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1.7 – In-housing Quando i marketer fanno da sé

In-housing Quando i marketer

fanno da sé

Grazie alla sua scalabilità ed efficienza, il Programmatic è ormai un perno fondamentale per tutte le aziende che investono online, e cresce il numero di quelle che hanno deciso di internalizzarne – almeno parzialmente – la gestione. Ma sempre più spesso il fenomeno va oltre il digital advertising, provocando un cambiamento nei ruoli e nelle strutture anche delle agenzie.

Marc Pritchard, Chief Brand Officer di Procter & Gamble, lo aveva anticipato già nel 2018: “Re-inventare l’advertising significa reinventare la partnership con le agenzie, cambiando noi per primi da persone che affidano il brand all’esterno a una mentalità imprenditoriale capaci di controllare l’intero processo di planning”. Dalle parole ai fatti: dopo aver interamente riorganizzato il pool di agenzie media al servizio della multinazionale all’inizio del 2019, alla fine dello scorso anno il manager ha annunciato che “Quasi il 30% dei nostri investimenti media globali è ormai gestito e pianificato in-house”. P&G è sicuramente la più grande, ma tutt’altro che l’unica: sono infatti sempre più numerose le aziende che, stando a quanto rilevato dalla World Federation Of Advertisers, procedono in questa direzione, internalizzando almeno in parte il digital buying automatizzato. Negli ultimi 4 anni il loro numero è quadruplicato: rispetto al 21% degli intervistati (su un campione di 37 multinazionali che investono complessivamente oltre 76 miliardi di dollari in advertising) che nel 2016 utilizzava un trading desk in-house o un modello ‘ibrido’ parzialmente in outsourcing, la percentuale è arrivata quest’anno all’81%. Secondo i dati rilasciati da IAB Usa, ad agosto di quest’anno il 18% delle aziende americane aveva totalmente internalizzato gli acquisti in programmatic, e più Marc Pritchard, Chief Brand Officer di Procter & Gamble

del 50% lo aveva fatto almeno in parte. L’andamento e le percentuali in America Latina sono simili: 16% totale e 49% parziale, mentre il mercato europeo appare da questo punto di vista più avanzato: il 31% dei marketer dichiara di lavorare completamente in-house e il 43% di farlo in parte. Dati almeno parzialmente in controtendenza arrivano invece da IAB Europe: nel report dedicato allle ‘Attitudes to Programmatic Advertising 2020’, pubblicato a settembre, i suoi analisti indicano che il trend sembra muoversi in direzione

1. LA GESTIONE DEL PROGRAMMATIC BUYING IN-HOUSE

Fonte: IAB, Accenture Interactive. Media dei dati USA, Europa (esclusa Gran Bretagna) e America Latina (agosto 2020).

opposta per quanto riguarda gli advertiser che hanno adottato un modello esclusivamente in-house, la cui quota è scesa dal 38% del 2019 al 20% di quest’anno, ed è in parallelo dimunita anche quella delle agenzie che si affidava interamente a un trading desk proprietario, passata dal 66% dello scorso anno al 50% del 2020. Tanto i marketer quanto le loro agenzie sembrano aver intrapreso un percorso simile in direzione di modelli ibridi: per i primi, dal 15% dello scorso anno la quota è salita al 30%; le seconde sono passate in un anno dal 15% al 35%. Nessuna sorpresa sul fronte dei publisher, che quasi all’85% hanno adottato un modello operativo inhouse: il 65% in modo esclusivo, il 24% un modello ibrido. Insomma, I driver per la gestione interna del programmatic da parte di tutti gli stakeholder sono correlati al desiderio di un maggior controllo sui dati e sulle operazioni, oltre che di un maggior ROI: driver che non sono destinati a scomparire e che lasciano intuire che il trend sia destinato a continuare.

