi siamo veramente stanchi di subire: da sei anni siamo sotto ammortizzatori sociali, e adesso ci propongono condizioni peggiorative - che Almaviva vuole estendere a tutti i suoi siti italiani - mentre si aprono nuove sedi in Romania e si assumono interinali a Milano e Catania. Non so cosa passerà al referendum, e chiaramente non mi impunterò sulle mie idee personali se nel frattempo la maggioranza delle persone ha cambiato idea. Il timore è comunque che si voglia solo allungare la nostra agonia, e che quei licenziamenti non troppo lontano nel tempo arriveranno lo stesso, mentre grazie alle nostre lotte l’azienda ha ottenuto la nuova normativa contro le delocalizzazioni e 30 milioni di ammortizzatori. E per giunta ci chiede pure tagli ai salari e controlli a distanza.


economia

sabato 24 dicembre 2016

Il numero uno del ramo che controlla i call center avrebbe lasciato per motivi legati alla vertenza

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A gennaio la regione Veneto convocherà un «tavolo etico» sull’azzeramento del calendario

ERNESTO MILANESI

Venezia

II A colpi di voucher, l’iper-

Scontro tra Boeri e il ministero del lavoro Nuovo scontro tra Tito Boeri e il ministero del Lavoro, che il 16 dicembre ha inviato al presidente dell’Inps una lettera di critiche e rilievi. Dura la risposta di Boeri (resa pubblica dall’Adnkronos), che accusa il ministero di rispondere con ritardo alle richieste dell’Inps su «problematiche di grande rilevanza per i cittadini e il mondo delle imprese» e di esercitare il potere di vigilanza in «funzione intimidatoria». Nella missiva, inviata anche ai ministeri dell’Economia e della Pa, Boeri rifiuta di essere dipinto come colui che ha «scalfito l’immagine dell’Istituto» e controbatte: «Le critiche sono estremamente generiche e apodittiche e per lo più prive di riferimenti a specifiche norme di legge o ad atti di indirizzo o di gestione» dell’Inps. E «alcune delle osservazioni intervengono con mesi, se non anni, di ritardo rispetto agli eventi» citati e «paiono ventilare un esercizio del potere di vigilanza del ministero quasi in funzione intimidatoria». Mentre per Boeri chi vigila sull’Inps dovrebbe «segnalare tempestivamente e puntualmente eventuali illegittimità» indicando nel dettaglio le norme violate o evidenziando «criticità sul piano del merito o dell’opportunità e, nel caso, prospettare soluzioni».

Caso Poletti

La migliore risposta sono i Sì al referendum I PETTIROSSI* e inaccettabili dichiarazioni del ministro Poletti riguardo il fenomeno dell’emigrazione giovanile hanno creato sconcerto in tutto il Paese, ma soprattutto hanno offeso un’intera generazione che subisce le conseguenze di politiche economiche sbagliate e di insufficienti risposte alla crisi. Fra queste ultime, quella del Ministro, il quale sostiene che tra coloro che emigrano c’è una quota di giovani dei quali il nostro Paese non avrebbe bisogno. L’allusione è ai peggiori che se ne

L

vanno, rendendo in modo alquanto grottesco l’idea di un mondo diviso in peggiori e migliori, che può fare a meno dei primi. Poletti non comprende che i «peggiori» sono oggi quel 99% di giovani e persone comuni le cui condizioni di vita arretrano a causa della globalizzazione e dell’indolenza di governi e di classi dirigenti che non vogliono opporsi ad un sistema economico ingiusto, mentre i migliori, «quelli che ce la fanno», sono sempre meno e sempre più un’élite. Infatti, c’è un nesso di cultura politica e di ideologia economica evidente che connette le affermazioni più recenti del ministro Poletti alle riforme da lui promosse durante il governo Renzi; innanzitutto su questo terreno è necessario che la nostra generazione unisca le forze per combattere la catti-

mercato Carrefour sarà aperto a santo Stefano e a Capodanno. Spesa «garantita» anche se resteranno chiusi tutti gli altri negozi del grande centro commerciale di Marcon, 15 chilometri da Mestre con tanto di uscita autostradale dedicata. Una scelta precisa della multinazionale francese che farà lo stesso a Portogruaro, sempre nel Veneziano, e a Thiene (Vicenza). È una sfida aperta alle catene dei supermarket concorrenti, ma soprattutto si manifesta la volontà di sfruttare al massimo tanto il decreto Passera del 2011 che liberalizza aperture e orari del commercio, quanto le «nuove opportunità» offerte dal Jobs Act. Il sindaco di Marcon allarga le braccia: «Scelta che non condivido. Ho solo potuto sincerarmi che nessun lavoratore sia stato obbligato a lavorare in quelle due giornate festive» commenta Andrea Follini, 48 anni, socialista, alla guida del centrosinistra. Ma Carrefour è pronta a far cassa perfino fra le transenne di sicurezza intorno alle altre attività commerciali: un «servizio importante e richiesto dai clienti» recita il comunicato ufficiale, che evidenzia «l’assoluta volontarietà» dei dipendenti chiamati a coprire due volte i turni «super-festivi». A Marcon da ben sei anni è in vigore il contratto di solidarietà, tuttavia l’aggiornamento della flessibilità introdotta dal governo Renzi permette di giocare la carta del voucher in versione natalizia. Conferma Roberta Gatto della Filcams Cgil: «Carrefour potrà alzare le serrande a santo Stefano e Capodanno quasi solamente grazie al lavoro di chi viene pagato così: i voucheristi, naturalmente, non se la sentono di rifiutare la chiamata aziendale per non compromettere quelle successive. Come sindacato, invitiamo la clientela a non fare la spesa nelle date in questione. Una decisione scellerata che porterà a metter davanti ai valori della famiglia il dio denaro». Si apre, tuttavia, una vertenza non trascurabile. Riguarda gli addetti alle pulizie che in base al contratto devono rispondere alla richiesta

va retorica e le cattive leggi. Ci riferiamo naturalmente all’impianto dell’ultima riforma del lavoro, approvata sotto il nome di Jobs Act, che, come denunciammo all’epoca dei fatti, avrebbe soltanto precarizzato ancor di più le condizioni del lavoro dipendente, spingendo le imprese a competere esclusivamente sul costo e non sulla qualità del lavoro.  L’abolizione dell’art. 18, la cancellazione del reintegro per licenziamenti ritenuti illegittimi, lo spostamento dell’onere della prova a carico del lavoratore sono soltanto alcuni degli interventi che hanno ridisegnato il mercato del lavoro rendendo le nostre vite sempre più precarie. Sono misure peggiorative della

Flash mob di Act! foto LaPresse. A sinistra lavoratori Almaviva al ministero Ansa

L’IPERMERCATO DI MARCON, VICINO MESTRE

Ilvouchersottol’albero.Carrefour apreneisuper-festiviacolpiditicket delle cooperative. Di qui lo stato di agitazione e lo sciopero proclamati dai sindacati confederali e dai Cobas, che consentiranno ai lavoratori (soprattutto donne) di poter restare a casa… Il «caso Marcon» riapre, dunque, la partita doppia degli interessi commerciali e dei diritti legati alle festività. Tanto più che a Nord Est la polemica infuria da anni. In Veneto, il marchio Alì di Francesco Canella ha preventivamente sposato il rispetto del Natale (anche cristiano…). Ma in Friuli, grazie alla legge autonomista che prevede lo status di Comune turistico, sono già 8 i municipi che invocano la deroga agli obblighi di chiusura festiva. A Verona fece scandalo nel Natale 2005 l’invasione di Upim di via Mazzini «normalmente» in attività. Ora tocca a Padova, dove le 22 commesse del nuovissimo mega-spaccio

Serrande alzate a Santo Stefano e Capodanno. Ma la Filcams invita a non fare la spesa vita di tutti i lavoratori ed è necessario che siano urgentemente riviste. Non solo! La promessa (già deludente) che a fronte di un contratto a tempo indeterminato con meno tutele avremmo avuto l’abolizione della vasta platea di forme atipiche, è stata puntualmente disattesa. Pertanto ci troviamo oggi ad avere un contratto a tempo indeterminato (ad indennizzi crescenti) fortemente depotenziato, accompagnato da ancora numerose forme di lavoro temporaneo e instabile. Il Jobs Act peggiora le condizioni del lavoro e non ha in nessun modo aumentato l’occupazione: per questo Poletti ha recentemente dichiarato che sarebbe meglio andare ad elezioni politiche per evitare che i cittadini si esprimano sui referendum della Cgil: egli sa che le urne boccerebbero la sua riforma.

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di dolciumi Ods nella centralissima piazza Garibaldi saranno regolarmente al lavoro dalle 8.30 fino alle 12.30. «Una vera e propria barbarie contro la dignità delle persone, che già con le aperture domenicali fanno fatica a conciliare la vita lavorativa con quella affettiva e familiare» scrivevano i segretari generali veneti di Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs, Emilio Viafora, Maurizia Rizzoe Luigino Boscaro nella lettera spedita in anticipo al patriarca di Venezia monsignor Moraglia, al governatore Luca Zaia e alla presidente di Anci Veneto Maria Rosa Pavanello. «Non è certo un bel segnale per l’insieme della società veneta, e soprattutto per le nuove generazioni, che il consumo diventi il centro della vita delle persone e che valori fondanti, a partire da quelli di poter vivere le feste natalizie con i propri cari, possano essere cancellati in nome del profitto». Risultato? A gennaio, l’assessore regionale al commercio Roberto Marcato convocherà un «tavolo etico» per concertare una soluzione in grado di arginare gli effetti dell’azzeramento del calendario e della totale liberalizzazione negli

Noi ci impegneremo affinché ciò avvenga. Proponiamo a tutti coloro che stanno chiedendo le dimissioni di Poletti, e in particolar modo ai Giovani democratici, in molti casi nostri ex compagni di partito, la costruzione di una piattaforma comune che vada oltre la richiesta delle dimissioni del ministro e che ci veda tutti partecipi della prossima mobilitazione referendaria. Crediamo, infatti, che in questa particolare congiuntura storica sia necessaria un’alleanza tra tutte le forze del Paese per contrastare il violento attacco perpetuato al mondo del lavoro. * I «Pettirossi» sono un gruppo costituito in larga parte di giovani ex militanti del Pd e dei Giovani democratici oggi impegnati nel processo costituente Sinistra italiana

orari introdotta dal governo Monti. Intanto, si infrange anche il tabù di Capodanno. «Non era accaduto, a memoria, che un ipermercato fosse aperto il 1 gennaio. Credo sia ora di aprire una nuova riflessione, almeno perché sembra inutile che nei giorni festivi lavorino quattro supermarket nel raggio di pochi chilometri» dichiara Massimo Zanon, presidente regionale di Confcommercio. E se Carrefour, a colpi di voucher, apre un nuovo fronte, il commissario che governa Padova dopo la caduta del sindaco leghista Massimo Bitonci si ritrova alle prese con un ginepraio. Perfino a Natale la spesa continua ai punti vendita Despar della stazione e dell’Arcella, come al Conad Superstore appena inaugurato. Nella cintura urbana, costellata di centri commerciali, si procede a macchia di leopardo per l’intero arco delle festività. Tutto ruota intorno alla «disponibilità» dei dipendenti: in teoria, non basta aver fatto sottoscrivere l’obbligo al lavoro festivo. Grazie al «pacchetto flessibile» del ministro Poletti tutte le serrande si possono alzare a piacimento. Come dimostra Marcon…

Decreto legge: 100 milioni a Taranto Dopo il «salva banche» altro decreto legge per il governo Gentiloni, che ieri sera ha varato un provvedimento «omnibus» con misure soprattutto per il Sud. Questi, in sintesi, i capitoli: stabilizzazione degli ammortizzatori sociali per i lavoratori dell’Ilva, misure per G7 di Taormina a maggio, il supercommissario per il trattamento delle acque reflue al Sud, legge delega per i reati contro arte e cultura. Sul fronte Ilva previsti anche 70 milioni di euro per le strutture sanitarie di Taranto e un piano da 30 milioni in tre anni per misure di carattere assistenziale e sociale per le famiglie disagiate tarantine.


politica

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sabato 24 dicembre 2016

SALVABANCHE

Mps,l’Unioneeuropea promuoveildecreto RICCARDO CHIARI

II Con la firma del presiden-

Luca Lotti e Maria Elena Boschi foto LaPresse

Ilgigliomagico alla«provapoltrona» Il toto-sottosegretari tra il «pressing» di Boschi e Lotti «indagato» MARINA DELLA CROCE

II Come previsto la nomina

dei sottosegretari slitta di una settimana. Se ne riparla il 28 dicembre. Sarà un test eloquente per diversi motivi, tra i quali stavolta non figura il riflesso degli equilibri di potere interni alla maggioranza. La maggior parte dei sottosegretari sarà confermata, da quel punto di vista il listone dirà quindi ben poco. In compenso le scelte di Paolo Gentiloni e di Matteo Renzi indicheranno quali possibili alleanze ha in mente il Pd una volta tramontato il miraggio del partito a vocazione maggioritaria. Inoltre sarà un primo test per vagliare quanto il premier intenda assecondare le decisioni del predecessore e quanto invece voglia smarcarsi e conquistare da subito autonomia. Sul primo fronte la grana più grossa è rappresentata dai ver-

— segue dalla prima —

Monte dei Paschi

Non c’è l’austerità se i soldi vanno alle banche VINCENZO COMITO e contropartite potrebbero essere anche pesanti. Si pensi solamente con quanta brutalità la coppia citata ha nei giorni scorsi trattato la Grecia e la sua crisi, bloccando gli aiuti promessi dall’Europa, solo perché il paese ellenico aveva osato distribuire pochi spiccioli ai più diseredati (i pensionati). E gli italiani, in quella occasione, si sono ben guardati dal muovere un solo dito. La vicenda di questi giorni ci ricorda ancora una volta, come ha sottolineato Andrea Baranes su sbilanciamoci.info,

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diniani di Ala. Molti, dopo la fiducia negata da Denis al nuovo governo, avevano sospettato una finta rottura studiata per indebolire il governo e avvicinare le elezioni. Non è così. Chi ha parlato col ruggente fiorentino nelle ultime settimane lo ha trovato irritato e deluso dal pupillo. La richiesta pesante di quattro o cinque sottosegretariati ha quindi il sapore di una «riparazione». Che probabilmente non arriverà. Gentiloni è più che contrario. Non risulta che dal Nazareno arrivino pressioni in questa direzione. L’atteggiamento che dire conciliante è poco dell’ex Cavaliere sottrae peso contrattuale all’alato: se a salvare il governo non sarà lui ci penseranno gli azzurri uscendo dall’aula. Alla fine è probabile che Verdini incasserà solo la conferma del viceministro Zanetti, che per altro è alato solo a metà,

proveniendo da Scelta civica. Inoltre è già in squadra e dunque nel complesso è il più presentabile. In compenso non è escluso che ci scappi un sottosegretariato che arriva da sinistra. La settimana scorsa al Senato due ex Sel che non hanno aderito a Sinistra italiana, il presidente della giunta per le autorizzazioni Dario Stefàno e Luciano Uras, hanno votato la fiducia. L’ingresso di uno dei due al governo sarebbe una passo vistoso verso l’alleanza con il «Campo progressista» che Pisapia sta cercando di costruire. Quanto all’autonomia del premier da Renzi, al momento tutto lascia intendere che Gentiloni stia provando a smarcarsi. Secondo alcune voci avrebbe respinto Maria Elena Boschi, presentatasi nel suo studio impugnando una lista vergata a Rignano con in mente un delicato equilibrio tra i componenti

che per salvare le banche si trovano facilmente e subito anche venti miliardi - e, se necessario, noi pensiamo che se ne troveranno anche molti di più -, scavalcando tutti i piani di austerità e le regole di Maastricht; non si trova invece, contemporaneamente, qualche centinaio di milioni di euro per migliorare la sorte di qualche derelitto, né il denaro per restituire all’Università qualcuno dei molti miliardi che sono stati tagliati ormai qualche anno fa.

