Sassuoloaffari829

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Centinaia di cittadini, sensibilizzata dopo lo stop al funzionamento del luogo di culto in via Cavour, sostengono ‘virtualmente’ i musulmani

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a chiusura del centro islamico di via Cavour ha spinto numerosi cittadini a fondare una pagina face book per sostenere l’esistenza di una moschea a Sassuolo, come diritto irrinunciabile di tutte le persone ad avere un luogo di culto. “Una moschea a Sassuolo. Perché no?” questo il nome del profilo fb tantissimi “mi piace” – oltre milletrecento - e tantissimi giungono da giovani italiani. Per promuovere la pagina, tante persone ci hanno messo la faccia, come si dice. Ogni persona che ci vuole sostenere posa con il cartello con scritto “Nella Sassuolo che vorrei, un luogo di culto per tutti” e poi posta la foto”. Tra chi ci ha messo la faccia c’è anche il giovane giocatore del Sassuolo calcio Yussif Chibsah, assiduo frequentatore del

centro prima e dopo la chiusura, ma anche tanti amici sassolesi. Nel frattempo il centro islamico di via Cavour aspetta di ottenere il via libera alla riapertura. In questi giorni i musulmani che si trovavano lì, pregano in strada. Quando c’è bel tempo si trovano al Parco Amico. Il venerdì ci sono centinaia di fedeli e si organizza una funzione religiosa che si ripete in più orari: prima dalle 12.30 alle 13 30, poi dalle 13 alle 13.30. Quando non piove, al Parco Amico si prega dalle 12.45 alle 13.20 dato che lo spazio non manca. Al Parco Amico il ritrovo è tranquillo: non si sono mai creati problemi, e ogni volta che i musulmani si radunano per pregare ed esercitare il proprio rito religioso le forze dell’ordine vengono avvertite dei raduni per il culto islamico.

Il criminologo Massimo Picozzi racconta la sua carriera, a tu per tu con i casi più scottanti d’Italia

Delitti irrisolti?

Dove c’è meno pressione investigativa

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assimo Picozzi è un docente, chirurgo, psichiatra e criminologo italiano, autore di numerosi libri oltre che autore e conduttore di trasmissioni televisive riguardanti fatti di sangue e serial killer. Picozzi è considerato una delle massime autorità nel campo della criminologia: gli abbiamo domandato di parlarci di qualche caso irrisolto e di qualche caso per il quale, invece, è stato ritrovato il colpevole per capire qual è il suo punto di vista. Prof. Picozzi, lei si è occupato a lungo del caso Izzo, ossia l’assassino del Circeo che, uscito di galera in semilibertà, dopo trent’anni, nel 2005, ha ammazzato altre due donne… “Quelli come Izzo sono dei manipolatori. Aveva convinto tutti che era cambiato. E poi c’è la legge: dopo 25 anni di carcere acquisisci il diritto alla semilibertà. Il problema è che era stato inserito in una struttura a occuparsi di prostitute e transessuali. Diciamo che i magistrati hanno bisogno di consulenti più esperti. Alcune patologie criminali non sono ancora curabili, quindi bisognerebbe attrezzarsi: sorveglianza conti-

nua, obbligo di firma frequente, localizzatori… La maggior parte degli assassini, anche se malati, hanno sempre la possibilità di scegliere se commettere o no un delitto. Tranne rari casi: Davide Antonelli, il diciannovenne che nel 2004 ha preso un treno da Milano è sceso a Brindisi e ha ammazzato la nonna con novanta coltellate, aveva una patologia gravissima. Non aveva capacità di intendere e di volere rispetto alle proprie azioni. I serial killer Donato Bilancia, Gianfranco Stevanin e Michele Profeta, invece, sono stati tutti ritenuti responsabili dei loro crimini”. Come ha iniziato ad occuparsi di criminali? “Subito dopo la laurea in medicina. Accadde per caso: andai con un amico a fare una partita di calcio in un carcere: liberi contro detenuti. In quell’occasione il direttore del carcere di massima sicurezza di Busto Arsizio mi chiese se volevo lavorare da lui come responsabile sanitario e accettai. Durante quegli anni ho imparato tutti i dialetti d’Italia. E ho cominciato ad avere a che fare con i delinquenti: il boss mafioso Angelo Epaminonda, detto il Tebano, i terroristi palestinesi dell’Achille Lauro… Renato Vallanzasca. Dopo il lavoro in carcere, sono stato ‘interno’

in ospedale per più di dieci anni. Nel 2000, durante una conferenza di Ruggero Perugini, il primo capo della Squadra anti-mostro di Firenze, ho deciso di propormi per collaborare con l’Unità analisi crimini violenti”. Il primo caso di cui si è occupato sono state le tre ragazzine di Chiavenna che uccisero suor Laura Mainetti. “La cosa che mi impressionò di più fu la giustificazione che diedero all’omicidio: erano annoiate, non ce la facevano. Nei gruppi di ragazzi la sensazione di essere impantanati in un blocco evolutivo e di poterne uscire con un atto quasi magico è frequente. Un ragazzo da solo difficilmente farebbe certe cose. Il gruppo toglie raziocinio. Se poi alcuni giovani sono abituati alla violenza in famiglia… La frontiera generazionale da studiare oggi, comunque, è quella virtuale”. Ci sono delitti che si trascinano per lungo tempo, come quello di Cogne… “Se la signora Franzoni avesse ucciso il figlio a Milano, dopo ventiquattro ore sarebbe finita in carcere per l’omicidio del figlio. E non ci sarebbe stato nessun mistero di Cogne”. È il parere di Massimo Picozzi, psichiatra e criminologo. La provincia rimane di più nella memoria degli italiani non perché ci sono più omicidi nei borghi, ma perché la polizia dei piccoli paesini ha meno mezzi per condurre le indagini: “Un caso di cronaca per diventare significativo deve restare insoluto per alcuni giorni”, ribadisce Picozzi: “Ci deve essere un mistero. E dov’è che questi delitti rimangono un mistero? Dove c’è una pressione investigativa minore”.


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