Mali minori
Luigi Belli e Guido Scarabottolo Chiesa di San Pietro in Valle, Fano
Mali minori
Luigi Belli e Guido Scarabottolo Chiesa di San Pietro in Valle, Fano Comune di Fano
Una delle più belle chiese barocche delle Marche, San Pietro in Valle, voluta dai Padri Filippini agli inizi del Seicento, che ha contenuto dipinti di artisti come Guido Reni, Antonio Viviani, Simone Cantarini, Sebastiano Ceccarini e Gian Francesco Guerrieri, è stata restituita di recente alla fruizione pubblica, dopo un lungo e lento lavoro di restauro. Alle bellezze storiche della ex chiesa, fra stucchi, decorazioni e ornamenti, potevano avvicendarsi opere d’arte della nostra contemporaneità? L’interrogativo è stato sciolto facendo diventare San Pietro in Valle un prezioso contenitore culturale. La sfida è stata raccolta nell’estate 2017 da Guido Scarabottolo, illustratore e grafico, con Mali minori, una esposizione di possenti e singolari figure in ferro su cui si innestano cuori, intestini, arterie in ceramica dai colori sgargianti di Luigi Belli il cui contrasto riflette quello della dimensione spaziale della chiesa stessa. Questa intensa operazione, insieme all’esposizione di disegni nella moderna Mediateca Montanari, dello stesso Scarabottolo, mostrano come contenitori così diversi e distanti nel tempo possono essere preziosi supporti ed elementi di dialogo con l’arte di oggi. Massimo Seri Sindaco Comune di Fano
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Il buon esito dell’incontro con Guido Scarabottolo, Luigi Belli e con la Galleria l’Affiche di Milano, per la realizzazione di una mostra nella nostra città, ebbe come decisiva complice la chiesa di San Pietro in Valle da me proposta come “site specific” per l’allestimento. La monumentalità dell’insieme, la ricchezza degli apparati, unitamente alle lacune lasciate dai dipinti originali, da tempo migrati in Pinacoteca, sembrò da subito il contesto ideale per il pieno sviluppo di quanto già iniziato a Milano dagli stessi artisti, con un elemento in più: il valore aggiunto di un contenitore non certo neutrale, concepito da altri artisti ed in altra epoca. Lo stimolo, dunque, di lavorare non solo sulle opere ma anche sul rapporto con un testo esistente completandone, se possibile, “l’illustrazione” o reinventandolo. Così le sagome delle figure umane, animali ed angeliche, ritagliate nel ferro e completate da magnetiche ceramiche policrome di organi umani e apparati vitali simboli di preghiere esaudite, si sarebbero confrontate con i santi, i profeti e gli angeli musicanti di San Pietro, in un dialogo carico di suggestioni e di rimandi. A mostra allestita, possiamo dire che l’operazione sia perfettamente riuscita. Vantaggi della contaminazione. Ne sono prova le splendide immagini realizzate da Centrale Fotografia per un catalogo che, oltre a documentare sapientemente tutta la straordinaria efficacia di un esperimento artistico fortemente ispirato, avrà con la sua diffusione anche il merito di far conoscere uno dei luoghi più belli ed affascinanti del nostro territorio. Stefano Marchegiani Assessore Cultura e Turismo Comune di Fano
