Bramantino

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«struttura segreta». Marani suppone infatti che la «maglia ortogonale» sia il principio di costruzione dell’immagine, costituita per aggregazioni di «moduli quadrati» o «frazioni di moduli quadrati». Una volta stabilito che il punto di fuga della Crocifissione si trova alla base della Croce, Marani avverte un’incongruenza prospettica nella forma della mano del giovane piangente sulla destra; individua in questo dettaglio un antico rifacimento e pensa che la mano tesa in avanti tenesse originariamente un oggetto, forse un sasso: da qui la decisione di fare ricostruire diversamente l’arto ma da qui anche l’identificazione della figura con Santo Stefano e – procedendo su un percorso sempre meno garantito – l’idea che la Crocifissione fosse destinata alla chiesa di Santo Stefano a Milano (in alternativa all’«ipotesi di lavoro» sostenuta poco prima: P. C. Marani, in Pinacoteca 1988, p. 140). Il registro dei riferimenti figurativi esibiti dal Bramantino si allarga a dismisura: Bergognone e Zenale per il paesaggio, ma anche il Leonardo della seconda Vergine delle rocce, quella di Londra (National Gallery, inv. NG1093), «finita nel 1509», per gli alberi. Il travaglio esecutivo, articolato in tre fasi, sarebbe prova di lunghi tempi di realizzazione: il Bramantino avrebbe impostato il dipinto al principio del Cinquecento e l’avrebbe ripreso dopo il soggiorno romano, da cui dipenderebbe una serie di presunte derivazioni, da monumenti (il Pantheon o la piramide di Caio Cestio) e sculture (il Laocoonte, scoperto nel 1506, nel ladrone cattivo sulla destra); a questa cronologia in più fasi si atterranno Tomìo (2001, pp. 277-278; 2002, pp. 331, 334-336) e, pare, Villata (2001, p. 158). Charles Robertson (1992) aggiunge la bizzarra idea che la Crocifissione fosse destinata a essere appesa al tramezzo di una chiesa francescana osservante, accoglie la data intorno al 1510, introduce svianti riferimenti a Mariotto Albertinelli e a Cranach e individua nella figura in giallo sull’estrema destra della tela «one of Christ’s enemies, probably the High Priest». Wilson (1992, p. 228), nel registrare la presenza dell’iscrizione trilingue sopra la Croce, accetta una data intorno al 1511. Forti Grazzini (1993, p. 3596), dimenticando la propria vecchia opinione, sembra assestare la Crocifissione verso il 1510-1511; non troppo diversa è la posizione di Andrea Di Lorenzo (in Pittura 1994, p. 291) che accetta la collocazione del dipinto dopo il soggiorno romano dell’artista. Per Robertson (1996a, p. 654) la Crocifissione fa parte genericamente dell’opera più tarda del Bramantino: «and its uniformity of style makes any precise chronology very difficult».

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«struttura segreta». Marani suppone infatti che la «maglia ortogonale» sia il principio di costruzione dell’immagine, costituita per aggregazioni di «moduli quadrati» o «frazioni di moduli quadrati». Una volta stabilito che il punto di fuga della Crocifissione si trova alla base della Croce, Marani avverte un’incongruenza prospettica nella forma della mano del giovane piangente sulla destra; individua in questo dettaglio un antico rifacimento e pensa che la mano tesa in avanti tenesse originariamente un oggetto, forse un sasso: da qui la decisione di fare ricostruire diversamente l’arto ma da qui anche l’identificazione della figura con Santo Stefano e – procedendo su un percorso sempre meno garantito – l’idea che la Crocifissione fosse destinata alla chiesa di Santo Stefano a Milano (in alternativa all’«ipotesi di lavoro» sostenuta poco prima: P. C. Marani, in Pinacoteca 1988, p. 140). Il registro dei riferimenti figurativi esibiti dal Bramantino si allarga a dismisura: Bergognone e Zenale per il paesaggio, ma anche il Leonardo della seconda Vergine delle rocce, quella di Londra (National Gallery, inv. NG1093), «finita nel 1509», per gli alberi. Il travaglio esecutivo, articolato in tre fasi, sarebbe prova di lunghi tempi di realizzazione: il Bramantino avrebbe impostato il dipinto al principio del Cinquecento e l’avrebbe ripreso dopo il soggiorno romano, da cui dipenderebbe una serie di presunte derivazioni, da monumenti (il Pantheon o la piramide di Caio Cestio) e sculture (il Laocoonte, scoperto nel 1506, nel ladrone cattivo sulla destra); a questa cronologia in più fasi si atterranno Tomìo (2001, pp. 277-278; 2002, pp. 331, 334-336) e, pare, Villata (2001, p. 158). Charles Robertson (1992) aggiunge la bizzarra idea che la Crocifissione fosse destinata a essere appesa al tramezzo di una chiesa francescana osservante, accoglie la data intorno al 1510, introduce svianti riferimenti a Mariotto Albertinelli e a Cranach e individua nella figura in giallo sull’estrema destra della tela «one of Christ’s enemies, probably the High Priest». Wilson (1992, p. 228), nel registrare la presenza dell’iscrizione trilingue sopra la Croce, accetta una data intorno al 1511. Forti Grazzini (1993, p. 3596), dimenticando la propria vecchia opinione, sembra assestare la Crocifissione verso il 1510-1511; non troppo diversa è la posizione di Andrea Di Lorenzo (in Pittura 1994, p. 291) che accetta la collocazione del dipinto dopo il soggiorno romano dell’artista. Per Robertson (1996a, p. 654) la Crocifissione fa parte genericamente dell’opera più tarda del Bramantino: «and its uniformity of style makes any precise chronology very difficult».