Le vicende delle banche ci ricordano anche che, come sottolineava già a suo tempo Leonardo Sciascia, la linea della palma è da molto tempo salita nel nostro paese sino a latitudini elevate e così, per molti anni, il malaffare e l’omertà hanno regnato quasi sovrane senza che nessuno, proprio nessuno, nel Veneto, regno degli ex-democristiani, ma anche a Siena e dintorni, dominio degli ex-Pci, nonché a Roma, dove ci sono tutti, si accorgesse apparentemente di niente. Ora, come al solito, pagheremo noi; il rapporto del debito sul Pil crescerà ancora una volta, cancellando una delle tante promesse del governo di Matteo Renzi, mentre anche il peso degli interessi passivi lieviterà.

 Essa mostra inoltre che la storia che ci raccontavano sul fatto che l’esistenza del Senato rallentava il processo decisionale di produzione delle leggi era una frottola; la norma salva-banche è stata approvata dal Parlamento in una sola giornata, come a suo tempo il cosiddetto job act era stato varato in meno di tre settimane.

 Qualispese socialiverrannoper conseguenzatagliatequesta

della nuova segreteria Pd e i sottosegretari. Il retroscena è di quelli che nessuno confermerebbe. In compenso tra gli esponenti del Pd, non importa di quale banda, tutti lo definiscono «credibile». E dagli spalti franceschiniani si aggiungono esortazioni rivolte al Gentiloni perché marchi sempre più una piena autonomia. È presto per parlare di un premier affrancato dalla tutela di Renzi, ma la trattativa sui sottosegretari è un piccolo passo in quella direzione. Certo senza esagerare. Le guardie renziane dell’esecutivo, Boschi e il ministro dello Sport Luca Lotti, si vedranno confermare poteri esorbitanti, e a Lotti saranno riassegnate le deleghe di cui disponeva con Renzi, inclusa quella fondamentale sul Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica. Ma la posizione dell’alter ego di Renzi è minacciata dall’avviso di garanzia per rivelazione di segreto d’ufficio nel quadro dell’inchiesta sugli appalti Consip. Lotti ha reagito con vigore negando ogni addebito e chiedendo, qualora la notizia fosse fondata, di essere ascoltato subito. Ma se il caso non si dovesse risolvere di corsa il potere di Lotti, e di conseguenza quello di Renzi, nel governo ne uscirebbe seriamente scosso.

volta?Si aumenterannoi ticket sanitari?Si bloccheràilcontrattodegli statali?Si toglierà lacartaigienica allescuoleche ce l’hannoancora? DunqueilGovernoentra nel capitaledi unbelnumero diistituti,masi puòaffermare che dalleparti diRomacertamente lecoeurn’y estpas,come diconoinostricuginitransalpini.  Ai tempi dell’imperatore d’Oriente Giustiniano era stata coniata l’espressione «nomina sunt consequentia rerum» (si usava anche la variante nomina sunt substantia rerum), i nomi delle cose fanno riferimento alla loro sostanza. Va a questo proposito sottolineato che nel caso dei 20 miliardi quasi nessuno usa la parola nazionalizzazione, mentre tutti si rifugiano in termini più umili, quali ingresso dei soldi pubblici nel capitale, salvataggio delle ban-

te della repubblica Sergio Mattarella, il decreto salvabanche entra in Gazzetta Ufficiale a tempo di record. Soprattutto c’è la benedizione dell’Unione europea al meccanismo adottato dal Mef per non far pagare il costo dell’operazione ai clienti Mps di sportello. Lo schema è quello del doppio swap (scambio), grazie al quale gli obbligazionisti subordinati retail, cioè i clienti normali della banca, dovrebbero ottenere in cambio dei propri titoli delle obbligazioni senior, quelle sicure. A loro favore la presunzione di innocenza, l’inconsapevolezza di aver acquistato titoli a rischio. Non per caso, sul punto l’Unione europea avverte: le autorità italiane «devono intraprendere azioni concrete per rimuovere le cause prime del misselling (la vendita impropria di titoli ai risparmiatori), in modo da prevenire nuovi casi di condotte simili». Il peso del burden sharing, cioè della condivisione degli oneri provocata dalla ricapitalizzazione preventiva statale, ricadrà sugli investitori istituzionali - oltre che sulla collettività visti i 20 miliardi in più di debito pubblico - per i quali la presunzione di innocenza non può esistere. Le loro sub-obbligazioni saranno convertite in azioni, con un robusto abbattimento del loro valore. «Il meccanismo attivato dal governo utile a Monte dei Paschi - ricordava poi la notte scorsa il ministro dell’Econo-

Il meccanismo attivato dal governo utile a Monte dei Paschi è pensato anche per altre banche, vedremo se ci saranno altri istituti che lo richiederanno Pier Carlo Padoan

che in difficoltà, aumento di capitale precauzionale. Non si tratta di una scelta casuale di parole. Nella sostanza, si vuole sottolineare che l’intervento pubblico è un semplice accidente della storia, che nessuno voleva. E poi in giro ci sono orecchie sensibili, certi professori della Bocconi, poi gente come Verdini, il ministro dfel lavoro Giuliano Poletti, il ministro dello Sviluppo economico Calenda, che non bisogna far piangere usando appunto la parola nazionalizzazioni, che fa subito pensare ai gulag sovietici e alla Stasi; siamo in un libero mercato.  E, in effetti, nessuno di quelli al governo in questo momento sta pensando di usare l’occasione per un intervento di fondo nel mondo del credito, con una strategia attiva volta a cambiare musica e ad utiliz-

mia Pier Carlo Padoan in conferenza stampa - è pensato anche per altre banche, vedremo se ci saranno altri istituti che lo richiederanno». Succederà con il nuovo anno. Ma tanto è già bastato perché l’agenzia di rating Moody’s tirasse positivamente le somme, guardando all’intero comparto bancario italiano. L’agenzia ha segnalato che il decreto può avere un effetto positivo «per i detentori delle obbligazioni senior e i correntisti delle banche coinvolte». Inoltre «dovrebbe ridurre anche la probabilità di un contagio alle banche più forti in scia alla risoluzione di una banca debole». A differenza di quanto accaduto per Banca Etruria, Banca Marche &c., finite in fallimento, il Monte dei Paschi di Siena è ancora solvente, e l’intervento statale si è reso necessario perché la banca non aveva la possibilità di rispondere positivamente entro il 31 dicembre alle richieste di liquidità (i cinque miliardi della fallita ricapitalizzazione di mercato) fatte dalla Bce dopo gli stress test estivi. Non sono state invece inserite nel decreto le altre misure attese per il settore bancario. A partire dalla proroga di sei mesi del termine entro il quale le banche popolari più grandi hanno l’obbligo di trasformarsi in spa, termine peraltro congelato fino al 12 gennaio dal Consiglio di Stato. Ancora da definire inoltre alcune misure che non erano passate con la manovra di bilancio, come la possibilità anche per le Bcc di utilizzare le imposte differite (Dta). Via libera invece all’ammortamento in cinque anni delle risorse versate da Unicredit, Intesa San Paolo e Ubi al Fondo di risoluzione, che ha utilizzato 1,6 miliardi di euro per coprire i crack di Etruria & c.

zare le banche in cui si entra per aiutare a varare una nuova politica economica. Si pensi soltanto al tema della trasformazione in senso ecologico del nostro sistema industriale. Le banche, in Italia come in tutto l’Occidente, esitano a finanziare questo grande progetto.  E così è la Cina che da sola interviene con circa la metà del totale degli investimenti mondiali nel settore. Si tratterà alla fine dell’ennesima occasione persa e il governo, presumibilmente, cercherà di evitare al massimo un intervento attivo nel sistema, salvo che, ovviamente, al momento delle nomine dei vertici degli istituti; esse dovrebbero essere forse gestite, come al solito, dal fido Lotti. Sperando che nel frattempo egli non venga coinvolto in qualche procedimento.


inchiesta

sabato 24 dicembre 2016

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DOPOILTERREMOTO TRA RIETI E ASCOLI

A quattro mesi dal sisma inchiesteinaltomare

Mario Di Vito

Rieti

II Quattro mesi dopo la priNorcia, arrivano i container foto di Chiara Cruciati a destra casette in costruzione ad Amatrice foto LaPresse

ANorciaiprimi container,masolo perpochefamiglie Sono trentaquattro le persone trasferite ieri dalle tende ai moduli collettivi. Altri due blocchi (da 48 posti) in fase di ultimazione CHIARA CRUCIATI

Norcia

II Nella nuova area destina al

Coc di Norcia, il Centro operativo comunale, si festeggia: panettoni e spumante per celebrare il primo modulo abitativo collettivo consegnato ieri. Sono entrate 13 famiglie, 34 persone delle 3mila sfollate dopo il sisma di fine ottobre in Umbria. Poco più avanti, mentre le ruspe dell’esercito continuano a lavorare, due famiglie pranzano nella mensa collettiva del container fuori dalle mura antiche. Chiediamo di scambiare qualche parola, ma non c’è voglia di parlare, si limitano ad augurarci buone feste. In un angolo i volontari della Protezione Civile distribuiscono i pasti: «Questo modulo è stato consegnato questa mattina - ci spiega il volontario Pelagatti - Ogni famiglia ha una stanza, i bagni e la sala mensa sono in comune. Ora gestiamo noi la cucina, ma a breve sarà portata qui una struttura provvisoria e il comune preparerà pranzi e cene. Ancora niente casette». DUE MESI FA l’allora premier Matteo Renzi aveva fatto una proposta solenne: prima di Natale tutti fuori dalle tende. Per le casette, stimava il governo, ci sarebbe voluto più tempo, 6 o 7 mesi, ma i container sarebbe arrivati prima di Gesù Bambino. Così è, ma solo in parte: subito dopo la fortissima scossa del 30 ottobre, la Protezione Civile aveva censito quasi 5.300 sfollati nel versante umbro dell’Appennino. Dopo le

prime settimane di emergenza e paura, il numero si è attestato su 2.889. Di questi 1.600 sono ancora in hotel, mentre circa 1.200 sono state accolti nelle termostrutture. Duemila, ci spiegano al Coc, sono rimasti all’interno del comune di Norcia, chi nelle tende, chi in sistemazione autonoma. I PRIMI 34 sono entrati ieri nel primo container. Ne seguiranno subito altri due: le chiavi verranno distribuite dopo Santo Stefano. In tutto saranno 10 i moduli collettivi: 5 nella città di Norcia e 5 nelle frazioni di Ancarano, Frascaro, Popoli, San Pellegrino e Savelli. Ma i numeri sono ancora minimi, le promesse rispettate solo in parte. Al Coc si vuole comunque festeggiare il primo passo: «Il primo modulo collettivo è pronto. È uno spazio condiviso ma ogni famiglia ha la sua stanza - spiega Giuseppina Perla, assessore ai servizi sociali - Sono nuovi, confortevoli, caldi. Siamo riusciti a passare dalle tende al container, per noi è un

«È un disastro: con le chiese cadute, a Norcia non viene più nessuno. Io riapro comunque, anche se metà città non vive più qui» un negoziante

10 i Comuni umbri e marchigiani in cui verranno montati i container. Oltre a Norcia e Camerino, anche Tolentino, Amandola Petriolo...

momento importante soprattutto perché è arrivato prima di Natale». «Ieri abbiamo anche traslocato gli uffici del comune, dalle tende vicino a Porta Romana a questo nuovo spazio. Ma soprattutto si è iniziato a montare le casette per gli sfollati che non hanno potuto optare per l’autonoma sistemazione. Le prime 20 sono arrivate, ne seguiranno altre 60: si tratta di quelle che avevamo ordinato dopo il sisma del 24 agosto». CI SPOSTIAMO nel centro storico: l’unica via praticabile è da Porta Romana. Anche qui si è festeggiato due giorni fa per la riapertura di corso Sertorio, le luminarie natalizie e l’inaugurazione della scuola materna. Simboli di un nuovo inizio, l’emozione - raccontano - era palpabile. Ma il cuore della città è ancora devastato: la sola strada percorribile è quella che conduce alla piazza che ospita la basilica di San Benedetto. La facciata è stata imbracata giovedì, i vigili del fuoco stanno ultimando i lavori ma è tutto transennato e non si passa. Come non si entra nei vicoli che costeggiano il corso. «Giovedì hanno riaperto il centro storico e detto che i negozi avrebbero rialzato le sara-

cinesche. Ma è tutto chiuso di nuovo, serviva solo per i giornalisti. Qui è ancora tutto morto», commenta un passante. TROVIAMO UN NEGOZIO aperto, abbigliamento e stoffe. Il proprietario, il signor Di Filippo, sta rimettendo in ordine l’interno prima di poter ufficialmente ripartire: «Penso di tornare a lavorare a gennaio, devo riordinare tutto. So che qui in centro hanno riaperto un bar e una parrucchieria. La Protezione Civile fa molto, ma è un disastro: con le chiese cadute, a Norcia non viene più nessuno. Io riapro comunque, anche se metà città non vive più qui». IL CENTRO È QUASI DESERTO. Scoviamo la parrucchiera, ha ripreso a lavorare ieri dopo quasi due mesi di inattività, e - dice - stamattina ha avuto molti clienti, ci si prepara in vista del Natale. Porte aperte anche in un bar, un negozio di elettronica e una gioielleria. Ma le altre attività, quelle che rendono celebre Norcia e le sue frazioni, sono sbarrate: norcinerie, salumerie, negozi di prodotti tipici sono chiusi, le insegne piegate o cadute. «Dentro il centro storico si sta ora procedendo ai controlli a tappeto più approfonditi per verificare quali case sono agibili e quali necessitano di ristrutturazione - aggiunge l’assessore Perla - Per ora non ci vive ancora nessuno, ma qualche negozio sta riaprendo. Buona parte delle attività commerciali, però, sono delocalizzate nella zona industriale».