UNA VISIONE INTERNAZIONALE

“Parlando con alcuni marketing executive di Unilever, Nestlé e Kaspersky – racconta Cadi Jones, Direttore Commerciale EMEA di Beeswax (ndr: che ha scritto per noi questa sezione del capitolo) –, ho recentemente discusso alcune delle problematiche che che spesso i brand trascurano quando pensano all’in-housing, e sono arrivata alla conclusione che non esista un approccio ‘One Size Fits All’, un modello capace di funzionare in tutti i casi e per chiunque”. Liz Salway, Global Audience Expert di Nestlé, classifica queste sfide secondo 5 aspetti chiave: dati, tecnologia, attivazione, creatività/contenuto ed experience. “Le aziende hanno capito che i loro dati di prima parte sono una risorsa – spiega infatti –, che va capita e fornita ai team di analisi e insight per poi essere rimessi in circolo e migliorare la fase di attivazione”. Un aspetto importante, nota Jones, è la netta differenza di approccio tra marchi digital-first e direct-to-consumer, come Kaspersky o Nespresso, e marchi ‘fisici’: non disponendo di punti vendita proprietari, i brand del Largo Consumo devono

Liz Salway, Global Audience Expert Nestlé

Cadi Jones, Direttore Commerciale EMEA di Beeswax

infatti fronteggiare un problema in più e collaborare con i partner per accedere a tali dati e migliora la comprensione del loro consumatore: “La misurazione è fondamentale – aggiunge Leila Lazreq, Digital Strategy Lead, Homecare di Unilever – per decidere dove investire i nostri budget di marketing, che si tratti di costruzione della marca o di attivazione delle vendite”. La tecnologia – che si tratti di una Data Management Platform (DMP) o di una Customer Data Platform (CDP) di nuova generazione – è indispensabile perché gli inserzionisti concentrati sui propri first party data hanno bisogno poterli interpretare e utilizzare praticamente: molte aziende considerano perciò la possibilità di investire in una DMP proprietaria, che può eventualmente essere collegata direttamente a una Demand Side Platform (DSP), costruendo così ‘un ponte tra MarTech e AdTech’. Ciò garantisce una maggior trasparenza e un maggior controllo, spiega Griff Leader, Head of Comms Planning di Kaspersky: “Possiamo inoltre integrare gli strumenti di trading, di misurazione e di attivazione direttamente nei nostri sistemi, il che ci consente modalità di lavoro più veloci per esempio nei pagamenti ai fornitori, nelle

2. I MODELLI OPERATIVI DEL PROGRAMMATIC BUYING

Fonte: ‘Attitudes to Programmatic Advertising’, IAB Europe (settembre 2020)

Leila Lazreq, Digital Strategy Lead, Homecare Unilever

analisi dei dati e nell’ottimizzazione delle attività. Un rigoroso processo di revisione della pianificazione, gestito insieme ai team di planning e di eCommerce, ci permette inoltre di vedere rapidamente i risultati e di adattare frequentemente i nostri piani a vantaggio delle vendite”. “Non tutte le informazioni si traducono necessariamente o facilmente in attivazioni – osserva però Lazreq –: serve comunque una profonda conoscenza dei media digitali per sfruttare ogni insight. Per questa ragione credo sia necessario lavorare a stretto contatto con la propria agenzia media, fornendo un brief migliore e assicurandosi che abbia accesso a un quadro completo, non solo in merito al piano di comunicazione ma anche in termini di analisi e approfondimenti che gli consenta una visione a 360 gradi del cliente, migliorando di conseguenza anche la advertising experience del consumatore”. Oltre che sui dati, quindi, Unilever si è focalizzata sull’adozione di processi più snelli e agili, assicurandosi che la creatività dei messaggi sia di pari livello rispetto alle tecniche di targeting disponibili: “In Unilever stiamo attraversando un grande processo di digital transformation per dotarci di una cultura digitale e passare da un modello basato sulla comunicazione di massa e la reach, a una comunicazione one-to-one, scalabile e data-driven. È un processo di trasformazione molto rapido, che necessita di un volume maggiore di creatività per il digitale: senza un forte contenuto creativo – nota infatti Lazreq – la pubblicità programmatica non varrebbe un granché. Da questo punto di vista i team della nostra agenzia in-house, UStudio, sono fondamentali nel soddisfare questo bisogno”. Un altro fattore critico emerso dalla conversazione è quello della competenza: “Indipendentemente dalla maggiore attenzione e capacità verso l’automazione – considera Cadi Jones –, mettere le persone giuste al posto giusto e riuscire a trattenerle è, in definitiva, cruciale per il successo”. Persuadere i trader esperti e gli specialisti più qualificati a trasferirsi internamente è tutt’altro che semplice. E una volta superata questa sfida, c’è il rischio che le persone rimangano per così dire bloccate da un pensiero ‘unico’, perdendo così la più ampia esperienza garantita dal lavoro su clienti diversi tipico dell’ambiente di un’agenzia. “Servono tempo, risorse e budget per sviluppare internamente tali capacità – sottolinea Lazreq –, e anche per questo