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Cecilia Prete Nascosti tra barocco e contemporaneo Tra le sagome metalliche e antropomorfe di Guido Scarabottolo, che i colorati frammenti anatomici in ceramica di Luigi Belli infiammano e lo spazio barocco della chiesa di San Pietro in Valle, dalle pareti oggi spoglie dei dipinti originari, che in questa occasione le accoglie, un nesso sicuramente c’è. L’ambiguità delle immagini da costruire o decostruire quasi fosse un puzzle, lasciando spazio all’interpretazione di chi le guarda e che i due artisti presentano come si trattasse di ex voto, sostituendo alla serialità della produzione artigianale tipica di tali oggetti l’originalità del pezzo unico, colma, in questa occasione, le nicchie delle cappelle un tempo destinate ad accogliere i dipinti di committenza privata che le altolocate famiglie di Fano hanno offerto alla loro città, oggi quasi tutti raccolti all’interno della Pinacoteca Civica per ragioni conservative. Ai suoi abitanti la storia di San Pietro in Valle è nota da tempo: consacrata nel 1617 e finanziata in buona parte da padre Girolamo Gabrielli, membro di una nobile casata fanese, la chiesa viene eretta come sede della giovane comunità dei padri oratoriani, sul modello a navata unica e cappelle laterali della chiesa di Santa Maria della Vallicella di Roma, affidata sin dalla fine del Cinquecento alla congregazione romana che si raccoglie attorno a Filippo Neri. L’edificio sacro di Fano, tutto permeato di spiritualità filippina, diretta, comunicativa e operosa attraverso azioni caritatevoli rivolte all’intera comunità, diviene nell’arco di circa un secolo il luogo destinato ad ospitare i dipinti appositamente commissionati per gli altari in jus patronato dei nobili fanesi che, quasi in competizione tra loro, si rivolgono ad alcuni dei maggiori pittori del momento e raccolgono in un unico spazio gli esempi più alti e vari della pittura di tutto il Seicento. Tra gli stucchi della preziosa cornice decorativa che avvolge l’interno della chiesa, convivevano tanto il linguaggio sentimentale e controriformato dei barocceschi negli affreschi della volta di Antonio Viviani, con le Storie dei Santi Pietro e Paolo (tutt’ora in loco), e nelle tele di Alessandro Vitali per la cappella Marcolini, quanto quello classicista di matrice bolognese e romana rappresentato da Guido Reni nell’Annunciazione e nella Consegna delle chiavi a San Pietro e quello del suo allievo/rivale Simone Cantarini, nella tela con San Pietro che risana lo storpio. Ancora, le cappelle della chiesa ospitavano opere di Matteo Loves, Lorenzo Gardieri, Luigi Garzi, Guercino (con un intenso San Giovanni Battista nel deserto requisito dai napoleonici, attualmente a Montpellier) e Giovan Francesco Guerrieri. Tre tele, queste ultime, eseguite per la cappella Petrucci dedicata a San Carlo Borromeo, altro paladino degli oratoriani, che il caravaggesco Guerrieri racconta con toni narrativi meno solenni e quasi quotidiani - ben esemplificati dalla bisaccia del pellegrino in primo piano nel dipinto con San Carlo e Antonio Perucci, dove il nobile committente si fa ritrarre lacero e penitente inginocchiato di fronte al santo - vicini a un cattolicesimo di matrice popolare, che fa delle immagini uno strumento didattico, accentuandone la componente espressiva e realistica. 15
In modo analogo appartengono alla sfera della religiosità e della devozione popo-
