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Misteri irrisolti Modena si tinge di rosso: tanti i casi nella nostra città di delitti senza colpevole S
angue, soldi e sesso. Le tre componenti imprescindibili dei casi di cronaca nera sono questi e i picchi massimi sono i delitti, conditi il più delle volte da almeno due dei tre elementi che contribuiscono spesso a farne un giallo di cui il lettore si sente protagonista, tentando di ipotizzare soluzioni, divenendo così una sorta di Sherlock Holmes. Per averne conferma basta guardare i successi di audience dei programmi in cui si parla di cronaca nera: recente la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per il delitto di Meredith. Saranno veramente loro i colpevoli o c’è un assassino là fuori che brancola indisturbato? Vi sono casi irrisolti nella nostra regione in cui si finisce con l’immedesimarsi e ad appassionarsi alla ricerca di un colpevole. Come ad esempio, gli otto delitti di giovani tossicodipendenti prostitute per procurarsi i soldi della dose quotidiana, assassinate a Modena dal 1985 al 1995. Un serial killer l’autore di questi otto omicidi, tanto da indurre la stampa locale a ribattezzare l’autore sconosciuto come il “mostro di Modena”? Forse non vi è nessun omicida seriale, ma siamo di fronte a otto casi irrisolti. Vale a dire otto assassini. Tra le altre storie di ordinaria follia che hanno tenuto la regione con il fiato sospeso vi è quella di Alessandra Sandri, una bambina bolognese di 11 anni, sparita nel nulla 37 anni fa; di don Amos Barigazzi, parroco nel reggiano, ucciso con una fucilata davanti alla sua canonia; di due famiglie sterminate in Romagna senza un movente. E infine un altro caso sconvolgente: quello di un ragazzo di Rimini ucciso in-
sieme ai suoi pesciolini rossi. L’assassino è stato arrestato 15 anni di distanza dal delitto. Una dimostrazione che se qualcuno avesse la volontà di farlo, molti di questi omicidi ancora in cerca di autore, potrebbero trovarlo. A Modena, poi, c’è chi ha diffuso allarmi bomba sconvolgenti: il 21 giugno 2012 (due volte nell’arco della giornata) telefonicamente; e una volta il Policlinico, il primo agosto agosto, con un pacco con un ordigno senza innesco individuato nei pressi dell’ospedale di via del Pozzo (per intendersi: simili a quello piazzati davanti a Equitalia). Inoltre il 13 agosto, in pieno Ramadan, una telefonata di un’anonima straniera al 117 annunciò alla Guardia di finanza la possibilità di un attentato a una moschea della provincia, senza precisarne il luogo. E un altro serio caso risale al 30 agosto dello stesso anno al parco Amendola: a mezzanotte una telefonata anonima in questura segnalò la presenza di più ordigni nell’area affollata da centinaia di giovani per il festival dei buskers. A tu per tu con la nota criminologa Roberta Bruzzone, protagonista di tantissime trasmissioni tv in cui racconta il suo punto di vista scientifico su diversi casi, per la maggior parte irrisolti “Busco? È innocente” Abbiamo incontrato Roberta Bruzzone, criminologa di fama, docente presso l’Athenaeum Gentium “PRO PACE” (universita’ privata pontificia con varie sedi nel mondo) in materia di Psicologia Investigativa e Scienze Forensi, consulente tecnico forense di Telefono Rosa nell’ambito di casi di violenza domestica, violenza sessuale, di stalking e di omicidio, per raccontare come mai, dal suo punto di vista, Raniero Busco, primo indiziato per l’omicidio Cesaroni, era decisamente innocente. “Si, l’ho sempre detto: Raniero Busco è innocente e la sua estraneità nell’omicidio Cesaroni era decisamente evidente fin dagli atti del processo di primo grado. – spiega la Bruzzone Dopo aver esaminato l’immensa mole di carte prodotte dall’indagine sul delitto di Simonetta Cesaroni, purtroppo l’unica considerazione possibile è stata la seguente: c’è ancora un feroce assassino in libertà che molto difficilmente ormai pagherà per l’atrocità che ha commesso. E’ per questo che ho aperto il capitolo dedicato al caso con una celebre frase
di Sherlock Holmes particolarmente calzante considerata la situazione: “È un errore capitale teorizzare prima di avere i dati. Senza volerlo si cominciano a distorcere i fatti per adattarli alle teorie, invece di adattare le teorie ai fatti… La difficoltà consiste nel separare l’intelaiatura dei fatti – dei fatti assolutamente innegabili – dagli abbellimenti dei teorici”. Ma a colpirmi all’epoca della condanna di Busco furono le motivazioni della sentenza a 24 anni di reclusione. Da una prima lettura emergeva chiaramente come fossero rimasti davvero moltissimi (troppi) i quesiti a cui la sentenza di condanna non aveva potuto/saputo fornire una risposta affidabile e soddisfacente. Ma vi era di più. Emergevano infatti una serie di vizi formali e sostanziali che minavano sin dalla base le presunte “prove scientifiche” e, in particolare, gli esami di natura genetico-forense. Senza contare che, in maniera a dir poco sconcertante, non erano state tenute neppure in minima considerazione le tracce ematiche di gruppo A ritrovate in diversi punti della scena del crimine e negli altri ambienti dell’appartamento teatro dell’omicidio. E che possa essersi trattato del sangue dell’assassino è quanto mai plausibile, soprattutto in considerazione della dinamica dell’aggressione (durante la quale è più che probabile che l’offender si sia ferito, seppur superficialmente, ed abbia conseguentemente sanguinato) e del fatto che sia Busco che Simonetta Cesaroni sono di gruppo zero….e il gruppo sanguigno non cambia nel corso degli anni (contrariamente a quanto qualche pseudo esperto senza vergogna ha tentato goffamente di far credere dopo l’esito della CTU disposta dalla prima Corte d’Assise d’appello di Roma, che demoliva i principali capisaldi dell’impianto accusatorio di primo grado….). Nella vicenda di via Poma c’è il presunto morso sul seno, che alla fine si è dimostrato non essere un morso bensì una lesione di ben altra natura. E poi c’è la questione controversa della consulenza tecnica biologica che aveva prodotto risultati decisamente ambigui (al punto che alcuni dei CTP nominati in primo grado dall’accusa si rifiutarono di sottoscrivere il lavoro effettuato da altri colleghi in seno allo stesso collegio e non riconobbero come valide le conclusioni a cui erano giunti)” conclude Bruzzone.