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ma scossa, la procura di Rieti è ormai arrivata al crocevia della sua inchiesta, aperta per il reato di disastro colposo. Il procuratore capo Giuseppe Saieva, all’inizio del mese, aveva fatto sapere che entro la fine dell’anno sarebbe arrivato ad «aver raccolto abbastanza elementi da ipotizzare responsabilità costruttive ed esecutive». Il focus è sul versante laziale, che in un colpo solo ha visto sbriciolarsi Amatrice e Accumoli, oltre a svariate frazioni. Ma se per Amatrice l’indagine si annuncia ancora lunga e complessa, per Accumoli tutta l’attenzione è focalizzata sul campanile della chiesa del paese, oggetto di lavori di restauro pagati dalla Diocesi a partire dal 2004. Quando la struttura venne giù, la notte del 24 agosto, schiacciò l’intera famiglia Tucci, provocando la morte di papà, mamma e due figli piccoli. Questa parte dell’inchiesta è curata dal sostituto Lorenzo Francia, che starebbe vagliando con attenzione la posizione dei tecnici chiamati dalla curia reatina per seguire gli interventi. L’appalto se lo aggiudicò a 59mila euro (con un ribasso del 16%) la ditta Steta. Per il miglioramento sismico la cifra dedicata fu di appena 509 euro, il progettoprevedeva soltanto di inserirenella muratura sbarre diferro dal valore di 33 euro e di fare alcuni fori da riempire con il cemento ma non con la calce. Troppo poco per reggere l’urto di una scossa forte di terremoto. Per quello che riguarda Amatrice, invece, l’attenzio-

Vicine a una svolta solo le indagini sul crollo del campanile di Accumoli ne degli investigatori riguarda soprattutto le due palazzine Ater (ex Iacp) che quando sono venute giù hanno causato venti vittime. Qui i tecnici hanno rilevato la presenza di colonnine di cemento spesse appena 15 centimetri con dentro ferri lisci: va detto, però, che ai tempi della loro costruzione, negli anni ’70, si costruiva soprattutto in questo modo, anche perché gli standard antisismici erano di gran lunga inferiori rispetto a quelli odierni. Un’altra questione al vaglio degli inquirenti riguarda la scuola Capranica, crollata pure questa ma senza provocare morti. Qui la procura di Rieti ha rilevato la presenza di problemi di natura tecnica e contabile, legati all’utilizzo dei fondi per il rifacimento di due ali separate della struttura che ospitavano la mensa e la palestra. L’ultimo punto è l'Hotel Roma, sul quale pendeva un contenzioso civile tra la proprietà e il vicinato per alcuni lavori. Gli altri fronti giudiziari aperti sono nelle Marche: la procura di Ascoli continua a tenere aperto un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati, focalizzandosi soprattutto sui danni subiti dagli edifici pubblici, a partire dall’ospedale di Amandola (Fermo), fortemente danneggiato nella sua parte di più recente costruzione. A Macerata, invece, l’inchiesta procede nel tentativo di capire se i lavori fatti dopo il terremoto del 1997 fossero adeguati o meno. Il caso emblematico è quello della chiesa di Santa Maria in Via a Camerino, oggetto di un lavoro di restauro durato oltre dieci anni. Il faldone su questo edificio sta diventando enorme e raccoglie, tra le altre cose, decine di segnalazioni fatte dai cittadini e verbali stilati nel tempo dai carabinieri e dalla guardia di finanza del posto. I sopralluoghi proseguono sotto la supervisione di due docenti universitari chiamati a verificare la documentazione relativa ai lavori e lo stato degli stessi. La procura, ad ogni buon conto, predica prudenza: ci vorrà tempo per formulare un’ipotesi di reato.


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VENEZUELA Nataleditensione: azzardi,boicottaggi e lotti di case popolari A Ciudad Caribia, la cittadella autogestita creata da Chavez, Maduro ha consegnato l’abitazione ammobiliata n. 1.300.000 GERALDINA COLOTTI

II Crisi umanitaria, stato falli-

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to, code bibliche davanti ai supermercati... Sono questi i titoli delle notizie provenienti dal Venezuela. Qualche volta, filtra un trafiletto su un argomento che nel nord del mondo - dove i diritti economici sono sempre più una chimera diventerebbe una notizia da «uomo morde cane»: «Nicolas Maduro aumenta salari e pensioni», oppure «il presidente occupa la fabbrica chiusa insieme agli operai», e poi «aumentate le borse di studio anche per gli studenti all’estero», e ancora «il governo destina oltre il 70% degli introiti ai piani sociali». IN QUESTI GIORNI, il presidente ha consegnato la casa popolare n. 1.300.000, ammobiliata e

gratuita per i redditi bassi, a Ciudad Caribia, la cittadella autogestita creata da Chavez: nell’ambito della Gran mision vivienda Venezuela (Gmv). Un programma che ha preso avvio del 2011 e che si propone di arrivare a tre milioni di alloggi popolari entro il 2019. Nel 2016, nonostante la drastica caduta del prezzo del petrolio, su 303.997 abitazioni, lo Stato e le comunità organizzate ne hanno costruite 285.518, il settore privato 18.477. Come può uno «stato in bancarotta» realizzare tutto questo? Perché una «cricca totalitaria abbarbicata al potere» dovrebbe decidere di non far pagare ai più deboli i costi della crisi, affrontando la guerra con i grandi decisori internazionali? L’«ESPERIMENTO bolivariano» non è un orologio svizzero né

un concerto di voci bianche, né le riforme strutturali fin qui compiute sono apparentabili alla Russia di Lenin: e infatti, la parte più a sinistra del chavismo propone di non pagare più il debito estero e di andare più a fondo espropriando le banche... I problemi ci sono, eccome. Ma anche così, basta comparare qualche dato con uno dei paesi vicini, la Colombia del presidente neoliberista Manuel Santos, insignito del premio Nobel per la pace, per rendersi conto che a tornare alle ricette di prima si starebbe ben peggio. Il Venezuela conta 29 milioni di abitanti, la Colombia ne 47 milioni. Secondo l’Unesco, in Venezuela l’83% dei giovani va all’università (gratuitamente e con l’ipad), e le università pubbliche sono 43, mentre in Colombia la per-

Maduro consegna la casa popolare n. 1.300.000 foto La Presse

centuale è del 32% e le università sono 32. Per la Fao, che ha dedicato il programma mondiale contro la fame a Hugo Chavez, i malnutriti in Venezuela sono il 5%, in Colombia il 15%. E NESSUNO ha parlato della tragedia umanitaria che vivono i nativi wayuu nella Guajira colombiana, dove nel 2016 sono già 89 i bambini morti per denutrizione, il 55% della popolazione vive in povertà estrema e il 40% non ha accesso al cibo. E si potrebbe continuare con le pensioni (20% in Colombia, 73% in Venezuela) o con l’acqua potabile (il deficit è del 5,3% in Venezuela, ma del 28% in Colombia, dove interi muni-

cipi ne sono sprovvisti). L’insicurezza? I diritti umani? Si dà per inteso che «Caracas sia la città più violenta al mondo», senza parlare dell’Honduras, del Messico (che quest’anno ha fatto registrare la cifra record di 20.800 morti), ma anche della Colombia, dove si trovano 5 delle 100 città più violente al mondo, dove i leader sociali fanno costantemente da bersaglio: il paese dei «falsi positivi», di 6 milioni di sfollati e di 920.000 scomparsi... «SE VA BENE al Venezuela, va bene anche alla Colombia, perché qui vivono 5.600.000 colombiani che studiano, lavorano e vivono con noi», ha detto

Maduro spiegando i passi diplomatici compiuti con Santos per ridurre il traffico illegale col paese vicino. Una piaga evidenziata anche dalla decisione di ritirare dalla circolazione le banconote da 100 bolivar presa all’improvviso da Maduro. È risultato che oltre 2.000 milioni di biglietti, ossia il 14% del denaro dei venezuelani si trovava a Bogotà. Dalla metà del 2015, la scarsità di effettivo, soprattutto delle banconote da 100 bolivar si è fatta sempre più evidente, provocando le famose code. Al contempo, è proliferato sempre più il mercato nero, dove l’effettivo si paga al di sopra del suo valore in forza del cambio gonfiato arbitrariamente dal sito Dolartoday. OLTREFRONTIERA, funziona così: un tizio va in un ufficio di cambio a Cucuta e cambia 100 bolivar per l’equivalente di 110 pesos colombiani. Da lì il denaro va alla Banca della Repubblica di Colombia (Bcr), dove in forza di un decreto speciale, viene cambiato (attualmente) a 29.646 pesos, per un equivalente di 10 dollari. Poi, il tizio torna alla frontiera e cambia i 10 dollari con i bolivar: questa volta, però, al mercato illegale, che dà oltre 2.500 bolivar per un dollaro. Un mercato che, se le disposizioni speciali, in Colombia, non cambiano, potrebbe continuare anche con l’introduzione di banconote venezuelane di più grosso taglio, che stanno arrivando nel paese.

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MEDIOORIENTEINGUERRA L’Onu: «Illegali le colonie d’Israele» GliUsasiastengono Rabbiosa reazione di Tel Aviv contro Obama: «Iniziativa spregevole ordita insieme ai palestinesi». Trump schierato con Netanyahu MICHELE GIORGIO

II Grazie a una astensione, senza alcun dubbio storica, degli Stati Uniti, ieri sera il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha approvato una risoluzione di aperta condanna degli insediamenti coloniali israeliani costruiti contro il diritto internazionale nei Territori palestinesi occupati. Le colonie - si legge nel testo - «non hanno validità legale». È il colpo di coda di Barack Obama che Benyamin Netanyahu temeva e che ha cercato in tutti i modi di impedire. «Gli Stati Uniti non possono appoggiare gli insediamenti coloniali e la soluzione dei Due Stati nello stesso tempo, ha spiegato la decisione di astenersi l'ambasciatrice americana all'Onu», Samantha Power. RABBIOSA LA REAZIONE di Israele. «Né il Consiglio di sicurezza dell'Onu né l'Unesco possono spezzare il legame fra il popolo di Israele e la terra di Israele», ha urlato l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon sorvolando il "dettaglio" che i Territori palestinesi occupati non sono parte di Israele. Dopo aver sistematicamente bloccato all'Onu per otto anni ogni risoluzione di condanna dello Stato ebraico, Barack Obama ha inflitto un duro colpo a Netanyahu. Si è vendicato degli attacchi israeliani subiti per anni. Netanyahu inoltre non aveva esitato, nel marzo 2015, ad umiliarlo di fronte al Congresso Usa parlando contro l'accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dalla Casa Bianca. È FINITA A STRACCI in faccia. Netanyahu, ingrato, dimenticando il recente via libera della Casa Bianca a un piano di aiuti militari a Israele per 40 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, in anticipo sul voto di ieri sera, usando un funzionario governativo aveva accusato Obama e il segretario di stato John Kerry di aver messo in atto una «spregevole mossa contro Israele alle Nazioni Unite». Il presidente americano uscente, aveva aggiunto il funziona-

Gli Stati Uniti non possono appoggiare gli insediamenti coloniali e la soluzione dei Due Stati nello stesso tempo l'ambasciatrice all’Onu Samantha Power

A sostegno di Tel Aviv è intervenuto il neo eletto presidente americano con una telefonata al Cairo riportando all’ordine Al Sisi che ha ritirato la sua risoluzione rio, ha coordinato le mosse all'Onu con i palestinesi per riaffermare lo status di città occupata di Gerusalemme e della sua zona araba: «L'amministrazione Usa ha segretamente confezionato con i palestinesi, alle spalle di Israele, una risoluzione estrema che avrebbe dato il vento in poppa al terrorismo e al boicottaggio e che avrebbe fatto del Muro del Pianto territorio palestinese occupato». Obama, ha ag-

giunto, «avrebbe dovuto subito dichiarare la sua volontà di mettere il veto su questa risoluzione, invece l'ha sostenuta. Questo è un abbandono che rompe decenni di politica americana a protezione di Israele all'Onu e mina le prospettive di lavorare con la prossima Amministrazione nel far avanzare la pace». INVECE IL GOVERNO Netanyahu lavorerà molto bene e in piena sintonia con la prossima Amministrazione americana. L'ha detto subito l'ambasciatore Danon: «Non ho dubbi sul fatto che la nuova amministrazione americana e il nuovo segretario generale dell'Onu apriranno una nuova era in termini di relazioni dell'Onu con Israele». D'altronde gli sviluppi di giovedì notte, prima dell'approvazione ieri sera della risoluzione, lo dicono con estrema chiarezza. Netanyahu infatti era riuscito a bloccare il voto e a frenare l'Amministrazione Obama. Prima ha bombardato di telefonate gli egizia-

Betlemme, protesta palestinese contro le forze d’occupazione israeliana foto Reuters

ni, promotori del progetto di risoluzione, poi ha messo in moto gli "amici" alle Nazioni Unite. Determinante è stato anche il presidente eletto Usa Donald Trump che è intervenuto in ogni modo, anche via twitter, per far congelare il voto. Il Cairo giovedì aveva ceduto, subito. Trump, in una conversazione telefonica con il leader egiziano Abdel Fattah al Sisi, aveva messo le cose in chiaro: al comando presto ci sarò io, l'Egitto riceve sostanziosi aiuti americani, Israele e le sue politiche non si toccano. Al Sisi - che non ha mai digerito la politica di Obama in Medio Oriente, troppo morbi-

da, a suo dire, con i Fratelli musulmani, e il mese scorso aveva applaudito alla vittoria di Trump – ieri ha spiegato di aver concordato il presidente eletto «che alla nuova amministrazione Usa deve essere data la possibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese». ALLO STESSO TEMPO era scesa in campo la squadra di Trump per ricordare ad Obama che il suo mandato è agli sgoccioli e che non può fare un passo tanto importante in politica estera aggirando l'Amministrazione che entrerà in carica dopo il 20 gennaio. «La decisione del Cairo di ritirare la risoluzione rappresenta il primo concreto

atto della cooperazione tra Trump e Netanyahu», ha commentato la tv israeliana Canale 2. Obama però non ha resistito al desiderio di mettere in atto la sua vendetta e ieri ha scagliato il suo colpo. TROPPO TARDI PERÒ. Questa vendetta non basta a cancellare le ombre, gigantesche, sulla sua presidenza. Pesano le mancate promesse fatte nel 2009 quando aveva parlato di una svolta nella politica mediorientale degli Usa, specie nei riguardi dei palestinesi senza Stato. Svolta che non è mai avvenuta, l'occupazione israeliana non è mai terminata. E con Trump può solo consolidarsi.