lare gli ex voto portati in dono alle chiese e ai santuari, sin da tempi antichissimi, in riconoscimento di una grazia ricevuta per un pericolo scampato, un male guarito, un beneficio ottenuto, motivando così l’accumularsi di raffigurazioni dipinte o in cera, legno, marmo, terracotta, metalli preziosi con sagome di parti anatomiche per chiedere al santo taumaturgo soccorso per la parte del corpo malata o sanata per miracolo: sono braccia, mani, gambe, e soprattutto cuori in lamina argentata. Evocati dalle opere di Belli e Scarabottolo, questi oggetti si trasformano in silhouette slanciate e asciutte, immobili e frontali, dove metallo e ceramica coloratissima (bocche, nasi, occhi, intestini, cuori, vene…) giocano a creare nuove forme, in un connubio di varianti simboliche e interpretative che non contraddicono i presupposti dei due artisti, aperti agli imprevisti del caso. Schiacciati contro le pareti delle cappelle, dentro le ricche cornici in stucco, si alternano sagome di uomini con piccole teste che sorreggono oggetti o animali stilizzati esageratamente grandi e figure umane capovolte; uomini dalle braccia alzate, come ladroni crocifissi senza croce, inseriti ai lati del suggestivo Crocifisso ligneo seicentesco di Pietro Liberi; un San Sebastiano trafitto da un intreccio inestricabile di frecce, e nel presbiterio, ad affiancare la pala d’altare con la Consegna delle chiavi a San Pietro di Carlo Magini, che sostituisce l’originale di Guido Reni oggi al Louvre, angeli dalle ali gigantesche, umanizzati da occhi, orecchie, cuori e apparato circolatorio inseriti con apparente casualità. E parallelamente tutto questo richiama gli attributi iconografici dei santi martirizzati, dalle frecce di San Sebastiano, invocato contro la peste, agli occhi che Santa Lucia mostra in un piattino, sulla scia di consolidate credenze popolari. Al centro della chiesa, poi, è collocato un Centauro, riferimento alla mitologia classica, fantasma pagano che discretamente occupa un luogo sacro e che per il suo corpo metà umano e metà equino viene tradizionalmente interpretato come la parte selvaggia e ferina in contrapposizione al raziocinio e alla sapienza dell’essere umano. Un percorso vario e stimolante, quello che si snoda tra gli spazi di San Pietro in Valle, attraverso il quale presente e passato colloquiano, sorprendendoci nel riportare un guizzo pulsante di vita in una delle più importanti chiese di Fano, proposta sin dal suo costituirsi come luogo - crocevia di esperienze spirituali, artistiche e culturali, in un felice connubio di linguaggi diversi, che ancora oggi si perpetua.
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Beatrice Gaspari Intervista a Guido Scarabottolo Come è nata l’idea di Mali minori? Fano ci piace molto, e avevamo pronta, in parte, la mostra: dopo Luogo comune avevamo lavorato in avanti, con sagome e pezzi nuovi. Poi è arrivata la notizia che si poteva usare San Pietro: la presenza delle poche cose rimaste sembrava stimolante, le cornici vuote chiamavano. Le sagome di ferro? Inizialmente avevo pensato a supporti più astratti, come vassoi, piatti, mani a conca. L’idea era quella di una disposizione scientifica dei pezzi. In realtà, poi, l’astratto non mi piaceva troppo e tradire l’anatomia si è rivelato l’atto più divertente ed espressivo. I pezzi nuovi? La capra, la squadra… Per la squadra mi sono ispirato alle croci arredate con strumenti da lavoro degli artigiani, un uso popolare molto diffuso soprattutto in Umbria. La capra, non so da dove venga. È come se il sottostrato religioso fosse affiorato per caso? Le figure si prestavano a riferirsi a un certo tipo di religiosità quasi pagana. Il grande angelo con le alucce di Disegni di ferro è indicativo da questo punto di vista: è evidentemente impotente, le ali atrofiche non potranno mai spostare quella figura massiccia. Da dove vengono? Se un mio disegno mi interessa, ne faccio una figura vettoriale. Quando ho