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Fig. 33 Bernardo Zenale, Circoncisione con Sant’Ambrogio, Santa Caterina d’Alessandria, San Baudolino, San Gerolamo e Giacomo Lampugnani, 1510 circa, Parigi, Musée du Louvre (con gli interventi di completamento voluti probabilmente da Giacomo Melzi)

conservata» (Carotti 1901a, pp. 170-171, n. 51; Melzi d’Eril 1973, pp. 81-83). Viene da chiedersi se risalga alla volontà del Melzi la trasformazione del quadro da trittico, come era stato descritto da Santagostino, in una pala a comparto unico, tramite l’inserimento di due listelli verticali larghi cm 3,5: un intervento analogo a quello compiuto dallo stesso collezionista sulla Circoncisione Lampugnani di Zenale (Parigi, Louvre, inv. M. I. 568; per il completamento del polittico, proveniente da Santa Maria della Canonica a Porta Nuova e che sembra già ricordato in casa Melzi da Lanzi 1793, p. 97: Agosti, Stoppa, Tanzi 2011a, pp. 1820, 43, nota 18; figg. 33-34); probabilmente risale a quest’epoca pure l’aggiunta di una fascia lungo il margine superiore, alta circa cm 8,5, con cielo, nuvole e torrioni, oggi invisibile perché coperta dalla cornice. Tra maggio e giugno del 1809 la collezione Melzi, tra cui il Bramantino, è trasferita nel nuovo palazzo alla Cavalchina, l’odierna via Manin, fatto erigere da Francesco Melzi, nipote di Giacomo e dal 1807 duca di Lodi (Carotti 1901a, p. 12; Melzi d’Eril 1987, pp. 27, 29, 78). L’opera è descritta nel raro catalogo della raccolta Melzi: «Cet ouvrage est très-éstimé pour son antiquité, pour la bizzarrerie de l’invention et pour la correction de la perspective […] il est très bien conservé» (Catalogue 1835, p. 5, n. 62). Il dipinto acquista rapidamente un grande credito ed esercita un notevole fascino nell’età del Romanticismo, come è attestato dai giudizi a stampa di Johann David Passavant (1838), che ne apprezza l’illuminazione quasi teatrale (come quella nell’affresco giunto a Brera: cat. 24), l’an-

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Fig. 34 Bernardo Zenale, Circoncisione con Sant’Ambrogio, Santa Caterina d’Alessandria, San Baudolino, San Gerolamo e Giacomo Lampugnani, 1510 circa, Parigi, Musée du Louvre (dopo la rimozione delle aggiunte)