LIBIA, OSTAGGI LIBERATI

DirottatosuMaltaaereolibicodaduepresunti«pro-Gheddafi» EMMA MANCINI

II Alla fine si sono arresi. I

due dirottatori del volo della Afriqiyah Airways, partito dall’aeroporto libico di Sabha ieri mattina, hanno abbandonato la bomba a mano e la pistola (probabilmente finte) di cui erano armati all’aeroporto de La Valletta, a Malta, dove l’Airbus era stato fatto atterrare. A bordo 118 persone, lasciate andare dopo qualche ora di trattative. Di dettagli ancora non se ne hanno, soprattutto in merito al movente del dirottamento. Pare che i due uomini, arrestati dalle autorità maltesi, siano sostenitori del leader libico deposto e ucciso nel 2011, il colonnello Gheddafi. Ma non è chiaro se si sia trattato di un gesto politico individuale (spiegato dalla presunta richiesta di asilo) o di un’azione organizzata da gruppi che sostengono il clan Gheddafi. Ma, diceva ieri il premier maltese Muscat, nessuno dei due ha mosso richieste specifiche e le armi che portavano sarebbero finte. Una foto scattata all’aeroporto di Malta mostra uno dei due sventolare una bandiera verde, simbolo della Jamahiriya, la repubblica socialista e araba fondata dal colonnello. Tanto che il ministro degli Esteri del governo di unità nazionale libico, Taher Siala, li ha indicati come mem-

bri di un partito pro-Gheddafi e – riportava una tv libica – avrebbero detto di aver preso l’iniziativa «per promuovere la nuova fazione». Secondo alcuni media maltesi, si tratterebbe di un piccolo partito, Al Fatah Al Gadida, aggiungendo poi che i dirottatori avrebbero chiesto la liberazione del figlio del colonnello, Saif al-Islam, che però prigioniero non è lo più, o almeno lo è solo ufficialmente. Il secondogenito dell’ex dittatore, suo delfino prima del crollo del paese e dalla comunità internazionale considerato il volto del riformismo libico, era stato cat-

turato nel 2011 mentre fuggiva nel vicino Niger. Fatto prigioniero dalle brigate Zintan, provenienti dall’omonima zona della Libia occidentale, era stato condannato a morte in contumacia un anno e mezzo fa dall’allora governo islamista di Tripoli. Ma da tempo il suo è un arresto “dorato”, domiciliari che però somigliano di più ad una protezione che ad una detenzione. Da fonti locali, dietro la sua mezza liberazione c’è il generale Haftar, capo militare del governo ribelle di Tobruk che mai ha riconosciuto come legittimo l’esecutivo di unità na-

La Valletta, l’aereo dirottato e le forze speciali maltesi foto Reuters

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zionale guidato dal premier al-Sarraj e voluto dalle Nazioni Unite. Haftar, dicono, avrebbe aperto al simbolo dell’ex regime per creare un fronte contro il governo di unità, incapace di porsi alla guida dell’intero paese. Che rimane spaccato in decine di autorità rivali, milizie armate e tribù le cui fedeltà variano di di città in città. Lo stesso dirottamento di ieri, atto organizzato o individuale che sia, gesto di due disperati come sembra o meno, è lo specchio del caos libico. L’aeroporto di Sabha (che serve la capitale dopo che quello internazionale di Tripoli è stato dato alle fiamme nel 2014 durante scontri tra milizie) non è sotto il totale controllo del governo di unità, ma è “gestito” da vari gruppi armati con fedeltà diverse. Ma è passato un anno esatto dalla nascita del nuovo esecutivo e poco è cambiato: Tobruk non intende piegarsi ad al-Sarraj e, Haftar in testa, ha in mano la Cirenaica e i porti petroliferi lungo la costa, mentre gruppi islamisti mobilitano cellule sparse in tutto il territorio, dal confine sud nel deserto – dove Isis e al Qaeda gestiscono traffici di armi e uomini – fino alla costa di Derna e Sirte. Proprio tre giorni fa gli Stati Uniti hanno ufficialmente chiuso l’intervento militare lanciato il primo agosto per

Un gesto rivelatore I dirottatori, secondo le autorità di Malta, avevano armi finte. Non chiara la volontà a loro attribuita di volere la «liberazione» di Seif al-Islam il figlio di Gheddafi, di fatto libero perché nelle mani delle milizie di Zintan anti-Sarraji. Il gesto svela comunque il vuoto istituzionale nel quale è crollato il Paese dopo l’intervento Nato

cacciare da Sirte lo Stato Islamico che la occupava da mesi: nonostante 500 raid aerei, solo due settimane fa è stata annunciata la definitiva liberazione della città. Ma su che fine abbiano fatto i miliziani che stavano dentro non si hanno informazioni certe. La Libia è il volto delle contraddizioni degli interessi occidentali nel mondo arabo, trascinata in un drammatico vacuum istituzionale dall’intervento Nato a cui è seguito un flusso senza precedenti di milizie islamiste e l’esplosione di settarismi politici e tribali, sempre tenuti a bada da Gheddafi e la sua rete di alleanze.


culture

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sabato 24 dicembre 2016

CODICIAPERTI Il fondatore del social network si pente e annuncia drastici rimedi contro le bufale nel web

Campagne basate su falsità o strampalate teorie del complotto. Il clima avvelenato dell’era Trump

Un’opera di Jaume Plensa

Benvenutineldesertodellapostinformazione In un video aziendale di Facebook, Mark Zuckerberg denuncia il dilagare della post-verità nella Rete LUCA CELADA

II «Il 2016 è stato un anno storico e turbolento», sostiene con marcato senso eufemistico Mark Zuckerberg in un messaggio video di fine anno registrato dal fondatore di Facebook assieme all’amministratrice Sheryl Sandberg, parte di una serie occasionale di «one-on-ones» in cui i due dirigenti discutono di temi «social». Questo particolare «tête-à-tête» ha avuto una eco negli Stati Uniti e in Europa per la valutazione con la quale Zuckerberg ha definito Facebook un nuovo tipo di mass media. «Facebook non è un tecnologia tradizionale», ha detto il 31enne fondatore del social network che raggiunge di gran lunga più utenti di qualunque radio, televisione o giornale della storia. «Non si tratta di una tradizionale media company. Noi progettiamo una piattaforma tecnologica e ci sentiamo responsabili per come viene utilizzata». SI TRATTA DI UNA SOSTANZIALE

modifica della linea ufficiale dell’azienda di Menlo Park che ad oggi ha tenuto a definirsi piattaforma tecnologica «neutrale» senza partecipazione attiva nel contenuto immesso dagli utenti. «Non scriviamo le notizie che la gente legge sulla piattaforma - ha sostenuto Zuckerberg -, ma allo stesso tempo sappiamo di essere molto più che semplici distributori. Siamo parte integrante del discorso pubblico». L’acquisizione di una improvvisa consapevolezza editoriale segna una netta svolta

per il social network. Facebook utilizzato da 1,8 miliardi di utenti, recentemente è stato ripetutamente chiamato in causa per il ruolo nella diffusione di notizie inattendibili, la marea montante di voci ed illazioni che ha contribuito sensibilmente ad alcuni dei fenomeni «storici» evocati a Zuckerberg, a partire dal voto inglese sulla Brexit per arrivare all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Per far fronte al proliferare di notizie imprecise o strumentali nella sezione «trending» l’azienda ha di recente sostituito lo staff

World Wide Web

Offuscati dalla cyberutopia Evgeny Morozov

L’idea che internet favorisca gli oppressi anziché gli oppressori è viziata da quello che chiamo cyber-utopismo, ovvero la fiducia ingenua nel potenziale liberatorio della comunicazione online.... Proviene cioè dal fervore digitale degli anni Novanta, quando gli hippie di una volta, ora sistemati nelle migliori università, hanno messo in piedi un delirio di argomentazioni per dimostrare che Internet avrebbe potuto fare ciò che gli anni Sessanta non erano riusciti a fare: aumentare la partecipazione democratica.

editoriale con un algoritmo . Ma «l’automazione» della verità da parte dei programmatori è risultata altrettanto insoddisfacente. La scorsa settimana Zuckerberg ha annunciato l’accordo con una serie di partner giornalistici, fra cui la Abc News e la Associated Press alle quali appalterà le analisi di attendibilità. I TENTATIVI DI MEDIAZIONE «editoriale», oltre che l’inadeguatezza al ruolo dei programmatori di Silicon Valley, sottolineano la problematica attualmente legata ai social network. Mai come quest’anno è infatti stata esplicitata l’infuenza delle piattaforme come fonti di informazione. L’elezione di Donald Trump (lui stesso inveterato twittatore), resa possibile in gran parte proprio da una campagna imbastita sul sistematico offuscamento demagogico tramite internet, ha messo al centro dell’attenzione il flagello delle fake news e le devastanti ripercussioni delle bufale virali emerse come più insidiose eredi della propaganda e fondamentali strumenti di persuasione populista. Paradigmatiche sono ad esempio le attuali diatribe in Rete sull’assedio di Aleppo. Una tragedia efficacemente offuscata dalle infinite polemiche fra post virali che perorano, in termini propagandistici, le cause delle parti in guerra. Il popolo di Facebook è stato così sommerso dalle mille sterili polemiche a base di «like» e controlike, mentre i belliggeranti hanno potuto perseguire indisturbati (e rigo-

La dittatura del digitale Un giornalista e uno scrittore-sceneggiattore insieme per raccontare il lato oscuro del «digitale». Sono Cristophe Labbé e Marc Duguain e lo fanno in un libro da poco pubblicato da Enrico Damiani Editore dal titolo «L’uomo nudo». I due atuori passano in rassegna i processi produttivi della comunicazione on line, soffermandosi sul ruolo sempre più rilevante dei Big Data in quella che chiamano «la dittatura invisibile del digitale».

rosamente al riparo da occhi giornalistici) i propri sanguinari fini. Il turbine di «notizie» virali senza possibilità di verifica costituiscono l’orwelliano ecosistema post-giornalistico: una utile cortina fumogena per gli interessi economici, finanziari, geopolitici in campo. Il «turbolento» 2016 di Zuckerberg ha insomma esplicitato come non mai gli effetti potenzialmente devastatanti della «postinformazione» veicolata proprio dai social network. LA RAPPRESENTAZIONE forse più agghiacciante a questo riguardo si è avuta il mese scorso con l’episodio pizzagate, quando un uomo armato ha fatto irruzione in una pizzeria di Washington minacciando personale e avventori. Il negozio era stato oggetto di una campagna social che aveva in-

sinuato che fosse la centrale clandestina di un giro di pedofili gestito nientemeno che da Hillary Clinton e dal direttore della sua campagna elettorale, John Podesta. La bufala diffusa ad arte era stata potenziata da migliaia di «ri-post» fin quando un complottista lievemente più squlibrato aveva imbracciato un fucile minacciando la strage. Simili campagne calunniose stanno diventando una norma in Usa dove una costellazione di siti legati alla «Alt Right» usano simili arbitrarie accuse per aizzare l’odio complottista. DI QUESTA SETTIMANA è invece la notizia di una famiglia ebrea in fuga dalla propria casa in Pennsylvania dopo che una campagna virale l’aveva tacciata di aver ottenuto la cancellazione della rappresentazione natalizia alla locale scuola media del «Cantico di Natale» di Dickens (la guerra contro il Natale è meme favorito di Donald Trump). La bufala paranoica, ormai è evidente, è sempre più precorritrice di una diffuso «anafabetismo dell’informazione» che rende plausibile ogni stravagante accusa proviente da un post scritto da un mitomane online. O da qualcuno vicino a un neoeletto presidente degli Stati Uniti. Lo pseudogiornalismo viene cioè impiegato sempre più come arma contundente di un dilagante neomaccartismo per invalidare fondamentali meccanismi democratici e rimanda necessariamente alle responsabilità ora riconosciute anche da Zuckerberg. Ma permane un fondamentale

equivoco: i social network ambiscono ad essere nuove agorà ma si tratta pur sempre di monopoli privati a scopo di lucro che commercializzano un unico prodotto: gli utenti. MALGRADO LA NARRAZIONE ormai anacronistica di internet cone inarrestabile democratizzatore «orizzontale» della comunicazione, le piattaforme in rete rappresentano dunque un mastodontico trasferimento di strumenti di dialogo e «informazione» dalla sfera pubblica e politica a quella commerciale, al riparo da molta regolamentazione pubblica e quindi tantopiù suscettibili di strumentale manipolazione. Nessuno con la possibile eccezione di Wladimir Putin (o Beppe Grillo), ha dimostrato di afferrare il concetto meglio di Trump, che ha come prima cosa nominanto Steve Bannon, operatore del massimo portale di bufale complottiste («Breitbart News»), a super-ministro della disinformazione e braccio destro nella Casa Bianca. E il «summit digitale» al quale Trump ha recentemente convocato i massimi dirigenti dei social network, subito accorsi al tavolo del nuovo inquilino della Casa Bianca, ha esposto la natura essenzialmente mercenaria del complesso tecno-info-industriale. Il video dei due amabili impresari digitali che discettano disinvoltamente del futuro dell’informazione come di una strategia di new economy, ha trasmesso un affascinante ed inquietante – scorcio dei nuovi poteri decisionali delle nostre vite.


