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Bergamo Film Meeting
Trentesima Mostra Internazionale del Cinema d’Essai
10-18 marzo 2012
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Con il patrocinio e il contributo di
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Le attivitĂ collaterali alla manifestazione sono sostenute da
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CINETECA GRIFFITH
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Ringraziamenti Per la sezione “Mostra Concorso” ringraziamo: Manuel Martin Cuenca, Mathieu Demy, Hadar Friedlich, Marco van Geffen, Pablo Giorgielli, Valérie Mréjen, Bertrand Schefer, Adrian Sitaru. Nuria Diaz Velarde (La Loma Blanca Producciones Cinematograficas), Franka Schwabe (Bac Films, Parigi), Orna Noy (July August Productions, Tel Aviv), Yannick van der Kroft (Lemming Film, Amsterdam), Arnaud Bélangeon Bouaziz (Urban Distribution International, Montreuil Sous Bois), Marine Réchard (Films Boutique, Berlino), Emanuela Martini, Mario Galasso (Torino Film Festival), Andrea Trovesi. Per la sezione “Visti da vicino” ringraziamo: Enric Bach, Carine Bijlsma, Emad Burnat, Guy Davidi, Pietro De Tilla, Christopher Evans, Erika Hníková, Angus Hohenboken, Elvio Manuzzi, Marta Minorowicz, Adriá Monés, Klaus Erik Okstad, Guglielmo Trupia, Francesco Scarponi, Kullar Viimne. Germana Bianco (Fondazione Milano Cinema e Televisione, Milano), Andrzej Wajda Master School of Film Directing (Varsavia), Christine Camdessus, Serge Gordey (Guy DVD Films, Tel Aviv, Alegria Productions, Parigi, Burnat Films Palestine, Ramallah), Maëlle Guenegues (Cat & Docs, Parigi), Erik Norkroos (Rühm Pluss Null, Tallinn), Tareq Daoud, Tanoa Despland (NVA Zeitgeist productions, Ginevra), Jiri Koneckny (Endorfilm, Praga), Jarmila Outratová (OutCome, Praga), Christopher Evans, Angus Hohenboken (FactionFilms, Londra), Francesco Scarponi, Claudia Zanda (Parigi), Rosan Boersma (Rosan Productions, Amsterdam), Enric Bach, Adriá Monés (Fasten Seat Belt, Barcellona), Olav Njaastad (NRK, Oslo). Per la personale di Fernando León de Aranoa, ringraziamo in particolare Fernando León de Aranoa, Pilar de Heras (Reposado producciones cinematográficas). Un sentito ringraziamento a Lucia Ezker e Davide “di Galizia” per i suggerimenti sempre preziosi. Per la rassegna cinematografica ringraziamo Pilar de Heras (Reposado producciones cinematográficas), Lucky Red, Fernando Riera, Sophie de Mac Mahon (Videomercury), Manuel Llamas (ICAA), Victoria Bernal (Egeda), Ana Vazquez (Aecid), Alejandro González Argielés, Guillermina Ortega Chave, Pablo Fernández Masó (Imagina), Pentagrama, Giorgio Contessi (MSF Medici Senza Frontiere Italia), Xaloc. Per la mostra “Fernando León de Aranoa. Storyboard e disegni” ringraziamo ancora Fernando León de Aranoa, LpGrafica, Elisabetta Ruffini (Isrec BergaMO), PiEFFE.Acme, Ringraziamo inoltre Daniela Vincenzi, Pietro Bianchi, Davide Mazzocco, Nicola Rossello, Luis Alegre, Javier Angulo Barturen per la collaborazione al catalogo. Per la sezione “I confini dell’Europa” ringraziamo Mikael Olsen (Zentropa), Meinolf Zurhorst (ZDF-Germania/ARTE-Francia), Feo Aladag, Nikolaus Geyrhalter, Olivier Masset-Depasse, Stanislaw Mucha, Hannes Stöhr, Monika Anna Woytillo. Per aver fornito le copie e i diritti di proiezione si ringraziano Mikael Olsen, Karen Kristensen (Zentropa), Emilie Truckenbrodt (Independent Artists Filmproduktion, Berlino), Laura Polidori, Valeria Fiore, Paola Ramacci (Parlamento Europeo, Direzione Generale Comunicazione, Ufficio d’Informazione in Italia, Roma), Youn Ji (Autlook Filmsales Gmbh, Vienna), Silvia Burner (Geyrhalter Filmproduktion, Vienna), Anne Laurent (Austrian Film Commission, Vienna), Archibald Film (Roma), Kurt Otterbacher, Bert Schmidt (Strandfilm Produktions Gmbh, Francoforte), Martina Knabe (Beta Cinema Gmbh, Monaco), Cristina Marx (Hochschule für Film und Fernsehen HFF “Konrad Wolf”, Potsdam Balesberg). Per la retrospettiva “Ritratto d’autore” ringraziamo il British Film Institute di Londra, in particolare Fleur Buckley (bfi / National Film & Television Archive, Gb), Laurence Berbon, Camille Calcagno (Tamasa Distribution, Parigi), Natacha Catherine (Mk2, Parigi), Johan Ericksson (Swedish Film Institute, Stoccolma), Christian Brummel (Studiocanal, Gmbh, Berlino), Thomas Petit (Les Films du Losange, Parigi), Alba Gandolfo e Max Patrone (Cineteca Griffith), Piero Matteini, Luca Andreotti. Per l’omaggio a Bergamo Film Meeting e l’anteprima milanese di Il caso Katharina Blum ringraziamo Patrizia Rappazzo (Sguardi Altrove Film Festival). La rassegna “L’ombra del dubbio” è realizzata con l’aiuto determinante del British Film Institute di Londra, in particolare ringraziamo Fleur Buckley (bfi / National Film & Television Archive, Gb), Andrew Youdell (bfi / Film Distribution Library, Gb), Nick Varley (Park Circus), Vincent Dupré (Théâtre du Temple, Parigi), Alba Gandolfo e Max Patrone (Cineteca Griffith), Cineteca Bruno Boschetto, Piero Matteini, Emanuela Martini. La rassegna non sarebbe stata possibile senza il consenso dei titolari dei diritti, ringraziamo ancora Nick Varley (Park Circus), Peter Langs (Nbc Universal), Geraldine Higgins (Hollywood Classics), Laure-Anne Rossignol (Aries, Parigi), Bertrand Schontz (Turner). Un ringraziamento particolare a Igort per la realizzazione della mostra di disegni e il tabloid “Crime. Attento sei seguito dalle ombre”. Per gli allestimenti ringraziamo in particolare Davide Invernici, Simone Longaretti, Gigi Ghilardi, LpGrafica. Per le sezioni “Midnight Movie: l’ombra del doppio” e “Fantamaratona” ringraziamo Fleur Buckley (bfi / National Film & Television Archive, Gb), Andrew Youdell (bfi / Film Distribution Library, Gb), Thomas Pfeiffer (Kinemathek Hamburg, Metropolis Archiv, Amburgo), Warner Bros Italia, Paul Foster (Foster Films and Collectables, Penkridge, Staffordshire). Per i diritti di proiezione ringraziamo: Laurence Berbon (Tamasa Distribution), Laure-Anne Rossignol (Aries, Parigi), Warner Bros. Un ringraziamento va anche a tutti i sosia, i cloni (!) e i gemelli che sono tra noi, in particolare a Silvia Boffelli. Ringraziamo anche Filippo Ruffilli, per aver contribuito all’idea di questa rassegna, una sera di marzo, di un anno fa. Per l’anteprima di Milongueros ringraziamo Andrea Zambelli, Andrea Zanoli, Pesca Production e Lab 80 film. Per l’anteprima di Tyrannosaur ringraziamo Paddy Considine, Stefano Jacono (Movie Inspired).
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La sezione “Bergamo Film Meeting inaugura Bergamo Jazz” è organizzata in collaborazione con Bergamo Jazz. In particolare ringraziamo Enrico Rava, Barbara Crotti, Roberto Valentino, Massimo Boffelli e Fondzione Donizetti. Per la performance musicale dal vivo, ringraziamo Roberto Cecchetto. Per la proiezione di Les liaisons dangereuses ringraziamo Laurence Berbon (Tamasa, Parigi). La proiezione del film Case départ è organizzata in collaborazione con COE, Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano. Ringraziamo in particolare Alessandra Speciale e Alice Arecco. Per la realizzazione della sigla ufficiale di Bergamo Film Meeting 2012 ringraziamo Roberta Sammarelli, Luca Ferrari, Roberto Ferrari dei Verdena, Regina Pessoa, Abi Feijó. Per la realizzazione del progetto Media Box ringraziamo Emanuele Castelli, Andrea Ubaldi. Un ringraziamento particolare a Maria Bellati. Per la presentazione in anteprima della collezione filmica e video del “Fondo Nino Zucchelli” ringraziamo: Lina Zucchelli Valsecchi, Maria Cristina Rodeschini Galati e Sara Mazzocchi (GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo), Lab 80 film, Francesca Angelucci e Sergio Toffetti (Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale). Per il Laboratorio di introduzione alla critica cinematografica ringraziamo Barbara Grespi, Lorenzo Rossi, Massimiliano Fierro, Università degli Studi di Bergamo, Facoltà di Scienze Umanistiche, Centro Arti Visive. Per l’iniziativa “Una giornata particolare” ringraziamo Guglielmo Benedetti; Simona Cucchi, Maria Vittoria Mariani, Jenny Vassalli per il laboratorio “Alla scoperta dei segreti del cinema”; Manfredi Giffone, Fabrizio Longo, Alessandro Parodi per il workshop di disegno; Teresa Pandolfo e Carlo Colombi di Libera, per la presentazione del graphic novel Un fatto umano. Per la realizzazione, gli allestimenti, l’organizzazione, l’ospitalità, gli spettacoli e le proposte culturali del Meeting Point ringraziamo: Antonio Luzzio (Tecnodomes), F.lli Zanoletti, Luciano Bettinelli (Bigmat), Valeria Quirico, Juri Perico, Pedrali Dynami Design, Alessandra Girola, Emilio Morandini, Alessandro Noris e Federico Villa (N&Vjr), Stefano Ferri (Maite), Silvia Sandrone di Antenna Media (Torino), Giorgio Contessi (MSF Medici Senza Frontiere, Italia), Giuseppe Goisis e Compagnia Brincadera, LiBer – Associazione Librai Bergamaschi, Punto a capo Libri, Libreria Palomar, Il Caffè Letterario, Il Parnaso, Cartolibreria Nani, Libreria Arnoldi, Alfredo Pignotti, Saverio Lombardo, Garufa Tango, Caso e Phil Reynolds, The Tipton Sax Quartet, Domo Emigrantes, Collettivo RES, Caravan Orkestar, Re-Beat, Revo Dj, Twin Bros, Lula Miao, La Terra Trema, distilleria Varnelli, Cantalupo, Gasparina di Sopra. Per l’iniziativa After BFM si ringraziamo: Francesco Traini (Confesercenti), Pietro Bresciani (Ascom) e Matteo Postini (Ctrl Magazine), per il supporto fornito. Un sentito ringraziamento va anche ad Antonio Terzi, Valentina Ardemagni ed a tutto lo staff del Birrificio Indipendente Elav di Comun Nuovo (BG). Per la loro gentile disponibilità si ringraziano inoltre tutti i gestori ed i collaboratori dei locali After BFM: Bubble Maite - Meeting Point BFM, Agorà – Bar del Polaresco, Al Vilino Divino, Articolo 21 Caffè – Libreria, Bacaro, Caffè Letterario, Clock Tower Pub, Crocevia, Daragi, Doma Cafè, Druso Circus, Edoné, Il Bopo, Il Circolino, Osteria della Birra, Reef Café, Ribeca Social Bar, Skin Fantasies, Tresoldi 1938, Varadero Jazz Café. Un grazie di cuore va infine ad Alessandro Comberiati, Matteo Cavagna, Vitaliano Beretta e Marta Passafonti per aver contribuito alla realizzazione dell’iniziativa. Per la serata di Cinegustologia “Il sapore del cinema. Aspettando Bergamo Film Meeting” ringraziamo Marco Lombardi, Paola Colombelli, Matteo Salvi (Servizi C.E.C. Srl), e lo staff dell’Osteria al GiGianca. Un sentito grazie a tutti i volontari e gli stagisti che hanno contribuito alla realizzazione della 30a edizione di Bergamo Film Meeting: Nadia Alba, Veronica Albani, Francesco Begna, Alessandra Beltrame, Natan Beretta, Alessandra Bergamelli, Maddalena Bianchetti, Ilaria Campioni, Giulia Castelletti, Marta Colleoni, Laura Corna, Sonia De Girolamo, Daniela Di Pinto, Alessandra Ferreri, Marta Fiorellino, Nicholas Fiorendi, Eleonora Manenti, Enrico Ne, Giulia Marxia Porcaro, Francesco Portesi, Valentina Pozzi, Silvia Rivola, Carolina Rizzi, Paola Signorelli, Sara Sozzi, Valentina Suarez, Jenny Vassalli. Ringraziamo inoltre Lorenzo Canova, Anna Pedroncelli, Elena Viani, il CeSTIT – Centro Studi per il Turismo e l’Intepretazione del Territorio dell’Università di Bergamo per l’indagine sul profilo dell’utenza di Bergamo Film Meeting 2012, realizzato nell’ambito del laboratorio “Progettazione di iniziative culturali e loro impatto turistico”. Un ringraziamento particolare a Tiziana Pirola, Auditorium Arts, Adriano Piccardi (Cineforum), Domenico Toscano (MMIX), Rossana Noris, Diego Verdoliva, Elena Paletti, Luca Lioce, Michela Facchinetti, Gigi Zucchetti, Rosalba Pellegrini, Laura Capelli, Rachele Paratico, Maria Traldi, Pia Conti, Dario Cangelli, Valeria Cecchetti, Isa Bronzoni e Franco Villa, Stefano Paleari, Remo Morzenti Pellegrini, Giovanni Carlo Federico Villa, Sara Damiani (Centro Arti Visive, Università degli Studi di Bergamo), Chiara Gandeli, Clara Salvetti, Sergio Belotti. Per l’amicizia, i consigli e il sostegno morale Jenny Vassalli, Veronica Maffizzoli, Elena Elli, Roberto Mazzucconi. Per l’insostituibile presenza Paola e Giulia, Fede, Paolo, Luca. Per le pazienti attese Lilla e Buby.
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COMITATO D’ONORE Franco Tentorio Sindaco di Bergamo Claudia Sartirani Assessore alla Cultura, Spettacolo e Turismo del Comune di Bergamo Mirella Maretti Resp. Servizio Attività Culturali e Promozione Turistica - Comune di Bergamo
La sezione “I confini dell’Europa” è organizzata da Fiammetta Girola, Andrea Trovesi La rassegna “Ritratto d’autore” è organizzata da Angelo Signorelli La rassegna “L’ombra del dubbio” è organizzata da Angelo Signorelli con la consulenza di Arturo Invernici
Erminia Renata Carbone Responsabile Direzione Cultura e Turismo del Comune di Bergamo
La mostra “Crime. Attento sei seguito dalle ombre” è organizzata da Fiammetta Girola, Angelo Signorelli con la collaborazione di Paolo Formenti, Andrea Zanoli
Angelo Signorelli Alberto Castoldi Bergamo Film Meeting
La sezione “Midnight Movie: l’ombra del doppio” è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola
BERGAMO FILM MEETING Presidente Alberto Castoldi Direzione Angelo Signorelli Collaborazione alla direzione e coordinamento generale Fiammetta Girola e Chiara Boffelli
Il catalogo generale è a cura di Daniela Vincenzi, Angelo Signorelli con la collaborazione di Fiammetta Girola, Arturo Invernici, Chiara Boffelli, Martina Fiorellino, Andrea Frambrosi Responsabile di redazione Daniela Vincenzi Ricerche bibliografiche e filmografiche Arturo Invernici Il catalogo “Fernando León de Aranoa” è a cura di Chiara Boffelli
Collaborazione all’organizzazione Sergio Visinoni, Andrea Zanoli, Alberto Valtellina, Tania Avigo, Eriola Fiore Stagista Giulia Marxia Porcaro
Il tabloid “Crime. Attento sei seguito dalle ombre” è prodotto da Bergamo Film Meeting e realizzato da Igort
Ufficio Stampa nazionale Studio Sottocorno – Lorena Borghi
Progetto grafico PiEFFE Grafica* Stagista Maddalena Bianchetti
Ufficio Stampa locale Ada Tullo Stagista Valentina Pozzi
Materiali di documentazione e iconografici Fondazione Alasca
Accrediti e Ufficio Ospitalità Eriola Fiore
Ufficio stile Jena, Muttley, Minimize YP, Pancho, Zukkee
La Mostra Concorso è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola, Angelo Signorelli Consulenti Andrea Trovesi
Stampa Grafica Sette, Flyeralarm
La rassegna “Visti da vicino” è organizza da Angelo Signorelli, Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli La sezione dedicata a Fernando León de Aranoa è organizzata da Chiara Boffelli La mostra “Fernando León de Aranoa. Storyboard e disegni” è organizzata da Chiara Boffelli, Paolo Formenti
Progetto After BFM Maurizio Tarallo – Laboratorio HG80 con la collaborazione di Paolo Formenti, Maddalena Bianchetti Coordinatore tecnico Andrea Zanoli Coordinatore eventi culturali e incontri con gli autori Eriola Fiore Moderatori Pietro Bianchi, Lorenzo Rossi
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Coordinamento stagisti e volontari, progetti con scuole e università Tania Avigo Traduzioni Gualtiero De Marinis, Lucia Ezker, Loretta Mazzucchetti, Laura Pendeggia, Giulia Saccogna, Antonella Sara, Veronica Varini, Daniela Vincenzi Sottotitoli rassegne “L’ombra del dubbio” e “Ritratto d’autore” Anna Ribotta, Marina Spagnuolo, Giliola Viglietti, Laura Di Mauro, Filippo Ruffilli Sottotitoli Mostra Concorso, Visti da Vicino e altre sezioni Lorena Tundra Cornelli, Laura Di Mauro, Martina Fiorellino, Loretta Mazzucchetti, Filippo Ruffilli, Daniela Vincenzi Traduzione incontro con Fernando León de Aranoa Giliola Viglietti Traduzioni sito internet e interpretariato Veronica Albani, Marta Colleoni, Daniela Di Pinto, Valentina Suarez Fundraising e comunicazione Maurizio Tarallo – Laboratorio HG80
Assistenza informatica Paolo Formenti, Emanuele Castelli Pagine web, Media Box, BFM mobile Emanuele Castelli (S.P.S.) con la collaborazone di Andrea Ubaldi, Paolo Formenti, Chiara Boffelli Archivi e database Fausta Bettoni Ospitalità e organizzazione eventi presso il Meeting Point Stefano Ferri per Maite con la collaborazione di Simona Rota Corriere internazionale DHL Corriere nazionale TNT Allestimenti LPGrafica, PiEFFE.Acme Computer e informatica Multimedia Files
Coordinamento laboratorio di critica cinematografica Lorenzo Rossi Fotografo Renato Liguori Riprese e montaggio video Stefano Testa Responsabile di sala, movimentazione copie e pratiche SIAE Dario Catozzo Direzione e gestione sale Mauro Frugiuele, Veronica Varini, Sergio Visinoni Volontari: Nadia Alba, Francesco Begna, Alessandra Beltrame, Natan Beretta, Alessandra Bergamelli, Ilaria Campioni, Laura Corna, Sonia De Girolamo, Alessandra Ferreri, Nicholas Fiorendi, Eleonora Manenti, Enrico Ne, Francesco Portesi, Silvia Rivola, Carolina Rizzi, Paola Signorelli, Sara Sozzi, Jenny Vassalli Proiezionisti Stefano Barbieri, Pietro Plati, Renato Puppi Proiezioni video e digitali Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli, MMIX, Lab 80 film Elaborazioni e montaggi video digitali Lab 80 TUC per Lab 80 film, Stefano Testa, Sergio Visinoni Sigla ufficiale di Bergamo Film Meeting Verdena, Regina Pessoa, Abi Feijò
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Europe loves European Festivals A privileged place for meetings, exchanges and discovery, festivals provide a vibrant and accessible environment for the widest variety of talent, stories and emotions that constitute Europe’s cinematography. The MEDIA Programme of the European Union aims to promote European audiovisual heritage, to encourage the transnational circulation of films and to foster audiovisual industry competitiveness. The MEDIA Programme acknowledges the cultural, educational, social and economic role of festivals by cofinancing every year almost 100 of them across Europe. These festivals stand out with their rich and diverse European programming, networking and meeting opportunities for professionals and the public alike, their activities in support of young professionals, their educational initiatives and the importance they give to strengthening inter-cultural dialogue. In 2011, the festivals supported by the MEDIA Programme have programmed more than 20.000 screenings of European works to nearly 3 million cinema-lovers. MEDIA is pleased to support the 30th edition of the Bergamo Film Meeting and we extend our best wishes to all of the festival goers for an enjoyable and stimulating event. European Union MEDIA PROGRAMME http://www.ec.europa.eu/information_society/media/index_en.htm
L’Europa ama i festival europei Luogo privilegiato per gli incontri, gli scambi e le nuove scoperte, i festival offrono un ambiente accessibile e vivace a un’ampia varietà di talenti, storie ed emozioni, che costituiscono la cinematografia europea.
Il Programma MEDIA dell’Unione Europea mira a promuovere il patrimonio audiovisivo europeo, a incoraggiare la circolazione transnazionale di film e a favorire la competitività del settore audiovisivo. Il Programma MEDIA ha riconosciuto l’importanza culturale, educativa, sociale ed economica dei festival co-finanziando ogni anno quasi 100 manifestazioni in tutta Europa. Sono festival che si distinguono per la loro ricca e diversificata programmazione europea, per la creazione di networking e occasioni di incontro per i professionisti e il pubblico, per la loro attività a sostegno dei giovani professionisti, per le loro iniziative educative e per l’importanza che danno al rafforzamento del dialogo inter-culturale. Nel 2011, i festival sostenuti dal Programma MEDIA hanno proposto più di 20.000 opere europee a più di 3 milioni di amanti del cinema.
MEDIA è lieto di sostenere la 30a edizione di Bergamo Film Meeting e augurare a tutti i frequentatori del festival un’esperienza stimolante e divertente. Unione Europea MEDIA PROGRAMME http://www.ec.europa.eu/information_society/media/index_fr.htm
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Associazione Festival Italiani di Cinema Nel complesso del sistema audiovisivo italiano, i festival rappresentano un soggetto fondamentale per la promozione, la conoscenza e la diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva, con un’attenzione particolare alle opere normalmente poco rappresentate nei circuiti commerciali come ad esempio il documentario, il film di ricerca, il cortometraggio. E devono diventare un sistema coordinato e riconosciuto dalle istituzioni pubbliche, dagli spettatori e dagli sponsor. Per questo motivo e per un concreto spirito di servizio è nata nel novembre 2004 l’Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic). Gli associati fanno riferimento ai principi di mutualità e solidarietà che già hanno ispirato in Europa l’attività della Coordination Européenne des Festivals. Inoltre, accettando il regolamento, si impegnano a seguire una serie di indicazioni deontologiche tese a salvaguardare e rafforzare il loro ruolo. L’Afic nell’intento di promuovere il sistema festival nel suo insieme, rappresenta già oggi più di trenta manifestazioni cinematografiche e audiovisive italiane ed è concepita come strumento di coordinamento e reciproca informazione. Aderiscono all’Afic le manifestazioni culturali nel campo dell’audiovisivo caratterizzate dalle finalità di ricerca, originalità, promozione dei talenti e delle opere cinematografiche nazionali ed internazionali. L’Afic si impegna a tutelare e promuovere, presso tutte le sedi istituzionali, l’obiettivo primario dei festival associati.
The Association of Italian Film Festivals Within the framework of the Italian audiovisual system, film festivals are fundamental in the promotion, awareness and diffusion of cinema and audiovisual culture, as they pay particular attention to work that is usually not represented by commercial circuits, such as, for example, documentaries, experimental films and short films. And they must become a system that is coordinated and recognized by public institutions, spectators and sponsors alike. For this reason, and in the explicit spirit of service, the Association of Italian Film Festivals (Afic) was founded in November, 2004. The members follow the ideals of mutual assistance and solidarity that are the guiding principles of the Coordination Européenne des Festivals and, upon accepting the Association’s regulations, furthermore strive to adhere to a series of ethical indications aimed at safeguarding and reinforcing their role. In its objective to promote the entire festival system, the Afic already represents over thirty Italian film and audiovisual events and was conceived as an instrument of coordination and the reciprocal exchange of information. The festivals that are part of the Afic are characterized by their search for the new, originality, and the promotion of talent and national and international films. The Afic is committed to protecting and promoting, through all of its institutional branches, the primary objective of the member festivals. Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic) Via Villafranca, 20 - 00185 Roma, Italia
Coordinamento dei Festival e delle Iniziative Cinematografiche della Lombardia Questo coordinamento nasce dall’esigenza di costruire un progetto in comune tra le iniziative che da anni svolgono un ruolo determinante sul territorio lombardo, con specificità diverse ma con intenti comuni di approfondimento e diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva in genere. Il cinema continua ad essere un momento importante e necessario di partecipazione e aggregazione del pubblico e di riflessione sui grandi temi della contemporaneità. Il sistema dei Festival e di altre iniziative legate in particolare all’associazionismo, alla distribuzione e all’esercizio inteso come organizzazione di circuiti di sale, gioca un ruolo importante per la formazione degli spettatori e per la valorizzazione delle opere di qualità. Da un anno ormai il Coordinamento sta lavorando, tra l’altro, sull’organizzazione di iniziative in comune, la messa in rete delle proposte, la condivisione di strategie per la diffusione delle opere e degli autori, un più intenso scambio di idee e momenti di verifica sui lavori in corso, con la convinzione che il confronto è sempre la strada migliore. This coordinating group comes from the need to build up a common project by the initiatives which for several years have played a decisive role in Lombardy, with different specificities but with common intentions of studying and diffusing film and audiovisual culture in general. The cinema continues to be an important and essential occasion for participation and aggregation by the public and for reflection on the major issues of the contemporary period. The system of the Festivals and of other initiatives linked in particular to associations, distribution and exhibition understood as the organization of circuits of cinemas, plays an important role in forming audiences and promoting quality films. The Coordinating Group has now been at work for one year, organizing common initiatives, pooling proposals, sharing strategies for the distribution of films and directors and with a more intense exchange of ideas and opportunities to monitor works in progress, with the conviction that discussion is always the best path to take.
