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Pag Francisco Malenchini: una vita da mediano
4452 UNA VITA DA MEDIANO
TRA PASSIONE SPORTIVA, REGOLAMENTI STRINGENTI E CICLISTI SCORRETTI, LA SUA STORIA D’AMORE PER LA BICICLETTA, IL CICLISMO SU STRADA E IL PROFESSIONISMO. FINO AGLI ANNI DELLA VERGOGNA A CAUSA DEI TANTI ATLETI TROVATI DOPATI.
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Fisico asciutto, tanti tatuaggi e un’abbronzatura da bagnino alle Maldive... “È per via della bicicletta, ogni mattina mi alzo presto e mi faccio la mia oretta in sella per tenermi in forma anche se non corro più”. Francisco Malenchini, una carriera alle spalle come professionista del pedale, pochi acuti, una vita a portare le borracce e a tirare le volate ai campioni della squadra. Pochi mesi fa suo padre si è addormentato sulla sua poltrona davanti alla televisione e non si è più svegliato.
“Diceva sempre - ci confida Fransisco - che non avrebbe mai voluto finire su una sedia a rotelle e che avrebbe preferito restarci secco in un colpo solo... Qualcuno lo ha ascoltato anche se forse era meglio aspettare ancora un po”. Amava anche lui la bicicletta? “Si ma non ha mai gareggiato”. E tu coma hai iniziato? “Da adolescente giocavo a calcio ed ero anche bravino. militavo nella Hintim Ellen ed ebbi dei contatti per entrare nelle giovanili della Fiorentina”. In che ruolo giocavi? “Mediano, come nella canzone di Ligabue, una vita da mediano a recuperar palloni... Ad un certo punto mi sono stancato del pallone, non avevo più stimoli, anche perché mi ero avvicinato al mondo del ciclismo dopo aver conosciuto molto bene Matteo Carrara, allora professionista bergamasco. Ho cominciato ad uscire in allenamento con lui e qualche altro professionista e ho scoperto che andavo forte”. La prima bici da corsa? “Era una Maffioletti, un artigiano di Villa D’Almè. Realizzava lui i telai e in breve tempo ho iniziato a correre per la sua squadra sia in mountain bike, sia nelle corse su strada, anche se sono sempre stato più amante della velocità, anche un po’ spericolato. Intorno ai 19 anni, lo stesso Maffioletti, vedendo le mie potenzialità mi mise in contatto con una squadra belga, la VacansOleil, che oggi non esiste più. Lo sponsor era un conosciuto tour operator olandese. Nel ciclismo la squadra prende il nome dello sponsor e molti imprenditori sottovalutano questa opportunità ma, la Salvareani, la Molteni, la Mercatone Uno, così come è stato per Mapei più recentemente, hanno imposto il loro nome al mercato, grazie alle squadre di ciclismo di cui erano sponsor”. Inizia la tua avventura... “Venni inserito nella squadra B della VacansOleil come professionista e percepivo già un ottimo stipendio. Ma a quel punto i miei limiti emersero. In gergo si dice che non ho un gran motore, non ho una dote naturale fisica per diventare un campione, non ce l’ho... Ma ho la testa, e metto tanta dedizione in quello che faccio. Purtroppo sono arrivato al professionismo in un periodo in cui il ciclismo stava attraversando un momento molto buio per via del doping e di tutti i controlli asfissianti a cui si era sottoposti. Ognuno di noi ha un “passaporto biologico”, una scheda con i parametri vitali di ogni funzione corporea che devono rimanere costanti nel tempo. Inoltre, siamo tra il 2005 e il 2008 viene introdotto anche il dovere della reperibilità. Bisogna sempre e comunque (ancora oggi) segnalare ogni spostamento che fai su una piattaforma della V.A.D.A., l’ente che vigila sul doping che vuole costantemente sapere dove sei, se ti alleni, dove ti alleni, quante ore stai in palestra ecc. In ogni minuto della giornata si è passibili di un