Griff Leader, Head of Comms Planning Kaspersky

IL ‘CASO’ TIM/HAVAS: UNA PARTNERSHIP CHE CREA VALORE

Sul tema dell’in-housing – programmatico, creativo o media tout court –, i protagonisti del mercato italiano intervistati hanno preferito non sbilanciarsi considerando che nel nostro paese il fenomeno è limitato. Il recente ‘Caso TIM’ offre però interessanti spunti di riflessione. Dopo che nei primi mesi del 2019 aveva deciso di gestire in-house le attività media digitali, in collaborazione con la tech company Myntelligence, a gennaio di quest’anno, su impulso di Luca Josi, Responsabile Divisione Brand Strategy, Media & Multimedia Entertainment, la compagnia telefonica ha avviato infatti un progetto di internalizzazione di tutte le sua attività media, il cui valore è stimato in Italia in circa 50 milioni di euro. Contrariamente alle apparenze, ciò non significa che l’azienda abbia abbandonato totalmente il modello consolidato di partnership con l’agenzia: al contrario, è proprio grazie al contributo di Havas Media che sono state formate le risorse interne dell’azienda prima sulle attività di strategia e planning, e successivamente anche per le attività di buying – per le quali TIM rimane intestatario della decisione finale di acquisto e ne gestisce direttamente il booking. Il progetto prevede inoltre che la collaborazione con l’agenzia media sia ampliato anche su altre aree, in un’ottica di partnership trasparente e duratura volta a massimizzare il valore della comunicazione del brand. “Valorizzare e sviluppare le risorse interne è sempre stato un obiettivo di TIM – ha spiegato in una nota stampa Ambra Stigliani Papaianni, Responsabile Media Agency dell’azienda –, un processo che anche grazie alla preziosa collaborazione con Havas Media ha già dato ottimi risultati per gli aspetti relativi alla strategia e alla pianificazione. Quella che ci si presenta per le attività d’acquisto è una nuova sfida che accogliamo con entusiasmo, e siamo certi che lavorare insieme sarà ancora una volta vincente”. “Quando si parla di internalizzazione è facile pensare che non ci sia un futuro per l’agenzia media – commenta il CEO di Havas Media Stefano Spadini –. Questo progetto dimostra invece che quando si lavora con il comune obiettivo di creare valore, in realtà le opportunità di collaborazione mutano forma e diventano estremamente interessanti, contribuendo alla trasformazione del modello di business delle agenzie stesse, sempre meno dipendente dai volumi intermediati e sempre più orientato alla capacità di fare la differenza per il business dei clienti. Ringrazio TIM per la rinnovata fiducia, sarà un piacere continuare questo percorso insieme”.