avuto la possibilità di tagliare del ferro a controllo numerico ho pescato nel repertorio. Spesso si tratta di figure impossibilitate a svolgere il proprio ruolo: uomini senza testa, senza cuore. Centauri privati delle gambe. Lavoravo un po’ per divertimento, senza eccessive aspettative dal punto di vista del risultato di critica o pubblico. Reazioni? Alla prima mostra, Disegni di ferro, le mie figure hanno scatenato interpretazioni che per me erano abusive (ma in realtà abusive non sono mai): molti mi hanno confidato che si sentivano rassicurati da quelle presenze. In passato avevi già fatto sculture? La caffettiera di alluminio, una fusione in terra. La caffettiera napoletana aveva una forma sensuale che mi piaceva, e poi bevevo molto caffè in quel periodo, perché mi capitava di lavorare di notte. Mai fatto mostre a quattro mani? Ho fatto moltissime collettive. Questa è una vera mostra di coppia, ma ho sempre lavorato con gli altri. Non mi spaventa: penso che quello a cui si tende sempre lavorando sia costruire delle relazioni. L’angelo di ferro, in questa prospettiva, che le ali siano corte o grandi tanto da risultare scomode, recupera in pieno la sua funzione tradizionale di mediatore. Il tuo rapporto con le mostre? Mi piace che i cataloghi siano l’ultima parte di una mostra, che abbiano una loro auto29
nomia. In Tempo perso, molte delle immagini pubblicate non erano esposte. Ora ho in
programma una mostra a Castiglione delle Stiviere. Volevano dei disegni, ho proposto delle fotografie. Ci hanno pensato un po’, poi hanno accettato. Non fotografavo dagli anni ’80. I disegni per la Commedia? Mi sono molto divertito, come anche con quelli per Viaggio in Islanda. Li ho realizzati con strumenti che non toccavo da trent’anni: ho scelto pennelli grossi e di cattiva qualità, che facessero un po’ quello che volevano. Anche il medium che ho usato, l’inchiostro per timbri, era abusivo: avevo comprato in Germania, per un altro lavoro, un litro di inchiostro per ognuno dei quattro colori di base. Ora ne ho abbastanza per il consumo annuale degli abitanti di una città come New York. Preferisci le tue figure in grande o in piccolo? Ho visto che i miei disegni funzionano molto bene in grande e in piccolo. Mi piace fare delle cose molto grandi, ogni tanto. Durante l’inaugurazione di Wish, alla Galleria l’Affiche, a fine 2015, su una parete era proiettato il pescatore, altissimo. All’Expo, era alto sei metri, in lamiera di ferro. Una sera che Achille Mauri ha invitato anche me a una cena in onore di Safran Foer, la testa di vitello che avevo disegnato per la copertina del suo libro era proiettata, gigantesca, su una parete di casa. Ci ha sorpreso. Le figure che disegni ricordano te, nella postura. Te l’hanno detto spesso? No, ma può essere. Gli illustratori tendono a riprodursi sulla carta. Mi aveva colpito, una volta, sentirti raccontare di avere a periodi mangiato esclusivamente radicchio crudo, sfruttando la radice come manico naturale per sciacquarlo sotto il lavandino. Ci leggo l’essenza della tua poetica. Sbaglio? È un’attitudine. I progetti umani sono sempre viziati da schematismi di ragionamento, mentre in natura ci sono a volte cose già perfette: quando mi capitava di trovare dei pezzi di legno, con pochi colpi di coltello li trasformavo in balene. Poi ho cominciato a non toccarli più, mi sembrava inutile e anche un po’ forzato modificarli per dare loro un senso. Sono belli così, e un senso ce l’hanno già. Bisognerebbe farne una mostra.