droginia della Madonna, gli angeli apteri, l’enorme rana raffigurante Lucifero…: «Quest’immagine assai singolare ma avvincente ha molto smalto e chiarezza nel colore, il tratto è libero e bello». Tra il 1838 e il 1839 la Pinacoteca di Brera pensa di acquistare la tavola del Bramantino ma poi desiste dal farlo adducendo come pretesto il cattivo stato di conservazione dell’opera (Melzi d’Eril 1973, p. 82). Negli anni in cui ferveva la confusione sull’identità dei Bramanti e dei Bramantini, il quadro Melzi rappresenta un punto fermo per il catalogo di Bartolomeo Suardi – «un pittore discreto, povero nella composizione, ora imitatore ora copista dei suoi contemporanei» – come risulta dal carteggio del 1841 e del 1842 di Giuseppe Vallardi con Giovanni Rosini (Vecchio 2004, p. 203, nota 57). Era stato così anche per Orloff (1823, ii, p. 282), che ritrova nell’opera «un grandiose, une élévation supérieure même à l’époque où il [Bramantino] vivait». Con il nome del Bramantino il dipinto è ricordato a stampa da Felice Turotti in una delle tempestive edizioni italiane del Léonard de Vinci et son école di Rio (1857, pp. 40-41, nota *). In casa del conte Giovanni Melzi il 25 febbraio 1858 Otto Mündler (The Travel Diaries 18551858, p. 199) è colpito da «a very curious picture, called “Bramantino”»: registra la stranezza dell’iconografia («There is nothing of the typical, traditional character»), il «male look» della Vergine e soprattutto è stupito dall’«immense frog (!)». Se si fosse basato solo sui dati di stile, avrebbe considerato l’opera «of the cremonese school»; inutile dire che per il grande conoscitore la fisionomia del

Suardi è alquanto sfocata. Nel settembre 1862 è la volta di Charles Lock Eastlake, a disagio di fronte al quadro, che gli pare «a little like Giovenone»: le figure in primo piano gli sembrano da eliminare per migliorare l’effetto dell’opera (cfr. Penny 1998, p. 286), di cui non è in grado di comprendere l’iconografia; non apprezza lo scorcio delle gambe del Bambino; gli incarnati dei visi – ora rossastri e ora bluastri – gli sembrano un precedente della «tintiness» di Barocci (Poretti 2006, pp. 109110; Avery-Quash 2011, i, p. 599). Il 30 agosto 1863 a Bellagio, in casa Frizzoni, Eastlake vede il San Michele arcangelo di Zenale (ora a Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. Contini Bonacossi 10), allora creduto da Morelli un’opera di Bramante; gli sembra di ravvisare nella raffigurazione del demonio presente in questo dipinto un precedente del «frog-like demon» della tavola Melzi di «Bramantino (Suardi)»: «But this resemblance may be fanciful» (Poretti 2003-2004, p. 124; AveryQuash 2011, i, p. 626). Sono proprio gli appunti di Eastlake che permettono di specificare il passaggio della proprietà del dipinto del Bramantino dal conte Giovanni Melzi al fratello, il duca Lodovico, avvenuto nel corso del 1863, giacché il 6 settembre di quell’anno la tavola è indicata come «now the property of Duke Melzi»; si trova presso il restauratore «Zuchellini». Eastlake attenua le proprie perplessità sull’opera e progredisce nella comprensione dell’iconografia. Il bizzarro fondale architettonico gli sembra il dossale del trono, «composed of towers & battlemented walls»; la capigliatura di San Michele gli appare «like portraits of Giorgione», il panneggio della Madonna

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Fig. 33 Bernardo Zenale, Circoncisione con Sant’Ambrogio, Santa Caterina d’Alessandria, San Baudolino, San Gerolamo e Giacomo Lampugnani, 1510 circa, Parigi, Musée du Louvre (con gli interventi di completamento voluti probabilmente da Giacomo Melzi)