controllo da parte degli ispettori e si ha un’ora di tempo per tornare a casa, farsi esaminare e sottoporsi ai prelievi del caso”. C’è da dire che negli anni dal 2000 in poi in molti hanno esagerato... “Vero, andavano in ritiro e sparivano ma quando tornavano a correre erano tutti tonici, dimagriti e volavano sui pedali. Per questi motivi sono stati introdotti controlli stringenti e ovviamente molti corridori erano contrari alle nuove regole. La maggior parte di loro si oppose ma io non ero affatto contrario alle regole introdotte dalla V.A.D.A. e dall’Unione Mondiale del Ciclismo che trovo giuste. Con il doping a cui sono sempre stato contrario, se uno è un mulo non diventa un cavallo… resta sempre un mulo”. Quindi eri favorevole ai controlli? “Sono stato uno dei pochi che si sono subito schierati con gli organi del ciclismo. Io ero comunque un gregario, un portaborracce, ma in grado di vedere la corsa, di organizzare le strategie e sostenere i compagni: un uomo squadra. Questo era apprezzatissimo da tutti ma quando mi sono esposto a FRANCISCO MALENCHINI
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favore delle regole, la cosa non è piaciuta ai miei compagni che da lì in poi non mi hanno più ascoltato né sostenuto. L’ambiente era in pratica favorevole al doping e ricordo c’era molto nonnismo. Anche se le trasfusioni di sangue sono vietate, ci sono cliniche in Svizzera dove ti tolgono il tuo sangue, da due a quattro sacche, lo puliscono, lo preparano, lo ossigenano e in occasione di appuntamenti importanti lo vai a riprender... bello fresco. Il doping esiste in molte forme e nel ciclismo certe pratiche sono vietate mentre in altri sport sono quanto meno tollerate. Anche nell’automobilismo, anche ai massimi livelli, assumono farmaci per essere più lucidi e avere riflessi più pronti”. Allora decidi di smettere? “Anche per la nausea per le cose che venivano a galla da quel mondo che dovrebbe essere trasparente e formativo per i giovani, ad un certo punto ho capito che avrei potuto contribuire a tenere alti i valori dello sport che ho amato tanto e per il quale tanto ho faticato, diventando il manager di giovani corridori. Sto provando a farlo a modo mio, non limitandomi a trovare un contratto per correre in una certa squadra e a riscuotere la mia provvigione. I ragazzi di oggi sono più deboli, meno organizzati mentalmente e si perdono in un bicchiere d’acqua. Spesso sono fragili e hanno alti e bassi pazzeschi. Nella maggior parte dei casi arrivano da famiglie umili perchè il ciclismo costa molta fatica ma pochi soldi e quando arrivano a guadagnare un po’ di quattrini si perdono per strada”. Quando si inizia a guadagnare con il ciclismo? “Si cominciano a vedere un po’ di soldi a diciotto anni e, se decidi di compiere il salto al professionismo, lo stipendio minimo è di almeno 2500 euro al mese e non è difficile arrivare a guadagnare anche 500 mila euro l’anno”. Dipende dai risultati? “Sì, ma non solo. Se i dirigenti di una squadra vedono in un giovane del potenziale, anche inespresso, lo trasformano, lo plasmano alle necessità della squadra e la componente doping, purtroppo è una costante. I guadagni derivano solo dagli sponsor non essendoci diritti televisivi e nessuno, come si sa, paga per vedere il Giro d’Italia sulle strade. Quindi le esigenze degli sponsor vengono prima di tutto e sono imprescindibili”. Adesso cosa pensi di fare? Continuo a seguire alcune giovani promesse... ma a dire il vero vorrei propormi alla vostra rivista per dedicare uno spazio alla bicicletta e al suo meraviglioso mondo....Che ne pensa direttore? Penso che se ne possa parlare. Benvenuto a bordo. (V.E.Filì)