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Beatrice Gaspari Intervista a Luigi Belli Tu, in bianco e nero, tra Omero Bordo e Sebastian Matta, in un laboratorio di Tarquinia. La fotografia è del 1980. Avevi dodici anni, ed eri serissimo. Il laboratorio era quello di Etruscu Ludens. Tutto è partito da lì: un posto dove confluivano personalità di tanti tipi, a cominciare da Matta, che quello spazio l’ha voluto fortemente. Ci permeava un’idea utopica e corale di lavoro, una bella atmosfera che ho ritrovato anni dopo, a Milano, in galleria. Da sempre lavori per cicli. Come è nata l’idea degli ex voto? Gli ex voto si capiscono meglio partendo dal principio. La mostra Divertite terre, alla Galleria l’Affiche, nel 2003, era ancora legata a una ricerca di carattere essenzialmente formale, legata alle cromie, alle forme. Alla mostra successiva (Spazi presi, 2007), una sorta di cornice in ceramica permetteva di giocare in uno spazio contenuto, che funzionava bene come confine, come limite stimolante. Perché hai abbandonato quel progetto? Ho dato più spazio alle idee: le superfici degli Spazi presi erano vincolate alle loro dimensioni limitate. A un certo punto mi è mancato il terreno per sperimentare, e sono andato avanti. Inventare come dei grandi pallottolieri (Madrigali, 2013), dove elementi geometrici di varie forme e dimensioni si potevano muovere in orizzontale o in verticale, mi ha permesso di superare il problema della staticità. Lo scatto che ti fa muovere verso la ricerca successiva è tutto interiore, o le influenze culturali contano? Contano sempre. Le sculture di Tinguely e di Niki De Saint Phalle che vedo tutti gli inverni nel Giardino dei Tarocchi a Capalbio, dove ho un incarico da restauratore, stanno lavorando da tempo e in maniera continua come suggerimento inconscio. Il risultato è l’esplosione di colori, l’idea ludica di sperimentzione, presente nei Madrigali e poi negli ex voto. Mi ispirano anche altri grandi, naturalmente: Melotti, Fontana... Perché senti l’esigenza di cambiare spesso? Un lavoro deve aggiungere qualcosa al mio processo creativo, altrimenti per me diventa noioso. Flaminio Gualdoni aveva colto questo aspetto: aveva notato come in ciascun ciclo di lavoro concluso, io lasciassi aperta una parentesi, che lui leggeva come una promessa. Torniamo agli ex voto. Nel novembre del 2015 arrivai a Milano con in valigia delle dita, una manciata di occhi… Avevo iniziato a lavorare sugli ex voto come idea per un progetto nuovo, dopo quello dei Madrigali. Si trattava di qualcosa di legato alle mie zone, che hanno carattere fortemente archeologico. Stavano allestendo la mostra di Guido Scarabottolo (Wish) alla Galleria l’Affiche, e hanno colto subito la forza di questo lavoro, per quanto fosse in erba e ancora non se ne capisse la fruibilità. Guido attaccò per gioco, con un magnete, un ex voto a una sua sagoma di ferro. Mi si avvicinò e disse: “Facciamo un lavoro insieme?” Era la tua prima mostra a quattro mani? 33
Sì. Guido ed io abbiamo dialogato bene: partendo dagli ex voto mi sono gradualmente
concentrato sulle mere anatomie, sugli apparati circolatori, sul cervello. Ho preso in mano delle dispense mediche. Una visita a San Bernardino alle Ossa si è rivelata decisiva: appena tornato a casa ho cominciato a lavorare su crani, costole, femori, che inizialmente non erano nel progetto. I colori erano quelli, brillanti, che avevo assorbito a Capalbio. Ho creduto da subito in questa avventura collettiva: quello che si riesce a creare nella contaminazione delle idee dà risultati incredibili. Cosa ti ha lasciato questo ennesimo ciclo di lavoro? Nei Madrigali, gli elementi scultorei già si muovevano lungo le guide di acciaio, ma ora, in Luogo comune prima e in Mali minori adesso, le parti anatomiche che ho creato si dislocano letteralmente nello spazio, grazie ai magneti: non hanno più confini. La pesantezza di prima, che era un vincolo legato agli aspetti tecnici e tecnologici del materiale che ho scelto, è stata completamente scardinata. E a livello di idee? I corpi di Guido si sono riappropriati degli elementi anatomici che mancavano loro, e viceversa teschi, ossa, cuori, orecchie, partiti come ex voto, hanno trovato una più giusta sede in queste sagome. Ma l’anatomia non è stata ricomposta: piuttosto risulta ripensata, messa continuamente in discussione, perché spazia tra le infinite possibilità di collocazione dei pezzi. Nell’intervista video che hai rilasciato per Sky Arte, dicevi che nel lavoro ti senti un contadino, più che un artista. Perché? Nulla di aulico, non mi riferivo al rifiuto dell’ambiente metropolitano. Semplicemente, sono uno che lavora la terra, e come tale sono legato alle condizioni, ai flussi delle stagioni. Se piove, tutto rallenta. Se d’estate non ho preparato i pezzi, come il contadino prepara il campo, in novembre non posso fare un progetto, perché sarà umido, e il lavoro non si asciugherà.