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Sommario pag. 13 «Ma questa è un’altra storia» 16 Indagine su un pubblico al di sopra di ogni sospetto MOSTRA CONCORSO EXHIBITION COMPETITION 18 La mitad de Óscar/Half of Óscar • Americano • Emek tiferet/A Beautiful Valley • Las acacias • En ville/Iris in Bloom • Din dragoste cu cele mai bune intenţii/Best Intentions • Onder ons/Among Us 33 VISTI DA VICINO CLOSE UP 34 Martellare di Alberto Valtellina Dimanche à Brazzaville/Sunday in Brazzaville • Soliste, Rosanne Philippens, 23 jaar/ Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old • 5 Broken Cameras • In absentia • Atelier Colla • One Man Riot [work in progress] • Nesvatbov/Matchmaking Mayor: The Heart Can’t Be Commanded • Descrescendo • Det afghanske mareritter/The Afghan Nightmare • Santino • Hing/Breath 46 54
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I CONFINI DELL’EUROPA Un assaggio di Europa di Andrea Trovesi Die Mitte/The Center • One Day in Europe • Visions of Europe • Abendland • Die Fremde/ When We Leave • Illégal/Illegal • Polska Love Serenade ANTEPRIME Tyrannosaur • Milongueros AVANTI Un progetto di distribuzione culturale
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Le White
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BERGAMO FILM MEETING INAUGURA BERGAMO JAZZ Sur un air de charleston/Charleston • Les liaisons dangereuses/Relazioni pericolose
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BERGAMO FILM MEETING PRESENTA FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, ASIA E AMERICA LATINA Case départ RITRATTO D’AUTORE
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ANNI ’70: UOMINI CHE RACCONTANO LE DONNE
Gli anni Settanta: sussurri e grida di Angelo Signorelli The Go-Between/Messaggero d’amore • Le souffle au coeur/Soffio al cuore • Les deux anglaises et le continent/Le due inglesi • Liza/La cagna • Viskningar och rop/Sussurri e grida • Die Verlorene Ehre der Katharina Blum oder: Wie Gewelt entstehen und wohin sie führen kann/Il caso Katharina Blum • Die Marquise von O…/La marchesa Von… • Cet obscur objet du désir/Quell’oscuro oggetto del desiderio • Violette Nozière
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L’OMBRA DEL DUBBIO L’AMBIGUITA’ COME ESSENZA DEL NOIR
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Il valzer delle ombre di Emanuela Martini Bevete più latte, più latte fa bene di Arturo Invernici They Made Me a Criminal/Hanno fatto di me un criminale • Foreign Correspondent/ Il prigioniero di Amsterdam/Corrispondente 17 • Gaslight • Suspicion/Il sospetto • Shadow of a Doubt/L’ombra del dubbio • The Leopard Man/L’uomo leopardo • The Uninvited/La casa sulla scogliera • Gaslight/Angoscia • Mildred Pierce/Il romanzo di Mildred • Fallen Angel/Un angelo è caduto • Undercurrent/Tragico segreto • Black Angel/L’angelo nero • The Stranger/Lo straniero • The Red House/La casa rossa • Sleep, My Love/Donne e veleni • Corridor of Mirrors/Il mistero degli specchi • The Woman in Question/Donna nel fango • So Long at the Fair/Tragica incertezza • D.O.A./Due ore ancora • In a Lonely Place/Il diritto di uccidere CRIME. Attento: sei seguito dalle ombre L’ombra lunga del noir MIDNIGHT MOVIE L’OMBRA DEL DOPPIO
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“Je est un autre”, ovvero: l’Overlook Hotel e i dadi per il brodo di Andrea Frambrosi Invisible Ghost • Kind Hearts and Coronets/Sangue blu • Dead Ringer/Chi giace nella mia bara? • Goodbye Gemini/Sul tuo corpo, adorabile sorella • Sisters/Le due sorelle • The Shining/Shining • A Zed & Two Noughts/Lo zoo di Venere
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FERNANDO LÉON DE ARANOA Fernando Léon De Aranoa di Chiara Boffelli Sirenas • Familia • Barrio • Caminantes • Los Lunes al sol/I lunedì al sole • Princesas • Invisibles [ep. Buenas noches, Ouma] • Amador
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Indice dei registi Index to directors Indice dei film Index to films Indice generale Contents
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«Ma questa è un’altra storia» Ci eravamo lasciati, lo scorso anno, con la promessa che avremmo voluto arrivare alla trentesima edizione, a qualsiasi costo. Abbiamo rispettato gli impegni, nonostante che, fino a fine novembre, l’edizione fosse appesa a un filo, per le solite questioni legate alla continua erosione dei finanziamenti pubblici. Ma non vi parleremo di questo, perché sono subentrate alcune condizioni che oggi, alla svolta del terzo decennio di attività, ci danno la possibilità di presentarci con una strategia nuova, che speriamo possa dare frutti significativi nei prossimi anni. Cosa è stata l’attività dell’Associazione Bergamo Film Meeting, dalla sua nascita nel lontano 1983 ad oggi? Sostanzialmente tutti gli sforzi si sono concentrati sull’organizzazione della manifestazione che in nove giorni di programmazione presenta circa 90 film tra corti, medio e lungometraggi, suddivisi in diverse sezioni. Ci sono sì, nel corso dell’anno, altre iniziative nelle quali Bergamo Film Meeting è presente con alcuni film passati nell’ultima edizione realizzata, come ad esempio Cannes e dintorni, promossa dall’Agis o altre rassegne di classici, di film di recente produzione e documentari. Ma sono sempre attività legate al festival, che riguardano la promozione di alcune opere presentate; la stessa cosa vale per il lavoro con i produttori e i distributori, perché la mostra di marzo non rimanga fine a se stessa. D’altronde, e questo lo abbiamo ripetuto più volte, Bergamo Film Meeting è nato per sensibilizzare gli operatori del settore e per aumentare la visibilità dei film, vecchi o nuovi che siano. Il bilancio di questa attività è assolutamente positivo, ma la sua ampiezza dipende ancora dal festival, dal suo bilancio, che attualmente non può permettersi investimenti in questa direzione. È vero, qualche piccola cosa si riesce ancora a fare; ad esempio, abbiamo acquisito, con una consistente riduzione dei costi, una copia in pellicola con sottotitoli italiani del film vincitore dello scorso anno, il polacco Il venditore di miracoli, che quindi è disponibile per altri passaggi in Italia. Sono casi sporadici, dovuti più alla buona volontà di produttori indipendenti che non alle possibilità del festival di agire nel mercato dell’audiovisivo. Sta di fatto che di cambiamenti negli ultimi anni ce ne sono stati parecchi. Il problema che ci siamo posti è stato sostanzialmente questo: dobbiamo assistere all’estinzione del Festival per cause di forza maggiore, oppure possiamo trovare vie nuove che siano anche un cambiamento di mentalità e strategia? Il dato da cui siamo partiti è che Bergamo Film Meeting rimane un progetto importante, che il pubblico è sempre numeroso e partecipe, che i molti attestati di stima ci fanno sentire in obbligo di continuare. Nonostante questi elementi positivi, è sempre più difficile trovare le risorse, anche solo per sopravvivere. Gli enti pubblici stringono di anno in anno il cordone della borsa: la Regione Lombardia nel 2011 non ha neppure fatto uscire il bando per il sostegno alle manifestazioni cinematografiche, unica in tutta Italia – e si trattava poi di una cifra molto modesta: 165.000 euro distribuiti su una ventina di soggetti. Il contributo pubblico a Bergamo Film Meeting si è ridotto ormai a una percentuale intorno al 43% del budget complessivo, che è diminuito di circa 100.000 euro negli ultimi due anni. Una situazione molto critica e ben al disopra del livello di guardia, una sofferenza che è condivisa da altre manifestazioni in Lombardia e nel resto d’Italia. Una politica che sta mettendo a rischio posti di lavoro, capacità progettuali, opportunità artistiche e culturali del tempo libero. Diamo queste informazioni per spirito di obiettività. Ma torniamo alla domanda per noi cruciale. Diciamo subito che le grida di dolore ci sono sembrate inefficaci e rischiavano di diventare un repertorio stanco e obsoleto. Ci 13
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siamo guardati prima negli occhi e poi intorno, abbiamo fatto un bilancio non solo economico, ma anche e soprattutto delle potenzialità di una struttura con quasi trent’anni di vita e delle risorse umane disponibili. Soprattutto questi ultimi due punti ci hanno fatto molto riflettere. Lasciamo per un momento da parte il primo punto. Cosa è successo negli ultimi quattro/cinque anni nella compagine che il festival lo produce e lo organizza? C’è stato un radicale rinnovamento: la quasi totalità della vecchia guardia ha ceduto il testimone; nuova linfa è arrivata, portando innovazione, competenze tecniche più sofisticate e al passo con i tempi, una diversa apertura mentale, idee più fresche e maggiore sensibilità verso il contemporaneo e i cambiamenti in atto. Al nuovo gruppo si sono affiancati altri giovani, vuoi come stagisti e volontari, vuoi come collaboratori temporanei. Alcuni di loro hanno acquisito competenze, hanno seguito progetti, hanno assorbito la mentalità del festival. Sono diventati anch’essi una risorsa. E qui torniamo al primo punto. Il nuovo comitato organizzatore del festival si è posto il problema di come far diventare l’associazione una vera e propria struttura operativa, che non avesse solo lo scopo di “fare” il festival, ma che acquisisse capacità ed energie per essere qualcosa di più, per funzionare con continuità, affrontando sì nuovi impegni economici, ma sempre nel solco di un’economia sostenibile che sappia coniugare l’aumento delle risorse e l’incremento dell’offerta culturale, anche attraverso il coinvolgimento di altri soggetti, con i quali condividere mezzi e finalità. Ciò significa sostanzialmente due cose: costruire rapporti di lavoro più stabili e investire in professionalità in grado di aumentare le fonti di entrata, tenendo ben fermi, naturalmente, i principi, ai quali anche Bergamo Film Meeting si ispira, di cooperazione e solidarietà sociale che stanno alla base della filosofia e dell’attività dell’associazionismo. Si tratta di una grande sfida e di un’impegnativa assunzione di responsabilità, ma, ne siamo fermamente convinti, è l’unica via per aprirsi al futuro, per riavviare un motore che rischiava di fermarsi perché non c’erano più i soldi per la benzina. Abbiamo valutato alcuni canali di finanziamento e abbiamo trovato in un bando della Fondazione Cariplo la via giusta per concretizzare il nostro progetto. Ce l’abbiamo messa tutta, abbiamo elaborato azioni che significassero veramente un cambiamento di strategia, di organizzazione e di visione generale. Il percorso quadriennale, che è stato delineato in ogni suo dettaglio, prevede interventi sia sul piano amministrativo che su quello delle proposte e della redditività degli investimenti, in competenze lavorative e in beni strumentali. Ai primi di dicembre dello scorso anno abbiamo saputo di aver vinto il bando. Chi legge, può immaginare la nostra felicità. Abbiamo avuto la sensazione di essere usciti dal tunnel. Ci siamo subito messi al lavoro, consapevoli che non c’era tempo da perdere e che la soddisfazione doveva subito tradursi nell’avvio dei percorsi progettuali. Rafforzare la struttura dell’associazione vuol dire allargare attività e proposte, renderla più presente sul territorio; e vuole anche dire avere più energie per irrobustire il festival, infondergli vigore e entusiasmo e, speriamo, intercettare nuove risorse. Perché Bergamo Film Meeting continuerà ad essere quell’occasione di incontro, di confronto, di conoscenza e di festa, dove poter vedere tanti film, scoprire autori e tendenze, gustare il cinema del passato e avvicinare altre e diverse espressioni audiovisive ed artistiche. Con più fiducia, quindi, affrontiamo questa trentesima edizione che, con queste nuove opportunità, diventa veramente una sorta di passaggio a qualcosa d’altro. Non c’era l’intenzione di dare al raggiungimento di questo traguardo un’importanza particolare, così come non ci eccitava l’idea della ricorrenza e la necessità di apporvi un sigillo particolare. Pensiamo che quanto è successo sia sufficiente per dire che Bergamo Film Meeting ha veramente compiuto 30 anni e può continuare per la sua strada. Questa introduzione, o sarebbe meglio definirlo un editoriale, esprime le idee e le intenzioni del gruppo che dirige il festival. La collegialità delle scelte e delle decisioni sono uno dei cardini dell’associazione, così come l’operatività organizzativa e amministrativa, che si basa sulle conoscenze e le esperienze maturate sul campo, ma soprattutto sulla passione e il desiderio di scoperta, uniti al piacere, sacrosanto, di dare tante emozioni e un po’ di felicità al pubblico che ci segue. Bergamo Film Meeting 14
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Indagine su un pubblico al di sopra di ogni sospetto Lo scorso anno, in collaborazione con l’Università degli Studi di Bergamo, Laurea Specialistica in Progettazione e Gestione dei Sistemi Turistici, attraverso il Laboratorio Didattico “Fare ricerca nel turismo”, è stato realizzato, per la prima volta, uno studio al fine di comprendere il profilo degli spettatori di Bergamo Film Meeting. Nei giorni del Festival sono stati raccolti questionari pari a quasi un quarto dell’universo di riferimento. Il risultati ci hanno permesso di conoscere un po’ più a fondo il nostro pubblico, capire quali sono le nostre proposte più apprezzate e scoprire se e dove ci fosse spazio per migliorare il Festival. Perché se è vero che i complimenti e il sostegno da parte di tutti gli spettatori non sono mai mancati, sappiamo bene che dobbiamo sempre guardare avanti. Avere un quadro più preciso del presente e dei nostri interlocutori è uno strumento importante per elaborare nuove proposte e fare progetti per il futuro. In base ai risultati raccolti, abbiamo già messo in atto alcune strategie. Per l’edizione di quest’anno, ad esempio, è stato riattivato il Meeting Point, la tensostruttura in Piazza della Libertà, luogo di incontro, di relax, di approfondimento per tutti gli utenti di Bergamo Film Meeting. Uno spazio dove ritrovarsi, tra un film e l’altro, incontrare i protagonisti della manifestazione, consumare un aperitivo, mangiare, divertirsi e vivere l’atmosfera del festival. Allo stesso tempo, abbiamo creato percorsi per i più giovani, sia introducendo nuove facilitazioni di accesso al Festival per gli studenti, sia proponendo workshop e laboratori, anche per i più piccoli. Abbiamo anche coinvolto nuove realtà del territorio, che ci hanno permesso di arricchire e articolare maggiormente la nostra offerta con proposte ed eventi, incontri, mercatini, concerti, spettacoli, feste, non solo negli spazi di Bergamo Film Meeting, ma in giro per la città. Per quest’anno vi chiediamo ancora un piccolo, ma importante, contributo: compilare un nuovo questionario, che ci permetterà di confrontare i dati raccolti con quelli della passata edizione e conoscere la risposta degli spettatori alle ultime novità. Il questionario potrà essere compilato online, sul sito del Festival, o consegnato al personale di Bergamo Film Meeting e agli studenti del Laboratorio didattico “Progettazione di iniziative culturali e loro impatto turistico” del CeSTIT – Centro Studi per il Turismo e l’Interpretazione del Territorio dell’Università di Bergamo, che collabora all’indagine 2012. Ringraziamo in anticipo tutti quelli che vorranno partecipare. Di seguito, riportiamo alcuni dei dati emersi dalla raccolta dei questionari durante l’edizione 2011: Partecipazione in aumento Anche nel 2011, la partecipazione del pubblico è cresciuta: + 8,5% di presenze e + 9,6% di vendita di biglietti. Non solo bergamaschi Il pubblico è composito: 44% di residenti in città, 41% da altri comuni lombardi, 15% di viaggiatori/turisti. Fruitori repeater, appassionati di festival cinematografici Il 60% dei fruitori di BFM ha seguito da 2 a 10 edizioni del Festival. In media, gli spettatori hanno partecipato a 9 edizioni di BFM, principalmente per interesse personale, nel tempo libero. La maggior parte degli utenti ha un impiego e un livello di studio medio-alto. La percentuale di laureati è di circa il 65%. 5 fruitori su 10, negli ultimi 10 anni, hanno partecipato ad altri festival cinematografici. BFM offre ai partecipanti e al territorio un “arricchimento culturale” La maggior parte dei fruitori dichiara che tale esperienza ha ampliato le proprie conoscenze (8,7 punti in una scala da 1 a 10). Il 24,7% dei partecipanti ha chiesto giorni di ferie per seguire le proiezioni di BFM. I viaggiatori/turisti che pernottano a Bergamo per seguire il Festival: in 7 casi su 10 non sarebbero venuti in città se non ci fosse stato BFM. In media, si fermano 4 notti. La spesa media giornaliera dei viaggiatori/ turisti è di 104€; le principali voci di spesa riguardano pernottamento, ristoranti, bar e enogastronomia. Ampia la soddisfazione Elevata la soddisfazione rispetto al rapporto qualità/prezzo, al personale di sala, alla reperibilità dei biglietti, al materiale informativo messo a disposizione e alle proposte artistiche (9); per la distribuzione degli orari (8,2) e le iniziative collaterali come mostre, workshop, Fantamaratona (8,4). Sono valutati discreti l’allestimento (7,5), il comfort degli spazi (7) e i momenti di divertimento (7,4). 15
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Mostra Concorso Exhibition Competition
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Manuel Martín Cuenca
La mitad de Óscar
Half of Óscar
Spagna/Spain • 2010 • 89’ • col.
Regia/Director Manuel Martín Cuenca Sceneggiatura/Screenplay Manuel Martín Cuenca, Alejandro Hernández Fotografia/Cinematography Rafael de la Uz Montaggio/Editing Ángel Hernández Zoido Scenografia/Set design Alexandra Fernández Costumi/Costume design Anushka Braun Suono/Sound Eva Valiño, Pelayo Gutiérrez, Nacho Royo-Villanova Interpreti/Cast Rodrigo Sáenz de Heredia (Óscar), Verónica Echegui (María), Denis Eyriey (Jean), Manuel Martínez Roca (Miguel), Produttori/Producers Manuel Martín Cuenca, Camilo Vives, Joan Borrell Produzione/Production La Loma Blanca P.C., ICAIC, 14 pies audiovisual Distribuzione/Distribution FiGa Films Contatti/Contacts La Loma Blanca P.C., laloma@lalomablanca.com, tel. +34 91.127.80.29, www.lamitaddeoscar.es Filmografia/Filmography La mitad de Óscar (2010) Últimos testigos: carrillo comunista (doc, 2009) El tesoro (tv, 2007) Malas temporadas (2005) La flaqueza del bolchevique (2003) Madrid 11-M: Todos íbamos en ese tren [ep. Españoles por vía de sangre] (doc, 2004) 4 puntos cardinales [ep. En el camino] (doc, 2002) El juego de Cuba (doc, 2001) Nadie (short, 1999)
La metà di Oscar [t.l.] Óscar, trent’anni, fa il vigilante in una salina semi-abbandonata. Tutti i giorni indossa la sua uniforme e va al lavoro, rimanendo seduto a guardare ciò che resta dei cumuli di sale. Nella vita di Óscar non accade mai nulla. Un giorno, però, la sua routine viene turbata. Óscar va alla casa di riposo per far visita al nonno ma scopre che è stato portato in ospedale. La direttrice gli comunica di aver avvisato la sorella, di cui non ha notizie da due anni. Due giorni dopo, María si presenta ad Almería con il suo fidanzato, Jean, un francese di cui Óscar non ha mai sentito parlare. Il rapporto tra fratello e sorella appare teso. Qualcosa accaduto in passato deve avere lasciato il segno. Manuel Martín Cuenca (Almería, Spagna, 1964) ha studiato filologia spagnola all’Università di Granada e si è laureato all’Universidad Complutense di Madrid nel 1989 in scienze dell’informazione. Nel 1988 inizia la sua attività professionale nel cinema come assistente alla regia, segretario di edizione e direttore di casting, lavorando con registi come Felipe Vega, Alain Tanner, Mariano Barroso, José Luis Cuerda, Iciar Bollaín, e José Luis Borau. Nel 1999 inizia a scrivere e a dirigere i suoi primi documentari e film di finzione. Durante questo periodo, insegna anche regia e recitazione presso diverse scuole di cinema in Spagna e a Cuba. È stato collaboratore per vari quotidiani e pubblicazioni periodiche, ha scritto un romanzo, diversi libri di cinema e ha fondato una sua società di produzione, La Loma Blanca P.C. Attualmente sta lavorando al suo nuovo lungometraggio, Cannibal. «Half of Óscar è ambientato ad Almería, una piccola città in riva al mare nel sud dell’Europa, di fronte alla costa africana. La sua luce invernale rievoca un contesto quasi mitologico. Óscar e María sperimentano situazioni che non vogliono, e agiscono con mancanza di consapevolezza. Ognuno di loro ha scelto un modo diverso per fuggire alla dimensione tragica che sembrano condannati a soffrire: nelle loro vite, l’amore è diventato impossibile. Proprio questa impossibilità e i suoi effetti sono il vero soggetto del film. Non fuggire dai sentimenti, ma evitare il loro eccesso. Abbiamo puntato a trasmettere “calore” attraverso il lavoro con gli attori, nell’intimità delle loro performances, osservandolo da una certa distanza, con trasparenza e semplicità, non con ostentazione. Credo che l’anima sia resa al meglio attraverso il silenzio. Il non detto cela ciò che conta davvero. Mi piace cercare i segni dell’anima nel corpo, negli occhi e nello spazio. Mi piace credere nelle emozioni e nelle loro tracce, piuttosto che nelle parole o nelle idee. Il cinema è una forma di espressione fisica, così come il suono e la fotografia».
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Half of Óscar Óscar, thirty-year-old, is a security guard at a semi-abandoned salt pan. Everyday he puts on his uniform and goes to work, sitting and looking at what remains of the mounds of salt. Nothing really happens in Óscar’s life. But one day his routine falls apart. Óscar arrives at the retirement home to see his grandfather but finds he’s been taken to hospital. The director says she told it to his sister, he hasn’t heard from her in two years. Two days later, María turns up in Almería with her boyfriend, Jean, a French man Óscar has never heard of. The relationship between the siblings seems tense. Something happened in the past might have left its mark. Manuel Martín Cuenca (Almería, Spain, 1964) studied Spanish philology at the University of Granada and graduated from the Universidad Complutense in Madrid in 1989 with a degree in information sciences. In 1988 he began his professional work in film as an assistant director, script supervisor and casting director, working with directors including Felipe Vega, Alain Tanner, Mariano Barroso, José Luis Cuerda, Iciar Bollaín, and José Luis Borau. In 1999 he started to write and direct his own documentary and fiction films. During that period, he also taught directing and acting at several film schools in Spain and Cuba. He was a contributor to various newspapers and publications, wrote a novel, several books about film art and founded a his own production company, La Loma Blanca P.C. Currently he is working at his new feature film, Cannibal. «Half of Óscar takes place in Almería, in a small city on the seashore in the south of Europe, across from the coast of Africa. Its winter light brings to mind the setting where myths unfold. Óscar and María experience things they don’t want to, and act with a lack of awareness. Each has chosen a different way to escape from the tragic dimension they seem condemned to suffer: in their lives, love has become impossible. And that impossibility and its effects are the real subject of the film. We do not run away from feelings, but we avoid their excess. We have aimed at transmitting “warmth” through our work with the actors, in the intimacy of their performances, while portraying it from a certain distance, with transparency and simplicity, not showiness. I believe the soul is best conveyed through silence. What is left unsaid hides what really matters. I like to explore the signs of the soul in the body, the eyes and space. I like to believe in emotions and their traces instead of words or ideas. Cinema is a physical form of expression, such as sound and photography». 19
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Mathieu Demy
Americano Francia/France • 2011 • 105’ • col.
Regia, Sceneggiatura/Director, Screenplay Mathieu Demy Fotografia/Cinematography George Lechaptois Montaggio/Editing Jean-Baptiste Morin Scenografia/Set design Arnaud Roth Costumi/Costume design Rosalie Varda Musica/Music Georges Delerue, Grégoire Hetzel Suono/Sound Jean-Luc Audy Interpreti/Cast Mathieu Demy (Martin), Chiara Mastroianni (Claire), Geraldine Chaplin (Linda), Salma Hayek (Lola), Jean-Pierre Mocky (il padre di Martin/ Martin’s father), Carlos Bardem (Luis), Pablo Garcia (Pedro), André Wilms (il tedesco/the German) Produttori/Producers Mathieu Demy, Angeline Massoni Produzione/Production Les Films de l’Autre Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Bac Films, 88 rue de la Folie-Méricourt, 75011 Paris, France, tel. +33 (1) 53.53.52.52, fax +33 (1) 53.53.52.53, www.bacfilms.com
Filmografia/Filmography Americano (2011) La bourde (short, 2005) Le plafond (short, 2001)
Americano Martin vive a Parigi con Claire, ma il loro rapporto è in crisi. Alla notizia della morte della madre, Martin torna a Los Angeles per sbrigare le formalità del caso. Ad attenderlo c’è Linda, un’amica di famiglia rimasta fino all’ultimo al capezzale di Emilie. Proprio nella casa dove Martin ha vissuto da bambino, tornano a riemergere alcune immagini della sua infanzia. Turbato e incapace di affrontare la situazione, fugge a Tijuana per mettersi sulle tracce di Lola, una messicana con cui giocava da piccolo e che da allora pare aver avuto un ruolo importante nella vita di sua madre. Giunge così all’“Americano”, un night-club ricco di sorprese e personaggi ambigui. Ma per accettare il lutto, Martin dovrà fare i conti con il proprio passato. Mathieu Demy (Parigi, Francia, 1972), figlio di Agnes Varda e Jacques Demy, debutta al cinema nel 1981 in un film diretto da sua madre: Documenteur. Da allora segue la carriera di attore, alternando commedia e dramma, al fianco di registi come Olivier Ducastel e Jacques Martineau (Jeanne et le garçon formidable, 1998), Benoît Cohen (Nos enfants chéris, 2003), Pascal Bonitzer (Le grand alibi, Alibi e sospetti, 2008), André Téchiné (La fille du RER, 2009), Céline Sciamma (Tomboy, 2011). Nel 1999 fonda una sua casa di produzione, Les Films de l’Autre, e realizza i suoi primi cortometraggi. Nel 2011 produce e dirige il suo primo lungometraggio, Americano. – Qual’è la genesi di Americano? – È una lunga storia. Volevo raccontare di un uomo che si perde nel quartiere notturno di una città straniera. Poi si è aggiunto il tema del lutto: la morte della madre che innesca il viaggio e le domande. In parallelo, la mia passione per Documenteur, il film di Agnès Varda, mia madre, in cui ho recitato da bambino. Questo è un film importante per me perché si mescola con i miei ricordi d’infanzia: come un libro aperto sulla mia memoria, calato nella finzione. Sentivo che quel film aveva per me qualcosa di incompiuto... – Direbbe che il film ha una componente autobiografica? – Autobiografica, ma con molta finzione! Il film racconta chi è diventato il piccolo Martin di Documenteur, pur rimanendo un personaggio di finzione. Possono esserci analogie con il mio vissuto, ma come suggestioni evocative. Il lutto e il rapporto genitore-figlio sono infatti temi universali, che ognuno affronta a suo modo: Martin non accetta consigli e sbaglia. Preferisce sbattere la testa contro il muro, piuttosto che affrontare le proprie responsabilità. Ma alla fine giunge a valutare la sua storia familiare da una prospettiva diversa, riappropriandosi così del suo presente.
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Americano Martin lives in Paris with Claire, but their relationship is in crisis. At the news of his mother’s death, Martin returns to Los Angeles to settle the formalities. There he finds Linda, a family friend who stayed until the last at Emilie’s bedside, waiting for him. Just in the house where Martin lived as a child, some images of his childhood begin to reemerge. Upset and unable to cope with the situation, he runs away to Tijuana to get on the trail of Lola, a Mexican woman with whom he used to play as a child, who seems to have played since then an important role in his mother’s life. Thus he comes to the “American”, a night-club full of surprises and shady characters. But Martin will have to reckon with his past to come over the grief. Mathieu Demy (Paris, France, 1972), son of Agnes Varda and Jacques Demy, makes his debut in 1981 in a film directed by his mother: Documenteur. Since then he follows the acting career, alternating comedy and drama, with directors such as Olivier Ducastel and Jacques Martineau (Jeanne et le Garçon Formidable, 1998), Benoît Cohen (Nos enfants chéris, 2003), Pascal Bonitzer (The Great Alibi, 2008), André Téchiné (La fille du RER, 2009), Celine Sciamma (Tomboy, 2011). In 1999 he founded his own production company, Les Films de l’Autre, and made his first short films. In 2011 he produces and directs his first feature film, Americano. – Which is the genesis of Americano? – It’s a long story. I wanted to tell about a man who is lost in the nightlife district of a foreign city. Then came out the theme of mourning: his mother’s death, that triggers the journey and the questions. In parallel, my passion for the film Documenteur by Agnès Varda, my mother, in which I played as a child. This is an important film for me because it is mixed up with my childhood memories: an open book on my memory, dropped into fiction. I felt that film had for me something incomplete... – Would you say that the film has an autobiographical component? – Autobiographical, but with a lot of fiction! The film tells who has become the little Martin in Documenteur, while he remains a fictional character. There may be some similarities with my experience, but as evocative suggestions. Mourning and the relationship between parents and sons are indeed universal themes and everyone deals with them in his own way: Martin does not listen to any advice and makes wrong. He prefers to bang his head against the wall, rather than face his responsabilities. But at the end he comes to consider his family history from a different perspective, thus regaining his present. 21
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Hadar Friedlich
Emek tiferet
A Beautiful Valley Francia • Israele/France • Israel, 2011, 85’, col.
Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Hadar Friedlich Fotografia/Cinematography Talia (Tulik) Galon Montaggio/Editing Nelly Quettier, Hadar Friedlich Scenografia/Set design Shunit Aharoni Costumi/Costume design Zmira Ratzkovsky Musica/Music Uri Ophir Suono/Sound Itay Elohey, Shavit Erez Eyni, Jean-Christophe Julé Interpreti/Cast Batia Bar (Hanna), Gili Ben Ouzilio (Yaël), Hadar Avigad (Naama), Ruth Geller (Myriam), Eli Ben-Rey (Shimon), Hadas Porat (Odeda), Shmuel Ben Shalom (Tsigelman), Eli Tal (il responsabile del giardino/ the man in charge for the garden) Produttori/Producers Eilon Ratzkovsky, Yaël Fogiel, Laetitia Gonzalez, Yossi Uzrad, Guy Jacoel, Yochanan Kredo Produzione/Production July August Productions, Les Films du Poisson Contatti/Contacts July August Productions, 26 Nahmani St., 65794 Tel Aviv, Israel, tel. +972 3 5100223, fax +972 3 5100184, noy.orna@gmail.com, www.july-august com, Les Films du Poisson, 54 Rue René Boulanger, 75010 Paris, France, tel. +33 (0)1 42025480, fax +33 (0)1 42025472, contact@filmsdupoisson.com Filmografia/Filmography Emek tiferet (A Beautiful Valley, 2011) Slaves of the Lord (short, 2002) Grief (short, 2000)
Una bella vallata [t.l.] Hanna Mendelssohn, caparbia vedova ottantenne, è un orgoglioso membro di una comunità collettiva (kibbutz) che lei stessa ha contribuito a fondare. Hanna crede fermamente nei valori di uguaglianza sociale e cooperazione su cui è fondato il kibbutz. Quando la privatizzazione della struttura la costringe alla pensione, il suo mondo va in frantumi. Dopo anni di dedizione e duro lavoro, Hanna si sente inutile. Si sforza di vivere la propria vita come sempre, ma ogni volta è costretta a fare i conti con la realtà. Proprio quando sta per abbandonare le speranze, grazie all’amicizia e alla solidarietà, capisce che qualcosa di nuovo può ancora nascere. Hadar Friedlich (Israele) ha presentato i suoi primi cortometraggi Grief (2000) e Slaves of the Lord (2002) a numerosi festival cinematografici in tutto il mondo, tra cui Cannes (Quinzaine), São Paulo, Locarno e Clermont-Ferrand, vincendo diversi premi tra cui il FIPA d’Or, il Melbourne Grand Prix Award, l’Odense premio della critica e il premio miglior sceneggiatura al Festival Internazionale di Gerusalemme. A Beautiful Valley è il suo primo lungometraggio. Nel 2004 Friedlich ha partecipato alla residenza del festival di Cannes e ha lavorato alla sceneggiatura di A Beautiful Valley (inizialmente intitolato Hanna M). Lo script ha vinto il Cinemed a Montpellier ed è stato insignito di un premio dalla Fondation Groupama Gan pour le Cinéma di Parigi nel 2007. Un premio alla sceneggiatura è stato attribuito anche dalla Fondazione Rabinovich Progetto Cinema di Israele. Nel 2008 la regista ha presentato la sceneggiatura al Sundance Script Lab. Attualmente lavora come editor e script editor per la fiction e il documentario. Ha in progetto una nuova sceneggiatura. «Ho voluto mostrare, tra le altre cose, una donna che deve passare attraverso dei cambiamenti e un processo per lei difficile e che la spaventa. Un processo che avviene quando è già anziana. Improvvisamente è costretta a imparare nuove competenze, che a lei non piacciono. Prima era una persona attiva, che si sentiva utile e necessaria, e tutto a un tratto si ritrova a essere messa da parte. [...] Quando nacque il movimento dei kibbutz, il lavoro era considerato il valore sommo, soprattutto il lavoro agricolo. Il ritorno a lavorare la terra era un sogno che si avverava per i pionieri. Hanna è come quei pionieri. Io ho cercato di “usare” la natura per creare il senso dell’amore di Hanna per la terra, il paesaggio, la sua casa. Gli spazi verdi contrastano inoltre l’avvilimento morale di Hanna e i cambiamenti nel kibbutz».
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A Beautiful Valley Hanna Mendelssohn, a stubborn eighty-year-old widow, is a proud member of a collective community (kibbutz) she herself helped to found. She believes strongly in the values of social equality and cooperation upon which the kibbutz was created. Her world disintegrates as the privatization of the kibbutz forces her into retirement. After years of devotion and hard work, she finds herself useless. She strives to continue to live her life as she used to, but everytime reality slaps her in the face. When all her hopes are diminished, she realizes that friendship and solidariety still exist and something new can flourish. Hadar Friedlich (Israel) participated with her first short films Grief (2000) and Slaves of the Lord (2002) at film festivals around the world, including Cannes (Quinzaine), São Paulo, Locarno and ClermontFerrand, winning various prizes including the FIPA d’Or, Melbourne Grand Prix Award, Odense Critics Award and the Best Script Award at the Jerusalem International Film Festival. A Beautiful Valley is her feature directorial debut. In 2004 Friedlich stayed at the Residence of Cannes Film Festival and worked on the script of A Beautiful Valley (former Hanna M). The script won the development grant at Cinemed in Montpellier and was laureat of Fondation Groupama Gan pour le Cinéma at Paris in 2007. A writing grant was also awarded by the Rabinovich Foundation Cinema Project in Israel. In 2008 the director participated with the script at the Sundance Scripts Lab. Currently working as editor and script editor for fiction and documentary, she is now developping a new script. «I wanted to show, among other things, a woman who has to go through changes and through a process which is difficult and scary for her. A process that happens when she is old. Suddenly she is forced to learn new skills, that she doesn’t like. She used to be very active, and she felt useful and needed, and all of a sudden she finds herself being pushed aside. […] When the kibbutz movement was founded, work was the highest value and especially the work of the land. The return to work the land was a dream come true to the pioneers. Hanna is like those pioneers. I tried by “using” nature to create the sense of Hanna’s love and connection to the place, the landscape, to her home. The green spaces also contrast with Hanna’s moral deterioration and the changes in the kibbutz». 23
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Pablo Giorgelli
Las acacias Argentina • Spagna/Argentina • Spain, 2011, 82’, col.
Regia/Director Pablo Giorgelli Sceneggiatura/Screenplay Pablo Giorgelli, Salvador Roselli Fotografia/Cinematography Diego Poleri Montaggio/Editing María Astrauskas Scenografia/Set design Yamila Fontán Costumi/Costume design Laura Donari, Violeta Gauvry Suono/Sound Martin Litmanovich Interpreti/Cast Germán de Silva (Rubén), Hebe Duarte (Jacinta), Nayra Calle Mamani (Anahí) Produttori/Producers Ariel Rotter, Verónica Cura, Alex Zito, Pablo Giorgelli, Eduardo Carneros, Esteban Ibarretxe, Javier Ibarretxe Produzione/Production Proyecto Experience, Airecine, Utópica Cine, Armónika, Tarea Fina Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Urban Distribution International, 14 rue du 18 Août, 93100 Montreuil-sous-Bois, France, tel. +33 (1) 48.70.46.55, fax +33 (1) 49.72.04.21, contact@urbandistrib.com, www.urbandistrib.com, www.lasacaciasfilm.com
Le acacie [t.l.] Rubén è un camionista solitario che da anni percorre il tratto di autostrada da Asunción del Paraguay a Buenos Aires, trasportando legname. Un giorno accetta di dare un passaggio a una donna che non conosce, Jacinta, che arriva carica di borse e con in braccio la sua bimba di appena cinque mesi, Anahí. Rubén non si aspettava certo di condividere il viaggio con un bebè, e volentieri scaricherebbe madre e figlia. Ma il viaggio continua, e poco alla volta Rubén prende in simpatia Jacinta e la piccola Anahí. Nessuno di loro parla molto della propria vita. Nessuno di loro fa domande. Sarà un viaggio di poche parole, ma non certo silenzioso. Pablo Giorgelli (Buenos Aires, Argentina, 1967) è regista, sceneggiatore e montatore. Tra il 1991 e il 1994 studia regia cinematografica presso la Universidad del Cine di Buenos Aires, diretta da Manuel Antín. Come regista e sceneggiatore ha lavorato a diversi documentari e cortometraggi. Come montatore ha lavorato a Moebius (1995), diretto da Gustavo Mosquera e Solo por hoy (2001) di Ariel Rotter. Las Acacias, suo primo lungometraggio, ha vinto il Premio Coral per la miglior sceneggiatura inedita al Festival Internacional del Nuevo Cine Latinoamericano dell’Avana e la prestigiosa Camera d’Or come miglior opera prima al festival di Cannes 2011 (Semaine de la Critique). «Credo che questo viaggio sia iniziato quando mio padre si è ammalato, quasi dodici anni fa. Da quel momento, e senza esserne consapevole, quello che ritenevo essere il mio mondo ha iniziato a evolvere, rapidamente. Mi sono allontanato dalla mia famiglia, mi sono separato da mia moglie, mentre la crisi senza pietà che il mio Paese stava attraversando in quel momento mi ha lasciato senza lavoro, e per poco senza una casa. Questo film parla del dolore che si prova di fronte alla perdita di una persona cara, della solitudine che ne deriva. Parla del figlio che ero a un tempo, e del padre che non sono ancora. Del sollievo che ho provato quando mi sono reso conto che avevo ancora una famiglia, dopo che mio padre era morto. Solo allora sono stato in grado di riprendere contatto con me stesso. Ma il film parla anche della nuova famiglia che ho trovato quando ho conosciuto Maria, mia moglie, e della possibilità che ognuno di noi ha in sé, di rinascere e riprendere in mano la propria vita».
Filmografia/Filmography Las acacias (2011) El último sueño (short, 1993)
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Las acacias Rubén is a lonely truck driver who has been covering for years the motorway from Asunción del Paraguay to Buenos Aires, carrying wood. One day he agrees to take a passenger, Jacinta, a woman he doesn’t know, who arrives burdened with bags and her five-month-old baby, Anahí. Rubén didn’t expect a baby to be coming and would gladly off-load both of them. But the journey continues, and gradually Rubén takes a shine to Jacinta and the little Anahí. None of them talks much about their lives. None asks much either. It’s a few word journey but it is not a silent one. Pablo Giorgelli (Buenos Aires, Argentina, 1967) is director, scriptwriter and film editor. Between 1991 and 1994 he studied film direction at the Universidad del Cine in Buenos Aires, headed by Manuel Antín. As a director and scriptwriter he has worked on several documentaries and short films. As an editor he has worked in Moebius (1995), directed by Gustavo Mosquera and Solo por hoy (2001) by Ariel Rotter. Las acacias, his first feature film, won the Coral Prize for the best unpublished script at the Festival Internacional del Nuevo Cine Latinoamericano in Havana and the prestigious Camera d’Or for the best first film at Cannes 2011 (Semaine de la Critique). «I feel the journey started when my father got sick, that was nearly twelve years ago. From that moment, and without being conscious of it, what I considered to be my world started coming up, quickly. I drifted apart from my family, I separated from my wife, while the merciless crisis my country was undergoing at that time left me unemployed, and nearly without a home. This film speaks of my pain for the loses, of the loneliness I experienced. Of the son I was at that time, and the father I have not become yet. And of the relief I felt when I realized that I still had a family, after my father passed away. And then I was able of reconnecting with them and with myself. And it also speaks of the new family I found when I met Maria, my wife, and the possibility that each of us bears within himself, to reborn and regain his life». 25
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Valérie Mréjen, Bertrand Schefer
En ville
Iris in Bloom Francia/France, 2011, 75’, col.
Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Valérie Mréjen, Bertrand Schefer Fotografia/Cinematography Claire Mathon Montaggio/Editing Thomas Marchand Scenografia/Set design Aurore Casalis Costumi/Costume design Sophie Lifshitz Musica/Music Jean Claude Vannier Suono/Sound Philippe Deschamps Interpreti/Cast Lola Créton (Iris), Stanislas Merhar (Jean), Adèle Haenel (Isabelle), Valérie Donzelli (Monika), Ferdinand Régent (Alexandre), Barthélémy Guillemard (l’amico di Iris/ Iris’ friend), Bertrand Schefer (Jérémie) Produttore/Producer Charlotte Vincent Produzione/Production Aurora Films Contatti/Contacts Films Boutique, Skalitzer Str. 54A, 10997 Berlin, Germany, tel. +49 30 695.378.50, fax +49 30 695.378.51, info@filmsboutique.com, www.filmsboutique.com Filmografia/Filmography Valérie Mréjen En ville (Iris in Bloom, 2011) Exercice de fascination au milieu de la foule (short doc, 2011) French Courvoisier (short, 2009) Valvert (2008) Manufrance (short, 2006) Pork and Milk (doc, 2004) Bertrand Schefer En ville (Iris in Bloom, 2011) Exercice de fascination au milieu de la foule (short doc, 2011) French Courvoisier (short, 2009)
In città [t.l.] Iris ha sedici anni, una bellezza luminosa, i capelli spettinati e vive in una piccola città di provincia sul mare. Un giorno, per caso, incontra Jean, quarantenne fotografo parigino. Lui le offre un passaggio e tra i due è subito attrazione, per quanto lei abbia un quasi-fidanzato e lui una compagna. La loro frequentazione è fatta di gesti apparentemente casuali, corrispondenze nascoste, piccole rivelazioni, mentre il loro rapporto si trasforma in un’amicizia amorosa destinata a cambiare profondamente le loro vite. Valérie Mréjen (Parigi, Francia, 1969) è un’artista visiva, scrittrice e regista. Con il cortometraggio French Courvoisier, co-diretto con Bertrand Schefer, ha vinto il Grand Prix a Cannes nel 2010. Il suo primo documentario, Pork and Milk, è uscito nelle sale nel 2004. Con la casa editrice Allia ha pubblicato i suoi primi tre racconti: Mon grand-père (1999), L’agrume (2001) e Eau Sauvage (2004). Iris in Bloom è il suo primo lungometraggio. Bertrand Schefer (Parigi, Francia, 1972) è scrittore, traduttore letterario e regista. Dall’italiano, ha tradotto Pico della Mirandola e Giacomo Leopardi. Nel 2008 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, L’Âge d’or, con la casa editrice Allia. Nel 2009-2010 ha partecipato a una residenza letteraria a Villa Medici in Italia e a Villa Kujoyama in Giappone. Nel 2011 ha co-diretto con Valérie Mréjenun Exercice de fascination au milieu de la foule, cortometraggio documentario sulle ragazze di Shibuya. Iris in Bloom è il suo primo lungometraggio. «Per noi, è stato molto chiaro fin dall’inizio che per questo progetto non avremmo rinunciato alla nostra esperienza nelle arti visive e in letteratura. Tuttavia abbiamo voluto rimescolare le carte. L’idea non era quella di cambiare completamente, quanto piuttosto di pensare fin dall’inizio in termini registici, andando incontro al cinema. Si tratta di un processo di apprendimento che abbiamo condiviso e seguito insieme, vedendo anche moltissimi film. Abbiamo deciso di girare in 16mm non solo per un criterio estetico, ma anche pragmatico. Paradossalmente, ci siamo resi conto che sarebbe costato meno avere una buona resa visiva utilizzando la pellicola piuttosto che il video, che richiede invece un budget più elevato per una qualità accettabile, soprattutto per quanto riguarda l’illuminazione. Inoltre c’è anche un collegamento tra il modo in cui abbiamo girato e il mestiere di Jean, poiché il personaggio del fotografo preferisce lavorare con macchine fotografiche analogiche. Per questo abbiamo posto l’importanza dell’inquadratura sui primi piani».
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Iris in Bloom Iris is sixteen, has a bright beauty, uncombed hair and lives in a small provincial town on the sea. One day, by chance, she meets Jean, a Parisian photographer about forty. He gives her a lift and right away the two are attracted to each other, despite the fact that she has a kind of boyfriend and he has a partner. Their attendance is made up of seemingly random gestures, hidden correspondences, small revelations, while their relationship evolves into a love friendship that profoundly changes their lives. Valérie Mréjen (Paris, France, 1969) is a visual artist, writer and director. Her short French Courvoisier, co-directed with Bertrand Schefer, won the Grand Prix at Cannes in 2010. Her first documentary, Pork and Milk, was released in 2004. With Allia Editions she published her first three stories: Mon grand-père (1999), L’agrume (2001) and Eau Sauvage (2004). Iris in Bloom is her first feature film. Bertrand Schefer (Paris, France, 1972) is a writer, literary translator and director. From Italian, he translated Pico della Mirandola and Giacomo Leopardi’s works. In 2008 he published his first novel, L’Âge d’or, with Allia Editions. In 2009-2010 he was a writer in residence at Villa Medici (Italy), then at Villa Kujoyama (Japan). In 2011 he co-directed with Valérie Mréjen a short documentary about Shibuya’s girls. Iris in Bloom is his first feature film. «For us, it was very clear from the start that for this project we didn’t want to dismiss our experience in visual arts and literature. We wanted, however, to re-shuffle the cards. The idea was not to shift completely, but to think from the very beginning in terms of filmmaking, to go towards cinema. It is a learning process that we shared and followed together, by watching a lot of films as well. We chose to film in 16mm not just because of an esthetic criterion, but a pragmatic one. Paradoxically, we realized it would cost less to have a beautiful visual aspect by using film rather than video, for which acceptable quality requires a higher budget, especially as far as lighting is concerned. And then, there’s also a connection between the way we shot and Jean’s work, since the character of the photographer prefers working with analogue cameras. Thus we placed the importance of the frame in the forefront». 27
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Adrian Sitaru
Din dragoste cu cele mai bune intenţii
Best Intentions
Romania • Ungheria/Romania • Hungary, 2011, 102’, col.
Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Adrian Sitaru Fotografia/Cinematography Adrian Silişteanu, Mihai Silişteanu Montaggio/Editing Andrei Gorgan, Adrian Sitaru Scenografia/Set design Monica Lazurean-Gorgan Costumi/Costume design Malina Ionescu Suono/Sound Tamás Zányi Interpreti/Cast Bogdan Dumitrache (Alex), Nataşa Raab (la madre di Alex/Alex’s mother), Marian Râlea (il padre di Alex/Alex’s father), Alina Grigore (Delia), Adrian Titieni (il dottor/ Dr. Crisan), Clara Voda (Nuti), Adina Popescu (Rodica), Mirela Cioaba (Elena) Produttore/Producer Ada Solomon Produzione/Production Hi Film Productions, Cor Leonis Films, 4Proof Film Contatti/Contacts Films Boutique, Skalitzer Str. 54A, 10997 Berlin, Germany, tel. +49 30 695.378.50, fax +49 30 695.378.51, info@filmsboutique.com, www.filmsboutique.com
Filmografia/Filmography House Party (short, 2012) Din dragoste cu cele mai bune intenţii (Best Intentions, 2011) În derivã (tv series, 2010) Colivia (The Cage, short, 2010) Lord (short, 2009) Pescuit sportiv (Hooked, 2007) Valuri (Waves, short, 2007) Vreau să simt (tv, 2006) Bolnavă de iubire (tv, 2006) Mincinosul (tv, 2006) A doua sansa (tv, 2006)
Con le migliori intenzioni [t.l.] Alex, trentacinqe anni, è un tipo piuttosto apprensivo. Quando la madre viene ricoverata per un ictus, la vita del premuroso figliolo esce letteralmente dai binari. In ospedale, Alex si ritrova catapultato in una sorta di farsesca galleria umana costellata di improbabili personaggi e sorprendenti eventi, risucchiato in un incubo che lui stesso ha creato. Cercando di gestire al meglio la situazione, tenuto conto dei consigli di tutti, Alex rischia di diventare ipocondriaco. Mentre la madre sembra perfettamente in forma, lui continua a non trovare la rotta. Il tutto, con le migliori intenzioni. Adrian Sitaru (Romania, 1971) ha studiato regia a Bucarest. Dopo diversi film televisivi, si fa notare nel 2008 con il cortometraggio Waves, con il quale vince il Golden Leopard al festival di Locarno e il premio come miglior cortometraggio al festival di Sarajevo. Sempre nel 2008 il suo primo lungometraggio, Hooked, è selezionato al festival di Venezia (Giornate degli Autori) e a Toronto. Il film riceve numerosi riconoscimenti internazionali (Palm Springs, Salonicco, Mons, Buenos Aires, Estoril). Best Intentions è il suo secondo lungometraggio, con cui si è aggiudicato il Pardo per la migliore regia al festival di Locarno nel 2011. «Non ero abituato a scrivere una sceneggiatura basata sull’esperienza personale, ed è stato difficile gestire e scrollarsi di dosso la soggettività di qualcosa che si è vissuto. Sono partito considerandomi potente e immortale per arrivare a capire quanto noi tutti siamo invece deboli e stupidi di fronte alla morte. Ho capito la debolezza del voler essere un maniaco del controllo, paranoico fino al punto di dare, alla persona che si vuole aiutare, qualcosa che potrebbe di fatto ucciderla. Ho capito cosa si prova nel perdere una persona cara, e che inevitabilmente un giorno perderemo chi amiamo. Consiglierei di vedere questo film a tutti coloro che agiscono facendosi prendere dal panico nelle situazioni più difficili. Non so se vedere un film del genere mi aiuterebbe. Ma aiuta sapere che non sei l’unico ad avere reazioni bizzarre, divertenti e persino ridicole. Ecco perché ho cercato di rendere il film più leggero, non così drammatico. Ci sono molti momenti esilaranti. Questo perché, sebbene durante la settimana in cui mia madre ha avuto l’infarto non avevo affatto voglia di ridere, mi sono ricordato quanto era successo. Sembrava tutto decisamente assurdo e divertente».
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Best Intentions Alex, in his mid-thirties, is a quite anxious guy. When his mother is hospitalized with a stroke, the caring son’s life literally gets out of track. At the hospital, Alex finds himself in a burlesque kind of human zoo full of unexpected characters and surprising events, sucked into a nightmare made by his own creation. Trying to manage the situation in between everybody’s advice, he’s coming hypochondriac. While his mother seems to feel perfectly fine, he still makes his own set of mistakes, throughout with the best intentions. Adrian Sitaru (Romania, 1971) studied film directing in Bucharest. After several tv movies, he reveals in 2008 with the short Waves, which won the Golden Leopard at the Locarno Film Festival and the prize for the Best Short at the Sarajevo Film Festival. In the same year, his first feature film Hooked is selected at the Venice Film Festival (Venice Days) and at Toronto International Film Festival. The film received numerous international awards (Palm Springs, Thessaloniki, Mons, Buenos Aires, Estoril). Best Intentions is his second feature film, which won the Leopard for the best director at the Locarno Film Festival 2011. «I wasn’t used to writing a script about a personal experience, and it was difficult to manage and shake off subjectivism when describing something you experienced. I moved from considering myself powerful and immortal to realizing how weak and stupid we are when confronted with death. I understood the weakness of being a control freak, of being paranoid even to the point of giving the person you want to help, something which might actually kill them. I understood how it feels to lose someone you love, and that inevitably there will come a day when we will lose the ones we love. I think this movie should be seen by all the people who act slightly panicked in extreme situations. I don’t know if seeing such a movie would help me. But it helps knowing you are not the only one with such bizarre, amusing and even ridiculous reactions. That’s why I took the movie to a lighter zone, one not so dramatic. It’s rather filled with hilarious moments. And that is because, even if during the week my mother had the attack I didn’t feel like laughing, I reminded myself what had happened. It all seemed extremely absurd and amusing». 29
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Mostra Concorso Exhibition Competition
Marco van Geffen
Onder ons
Among Us
Olanda/The Netherlands, 2011, 84’, col.
Regia/Director Marco van Geffen Sceneggiatura/Screenplay Jolein Laarman, Marco van Geffen Fotografia/Cinematography Ton Peters Montaggio/Editing Peter Alderliesten Scenografia/Set design Elsje de Bruijn, Jorien Sont Costumi/Costume design Monica Petit Musica/Music Chrisnanne Wiegel, Melcher Meirmans, Merlijn Snitker Suono/Sound Michel Schöpping Interpreti/Cast Dagmara Bak (Ewa), Natalia Rybicka (Aga), Rifka Lodeizen (Ilse), Guy Clemens (Peter), Reinout Bussemaker (Anton) Produttori/Producers Leontine Petit, Derk-Jan Warrink Produzione/Production Lemming Film Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Lemming Film, Valschermkade 36 F, 1059 CD Amsterdam, The Netherlands, tel. +31 (0) 20.661.04.24, fax +31 (0) 20.661.09.79, info@lemmingfilm.com, www.lemmingfilm.com, www.onder-ons.be
Filmografia/Filmography Onder ons (Among Us, 2011) Schnitzelparadijs – De serie (tv series, 2008) Holi (short, 2006) Het zusje (short, 2006) Allerzielen [ep. Dylan] (All Souls, 2005)
Tra noi [t.l.] Ewa, una giovane polacca, arriva come ragazza alla pari presso una tranquilla famiglia benestante olandese. Tutto all’inizio sembra andare per il meglio, ma lentamente qualcosa si incrina. Il comportamento di Ewa diventa incomprensibile, ostile, e il rapporto con la coppia che la ospita si fa sempre più difficile. Confusa e insicura, Ewa inizia a chiudersi in se stessa, mentre le sue giornate scorrono nel silenzio, pervase da una sottile inquietudine. Un giorno, però, incontra Aga: un’estroversa connazionale anche lei lì per accudire un bambino presso una famiglia. E le cose sembrano prendere una nuova direzione. Marco van Geffen (Olanda, 1959) studia arti audiovisive all’Accademia d’Arte di Arnhem. Sceneggiatore di film quali Het schnitzelparadijs (2005) di Martin Koolhoven e Briefgeheim (2010) di Simone van Dusseldorp. Ha diretto tre cortometraggi: Dylan (2005), Het zusje (2006), selezionato per la Palma d’Oro a Cannes, e Holi (2006) oltre ad alcuni episodi della serie televisiva Schnitzelparadijs – De serie (2008). Among Us è il suo lungometraggio d’esordio. Il film ha partecipato a vari festival cinematografici internazionali, tra cui Toronto, il Cairo e Locarno dove si è aggiudicato il premio CICAE della Confederazione Internazionale dei Cinema d’Arte & d’Essai e la Menzione speciale della Giuria del premio ecumenico. «Supponete di avere diciottanni. Di venire da una sperduta cittadina polacca dove non c’è lavoro, dove tutti si conoscono e dove non c’è nessun posto per divertirsi. Un giorno non ce la fai più. Così decidi di andartene e cercare un nuovo inizio. Ma tutto in quel nuovo Paese ti è alieno: non conosci la lingua, la gente si comporta diversamente. È difficile entrare in contatto, trovare il tono giusto. Ti manca la famiglia, ti senti solo. Un giorno pensi di aver scoperto l’identità dello stupratore che si aggira nella città in cui adesso vivi. Che fare allora? Dirlo a delle persone che comunque non ti ascolterebbero? Stare zitti? E se ti sbagliassi? Se il sospetto non fosse fondato? Ewa è in dubbio, e quanto più dubita tanto più comincia a dubitare di se stessa, e il suo comportamento si fa sempre più scostante. Più Ewa tace, più profondo diventa il suo isolamento. Vorrebbe parlare, ma teme che la gente la consideri una stupida. È questo il dilemma che le impedisce di parlare. E quando finalmente scioglie il suo dilemma, non c’è più nessuno rimasto ad ascoltare».
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Among Us Ewa, a young Polish woman, arrives as an au-pair girl by a nice wealthy Dutch family. Everything seems to be going well at the beginning, but slowly something cracks. Ewa’s behavior becomes unintelligible, hostile, and the relationship with the couple that hosts her becomes increasingly difficult. Confused and insecure, Ewa begins to close into herself while the days run into the silence, pervaded by a subtle uneasiness. But one day she meets Aga, an outgoing fellow also there to look after a child by a family. And things seem to take a new direction. Marco van Geffen (The Netherlands, 1959) studied visual arts at the Art Academy of Arnhem. Screenwriter of such films as Het schnitzelparadijs (2005) by Martin Koolhoven and Briefgeheim (2010) by Simone van Dusseldorp. He has directed three short films: Dylan (2005), Het zusje (2006), selected for the Palme d’Or at Cannes, and Holi (2006) besides some episodes of the tv series Schnitzelparadijs – De serie (2008). Among Us is his feature film debut. The film partecipated at various film festival around the worl, including Toronto, Cairo and Locarno where it won the CICAE Award of the International Art & Essay Cinema Confederation and the Ecumenical Special Mention Award. «Just suppose: you’re eighteen-year-old. You’re from a small town somewhere in Poland where there’s no work, where everyone knows each other and where there’s nowhere you can enjoy. One day you’re just fed up. So you decide to leave and make a fresh start. But everything in that new country is unfamiliar: you don’t speak the language, people behave differently. It’s hard to make contact, to find the right tone. You miss your family, you feel lonely. One day you think having found out the identity of the rapist who has been prowling around the town where you actually live. So, what are you expecting to do? Share your knowledge with the people who would not listen to you anyway? Keep your mouth shut? For what if you’re wrong? How sure can you be that your suspicion is true? Ewa is in doubt, and the longer she doubts, the more she begins to doubt herself, and the more standoffish her behaviour becomes. The longer Ewa keeps up her silence, the deeper she’s pressed into her isolation. She would speak up, but she’s afraid that people would consider her an idiot. It is this dilemma that keeps her from talking. And when she eventually breaks through her dilemma, there is no one left to hear». 31
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Visti da vicino Close Up
Martellare Alberto Valtellina
Autoreferenziale. Lunedì 20 febbraio abbiamo riproposto nella sala del Teatro Tascabile di Bergamo, a grande richiesta, all’interno della rassegna “Laboratorio Tascabile”, il bellissimo film Nel giardino dei suoni di Nicola Bellucci, già nel programma Visti da vicino 2011. Il film ha avuto un grande successo in Svizzera, dove ha avuto più pubblico di tanti film mainstream dotati di uffficio stampa aggressivo (non sempre l’aggressività paga!). Lunedì 20 febbraio nella sala da settanta posti c’erano novantacinque persone. Nicola Bellucci ci ha detto che in Svizzera il film chiamato “documentario” (per pigrizia) non ha sorte diversa rispetto al “film” chiamato in modo diverso. Ha normale programmazione, finanziamenti in relazione al numero degli spettatori, grandi opportunità per il regista per la produzione dei film successivi. Nel giardino dei suoni è stato distribuito in quattro copie 35mm, DCP con sei diverse possibilità di sottotitoli e DVD video. Bellucci: «La Svizzera ha martellato da anni sulla distribuzione dei film, senza distinguere fra i possibili generi. Un film è un film». Abbiamo da sempre considerato il panorama Visti da vicino come una proposta di film, “film”. Anche quest’anno il programma è davvero molto vario. Five Broken Cameras di Emad Burnat e Guy Davidi si presenta in anteprima per l’Italia, dopo avere ricevuto importantissimi riconoscimenti internazionali al Festival IDFA ad Amsterdam e al Sundance Film Festival. In Atelier Colla Pietro De Tilla, Elvio Manuzzi e Guglielmo Trupia vivono la produzione del Macbeth della compagnia Colla così da vicino da rimanerne coinvolti (ma questa parte non si vede nel film). Dimanche à Brazzaville di Enrich Bach e Adriá Mones spiazza raccontando i dandies africani (o sono bravissimi attori?). Breath di Kullar Viimne ci presenta l’unica donna spazzacamino estone (o è una bravissima attrice?). Continua, due anni dopo, la presentazione della filmografia di Carine Bijlsma, figlia d’arte (il padre è il celebre violoncellista Anner Bijlsma), quest’anno con Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old, Carine racconta la difficile vita di una giovane virtuosa del violino. Con One Man Riot Christopher Evans ritorna a Bergamo, dopo la lunga esperienza londinese. La National Film and Television School ha raffinato le qualità registiche dell’australiano/bergamasco, che firma un lavoro intenso e partecipato. La televisione che vorremmo vedere è in The Afghan Nightmare di Klaus Erik Okstad, prodotto dalla rete NRK. Il regista segue Rune Solberg, colonnello norvegese delle forze NATO in Afghanistan, fra i mille misunderstanding culturali di una guerra priva di senso (o peace keeping, è lo stesso). Delicatissimo avvicinamento a un gruppo indio cubano è invece il tema di In absentia di Tareq Daoud. Uguale attenzione in Decrescendo di Marta Minorowicz: Tomek è un giovane psicologo che lavora in una casa di riposo, la bellezza è il tema delle conversazioni con gli anziani ricoverati. Erika Hnikovà in Matchmaking Mayor propone l’improbabile storia del sindaco di un villaggio ceco ossessionato dalla necessità di creare future coppie, per la sopravvivenza del villaggio stesso. Nel breve Santino Francesco Scarponi utilizza senza problemi le registrazioni di interviste fatte al nonno, in un film che lega animazione, archivio e disegni di bambini. Ci sembra un programma molto bello, anche se brevissimo, quello di Visti da vicino, in relazione alla proposta produttiva mondiale. Ma l’anno è lungo e le rassegne sono tante: anche se non siamo in Svizzera cerchiamo di martellare. 33
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Enric Bach, Adrià Monés
Dimanche à Brazzaville
Sunday in Brazzaville
Spagna • Congo/Spain • Congo, 2011, 51’, col.
Regia, Soggetto, Produttori/ Director, Story, Producers Enric Bach, Adrià Monés Fotografia/Cinematography Enric Bach Montaggio/Editing Nuria Campabadal Musica/Music Cheriff Bakala, Fanfarre Geriko, Jean Serge Essous Suono/Sound Adrià Monés Interpreti/Cast Carlos La Menace, “Yves Saint Laurent”, Cheriff Bakala, Palmas Yaya Produzione/Production Fasten Seat Belt Distribuzione/Distribution JAVA Films Contatti/Contacts JAVA Films, 4-6 Villa Thoréton, 75015 Paris, France, tel. +33 0140602624, fax +33 0140602649
Domenica à Brazzaville [t.l.] Carlos La Menace racconta, nel suo programma radiofonico del fine settimana, tre personaggi di Brazzaville, capitale del Congo. Il sapeur sprannominato “Yves Saint Laurent”, è una figura di spicco in un’associazione che fa dell’eleganza nei modi e nell’apparire uno stile di vita, pur nella povertà estrema. Cheriff Bakala è un rapper originale che unisce l’hip-pop con la musica tradizionale congolese. Palmas Yaya è il campione di wrestling della città che fa affidamento sul voodoo per difendere il titolo. Enric Bach (Sabadell, Spagna, 1979) è regista, sceneggiatore e direttore della fotografia. Bach unisce il suo lavoro come caporedattore del programma tv di giornalismo Salvados su La Sexta (El Terrat Produccions, Spagna) con la realizzazione di documentari. Dimanche à Brazzaville è il suo primo lungometraggio. Adrià Monés (Sabadell, Spagna, 1979) è produttore cinematografico alla Filmax. Ha iniziato a lavorare nell’ambito del documentario come sceneggiatore e regista grazie al suo primo impiego a Canal+ e successivamente al canale Documania. Sunday in Brazzaville Carlos La Menace tells, in his weekend radio program, about three characters of Brazzaville, the capital of Congo. The sapeur named “Yves Saint Laurent”, is a leading figure in an association which makes of elegance a real lifestyle, although in extremely poor conditions. Cheriff Bakala is a rapper who combines the original hip-pop with traditional Congolese music. Palmas Yaya is the wrestling champion of the city who relies on voodoo to defend his title.
Filmografia/Filmography Enric Bach Dimanche à Brazzaville (Sunday in Brazzaville, doc, 2011) Audiovisuals Exposició Matter in Progress (Exhibition Matter in Progress, short doc, 2009) Making Off – Transsiberian (short doc, 2007) Adrià Monés Dimanche à Brazzaville (Sunday in Brazzaville, doc, 2011)
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Enric Bach (Sabadell, Spain, 1979) is a director, screenwriter and cinematographer. Bach combines his work as editor of the journalistic tv program Salvados screened on La Sexta (El Terrat Produccions, Spain) with the making of documentaries. Dimanche à Brazzaville is his first feature film. Adrià Monés (Sabadell, Spain, 1979) is a film producer at Filmax. He began working in documentary as writer and director with his first job at Canal+ and then at the channel Documania.
Visti da vicino Close Up
Carine Bijlsma
Soliste, Rosanne Philippens, 23 jaar
Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old Olanda/The Netherlands, 2010, 55’, col.
Solista, Rosanne Philippens, 23 anni [t.l.] Rosanne Philippens, giovane violinista di ventitrè anni della Nederlands Studenten Orkest, è alle prese con il suo primo tour in dieci tappe da solista in Francia, Belgio e Germania. Nella sua orchestra suona anche il fidanzato italiano, flautista. Carine Bijlsma segue la protagonista nella dimensione professionale e personale, descrivendo le difficoltà di trovare un equilibrio come individuo, sia nel gruppo che nella coppia. Carine Bijlsma (Amsterdam, Olanda, 1983) dopo gli studi di fotografia si è diplomata alla Dutch Film and Television Academy. I suoi primi due documentari, The Secret of Boccherini e Middle School Melodies, che hanno ricevuto riconoscimenti in Olanda, sono stati presentati al Bergamo Film Meeting nel 2009. Nel 2010 Bijlsma ha completato Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old e nel 2011 ha realizzato Extase, entrambi trasmessi dalla televisione olandese NTR e presentati a vari festival internazionali. Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old Rosanne Philippens, young twenty-three years old violinist in the Nederlands Studenten Orkest, is caught up in her first ten concerts tour as a soloist in France, Belgium and Germany. In her orchestra also plays her Italian boyfriend, a flautist. Carine Bijlsma follows the protagonist in her professional and personal dimension, describing the difficulties in finding a balance as an individual, either in a group or in the couple.
Regia, Soggetto/Director, Story Carine Bijlsma Montaggio/Editing Annelotte Medema Musica/Music Nederlands Studenten Orkest Suono/Sound Robin Rahantoeknam Interpreti/Cast Rosanne Philippens, Emiliano Zenodocchio, Arjan Tien, Vera Beths, i membri della/ the members of the Nederlands Studenten Orkest Produttore/Producer Rosan Boersma Produzione, Distribuzione/ Production, Distribution Rosan Productions Contatti/Contacts Rosan Productions, Vondelstraat 57, 1054 GK Amsterdam, The Netherlands, info@rosanproductions.nl
Carine Bijlsma (Amsterdam, The Netherlands, 1983) after studying as a photographer graduated from the Film and Television Academy. Her first two documentaries, The Secret of Boccherini and Middle School Melodies, have received several acknowledgements in the Netherlands, and have been screened at the Bergamo Film Meeting in 2009. In 2010 Bijlsma has completed Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old and in 2011 has finished Extase, both broadcasted by the Dutch national television NTR and screened in various international film festivals. Filmografia/Filmography Extase (short doc, 2011) Soliste, Rosanne Philippens, 23 jaar (Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old, doc, 2010) Het geheim van Boccherini (The Secret of Boccherini, short doc, 2008) Toonaldders en Tweedeklassers (Middle School Melodies, doc, 2009)
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Emad Burnat, Guy Davidi
5 Broken Cameras Olanda • Francia • Israele • Palestina/ The Netherlands • France • Israel • Palestine, 2011, 90’, col./bn
Regia, Soggetto, Produttori/ Director, Story, Producers Emad Burnat, Guy Davidi Fotografia/Cinematography Emad Burnat Montaggio/Editing Guy Davidi, Véronique Lagoarde-Ségot Musica, Suono/Music, Sound Adnan Joubran, Samir Joubran, Wissam Joubran Produttori/Producers Christine Camdessus, Serge Gordey Produzione/Production Guy DVD Films, Alegria Productions, Burnat Films Palestine Distribuzione/Distribution CAT&Docs Contatti/Contacts CAT&Docs, 18 rue Quincampoix, 75004 Paris, France, tel. +33 (1) 44596353, +33 (6) 33648602
5 videocamere rotte [t.l.] Emad, contadino palestinese, compra la sua prima videocamera alla nascita del suo quarto figlio nel 2005. Quando nel suo villaggio, che si trova a poca distanza da Ramallah, viene costruita una barriera per separare gli avanzanti insediamenti israeliani da quelli palestinesi, la videocamera diventa mezzo di testimonianza della protesta pacifica degli abitanti. Per cinque anni Emad filma le proteste dei suoi compagni, la crescita del figlio e le sofferenze quotidiane. Una telecamera dietro l’altra viene distrutta, raccontando un momento diverso della sua storia. Emad Burnat (Bil’in, Palestina) è un lavoratore agricolo palestinese. Le sue testimonianze video raccontano le proteste dei suoi concittadini e la vita della sua famiglia nelle difficoltà dei continui scontri e nella paura di rappresaglie. 5 Broken Cameras è il suo primo film. Guy Davidi (Jaffa, Israele, 1978) è documentarista e insegnante di cinema. Ha lavorato come cameraman per France 3 e ha diretto cortometraggi proiettati a festival internazionali. Il suo primo lungometraggio Interrupted Streams è stato presentato al Jerusalem International Film Festival. 5 Broken Cameras Emad, a Palestinian farmer, buys his first camera to film the birth of his fourth son in 2005. When in his village, situated not far from Ramallah, a wall is built to separate the advancing Israeli settlements from the Palestinians’, the camera becomes a means to witness the peaceful protest of the inhabitants. For five years Emad films his companion’s protests, the growth of his son and the daily suffering. A camera after another is destroyed, telling a different moment of his story.
Filmografia/Filmography Emad Burnat 5 Broken Cameras (doc, 2011) Guy Davidi 5 Broken Cameras (doc, 2011) Keywords (short doc, 2010) Zramim ktu’im (Interrupted Streams, doc 2010) Women Defying Barriers (short doc, 2010) A Gift from Heaven (short doc, 2009) In Working Progress (short doc, 2006)
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Emad Burnat (Bil’in, Palestine) is a Palestinian farm worker. His filming tells about the protests of his fellow citizens and the life of his family in the difficulties of the ongoing fights and the fear of reprisals. Guy Davidi (Jaffa, Israel, 1978) is a documentary filmmaker and a film teacher. He has worked as a cameraman for France 3 and has directed several short films screened at international film festivals. His first feature length film Interrupted Streams was screened at the Jerusalem International Film Festival.
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Tareq Daoud
In Absentia Svizzera • Cuba/Switzerland • Cuba, 2011, 42’, col.
In Absentia A La Ranchería, nella provincia di Cuba, vive una piccola comunità di discendenti dei nativi americani sterminati dai colonizzatori spagnoli. Il legame con la terra, con gli antenati e con le tradizioni viene portato avanti quotidianamente, con la consapevolezza dello sguardo curioso degli esterni. In Absentia esplora l’ampia questione della sopravvivenza di una cultura, e del senso delle tradizioni nella vita moderna. Tareq Daoud (Kabul, Afghanistan, 1976) ha studiato biologia all’Università di Ginevra. Tra il 2000 e il 2002 ha frequentato la EICTV (Escuela Internacional de Cine y Television) a San Antonio, Cuba. Attualmente vive in Svizzera e lavora a diversi progetti cinematografici. In Absentia At La Ranchería, in the province of Guantanamo, lives a small community of descendants from the Native Americans exterminated by the Spanish colonists. The bond with the land, with ancestors and with the traditions is daily maintained with awareness of the curious gaze of external people. In Absentia analyses the broader question of survival of a culture, and the meaning of traditions in everyday life.
Regia, Suono/Director, Sound Tareq Daoud Fotografia/Cinematography Heidi Hassan Montaggio/Editing Luise Hüsler Produttore/Producer Tanoa Despland Produzione, Distribuzione/ Production, Distribution NVA Zeitgeist Productions Contatti/Contacts NVA Zeitgeist Productions, 3 rue de la Faucille 1201, Geneva, Switzerland, tel. +41 (0) 763740102
Tareq Daoud (Kabul, Afghanistan, 1976) studied biology at the University of Geneva. From 2000 to 2002 he attended EICTV (Escuela internacional de Cine y Television) in San Antonio, Cuba. Actually he lives in Switzerland and works to various film projects.
Filmografia/Filmography In absentia (doc, 2011)
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Pietro De Tilla, Elvio Manuzzi, Guglielmo Trupia
Atelier Colla Italia, 2011, 49’, col.
Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Montaggio, Suono/ Director, Screenplay, Cinematography, Editing, Sound Pietro De Tilla, Elvio Manuzzi, Guglielmo Trupia Musica/Music Fabio Vacchi Interpreti/Cast Compagnia Carlo Colla e Figli/ Company Carlo Colla & Sons Produttore/Producer Germana Bianco Produzione, Distribuzione/ Production, Distribution Fondazione Milano Cinema e Televisione Contatti/Contacts Fondazione Milano Cinema e Televisione, Alzaia Naviglio Grande 20, 20144 Milano, tel. +39 02 971521, fax +39 02 36661431, info@fondazionemilano.eu
Atelier Colla Documentario su una delle più celebri compagnie marionettistiche italiane, la “Carlo Colla e Figli”. Il lavoro viene seguito da dietro le quinte, dal laboratorio durante la messa a punto delle figure, l’addestramento dei nuovi arrivati e le prove, fino alla rappresentazione del Macbeth sul palco del Piccolo Teatro di Milano. Un film che allontana l’arte del marionettista dagli stereotipi che ne fanno un genere legato all’infanzia, rivelando un’arte subordinata a una disciplina rigida e rigorosa. Pietro De Tilla (1978), Elvio Manuzzi (1977), Guglielmo Trupia (1986) sono tre filmmaker e fotografi di professione. Sia De Tilla che Trupia hanno studiato fotografia e comunicazione visiva a Milano, rispettivamente all’accademia John Kaverdash e alla Bauer. Nel 2009 hanno frequentato il corso di documentario presso la Scuola di Cinema, Televisione e Nuovi Media di Milano, dove hanno co-diretto il loro primo documentario Atelier Colla. Atelier Colla A documentary about one of the most renowned Italian puppet theatre company, the Carlo Colla & Sons. The work is followed from behind the scenes, from the finishing touches on the puppets in the laboratory, the training of the newcomers and the rehearsals, up to the performance of Macbeth on the stage of Piccolo Teatro in Milan. The film drifts away the art of the puppet master from the stereotypes which makes it a childhood genre, revealing an art which is subject to a rigid and strict discipline. Pietro De Tilla (1978), Elvio Manuzzi (1977), Guglielmo Trupia (1986) are three professional filmmakers and photographers. Both De Tilla and Trupia studied photography and visual communication in Milan, respectively at Academy Kaverdash and at the Bauer. In 2009 they attended the School of Cinema, Television and New Media in Milan, where they co-directed the documentary Atelier Colla.