conservata» (Carotti 1901a, pp. 170-171, n. 51; Melzi d’Eril 1973, pp. 81-83). Viene da chiedersi se risalga alla volontà del Melzi la trasformazione del quadro da trittico, come era stato descritto da Santagostino, in una pala a comparto unico, tramite l’inserimento di due listelli verticali larghi cm 3,5: un intervento analogo a quello compiuto dallo stesso collezionista sulla Circoncisione Lampugnani di Zenale (Parigi, Louvre, inv. M. I. 568; per il completamento del polittico, proveniente da Santa Maria della Canonica a Porta Nuova e che sembra già ricordato in casa Melzi da Lanzi 1793, p. 97: Agosti, Stoppa, Tanzi 2011a, pp. 1820, 43, nota 18; figg. 33-34); probabilmente risale a quest’epoca pure l’aggiunta di una fascia lungo il margine superiore, alta circa cm 8,5, con cielo, nuvole e torrioni, oggi invisibile perché coperta dalla cornice. Tra maggio e giugno del 1809 la collezione Melzi, tra cui il Bramantino, è trasferita nel nuovo palazzo alla Cavalchina, l’odierna via Manin, fatto erigere da Francesco Melzi, nipote di Giacomo e dal 1807 duca di Lodi (Carotti 1901a, p. 12; Melzi d’Eril 1987, pp. 27, 29, 78). L’opera è descritta nel raro catalogo della raccolta Melzi: «Cet ouvrage est très-éstimé pour son antiquité, pour la bizzarrerie de l’invention et pour la correction de la perspective […] il est très bien conservé» (Catalogue 1835, p. 5, n. 62). Il dipinto acquista rapidamente un grande credito ed esercita un notevole fascino nell’età del Romanticismo, come è attestato dai giudizi a stampa di Johann David Passavant (1838), che ne apprezza l’illuminazione quasi teatrale (come quella nell’affresco giunto a Brera: cat. 24), l’an-

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Fig. 34 Bernardo Zenale, Circoncisione con Sant’Ambrogio, Santa Caterina d’Alessandria, San Baudolino, San Gerolamo e Giacomo Lampugnani, 1510 circa, Parigi, Musée du Louvre (dopo la rimozione delle aggiunte)

droginia della Madonna, gli angeli apteri, l’enorme rana raffigurante Lucifero…: «Quest’immagine assai singolare ma avvincente ha molto smalto e chiarezza nel colore, il tratto è libero e bello». Tra il 1838 e il 1839 la Pinacoteca di Brera pensa di acquistare la tavola del Bramantino ma poi desiste dal farlo adducendo come pretesto il cattivo stato di conservazione dell’opera (Melzi d’Eril 1973, p. 82). Negli anni in cui ferveva la confusione sull’identità dei Bramanti e dei Bramantini, il quadro Melzi rappresenta un punto fermo per il catalogo di Bartolomeo Suardi – «un pittore discreto, povero nella composizione, ora imitatore ora copista dei suoi contemporanei» – come risulta dal carteggio del 1841 e del 1842 di Giuseppe Vallardi con Giovanni Rosini (Vecchio 2004, p. 203, nota 57). Era stato così anche per Orloff (1823, ii, p. 282), che ritrova nell’opera «un grandiose, une élévation supérieure même à l’époque où il [Bramantino] vivait». Con il nome del Bramantino il dipinto è ricordato a stampa da Felice Turotti in una delle tempestive edizioni italiane del Léonard de Vinci et son école di Rio (1857, pp. 40-41, nota *). In casa del conte Giovanni Melzi il 25 febbraio 1858 Otto Mündler (The Travel Diaries 18551858, p. 199) è colpito da «a very curious picture, called “Bramantino”»: registra la stranezza dell’iconografia («There is nothing of the typical, traditional character»), il «male look» della Vergine e soprattutto è stupito dall’«immense frog (!)». Se si fosse basato solo sui dati di stile, avrebbe considerato l’opera «of the cremonese school»; inutile dire che per il grande conoscitore la fisionomia del

Suardi è alquanto sfocata. Nel settembre 1862 è la volta di Charles Lock Eastlake, a disagio di fronte al quadro, che gli pare «a little like Giovenone»: le figure in primo piano gli sembrano da eliminare per migliorare l’effetto dell’opera (cfr. Penny 1998, p. 286), di cui non è in grado di comprendere l’iconografia; non apprezza lo scorcio delle gambe del Bambino; gli incarnati dei visi – ora rossastri e ora bluastri – gli sembrano un precedente della «tintiness» di Barocci (Poretti 2006, pp. 109110; Avery-Quash 2011, i, p. 599). Il 30 agosto 1863 a Bellagio, in casa Frizzoni, Eastlake vede il San Michele arcangelo di Zenale (ora a Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. Contini Bonacossi 10), allora creduto da Morelli un’opera di Bramante; gli sembra di ravvisare nella raffigurazione del demonio presente in questo dipinto un precedente del «frog-like demon» della tavola Melzi di «Bramantino (Suardi)»: «But this resemblance may be fanciful» (Poretti 2003-2004, p. 124; AveryQuash 2011, i, p. 626). Sono proprio gli appunti di Eastlake che permettono di specificare il passaggio della proprietà del dipinto del Bramantino dal conte Giovanni Melzi al fratello, il duca Lodovico, avvenuto nel corso del 1863, giacché il 6 settembre di quell’anno la tavola è indicata come «now the property of Duke Melzi»; si trova presso il restauratore «Zuchellini». Eastlake attenua le proprie perplessità sull’opera e progredisce nella comprensione dell’iconografia. Il bizzarro fondale architettonico gli sembra il dossale del trono, «composed of towers & battlemented walls»; la capigliatura di San Michele gli appare «like portraits of Giorgione», il panneggio della Madonna