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Beatrice Gaspari Ossa, teschi, cuori e disegni di ferro In due conversazioni separate con i due artisti ho affrontato i temi di questa mostra Mali minori. Un’analogia nelle loro risposte mi ha colpito: poco interessati all’esito che avrebbe avuto il lavoro, erano invece tutti e due molto attratti dalle relazioni che la preparazione e poi il momento stesso della mostra avrebbero scatenato. Gli organi umani impastati e cotti da Luigi Belli avevano chiamato il progetto. Frutto di una sua ennesima, intensa sperimentazione da ceramista su colore e forma, erano affiorati in una conversazione con Guido Scarabottolo. Avevano per bocca dell’autore dichiarato la ferma volontà di esprimersi nella carica sacrale di ex voto. Gli uomini e le donne senza testa di Scarabottolo camminavano già da tempo: rifiutati da una trasmissione televisiva a motivo della quale avevano visto la luce, si erano aggirati a lungo per il suo studio milanese. Uno, con un costume tribale da pescatore, era cresciuto fino a un’altezza di sei metri e aveva sovrastato l’Expo 2015. Così a Milano organi e corpi sono apparsi, insieme, nel dicembre del 2016, sfoggiando una sfacciata autonomia da figli diventati grandi, alla Galleria l’Affiche di Via Unione. Un titolo aperto: Luogo comune. Nella casualità ascientifica del posizionamento, consentita dalle calamite, è stata da più d’uno letta la parte più interessante del lavoro: in alcune statue gli organi, di colori accesi, figuravano come ornamenti, collane. Pulite le linee dei pezzi, ma un omaggio alla ricchezza barocca nelle combinazioni. Non si è visto il piacere beffardo di chi, forse di notte, ha cambiato posto a delle labbra rosse e ne ha fatto una vagina. Allora questa relazione tra gli autori e poi fra i loro lavori può essere un emblema dell’arte: un gioco, pezzi che usciti dalle mani degli autori vagano per conto proprio, e finiscono nelle mani di altre persone. Nella chiesa di San Pietro in Valle a Fano, le relazioni cambiano ancora: la presenza delle poche cose sacre –e l’assenza di molte di esse, testimoniata da cornici vuote che chiedono di essere riempite– attrae, ed ecco perché la squadra si amplia: i pezzi di Belli si fanno più numerosi: intestini blu, fegati policromi, cervelli gialli. E poi la religiosità comunque sobria di San Pietro chiama a raccolta anche altre figure curiose, addirittura una capra; uomini con in testa strumentazioni da artigiani, che si rifanno ad antichi crocefissi; amanti dai crani saldati indissolubilmente. La religiosità arcaica, che attinge a un serbatoio semipagano, in Italia ha radici profonde. Gli ex voto scaturiti dalle mani di Belli, i primi responsabili della relazione da cui è nato il sodalizio, vengono da lì. Questo loro ritornare in chiesa potrebbe sembrare naturale: il luogo più adatto. Eppure risulta ancora inaspettato, selvaggio, ingovernabile. Tutt’altro che pacato, è destabilizzante, perché quei corpi e quegli organi hanno una storia autonoma e grave alle spalle. Hanno un’allegria forse sfrontata nel colore, ridisegnano un luogo che è insieme nuovo e pieno di storia. Catturano lo sguardo. Nell’autonomia ostinata di corpi che levano al cielo braccia troppo lunghe per non commuovere, e di capre che, impotenti, mostrano visceri blu, si legge l’imprevedibilità delle vite umane. Sacra è la nostra vita di ogni giorno. Sacri sono i 37
nostri corpi impazziti che intrecciano storie.