Filmografia/Filmography Pietro De Tilla Atelier Colla (doc, 2011) Elvio Manuzzi Atelier Colla (doc, 2011) Gulielmo Trupia Atelier Colla (doc, 2011)
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Christopher Evans, Angus Hohenboken
One Man Riot
[work in progress]
Gran Bretagna/Great Britain, 2012, 50’, col.
One Man Riot [Work in progress] Thomas Bassey è uno dei buttafuori più tosti di Merthyr Tydfil, nel Galles, e un eroe locale. È un omaccione di quarant’anni proprietario della Celtic Wrestling, una compagnia di wrestling che fornisce un modo accessibile di evadere dalla realtà in una delle zone economicamente più depresse della Gran Bretagna. One Man Riot racconta con uno sguardo profondo il tema dell’identità maschile, e del suo potere di unire una comunità in una delle zone più difficili del Paese. Christopher Evans (Bergamo, 1974) dopo la scuola d’arte e l’attività musicale in Italia, ha frequentato la National Film and Television School di Londra. Attualmente vive e lavora in Gran Bretagna. Angus Hohenboken ha studiato inglese e giornalismo alla University of Tasmania in Australia. È giornalista freelance e assistente di produzione. One Man Riot è il suo secondo film.
Regia, Produttori/Director, Producers Christopher Evans, Angus Hohenboken Fotografia/Cinematography Christopher Evans Montaggio/Editing Michael Aaglund Music/Music Stuart Earl Sound Design Dario Swade Contatti/Contacts Faction Films, 26 Shacklewell Lane, E8 2EZ London, Great Britain, tel. +44 (0) 20 76904446, fax +44 (0) 20 79604447, faction@factionfilms.co.uk, www.factionfilms.co.uk
One Man Riot [Work in progress] Thomas Bassey is one of the toughest bouncers in Merthyr Tydfil in Wales and a local hero. The forty-year-old hulk owns Celtic Wrestling, a wrestling company providing affordable escapism in one of the most economically depressed areas of the Great Britain. One Man Riot offers a deep insight to the theme of male identity and violence, and the power it has to take together a community in one of the most difficult areas of the country. Christopher Evans (Bergamo, Italy, 1974) after Art College and musical activity in Italy, he attended the National Film and Television School in London. He currently lives and works in Great Britain. Angus Hohenboken studied English and journalism at the University of Tasmania in Australia. He is a freelance journalist and production assistant. One Man Riot is his second film. Filmografia/Filmography Christopher Evans One Man Riot [work in progress] (doc, 2012) A Tidy Life (short doc, 2011) The Hunter (doc, 2009) Paula and the Boys (short doc, 2008) The Weekend (short doc, 2007) Angus Hohenboken One Man Riot [work in progress] (doc, 2012) The Ark (2011)
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Erika Hníková
Nesvatbov
Matchmaking Mayor: The Heart Can’t Be Commanded Repubblica Ceca/Czech Republic, 2010, 72’, col.
Regia, Soggetto/Director, Story Erika Hníková Fotografia/Cinematography Jiri Strnad Montaggio/Editing Jana Vlcková Suono/Sound Petr Soltys Interpreti/Cast Jozef Gajdos, Dana Paseková, Monika Maxová, Janco Ogurcák, Dodo Barna, Marián Lenka Produttore/Producer Jiri Koneckny Produzione/Production Endorfilm Distribuzione/Distribution OutCome Contatti/Contacts Jarmila Outratová, Jižní náměstí 946/23, 141 00 Praha 4, Czech Republic, tel. +420 776 066 165, fax +420 271 750 751
Filmografia/Filmography Nesvatbov (Matchmaking Mayor, doc, 2010) Landuv lektvar lásky (Landa’s Elixir of Love, doc, 2009) Sejdeme se v Eurocampu (I Guess We’ll Meet at the Eurocamp, doc, 2005) Den E (E Day, doc, 2004) Zeny pro meny (The Beauty Exchange, doc, 2004) Nase trída (Our Class, short doc, 2001) Ctyri kroky dvojpulka (Four Steps Quarter Turn, short doc, 2000)
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Il sindaco delle coppie: al cuor non si comanda [t.l.] Cronache dalla cittadina di Zemplínske Hámre, dove il sindaco, un ex generale in pensione, ha dichiarato guerra alla solitudine dei suoi cittadini single trentenni. Per niente scoraggiato dall’insuccesso degli incentivi per ogni nuovo nato, il sindaco decide di organizzare una serata di raduno dei single dei villaggi vicini, confidando che il naturale desiderio umano di creare una famiglia gli permetta di compiere la sua missione. Erika Hníková (Praga, Repubblica Ceca, 1976) si è laureata al dipartimento di documentario della FAMU di Praga, girando brevi documentari durante gli studi. Il suo lungometraggio di laurea, il documentario The Beauty Exchange, ha vinto il premio del pubblico all’International Documentary Film Festival di Jihlava ed è stato distribuito nel circuito di sala in Repubblica Ceca e in Slovacchia. Il suo secondo film I Guess We’ll Meet at the Eurocamp è stato presentato a numerosi festival internazionali, tra cui il DOK di Lipsia e l’HotDocs di Toronto. Matchmaking Mayor: The Heart Can’t Be Commanded Chronicle from the town Zemplínske Hámre, where the mayor, a former general now retired, has declared war to his thirty-year-old single citizens. Not at all discouraged by the failure of incentives policy for each new born child, the mayor decides to organize an evening get-together for singles from the neighbouring villages, relying on the natural human desire to create a family to complete his mission. Erika Hníková (Prague, Czech Republic, 1976) graduated from documentary department at FAMU in Prague, shooting short documentaries while studying. Her graduation feature length film, the documentary The Beauty Exchange, won the audience prize at the Jihlava International Documentary Film Festival and got distribution in Czech Republic and Slovakia. Her second film I Guess We’ll Meet at the Eurocamp was screened at various film festivals, including the DOK in Leipzig and the HotDocs in Toronto.
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Marta Minorowicz
Descrescendo Polonia/Poland, 2011, 26’, col.
Descrescendo Tomek è un giovane psicologo che lavora in una casa di riposo. Parte del suo lavoro quotidiano consiste nell’ascoltare i pazienti, che desiderano condividere con lui le proprie storie toccanti e tragiche. Tomek ha costantemente sotto gli occhi il contrasto tra bellezza e giovinezza e la vecchiaia, ma il fascino del desiderio di vita sempre forte rende il rapporto con gli anziani un’intensa base per una crescente amicizia. Marta Minorowicz (Polonia) ha frequentato la Andrzej Wajda Master School of Film Directing a Varsavia ed è laureata in storia del teatro e filologia inglese all’Università Jagiellonian di Cracovia. Da diversi anni collabora con la televisione polacca realizzando reportage sociali. Per Discovery Channel ha girato The Angel of Death, un documentario sugli esperimenti pseudo-scientifici del medico nazista Mengele, raccontato attraverso le interviste di donne sopravvissute.
Regia, Soggetto/Director, Story Marta Minorowicz Fotografia/Cinematography Paweł Chorzępa Montaggio/Editing Przemysław Chruścielewski Suono/Sound Dominika Czakon, Jasiek Moszumanski Produttore/Producer Andrzej Wajda Produzione/Production Szkoła Filmowa Contatti/Contacts Andrzej Wajda Master School of Film Directing, Ul. Chelmska 21, Warsaw, Poland
Descrescendo Tomek is a young psychologist who works in a nursing home for elderly people. Part of his daily job consists in listening to the patients, who wants to share with him their moving and tragic stories. Tomek has constantly in front of him the contrast between beauty and youth and old age, but the fascination for the ever strong desire for life makes the relationship with elderly people an intense basis for a growing friendship. Marta Minorowicz (Poland) has attended the Andrzej Wajda Master School of Film Directing in Warsaw and got a degree in history of theater and English filology from the Jagiellonian University at Krakow. She has been working for many years with Polish television filming social reportages. For Discovery Channel she directed The Angel of Death, a documetary about the pseudo-scientific experiments of the Nazi doctor Mengele, told by interviews with women survivors.
Filmografia/Filmography Decrescendo (2011) Kawalek lata (A Piece of Summer, short doc 2010) Anioł śmierci (The Angel of Death, doc, 2008)
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Klaus Erik Okstad
Det afghanske mareritter
The Afghan Nightmare Norvegia/Norway, 2011, 54’, col.
Regia, Fotografia/ Director, Cinematography Klaus Erik Okstad Montaggio/Editing Jens Blom, Svein Olav Sandem Musica/Music Antigangster Music Interpreti/Cast Rune Solberg Produttore/Producer Olav Njaastad Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts NRK, Norway
L’incubo afghano [t.l.] Il compito di Rune Solberg, colonnello delle forze NATO nella provincia afghana di Faryab, è di assicurarsi che le autorità locali siano in grado di occuparsi autonomamente della sicurezza del territorio. Uno sguardo ravvicinato sulle forze occidentali in Afghanistan rivela le difficoltà di applicare le strategie militari pianificate in un’area in cui la presenza talebana si sta intensificando, facendo i conti con il desiderio sempre più impellente di abbandonare il Paese. Klaus Erik Okstad (Norvegia) ha lavorato come fotografo, documentarista e giornalista per circa vent’anni. Ha realizzato diversi documentari in Africa, Asia e Sud America, spesso in zone remote e in condizioni difficili. The Wild Market racconta il mercato nero delle specie in via d’estinzione in Camerun. In A Noman in Pakistan ha accompagnato un norvegese di origini pakistane (Noman Mubashir) nel viaggio alla scoperta delle proprie origini. Struck by the Mountain è una serie tv sull’alpinismo in Norvegia. Okstad lavora per l’NRK, l’ente radiotelevisivo di stato norvegese. The Afghan Nightmare The task of Rune Solberg, colonel of NATO forces in the Afghan province of Faryab, is to ensure that local authorities are able to manage independently the safety of the area. An inner sight on the Western military forces in Afghanistan points out the difficulties of applying the planned military strategies in an area where Talibans are increasing their activity, dealing with the growing desire to leave the country.
Filmografia/Filmography Det afghanske mareritter (The Afghan Nightmare, doc, 2011) En Noman i Pakistan (A Noman in Pakistan, tv series doc, 2005) Struck by the Mountain (tv series doc, 2005) The Wild Market (doc, 2004)
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Klaus Erik Okstad (Norway) has worked as a photographer, documentarist and journalist for about twenty years. He made several documentaries in Africa, Asia and South America, often in remote areas and under difficult circumstances. The Wild Market describes the black market of endangered species in Cameroon. For A Noman in Pakistan he has accompanied a Norwegian of Pakistani origin (Noman Mubashir) in a journey back to his roots. Struck by the Mountain is a television series about mountaineering in Norway. Okstad works for NRK, the Norwegian Broadcasting Corporation.
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Francesco Scarponi
Santino Italia • Francia/Italy • France, 2011, 10’, col.
Santino Il cortometraggio racconta, attraverso la voce di Santino, nonno del regista, tre frammenti della sua vita: la vecchiaia nella sua campagna, la giovinezza trascorsa a Roma durante la Seconda guerra mondiale e l’incontro con la moglie Ida, e infine una parte della sua esperienza di lavoro come autista di ambulanza. Francesco Scarponi (Perugia, 1979) dopo essersi laureato in matematica nel 2003, ha frequentato il master in produzione audiovisiva e multimediale Virtual Reality and Multimedia Park a Torino. Dal 2005 ha lavorato per produzioni televisive, pubblicità e documentari in Italia, Paesi Bassi e Francia. Alcuni suoi lavori sono stati selezionati in festival, mostre collettive e personali.
Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Animazione, Scenografia, Suono, Montaggio/Director, Screenplay, Cinematography, Animation, Set design, Sound, Editing Francesco Scarponi Produttori, Distribuzione/ Producers, Distribution Francesco Scarponi, Claudia Zanda Contatti/Contacts francesco@cahsa.net, tel. +39 3332424219
Santino The short movie tells, through the voice of Santino, the director’s grandfather, three fragments of his life: his old age in the countryside, his youth in Rome during the Second World War and the encounter with his wife Ida, and finally a part of his working as an ambulance driver. Francesco Scarponi (Perugia, Italy, 1979) after graduating in matematichs in 2003, he attended a master’s degree in audiovisual production and multimedia Virtual Reality and Multimedia Park in Turin. From 2005 he has worked for television productions, commercials and documentaries in Italy, the Netherlands and France. Some of his works have been selected in festivals, collective and personal exhibitions.
Filmografia/Filmography Santino (short, 2011) Corpi (short, 2010) Venezia (short, 2008) The Third Stage (short, 2007)
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Kullar Viimne
Hing
Breath Estonia, 2011, 59’, col.
Regia, Soggetto, Montaggio, Fotografia/Director, Story, Editing, Cinematography Kullar Viimne Musica/Music Taavi Laatsit Suono/Sound Harmo Kallaste Interpreti/Cast Francesko Leego, Tiiu Kangro Produttore/Producer Erik Norkroos Produzione, Distribuzione/ Production, Distribution Rühm Pluss Null Contatti/Contacts Rühm Pluss Null, Gonsiori 21, 10147 Tallinn, Estonia, tel. +372 6114265, fax +372 6114133, film@plussnull.ee
Filmografia/Filmography Hing (Breath, 2011) Und ich rannte nach Hause, Kindersoldaten erzählen (The Innocent, doc, 2009)
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RespiRo [t.l.] Francesko è l’unica spazzacamino donna dell’Estonia. Con il suo lavoro non contribuisce solo alla manutenzione delle case, ma permette ai loro abitanti di respirare bene. Persona decisa e pragmatica, cerca di trovare soluzioni in maniera autonoma. La affiancano una serie di stravaganti personaggi: una setta di “respiratori” che fa affidamento su di lei. Kullar Viimne (Tallin, Estonia, 1980) specializzato in studi sociali, ha proseguito il suo percorso formativo alla Baltic Film and Media School e nel 2006-2007 alla FAMU di Praga. Nel 2008 ha girato in Uganda il film The Innocent, sui bambini rapiti dai loro villaggi e fatti diventare soldati a sostegno delle forze ribelli. Ha parteciapato a progetti internazionali ed estoni come regista e direttore della fotografia. I suoi film hanno ricevuto riconoscimenti in vari festival internazionali. Breath Francesko is the only female chimney sweep in Estonia. With her job she doesn’t just contributes to the upkeep of the houses, but allows their inhabitants to breath properly. Being a determined and pragmatic person, she tries to find solutions by herself. A series of eccentric characters join her: a cult of “breathers” which count on her. Kullar Viimne (Tallin, Estonia, 1980) specialized in social studies, continued his studies at the Baltic Film and Media School and in 20062007 at the FAMU in Prague. In 2008 he shoot in Uganda the film The Innocent, about children kidnapped from their villages and forced to become soldiers of the rebel forces. He has taken part to international and Estonian projects as director and cinematographer. His films have received acknowledgements in several international film festivals.
I confini dell’Europa
I confini dell’Europa
Un assaggio di Europa Andrea Trovesi
Allor nell’alte stanze Dormendo Europa di Fenice figlia, Che vergine era ancor, veder le parve Per sua cagion due Regioni in guerra In sembianza di donne, quella d’Asia, E quella opposta. Una a vederla estrania, L’altra parea del suo terrea natía, E maggior lite avea per la donzella Dicendo, ch’era a lei nutrice, e madre. (Mosco, Idillio II, Europa, versi 8-16)
«Europa (gr. Εύρώπη, -ης; lat. Europa, -ae o Eurōpē, -es). Figlia del re di Agenore o, secondo l’Iliade, figlia di Fenice. La sua bellezza affascinò Zeus, che per avvicinarla assunse le sembianze di un toro e si mescolò alla mandria che Europa accudiva, mentre la ragazza con alcune compagne risposava sulla riva del mare. Incoraggiata dall’apparente mitezza dell’animale, Europa osò salirgli in groppa. Ma immediatamente il dio si lanciò al galoppo in mare, e con la fanciulla sul dorso nuotò fino all’isola di Creta. Qui essa partorì a Zeus Minosse, Radamanto e Sarpedone. Dall’eroina del mito avrebbe avuto origine, secondo la tradizione, il nome del continente europeo. La spiegazione è offerta dal poemetto Europa di Mosco (sec. II-I a.C.), che ricorda il sogno mandato da Afrodite alla giovane Europa: le appaiono due parti della terra, l’Asia e un’altra che non ha ancora un nome, entrambe in forme di donna. Quella senza nome la trascina verso di sé e le si presenta come la terra che Zeus le ha destinato in retaggio e che da lei assumerà il nome. Nelle fonti più antiche il termine Europa indica la Grecia continentale; solo intorno al V secolo a.C. passa poi a designare l’intero continente». (Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, Torino 2002)
Un mito eterno L’Europa nasce così, come un mito, ma un mito che, più di ogni altro, è divenuto realtà. Realtà che si consolida, inizialmente, nella ricerca di una sua definizione geografica e nel superamento della contraddizione di essere, a rigor di termini, una penisola dell’Asia, ma poi, e soprattutto, nell’edificazione di un’unità, culturale e politica, trascendente i confini e le diversità. E se in 46
I confini dell’Europa
passato l’unità d’Europa è stata inseguita più spesso attraverso la volontà di uno o pochi di imporsi su tutti, oggi, invece, si realizza nel desiderio di tutti di superare le differenze dei singoli. È proprio dalla crisi del vecchio sistema europeo, quello degli imperialismi e dei nazionalismi, imploso poi nelle guerre mondiali, che nasce il progetto moderno di Europa. Alle sue origini sta l’aspirazione di portare pace e prosperità a tutto il continente attraverso la condivisione delle risorse e del potere, disinnescando attriti e conflitti. Negli ultimi tempi, dopo che l’unione economica è divenuta una realtà, incarnata nella moneta comune, e che l’unione politica, almeno per quanto riguarda la partecipazione dei Paesi all’Unione Europea, pur con defezioni o esclusioni rilevanti, è cosa fatta, stiamo paradossalmente attraversando un momento di grave crisi dell’idea stessa di integrazione europea. Si ha l’impressione che passata l’euforia per l’allargamento dell’Unione ai Paesi dell’ex Europa socialista, esauritasi la congiuntura economica che ha sospinto a gonfie vele l’economia europea per decenni, creando indubbi vantaggi in termini di benessere e ricchezza ovunque nel continente, il senso dell’Europa unita non sia ben chiaro. Un’impressione che deriva forse dal disagio di aver scoperto che forse non tutti sono stati alle regole del gioco, o dal sospetto che i forti si stiano approfittando dei più deboli o i più poveri dei più ricchi, oppure dalla mancanza di affezione nei confronti di un’Unione Europea distante e fredda, mentre ora, travolti da quella globalizzazione un po’ alienante, verrebbe naturale stringersi attorno al focolare della Nazione. Ma in molti avevano predetto che la crisi sarebbe arrivata, era stato previsto che dopo anni di accelerazione continua la realizzazione del progetto di un’Unione Europea sarebbe incorsa fisiologicamente in un inceppamento, che consumatesi le propulsioni esterne sarebbe giunto il momento per ciascuno di chiedersi seriamente che cosa vuol dire essere europei. Il momento è arrivato. Finalmente. E ricordando così che l’idea di Europa unita è 47
I confini dell’Europa
nata proprio da una crisi, l’attuale non va sentita come preludio di una fine, ma piuttosto come momento di riflessione sul senso dell’Europa e di essere cittadini europei. Con l’augurio di poter contribuire a questa riflessione, Bergamo Film Meeting 2012 presenta una rassegna di film che, direttamente o indirettamente, si interrogano sull’Europa. La sezione I confini dell’Europa è frutto dell’ambizioso, quanto impervio, progetto di dare un’idea, un assaggio, di quello che l’Europa può essere. Una selezione di film che cercano di rispecchiare i modi eterogenei con cui il cinema ha tentato di rappresentare l’Europa, nonostante che in questo compito il cinema, probabilmente per l’inafferrabilità, discontinuità e frammentarietà del tema, si sia cimentato molto meno che non la parola scritta. Nella breve rassegna I confini dell’Europa si avvicendano film avventurosi che dell’Europa cercano di dare una definizione geografica, altri provocatori che ci inducono a identificare l’Europa come una comunità di destini o ancora più di valori, film realisti che dell’Europa riflettono la natura composita e addirittura ineffabile, e infine film incantati che ci svelano sorprendenti prossimità tra gli abitanti del continente ancora vicendevolmente sospettosi. Un insieme di assaggi d’Europa che ci permettono di gustarne, forse, il sapore.
Alla ricerca di un centro di gravità permanente Il dilemma dell’Europa inizia forse proprio dalla sua imperfetta demarcabilità, dai suoi confini imprecisi. L’unico vero limite è quello settentrionale, segnato dai ghiacci dell’Artico. Quello occidentale lo è geograficamente, ma certamente molto meno da molti altri punti di vista. Non è un caso che familiarmente gli inglesi chiamino l’Oceano Atlantico “The Pond”, non è infatti null’altro che uno stagno a separarli dalle loro espansioni negli Stati Uniti e in Canada. Lo è solo in parte quello meridionale, dove pur si affastellano e incrociano varie faglie, quella religiosa e linguistica, innanzitutto, ma che si stempera in quella ecumenicità mediterranea, ben nota e ben descritta già da studiosi di grande fama come Fernand Braudel, Predrag Matvejević, oltre che scivolare impercettibilmente nell’altro (continente), l’Africa, attraverso l’Andalusia a Ovest, e l’Asia, attraverso i Balcani a Est. E per nulla quello orientale, dove esiste solo una convenzione geografica che fissa il finis dell’Europa negli Urali. In realtà, a parte l’immagine mentale che se ne può avere, Russia europea e Siberia russa sono della stessa sostanza. Forse dell’Europa riusciamo piuttosto a intuire il cuore, quello che batte nel triangolo Parigi-Londra-Amsterdam, culla dell’economia di mercato oltre che laboratorio politico per eccellenza, che si spinge giù lungo il Reno (non è un caso che le sedi dell’Unione Europea si trovino proprio qui), e il suo hinterland, la Francia, il Regno Unito, il Belgio, l’Olanda, la Germania e l’Austria, fino a includere le parti settentrionali dell’Italia. Il resto appare come periferia dalla fisionomia incerta, indistinta, dove rintracciare elementi indiscutibilmente europei diventa a volte un’impresa ardua. Quanto è difficile stabilire i confini dell’Europa, tanto lo è definirne il centro. Proprio dall’opinabilità del confine orientale deriva il fatto che di centri dell’Europa ce ne siano più di una decina. Tanti sono infatti i villaggi e le località sparsi nell’Europa centrale e orientale che reclamano il diritto di essere considerati il centro dell’Europa, qualcuno con qualche ragione, altri perlopiù per l’aspirazione a distinguersi e uscire dall’anonimato. Die Mitte (2004) di Stanisław Mucha, ci porta in quelle lande alla ricerca del vero centro dell’Europa, con divertimento di fronte alla moltitudine, e a volte bizzaria, dei sedicenti centri, che dunque dell’Europa dovrebbero essere la quintessenza, ma dalle cui fattezze si fatica a considerare tali, e forse persino con un pizzico di apprensione, perché rispondere alla domanda dov’è il centro dell’Europa è un po’ come trovare una risposta alla domanda “chi siamo noi”. Se Die Mitte perlustra il centro, One Day in Europe (2005) di Hannes Stöhr ci catapulta da un capo all’altro delle periferie dell’Europa, o presunte tali, da Mosca a Istanbul, da Istanbul a Santiago di Compostela, rispettivamente l’estremo Est, l’estremo Sud e l’estremo Ovest, per 48
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poi approdare, di nuovo, a un centro, in questo caso Berlino. Diversamente da Die Mitte, il film non dibatte apertamente il tema dell’Europa, piuttosto, come un ottovolante, sballotta la nostra idea d’Europa mettendola in discussione. Innanzitutto dal punto di vista geografico. Malgrado Mosca e Istanbul siano sul continente europeo, a livello di immaginario collettivo non vengono sempre considerate del tutto europee, o forse non ancora. Poi, a livello di aspettative in termini di pubblica sicurezza e stato di diritto. L’Europa è ritenuta anche modello di efficienza e affidabilità della forza pubblica. Nel film, invece, in tutti e tre i luoghi scelti, si vedono ufficiali di polizia svogliati, negligenti, inaffidabili, al limite della corruzione. La nostra consueta geografia mentale dell’Europa sembrerebbe venir rinfrancata. E invece no, One Day in Europe, fedele al suo proposito, suggella una volta per tutte l’esistenza di uno spazio europeo comune mostrando come, al di là della politica e della retorica, questo sia una realtà anche per l’uomo comune. In ogni angolo del continente, anche il più remoto, tutti partecipano alla medesima liturgia: il campionato europeo di calcio.
Diversamenti uniti Non c’è dubbio che il tratto più distintivo dell’Europa sia la sua estrema varietà ed eterogeneità. Varietà dei suoi paesaggi, naturali e umani, eterogeneità dei suoi popoli, delle sue lingue e delle sue culture. Per questo “Unità nella diversità” è lo slogan dell’Unione Europa, il motto programmatico di un’entità politica che si prefigge di comprendere in maniera organica e armoniosa al suo interno tutta la complessità dell’Europa, prevenendone i contrasti e alimentandone le sinergie. E comprensibilmente il cinema, nello sforzo di raccontare l’Europa, o forse meno ambiziosamente cercando di darne un’idea, di farne cogliere l’essenza, la mostra spesso attraverso una variopinta ed eterogenea collazione di immagini, di tessere diverse per forma e colore che, unite, rendono il mosaico Europa. 49
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Aspirando per giunta ad esserlo, di questa modalità di rappresentazione dell’Europa Visions of Europe (2004) ne è certamente l’esempio migliore. Un patchwork di immagini, una sequenza di rappresentazioni realistiche o immaginarie, una successione di cortometraggi che, ben lungi dal voler imbrigliare l’Europa in una definizione, in una narrazione coerente, in un racconto omogeneo, permettono di intravederla nella sua più intima natura polifonica che si sprigiona dalle interpretazioni, soggettive e massimamente libere, che di essa hanno dato circa una ventina di registi, perlopiù grandi autori del cinema europeo. Una testimonianza caleidoscopica del presente dell’Europa e dei suoi problemi, l’Europa testimoniata dalla sua gente (Bico di Aki Kaurismaki, Finlandia; It‘ll Be Fine di Laila Pakalnina, Lettonia), dalla sua burocrazia a volte esasperante (The Yellow Tag di Jan Troell, Svezia, Euroflot di Arvo Iho, Estonia), dall’immigrazione (Mars di Barbara Albert, Austria; Paris by Night di Tony Gatlif, Francia; Cold Water di Teresa Villaverde, Portogallo; Room for All di Constantine Giannaris, Grecia; Invisible State di Aisling Walsh, Irlanda), dalla religione (The Miracle di Martin Sulik, Slovacchia; Crossroad di Małgorzata Szumowska, Polonia), dai suoi bambini (Our Kids di Miguel Hermoso, Spagna), dalle sue contraddizioni (Euroquiz di Theo Van Gogh, Olanda; Europa di Damjan Kozole, Slovenia; My Life on Tape di Christos Georgiou, Cipro). Tra tutti spiccano i capolavori Prologue di Béla Tarr (Ungheria), dove la telecamera scivola lungo una fila di indigenti che aspettano la distribuzione di un pasto gratuito, un mondo affamato che attende sotto la finestra, e The European Showerbath di Peter Greenaway (Gran Bretagna), che, un po’ indovino, riprende un gruppo di uomini e donne, ciascuno con una bandiera europea tatuata sul corpo, occupati a lavarsi sotto un unico getto di acqua scrosciante: ma l’acqua non basta per tutti. Stessa prosodia narrativa anche in Abendland (1999) di Nikolaus Geyrhalter, che non è però un lungometraggio come Visions of Europe, bensì una sorta di documentario, silenzioso, in cui a parlare sono solo le immagini. Immagini che ci raccontano di un’Europa reale, 50
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quella che sperimentiamo, senza neanche accorgerci, nella vita di tutti i giorni e che noi stessi animiamo. Citazioni dalla quotidianità dei cittadini europei, nelle strade, nelle piazze, negli ospedali, nelle fabbriche, nelle case. L’efficienza e l’organizzazione, il cristianesimo baroccheggiante, l’immigrazione, la vita e la morte, rumori e silenzi. “Abendland” è un termine tedesco che possiamo tradurre con “Occidente”, ma letteralmente indica il Paese del Sol Calante, la terra dove tramonta il sole, in opposizione a Oriente, il Paese del Sol Levante, l’intera Asia, significato a cui del resto la stessa etimologia della parola stessa Europa sembra rimandare. Ma “Abendland” non ha tutte le implicazioni che il termine “Occidente” ormai ha, “Abendland” è proprio solo l’Europa, percepita nella sua esclusiva compattezza. E allora viene da chiedersi, se tutto questo è indubbiamente europeo, non siamo molto più simili e uniformi di quanto noi stessi ammettiamo d’essere? Dall’esterno, per giunta, l’Europa appare assolutamente omogenea. E i continui brontolamenti sulle diversità inconciliabili tra europei, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, tra isole e continente, tra montagna e pianura, non sembra molto prossimo al lamentio costante sull’inconciliabilità degli italiani delle diverse regioni? Null’altro che l’ipersensibilità alle differenze congenita alle comunità compatte.
Vizi e virtù Si dice che l’Europa ha un’identità debole, che l’Europa non ha un’identità riconoscibile e nella quale i suoi membri si possano riconoscere collettivamente e senza esitazioni. È vero. L’identità dell’Europa non è tangibile. L’Europa rifiuta una fisionomia marcata, magari emotivamente coinvolgente attraverso un’autonarrazione epica e una seducente simbologia, rifiuta di avere un altro da sé – anche se qualcuno, brandendo per esempio l’immagine di Cristo, ci prova –, un nemico netto e distinguibile, in opposizione al quale costruire l’identità propria. Ma questa sua apparente debolezza, ne è in realtà la sua forza. La colonna vertebrale dell’identità europea, quella su cui si regge perlomeno il percorso di convergenza promosso dall’Unione Europea, sono infatti i suoi valori, appunto effimeri nella definizione, quanto concreti negli effetti della loro applicazione. L’identità dell’Europa è debole perché è ampia, mai esclusiva, potenzialmente universale, perché tali sono i suoi valori. L’Europa non è appiattimento, omologazione, uniformazione, ma possibilità di libera scelta per ciascuno. E proprio in questo risiede la sfida più difficile, il “sogno europeo”, come qualcuno l’ha chiamato, costruire un’entità politica sulla base di un set di valori universalmente validi e non discriminatori, formare un sistema che garantisca dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e diritti umani, tolleranza, giustizia, solidarietà, e all’interno del quale ciascuno possa liberamente operare le proprie scelte. Così se l’Europa appare indistinta, indefinibile e debole quando se ne cercano immagini e paesaggi rappresentantivi, usi e costumi distintivi, pigmentazioni della pelle o tonalità dell’iride particolari, simboli a croce, stella o arcobaleno, ecco che, invece, quando i suoi valori vengono oltraggiati e offesi l’Europa si staglia in tutta la sua nettezza, distinguibilità e fermezza. Questo costituisce il discrimine concettuale tra ciò che definiamo europeo e ciò che non lo è, indipendentemente dalla geografia e dalla politica. E dello stridore dello scontro dei valori europei con certe abitudini e sistemi di pensiero con essi incompatibili siamo testimoni quotidianamente. Ma tale scontro è tanto più lacerante e violento, quanto maggiore è la distanza e l’inconciliabilità tra di essi. In Die Fremde (La straniera, 2010) di Feo Aladag, l’Europa e i suoi valori tagliano come fendenti l’identità di una ragazza, Umay, e della sua famiglia, proprio là dove il contrasto è il più aspro immaginabile, in mezzo agli immigrati turchi in Germania. Qui vengono conservate gelosamente a mo’ di corazza pratiche e abitudini, magari abbandonate nella stessa Turchia moderna, fortemente in contrasto con i valori europei che li circondano all’esterno. La straniera è Umay, che rivendica diritti europei per antonomasia – la libertà, il diritto all’autodeterminazione di sé stessa, come donna e come madre –, ma allo 51
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stesso tempo reclama il diritto di essere turca e di rimanere membro amato e rispettato della sua famiglia. Richieste legittime, ma disperatamente titaniche. Assodato che il DNA costitutivo del progetto europeo sono principi e valori, Unione Europea e singoli Paesi europei sono però ben lungi dal rispettarli sempre con coerenza e generosità. Anzi. Investita negli ultimi vent’anni da potenti ondate migratorie, prima dall’ex Europa orientale dopo il crollo del blocco socialista, poi con l’accelerazione della globalizzazione da tutti gli altri continenti, l’Europa che predica “pace, giustizia e solidarietà nel mondo” innalza barriere, mostra i pugni e respinge. Una delle tematiche ampiamente praticate nella cinematografia che parla di Europa è proprio l’immigrazione. Un cinema di denuncia contro il trattamento disumano delle autorità europee nei confronti degli immigrati illegali. Con occhio impietoso la cinepresa ha raccontato la crudeltà dei più ricchi e potenti contro gli inermi e i nullatenenti, che solo aspirano a vivere la propria esistenza in quello spazio di libertà e di diritto che l’Europa dichiara essere la sua prima essenza. Decine sono i film che parlano di questi drammi, e che noi fortunati cittadini europei, da un capo all’altro del continente, intuiamo esistere, ma, come molte volte è successo nella Storia del nostro continente, non vogliamo guardare. Uno di questi è Illégal (Illegal, 2010) di Olivier Masset-Depasse, dove Tania, prototipo del ben noto eroismo delle donne dell’Est Europa, che per difendere e sfamare i propri figli sono capaci di affrontare le prove più dure, vive da anni illegalmente in Belgio con il figlio, quando un brutto giorno viene internata in un campo di detenzione per immigrati clandestini in attesa di estradizione. Qui è privata di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni dignità. Dov’è l’Europa?