culture

sabato 24 dicembre 2016

Taccuini sulla Siria in mostra a Venezia

MATTEO MIAVALDI

II Ne Il multiculturalismo e i suoi

critici (Nessun Dogma, pp. 94 p., 8,50 euro) lo scrittore e conduttore radiofonico britannico di origini indiane Kenan Malik affronta a viso aperto probabilmente «il tema» della sociologia contemporanea: come far fronte alle sfide di una società multietnica e multiculturale che, tra reflussi identitari neonazisti e criticità estremiste, si sta facendo largo nello spazio pubblico del Vecchio continente. La buona notizia è che il saggio di Malik non contiene la ricetta per la panacea dei mali della modernità, preferendo alla presunzione dell’«ora ve lo spiego io» l’umiltà della messa in discussione di ogni preconcetto sul tema, anche quelli apparentemente insospettabili. L’OGGETTO DELL’ANALISI è il concetto stesso di multiculturalismo, affrontato nei primi capitoli col rigore millimetrico dell’accademico che, in un preambolo fondamentale per seguire il resto del saggio, cerca di fissare un significato neutrale e condiviso del termine stesso rifacendosi alle tenzoni filosofiche degli ultimi tre secoli. Lo fa spaziando dall’illuminismo ateo fino al romanticismo più «orientalista», facendo emergere le incrinature del pensiero che hanno dato vita alle due correnti antitetiche dei giorni nostri: quelli dello «scontro di civiltà» e quelli dell’«accoglienza e difesa delle peculiarità culturali». La critica dei primi, che in Italia trovarono nell’ultima Oriana Fallaci il proprio portavoce più scellerato, si aggiunge agli sforzi di tutti quegli intellettuali progressisti contemporanei impegnati nel contrastare il ripiegamento identitario di una società stretta tra la «paura dell’altro» e una crisi socioeconomica dalla quale si fatica a intravedere una via d’uscita. Nulla di rivoluzionario, ma apprezzato promemoria. Ma è la critica dei secondi che fa di questo saggio una lettura imprescindibile per chi ha a cuore il futuro dell’Europa, spingendosi in un’analisi impietosa di tutti gli errori madornali commessi in un passato recentissimo da chi, in ottima fede, ha provato a tutelare e difendere chi ha deciso di migrare in Europa. Un eccesso di zelo mal calibrato che, rileva Malik, ha dato vita a delle difese d’ufficio francamente imbarazzanti, come nel caso delle vignette blasfeme in Danimarca qualche anno fa. Malik, dopo aver ripercorso la cronologia degli eventi ed evidenziato come «il caso» sia stato fatto esplodere dai media e non, come vorrebbe la vulgata comu-

L'Università Iuav di Venezia ha organizzato diverse iniziative sulla Siria. C’è stato l'«Omaggio di Venezia a Palmira», dedicato all’archeologo Khaled Al Asaad; il convegno «Urbicide Syria. Postwar reconstruction»; la stesura della «Carta di Venezia della ricostruzione»; l’accordo firmato con Un–Escwa, l’Agenzia Onu che ha l’incarico di realizzare l’Agenda per la ricostruzione della Siria. Proprio a seguito di quell’accordo è nato il progetto «Sketch for Syria». Lo Iuav ha distribuito ad architetti di tutto il pianete taccuini da disegno dove immaginare possibili scenari per la ricostruzione. Dei 132 taccuini ritornati, 52 sono di architetti siriani a Damasco, Aleppo, Hama, Latakia e Tartus. Ora i taccunini saranno esposti nella mostra «Sketch for Syria», che sarà inaugurata il 17 gennaio 2017 all’Università Iuav di Venezia, sede dei Tolentini. Un'opera di Aida Muluneh

Cassettedegliattrezzi percomprendere ilmutaredelmondo «Il multiculturalismo e i suoi critici», dello scrittore di origini indiane Kenan Malik, per Nessun Dogma ne, da folle di musulmani indignati, racconta: «il parlamentare danese Naser Khader, che è musulmano sebbene non osservante, racconta di una conversazione avuta con Toger Seidenfaden, direttore di Politiken, un giornale di sinistra molto critico verso le vignette. "Mi disse che le vignette offendevano tutti i musulmani", ricorda Khader, "gli dissi che non ero offeso. Lui rispose: ‘Ma lei non è un vero musulmano’". Agli occhi dei progressisti, in altre parole, essere un vero musulmano significa trovare le vignette offensive». GLI INCASELLAMENTI automatici di comunità eterogenee secondo convenzioni unilaterali – pakistani=musulmani osservanti, ad esempio – hanno con-

tribuito a fare il gioco delle destre, combattendo su un terreno scivoloso come quello della «civiltà» tra chi vuole difendere la propria e chi vuole tutelare quella altrui. Senza notare che «civiltà» e «cultura» sono concetti liquidi, che si modellano in base alle esperienze di vita vissuta, e che variano di generazione in generazione. Nei casi di Regno Unito e in Germania, infatti, «negli anni Sessanta e Settanta gli immigrati mu-

Un concetto che si stratifica attraverso tre secoli di pensiero filosofico

sulmani non smaniavano per manifestare le loro differenze ma, piuttosto, esigevano di non essere trattati in maniera differente. Solo successivamente i musulmani, a partire da una generazione che ironicamente era molto più integrata di quella dei genitori, hanno iniziato ad affermare la propria peculiarità culturale. Questo è il paradosso dell’immigrazione e dell’integrazione con cui pochi intellettuali o politici sono disposti a confrontarsi o anche solo ad ammettere». Un paradosso figlio, anche, di politiche per l’integrazione raffazzonate, stilate su preconcetti culturali in cui le comunità in arrivo vengono appiattite su caratteristiche fenotipiche appiccicate in fretta e furia dai

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legislatori su gruppi di persone che, spesso, hanno in comune solo la nazionalità sul passaporto. Al posto di una strategia per l’integrazione omnicomprensiva, i legislatori hanno preferito muoversi su linee di demarcazione etniche, creando di conseguenza conflitti tra le diverse comunità per le risorse da allocare, poiché «le persone si mobilitano in base a come gli sembra di poter ottenere risorse per affrontare questioni che ritengono importanti». SECONDO MALIK, quindi, la sfida del multiculturalismo può essere vinta solo respingendo la paura in entrambe le sue manifestazioni uguali e contrarie: quella dell’«altro» e quella che impone di «monitorare la diversità per minimizzare gli scontri, i conflitti e le frizioni che porta subito dopo, che tutto debba essere graziosamente incasellato in nicchie di culture, etnie e fedi, che il disordine sia ripulito e ordinato». Considerando il disordine come «materia prima dell’attivismo» e «base concreta per il rinnovamento sociale», Malik ci esorta a spogliarci dei preconcetti multiculturalistici all’apparenza più virtuosi e ad affrontare i cambiamenti inevitabili in corso nella nostra società – nostra di «tutti» - mettendo in discussione in primis la nostra presunzione, mal riposta, di essere dalla parte giusta della barricata.

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«AMICHE DI PENNA»

Quellelettere traAnnaKarénina edEmmaBovary ALESSANDRA PIGLIARU

II «Ora che sono tornata a Pietroburgo, mi rendo conto sempre più di come sia difficilecrearsi una vita nuova in quei luoghi dove abbiamo già lasciato un’impronta,quell’improntacheciimpedisce di diventare ciò che vorremmo essere». Parola di Anna Karénina che, in preda alle sue angosce amorose, parla dei suoi smarrimenti con Emma Bovary. Leduefamoseemoltoamatepersonaggeletterarie, natedalgenio rispettivamente di Gustave FlauberteLevTolstoj,diventanoinfatti protagoniste dell’originale romanzo epistolare firmato da Marosella Di Francia e Daniela Mastrocinque,Amichedi penna (Mondadori, pp. 193, euro 18,50). È Anna Karénina che scrive per prima, durante il suo viaggio in Italia con Vronskij. Una piccola missiva in un foglietto giallo tenue, con il sigillo di ceralacca già rotto, a cui Emma Bovary ritorna in un pomeriggio assolato e umido. L’esperimento ha inizio e la comunicazione tra loro dura circa un paio di anni. Il progetto a due, in cui la sponda è anzitutto tra Mastrocinque e Di Francia, ha al centro ilracconto diun’amiciziaimpossibile ma affascinante tra due delle figure letterarie più attraenti di sempre. Creature molto diverse, Anna appartenente all’altasocietàrussa edEmma alla provincia francese, che tuttavia sono accomunate da grande passionee ardimento. Soprattutto sono capaci di diventare - passando dalla penna maschile dei loro primi creatori a quella femminile delle seconde inventrici vicine, solidali, ferme nel consiglio reciproco e apprensive verso la sorte l’una dell’altra. Nellento dipanarsi delle lettere, si aprono in autenticità, come si farebbe tra amiche nella quotidianità; si dicono delle proprie sventure scampate, dei propri amori rifiutati o impossibili, deisussulti ancheletterari,insieme allo scacco che spesso l’esistenza pone dinanzi agli occhi. Ma la scommessa di Mastrocinque e Di Francia non si ferma qui, spinge sul confronto anche intorno ad altri libri e ulteriori storie. E in questo corpo a corpo che diventa un gioco del possibile a venire, si congiungono mondi esplorati che, grazie alla parola letteraria, fanno acquisire alle personagge e ai personaggi una propria autonomia di enunciazione. Per dire che non è tutto già visto e detto, bensì da contaminare ancora e ancora.


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visioni

sabato 24 dicembre 2016

MANDALADINATALE Emenomalechec’è lamamma.Eilpaté ditonnodellazia Affanni festivi e di fine anno. Tra il lusso e i mercati dove sempre più persone raccolgono i carciofi in terra FRANCESCA ANGELERI

II Che barbarità il Natale! Ogni

anno mi ritrovo affannata a tirare le somme di tutto quello che non sono capace a fare. Esistono due tipologie di fine anno, quella estiva - che non è una passeggiata - e quella in corrispondenza delle festività invernali, cioè queste, che è la peggiore. La più dura. Perché oltre al confronto con te stessa, i tuoi risultati, i tuoi buoni e cattivi propositi, i soldi che vorresti avere e invece non hai per gli stramaledetti regali, ti siede, letteralmente, per giorni, di fianco a tutta la tua famiglia. La matematica non è un’opinione e quindi, se sommiamo le cose di cui sopra, il risultato non può che essere un incubo. SONO FIGLIA di una madre esteta e perfezionista che si avvale di ogni buona occasione per rendere il suo mondo, la sua casa, se stessa e chi ama quanto di più corrispondente al bello e all’armonia possibile. Reattivamente a ciò io sono una pasticciona. Credo che sia il mio personale modo di sentirmi libera. Il mio

albero di Natale è Kitsch e nettamente piccolino se paragonato a quelli pomposi e meravigliosi che il resto delle case della mia Gissi Family pubblica sul nostro gruppo Whatsapp. Non vesto mio figlio come un piccolo lord e ancora non gli ho tagliato i capelli, e tanto meno penso di farlo per i festeggiamenti, resta un delizioso scugnizzo. PER FORTUNA che ho un marito sulla mia stessa linea d’onda e che trova liberatorio, come me, dirsi «Noi ce lo facciamo dopo le feste». Ed è talmente carino da non maledirmi perché sa che, come tutte le altre volte che ce lo siamo detti, alla fine il 25 sarò triste e ritratterò che sia stata una mia idea! I mercati però mi piacciono sempre. E, forse, sotto Natale un po’ di più. Questa mattina ero a Porta palazzo, il più grande mercato di Torino e di tutta Europa. È un posto incredibile, pullula di vita in ogni angolo, e anche di malavita. Contadini e pusher, signore con la spesa e tossici, tutte le nazionalità possibili e ogni materia prima sia possibile trovare sul globo. Urla, profumi, co-

lori e la luce accecante di Piazza della Repubblica. Porta Palazzo è una delle buone ragioni per cui continuo a vivere in questa città schiacciata dalla sua pedante torinesità e dalla crisi economica. È già qualche anno che si vede la gente rovistare nei cassonetti a fine mercato. La differenza è che in questo 2016 bisesto parrebbero di più quelli che i carciofi li prendono da terra. Una quantità immensa di persone che raccatta le rimanenze. Non solo zingari o gente da pasti alla Caritas, non ce la caveremo con il solito pietismo. Sono le nostre nonne, i nostri pensionati, i nostri ragazzi. Sono le migliaia di posti di lavoro che parrebbero essere nati sotto i funghi, che non hanno i soldi per mangiare. E a Natale, si sa, tutto è sempre peggio. E MENO MALE che c’è la mamma. Meno male che c’è il baccalà con la polenta. E le frittole con l’uvetta, il patè di tonno della zia e i crauti con la pancetta che ancora riesce a fare la mia nonna. Il cibo è questo, soprattutto:conforto. Prima o poi ci dovrò pensare io. Ma questo Natale è oggi, e domani è un altro giorno.