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carico ha posto una ruota di panno sopra il suo capo, il cercine. Nella parte sinistra della scena due uomini stanno lavorando intorno a un tavolo da falegname, provvisto di morsa. Per terra sono appoggiati una mazzetta, un’ascia e due elementi lignei semicircolari, forse parti di ruote. Uno dei due uomini sorride ed è impegnato con una mazzetta e uno scalpello a sbozzare un pezzo di legno concavo; l’altro con una scure da carpentiere intaglia un ulteriore elemento ligneo ricurvo. Alle loro spalle un uomo regge una trave con un braccio, mentre impugna con l’altro la punta metallica di una vanga. Ancora più indietro fa capolino un personaggio che porta la parte metallica di un altro strumento (un’ascia?). Sullo sfondo si vedono due forconi in legno a tre rebbi: uno appoggiato alla parete e uno retto da un uomo con una grossa pancia; questi strumenti agricoli sono raffigurati durante l’ultima fase della loro fabbricazione, quando – dopo essere stati scortecciati – sono inseriti in un telaio ligneo per assumere la caratteristica piegatura. La parte destra della scena è dedicata alla lavorazione del lino: due uomini sono impegnati nella pettinatura e scotolatura dei mannelli di lino, tramite per l’appunto pettini lignei dai bordi zigrinati, impiantati verticalmente su strutture dello stesso materiale, e scotole metalliche, così da separare le fibre tessili da quelle legnose; in primissimo piano stanno le fibre del lino raccolte in mazzetti, che saranno poi filati, e una scotola; due personaggi in piedi assistono all’operazione. In fondo alla scena, all’esterno di quello che pare un cortile, compaiono piccole figure: tra queste, a sinistra, due sono avvolte in mantelli, e, a destra, altre due, un uomo e una donna, trasportano – legata a bastoni – della selvaggina; più a destra un’altra figura reca, una per mano, delle galline e sullo sfondo un uomo regge, con la destra, un lungo bastone.

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carico ha posto una ruota di panno sopra il suo capo, il cercine. Nella parte sinistra della scena due uomini stanno lavorando intorno a un tavolo da falegname, provvisto di morsa. Per terra sono appoggiati una mazzetta, un’ascia e due elementi lignei semicircolari, forse parti di ruote. Uno dei due uomini sorride ed è impegnato con una mazzetta e uno scalpello a sbozzare un pezzo di legno concavo; l’altro con una scure da carpentiere intaglia un ulteriore elemento ligneo ricurvo. Alle loro spalle un uomo regge una trave con un braccio, mentre impugna con l’altro la punta metallica di una vanga. Ancora più indietro fa capolino un personaggio che porta la parte metallica di un altro strumento (un’ascia?). Sullo sfondo si vedono due forconi in legno a tre rebbi: uno appoggiato alla parete e uno retto da un uomo con una grossa pancia; questi strumenti agricoli sono raffigurati durante l’ultima fase della loro fabbricazione, quando – dopo essere stati scortecciati – sono inseriti in un telaio ligneo per assumere la caratteristica piegatura. La parte destra della scena è dedicata alla lavorazione del lino: due uomini sono impegnati nella pettinatura e scotolatura dei mannelli di lino, tramite per l’appunto pettini lignei dai bordi zigrinati, impiantati verticalmente su strutture dello stesso materiale, e scotole metalliche, così da separare le fibre tessili da quelle legnose; in primissimo piano stanno le fibre del lino raccolte in mazzetti, che saranno poi filati, e una scotola; due personaggi in piedi assistono all’operazione. In fondo alla scena, all’esterno di quello che pare un cortile, compaiono piccole figure: tra queste, a sinistra, due sono avvolte in mantelli, e, a destra, altre due, un uomo e una donna, trasportano – legata a bastoni – della selvaggina; più a destra un’altra figura reca, una per mano, delle galline e sullo sfondo un uomo regge, con la destra, un lungo bastone.

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