Ricuciture La storia recente dell’Europa è anche la storia della dolorosa e drammatica divisione del continente in due, tra Occidente e Oriente, e del loro ricongiungimento inizialmente tracimante di entusiasmo, ma poi fiaccato dalle enormi difficoltà del processo. L’Europa contemporanea porta ancora le tracce di questa divisione, tra Ovest e Est, tra capitalismo e socialismo, tra democrazia e dittatura (del proletariato), tracce ancora visibili a più di vent’anni dalla fine del socialismo reale e dall’abbattimento fisico del suo simbolo più odiato, il Muro di Berlino. Ma se ormai, qua o là, il vecchio confine è stato ormai cancellato e i legami tra le regioni lungo di esso hanno riannodato stretti legami, i muri in testa, invisibili, si abbattono con difficoltà molto maggiore e vanno smantellati faticosamente pezzo per pezzo. Anche il cinema si è impegnato in questa operazione, nella ricucitura di questa ferita, nel reinserimento dell’Europa orientale nella geografia mentale degli Occidentali (l’Europa occidentale nella mappa mentale degli Europei orientali c’è sempre stata). Operazione senza dubbio lodevole, ma nei cui prodotti spesso si capta una sorta di superiorità dei potenti nei confronti dei deboli, al massimo di compassione dei ricchi nei confronti dei poveri, sicuramente di paternalismo degli occidentali verso gli europei orientali. Diversamente, il film Polska Love Serenade (2008) di Monika Anna Wojtyłło prova a superare questo muro, ad abbattere questa barriera non solo con convinzione, ma con molta sincerità e ironia. Dalle venature oniriche e fiabesche, Polska Love Serenade racconta del ritrovamento di un vicino di casa, la Polonia e i suoi abitanti, da parte del suo dirimpettaio, la Germania e i tedeschi. Un vicino di casa pressoché sconosciuto, immaginato perlopiù attraverso i cliché che lo riguardano, e che invece l’ingresso nell’Unione Europea ha reso tangibilmente prossimo da molto punti di vista. Il lunghissimo confine politico che separa Germania e Polonia si è aperto. E si è aperto non solo al movimento di persone e di traffici commerciali, ma soprattutto alla possibilità di condividere un destino comune, per molto tempo reciprocamente negato, nel quadro del progetto di unione dell’Europa. In Polska Love Serenade il presente si riannoda al passato per procedere verso il futuro. Anna e Max, lei berlinese e spiantata, lui, rampollo di buona famiglia e neoavvocato, si incontrano per 52
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caso in Polonia, dove ciascuno è approdato per sistemare le proprie faccende. Piano piano osservano attorno a sé un paese non abitato da orsi e fiere, ma un Paese che, a parte qualche quadretto stereotipato, come la vodka consumata in abbondanza, la lunga mano della mafia etc., offre loro grande calore e umanità. Una scoperta da cui partire per lenire, non solo a livello ufficiale, il trauma dei trattati e delle strette di mano dei capi di Stato, ma anche i traumi della storia nell’uomo comune, che in queste terre – nello specifico, nella Slesia polacca – sono stati particolarmente profondi. Questa regione infatti, fino al 1945 parte della Germania, è stata ceduta e annessa alla Polonia nell’ambito del riassetto territoriale deciso dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, e la popolazione di nazionalità tedesca qui stanziata è stata espulsa e sparpagliata qua e là all’interno della nuova Germania. È il destino toccato anche agli italiani dell’Istria, anche se le proporzioni del fenomeno sono state per i tedeschi infinitamente maggiori, avendo investito milioni di persone, dalla Prussia alla Boemia, passando appunto per la Polonia. In Polska Love Serenade, Max, con l’aiuto di vecchi documenti e mappe del periodo nazionalsocialista, cerca di identificare la proprietà dei nonni, di cui, grazie a nuove disposizioni che permettono di impugnare l’espropriazione postbellica, gli eredi dei vecchi proprietari possono avanzare diritti di restituzione. La casa, alla fine, viene trovata, ma dentro ci vive già da decenni un’altra famiglia, altre esistenze, altre persone. Non è solo un immobile con il suo terreno attorno. Sarà Anna a impedire che il passato prorompa di nuovo con la sua forza distruttiva, sancendo così l’inizio di una vera nuova Europa. Quella dell’unione delle persone. 53
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Stanisław Mucha
Die Mitte
The Center
Germania, 2004, 85’, col.
Regia, Sceneggiatura, Montaggio Stanisław Mucha Fotografia Susanne Schüle Musica Moritz Denis, Eike Hosenfeld Suono Michel Klöfkorn Interpreti Paweł Bartoszewicz, Marc Baumgartner, Ralf Buberti, Dariusz Błaszczyk, Michał Hirko, famiglia Hofbauer, Raja Horodetska Produttore Dieter Reifarth Produzione Arte, Hessischer Rundfunk (HR), Strandfilm-Produktions GmbH Distribuzione Global Screen GmbH Contatti Strandfilm-Produktions GmbH, Ederstraße 10, D-60486 Frankfurt, Germany, tel. +49 69 97910314, fax +49 69 97074198
Filmografia Die Wahrheit über Dracula (The Truth about Dracula, doc, 2010) Die Klappe (short doc, 2010) Zigeuner (Gypsies, doc, 2007) Nadzieja (Hoffnung, 2007) Beim Friseur (short doc, 2007) Fremde Kinder [ep. Businessman] (tv series doc, 2005) Reality Shock (doc, 2005) Die Mitte (The Center, doc, 2004) Absolut Warhola (Warhol Total, doc, 2001) Mit Bubi heim ins Reich (Back Home to the Reich, with Bubi, doc, 2000) Der Tisch (short, 1998) Polnische Passion (short, 1997)
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Il centro [t.l.] Qual è il centro geografico d’Europa? Dev’essere da qualche parte, a metà strada tra Capo Nord, Grecia, Portogallo e Russia. Se lo chiedete alla gente qualcuno vi dirà che non ne ha idea, qualcun altro è convinto che sia a Essen, altri ancora lo stanno cercando. Non meno di una dozzina di città sparse in un raggio di 2.000 chilometri si attribuiscono questo primato. Il regista polacco Stanislaw Mucha e la sua troupe sono partiti per una vivace odissea attraverso Germania, Austria, Polonia, Slovacchia, Lituania e Ucraina a caccia dell’unico e vero centro del continente. Dove sarà la verità? Stanisław Mucha (Nowy Targ, Polonia, 1970) dopo la maturità ha studiato recitazione alla “Ludwik Solski” di Cracovia, dove si è diplomato nel 1993. Poi si è unito all’OldTheatre di Cracovia. Dal 1995 al 2000 ha studiato regia cinematografica presso il Konrad Wolf College di Cinema e Televisione a Babelsberg (Germania). Nel 2000 ha fatto parte della Akademie Schloss Solitude di Stoccarda e della DEFA-Foundation di Berlino, nel 2002. «Durante il suo viaggio alla ricerca del centro dell’Europa, il regista si imbatte in diversi personaggi: non solo un guaritore e un monaco, ma anche ragazzi provenienti da Chernobyl e la “zia Raya”, che passa le giornate nella sua edicola. Tanto il passato, al di fuori dell’Europa, quanto la nuova era all’interno dell’Unione Europea si riflettono nelle storie della gente: la costruzione di una ferrovia, un ponte che non c’è più, una visita papale, la casa dove nacque Hitler, la povertà, i fusi orari. La percezione del proprio luogo di origine come “centro del mondo” si trova spesso in netto contrasto con l’atteggiamento delle persone rispetto all’Europa. Il solo fatto che “il centro d’Europa’” sia il nome di un giornale locale, in Ucraina, la dice lunga. Le domande vengono poste da dietro la macchina da presa, ma il regista non ha paura di entrare nell’inquadratura, se necessario. La colonna sonora, dove Alle Menschen werden Brüder di Beethoven è uno dei temi ricorrenti, fornisce un commento quasi ironico a questo diario di viaggio filmato». (- -, Palmerston North Film Society, 2011)
I confini dell’Europa
Hannes Stöhr
One Day in Europe Germania • Spagna, 2005, 95’, col.
Un giorno in Europa [t.l.] Mentre la finale di Champions League tra Galatasaray e Deportivo La Coruña sta per consumarsi, a Mosca, Istanbul, Santiago De Compostela e Berlino quattro coppie di personaggi di varie nazionalità europee sono coinvolte, in vario modo, in un furto. Lottando per capirsi e farsi capire, tutti saranno costretti a fare i conti con la polizia locale e con il tifo che impazza per le strade. Hannes Stöhr (Stoccarda, Germania, 1970) tra il 1992 e il 1995 ha studiato diritto europeo presso l’Università di Passau e ha vinto una borsa Erasmus a Santiago de Compostela. Dal 1995 al 2000 ha studiato sceneggiatura e regia presso la Deutsche Film- und Fernsehakademie di Berlino (DFFB). Durante gli anni di studio ha realizzato alcuni corti. Il suo primo lungometraggio, Berlin Is in Germany (2001) ha vinto il premio del pubblico nella sezione Panorama al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 2001. «“Un giorno in Europa”può essere riferito al presente, a questo particolare giorno in Europa. Ma potrebbe anche essere inteso come “Un giorno in Europa ci sarà…”, nel senso di “un giorno, nel futuro”. E qui può nascere l’Utopia. Come è possibile fare un film sull’Europa, i suoi diversi modi di pensare, le diverse popolazioni? Quali città dovremmo includere? Quali simboli? Esiste uno stile di vita europeo? Cosa succederebbe se Galatasary e Deportivo La Coruña disputassero la finale di Champions League a Mosca? Il calcio semplifica le cose, è seguito dappertutto, non importa a che religione appartieni. Il calcio come legame narrativo… c’è qualcosa di poetico in questo. Ed è anche realistico, non è una fantasia inimmaginabile. E poi, che cosa succederebbe? Cosa possiamo dire delle lingua diverse o della mancanza di una lingua comune? Cosa dire dei dialetti, delle regionalità, degli spostamenti e dei viaggiatori in Europa? Conosciamo tutti la situazione tipo: arrivi in un posto, ti derubano o ti succede qualcosa e ti ritrovi in una situazione delicata: le cose cominciano a diventare complicate… o semplicemente divertenti».
Regia, Sceneggiatura Hannes Stöhr Fotografia Florian Hoffmeister Montaggio Anne Fabini Scenografia Andreas Olshausen Costumi Daniela Selig Musica Florian Appl Suono Frank Kruse Interpreti Megan Gay (Kate), Luidmila Tsvetkova (Elena), Florian Lukas (Rokko), Erdal Yildiz (Celal), Peter Scherer (Gabor), Miguel de Lira Rachida (il sergente Barreira), Rachida Brani (Rachida), Boris Arquier (Claude) Produttori Anne Lepin, Sigrid Hoerner Produzione Moneypenny Film, Filmanova Distribuzione, Contatti Beta Cinema GmbH, Gruenwalder Weg 28 d, 82041 Oberhaching/ Munich, Germany, tel. +49 89 67346982, fax +49 89 673469888
Filmografia Berlin Calling (2008) One Day in Europe (2005) Tatort [ep. Odins Rache ] (tv series, 2004) Berlin Is in Germany (2001) Berlin Is in Germany (short, 1999) Gosh – Zirkusporträt Ein (doc, 1998) Maultaschen (short, 1996) Biete Agentinnen, suche Europa (short, 1995)
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AA.VV.
Visions of Europe Austria • Belgio • Cipro • Repubblica Ceca • Danimarca • Estonia • Finlandia Francia • Germania • Gran Bretagna • Grecia • Ungheria • Irlanda • Italia Lettonia • Lituania • Lussemburgo • Malta • Olanda • Polonia • Portogallo Slovacchia • Slovenia • Spagna • Svezia, 2004, 140’, col./bn
Regia Fatih Akin [ep. Die alten bösen Lieder], Barbara Albert [ep. Mars], Sharunas Bartas [ep. Children Lose Nothing], Andy Bausch [ep. The Language School], Christoffer Boe [ep. Europe Does Not Exist], Francesca Comencini [ep. Anna Lives in Marghera], Stijn Coninx [ep. Self Portrait], Tony Gatlif [ep. Paris by Night], Sasa Gedeon [ep. Unisono], Christos Georgiou [ep. My Life on Tape], Constantine Giannaris [ep. Room for All], Theo van Gogh [ep. Euroquiz], Peter Greenaway [ep. European Showerbath], Miguel Hermoso [ep. Our Kids], Arvo Iho [ep. Euroflot], Aki Kaurismäki [ep. Bico], Damjan Kozole [ep. Europa], Laila Pakalnina [ep. It’ll Be Fine], Kenneth Scicluna [ep. The Isle], Martin Sulík [ep. The Miracle], Malgorzata Szumowska [ep. Crossroad], Béla Tarr [ep. Prologue], Jan Troell [ep. The Yellow Tag], Teresa Villaverde [ep. Old Wa(te)r], Aisling Walsh [ep. Invisible State] Distribuzione, Contatti Zentropa, Filmbyen 22, 2650 Hvidovre, Denmark, tel. +45 36868788, http://www.visionsofeurope.dk/voe.htm
Visioni d’Europa [t.l.] Da un’idea iniziale di Meinolf Zurhorst della ZDF-Germania/ARTE-Francia, poi sviluppata insieme al produttore Mikael Olsen di Zentropa, venticinque “visioni” per altrettanti registi, affermati e riconosciuti in ciascuno dei rispettivi Paesi che formano la Comunità Europea (nel 2004). Ad ognuno è stato garantito lo stesso budget e la totale libertà di espressione per realizzare un cortometraggio della durata massima di cinque minuti, attraverso il quale dare una visione personale della vita attuale e futura del melting pot culturale europeo. «Indipendentemente dalle diverse posizioni, l’UE è ormai un dato di fatto. Le differenze sono lì da vedere. Le somiglianze potrebbero anche essere trovate. L’Europa è piena di differenze, nazionali e regionali, urbane e agricole, gastronomiche e culturali, sociali e politiche. Tradizioni di potere, usi e abusi, amministrazione e politica, imposizione fiscale, valori militari, educazione, sanità, criminalità e prevenzione, affari esteri, immigrazione, eredità coloniali, sistemi salariali, indennità di disoccupazione, e così via, tutti questi aspetti si riversano in un melting pot multilingue. Un semplice sguardo ai precedenti trecento anni di storia europea mostra la continua evoluzione della mappa di un’Europa fluttuante. Gli elementi di comprensione delle nostre vite personali, catturati in parole come identità, radici, orgoglio nazionale, patrimonio, e così via, sono stati messi in gioco. Un piccolo pezzo del puzzle potrebbe riflettere il puzzle intero. Questo progetto si augura che ogni regista singolarmente sappia cogliere qualunque pezzo del puzzle che l’attrae e ci dia una personale visione artistica del fenomeno chiamato “Europa”. È importante sottolineare che questo non è un progetto europeo in sé. L’obiettivo non è né di promuovere l’Unione Europea, né quello di negarla». (Mikael Olsen di Zentropa)
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Nikolaus Geyrhalter
Abendland Austria, 2011, 88’, col.
La terra del sole calante [t.l.] L’Europa, quando cala la notte. Chi lavora, chi nasce, chi muore, le redazioni dei giornali, la folla di un Oktoberfest e di un rave, il Parlamento Europeo: tutto accade, immerso nella semi oscurità e in una babele di lingue. Nikolaus Geyrhalter (Vienna, Austria, 1972) è regista, operatore e produttore di documentari. Nel 1994 ha fondato la sua casa di produzione, la Nikolaus Geyrhalter Filmproduktion. Tra i suoi film più noti e premiati: Pripyat (1999), Elsewhere (2001), Our Daily Bread (2005) e il più recente 7915 Km (2008), presentato al Bergamo Film Meeting nel 2009. «Sembra un Paradiso. Una porzione di terra ricca di risorse, con un clima mite e abitata da una popolazione che utilizza questi benefici a proprio vantaggio. La convinzione che queste condizioni inevitabilmente sviluppino una cultura superiore ha talvolta ispirato i suoi abitanti, ed è forte anche al giorno d’oggi. La vita in questa parte del mondo sembra essere invidiabile. La popolazione gode di sicurezza e prosperità, e, in caso di necessità, può contare sull’assistenza medica e sociale. Non esiste timore di guerre o persecuzioni politiche. Quello che rende possibile questa vita privilegiata è l’esclusività, l’accesso limitato ai benefici, perché le risorse non sono sufficienti per tutti. Ecco perché questo paradiso è isolato da una recinzione elettrificata insormontabile. Chiunque viva in questo paradiso deve essere pronto a proteggerlo. Un film sull’Europa del ventunesimo secolo».
Regia, Fotografia Nikolaus Geyrhalter Sceneggiatura Wolfgang Widerhofer, Nikolaus Geyrhalter, Maria Arlamovsk Montaggio Wolfgang Widerhofe Suono Lea Saby, Hjalti Bager-Jonathansson, Andreas Hamza, Lenka Mikulova, Nicolas Joly, Ekkehard Baumung Produttori Nikolaus Geyrhalter, Markus Glaser, Michael Kitzberger, Wolfgang Widerhofer Produzione Nikolaus Geyrhalter Filmproduktion Distribuzione Autlook Filmsales GmbH Contatti Austrian Film Commission, Anne Laurent, Stiftgasse 6, A-1070 Wien, Austria, tel. +43 (1) 5263323203, festivals@afc.at
Filmografia Abendland (doc, 2011) Allentsteig (doc, 2010) 7915 Km (doc, 2008) Unser täglich Brot (Our Daily Bread, doc, 2005) Fremde Kinder [ep. Senad und Edis – Es war einmal der Krieg] (tv series doc, 2003) Elsewhere (doc, 2001) Pripyat (doc, 1999) Das Jahr nach Dayton (The Year after Dayton, doc, 1997) Angeschwemmt (Washed Ashore, doc, 1994)
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Feo Aladag
Die Fremde
When We Leave Germania, 2010, 119’, col.
Regia, Sceneggiatura Feo Aladag Fotografia Judith Kaufmann Montaggio Andrea Mertens Scenografia Silke Buhr Costumi Gioia Raspé Musica Stéphane Moucha, Max Richter Suono Jörg Kidrowski Interpreti Sibel Kekilli (Umay), Nizam Schiller (Cell), Derya Elabora (la madre di Umay), Settar Tanriögen (il padre di Umay), Tamer Yigit (il fratello maggiore), Serhad Can (il fratello minore), Almila Bagriacik (la sorella), Florian Lukas (Stipe) Produttori Feo Aladag, Züli Aladag Produzione Independent Artists Filmproduktion, WDR, RBB, Arte Distribuzione Independent Artists Filmproduktion Contatti Laura Polidori, Parlamento Europeo, Direzione Generale Comunicazione Ufficio d’Informazione in Italia, tel. +39 06.69950211, fax +39 06.69950200, www.europarl.it
Filmografia Die Fremde (When We Leave, 2010)
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La straniera [t.l.] La giovane Umay fugge da Istanbul e da un matrimonio che la opprime, portando con sé il figlioletto. Determinata a ricostruirsi una nuova vita, cerca rifugio presso la sua famiglia, trapiantata a Berlino da molti anni. Ma i genitori e i fratelli, legati ai valori e alla tradizione del loro Paese d’origine, non condividono la sua scelta e anzi cercano di riportarla sui suoi passi. La spaccatura, all’interno della famiglia, appare insanabile. Feo Aladag (Vienna, Austria, 1972) ha studiato psicologia e giornalismo, e ha iniziato la sua carriera cinematografica come attrice. Die Fremde è il suo debutto dietro la macchina da presa. Grazie a questo film, è stata la prima regista donna a gareggiare come finalista e a vincere, nel 2010, il Premio Lux assegnato dal Parlamento Europeo. «Die Fremde non è uno studio sugli immigrati turchi in Germania o sui tedeschi di origine turca, ma un film drammatico, con una storia specifica. L’obiettivo è quello di rendere tangibile il fatto che esiste un’altra possibilità. Questo è ciò che dà un senso di speranza alla storia. Il film non vuole puntare il dito e nemmeno dare la soluzione. Non è questo il mio lavoro di regista. Mi interessa molto di più porre delle domande e dare un senso di speranza su come la cose potrebbero andare. Anche se la storia ha una svolta tragica, era importante per me far vedere allo spettatore quanto i personaggi si avvicinino a una possibile riconciliazione e quanto difficile sia per loro superare i problemi, a dispetto di loro stessi. Il film mostra il conflitto interiore di tutti i personaggi, compresi quelli maschili, che non ho raffigurato solo come colpevoli, ma anche come vittime di una dinamica restrittiva. Ho mostrato il loro dolore, la lotta e il tumulto interiore, ho cercato di rappresentare l’assurdità di certi meccanismi, di far vedere la loro umanità».
I confini dell’Europa
Olivier Masset-Depasse
Illégal
Illegal
Belgio • Lussemburgo • Francia, 2010, 90’, col.
Illegal Ivan, quattordici anni, e Tania, sua madre, vivono in Belgio da otto anni da immigrati clandestini provenienti dalla Russia. In continuo stato di allerta, Tania vive nel terrore che la polizia controlli la sua identità, finché un giorno viene arrestata e trasferita in un centro di detenzione. Farà tutto ciò che è in suo potere per riunirsi al figlio, malgrado la costante minaccia di deportazione che pende sulla sua testa. Olivier Masset-Depasse (Charleroi, Belgio, 1971) ha una predilezione per il ritratto di personaggi femminili determinati e decisi. Con i suoi due cortometraggi ha collezionato circa sessanta premi in vari festival. Illégal, presentato nel 2010 alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes e alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, è stato candidato per il Premio Lux 2010 del Parlamento Europeo. «I centri di detenzione amministrativa che si trovano nei nostri paesi, che dovrebbero rispettare i diritti umani, sono illegali. Gli immigrati clandestini detenuti in questi centri sono trattati come criminali. Infatti, il Belgio è già stato condannato quattro volte dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per trattamento disumano e degradante. Un giorno ho scoperto che vivevo a quindici chilometri da uno di questi centri di detenzione. Ho voluto saperne di più. Ero quindi spesso sul campo, a incontrare immigrati clandestini ma anche le guardie e la polizia. Abbiamo potuto visitare un centro. Il centro di detenzione nel film è un set. Fare delle riprese in un vero centro era fuori discussione, è ancora più complicato che girare in una prigione. Ho pensato spesso a Fuga di mezzanotte durante le prime fasi concettuali di Illegal. Per evitare di cadere nel manicheismo, o nell’agenda di sinistra, volevo che il film fosse realistico e fondato su ricerche approfondite. Tutto ciò che si vede nel film è accaduto realmente almeno una volta».
Regia, Sceneggiatura Olivier Masset-Depasse Fotografia Tommaso Fiorilli Montaggio Damien Keyeux Scenografia Patrick Dechesne, Alain-Pascal Housiaux Costumi Magdalena Labuz Musica André Dziezuk, Marc Mergen Suono Philippe Kohn, Marc Bastien, Francois Dumont, Thomas Gauder Interpreti Anne Coesens (Tania), Esse Lawson (Aïssa), Gabriela Perez (Maria), Alexandre Gontcharov (Ivan), Christelle Cornil (Lieve), Olga Zhdanova (Zina), Tomasz Bialkowski (il signor Novak) Produttori Jacques-Henri Bronckart, Olivier Bronckart Produzione Versus Production, Iris Productions, Dharamsala, Prime Time, RTBF Distribuzione Archibald Enterprise Film Contatti Archibald Enterprise Film, Largo Messico 16, 00198 Roma, tel. 06 85304753, fax 06 85304971, www.archibaldfilm.it
Filmografia Illégal (Illegal, 2010) Cages (2006) Dans l’ombre (short, 2004) Chambre froide (short, 2000)
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I confini dell’Europa
Monika Anna Wojtyłło
Polska Love Serenade Germania, 2008, 75’, col.
Regia Monika Anna Wojtyłło Sceneggiatura Jonas Grosch Fotografia Dennis Pauls Montaggio Andreas Schultz Scenografia Peter Wolf Costumi Nina Traiser Musica Armin Pommeranz Suono Daniel Griese Interpreti Claudia Eisinger (Anna), Sebastian Schwarz (Max), Ryszard Wojtyłło (il sindaco), Katharina Wackernagel (la regina della vodka) Produttori Moritz Wessendorff, Alexandra Wojtyłło Produzione Film and Television Academy Potsdam-Babelsberg, HFF Potsdam-Babelsberg, Hochschule für Film und Fernsehen “Konrad Wolf”, arte Geie Distribuzione, Contatti HFF Festivals & Distribution, tel. 0331 6202564, distribution@hff- potsdam.de
Filmografia Polska Love Serenade (2008) Hog Heaven (short, 2005) Kuckuck (short, 2004) Sticken und Ficken (short, 2003) Danger Zone (short, 2003)
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Serenata polacca [t.l.] Poco prima di Natale, due giovani tedeschi, Anna e Max, si incontrano sulle strade della provincia polacca. I due perseguono ambizioni diverse: Anna cerca di farsi rubare la macchina per avere i soldi dell’assicurazione; Max, spinto da un padre autoritario, vuole riscattare le terre che un tempo appartenevano al nonno. Costretti dagli eventi a viaggiare insieme, in un’atmosfera fiabesca, dovranno confrontarsi con i personaggi più strani, folli Babbi Natale, gangster, artisti, sacerdoti… E la vodka scorre a fiumi. Monika Anna Wojtyłło (Breslavia, Polonia, 1977) vive e lavora tra Berlino e Amburgo. Nel 1983, a causa della situazione politica, la sua famiglia è costretta ad abbandonare la Polonia e a cercare rifugio in Germania. Attrice per la televisione dall’età di 14 anni, Monika Wojtyłło ha lavorato anche come montatrice, assistente alla regia, tecnico luci e ha realizzato e diretto diversi cortometraggi. Dal 2002 al 2008 ha studiato regia all’HFF Konrad Wolf di Babelsberg. Polska Love Serenade è il suo film di diploma. «Provincialità, superstizione, furti d‘auto, vodka, mafia e ostilità verso i tedeschi. L’esagerazione deve proprio servire a scardinare tutto ciò, è l’obiettivo del film. Esistono indubbiamente molti cliché, che non spariscono di certo se noi li sottaciamo. Il dialogo tra culture deve servire a togliere allo spettatore la paura che prova di fronte a quello che non conosce, e questo lo si può fare ottimamente partendo dai luoghi comuni, ci si può ridere sopra assieme e sottrarre così loro credibilità e forza. Le reazioni al film sono state molto positive anche in Polonia. I polacchi ridono molto degli stereotipi sui tedeschi che Anna e Max rappresentano. Nonni nazisti, rivendicazioni territoriali, rigida bigotteria, saccenza e famiglie a pezzi. Non voglio fare del cinema per stupire, che piaccia magari solo a chi ben conosce la situazione, ma voglio raggiungere anche il cittadino comune, che non ha magari avuto esperienze dirette con questo tema. Insomma, liberamente secondo il motto di Wilder: “Se hai qualcosa di importante da dire, immergilo in un po’ di cioccolato!”».
Anteprime, eventi, proposte per la distribuzione
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Anteprime
Paddy Considine
Tyrannosaur Gran Bretagna, 2011, 92’, col.
Regia, Sceneggiatura Paddy Considine Fotografia Eric Wilson Montaggio Pia Di Ciaula Scenografia Simon Rogers Costumi Lance Milligan Musica Dan Baker, Chris Baldwin Suono Chris Sheedy Interpreti Peter Mullan (Joseph), Olivia Colman (Hannah), Eddie Marsan (James), Paul Popplewell (Bod), Ned Dennehy (Tommy), Samuel Bottomley (Samuel), Sally Carman (Marie), Sian Brekin (Kelly) Produttore Diarmid Scrimshaw Produzione Warp X, Inflammable Films, Film4, UK Film Council Distribuzione, Contatti Movie Inspired, Stefano Jacono, via Boito 22, 20154 Torino, tel. 011 19716848, stefano.jacono@movieinspired.com
Filmografia Tyrannosaur (2011) Dog Altogether (short, 2007)
Tyrannosaur Joseph, disoccupato e alcolista, è uomo tormentato dalla violenza e da una collera che lo sta portando verso l’autodistruzione. La sua discesa agli inferi è iniziata dopo la morte dell’amata-odiata moglie affetta da diabete: «Quando saliva le scale, il tè sul comodino tremava come all’arrivo del tirannosauro in Jurassic Park». L’incontro con Hannah, una donna che lavora per un’associazione caritativa cristiana, potrebbe rappresentare una via di redenzione, ma anche lei, imprigionata in un matrimonio difficile, nasconde un segreto che avrà un devastante impatto sulle vite di entrambi. Paddy Considine (Burton-on-Trent, Staffordshire, Gran Bretagna, 1974) è attore, regista e sceneggiatore. Esordisce nel 1999 in A Room for Romeo Brass, diretto dall’amico Shane Meadows. Considine è noto al pubblico per i suoi ruoli in In America (In America – Il sogno che non c’era, 2002), 24 Hour Party People (2002), Dead Man’s Shoes (Dead Man’s Shoes – Cinque giorni di vendetta, 2004), The Bourne Ultimatum (The Bourne Ultimatum – Il ritorno dello sciacallo, 2007), Hot Fuzz (2007) e Red Riding: In the Year of Our Lord 1980 (2009), dove ha recitato accanto a Peter Mullan. Il suo debutto alla regia, Dog Altogether, ha vinto numerosi premi tra cui il BAFTA nel 2008 per il miglior cortometraggio. Tyrannosaur, che ha scritto e diretto, è il suo primo lungometraggio. «Già premiato al Sundance (World Cinema Dramatic Directing Award e Premio Speciale della Giuria per l’interpretazione), l’esordio alla regia di Paddy Considine riflette su senso di colpa e redenzione, sull’ipocrisia e sulla frustrazione (Hannah lavora per un’associazione caritativa cristiana, prega per gli altri, ma nasconde il dolore, anche fisico, di un matrimonio fallito): coerente nella messa in scena e perfetto nella direzione degli attori, Tyrannosaur sfrutta sino all’ultimo nervo il talento animale di un Peter Mullan come sempre mostruoso, sul punto di esplodere in ogni situazione, alimentato da una collera e un odio verso il mondo spaventosi, ancora capace però di slanci solo in apparenza imprevisti. E consegna al cinema lo sguardo di un “nuovo” regista, capace di inquadrare già con un solo film le geometrie urbane ed emotive di una Londra altre poche volte vista sul grande schermo: dal nulla di una periferia buia e umida alla “tranquillità” borghese del residenziale Marlon Estate, il passo è molto più breve di quello che può sembrare». (Valerio Sammarco, www.cinematografo.it)
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Anteprime
Andrea Zambelli, Andrea Zanoli
Milongueros Italia • Argentina, 2012, 49’, col.
Milongueri [t.l.] Ogni notte, nelle storiche milonghe di Buenos Aires, oltre a un incredibile numero di appassionati di tango, i più famosi milongueri si raccontano e spiegano come il tango, prima di essere una stupenda musica e un sensuale ballo, sia innanzitutto un vero e proprio “stile di vita”. Andrea Zambelli (Bergamo, 1975) esordisce alla regia nel 2001 con Farebbero tutti silenzio, girato tra i tifosi della curva nord dell’Atalanta. Nel 2002-2003, in Palestina, gira la docu-fiction Deheishe Refugee Camp e Identità, sui campi profughi nel sud del Libano. Nel 2006 collabora con Teleimmagini a un progetto di alfabetizzazione comunicativa in Colombia, e realizza Mercancía. Nel 2008 Di madre in figlia è l’unico documentario italiano selezionato al festival di Toronto. Tekno – Il respiro del mostro è stato presentato in anteprima al Bergamo Film Meeting 2011. Andrea Zanoli (Bergamo, 1981), operatore e documentarista, esordisce nel 2005 con A tratti coda, uno spaccato sul pendolarismo europeo. In motu gratia, documentario a tema ambientale sul riutilizzo della celebre bici “Graziella”, è stato presentato con successo in vari festival nazionali. -CASO- Dieci capitoli e Verdena, Amatour sono invece documentari musicali. Milongueros è la prima co-regia con Andrea Zambelli, con cui collabora abitualmente alla fotografia. «Questo documentario nasce da un’esperienza lavorativa fatta in Argentina l’anno scorso, quando eravamo a Buenos Aires per le riprese di un film ambientato nel mondo del tango. Mentre giravamo nelle milonghe più antiche della città, siamo entrati in contatto con un gruppo di ballerini. Questi milongueros, che hanno tra i sessantacinque e gli ottantatrè anni, totalmente dediti al ballo e alla vita notturna nei locali di Buenos Aires, conservano un’energia e una passione smodata per la musica e le donne. Questi uomini sono gli ultimi depositari viventi di un modo tradizionale di intendere il tango, che tralascia le fantasie acrobatiche e i dispieghi coreografici tipici della nuova generazione, per concentrarsi sul tango della “vida real”, quello che è nato per le strade e che si è espresso ai suoi massimi livelli tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con le orchestre di Troilo, Di Sarli e Pugliese. Per loro il tango è una filosofia di vita che li ha accompagnati dai primi anni dell’adolescenza a oggi, attraverso mezzo secolo di storia argentina. La loro adesione a questa forma di arte è totale: attraverso di essa i milongueros interpretano la realtà che li circonda, con un’enfasi quasi spirituale. “Chi balla il tango non morirà mai”, dice “El flaco” Dany in un’intervista, ed è proprio questo uno dei punti fondamentali del film: chi pratica l’arte del ballo con tale intensità è in grado di fermare il tempo, e di conservare la propria vitalità negli anni».
Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Montaggio Andrea Zambelli, Andrea Zanoli Musica Giulio Ciccia, Umberto Ruggeri, Tango Tinto, Ojos de Tango Suono Fidel Aguirre De Calasanz, Francesco Pontiggia Interpreti Jorge Juanatey, Alberto Dassieu, “El flaco” Dany, “El nene” Masci, Hector “Cachirulo” Pellozo, Julio Duplaa, Ricardo Suarez, Tito Roca, Tito “Escarpe” Franquelo Produttore Emanuele Persico Produzione Pèsca Production, Lab 80 film Distribuzione Pèsca Production, Media Luna New Films Contatti Emanuele Persico, Pèsca Production, tel. +39 333 8490808, emanuele.persico@pescaproduction.com
Filmografia Andrea Zambelli Milongueros (doc, 2011) The Running Man (doc, 2011) Tekno – Il respiro del mostro (2011) Di madre in figlia (From Mother to Daughter, 2008) Mercancìa (short doc, 2006) Nightshot (videoclip, 2005) MisuraXmisura (doc, 2004) Identità (doc, 2003) Deheishe Refugee Camp (short doc, 2002) Farebbero tutti silenzio (short doc, 2001) Andrea Zanoli Milongueros (doc, 2011) Verdena, Amatour (music doc, 2011) In motu gratia (doc, 2010) -CASO- Dieci capitoli (music doc, 2009) Hotel Bosnia (doc, 2009) A tratti coda (doc, 2005)
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AVANTI
Avanti Un progetto di distribuzione culturale È dal 2005 che nei festival di Bellaria e Torino è presente una giuria che sceglie alcuni documentari italiani da distribuire nel circuito culturale dei cineforum e delle varie forme di associazione che in Italia si impegnano a diffondere la cultura cinematografica, senza trascurare le nuove forme di linguaggio e le realizzazioni indipendenti. Il “premio”, assegnato da alcuni operatori, che agiscono nel settore della distribuzione e della produzione, consiste nell’aiuto alla diffusione delle opere selezionate. Attraverso la rete di contatti che attività come Lab 80 film, Bergamo Film Meeting e FIC – Federazione Italiana Cineforum hanno costruito nel corso degli anni, si vuole dare maggiore visibilità a film che altrimenti rischierebbero di circolare solo nei festival specializzati. AVANTi vuol dire Agenzia Valorizzazione Autori Nuovi Tutti Italiani. Il punto esclamativo vuol essere di sprone e di buon auspicio. 64
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AVANTI
Simona Risi
Le White Italia, 2010, 50’, col.
Le White Via Carlo Feltrinelli, periferia sudest di Milano. Tra la tangenziale Est e un campo di tiro per arcieri sorgono le “Case bianche” dette “Le White” di Rogoredo, case popolari costruite nel 1986 e abitate da centocinquanta famiglie. Case bianche, perché bianco è il colore dei pannelli d’amianto di cui sono interamente rivestite. Oscar White, il rapper di Rogoredo, con il brano Milano Sud-Est denuncia la situazione delle White: il degrado, le tante persone ammalate e soprattutto la paura per le morti di tumore di alcuni giovani. Nelle White oltre a Oscar vivono Paolo ed Elena (ex punk della Milano degli anni Ottanta) e Graziella, un riferimento per tutti gli abitanti del palazzo. Sono loro l’anima del Comitato che nel corso degli anni ha informato gli abitanti del condominio del pericolo legato alla sostanza cancerogena, oltre ad aver condotto un’ostinata battaglia con le istituzioni per ottenere la bonifica dello stabile. Che solo ora, dopo venticinque anni, sembra finalmente essere stata approvata.
Regia, Fotografia, Montaggio, Produttore Simona Risi Musica Ugo De Crescenzo Distribuzione Lab 80 film Contatti Lab 80 Film Soc. Coop., via Pignolo 123, 24121 Bergamo, tel. +39 035 342239, fax +39 035 341255, info@lab80.it, www.lab80.it
Simona Risi (Milano, 1970) ha realizzato programmi televisivi, spot, videoclip e documentari in Europa, Africa, Indonesia, America e Sri Lanka. I documentari Mbeubeus (2007) e Le White (2010) hanno partecipato a numerosi festival nazionali e internazionali vincendo premi e menzioni. «Come si vive passando tutti i giorni accanto a un muro d’amianto sgretolato? Come non pensare che può esistere un attimo che silenziosamente può diventare fatale? Nonostante la paura, la vita alle White scorre senza troppe precauzioni, le chiacchiere, l’ennesima sigaretta, le pallonate dei bambini. Il film documenta il periodo che trascorre dalla decisione del Comune di bonificare, fino al trasferimento degli abitanti. E con la fine delle White termina anche l’esperienza unica del comitato di via Carlo Feltrinelli».
Filmografia Le White (2010) Mbeubeus (short, 2007) Ocean View (short, 2006) Nunca mais (short, 2003) Sahel (short, 2000) Indonesia (short, 1999) Ritmi urbani (short, 1998) Ecomoda (short, 1997)
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Bergamo Jazz
Jean Renoir
Sur un air de Charleston
Charleston Parade Francia , 1927, 25’, bn
Regia Jean Renoir Sceneggiatura Pierre Lestringuez Soggetto André Cerf Fotografia Jean Bachelet Montaggio Jean Renoir Musica Clement Doucet Interpreti Johnny Huggins (l’esploratore), Catherine Hessling (la ballerina), Pierre Braunberger, Pierre Lestringuez, André Cerf, Jean Renoir (angeli) Produttori Jean Renoir, Pierre Braunberger Produzione Néo Film
Filmografia essenziale Un tournage à la campagne (1994) Le caporal épinglé (Le strane licenze del caporale Dupont, 1962) Le déjeuner sur l’herbe (Picnic alla francese, 1959) Le carrosse d’or (La carrozza d’oro, 1952) The Diary of a Chambermaid (Il diario di una cameriera, 1946) La règle du jeu (La regola del gioco, 1939) La grande illusion (La grande illusione, 1937) Une partie de campagne (La scampagnata, 1936) La nuit du carrefour (1932) Sur un air de Charleston (Charleston, 1927) Nanà (1926)
Charleston Anno 2028. La civiltà europea è solo un lontano ricordo. L’Europa è stata ricoperta da uno strato di neve. Un esploratore afroamericano atterra in cima a una “colonna Morris” (servivano per la pubblicità nel primo Novecento) che si erge tra le rovine di Parigi. All’interno della colonna si nasconde l’unica sopravvissuta che ha per sola compagnia una scimmia. Nel tentativo di comunicare con lo straniero, la ragazza accenna un passo di danza: un charleston. Lui dapprima la osserva incuriosito, poi, rivelando una grande capacità di apprendimento, si getta nella danza. Ripartiranno insieme arrampicandosi lungo la colonna. «Dopo il fiasco commerciale di Nanà, Jean Renoir vive alcuni mesi di sconforto ravvivati solo dall’amicizia con un giovane appassionato di jazz destinato a diventare un eccellente cineasta, Jacques Becker. Il primo risultato di questa nuova amicizia con Becker fu un breve film incompiuto, che rappresenta un omaggio fatto contemporaneamente al jazz, a Catherine (Hessling) e al Nuovo Mondo, e che per noi funziona da rivelatore proprio di quella componente metalinguistica che a nostro avviso innerva in modo straordinariamente produttivo il cosiddetto realismo di Renoir. L’occasione del film fu la presenza sulle scene parigine della “Revue nègre”, che annoverava tra i suoi ballerini un afroamericano venuto da New York, Johnny Huggins, che Renoir aveva conosciuto tramite Braunberger e Becker. Il film avrebbe dovuto essere accompagnato da una partitura musicale appositamente composta da Clément Doucet, ma non è chiaro se questa partitura sia stata composta o meno. In ogni caso il film appare spumeggiante, ironico, gioioso, un divertissement sapiente sul cinema e sulla civiltà spettacolare dell’Europa contemporanea». (Giorgio De Vincenti, Jean Renoir, la vita, i film, Marsilio, Venezia 1996)
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Bergamo Jazz
Roger Vadim
Les liaisons dangereuses Francia, 1959, 105’, bn
Relazioni pericolose Juliette de Merteuil, appreso che il suo amante ha chiesto la mano della giovane Cécile Volanges, decide di vendicarsi. Convince così il suo “fidanzato”, il visconte di Valmont, a sedurre Cécile. Valmont accetta, ma s’innamora di Marianne. Per convincere Juliette del contrario, le dice che è solo una donna che intende sedurre per poi abbandonare. Mentre pensa di fuggire con Marianne, l’intervento di Juliette manda a monte i suoi piani. «Ho girato il film per ripicca. Ero infatti persuaso in partenza che tutti (o quasi) mi avrebbero accusato di cercare un alibi letterario per il mio esibizionismo e che nessuno (o quasi) avrebbe guardato il film oggettivamente, senza cioè mettersi sul naso gli “occhiali Choderlos”. Poi questa ripicca ha finito per sedurmi. L’argomento, lo stile, i rapporti tra i personaggi mi piacevano troppo, mi tentavano troppo perché ragioni esterne alle Liaisons, mi facessero rinunciare. È certamente il film la cui preparazione mi è costata di più. Indipendentemente dal talento, è molto facile infatti, ricalcando la trama originale, ottenere una versione moderna delle Liaisons, dove le sole differenze siano la foggia dei vestiti e lo stile dei mobili. Si trattava invece di un’altra operazione. Bisognava ricostruire una storia fedele alle intenzioni di Laclos, ma che fosse al tempo stesso una vera storia cinematografica moderna». (Roger Vadim, Roger Vailland, Claude Brulé, Le amicizie pericolose 1960, Lerici, Milano 1960)
Regia Roger Vadim Sceneggiatura Roger Vadim, Roger Vailland, Claude Brulé Soggetto dal romanzo omonimo di Choderlos de Laclos Fotografia Marcel Grignon Montaggio Victoria Mercanton Scenografia Robert Guisgand Costumi Gladys de Segonzac Musica James Campbell, Thelonius Monk, Duke Jordan Suono Robert Biard Interpreti Jeanne Moreau (Juliette de Merteuil), Jeanne Valérie (Cécile Volanges), Gérard Philippe (il visconte di Valmont), Annette Stroyberg-Vadim (Marianne de Tourvel), Jean-Louis Trintignant (Danceny), Madeleine Lambert (Madame Rosemonde), Boris Vian (Prévan), Nicolas Vogel (Jerry Court) Produttore Carlo Ponti Produzione Les Film Marceau, Cocinor
Filmografia essenziale Un coup de baguette magique (tv, 1997) Night Games (1980) Une femme fidèle (Una femmina infedele, 1976) Le vice et la vertu (Il vizio e la virtù, 1963) La jeune fille assassinée (Una vita bruciata, 1974) Barbarella (1968) Et mourir de plaisir (Il sangue e la rosa, 1960) Et Dieu créa… la femme (E Dio creò la donna, 1956)
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Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina
Fabrice Eboué, Thomas Ngijol, Lionel Steketee
Case départ Francia, 2011, 94’, col.
Regia Fabrice Eboué, Thomas Ngijol, Lionel Steketee Sceneggiatura Fabrice Eboué, Thomas Ngijol, Jérôme L’Hostky Fotografia Jean-Claude Aumont Montaggio Frédérique Olszak Scenografia Christian Marti Costumi Pierre-Jean Larroque Musica Alexandre Azaria Suono Pierre André Interpreti Thomas Ngijol (Joël), Fabrice Éboué (Régis), Stéfi Celma (Rosalie), Eriq Ebouaney (Isidore), Etienne Chicot (il signor Jourdain), Catherine Hosmalin (la signora Jourdain), David Salles (il signor Henri), Franck de la Personne (il curato), Joséphine de Meaux (Joséphine) Produttore Alain Goldman Produzione Mars Films, Légende Films, TF1 Films Production Distribuzione Other Angle Pictures
Filmografia Fabrice Eboué Case départ (2011)
Caselle di partenza [t.l.] Joël e Régis hanno in comune un padre che conoscono appena. Joël è disoccupato, svogliato e preferisce dar colpa alla Francia – a suo dire “paese razzista” – per tutti i suoi guai, piuttosto che assumersi le proprie responsabilità. Régis, per contro, è volenteroso e perfettamente integrato. Chiamati al capezzale del padre nelle Antille, si ritrovano in eredità un documento tramandato di generazione in generazione: l’atto di emancipazione dalla schiavitù che ha reso liberi i loro antenati. Ignorando il valore simbolico del documento, lo strappano. Ma una misteriosa zia, determinata a punirli per il gesto compiuto, decide di dar loro una lezione. Si ritrovano così improvvisamente catapultati indietro nel tempo, nel 1780. Venduti come schiavi al mercato, i due fratelli dovranno unire le forze per sfuggire alla piantagione, tornare a casa e al loro presente. Fabrice Eboué (Parigi, Francia, 1977), di padre americano e madre francese, è attore comico e cabarettista. Si fa conoscere dal grande pubblico partecipando a una trasmissione per talenti emergenti. Lo show gli apre le porte al mondo del piccolo schermo. Nel 2011 lavora come autore alla serie United Colors of Jean-Luc, grande successo televisivo francese. Case départ è il suo primo lungometraggio, codiretto con Thomas Ngijol e Lionel Steketee. Thomas Ngijol (Parigi, Francia, 1978), umorista e attore francese di origine camerunense, inizia la sua carriera esibendosi nei caffé parigini. Nel 2008 conduce una rubrica quotidiana su Canal+ diventando uno dei comici più amati dai francesi. Case départ è il suo primo lungometraggio, co-diretto con Fabrice Eboué e Lionel Steketee. Lionel Steketee (Parigi, Francia, 1964) è un regista francese di origine americana. Studia cinema all’Università di Boston. A partire dagli anni Novanta collabora come assistente alla regia in diversi film, come Hôtel Rwanda e Lucky Luke. Nel 2011 realizza Evasion, il suo primo cortometraggio, e parallelamente lavora in ambito pubblicitario. Case départ è il suo primo lungometraggio, co-diretto con Fabrice Eboué e Thomas Ngijol.
Thomas Ngijol Case départ (2011) Lionel Steketee Case départ (2011) Evasion (short, 2011)
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Ritratto d’autore
Anni ’70: uomini che raccontano le donne
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Ritratto d’autore
Gli anni Settanta: sussurri e grida Angelo Signorelli
Non si vuole, con questa proposta, formulare equazioni troppo facili o definire rapporti di semplice causalità tra fenomeni storici che hanno significato in maniera forte gli anni Settanta e alcuni film realizzati da autori importanti e attivi nel periodo. Fa parte della “mentalità” di Bergamo Film Meeting la fabbricazione di percorsi che riescano a raggruppare, sotto un titolo apparentemente generico e un sottotitolo ben più allusivo, opere che, realizzate in un periodo limitato di tempo, abbiano qualcosa in comune. Lo scorso anno si trattò della fantascienza d’autore; questa volta, l’oggetto è il ritratto d’autore, una panoramica attraverso i modi con cui alcuni registi importanti si sono avvicinati a figure femminili particolarmente forti, intense, problematiche, inquiete, contraddittorie. Tornando alle cautele di partenza, è vero che gli anni Settanta sono stati gli anni del femminismo, della liberazione sessuale, dell’esplosione, ma si potrebbe anche dire implosione, dei ruoli, delle demolizioni di alcuni vincoli sociali legati allo strapotere maschile, soprattutto nel mondo del lavoro e della famiglia; per non parlare di tutto l’insieme di costrizioni culturali, religiose, sessuali e psicologiche che racchiudevano le donne in rigide, quanto umilianti, categorie (bambina giudiziosa, moglie fedele e devota, angelo del focolare e, di contro, schizofrenica, puttana, rovina famiglie, licenziosa, sovversiva...). E non si trattava solo di questo: nel movimento di crisi erano coinvolte le cosiddette basi solide della società, soprattutto la famiglia, i figli, l’educazione in tutte le sue forme, la scuola, la chiesa; i pilastri che sostenevano e garantivano lo status quo e l’organizzazione del consenso. In questo contesto, complicato e fitto di avvenimenti, relazioni, implicazioni politiche, spinte in avanti, nuovi conservatorismi, ideologismi vari, ma anche di profonde lacerazioni come il dilagare del terrorismo, lo scontro Est/Ovest, ci è sembrato che alcuni film sentissero l’aria del tempo, anche se in modo perlopiù indiretto, trasversale. Basti pensare che la maggior parte di essi è ambientato in epoche antecedenti, che, sempre la maggior parte, sono tratti da opere letterarie, che le protagoniste hanno l’aspetto di quelle che una volta erano indicate come eroine, con un occhio rivolto alla tradizione romantica e l’altro alle forme del romanzo popolare. Figure di donne abbandonate alla vita e alla passione, nonché a un’esistenza a volte fuori degli schemi, spesso irremovibili nel seguire fino in fondo le inclinazioni del proprio essere. Sono, è vero, film in costume, ma che parlano di desideri, di pulsioni, di contorsioni psicologiche, di opposizioni all’ordine costituito, di scelte portate alle conseguenze estreme. Sono tutti film realizzati da registi maschi, da intellettuali che si confrontano con soggettività impegnative, con psicologie tanto complicate quanto sfuggenti, con narrazioni che, tra le maglie, suggeriscono relazioni, ma non meccaniche dipendenze, con gli apparati del dominio di classe, del pregiudizio, dell’egemonia maschilista. Nella quasi totalità delle opere gli uomini, siano essi padri, mariti, amanti, figli, fratelli, amici, alla fine non ci fanno proprio una gran bella figura, ma si ha come la sensazione che, quello rappresentato, è 70
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Ritratto d’autore
un mondo, prima o poi, destinato a crollare. Cosa che in quegli anni stava avvenendo in maniera a volte manifesta a volte in sordina, dietro le quinte, e che proseguirà in maniera inarrestabile nei decenni successivi. Si può iniziare con il film più impregnato di presente storico: Il caso Katharina Blum (Die Verlorene Ehre der Katharina Blum, 1975), di Wolker Schlöndorff. È la storia di Katharina, una giovane cameriera che ha un incontro sessuale con un presunto criminale che riesce a sfuggire alla cattura. La macchina della giustizia e quella dei media si scatenano contro la donna, che è fatta passare per una sorta di femme publique, organizzatrice di appuntamenti sospetti nel proprio appartamento. La vicenda è ambientata in una Germania che vive sotto l’incubo del terrorismo e la minaccia dei sequestri di persona, nella tensione provocata dai difficili rapporti con la Germania Est, il dilagare delle proteste degli studenti e dei lavoratori, le reazioni violentemente repressive della polizia, il mistero della morte in carcere dei leader della Bader Meinhoff. Katharina è una donna dalla bellezza discreta, che oppone ai modi volgari e offensivi dei suoi oppressori la difesa della propria intimità e del proprio diritto ad amare. Il poliziotto e il giornalista sono le figure in cui si concentra la volgarità di un sistema che si accanisce contro i più deboli, spremendoli al limite della legalità e travisando la realtà per biechi fini propagandistici. A Schlöndorff, coadiuvato da Margarethe von Trotta, non interessa entrare nell’animo della sua protagonista; egli si tiene fuori, lascia volutamente nell’ombra alcuni aspetti della vita di Katharina, conduce una sorta di contro inchiesta, mettendo a nudo i meccanismi di manipolazione del potere, la forzatura del reale per dimostrare tesi preconcette, la costruzione di “verità” funzionali alla scoperta di intrighi che sono solo finzioni scandalistiche. In questo il film si respira l’atmosfera del romanzo di Heinrich Böll, che di contro lascia da parte i riferimenti storici per concentrarsi sulla protagonista e sul suo “onore perduto”: parole che non compaiono nel titolo del film. Ma alla base del potere c’è anche tutta una società che beve in maniera acritica le notizie confezionate ad arte dagli organi di informazione, una maggioranza poco silenziosa che non può non far pensare a un tragico passato ancora dietro l’angolo. Quello dell’ingerenza sociale è un argomento che ben si presta a leggere metaforicamente i capovolgimenti in corso, oltre che a rovistare nelle turbolenze causate dallo scontro tra tabù ancestrali, difese di casta, istanze di ribellione, nuovi e urgenti desideri di libertà. Come in Messaggero d’amore (The Go-Between, 1971) di Joseph Losey, sceneggiato da Harold Pinter, dal romanzo L’età incerta di Leslie Poles Hartley, che racconta la storia dell’amore clandestino tra l’aristocratica Marian e il fattore Ted. Il fulcro della vicenda diventa il tredicenne Leo, invitato nell’estate del 1900 a trascorrere le vacanze nella sontuosa residenza estiva del giovane rampollo della famiglia, suo compagno di scuola; il ragazzo è usato come corriere delle missive che i due amanti si scambiano per organizzare i loro incontri. Nella rigida società vittoriana non sono ammesse contaminazioni tra le classi, ma la forza del desiderio, l’attrazione erotica hanno la meglio sulle barriere sociali. Losey si tiene a distanza di sicurezza rispetto alla storia e agli intrighi dei personaggi, preferendo rimanere al di fuori o giocare con la ritualità delle convenienze sociali, degli abbigliamenti sempre adeguati, dei doveri della servitù, delle conversazioni spesso banali, ma sempre discriminatorie. Pur immerso nella luce invadente di un’estate particolarmente calda, lo sguardo del regista stende un velo di freddezza; la rappresentazione pare, così, filtrare una sorta di giudizio morale. Losey mette in scena un’aristocrazia abulica, che si chiude a riccio, ancora ferma alla fissità delle sfere celesti, alle gerarchie del casato e della superiorità di sangue. Neppure Marian, alla fine, riuscirà ad allontanarsene, per evitare il rischio dell’esclusione dagli agi e dalla ricchezza. Ben diversa esclusione, qui per una colpa non commessa, ma per una violenza subita, che rimane fino alla fine sconosciuta, è vissuta dalla protagonista di La marchesa Von... (Die Marquise von O..., 1976) di Eric Rohmer, tratto dall’omonimo racconto di Heinrich von Kleist. Ambientata nel diciottesimo secolo, la vicenda è torbida e intrigante. La donna, che si trova gravida senza darsene motivo, è rifiutata dalla famiglia e costretta a vivere in esilio, 71
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Ritratto d’autore
segregata e lontana dal consesso civile. Disseminato di citazioni pittoriche, di rara eleganza formale senza essere ricercato, il film narra i turbamenti, lo smarrimento, l’erotismo che è nella bellezza e nell’innocenza offese. La giovane donna è un essere pronto all’amore, uno spirito nobile che desidera conoscere la verità di una condizione non voluta, anche per dare un nome, un riconoscimento sociale alla creatura che porta in grembo. Di contro, di fronte ha un uomo che cerca di tradurre, di filtrare la colpa di cui si è macchiato nella sincerità di un sentimento profondo e assoluto. In un sottile, quasi teatrale, gioco di finzioni, progressivamente le quinte delle apparenze sociali cadono per i desideri di due corpi che si cercano, si corteggiano e alla fine si ricongiungono, per il compimento di un destino che si intravedeva già nei primi sguardi. Torniamo agli inizi del Novecento, nella perbenista provincia inglese, con Le due inglesi (Les deus anglaises et le continent, 1971) di François Truffaut, tratto dal romanzo di Henri-Pierre Roché, già autore di Jules et Jim, da cui il regista francese aveva ricavato il film con Jeanne Moreau. Qui il triangolo amoroso si inverte: il giovane francese Claude è diviso dall’amore per due sorelle inglesi, Muriel e Anne. Lo spirito trasgressivo di inizio secolo della capitale francese è opposto alla morale rigida che è alla base dell’educazione delle due ragazze. Ma ogni essere umano nasconde una vitalità in subbuglio, pulsioni che in qualche modo trovano il modo di esprimersi, anche negli strumenti psicologici con cui si cerca di reprimerle. Claude è per le due giovani donne non solo un oggetto d’amore, ma anche il tramite per amministrare la loro relazione, attraverso cui confrontarsi con la loro sessualità repressa e abbandonare, infine, l’isolamento della casa sulla costa, dominata dall’intransigente morale della madre. In una Parigi in fermento entrambe romperanno i lacci di un’educazione che è ormai parte di un mondo solo in apparenza protettivo; Muriel, in particolare, si lascerà alle spalle, con la sua verginità, il groviglio di sensi di colpa e di autopunizioni per i presunti peccati commessi. 72
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Ritratto d’autore
Claude, che deve fare i conti con la scomparsa di una madre tanto premurosa quanto invadente, alla fine rimane solo con le sue ambizioni letterarie, visibilmente invecchiato. Riflessione e scavo nella sofferenza e nella tensione ideale del sentimento, nell’intimità della confessione e nell’angoscia della scrittura, il film di Truffaut ci parla di amore e di morte, di slanci e di rinunce, di malintesi e di dolorose ferite. Non siamo molto lontani dal film di Bergman, Sussurri e grida (Viskingar och rop, 1973), sia per il periodo – anche qui ci troviamo nei primi del Novecento – che per un forte senso di fisicità, che regola i rapporti, gli attriti, gli slanci tra i quattro personaggi femminili che interpretano la storia. Tutto avviene al capezzale di Agnes, assistita dalle due sorelle, sempre in conflitto tra loro, e dalla fedele governante, materna e prosperosa, come una figura femminile in un quadro di Rubens. Lo strazio, la sofferenza, la pena dell’ammalata, raggiungono livelli drammatici di parossismo. L’unico lenimento, il solo rifugio, è l’ampio e morbido seno della serva, che come tale sarà trattata, quando la morte arriverà a porre fine al calvario del corpo posseduto dal cancro. L’allontanamento della donna del popolo, ormai inutile agli occhi dei padroni, ad opera del marito di una delle due sorelle, insieme alla decisione di vendere la casa, sanciscono la fine di un mondo e la separazione, forse definitiva, tra chi nel dolore aveva trovato brevi momenti di riappacificazione. Il film, che è tutto intinto nel colore rosso – dalle pareti dagli interni alle dissolvenze che segnano i passaggi narrativi – non è solo metaforicamente bagnato nel sangue, ma riflette e proietta interiorità lacerate e turbate, dalle emozioni irriducibili. Ricordi d’infanzia, gelosie che hanno inciso gli animi e la carne, storie di tradimenti e di silenzi; il tutto confluisce, si ammassa sulla soglia della stanza dove giace la donna che sta concludendo il suo cammino su questa terra. Solamente la governante, dallo sguardo dolce e consapevole, nutre un affetto sincero e si prende carico della sofferenza, avvolgendo con il suo corpo eccessivo e accogliente, la regressione determinata dalla patologia devastante. L’ordine che ritorna, spietato e dispotico, non rimargina di certo le ferite, ma affida di nuovo i deliri della veglia all’incomunicabilità e all’impotenza narcisistica. Ci inoltriamo negli anni Trenta del Novecento con Violette Nozière (id., 1978), ambientato a Parigi. L’anno è il 1933, la storia è ispirata a un fatto di cronaca vera, con protagonista una diciottenne, figlia illegittima, che aveva cercato di avvelenare entrambi i genitori. La madre sopravvive, mentre il patrigno muore: lei è condannata alla pena capitale, un atto dal chiaro valore simbolico, perché la ghigliottina non era prevista per le donne. L’anno successivo la pena fu tramutata nell’ergastolo, poi ridotta nel 1942 da Philippe Pétain a dodici anni di lavori forzati; la donna fu definitivamente liberata nell’agosto 1945 e riabilitata dalla Corte di Rouen nel maggio del 1963. Chabrol si sofferma sul carattere ambiguo del personaggio di Violette, che, da ragazzina tutta acqua e sapone, si trasforma, durante le sue scorribande urbane, in avvenente cocotte, prostituendosi e mantenendo Jean, l’amante prediletto. Ruba in casa e incassa somme cospicue dal padre naturale. La madre è ossessiva, invadente, caustica, il patrigno è più conciliante, ma è prodigo di attenzioni ambigue. Chabrol osserva senza giudicare, è molto attento alle sfumature comportamentali, riesce a rendere con efficacia la Parigi tra le due guerre, con i suoi bistrot, la vita notturna, l’eleganza nel vestire, gli incontri clandestini in modeste camere d’albergo. Violette è una giovane donna che vive come se fosse costantemente assente: ai doveri famigliari, alle regole della morale comune, agli affetti e ai sentimenti. Non si sa cosa vuole dalla vita; l’espressione del volto è pensierosa, distante; lo sguardo sembra ritrarsi, come incapace di fissarsi su qualcosa o qualcuno o di condividere un moto dell’animo. Quando è condannata a morte, si porta le mani al collo, ma in realtà si è accorta di avere perso qualcosa. Sempre in Francia si svolge la storia di Soffio al cuore (Le souffle au coeur, 1971) di Louis Malle. Ambientato a Digione nel 1954, il film racconta l’educazione sentimentale e sessuale del quattordicenne Laurent. L’ambiente è quello medio borghese, gli anni sono quelli della sconfitta del colonialismo francese in Indocina. Di autobiografico Malle ci mette la presenza 73
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Ritratto d’autore
di due fratelli importuni e tirannici, la passione per il jazz e la letteratura, un soffio al cuore diagnosticato da ragazzo e il soggiorno in una casa di cura accompagnato dalla madre. Nel film Laurent scopre che lei ha un amante, che si vedono spesso; mentre sono soli nella casa di cura, lei si confida, gli confessa la sua passione e le pretese dell’uomo che vorrebbe portarla via dalla famiglia. Quando, dopo una notte di assenza, Clara ritorna in lacrime perché l’altro, stanco di aspettare, l’ha lasciata, tra madre e figlio si crea un’intimità che scivola dolcemente nella consumazione di in un vero e proprio rapporto sessuale. Per Laurent, l’accaduto segna l’ingresso nell’età adulta, per Clara è l’espressione della sua libertà d’amare. Tra madre e figlio resterà il segreto di qualcosa che non potrà più ripetersi. Due film giocano con il paradosso e con l’assurdo; in entrambi c’è lo zampino del medesimo sceneggiatore, Jean-Claude Carrière. Stiamo parlando di La cagna (1972) di Marco Ferreri e di Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir, 1977) di Luis Buñuel, che chiudono la carrellata spostando l’asse su un piano surreale, spiazzante e provocatorio. Il film di Ferreri si basa su un testo di Ennio Flaiano, che aveva scritto la prima sceneggiatura poi trasformata in romanzo breve, dal titolo Melampus, e che inizialmente avrebbe dovuto dirigere il film. C’è poca traccia dello scritto di Flaiano nel film La cagna, che vede protagonista Giorgio, un disegnatore di fumetti che ha lasciato Parigi e la famiglia per andare a vivere da eremita su una piccola isola, dove abita in un vecchio bunker in compagnia del cane Melampo. Un giorno arriva Liza che provoca la morte dell’animale e si sostituisce a lui come compagna muta e fedele. La conversazione tra i due è ridotta all’osso; la vita sull’isola è fatta di monotonia e inerzia. La luce mediterranea accentua la sensazione di sospensione temporale, di abbandono solitario, di lontananza irrecuperabile rispetto al mondo degli affetti e degli impegni sociali. Giorgio è una persona scontrosa, indifferente, svuotata, a volte scontrosa; Liza si attacca a lui per sfuggire da un disagio del quale non sembra chiedersi la ragione. Desidererebbe solo qualche momento di attenzione, uno sguardo, una carezza, la sollecitazione al gioco, proprio come un cane fedele, che ha nel padrone il solo riferimento vitale. Sull’isola c’è una pista di atterraggio in terra battuta, dove è rimasta la carcassa di un aereo di guerra. Giorgio lo dipinge di rosa, invita Liza a salire; l’aereo si muove lentamente lungo la breve discesa, portando ciò che è rimasto – ben poco – del passato e forse dei sogni di due individui alla deriva. Ben diverso è il tono del film di Buñuel, tratto dal racconto La donna e il burattino (La femme et le pantin) di Pierre Louÿs, che era già stato oggetto di trasposizioni cinematografiche (Capriccio spagnolo, The Devil is a Woman, 1935 di Josef von Sternberg e Femmina, La femme et le pantin, 1958 di Julien Duvivier). Un vedovo cinquantenne si innamora della diciottenne Conchita, che accetta la sua corte senza mai concedersi. La storia è raccontata in treno dall’uomo a una platea occasionale, molto attenta alle disavventure amorose del narratore. Conchita è interpretata da due attrici, la francese Carole Bouquet e la spagnola Angela Molina, diverse nell’aspetto ma confuse dall’attempato dongiovanni. Buñuel non si cura della verosimiglianza, si fa beffe delle intemperanze e delle sicurezze maschili, rivolta e maltratta la morale borghese, il perbenismo, la fiducia nel potere del denaro. Il labirinto amoroso e disseminato di ambiguità in cui si muove il protagonista, interseca attentati compiuti da organizzazioni terroristiche come il Gruppo Armato del Bambin Gesù e altre sigle dai nomi curiosi. L’ultimo film del grande regista spagnolo è di una freschezza e di un’intelligenza rare; il meccanismo narrativo dosa con sapienza il gioco del verosimile e dell’inverosimile, le apparizioni che lavorano sul meccanismo del doppio, gli atti mancati, le combinazioni, le sparizioni, le insinuazioni. Le certezze si sgretolano, così come i valori, le ideologie, la presunzione che esistano regole inviolabili. Conchita è la giovinezza, il sesso, la provocazione, l’incognito, l’imprevedibile, la preda che fugge gli agguati, l’incubo, l’ossessione, la sfida, la crudeltà, la seduzione, l’oggetto irraggiungibile, la dannazione. Angelo e demone, cattura l’immaginario maschile e lo ridicolizza, nella sua arroganza, nel suo sussiego, nella sua presunta invincibilità. 74
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Ritratto d’autore
Gli anni Settanta: siamo partiti con un film “contemporaneo”, cronachistico nell’impianto, costruito come un’indagine giornalistica; concludiamo con un altro film “contemporaneo”, ma che si sviluppa, sul piano della narrazione, per successioni di segmenti di nonsense. Là c’era un personaggio femminile che si potrebbe definire realistico, qui c’è una figura di donna sdoppiata, che nella realtà non ammetterebbe confusioni. Tra questi due estremi, abbiamo incontrato personaggi femminili che ci parlano di disagio, ribellione, insofferenza, inquietudine, dubbio, delusione, angoscia, rassegnazione, inadeguatezza, passione, diversità, violenza. Anche queste parole ci richiamano quegli anni; anche alcune parole, in generale, possono segnare un periodo, evocano atteggiamenti, modi di essere, passaggi esistenziali. Rivedendo i film, che qui abbiamo passato in rassegna, ci è sembrato che contenessero riferimenti, agganci, segnali, sedimenti di un’epoca. Forse è solo una sensazione, ma in fondo stiamo solo tirando dei fili immaginari, stiamo costruendo una trama possibile, che poi non è altro che una forma di scommessa, una partita che ogni spettatore può giocare come vuole. 75
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Ritratto d’autore
Joseph Losey
The Go-Between Gran Bretagna, 1970, 118’, col.