SFIDE PER LE VACANZE

Ridere,amare,ballareinordinesparso Enonfingersimandariniquandosièmele FABIANA SARGENTINI

II Porsi delle sfide (da non deludere, a costo della dignità): Non comprare più nulla, assolutamente nulla, per un mese. Lasciare (e lasciarsi) andare. Leggere libri trascurati. Rivedere i film del cuore: non i più belli stilisticamente ma quelli più amati, per un attore che ha quel certo non so che, una battuta clamorosa usata come proclama personale, un finale indimenticabile. Provare a trascurare gli egoismi e, in cambio, sorridere a tutti i passanti che si incontrano, non si sa mai. AVERE VISIONI. Ma non tramite funghi allucinogeni, Lsd o altro stupefacente di nuova generazione di cui non si ha conoscenza: solo avere visioni da cui trovare ispirazione per i comportamenti, per le decisioni, per le indecisioni cronicizzate. Accarezzare qualcuno o qualcosa di morbido e condiscendente fino a stancarsi i muscoli di braccia e dita. Ridere, ballare, amare in ordine sparso. Riconoscere la bellezza quando c'e, non temerla, farla propria. Non avere paura della propria paura, giocarci come fosse un cucciolo, prenderla in giro per poi coccolarla, dandole il credito che si merita. Non leccarsi le ferite, ma sutu-

rarle col ghiaccio termico della volontà. Assumersi le colpe ma non per vanto, quanto per irresponsabilità. VOLARE NELL'ARCOBALENO, trovare la pentola di monete d'oro, spargerle a pioggia nel cielo e ovunque cadano, seminarle come bulbi d'infanzia. Non mentire, in primo luogo a se stessi. Non fingersi mandarini quando si è semplicemente mele. Mangiare pantomime e trasformarle in piantagioni di colori primari. Non ascoltare nessuno ascoltando tutto. Non disperdere energia nella negatività reazionaria circolante nell'aria: nebulizzare essenze di parità, gioia, fortuna, piacere. Sostenere imprese fallimentari,

Lei ha conosciuto poche donne, io ho conosciuto molti uomini: si farà una media così potremo formare una discreta coppia. François Truffaut («Jules et Jim»)

più sono e meglio è. Solleticare l'idea di vincere le proprie idiosincrasie procurandosi un mazzo di carte truccato. Depotenziare la cattiveria gratuita ricevuta e ancora da ricevere rimandandola al mittente con una rosa sopra. Ricamare con fili di tutti i colori un intero quaderno a righe con la parola più trita, retorica, abusata e inutile di tutte: amore. Spogliarsi e stare nudi al freddo: tempra, mette di buon umore, corrobora da malattie, fisiche e mentali. Non curarsi di ragionare per alcune ore di seguito, meglio se per qualche giorno. Non smettere di sorridere con gli occhi, anche se si sente il pizzicore tipico dell'incedere di liquido nel canale lacrimale: continuando a sorridere non potrà che battere in ritirata. Lavarsi, sciacquarsi, fare abluzioni varie, a varie temperature, in varie parti del corpo, possibilmente tutte: l'acqua porta tutte le risposte, anche le più ovvie, quelle che erano già sotto gli occhi ma si nascondevano tra le ciglia. SUONARE A CASO, senza averne cognizione, qualsiasi strumento musicale si abbia a portata, possibilmente malissimo. Disegnare irregolarità asimmetriche fino a formare un fertile caos primigenio. Desiderare con ottemperanza. Sfide poste. Dignità integra. Vita onesta. fabianasargentini@alice.it

Mandala realizzati da Anna Paparatti

SOTTO L’ALBERO

Loscioperodelregalo.Ovverocome aggirarelamelassadifiocchielustrini MARIANGELA MIANITI

II Sarà che ai tempi della mia

infanzia i regali si ricevevano il giorno di Santa Lucia (13 dicembre), sarà che essendo non credente ho sempre evitato la messa di mezzanotte, sarà che ho sviluppato un’autentica allergia per i regali a comando, sempre più sento il Natale come una dittatura commerciale. Più ci si avvicina al 25 dicembre, più si sprofonda nella melassa di lustrini, fiocchi, bancarelle, canzoncine, consigli per gli acquisti. Se per molti commercianti questi sono fra i giorni migliori dell’anno, per tanti altri diventano un grattacapo.

Qualche giorno fa, passando fra le bancarelle attorno al Duomo di Milano, fra sciarpe di presunto cachemire, bigiotteria, cibi, ninnoli, ho sentito una ragazza dire: «Devo ancora comprare il regalo per mia mamma, mio padre, mio fratello, due cugine, mia zia, mia cognata e non posso spendere più di 50 euro». MI È VENUTO DA DIRLE: ne puoi uscire dignitosamente solo con dei libri, ma questo funziona fra persone che leggono, sport non fra i più praticati in Italia. Oppure c’è un’altra soluzione, arrivare alla cena della vigilia o al pranzo di Natale con le mani in scrulòn, che a Parma vuol dire penzoloni e vuote, dichiaran-

do: «Quest’anno faccio lo sciopero del regalo». CHI NON HA LA TEMPRA per sfidare le convenzioni, potrebbe fare come quel signore che, dovendo ogni anno partecipare a un’affollatissima cena di famiglia composta da oltre trenta persone, e non avendo voglia di scervellarsi per ognuno di loro, l’aveva risolta così: sceglieva un articolo e lo regalava uguale a tutti quanti. Un anno optò per una cassa di mandarini, poi fu un calendario, un orologio, un cesto di frutta secca, una scelta di vini. Che il destinatario avesse due o ottant’anni, il regalo era lo stesso: «Tanto - diceva - un bambino ha sempre dei genitori. Se il dono


visioni

sabato 24 dicembre 2016

Frenesie , nevrosi, ossessioni natalizie. Tra pranzi e cene familiari, un itinerario di fuga in leggerezza

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I buoni e (i cattivi) propositi, i profumi e l’ironia. In scena, sugli schermi, con gli amici, auguri a tutti

Tuttoinunanottedellavigilia «Porcomondo»diBiancofango Tra le sorprese delle feste c’è anche «La ricotta» di Antonello Fassari GIANFRANCO CAPITTA

II Dicembre è stato a lungo un mese importante per i teatri: i migliori debutti di stagione, che poi alle feste lasciavano il posto all’intrattenimento digestivo per famiglie. Tutto cambia, anche le programmazioni. Le cose migliori si son viste in teatri piccolissimi, se si fa eccezione per la Lehman Trilogy ultimo lascito ronconiano, che ha riempio all’inverosimile l’Argentina tutte le sere, come non si vedeva da parecchio, capace di conquistare il composito pubblico dello stabile, capace di zompare svelto nella standing ovation. Ora che siamo a natale la Casa Cupiello di Latella, fu Eduardo, proietta sullo spettatore quasi solo gli algidi fantasmi del regista, mentre è tornata utile la breve tournée, in una sala dell’Orologio, di uno spettacolo piccolo e bollente. LA COMPAGNIA BIANCOFANGO (ditta piccolissima, di una autrice/regista e di un autore/attore, Francesca Macrì e Andrea Trapani) porta in giro, giustamente, uno spettacolo di quattro anni fa, Porco mondo. Una non-storia di coppia, interpretata, sudata, sbavata, urlata dallo stesso Trapani e da Aida Talliente. Uno sfogo ultimativo che si consuma appunto la notte di natale, come si apprende a un certo punto. Uno sfogo che come una eruzione cutanea grave, è inarrestabile, benché se ne intuisca presto l’origine. Un rapporto, come moltissimi, impossibile. Dove nessuno dei due riesce o vuole ascoltare l’altro, lungo due monologhi che non si incrociano ma sbattono uno contro l’altro. L’insoddisfazione di lei che inutilmente cerca di travestire la sua rabbia sotto la parrucca plati-

no e l’abito scampanato di Marylin Quando la moglie è in vacanza; lui conduttore di una sorta di priapismo delle fantasie che si affacciano pure nella pedofilia in chat. Due disperati, stretti tra la neve notturna che li ottunde e la convivenza che li imprigiona. Uno spaccato tragico che si fa poetico, grazie al lavoro inesausto sul corpo da parte di entrambi. L’ALTRA VISIONE di queste sere che resta indelebile sarebbe legata forse più alle scadenze pasquali. Ma La ricotta di Pier Paolo Pasolini è una poesia irraggiungibile, che nella confusione dei linguaggi spettacolari (si svolge sul set di un film) si riscopre ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, comica, bruciante e aggressiva, oltre che maledettamente attuale, ora che la fame ha perso ogni aura e viene dritta da crisi e miseria come non se ne vedeva nel nostro paese dall’ultima guerra. È davvero un apologo biblico la storia di Stracci, la comparsa di Cinecittà che, mentre gira un film sulla crocifissione di Cristo sul Golgota lungo i pratoni dell’Acqua Santa, col cestino del set sfama l’avida famiglia, e digiuna stremato tra i crampi. Fino a quando,vendendo di nascosto il fastidioso cagnetto della diva, non riesce a comprare da una bancarella sull’Appia una bella quantità di ricotta. Non potrà mangiarla subito, ma se ne abbofferà in tal modo che alla fine della scena della crocifissione (lui è il ladro buono sulla croce), lo tireranno giù morto, sebbene sazio. Antonello Fassari ha tratto già da qualche anno da quell’episodio pasoliniano di Rogopag, uno spettacolo/racconto, semplicemente meraviglioso, che ha riproposto in que-

Una scena da «Porco mondo» della compagnia Biancofango

ste sere al Teatro del Quarticciolo. Ma l’attore assume così in profondità la narrazione di quella sceneggiatura, che dopo un po’ pare di assistervi, e di sentire fremere ancora certe affermazioni pasoliniane, e addirittura di vedere certe composizioni visive ispirate ai grandi manieristi come il Pontormo o Rosso Fiorentino. CON POCHI OGGETTI di scena, Fassari non scopre solo le sue notevoli qualità di attore (anche se la fama popolare gli è arrivata grazie ai Cesaroni), ma anche una sensibilità e una intelligenza ammirevoli. Per di più, alla fine del racconto, proietta il film originale, ed è ancora emozionante vedere Orson Welles sulla seggiola del regista, e Lau-

ra Betti che è Maddalena, e Edmonda Aldini la Madonna, tutti in pose e panni rigorosamente «manieristi». E le due versioni della Ricotta, quella teatrale e quella cinematografica, finiscono per parlarsi a fondo tra loro, mentre parlano a noi delle tante cose racchiuse in quella visione. Una bella sorpresa quella della serata al Quarticciolo, e non l’unica. La sera precedente, nello stesso teatro, per la programmazione curata da Veronica Cruciani e Ascanio Celestini, quest’ultimo aveva conversato in pubblico con Giusi Nicolini, la sindaca di Lampedusa. E anche quell’incontro era stato di grande fascino e di acuta intelligenza.

DVD E ALTRE VISIONI

IlprimoPuiu,icriminidiRussell.Nonsolocinepanettoni GIONA A. NAZZARO

II Niente di peggio dei cinepanetnon va bene per lui, lo useranno i parenti». Per la cena del suo studio, un amico architetto si era inventato la riffa cretina. Ognuno doveva portare la cosa più inutile o trash che trovava, poi si estraeva a sorte. Ho partecipato a un paio di edizioni e ho visto girare uno scopino da cesso a forma di pinguino, un libro su cimiteri (apprezzatissimo dalla destinataria che da mesi cercava proprio una cosa così), un vibratore che emetteva urletti in cinese (pescato dalla socia più anziana che arrossì dicendo “Siete proprio scemi» ma poi lo mise subito in borsa), un grattaschiena, dei fermapantaloni da bicicletta (sorteggiati da uno che si muoveva solo in auto), dei mantieni forma per reggiseni imbottiti (che lì dentro nessuno portava), una quantità di accendini dalle forme priapiche. Lo scambio dei regali era il momento più atteso della serata e non ho mai visto persone divertirsi così aprendo un pacchetto,

anche perché dopo l’estrazione cominciava il baratto, sicuri che si sarebbe tornati a casa con una stronzata, ma questo non importava a nessuno perché il bello era il gioco in sé e non l’oggetto. Certo, era una roba goliardica, ma niente vieta di inventare una versione più intellettuale, o di mandare un invito che dice: «Si accettano solo doni fatti con le vostre mani». GEORGE PEREC aveva avuto un’idea da par suo. Dal 1970 all’82, anno della morte, scriveva gli auguri sotto forma di brevi testi basati su variazioni omofoniche, li faceva stampare in un centinaio di copie e li spediva agli amici. Oggi sono raccolti in un volumetto che si intitola Voeux (Seuil). L’ultima serie, Cocktail Queneau, esordisce con questo biglietto: «Noi dell’OuLiPo/alle quenelles di Cocteau/ preferiamo i cocktail di Queneau (miscela di san pellegrino e schweppes)». Praticamente acqua. Alla salute di Cocteau.

toni raffermi per separarsi con un minimo di distacco da un 2016 pieno di catastrofi e morti illustri. Senza contare che anche i blockbuster, fatti su misura per essere dimenticati al riaccendersi delle luci in sala, non sono poi stati di grande aiuto (ad eccezione di Rogue One - A Star Wars Story). PER TENTARE di staccare la spina in maniera sostenibile si possono ipotizzare detour che passino attraverso il mercato homevideo non italiano. Etichetta britannica specializzata nel recupero e nella presentazione ottimale del cinema dell’Europa dell’est (ma non solo), la Second Run si è affermata come una delle realtà più credibili nel campo della diffusione di un cinema poco visto. Fra le ultime uscite in ordine di tempo si segnalano Stuff and Dough (Marfa si banii), opera prima di Christi Puiu considerata a ragione fra i titoli che maggiormente hanno contribuito al definirsi dei caratteri salienti della nouvelle vague romena. Viaggio on the road attentissimo nell’articolare in controluce moti-

vi da narrazione noir, il film, messo in scena come un esempio secco e brutale di cinema diretto, è l’attraversamento di un Paese disfatto che tenta di ritrovare le energie per ripartire. Di qualsiasi tipo esse siano. La cura maniacale di Puiu per i lunghi piano sequenza è ancora lontana, ma l’aderenza ai corpi e ai volti annuncia già i film del futuro. Avendo recuperato e presentato alcuni dei titoli più celebri e amati della nóva vlna ceca, la Se-

Lei ha fatto con Mogwai quello che vostra società fa con tutti i doni di madre natura. Voi non potete capire. Non siete ancora pronti. Joe Dante («Gremlins»)

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cond Run rende nuovamente disponibile Three Wishes for Cinderella di Václav Vorlícek, immaginifica rilettura della favola di Cenerentola prodotta in collaborazione con la Defa della ex-Rdt. Una visione molto utile per comprendere come il dissenso nel regno del realismo socialista di Zdanov potesse assumere le sembianze più misteriose, sensuali e divertenti. «Eravamo così abituati a lavorare di metafore per aggirare la censurarievoca divertito Jaromil Jireš (regista di Le fantasie di una tredicenne, anche questo riedito dalla Second Run), che quando oggi rivedo i miei film non ricordo più cosa volessi dire!». CAPOLAVORO quasi dimenticato del cinema ungherese, Uomini della montagna (Emberek a havason) di István Szöts, presentato al Festival di Venezia del 1942, dove ottenne un premio, fu successivamente rimosso e quasi distrutto dal regime comunista con l’accusa di «propaganda reazionaria», essendo stato presentato in Italia con Mussolini ancora al potere. Considerato oggi uno dei più importanti film ungheresi di sempre, Uomini della montagna è un film da riscoprire.