Luca Josi, Responsabile Divisione Brand Strategy, Media & Multimedia Entertainment TIM

Ambra Stigliani Papaianni, Responsabile Media Agency TIM

Stefano Spadini, CEO Havas Media

A. LORO (IGPDECAUX) “INTERMEDIARI A RISCHIO IN UN MONDO CHE ESIGE EFFICIENZA”

Quella dell’in-housing è sicuramente una questione molto complessa: in un mondo che cerca spasmodicamente l’efficienza il ruolo degli intermediari professionali è effettivamente sempre più a rischio. Bisogna dire che, negli ultimi anni, non tutti hanno saputo ‘vendersi’ nel modo corretto e difendere la propria professionalità: qualsiasi consulente deve far percepire e toccare con mano il valore aggiunto del suo lavoro, anche in quei casi in cui il cliente non ha magari una competenza sufficientemente approfondita per riconoscerlo. Personalmente resto incline a considerare migliore il modello ‘tradizionale’, e questo non vale solo per le agenzie creative o media, ma anche per le media company: nel nostro caso specifico, per esempio, le aziende di trasporto nostre partner devono poter sempre percepire il valore aggiunto di IGPDecaux nella commercializzazione dei loro spazi. I modelli di acquisto, in ogni caso, variano da cliente a cliente e non cè mai stata una regola unica valida per tutti. Ricordo che anni fa, quando lavoravo in un’azienda di largo consumo, il venditore di Publitalia aveva una scrivania fissa nel nostro stesso ufficio ed era praticamente diventato un collega! Al di là del modello dichiarato e della presenza dell’agenzia media o meno, il piano media è un progetto complesso che parte sempre dalla strategia di prodotto e va messo a punto da un gruppo di persone, del quale spesso fa parte anche l’ufficio acquisti: per le media company come noi, la cosa fondamentale è capire quali sono le figure che prendono la decisione finale e interfacciarsi correttamente con loro.

Alessandro Loro

Head of Innovation and Communication IGPDecaux

si tratta di una strada non adatta a tutte le aziende”. A fronte di tutte queste aree problematiche, ha chiesto Jones ai suoi interlocutori, quali sono i principali vantaggi dell’internalizzare il programmatic? Per Unilever al primo posto c’è la velocità: “Ci siamo resi conto che grazie a U-Studio la creazione di contenuti è solo a una scrivania di distanza dalle priorità commerciali e di comunicazione – testimonia Lazreq –. Sono migliorate la velocità e l’agilità aziendale, che si uniscono a meno sprechi e costi inferiori. Attenzione, però: per noi è un aspetto complementare che si integra con un ampio pool di agenzie. Non ci siamo allontanati da quel modello”. “Avere un team in-house – ribadisce Leader – ci permette di capire più a fondo come la performance sia alla base dei risultati di business. Grazie a un sistema che connette tutte le nostre comunicazioni

digitali e team e canali di vendita altrettanto connessi, possiamo vedere direttamente come i media paid e owned influiscono sul traffico, sulle conversioni e sulle vendite. Monitorare direttamente tutti i touchpoint ci dà un quadro più completo del comportamento dei consumatori”. Per Nestlé come per Kaspersky la questione è strategica: “Occorre comprendere le ragioni fondamentali sul cosa e perché scegliere l’in-house – concordano Liz Salway e Griff leader –. Spesso la scelta è determinata da ragioni di costo, ma avere le competenze in-house significa che le proprie risorse hanno una più profonda conoscenza del prodotto e del brand e possono reagire e allineare più strettamente le attività di planning e buying alle esigenze aziendali”. Qualcuno ha calcolato che nel menù di Starbucks esistono quasi 80.000 possibili variazioni: “Parlare di programmatic in-housing – conclude Cadi Jones – è un po’ la stessa cosa, perché possono esserci molti motivi per portare al proprio interno il programmatic (e non solo) – tanti quanti sono i diversi modi in cui i di differenti canali e media possono essere attivati, gestiti e misurati –, e basta guardare alla varietà di modi in cui i team dedicati ai diversi clienti sono organizzati all’interno delle agenzie per servirli al meglio. La cosa più importante è affrontare la questione da una prospettiva strategica, in modo da poter guidare la propria trasformazione digitale nel modo migliore per ciascuna azienda”.

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