Regia Joseph Losey Sceneggiatura Harold Pinter Soggetto basato sul romanzo L’età incerta di Leslie Poles Hartley Fotografia Gerry Fisher Montaggio Reginald Beck Scenografia Carmen Dillon Costumi John Furniss Musica Richard Rodney Bennet, Michel Legrand Suono Garth Craven Interpreti Julie Christie (Marian), Alan Bates (Ted Burgess), Margaret Leighton (Mrs. Maudslev), Dominic Guard (Leo Colston), Michael Redgrave (Leo Colston adulto), Michael Gough (Mr. Maudsley), Edward Fox (Hugh Trimingham), Richard Gibson (Marcus), Roger Lloyd Pack (Charles), Simon Hume-Kendall (Denys) Produttore Robert Velaise, John Heiman Produzione Metro-Goldwyn-Mayer
Messaggero d’amore Agli inizi del secolo, il tredicenne Leo, orfano di padre e di modesta condizione sociale, viene ospitato, in una sontuosa villa del Norfolk, dalla ricca famiglia del suo amico Marcus. Rimasto affascinato dalla bella Marian – la sorella maggiore del suo anfitrione – che è la sola a trattarlo con affettuosa gentilezza, e forse inconsciamente innamorato di lei, Leo accetta di portare, segretamente, le missive che la giovane si scambia con l’uomo – di ben diversa classe sociale – del quale è innamorata, il fattore Ted Burges. Il film segue fondamentalmente, nella sua complessità, tre linee. La prima è quella che conduce dalla casa di Marian alla fattoria di Ted, attraverso le differenze di classe e la rigidità delle convenzioni; la seconda è quella che lega il passato e il presente: la terza investe il problema, apparentemente irrazionale, del magico. In tutti i casi il ruolo essenziale è quello di Leo. Leo, oltre ad essere l’ospite, è anche irrimediabilmente l’escluso, sia per questioni di censo che per età. Realizzazione ideale della coincidenza fra “identificazione cinematografica primaria e secondaria”, Leo è il voyeur che osserva tutto senza essere visto: è un testimone ignaro e inconsapevole, che vede la superficie delle cose ma non ne riconosce i risvolti. È il perfetto estraneo caritatevolmente accolto nella fantasmagoria della terra straniera, è l’invitato a mala pena gradito al “festino furtivo” (Metz): è dunque anche lo spettatore. (Giorgio Cremonini, Gualtiero De Marinis, Joseph Losey, Il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze 1981)
Filmografia essenziale Steaming (Steaming – Al bagno turco, 1985) Mr. Klein (Chi è Mr. Klein?, 1976) The Romantic Englishwoman (Una romantica donna inglese, 1975) The Go-Between (Messaggero d’amore, 1970) Figures in a Landscape (Caccia sadica, 1970) Accident (L’incidente, 1967) The Servant (Il servo, 1963) The Boy with Green Hair (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948)
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Ritratto d’autore
Louis Malle
Le souffle au coeur
Murmur of Heart Francia • Italia, 1971, 118’, col.
Soffio al cuore Il quindicenne Laurent Chevalier – terzogenito di un agiato ginecologo sposato con un italiana, Clara – frequenta una scuola cattolica ma legge di nascosto Camus; pensa al suicidio e affronta i suoi problemi di adolescente con la guida dei due spregiudicati fratelli, i quali lo inducono a fare la sua prima esperienza con una prostituta. Colpito da una lieve affezione cardiaca – un soffio al cuore – Laurent va per qualche tempo insieme con la madre in una località termale . Qui ha la conferma che lei ha un amante. La notte del 14 luglio, dopo il rituale ballo all’aperto, Clara, che ha lasciato l’amante ed è brilla, fa l’amore col figlio. Nessuno dei due ne fa però un dramma. Le souffle au coeur è un film della memoria, una discreta e ironica recherche del tempo trascorso; ed insieme la descrizione di una maturazione sentimentale compiuta sotto il segno del coraggio culturale […].Una “autobiografia immaginaria”, ha osservato Louis Malle in una intervista. Ciò non significa che Laurent sia la raffigurazione del Malle quindicenne. Senonché, accanto alla sempre attendibile descrizione di un ambiente conosciuto alla perfezione, nell’adolescente de Le souffle au coeur vengono a raccogliersi i nodi di una personalità complessa e già in prospettiva contraddittoria, così come nell’infrazione del tabù dell’incesto si ha quasi la proiezione di un desiderio di rottura di ogni schema, che è la ulteriore attestazione di un individualismo nato anche dal contrasto con il mondo circostante. E che si afferma, occorre aggiungere, contro la contristante indifferenza degli adulti. In un qualche modo, il necessario e doloroso apprentissage delle cose dei grandi implica subito opposizione al loro sistema di valori. (Gualtiero De Santi, Louis Malle, Il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze 1977)
Regia, Sceneggiatura, Soggetto Louis Malle Fotografia Ricardo Aronovich Montaggio Suzanne Baron Scenografia Jean-Jacques Caziot Musica Sidney Bechet, Gaston Frèche, Charlie Parker, Henri Renaud Suono Jean-Claude Laureux Interpreti Lea Massari (Clara Chevalier), Benoît Ferreux (Laurent Chevalier), Daniel Gélin (Charles Chevalier), Michael Lonsdale (padre Henri), Ave Ninchi (Augusta), Gila von Weitershausen (Frida, la prostituta), Fabien Ferreux (Thomas), Marc Winocourt (Marc), Micheline Bona (zia Claudine), Henri Poirier (zio Leonce), Liliane Sorval (Fernande), Corinne Kersten (Daphne), Eric Walter (il piccolo Michel) Produttore Vincent Malle, Claude Nedjar Produzione Nouvelles Éditions de Films (Nef ), Marianne Productions, Vides Cinematografica, Franz Seitz Filmproduktion Filmografia essenziale Vanya on 42nd Street (Vanya sulla 42a strada, 1994) Damage (Il danno, 1992) Milou en mai (Milou a maggio, 1990) Au revoir les enfants (Arrivederci, ragazzi, 1987) Crackers (I soliti ignoti made in USA, 1984) Le souffle au coeur (Soffio al cuore, 1971) Le feu follet (Fuoco fatuo, 1963) Zazie dans le métro (Zazie nel metrò, 1960)
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Ritratto d’autore
François Truffaut
Les deux anglaises et le continent
Two English Girls Francia, 1971, 125’, col.
Regia François Truffaut Sceneggiatura François Truffaut, Jean Gruault Soggetto Henry-Pierre Roché Fotografia Néstor Almendros Montaggio Martine Barraque, Yann Dedet Scenografia Michel de Broin, Jean-Pierre Kohut-Svelko Costumi Gitt Magrini Musica Georges Delerue Suono René Levent Interpreti Jean-Pierre Léaud (Claude Roc), Kika Markham (Anne), Stacey Tendeter (Muriel), Sylvie Marriott (Mrs. Brown), Marie Mansart (Claire Roc), Philippe Léotard (Diurka), Irène Tunc (Ruta), Annie Miller (Monique de Montferrand) Produttore Marcel Berbet Produzione Les Films du Carrosse, Cinétel
Le due inglesi Il parigino Claude conosce una ragazza inglese, Anne Brown, che lo invita a passare le vacanze nella sua casa del Galles dove potrà conoscere anche la sorella Muriel. Anne spera che Claude si possa innamorare di Muriel, cosa che, infatti, accade. Ai due innamorati viene però imposto un anno di separazione. Claude viaggia, si occupa di critica d’arte, conosce altre donne, così, un giorno, scrive una lettera a Muriel per scioglierla dalla promessa di matrimonio. Qualche tempo dopo Claude ritrova Anne a Parigi, se ne innamora e ne diviene l’amante. Quando Muriel lo apprende, cade in un profondo sconforto. Con Le due inglesi, Truffaut raggiunge una sintesi mirabile dei procedimenti linguistici caratteristici del suo cinema, coniugando il distacco critico (mascherini, le chiusure a iride, la voce narrante), alla partecipazione emotiva, all’identificazione più totale. Lo spettatore, coinvolto attraverso l’utilizzazione soggettiva dei primi piani, il ritmo “dilatato” del film, la naturalità della recitazione è continuamente disorientato da un procedimento critico-analitico spinto alle estreme conseguenze, là dove la chirurgia dei sentimenti, l’anatomia dei comportamenti induce la più radicale resistenza all’emozione. Secondo Franco La Polla: «paradossalmente Truffaut riesce ad essere epico su un terreno squisitamente etico. Lo spettatore è sollecitato abbastanza da identificarsi, ma non tanto da esprimere un punto di vista preordinato: giunto alla fine è libero di decidere come meglio crede. Quel che Truffaut gli ha dato è un più ricco, articolato e flessibile punto di vista, una prospettiva meno angusta». (Alberto Barbera, Umberto Mosca, François Truffaut, Il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze 1976)
Filmografia essenziale Vivement dimanche! (Finalmente domenica!, 1982) La femme d’à côté (La signora della porta accanto, 1981) Le dernier métro (L’ultimo metro, 1980) L’amour en fuite (L’amore fugge, 1979) La chambre verte (La camera verde, 1978) L’homme qui aimait les femmes (L’uomo che amava le donne, 1977) L’argent de poche (Gli anni in tasca, 1976) L’histoire d’Adèle H. (Adele H., una storia d’amore, 1975) La nuit américaine (Effetto notte, 1973)
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Ritratto d’autore
Marco Ferreri
Liza Italia • Francia, 1972, 100’, col.
La cagna Giorgio, disegnatore di mezza età, ha lasciato a Parigi moglie e due figli ormai grandi e si è ritirato in un isolotto del Mediterraneo, dove vive e lavora in compagnia del suo cane Melampo, unico paziente ascoltatore dei suoi vaniloqui. La solitudine è attenuata da una radio, da un vecchio grammofono e da periodiche puntate a bordo di un gommone sulla terraferma per rifornimenti. Sull’isola approda Lisa, una ragazza che ben presto sopprime per gelosia il cane, per divenire essa stessa la “cagna”. Con La cagna Ferreri conduce ad un livello estremo di rarefazione e perfezione stilistica il discorso sull’immaginario iniziato con Dillinger è morto e potenziato nei piani assolati e nei grandi spazi vuoti de Il seme dell’uomo. La rarefazione stilistica del discorso sull’immaginario approda con La cagna alla dimensione critica dell’utopia negativa e infinita mediante la forma (e l’uso) della sospensione del tempo, e nella distensione lenta degli spazi e dei loro interstizi. Una sospensione che evoca il tempo della morte e la conclusione di ogni potenziale alternativa di sopravvivenza, anche la più radicale e la più utopica […]. Gli elementi caratterizzanti del cinema di Ferreri – isolamento, vagabondaggio, castello/prigione, relazione uomo-donna, oggettualità, fuga interrotta, erotismo e morte – vengono sinteticamente espressi ne La cagna nella forma “universale” della negazione: vista anche come specchio dell’impotenza e della servitù. (Maurizio Grande, Marco Ferreri, Il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze 1975)
Regia Marco Ferreri Sceneggiatura Ennio Flaiano, Jean-Claude Carrière, Marco Ferreri Soggetto dal romanzo Melampus di Ennio Flaiano Fotografia Mario Vulpiani Montaggio Giuliana Trippa Scenografia Luciana Vedovelli Levi, Théobald Meurisse Costumi Yves Saint-Laurent, Gitt Magrini Musica Philippe Sarde Suono Guy Chichignoud Interpreti Catherine Deneuve (Liza), Marcello Mastroianni (Giorgio), Corinne Marchand (la moglie di Giorgio), Michel Piccoli (l’amico di Giorgio), Pascal Laperrousaz (il figlio di Giorgio), Valérie Stroh (la figlia di Giorgio), Dominique Marcas (la cameriera) Claudine Berg (l’amica di Liza) Produttore Raymond Danon, Alfred Levy Produzione Pegaso Film, Lira Films
Filmografia essenziale Nitrato d’argento (1996) Diario di un vizio (1993) La carne (1991) Come sono buoni i bianchi (1987) Il futuro è donna (1984) Storia di Piera (1983) Storie di ordinaria follia (1981) La grande abbuffata (1973) Liza (La cagna, 1972) Il seme dell’uomo (1969) Dillinger è morto (1969)
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Ritratto d’autore
Ingmar Bergman
Viskningar och rop
Cries and Whispers Svezia, 1972, 90’, col.
Regia, Sceneggiatura, Soggetto Ingmar Bergman Fotografia Sven Nykvist Montaggio Siv Lundgren Scenografia Marik Vos-Lundh Costumi Marik Vos-Lundh Musica Johann Sebastian Bach, Frédéric Chopin Suono Tommy Persson, Owe Svensson Interpreti Harriet Andersson (Agnes), Ingrid Thulin (Karin), Liv Ullmann (Maria/la madre di Maria), Kari Sylwan (Anna), Georg Årlin (Frederik), Erland Josephson (David, il dottore), Henning Moritzen (Joakin), Anders Ek (Isak, il pastore), Inga Gill (la narratrice di fiabe), Linn Ullmann (la figlia di Maria), Rosanna Mariano (Agnes da bambina), Lena Bergman (Maria da bambina), Greta Johansson (la donna che veste i morti) Produttore Lars-Owe Carlberg Produzione Cinematograph AB, Svenka Filminstituten
Sussurri e grida La quarantenne Agnes sta morendo di cancro. Al suo capezzale sono accorse le sorelle, Karin e Maria, da tempo separate. Sposata con un uomo più anziano di lei, Karin odia il prossimo e ha un forte disgusto per ogni contatto fisico. Maria, più giovane, è preoccupata solo di sé e della sua bellezza. Solo Anna, la governante, che ha perduto una figlia, è la più vicina alla sofferenza della sua padrona. Agnes muore, ma durante la veglia funebre le sorelle odono levarsi dal suo cadavere grida disperate di invocazione. Mentre Karin e Maria fuggono terrorizzate, è ancora Anna a prendere tra le sue braccia quel povero corpo e a consegnarlo, placato, al riposo eterno. Sussurri e grida è un film singolarmente ricco di valori formali e sostanziali. Diversi critici hanno usato giustamente l’aggettivo “sontuoso”. Il racconto si svolge seguendo una serie di puntigliose simmetrie. Quattro donne sono le protagoniste, a conferma che per Bergman il quattro è un numero magico. E quattro sono anche i personaggi maschili, che però hanno ancora una volta un ruolo completamente secondario, negativo. I quattro personaggi femminili, a loro volta, sono simmetrici a due a due. Le due sorelle sono i personaggi più negativi, mentre Agnes e Anna sono quelli più positivi. Tutte e quattro le donne sono sole, ma soltanto Agnes e Anna riescono a colmare la loro solitudine, perché aperte all’amore e pertanto all’infinito. Torna qui il tormento di Bergman sulla trascendenza e sull’anima. Le uniche tracce di Dio riscontrabili nel mondo sono, secondo lui, nell’amore. Così i due personaggi che hanno la fede sono anche le due persone che hanno l’amore. (Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro, Milano 1993)
Filmografia essenziale Saraband (Sarabanda, tv 2003) Efter repetitionen (Dopo la prova, tv 1984) Fanny och Alexander (Fanny e Alexander, 1982) Höstsonaten (Sinfonia d’autunno, 1978) Ormens agg (L’uovo del serpente, 1977) Ansikte mot ansikte (L’immagine allo specchio, 1975) Scener ur ett äktenskap (Scene da un matrimonio, 1973) Beröringen (L’adultera, 1971) Nattvardsgästerna (Luci d’inverno, 1963)
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Ritratto d’autore
Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta
Die verlorene Ehre der Katharina Blum oder: Wie Gewalt entstehen und wohin sie führen kann
The Lost Honor of Katharina Blum Germania, 1975, 115’, col.
Il caso Katharina Blum Giovane divorziata, Katharina Blum vive molto ritirata e si mantiene facendo la donna di servizio. Una sera conosce Ludwig e lo ospita in casa propria senza sapere che si tratta di un ricercato. Quando la polizia fa irruzione nell’appartamento di Katharina, Ludwig è già fuggito. Katharina viene così sospettata di complicità con un anarcoide, responsabile di attività sovversive. Nei giorni in cui viene trattenuta e in quelli successivi di libertà condizionata, diviene la facile preda di giornali scandalistici che diffondono notizie del tutto arbitrarie e falsate, tali da ledere altamente l’onorabilità e la reputazione dell’umile donna. Negli anni della “caccia alle streghe”, specie dopo l’arresto di Baader (giugno 1972), Volker Schlöndorff e sua moglie Margarethe von Trotta si impegnano nell’attività di “soccorso rosso” agli studenti della contestazione. Questa iniziativa procura a Schlöndorff l’attacco delle testate di Springer (il padrone della stampa tedesca) e una serie di perquisizioni domiciliari. Anche Heinrich Böll (Premio Nobel nel 1972) è calunniato dagli stessi giornali e riceve la visita della polizia. Così, quando Böll, trasfigurata la propria esperienza ne L’onore perduto di Katharina Blum, spedisce a Schlöndorff le bozze del romanzo, il regista riconosce immediatamente l’importanza di trarne un film per rivelare all’opinione pubblica il tipo di manipolazione cui la sottopone la cosiddetta stampa d’informazione e insieme la violenza dell’apparato giudiziario e delle forze dell’ordine. I due registi fanno di Katharina un’eroina della responsabilità. Una donna, magnificamente interpretata da Angela Winkler, che, attraverso la conoscenza diretta della paura, si emancipa dalla propria soggezione sociale fino a ribellarsi contro chi degrada la vita umana a valore di mercato. (Lorenzo Pellizzari, «Cineforum» n. 156, luglio-agosto 1976)
Regia, Sceneggiatura Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta Soggetto dal romanzo omonimo di Heinrich Böll Fotografia Jost Vacano, Herbert Kerz, Jurgen Bieske Montaggio Peter Przygodda Scenografia Ute Burgmann, Gunther Naumann Costumi Annette Schaad Musica Hans Werner Henze Suono Klaus Eckelt Interpreti Angela Winkler (Katharina Blum), Mario Adorf (il commissario Beizmenne), Dieter Laser (Werner Tötges), Jürgen Prochnow (Ludwing Gotten), Produttore Willi Benninger, Eberhard Junkersdorf Produzione Bioskop Film, Hallelujah Film, Paramount, Orion Film
Filmografia essenziale Volker Schlöndorff La mer à l’aube (2011) Ulzhan (2007) Ten Minutes Older: The Cello [ep. The Enlightenment] (2002) Die Stille nach dem Schuß (Il silenzio dopo lo sparo, 1999) Die Blechtrommel (Il tamburo di latta, 1979) Der Fangschuß (Il colpo di grazia, 1976) Margarethe von Trotta Die Schwester (tv, 2010) Rosenstrasse (id., 2003) Das Versprechen (La promessa, 1995) Die bleierne Zeit (Anni di piombo, 1981) Das zweite Erwachen der Christa Klages (Il secondo risveglio di Christa Klages, 1978)
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Ritratto d’autore
Eric Rohmer
Die Marquise von O… The Marquise of O
Germania • Francia, 1976, 107’, col.
Regia, Sceneggiatura Eric Rohmer Soggetto dal racconto omonimo di Heinrich von Kleist Fotografia Nestor Almendros Montaggio Cécile Decugis Scenografia Roger von Möllendorff, Bernhard Frey, Hervé Grandsart Costumi Moidele Bickel, Dagmar Niefind Musica Roger Delmotte Suono Jean-Pierre Ruh Interpreti Edith Clever (la marchesa von O), Bruno Ganz (il conte di F.), Peter Lühr (il padre della marchesa), Edda Seippel (la madre della marchesa), Otto Sander (il fratello della marchesa), Ruth Drexel (la levatrice), Bernhard Freyd (Leopardo), Produttore Klaus Hellwig, Barbet Schroeder Produzione Janus Filmproduktion, Artemis Production, Les Films du Losange, Gaumont
La marchesa Von… Nel 1799 i cosacchi assaltano una cittadella dell’Italia cisalpina, conquistando il castello del marchese von O. Sua figlia Giulietta è aggredita da alcuni soldati, che tentano di violentarla. La salva il provvidenziale intervento di un tenente colonnello russo, il conte di F. Passano i giorni, e Giulietta ha la certezza di essere incinta. Noncurante dello scandalo, pur di dare un padre al nascituro, pubblica un annuncio, invitando l’ignoto responsabile della sua gravidanza a presentarsi, promettendogli di sposarlo. Con sua enorme e sgradita sorpresa, chi risponde all’annuncio è una persona che lei conosce molto bene. La marchesa Von… può leggersi come l’itinerario interiore di una donna in conflitto con i suoi principi morali. Il suo percorso consiste nell’adeguare il suo comportamento a un’etica rigorosa. Una volta compiuto il suo itinerario, e ammesso in coscienza che l’angelo salvatore è anche il demonio della carne, deve farne accettare le conseguenze pratiche ai membri della sua famiglia. (Aldo Tassone, a cura di, Retrospettiva Eric Rohmer, catalogo France Cinéma 2005, Aida, Firenze 2005)
Da sottolineare l’uso assolutamente finalizzato all’illustrazione, che Rohmer fa della pittura del tardo Settecento. In particolare egli si serve in modo intelligentissimo della contrapposizione tra un tessuto connettivo, dato da una pittura domestica e “borghese” di Greuze, e l’erotismo onirico e demoniaco di Füssli: concordiamo con chi ha visto ne La marchesa Von… uno dei film più erotici degli ultimi anni. (Paolo Vecchi, «Cineforum» n. 168, ottobre 1977)
Filmografia essenziale Les amours d’Astrée et de Céladon (Gli amori di Astrea e Celadon, 2007) Triple agent (Agente speciale, 2004) L’anglaise et le duc (La nobildonna e il duca, 2001) Conte d’automne (Racconto d’autunno, 1998) Conte d’été (Un ragazzo, tre ragazze, 1996) Conte d’hiver (Racconto d’inverno, 1991) Conte de printemps (Racconto di primavera, 1989) Ma nuit chez Maud (La mia notte con Maud, 1969)
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Ritratto d’autore
Luis Buñuel
Cet obscur objet du désir
That Obscure Object of Desire Francia • Spagna, 1977, 100’, col.
Quell’oscuro oggetto del desiderio Mathieu Faber, maturo vedovo, racconta in treno ai casuali compagni di scompartimento di essersi follemente innamorato di una giovane donna di nome Conchita. Nonostante la generosità con la quale Mathieu provvede alla madre di lei e alla ragazza, questa si concede limitatamente, lasciandolo inappagato e costantemente sulla corda. Dopo un’ennesima lite, un amico di Mathieu riesce a fare rimpatriare le due Perez con foglio di via. Mathieu, tuttavia, si reca a Siviglia e ritrova Conchita che conduce il suo crudele gioco all’estremo: dopo essersi fatta regalare una splendida casa, finge di unirsi con Morenito, il suo amante, sotto gli occhi di Mathieu. Tempo dopo si ritrovano a Parigi, nei pressi della Senna, dove continuano a bisticciare. È facile, è legittimo, è inevitabile vedere l’ultimo film di Buñuel come un riepilogo e una summa di tutto il suo cinema. Ma esso colpisce anzitutto per ciò che ha di nuovo, per la straordinaria disponibilità alla ricerca e all’azzardo che dimostra nel settantasettenne regista. Benché parzialmente anticipato dalla doppia figura del questore in Il fantasma della libertà, lo sdoppiamento del personaggio di Conchita in due attrici e in due corpi è certamente un gran gesto di casting surrealista […]. Buñuel naturalmente rifiutò subito qualsiasi spiegazione e interpretazione di questo sdoppiamento, dalle più ovvie (le due interpreti come diversi aspetti di una stessa persona) alle più sottili (l’oggetto d’amore è sempre un altro), alle più bizzarramente “realistiche” (Mathieu sarebbe effettivamente innamorato di due donne diverse, ma non lo sa o non vuole accorgersene). L’idea della separazione tra l’individuo e il suo corpo viene estremizzata: il corpo è come un abito che si può cambiare, indossandone di volta in volta uno elegante e parigino come quello di Carole Bouquet, o uno più spagnolo, colorato e un po’ volgare come quello di Ángela Molina. (Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, Milano 2000)
Regia Luis Buñuel Sceneggiatura Jean-Claude Carrière, Luis Buñuel Soggetto dal romanzo La donna e il burattino di Pierre Louÿs Fotografia Edmond Richard Montaggio Hélène Plemiannikov Scenografia Pierre Guffroy Costumi Sylvie de Segonzac, Francesco Smalto Suono Guy Villette Interpreti Fernando Rey (Mathieu Faber), Carole Bouquet e Ángela Molina (Conchita), Julien Bertheau (Edouard), André Weber (il maggiordomo), David Rocha (Morenito), María Asquerino (Incarnación), Ellen Bhal (Manolita), Produttore Serge Silberman Produzione Greenwich Film Production, Incine Compania Industrial Cinematografica, Les film Galaxie
Filmografia essenziale Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977) Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà, 1974) Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia, 1972) Tristana (id., 1970) La Voie Lactée (La Via Lattea, 1969) Belle de jour (Bella di giorno, 1967) Simón del desierto (Simone del deserto, 1965)
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Ritratto d’autore
Claude Chabrol
Violette Nozière Francia, 1978, 124’, col.
Regia Claude Chabrol Sceneggiatura Frederic Grendel, Hervé Bromberger, Odile Barski Soggetto dalla biografia di Jean-Marie Fritère Fotografia Jean Rabier Montaggio Yves Langlois Scenografia Jacques Brizzio Costumi Pierre Nourry Musica Pierre Jansen Suono Patrick Rousseau Interpreti Isabelle Huppert (Violette Nozière), Stéphane Audran (Germaine Nozière), Jean Carmet (Baptiste Nozière), Jean-François Garreaud (Jean Dabin), Guy Hoffman (il giudice), Jean Dalmain (Émile), Lisa Langlois (Maddy) Produttore Eugène Lépicier, Roger Morand Produzione Filmel, France 3, Cinévidéo
Violette Nozière Parigi, 1933. Violette Nozière, diciott’anni, ha una doppia vita: in famiglia fa la brava ragazza, ma fuori si prostituisce e mantiene un gigolò, Jean Dabin, con il quale conta di partire, che la sfrutta senza scrupoli. Per rubare i loro risparmi, Violette non esita ad avvelenare i genitori: il padre muore, la madre sopravvive. Durante il processo, che fa molto scalpore, Violette dichiara di essere stata più volte violentata dal padre, ma viene condannata a morte. Successivamente la pena viene commutata in ergastolo e poi ancora ridotta a dodici anni per buona condotta, finché viene cancellata definitivamente. Alle prese con un altro episodio tratto dalla vita reale, Chabrol traduce la cronaca in pura forma stilistica, e così facendo trasforma il quotidiano in universale. Violette Nozière è il film più stilizzato di Chabrol e insieme anche uno dei suoi più inquietanti […]. Quanto più la cinepresa si sforza di capire, tanto più scopre che “non c’è niente da capire”. Ed è proprio questo ciò che affascina Chabrol: la rivelazione del mistero come limite e fine della ricerca razionale. «Non c’è niente da capire», dice una battuta del film. Ma questa constatazione non significa affatto un atto di rinuncia da parte dell’artista. Anzi. È proprio tale consapevolezza a rendere il narratore libero di raccontare, osservando i propri personaggi e registrandone le azioni in rapporto al mondo circostante […]. Tutto viene messo continuamente in discussione e le apparenze trascorrono continuamente nel loro opposto; ma, dimostra Chabrol, è proprio in questo paradosso della vita e della Storia che si annidano i germi del vero cinema. (Aldo Viganò, Claude Chabrol, Le Mani, Recco-Genova 1997)
Filmografia essenziale Bellamy (2009) La fille coupée en deux (L’innocenza del peccato, 2007) L’ivresse du pouvoir (La commedia del potere, 2006) La demoiselle d’honneur (La damigella d’onore, 2004) La fleur du mal (Il fiore del male, 2003) Merci pour le chocolat (Grazie per la cioccolata, 2000) La cérémonie (Il buio nella mente, 1995) L’enfer (L’Inferno, 1993) Betty (id., 1992)
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L’ombra del dubbio L’ambiguità come essenza del noir
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L’ombra del dubbio
Il valzer delle ombre Emanuela Martini
Siamo presi, siamo in trappola. Ogni volta il circolo vizioso si chiude, e noi restiamo dentro, senza possibilità di fuga. Perché se lui è innocente, allora devo essere stata io. E se invece innocente sono io, allora deve essere stato lui. Ma io so di essere innocente. (E anche lui può sapere di esserlo). E questo non lascia nessuna possibilità. (William Irish, Ho sposato un’ombra, 1948)
«Nella prima scena alla stazione, quando arriva il treno dal quale scenderà lo zio Charlie, un fumo nero molto denso esce dalla ciminiera della locomotiva e, mentre il treno si avvicina, oscura tutta la stazione. Ho l’impressione che si tratti di una cosa voluta, perché alla fine del film, nella seconda scena alla stazione, quando il treno se ne va, c’è soltanto una piccola, normale fumata bianca». «Effettivamente, per la prima scena ho chiesto che mi dessero molto fumo nero; è uno di quegli elementi attraverso i quali si rende l’idea del male senza necessariamente nominarlo. Ma in questo caso abbiamo avuto un colpo di fortuna supplementare: molto semplicemente, il sole si è spostato e ha provocato una bella ombra su tutta la stazione». «Perciò quel fumo nero può tradursi in: ecco il diavolo che arriva in città?». «Sì, naturalmente», e Alfred Hitchcock prosegue raccontando un espediente analogo adottato vent’anni dopo negli Uccelli (The Birds, 1953). Il dialogo, come probabilmente immaginate, è quello tra Hitchcock e Truffaut nel suo bellissimo libro intervista, e il film di cui si parla è quello eponimo di questa rassegna: L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, 1943), sesto film americano di Hitchcok e uno dei più amati dall’autore e, soprattutto, dai critici a lui contemporanei. Girato a Santa Rosa, nell’alta California (un’area che a Hithcock doveva piacere parecchio, visto che a pochi chilometri c’è Bodega Bay, la cittadina dov’è ambientato Gli uccelli), L’ombra del dubbio immette sospetti, inquietudini e mostri in un’ordinaria, tranquilla “piccola città” (Piccola città è il titolo della celebre commedia del 1938 di Thornton Wilder, lo scrittore americano cui si rivolse Hitchcock per la sceneggiatura del film), tra normali piccolo-borghesi molto chiacchieroni e un po’ ingenui, in un tran tran domestico e urbano che scorre sereno e inconsapevole (la sera, le strade sono piene di gente che passeggia e certamente nessuno, in città, chiude la porta a chiave). Un piccolo mondo tipico di capolavori hitchcockiani del periodo inglese come L’uomo che sapeva troppo (The Man Who Knew Too Much, 1934) e La signora scompare (The Lady Vanishes, 1938), che tuttavia il maestro del brivido non era ancora riuscito a mettere in 86
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L’ombra del dubbio
scena nei suoi primi film hollywoodiani, spesso ambientati, come Rebecca, la prima moglie (Rebecca, 1940) e Il sospetto (Suspicion, 1941), in un’Inghilterra ricostruita in studio o articolati attorno a eventi eccezionali, dalla minaccia della Seconda guerra mondiale di Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent, 1940) al sabotaggio delle officine militari di Sabotatori (Saboteur, 1942). Qui no. Qui c’è una tranquilla famiglia media e uno zio fascinoso e molto amato che, reduce dai suoi viaggi, arriva in visita, per riposarsi dice, e magari per sistemarsi una volta per tutte proprio a Santa Rosa. Nessun sospetto, nessun dubbio, nonostante al suo arrivo il sole si sposti e un’ampia ombra nera oscuri la stazione. Naturalmente noi, gli spettatori, che lo abbiamo intravisto prima, troppo appagato mentre sta sdraiato sul letto della pensione dove vive, troppo incurante delle troppe banconote sparse sul pavimento, troppo preoccupato dei due uomini che sono venuti a chiedere di lui (in due, come fanno sempre i poliziotti), noi qualche sospetto su zio Charlie l’abbiamo: Charles Oakley non è il solito innocente perseguitato hitchcockiano, sa bene da cosa sta fuggendo, è sicuro di sé, non cerca aiuto ma un mantello di rispettabilità borghese e familiare. Non dovessero bastare gli indizi esemplari che Hitchcock ci offre nei primi minuti e la sfumata perversione dell’interpretazione di Joseph Cotten, c’è quel motivo ossessivo, il valzer della Vedova allegra, con l’immagine delle coppie volteggianti sulla quale scorrono i titoli di testa, che torna lungo tutto il film a tormentare la nipote Charlie e sua madre e naturalmente lo zio. No, Charles Oakley è certamente il cattivo, e la sera stessa del suo arrivo in città scopriremo, dai titoli di un giornale, i suoi crimini. Eppure, L’ombra del dubbio resta uno dei film chiave della narrazione del sospetto e dell’incertezza, non solo nella filmografia hitchcockiana e in suoi “parenti stretti” quali Delitto per delitto (Strangers on a Train, 1951), La finestra sul cortile (Rear Window, 1954), Il delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954), Il ladro (The Wrong Man, 1956), ma in generale in quel regno del dubbio che è il noir. 87
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L’ombra del dubbio
E qui vorrei aprire una parentesi: nonostante appaia in tutte le enciclopedie del noir e nonostante la vaghezza dei confini di questo “genere”, che scivola facilmente nel thriller e nel mélo, L’ombra del dubbio ha poco del noir, come si andava codificando in quegli anni, a partire da Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston. Certo, ha un colpevole sotto mentite spoglie accattivanti, ha un sospetto orribile che cresce e si dilata nella coscienza di uno dei protagonisti e un senso di minaccia incombente segnalato, appunto, da tocchi di linguaggio come l’ombra sulla stazione o il motivo del valzer; ma è anche un film stranamente “solare”, e non solo per l’umorismo messo in circolo (un sublime marchio di fabbrica hitchcockiano), ma soprattutto per l’atmosfera appagata e “onesta” che vi si respira, per la solidità della “piccola città” e dei suoi abitanti, che la simbiosi affettiva (l’amore, certamente) tra i Charlie zio e nipote non riesce a scalfire fino in fondo. Visto oggi, pare più la storia, certo inquietante, della coming of age, l’uscita dall’aolescenza, di una ragazza di provincia che, con molta destrezza e grazie ai valori che la circondano, si salva dal rapporto ossessivo con un autentico “uomo fatale”. Ciononostante, L’ombra del dubbio è un modello, quasi insuperato, di progressione psicologica e di genialità linguistica applicate al regno oscuro delle ombre, nel momento in cui questo rivela la minacciosa potenza con cui sottende l’universo visibile e “banale” del quotidiano. Siamo tutti in pericolo, siamo tutti “doppi”, siamo tutti molto più oscuri di quanto crediamo. E questa è la grandezza di Hitchcock.