Avvicinandoci di qualche decennio possiamo tirare un sospiro di sollievo per la presentazione integrale di Crimes of Passion di Ken Russell, da noi distribuito con il titolo di China Blue. EDIZIONE con tanto di director’s cut, il film, se da un lato esprime i limiti degli eccessi manieristi del regista britannico, riesce a farsi ammirare per la irriducibile singolarità dello sguardo di Russell che all’epoca stava per essere messo sempre più ai margini dell’industria. Cast delle occasioni uniche con Kathleen Turner e Anthony Perkins al di là del bene e del male. Fiammeggiante e sopra le righe vale l’investimento. Per finire, nella zona di mezzo fra film e serie tv, due miniserie di grande valore come The Night Manager, tratta da John Le Carré e interpretata da Tom Hiddleston e Hugh Laurie, spy story sullo sfondo delle primavere arabe, e la magnifica River, nella quale troneggia un inedito Stellan Skarsgård. Storie di fantasmi a ridosso degli argini del padre Tamigi, è l’ennesima conferma dell’eccellenza della tv britannica degliultimianni.Perchéusciredicasaquandotuttoèaportatadimano?


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Verità nascoste

Il «genere» è norma SARANTIS THANOPULOS

I

l 2016 lascia tra le sue indesiderate eredità la baruffa tra i detrattori del «genere» e i suoi sostenitori. Per entrambi gli esseri umani si dividono in «generi» che si combinano tra di loro secondo una «grammatica» sociale. La differenza è che gli uni restringono la combinazione (e la genitorialità) ai generi «uomo» e «donna» e all’eterosessuali-

Ora diamo 333 euro a testa alle banche Con l’approvazione del decreto governativo ci siamo, noi tutti cittadini italiani, indebitati di altri 20 miliardi di euro (che in lire farebbe quarantamila miliardi, una cifra spropositata), praticamente ognuno di noi ha sulle spalle poco più di 333 euro di debito in più, neonati compresi. E tutto questo è giustificato dalla necessità di salvare il nostro sistema bancario. Ora, innanzitutto, vorrei le scuse di tutti quei grandi economisti che per decenni ci hanno sfracassato gli zebedei sulle taumaturgiche capacità del libero mercato alle quali bisognava affidarsi ciecamente, desidererei anche che i responsabili (si conoscono nomi e cognomi) di un tale sfacelo vengano puniti adeguatamente e spogliati di ogni loro ricchezza a parziale risarcimento del danno fatto all’intera collettività, e anche quei politici, ultimi Renzi e Padoan, che di fronte ad un disastro, prima preannunciato e poi conclamato, hanno continuato a garantire la «solidità del nostro sistema bancario» prendendoci per i fondelli in maniera scandalosa vengano interdetti perpetuamente dai pubblici uffici. Come cittadino (e non penso di essere il solo) sono stufo di dover subire in silenzio tali scelleratezze, non ho più voglia di dover pagare di tasca mia le colpe (anche fraudolente) di una massa di corrotti incapaci. Mauro Chiostri Salvare le banche Perfettamente d’accordo che lo Stato impegni somme enormi per salvare le banche, poiché dentro vi sono i nostri soldi. Nulla da eccepire. Però c’è modo e modo. Non si devono salvare i banchieri autori dei dissesti. Il modo c’è ed è questo in cinque mosse: 1- lo Stato diventa proprietario delle banche in proporzione al denaro loro prestato; 2- quindi lo Stato, che è bene non gestisca nulla di tal genere, rivende sul mercato finanziario internazionale quelle quote di proprietà delle banche acquisite con gli aiuti elargiti; 3 - la proprietà delle banche aiutate/salvate passerà così a soggetti i più vari: cinesi, messicani, coreani, irlandesi; 4 - così facendo lo Stato rientrerà delle forti somme esborsate e i risparmiatori rimarranno garantiti; 5- gli unici a saltare come i tappi a Natale saranno quei banchieri che hanno preferito, invece di

tà, mentre gli altri la estendono all’omosessualità e alla transessualità e teorizzano l’esistenza di un «terzo genere» -né maschio né femmina, neutrale. Comune è il misconoscimento del corpo erotico, piegato alle esigenze di una logica combinatoria che riflette rapporti di potere. Il genere è un falso amico delle relazioni omosessuali e dell’omoparentalità. In realtà, esse poggiano sulla differenza/complementarità erotica dei corpi dei due sessi e sulla libertà delle sue declinazioni. Per via delle identificazioni crociate tra l’uomo e la donna la costituzione del nostro corpo è bisessuale. Ciò non implica la bisessualità amorosa –l’uguale attrazione per i

sabato 24 dicembre 2016

SCUOLA DI LEGALITÀ «DON PEPPE DIANA»

Una lettera di augurio ai giovani Carissimi ragazzi, negli ultimi venticinque anni della mia vita sono stato nelle aule scolastiche di quasi tutte le regioni d’Italia, dalle Alpi alla mia amatissima Sicilia. Guidato dal mio maestro Antonino Caponnetto, ho accettato, pervaso da non pochi dubbi, l’invito, che mi proveniva dai vostri docenti, ma soprattutto, direttamente da voi. Sono venuto e continuerò a venire nelle vostre scuole per parlarvi di legalità, di mafie, di corruzione, di terrorismo e di tantissimi altri argomenti. Ho sempre avuto il timore che la pochissima differenza di età tra me e voi potesse essere un ostacolo ai nostri confronti. Mi avete, invece, dimostrato il contrario, ascoltandomi in religioso silenzio e al contempo insegnandomi tantissimo. Ricordo che in Università le lezioni duravano per una o due ore ma trascorrevano come fossero pochi minuti sempre ricche di dibattiti e di confronti. Non potrò mai dimenticare l’espressione attenta e assorta dei vostri volti e le lettere che mi avete scritto dopo i nostri incontri. Le custodisco meticolosamente nei cassetti della mia libreria e, ogni volta che ne leggo qualcuna, mi rendo conto che il rapporto con voi è sempre indimenticabile e straordinario. Grazie ai nostri incontri ho potuto portare nei vostri cuori e nelle vostre menti, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pippo Fava, Peppino Impastato, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e tantissimi altri uomini che per la legalità hanno donato la loro vita. Per il tempo in cui sono con voi mi sento come se stessi vivendo ogni volta il momento più intenso e più bello della vita. Sento forte il dovere morale di starvi accanto mettendo a vostra disposizione la mia modestissima esperienza nel ricordo delle mie fortunate passate esperienze. Conosco e giustifico la vo-

stra sfiducia nel far fronte a problemi che sono superiori alle vostre possibilità tuttavia vi esorto a reagire e lottare per i vostri diritti e per i vostri ideali. Non mi stancherò mai di ripetervi che il vostro primo dovere è la consapevolezza di voi stessi e del mondo che vi circonda. Ricercate sempre la verità e lottate affinché essa prevalga sulle ingiustizie. La vita è una esperienza unica, irripetibile e straordinaria che va vissuta in profondità traendo anche dalle personalità di cui vi parlo sempre gli spunti per vivere, per lottare e per vincere le difficoltà di ogni giorno. Ho cercato sempre di affrontare la vita con entusiasmo e fiducia nel prossimo, anche se devo confessarvi che questa fiducia è stata messa, tantissime volte, a dura prova. Nonostante ciò continuo nel mio cammino. Oggi purtroppo assistiamo

ad un mondo dove l’odio è sempre più forte e dove il denaro regna sovrano su tutto e su tutti. In nome di un pezzo di carta si uccidono bambini innocenti e milioni di uomini e donne. La nostra Nazione è sempre più pervasa da mafie, corruzione ed evasione fiscale. Antonino Caponnetto, per rincuorarmi in qualche mio momento di sconforto, mi diceva spesso: «quando alzi gli occhi e guardi il cielo pensa che devi impegnarti ancora una volta verso il bene e contro il male, mantenendo intatta la tua fede nel prossimo». E questo chiedo a voi carissimi ragazzi: un atteggiamento ottimista e volitivo che sono certo vi aiuterà in tutti i momenti difficili della vostra vita. Siete la nostra ultima speranza per un mondo migliore e per questo avete l’obbligo di impegnarvi con pervicacia nell’affrontare le prove che la vita vi sottoporrà.

Vi ho sempre ricordato il motto di don Lorenzo Milani: «Io mi impegno», questo perché sono sempre stato sicuro che l’impegno individuale sia lo stimolo più potente che permette di superare anche gli ostacoli più difficili. Carissimi ragazzi, vivete la vostra esistenza partecipando attivamente e non assistendo passivamente agli eventi che accadono intorno a voi. Impegnatevi con forza, abbiate fiducia in voi stessi e ispiratevi agli esempi positivi che fortunatamente abbiamo nella nostra amata Italia. Vi sono accanto e vi voglio bene tutti. A nome della Scuola di Legalità che dirigo e nel ricordo di don Giuseppe Diana vi auguro un buon Natale e un sereno e proficuo nuovo anno. Vincenzo Musacchio Direttore della Scuola di Legalità «don Peppe Diana» di Roma e del Molise

finanziare il lavoro, puntare sui giochi di carta, rimanendone alfine bruciati. Dubitiamo fortemente che la politica, così amica dei banchieri, abbia il coraggio di una tale strategia. Ma questa strategia deve essere uno dei punti qualificanti della nuova formazione politica che urge oggi creare in Italia. Luigi Fressoia Perugia

Bene e Male Quando leggo la cronaca delle malefatte politiche italiane mi cadono le braccia. Poi penso a quanti onesti conosco, quante persone eroiche e coraggiose, sconosciute ai media, che sono l’ossatura e il bene di questo Paese e penso che è solo grazie a loro che questo Paese si salva.

L’Italia è il Paese che ha più associazioni di volontariato al mondo e che ha più persone che si sacrificano per la loro famiglia, per i loro cari, per le necessità di altri, e non è giusto che nessuno ne sappia niente in tv mentre i corrotti sono sempre davanti ai nostri occhi come fossero esempi onorevoli o mete da raggiungere.

Il Bene e il Male coesistono, ma il Male urla dai troni mentre il Bene è nascosto nell’ombra. Eppure la grande lezione della storia è che il Male, con tutta la sua potenza, non vince mai del tutto e il Bene, malgrado sia silenziato o devastato o martirizzato, continua a resistere. Viviana Vivarelli

due sessi- o l’androginia -sequestrare l’altro sesso dentro di sé, annullando il senso della sua differenza. La doppia disposizione del corpo erotico prende, il più delle volte, una direzione preferenziale, maschile o femminile. Si evita la dispersione o l’autarchia, ma senza svilire la libertà. Nel rapporto tra gli amanti, dello stesso o di opposto sesso, convivono due donne e due uomini che si combinano tra di loro in tutti i modi possibili in senso etero e omosessuale. La libertà dell’esperienza psicocorporea nei confronti dei limiti posti dall’anatomia - dai quali, tuttavia, non si è mai del tutto indipendenti - si estende nel campo della genitorialità.

La maternità, fondata sull’apertura erotica femminile all’alterità, può essere interpretata dalla parte femminile di un uomo e la paternità, la capacità di trovarsi come soggetto desiderato e desiderante nel luogo dell’apertura, può essere assunta dalla parte maschile di una donna. Il legame tra limite e libertà è precario nella transessualità. Sentirsi diversi dal proprio corpo è una sofferenza a cui non si può dare una risposta repressiva. Il problema è che la sofferente diversità può sfociare in una deriva manipolativa. Si pretende di essere pura femminilità o mascolinità, dissociata dall’opposta dimensione della sessualità, in un corpo che, smenten-

I ragazzi di Don Diana in corteo a Casal di Principe foto LaPresse

do questa pretesa, si avverte come contenitore alieno. Si cerca di demolirlo e di costruire sulle sue macerie un falso d’autore: un corpo fantasma, un artefatto ormonale o chirurgico, che annulla la sensualità della materia psicocorporea e la rende inerte. Alla manipolazione della propria anatomia, soggiace il fantasma normativo di un corpo asessuato, neutrale. Il terzo genere dà rappresentazione alla negazione delle relazioni e della sessualità, crea monadi isolate. Il trionfo dell’autoreferenzialità: costruire da sé la propria identità senza tenere conto dei limiti naturali e dei legami erotici (che richiedono compenetrazio-

ne). Si crea indifferenza, mancanza assoluta di libertà. Ci si ribella alla norma per cadere nelle maglie della normatività più assoluta. Opporsi all’idea di dichiararsi uomo o donna può far parte (in modo estremo, impossibile) della contestazione della loro definizione sociale. Includere l’opposizione nelle regole contestate, inventando un genere neutro, significa assoggettarsi alla sintassi alienante di una società che trasforma gli esseri umani in generi grammaticali. Reprimere i sintomi dell’alienazione, è renderla invisibile e letale. Trasformarli in simboli di libertà e di emancipazione, è condannarsi a vivere in un’illusione ottica perenne.