Umberto Fiori Milano Novembre 2016
Amen.
Eccolo il nostro ossame duro, arido -mascelle, femoriche porteremo di là. Ecco i nostri frammenti. Ricomponili tu che guardi, se puoi, nell’intero che un giorno furono.
Parti sanate offriamo, verniciate dal miracolo: gialle, blu, rosse. Cuori in mano, cuori in gola o nella coscia. Schiere e schiere di cuori, cuori neri nel petto, cuori d’acciaio, folle di ghirigori intestinali, ali spiegate, orecchiutissime ali. Rechiamo arterie a grappoli, a tracolla.
Offriamo qui, per grazia ricevuta, mani a palme spianate e aperte: Alt! Un momento! Pietà! Salve! Salute! Mani vuote, senza coltelli. Dita candite dal voto, pallide, pure. Manciate offriamo, foglie, denti, cervelli, crani appesi a un’ombra di cavalcatura come caciocavalli.
Luigi Belli Tarquinia, 1968. Impara a fare ceramica da ragazzo nel laboratorio Etruscu Ludens aperto da Sebastian Matta a Tarquinia a metà degli anni ‘70. Nel 2017 è stato uno dei quattro autori della mostra all’Auditorium San Pancrazio, che ne ha documentato la storia. Nel 1987 si diploma come Maestro d’Arte Applicata presso l’Istituto per la Ceramica di Gubbio e, dal 1992 al 1994, frequenta l’École de Beaux Arts di Parigi. Dal 1989 ha esposto suoi lavori in Italia e all’estero in spazi pubblici e privati. Dal 2013 si occupa stabilmente della conservazione e del restauro del Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle a Capalbio. Nel 2015 le sue opere hanno avuto largo spazio nella collettiva La scultura ceramica contemporanea in Italia alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Guido Scarabottolo Sesto San Giovanni, 1947. Architetto, lavora come illustratore e grafico. Attualmente i suoi disegni appaiono sul domenicale del Sole24 Ore e, irregolarmente, su Internazionale, sul New York Times e il New Yorker. Negli ultimi dodici anni ha progettato le copertine Guanda illustrandone gran parte. Dal 1991 (Disegni notturni, Galleria l’Affiche, Milano) le sue ricerche personali, lavori su carta, in legno e soprattutto in ferro, sono stati esposti in gallerie private, spazi pubblici e fiere d’arte in Italia e all’estero.
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Mali minori Luigi Belli e Guido Scarabottolo Chiesa di San Pietro in Valle, Fano 21 luglio – 30 settembre 2017
Comune di Fano Assessorato alla Cultura e Turismo
A cura di Cecilia Prete Ideazione Maurizio Minoggio Produzione e organizzazione Galleria l’Affiche, Milano Allestimento Galleria l’Affiche, Milano con Tiziano Alderighi Testo di presentazione Cecilia Prete Interviste Beatrice Gaspari Progetto grafico Maurizio Minoggio Fotografie Centrale Fotografia: Marco Bracci Tim Cooper Mario Della Fornace Claudio Giuliani Alberto Masini Marcello Sparaventi Antonella Speziale Silvio Stelluti Scala Coordinamento Cecilia Bianchini Ufficio stampa Comune di Fano Ringraziamenti Romano Battisti Stefania Camilli Marco Damioli Andrea Ligi Cristina Luzi Valeria Patregnani Cristina Piccioli Costanza Starrabba Maria Tena e Domenica Tamanti Giuseppe Zapelloni La poesia Offerta di Umberto Fiori è pubblicata in Luogo comune, Edizioni della Galleria l’Affiche, Milano, 2016 Stampa Ideostampa, Colli al Metauro (PU) Febbraio 2018
Galleria l’Affiche, Milano