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sabato 24 dicembre 2016

— segue dalla prima —

SANDRO MEDICI oiché la città è messa proprio male. È tristemente evidente. E se quelli di prima non andavano più bene, quelli di adesso non sembra proprio che se la stiano cavando. Anzi, appaiono sempre più disastrati. Che sia per loro o altrui responsabilità, vivono stentatamente la loro esperienza politica e la città ne risente. E soprattutto danno l’impressione di non saper bene cosa fare. Hanno presentato il loro primo documento di politica economica (un bilancio, c’è da dire, senza infamia e senza lode) e l’hanno immediatamente ritirato perché non è piaciuto ai revisori ministeriali. Invece il Campidoglio dovrebbe approvarselo così come l’ha previsto, il suo bilancio. Anzi, dovrebbe emendarlo con ulteriori voci di spesa sociale e manutenzione urbana, trasporto pubblico e attività culturali, che sono le cose più necessarie a Roma. Piuttosto che garantire gli interessi di creditori, cravattari e speculatori, come gli viene ordinato da angusti revisori. Fare insomma come invoca il suo abitante più illustre, papa Francesco: contrastare povertà e degrado, non finanziare le banche. Ma non sembra che gli amministratori cinquestelle ne abbiano intenzione. Queruli e balbettanti, sono già lì a rattoppare i conti per rientrare nella prigione economica da dove erano evasi, forse più per imperizia che per volontà. Eppure solo così, solo forzando vincoli e aggirando compatibilità, possono sperare di salvare la città dal suo declino. Congelando il debito e rifiutandosi di pagare gli interessi passivi, e nel contempo investendo risorse dove la città ha più bisogno. È di qualche giorno fa una sentenza della Corte costituzionale, la numero 275/2016, che ha dichiarato illegittima la legge di bilancio della Regione Abruzzo perché non assicurava il trasporto scolastico ai ragazzi disabili, per evitare di sforare i vincoli finanziari del proprio esercizio. «È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio – afferma – e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». Sarà per il nuovo clima post-referendario, ma

P

Nuova finanza pubblica

Mes: dittatura finanziaria in arrivo? MATTEO BORTOLON

«È

l’inizio di una nuova dittatura europea?». «Il colpo di stato è pronto per l’Italia». Titoli non proprio rassicuranti, anche considerando la provenienza (l’International Business Times non parrebbe una testata incline al complottismo...); che non si riferiscono all’irrompere di forze populiste di destra o

certo si tratta di una sentenza che ribalta completamente la logica con cui da anni vengono confezionati i bilanci negli enti locali. E non sfugge quanto possa rappresentare un formidabile strumento di opposizione alle politiche neo-liberiste che si scaricano sui territori. Se la metafora sul «pilota automatico» dell’ultrabanchiere Mario Draghi viene riferita agli stati ex sovrani, a maggior ragione viene imposta nei governi locali. E a Roma la si applica in modo ancor più severo, a causa del voluminoso debito accumulato lungo i decenni. Inoltre, ad aggravare una condizione finanziaria già stremata sono state le scelte politiche con cui negli ultimi anni si è tentato un improbabile risanamento. Impegnandosi in piani di rientro, che invece di migliorare la tenuta economica comunale hanno finito per peggiorarla. Ed è per questa ragione che a Roma non funziona più nulla, i servizi sociali chiudono, gli autobus non passano, le strade si sbriciolano, i parchi s’inselvatichiscono, la città è malinconica, estenuata, incollerita. Dopo le infelici traversie delle amministrazioni precedenti, con l’arrivo della nuova sindaca sulla spinta di una valanga di voti, si era accesa una squillante speranza. Sembrava esserci la possibilità di aprire una stagione nuova e promettente. Quanto è poi successo, tra litigi, abbandoni, dilettantismi, scelte incaute, nottate tormentate, dolori e lacrime, oltre a una raffica di inquietanti inchieste giudiziarie, lascia oggi affiorare altre delusioni, tristi rammarichi, ancora avvilimenti. Godeva di una larga e speranzosa indulgenza popolare, Virginia Raggi: e forse non l’ha ancora del tutto dispersa. Ma di sicuro la sua esile freschezza, che tanto era piaciuta, nascondeva limiti politici oggi evidenti, se non proprio ingannevoli retaggi. Gli stessi che l’hanno indotta a decisioni e affidamenti con tutta evidenza alquanto discutibili. Roma sta vivendo una crisi profondissima, che non riguarda solo le stridenti difficoltà dell’amministrazione cinquestelle. È una crisi strutturale, che sta ipotecando il futuro. Oggi è una città impoverita e bisognevole, rattrappita e spenta. Non possiamo continuare a maltrattarla.

simili. Si riferiscono al Mes. Il Meccanismo Europeo di Stabilità, battezzato «Fondo salva-stati» (con un tocco di involontaria comicità) dai media ufficiali, fece parlare di sé quando fu istituito (2011-12), poi emerse nelle cronache politico-finanziarie a proposito della Grecia di Tsipras, poi si è nuovamente inabissato: nel regno della opacità informativa in cui galleggiano poteri poco noti ma pienamente attivi. Ce lo ritroviamo un po’ a sorpresa il giorno dopo il trionfo del no al referendum: Padoan chiede l’assistenza del Mes (la notizia è stata però smentita). Da qui i titoli citati (6 dicembre scorso). Ma cosa significa davvero? Perché suscita questi timori? Teoricamente si tratta di

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Nonsidevesparare nelmucchio GUIDO VIALE — segue dalla prima —

II Sono stati coinvolti più di 50 milioni di persone, molte delle quali, con i loro figli, sono poi diventate cittadini dei paesi di arrivo; per questo i migranti che non sono ancora cittadini europei sono solo 20 milioni circa. La maggior parte di quel flusso era costituita da «migranti economici» alla ricerca di un lavoro e di condizioni di vita migliori. I più il lavoro l’hanno trovato, tranne poi perderlo e venir relegati in ghetti e banlieu nel passaggio dalla prima alla seconda generazione. Senza di loro l’Europa però non avrebbe mai conosciuto i «miracoli economici» degli anni ’50 e ’60 né il più stentato sviluppo dei decenni successivi e sarebbe rimasta in gran parte un continente sottosviluppato. E lo sarà ben presto, e sempre di più, se continuerà a cercar di fermare i nuovi arrivi. PER UNA DENATALITÀ irreversibile, infatti, l’Ue (Regno unito compreso) perde circa 3 milioni di abitanti all’anno. Nel 2050, senza l’apporto di nuovi migranti, invece dei 500 milioni attuali ci saranno solo 400 milioni di abitanti, più o meno autoctoni: in maggioranza vecchi e sclerotizzati dal punto di vista fisico, economico e soprattutto culturale: una cosa che in Italia si comincia a vedere già ora. Eppure si sta facendo di tutto per fermare o per respingere i nuovi arrivi. Fino a pochi anni fa arrivava in Europa una media di 1,5 milioni di «migranti economici» all’anno (300mila in Italia, tutti o quasi regolarizzati da sanatorie di destra e sinistra). Ma l’anno scorso, invece, 1,5 milioni di profughi (170mila in Italia, in gran parte «in transito») sono stati considerati un onere insostenibile. Che cosa ha provocato quella inversione di rotta? I GOVERNI DELL’UNIONE Europea hanno risposto alla crisi del 2008, tutt’ora in corso, con politiche di austerità che hanno portato a 25 milioni il numero dei disoccupati ufficiali (quelli effettivi sono molti di più). Se non c’è più lavoro, reddito, casa e assistenza per tanti cittadini europei non ce ne può essere per i nuovi arrivati: questo è l’argomento alla base della

uno strumento per la stabilità finanziaria dei paesi dell’eurozona: il concetto sarebbe una sorta di «cassa comune» in cui tutti mettono un po’ di soldi e in caso di bisogno chi è in difficoltà può attingerne, così rimane «stabile» e non contagia gli altri. Così ce lo spiegano, ma scavando un po’ più a fondo le cose non sono così idilliache. Alla sua nascita venne salutato come «fondo monetario europeo». In effetti le similarità con il Fondo monetario internazionale sono molte, confermate dalla esplicita menzione di quest’ultimo nel trattato istitutivo del Mes. Si tratta infatti di una istituzione permanente con una capacità di prestito di

A bordo della nave Topaz al largo della costa libica foto LaPresse

svolta impressa alle politiche migratorie. A questa chiusura delle frontiere e delle menti si è poi sovrapposta un’ondata di «islamofobia» alimentata dalle stragi perpetrate da membri o simpatizzanti di organizzazioni terroristiche islamiste. Alla sensazione diffusa che «sono troppi», alimentata dall’austerità, si è così mescolato, ad opera dei numerosi imprenditori politici della paura, il tentativo di attribuire all’arrivo dei profughi la proliferazione del terrorismo. OGGI, DI FRONTE ALLA marea montante delle destre razziste Angela Merkel sembra rappresentare un baluardo, nonostante le sue oscillazioni e i suoi arretramenti. Ma all’origine della «crisi dei migranti», cioè

Restituire agli europei i diritti sociali e politici e garantire ai profughi i diritti umani è un’unica battaglia. L’unico modo di prosciugare lo stagno del terrorismo islamista

500 miliardi (si voleva aumentare la cifra ma i tedeschi non ne hanno voluto sapere); ingloba le attività poste in essere dai due fondi salva-Stati precedenti che sono andati in dismissione. Finora hanno agito su Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna. Il Mes è un ente di diritto internazionale formalmente distinto dall’Ue. In pratica, le istituzioni comunitarie vedono la creazione di una entità parallela (con i paesi dell’eurozona come membri) in cui non c’è il principio «un paese – un voto» ma i voti sono proporzionali alle quote di capitale (calcolate in misura proporzionale al peso di ciascuno in Bce). I più ricchi contano di più. Più che una istituzione pubblica, un’azienda.

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dell’idea che per loro non ci sia più posto in Europa, c’è proprio l’austerità di cui la Merkel è la principale sponsor. E senza affrontarne le cause, la sua collocazione politica l’ha posta sulla china di un progressivo cedimento all’oltranzismo xenofobo. MA È SOPRATTUTTO IL metodo adottato per arginare la «piena» dei profughi che ad essere per molti versi criminale e carico di rischi. L’accordo con Erdogan, che ispira tutti gli altri accordi con paesi di origine o transito di profughi, imprigiona milioni di esseri umani nelle mani di governi e bande armate che hanno già dimostrato una vocazione a sfruttarli fino all’osso per poi farne scempio. Ma espone anche gli Stati europei al ricatto (già messo in atto a suo tempo da Gheddafi e oggi ventilato da Erdogan) di aprire le dighe di quei flussi se i rispettivi governi non saranno acquiescenti. Ma alcuni semplici punti vanno messi in chiaro. 1. I profughi di oggi fuggono in gran parte da quelle stesse forze che sono gli ispiratori, se non gli organizzatori, degli attentati che stanno insanguinando le città europee. Respingerli significa ributtarli in loro balia e, in mancanza di alternative, costringere una parte a diventarne le future reclute.

Quando un paese richiede l’assistenza si valuta la domanda e – se approvata - si esige dal richiedente di aderire a delle «condizioni rigorose» messe per iscritto da un protocollo d’intesa. Esse potrebbero includere le misure volte a «salvaguardare la stabilità»; magari l’impegno a privatizzare le risorse dello Stato, a tagliare la spesa pubblica oppure a aumentare le tasse. O – meglio – tutti e tre assieme. Suona familiare. In effetti non solo è quello che è successo ai paesi che hanno avuto la sciagura di cadere sotto il Fmi nelle decadi passate; è esattamente quello che sta accadendo in Grecia: il paese, in bolletta per aver salvato le proprie banche (che dovevano i soldi ad altre banche, francesi e tedesche...) si indebita con il

2. La politica dei rimpatri è impraticabile se non per piccoli gruppi: per mancanza di interlocutori affidabili, per il costo (tanto è vero che vengono espulsi «per finta»), per il rischio di pagarla avallando le peggiori dittature e, non ultimo, perché è una politica di sterminio, anche se «esternalizzato». 3. LA DISTINZIONE TRA migranti economici e profughi politici su cui si regge la prospettiva dei rimpatri è un alibi privo di basi: sono tutti migranti ambientali, mossi da conflitti sempre più atroci innescati da un deterioramento radicale del loro habitat. C’è ormai una sovrapposizione netta tra i paesi centroafricani investiti dalla crisi climatica, quelli coinvolti in conflitti riconducibili a organizzazioni islamiste e l’origine dei maggiori flussi di profughi. Ma anche la guerra civile (e mondiale) in Siria è partita da una rivolta contro il feroce regime di Assad innescata dal deterioramento ambientale del territorio; di quel fiume di profughi, e delle devastazione e degli orrori che li hanno fatti fuggire, i governi europei recano una pesante responsabilità: attraverso la Nato e la Turchia, appoggiandosi sui più feroci regimi mediorientali, non hanno esitato a fare della popolazione siriana in rivolta un ostaggio delle peggiori bande islamiste, Isis compreso, di cui ora sono il bersaglio. E facendo entrare i campo i bombardieri russi che hanno trasformato la guerra in conflitto mondiale. 4. Trasformare l’Europa in una fortezza, posto che sia possibile, significa metterla in mano a forze razziste e antidemocratiche al suo interno; ma anche perpetuare uno stato di guerra al di fuori dei suoi confini. Se nella fortezza non si può più entrare, diventerà sempre più difficile anche uscirne. Qualcuno farà mai turismo o affari leciti in luoghi come lo Stato islamico o tra i Boko haram? 5. PER QUESTO RESTITUIRE a ogni cittadino europeo i diritti sociali, civili e politici e garantire ai profughi i diritti che spettano a ogni essere umano è un’unica battaglia. Ed è l’unico modo, alla lunga, di prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista.

Mes (che gli dà i soldi indebitandosi a sua volta sui mercati finanziari) coi cui capitali può indebitarsi ulteriormente coi mercati finanziari o con la Bce. Alla fine di questa grottesca catena di indebitamenti c’è il cittadino che va spremuto a dovere con le famose condizionalità. Ti prestiamo i soldi ma devi fare il bravo, seguendo tutte le istruzioni per instaurare uno stato di neoliberismo completo. Al di là delle varie sigle, il Mes è la Troika stessa; la punta di lancia delle politiche di austerità europee. Se non è proprio una dittatura finanziaria siamo sulla strada. Quindi occorre rimanere guardinghi: se l’Italia chiamasse il Mes non c’è da essere allegri.



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