La seduzione dei “demoni” Ma L’ombra del dubbio è anche, particolare non trascurabile, un film-cerniera tra diverse suggestioni culturali e cinematografiche (la contaminazione dei generi non l’ha certo inventata il cinema degli ultimi decenni del Novecento). Pensiamo a Rebecca, la prima 88
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L’ombra del dubbio
moglie e a quanto Il sospetto deve a Rebecca, non solo nel personaggio fragile e “angelicato” di Joan Fontaine, ma soprattutto nelle figure maschili ambigue e minacciose, da una parte Maxim de Winter, baciato dall’arroganza di classe che gli è propria e dilaniato dai sensi di colpa e dai sospetti su se stesso, e dall’altra Johnnie Aysgarth, soave, bastardo avventuriero che potrebbe o non potrebbe aver pianificato l’assassinio della ricca e indifesa moglie (come l’inappuntabile, insospettabile Ray Milland in Il delitto perfetto): Laurence Olivier e Cary Grant, due facce della stessa medaglia, il tenebroso eroe da “io ti salverò”, detto anche “il complesso della crocerossina”, in base al quale le donne sono attratte dai tipi più inaffidabili proprio perché pensano che, prima o poi, riusciranno a salvarli e a farsi amare da loro. Hitchcok, che viene dritto dalla cultura gotica e vittoriana che fin dal Sette e Ottocento ha prodotto una sterminata galleria letteraria di questi neri “eroi”, è un maestro nella descrizione dei rapporti di amore e attrazione basati su dinamiche sadiche e masochistiche (nelle quali talvolta riesce a invischiare persino l’intergerrimo all-american boy James Stewart), e trova proprio in Cary Grant, con la sua enigmatica leggerezza, la personificazione ideale di questo personaggio, da Il sospetto a Notorious (1946) a Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959). Come dire che, se davanti allo Sean Connery di Marnie (1964) capiamo subito di essere entrati in una storia di sesso e dominio tra maschio e femmina, restiamo invece perplessi e sbilanciati in presenza di Cary Grant, raffinato e sornione, sempre pronto alla battuta, troppo “aereo” per essere davvero un assassino o anche solo un “killer sentimentale” (com’è invece, oggettivamente, sia in Notorious che in Intrigo internazionale). Poco importa che Hitchcock (forse costretto o forse no dai produttori, comunque Truffaut preferiva la storia del film a quella del libro) ribalti l’assunto narrativo di Il sospetto rispetto al romanzo originario di Francis Iles (il romanzo è la storia di una donna che si accorge a poco a poco che il marito la sta uccidendo, mentre nel film la protagonista comincia a credere che il marito la stia uccidendo): in ogni modo, il personaggio di Grant è alquanto ambiguo e certamente incorreggibile e più di un dubbio, nell’ultima scena in cima alla scogliera, resta. Il personaggio dello zio Charlie di Joseph Cotten, per gestualità e charme ed eleganza, è molto vicino a quelli di Cary Grant e certamente appartiene alla stessa razza di irriducibili, suadenti imbroglioni rubacuori. In quegli anni, Cotten era uno degli amici e collaboratori più fidati di Orson Welles. E qui entra in gioco un altro film, Lo straniero (The Stranger), diretto e interpretato da Welles nel 1946 seguendo precise strutture di genere, per dimostrare ai produttori che era in grado di portare a termine un film come chiunque altro, rispettando regole, tempi e budget. Infinitamente inferiore a L’ombra del dubbio, Lo straniero (che fu “risistemato” dai produttori e che Welles detestava), ha molte bizzarre affinità con il film di Hitchcock: anche qui il “mostro” (in questo caso, un criminale nazista) è andato a nascondersi in una tranquilla cittadina americana (Harper, nel Connecticut), dove si è integrato al punto da sposare la figlia del giudice; è attraente, rispettato, amato; e anche qui la persona che gli è più vicina, la moglie, scopre i suoi delitti e mette in moto con lui i meccanismi di odio-amore, incredulità-sospetto, carnefice-vittima che caratterizzano in L’ombra del dubbio i rapporti tra i due Charlie (e, incidentalmente, anche qui il mostro Franz Kindler ha assunto il nome di Charlie: Charles Rankin). Loretta Young, la moglie, in certi momenti pare persino pronta a farsi uccidere da Orson Welles, come Joan Fontaine da Cary Grant nel Sospetto. Se aggiungiamo l’uso della suspense come pura funzione hithcockiana (gli spettatori scoprono molto presto che Rankin e Kindler sono la stessa persona), l’ironica leggerezza con la quale vengono tratteggiati gli abitanti della cittadina e una scena quasi identica di inconsapevole svelamento della vera natura del cattivo (a tavola, durante una cena familiare, sia Cotten che Welles hanno due tirate, rispettivamente sulla disgustosa inutilità delle ricche vedove e su tedeschi ed ebrei, che non solo lasciano allibiti i commensali ma che insinuano o rafforzano i dubbi di uno di questi), capiamo che Welles e i suoi sceneggiatori e soggettisti (John Huston, Anthony Veiller e Victor Trivas) dovevano avere ben presente il modello di Hitchcock. Niente di male: un genere è un genere e un meccanismo è un meccanismo, e la resa si valuta sullo schermo. 89
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Film dai molti pregi gotici e visionari (su tutti, la torre del campanile che Welles fece costruire e, sulla sua cima, l’orologio sul quale si inseguono angeli e demoni), con un notevole Edward G. Robinson nella parte del cacciatore di nazisti, Lo straniero ha purtroppo un difetto: l’interpretazione di Orson Welles, che dà corpo a un cattivo come sempre smisurato, non solo troppo “scoperto” rispetto al contesto narrativo, ma che soprattutto, a differenza di Kane-Arkadin-Quinlan, non ha quelle tracce di umana fragilità che rendono questi tanto profondi e talvolta inermi. Per ritornare all’universo letterario citato, Welles riprende un po’ il personaggio che ha interpretato due anni prima per Robert Stevenson: Rochester, il misterioso, scostante protagonista di La porta proibita, che in realtà è la Jane Eyre di Charlotte Brontë, eroina candida e dubbiosa che tenta di redimere un “bel tenebroso” e che potrebbe o non potrebbe far la fine di una delle mogli di Barbablu (o di Cary Grant), e che è ancora una volta, non a caso, Joan Fontaine. Pur tra ombre torreggianti e altezze vertiginose, le sfumature del dubbio rischiano di dissolversi e le regole dell’attrazione di farsi un tantino troppo esigenti.
Luci a gas Quello del “bel tenebroso” (o “eroe dannato”, Monaco-Dracula-Melmoth-Heathcliff, ecc., giù fino ai vampiri dell’intervista di Anne Rice), per quanto meno seducente (e perciò meno analizzato e “banalizzato”) del suo alter ego femminile (la dark lady, figlia più animalesca della femme fatale di romantica derivazione), resta comunque un leit motiv del noir che vira al thriller e soprattutto al mélo. Finora, in fondo, a parte uno zio e una nipote simbiotici che portano lo stesso nome, abbiamo parlato soprattutto di coppie “disfunzionali”, di malmaritate tormentate dal sospetto, di mariti tanto affascinanti quanto ambigui, di rapporti di forza dispari. Il capofamiglia vittoriano (e non solo) dettava la legge e non si tolleravano intromissioni di sorta tra marito e moglie (come tra padri e figli). Facile, in un contesto del genere, ingannare, spossessare, umiliare, persino uccidere. Il più era architettare un piano tanto perfetto da risultare insospettabile. La pazzia indotta (in decenni più vicini a noi, un grave esaurimento nervoso) è dietro l’angolo. Nel 1938 andò in scena a Londra un dramma poliziesco dello scrittore Patrick Hamilton: Gaslight, dove un marito vittoriano, alla ricerca ossessiva dei gioielli mai ritrovati di una donna assassinata in quella casa quindici anni prima, cerca di fare impazzire la moglie. La commedia ebbe un successo enorme anche a Broadway, dove fu ripresa immediatamente con il titolo Angel Street. Nel 1940, uscì l’adattamento cinematografico britannico, Gaslight diretto da Thorold Dickinson e interpretato da Anton Walbrook e Diana Wynyard; nel 1944, quello hollywoodiano, Angoscia (Gaslight), diretto da George Cukor e interpretato da Ingrid Bergman, Charles Boyer e Joseph Cotten. La Mgm, che aveva acquistato i diritti del film di Dickinson, ne bloccò naturalmente la circolazione. Si disse allora (ma non era vero) che avesse preteso la distruzione dei negativi, e questo fece sì che, per alcuni decenni, si considerasse il film inglese perduto e, quindi, superiore a quello americano. Una diatriba che non vale la pena riaprire; infatti ha ragione chi sostiene che, nonostante la storia sia pressoché identica, si tratta di due film diversi, più sontuoso e romantico quello di Cukor, più raffinato e cinico quello di Dickinson. Uno più americano e l’altro più inglese? Chissà. Resta il fatto che entrambi sono un punto fermo nella messa in scena dell’angoscia del dubbio, con Dickinson che gioca sulla suspense alla Hitchcock, mettendo presto in chiaro che il cattivo è il marito Anton Walbrook e facendo di lui un prototipo magnifico dell’eroe demoniaco, isterico e scintillante, un dominatore capace di passare senza soluzione di continutà dal corteggiamento affettuoso alla sfuriata gelida, da un accenno di valzer al disprezzo esibito, il centro assoluto del film, fino al culmine della pazzia finale. Cukor invece concede un po’ più di tempo al romanticismo “esotico” della star francese Charles Boyer, 90
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lasciando sospesa più a lungo la sua fisionomia, anche se, ovviamente, l’entrata in scena di un più solido potenziale “interesse romantico”, Joseph Cotten, fa intuire l’evoluzione della storia: il fatto è che in Angoscia entrambi i protagonisti maschili sono in funzione della star femminile, un’accorata, sensuale Ingrid Bergman, ancora una volta in una rappresentazione della fragilità femminile messa in sospetto e forse (anzi, certamente) in pericolo dall’aggressività maschile. Comunque, chiusi con la protagonista nella casa londinese di Pimlico Square (versione Gb) e Thornton Square (versione Usa), tra luci a gas che si abbassano, rumori misteriosi al piano di sopra (disabitato), ombre lunghe che si proiettano sulle scale, piccoli oggetti che scompaiono per riapparire poi nei cassetti della padrona di casa, possiamo sentire il suo percorso, sadico e premeditato, verso la follia e condividere il suo smarrimento. L’efficacia di Gaslight e la sua tenuta al passaggio dal teatro al cinema e al trascorrere del tempo, oltre che nella ravura dei cineasti coinvolti, risiedono anche nella semplicità e naturalezza con cui tutto ciò che è familiare e protettivo (la casa, le cose, le stanze, la luce) si trasforma in straniero e minaccioso, una perdita dell’orientamento distillata goccia a goccia dal persecutore, e perciò tanto più squilibrante (per la perseguitata, ma anche per gli spettatori) di quanto non sarebbe se, per esempio, il cammino verso la follia fosse indotto attraverso strumenti più plateali quali droghe o ipnosi. Un meccanismo analogo, anche se si tratta di una storia completamente diversa, viene messo in atto in Tragica incertezza (So Long at the Fair, 1950) di Anthony Darnborough e, soprattutto, Terence Fisher, in uno dei suoi film migliori pre-Hammer horror. Qui è una 91
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fanciulla inglese che, arrivata a Parigi per l’Expo del 1896 insieme al fratello maggiore, si scontra con il deformarsi improvviso della realtà: semplicemente, il mattino dopo il loro arrivo l’uomo è scomparso; non solo, è scomparsa anche la stanza nella quale dormiva, e i proprietari dell’albergo si ostinano a dichiarare che è arrivata sola e cercano di rispedirla in fretta Oltremanica. A parte la somiglianza con l’incipit di Frantic (1988) di Polanski, il film è un buon esperimento negli abissi dell’incertezza (come segnala il titolo italiano), certamente più vicino al gotico che al noir, con un’eroina la cui giovinezza (Jean Simmons aveva esattamente vent’anni) non mina una testarda sicurezza dei propri sensi e della propria stabilità mentale.
La rivincita degli “angeli” Altrettanto determinata appare la protagonista di Donne e veleni (Sleep, My Love, 1948), un bel film, poco noto, di Douglas Sirk, nel quale Claudette Colbert, brillante socialite newyorkese, si sveglia di notte nel vagone letto di un treno diretto a Boston sul quale non ricorda di essere salita e viene ricondotta a casa, dove il marito, che ne ha appena denunciata la scomparsa, si mostra molto preoccupato di questi presunti, improvvisi vuoti di memoria e attacchi di sonnambulismo. Ma Claudette Colbert non è Joan Fontaine: è sicura di sé, solida e tutt’altro che indifesa, le piace fare amicizia con la gente e andare ai party e può persino raccontare a un nuovo amico, l’affascinante Robert Cummings, le proprie preoccupazioni. Il marito è Don Ameche, tradizionale deuteragonista, e per di più indossa una vestaglia damascata e ha i baffetti. Quando scopriamo (quasi subito) che la bella casa di Sutton Place (e certamente il denaro della coppia) viene dalla famiglia della donna, cominciamo a insospettirci (e Robert Cummings con noi). A parte i prototipi che costellano il genere e i generi, nel cinema come nella letteratura, il film di Sirk è molto interessante nel mescolamento di suggestioni visive e narrative (ombre espressioniste su gotico urbano e scene da romantic comedy perfettamente innestate sulla traccia thrilling) e nella ridefinizione di caratteristiche psicologiche: infatti, oltre al drastico cambiamento della fisionomia dell’eroina in pericolo (tanto poco inerme che, per domarla, occorrono dosi da cavallo di droga, più ipnosi, più autentiche intrusioni di sconosciuti in casa), appare anche, lateralmente, una classica dark lady, molto bella, molto giovane e avida e anche molto stupida, priva persino dell’innata, distintiva furbizia animalesca, sempre in desabillè o fasciata di nero e sempre appostata in retrobottega laidi o in locali equivoci. Quanto al personaggio di Don Ameche, pur con un tocco di fascino latino, non è certo diabolicamente “malato dentro” come Olivier, Walbrook, Cotten o Welles, né abile e disinvolto come Cary Grant, nonostante la storia solleciti un facile collegamento tra il suo personaggio e quello di Grant in Il sospetto, con il famoso bicchiere di latte (forse) avvelenato (e illuminato da Hitchcock dall’interno) che Johnnie porta alla moglie che si trasforma qui nelle numerose tazze di cioccolata calda drogata che sollecito Ameche propina ogni sera alla Colbert. In realtà, Don Ameche finisce per assomigliare un po’, in sottotono, ai personaggi di Edward G. Robinson nei noir di Fritz Lang. Una commistione analoga è messa in atto in Un angelo è caduto (Fallen Angel, 1945) di Otto Preminger, dove un eroe stazzonato e disilluso (Dana Andrews, senza casa né aspettative), capita per caso in un buco sperduto, s’innamora di Linda Darnell che fa la cattiva ragazza sradicata in un diner e rifiuta le sue attenzioni perché troppo spiantato, e decide perciò di sposare Alice Faye, incolore, all’apparenza indifesa, ricca. E anche qui, nonostante ci troviamo senza dubbio nel territorio definitivo del noir e in mano a uno dei suoi maestri morbosi, gli stereotipi cominciano a vacillare e assistiamo quasi a un passaggio di consegne, dove l’autentica indifesa finisce per essere la presunta dark lady, mentre la spinster perbene afferma con decisione la sua presa sul titubante antieroe 92
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postbellico. Rebecca, prima moglie maliarda e quintessenza invisibile della donna fatale, non esercita più il suo ascendente dalla tomba. Ma siamo nel dopoguerra, quando le care brave ragazze, le fidanzate e le spose di guerra, hanno preso saldamente in mano la famiglia e l’economia, e gli eroi, persino quelli oscuri e demoniaci, portano sulle spalle i traumi e le psicosi dei reduci. La casalinga Mildred Pierce può rivelarsi una spregiudicata, tostissima “donna in carriera” e riversare i suoi affanni e i suoi incubi su un’ossessiva (e ossessionante) sfera materna. E il duro per eccellenza, Humphrey Bogart, sceneggiatore in crisi creativa a Hollywood, può riservare la sorpresa di un equilibrio fragilissimo, che il proverbiale, amaro disincanto non riesce più a tenere sotto controllo, ed essere costretto a rinunciare alla “salvezza” intravista in una lucidissima Gloria Grahame. Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce, 1945) di Michael Curtiz e Il diritto di uccidere (In a Lonely Place, 1950) di Nicholas Ray, entrambi a buon diritto dei noir, veleggiano già apertamente verso il melodramma, mentre i dubbi allungano la loro ombra pesante sulla società e le sue strutture. 93
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Bevete più latte, più latte fa bene Arturo Invernici Un celebre adagio, noto a chiunque si accinga a scrivere un romanzo o una sceneggiatura, insegna che se a un certo punto fai vedere una pistola, quella prima della fine dell’opera deve sparare. Come tutte le frasi categoriche, anche questa va presa con un pizzico di sale: la pistola può sparare, o fare cilecca; o ancora essere fatta di sapone dipinto con il lucido da scarpe e squagliarsi sotto la pioggia, come quella di Prendi soldi e scappa (Take the Money and Run, 1969) di Woody Allen; o, più semplicemente, sputar fuori una bandierina con sopra scritto «Bang!», come accade ad Alfred Hitchcock in una delle sue più celebri presentazioni televisive. Un oggetto deve assolvere alla mera funzione per la quale è stato creato (pistola/ sparo), ma nessuno ha mai detto che non possa avere altri impieghi. Nel cinema noir, come nel thriller o nella spy story, capita che gli oggetti facciano quello che devono fare, ma si dà anche il caso che essi siano spesso usati in modo creativamente diversificato (1). Ecco a seguire, più che un catalogo o un inventario, una brevissima scelta di tali oggetti e dell’uso che ne è stato fatto.
La danza delle ore Partiamo dall’oggetto più ingombrante, un mulino a vento. Hitchcock, come ben si sa, aveva l’abitudine di utilizzare ambientazioni caratteristiche in chiave drammatica (ricordiamo la fabbrica svizzera di cioccolato, in realtà covo di spie, in Amore e mistero, The Secret Agent, 1935). In Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent, 1941) va un po’ oltre. Trovandosi a mandare i suoi protagonisti in Olanda, Patria dei tulipani, e non potendo usare questi ultimi perché il film è in bianco e nero (gli sarebbe piaciuto, giocando sul contrasto cromatico, far vedere una goccia di sangue macchiare il candore di un petalo alla fine di un delitto perpetrato in un campo di tali fiori), il regista utilizza i mulini a vento, altro elemento tipico del Paese, non solo modificandone la destinazione d’uso (da mulino a covo di spie), ma invertendone letteralmente il funzionamento: l’intrepido giornalista (Joel McCrea) scopre, notando che le pale dell’edificio girano al contrario di quelle di tutti gli altri mulini dei dintorni, e quindi controvento, che è per forza lì che i malvagi devono avere il loro nascondiglio. La cosa, volendo, anticipa lo stesso principio di inversione che sarà alla base della trovata di imprigionare Melanie Daniels (Tippi Hedren) nella cabina telefonica/gabbia e circondarla di uccelli, laddove di solito capita che siano i pennuti a star dentro e gli esseri umani fuori (Gli uccelli, The Birds, 1963). Le torri campanarie non sono meno significative. Il professor Rankin/Franz Kindler (Orson Welles), nazista in fuga riciclatosi come professore in un piccolo college del New England, coltiva adesso come durante la guerra la passione dell’orologeria. È questa passione a 94
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mettere sulle sue tracce il funzionario che gli dà la caccia (Edward G. Robinson), ed è questa passione che determinerà la sua fine. Rifugiatosi sulla torre di cui sta restaurando l’orologio (e che all’interno sembra più alta e sinistra che all’esterno), finisce infilzato dalla spada della figura del carillon che rappresenta, guarda caso, la Giustizia. Se, come dice newtonianamente l’Hugo Cabret scorsesiano, il mondo è un gigantesco orologio dove tutte le persone sono ingranaggi unici e indispensabili, sembrerebbe anche vero che tale meccanismo sa all’occorrenza aggiustarsi da sé, eliminando i pezzi che ne mettono a repentaglio il corretto funzionamento.
Un gioiello è per sempre Un diamante, dice la pubblicità, è per sempre. Anche lo smeraldo non è male. Secondo Teofrasto (e successivamente Plinio il Vecchio), la preziosa pietra verde avrebbe fra le altre cose la proprietà, se guardata intensamente, di giovare alla vista. Non è per niente fuori luogo, quindi, che Charlie/nipote (Teresa Wright), una ragazza sveglia e dallo spirito di osservazione assai acuto, riceva in regalo da Charlie/zio (Joseph Cotten) un anello con un bell’esemplare della gemma (L’ombra del dubbio, Shadow of a Doubt, 1943, di Alfred Hitchcock). Sulle prime, la ragazza fa la ritrosa, e vorrebbe declinare il regalo: le basta, dice, la presenza in casa del parente, il cui arrivo è stato da lei stessa invocato al fine di scuotere il torpore provinciale della troppo tranquilla famiglia Newton. E allo zio converrebbe non insistere, perché la ragazza, che di certo non ha bisogno del potere taumaturgico dello smeraldo per vederci bene, non tarda a scoprire che il monile è “di seconda mano”, e che le iniziali all’interno dell’anello corrispondono a quelle della vittima di un serial killer a cui tutto il Paese sta dando la caccia. A differenza dell’ingenua cameriera (che dice: «Darei dieci anni di vita per un anello come questo!»), Charlie/nipote capisce che l’oggetto parla, e che ha molte cose da dire. Perché i gioielli hanno un ben preciso significato: sono strumenti di suggestioni, sottintesi, se non addirittura motori di avviamento per l’azione narrativa. Nella letteratura e nel cinema, poliziesco e noir in particolare, sono ricorrenti e incisivi. Le loro contenute dimensioni, inversamente proporzionali al loro valore, li rendono veicoli di capitale piuttosto comodi da trasportare, ma altrettanto impegnativi da inseguire. Facilmente occultabili nelle cuciture dei vestiti, o nel doppio fondo del bagaglio, costituiscono un eccellente macguffin, come la collana contesa nel misconosciuto, spassoso e sperimentale Number Seventeen (Numero diciassette, 1932) di Hitchcock (anche se la trovata più geniale, in fatto di valori compressi in poco spazio, è quella dei francobolli di Sciarada, Charade, 1963 di Stanley Donen). In L’ombra del dubbio i gioielli raccontano di chi li ha indossati nel passato, e mettono in guardia dai pericoli del presente. Altrove trasmettono ossessioni (la collana di Carlotta Valdés in La donna che visse due volte, Vertigo, 1958), ma sanno anche essere vendicativi: in Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston diversi personaggi si possono dannare inseguendo un falchetto d’oro tempestato di pietre preziose, ma sarà la scultura stessa, “trasformata” in piombo (in un processo uguale e contrario a quello alchemico della pietra filosofale) ad avere l’ultima parola, guardando beffardamente le loro tribolazioni e la loro delusione nel finale del film.
I ritratti ci guardano Ugualmente infruttuosa è la caccia di Gregory Anton (Charles Boyer) in Angoscia (Gaslight, 1944) di George Cukor. Eppure le pietre preziose sono lì, sotto il suo naso, tutte le volte che va nottetempo in soffitta a frugare fra le cose della zia di sua moglie (Ingrid Bergman), che sta tentando di far passare per matta per meglio condurre in porto la ricerca. Basterebbe 95
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solo che desse retta a cosa ha da dirgli il ritratto della defunta, relegato anch’esso in soffitta: se l’avesse guardato con attenzione, avrebbe scovato subito l’indicazione che esso contiene sul nascondiglio dei preziosi. Al pari dei gioielli, anche i ritratti parlano. Possono ossessionare i protagonisti con figure fantasmatiche e sfuggenti, come capita al poliziotto (Dana Andrews) innamorato di una morta in Vertigine (Laura, 1944), al collezionista (Eric Portman) fissato con il Rinascimento italiano in Corridor of Mirrors (Il mistero degli specchi, 1948), o alla donna (Kim Novak) apparentemente “posseduta” dallo spirito di un’antenata in La donna che visse due volte. Possono fungere da “biglietto da visita” che precede l’apparizione di un personaggio, anticipandone i tratti del carattere, come in Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir, 1947), dove il ritratto del Capitano (Rex Harrison), visto di sguincio attraverso una porta socchiusa dalla signora Muir (Gene Tierney), ha uno sguardo alla “come te movi te fulmino” paragonabile a quello del velazqueño papa Innocenzo X di Palazzo Doria Pamphilii a Roma. Possono anche continuare ironicamente a dire la loro, sia in vita che in morte, del soggetto che rappresentano, come 96
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il ritratto del generale McLaidlaw (Cedrick Hardwicke) che, in Il sospetto (Suspicion, 1941), reagisce con stizza alla richiesta della mano della figlia, cadendo dal chiodo che lo regge, e poi, dopo la lettura del testamento, guarda arcignamente e sornionamente il genero (Cary Grant) che si è trovato con molta meno eredità di quanta sperasse.
Rimedi contro l’insonnia È dello stesso film un altro oggetto giustamente passato alla storia: il bicchiere di latte. Il sospetto, come il romanzo da cui è tratto (Before the Fact, di Francis Iles, maestro dell’inverted detective story) (2) narra di una moglie (Joan Fontaine) che, un po’ per volta, matura la convinzione che il marito la voglia uccidere. Verso il finale, il premuroso maritino una sera le porta a letto un bicchiere di latte caldo. Qui romanzo e film divergono: nel primo, la moglie innamorata e stanca si lascia uccidere bevendo il latte, che sa essere avvelenato; nel secondo non lo beve e, il giorno dopo, ha un drammatico confronto con il marito dal quale viene a sapere che lui è un bugiardo e un giocatore, ma non un assassino. Eppure, Hitchcock ha avuto la machiavellica pensata di presentarci il bicchiere, portato da Cary Grant su per le scale, in maniera alquanto ambigua (nella penombra, grazie a una lampadina nascosta nel bicchiere stesso, il suo biancore è innaturalmente e sinistramente sottolineato). Moglie e marito, alla fine, se ne vanno via insieme in macchina, riconciliati. Ma nessuno ci dice se il bicchiere era buono o se, invece, era davvero avvelenato (lei di certo non lo saprà mai: non l’ha bevuto). E comunque, per come l’ha mostrato Hitchcock, ha lasciato un segno nella mente dello spettatore. Permane dunque il dubbio: il marito è davvero un simpatico, innamorato filibustiere e nulla più? O è un assassino in disarmo, ormai incapace di combinare alcunché? Oppure, stavolta gli è andata buca ma non è detto che non ci riprovi? (3) Il fascino e gli occhioni di Joan Fontaine ci fanno sperare e preferire la prima delle tre ipotesi. Ma è meglio non abbassare mai la guardia: la protagonista di un film di uno dei migliori discepoli del Maestro inglese (Isabelle Huppert in Grazie per la cioccolata, Merci pour le chocolat, 2000, di Claude Chabrol) difendeva il suo attaccamento alla famiglia correggendo la cioccolata con dosi da cavallo di Roipnol. A volte a un gesto di premura e di affetto, come offrire un bicchiere di latte caldo o una tazza di cioccolata, è meglio rispondere con un po’ di sana diffidenza.
(1) Detto en passant, per la vita di tutti i giorni sconsigliamo vivamente di servirvi di un coltellino svizzero come taglierina per il cartone: non è l’attrezzo più adatto, e usato in tale maniera è alquanto pericoloso. (2) L’inverted detective story è quel sottogenere del romanzo poliziesco che, ribaltando lo schema del whodunit (“chi l’ha fatto?” – il pane di Sherlock Holmes e Hercule Poirot), ci presenta fin dall’inizio l’atto criminale nei suoi dettagli e chi l’ha commesso (o sta per commetterlo), per poi concentrarsi sulle finezze del duello tra assassino e detective (come negli episodi della serie Colombo), o descrivere i patimenti morali del colpevole. Volendo, il padre nobile potrebbe essere considerato Delitto e castigo di Dostoevskij, ma il primo romanzo ufficiale di questo sottogenere è considerato The Singing Bone (1912) di R. Austin Freeman; altri eccellenti esemplari sono Il delitto è un affare serio (Malice Aforethought, 1931) dello stesso Iles (che Hitchcock avrebbe voluto trasporre sullo schermo, con Alec Guinness protagonista), Il volo delle 12:30 da Croydon (The 12:30 from Croydon) di Freeman Wills Croft e La belva deve morire (The Beast Must Die, 1938) di Nicholas Blake, donde il film di Claude Chabrol Ucciderò un uomo (Que la bête meure, 1969). A parte quello di Freeman, sono tutti pubblicati da Polillo; ne consigliamo caldamente la lettura. (3) L’ombra di questi tre dubbi è suggerita da Gian Piero Brega in Film sadici e film sadiani, in Vittorio Spinazzola (a cura di), Film 63, Feltrinelli, Milano 1963, riportato da Mauro Marchesini, L’età del sospetto, in Francis Iles, Il sospetto, I Classici del Giallo n. 355, Mondadori, Milano 1980). 97
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Busby Berkeley
They Made Me a Criminal USA, 1939, 92’, bn
Regia Busby Berkeley Sceneggiatura Sid Herzig Soggetto basato sul romanzo The Life of Jimmy Nolan di Bertram Millhauser e Beulah Marie Dix Fotografia James Wong Howe Montaggio Jack Killifer Scenografia Anton Grot Costumi Milo Anderson Musica Max Steiner Suono Oliver S. Garretson Interpreti John Garfield (Johnnie Bradfield), Claude Rains (il detective Monty Phelan), Ann Sheridan (Goldie West), May Robson (nonna Rafferty), Gloria Dickson (Peggy), Billy Halop (Tommy), The Dead End Kids (la gang di Tommy) Produttore Benjamin Grazer, Hal B. Wallis Produzione Warner Bros. Pictures Filmografia essenziale Take Me Out to the Ball Game (Facciamo il tifo insieme, 1952) The Gang’s All There (Banana Split, 1943) Ziegfeld Girls (Le fanciulle delle follie, 1941) Babes on Broadway (I ragazzi di Broadway, 1941) Strike Up the Band (Musica indiavolata, 1940) They Made Me a Criminal (Hanno fatto di me un criminale, 1939) Babes in Arms (Ragazzi attori, 1939) Gold Diggers of 1935 (Donne di lusso 1935, 1935) Bright Lights (I re della risata, 1935) She Had to Say Yes (Doveva dire sì, 1933)
Hanno fatto di me un criminale Johnnie Bradfield, un campione mondiale di boxe accusato ingiustamente di omicidio, si è dato alla macchia, e c’è chi lo dà per morto. Monty Phelan, un detective della polizia di New York, non ne è convinto, e continua la sua ricerca. In effetti, Johnnie si è rifugiato nella fattoria di nonna Rafferty, in Arizona. Qui, ha fatto amicizia con una banda di teppistelli, si è interessato della loro sorte e ora, per dar loro un lavoro sicuro, cerca di aiutarli a raccogliere i soldi necessari all’acquisto di una pompa di benzina. Per questo, decide di risalire sul ring, adottando un altro nome. Quando Phelan arriva nei paraggi… Un film piuttosto inaspettato, questo, da parte di un regista che ci ha abituato a un tipo completamente diverso di storie. Busby Berkeley, noto per i suoi musical, qui ci dà un dramma noir rigorosissimo, molto curato come atmosfera, con un côté sociale come usa talvolta presso la Warner. I Dead End Kids riescono a rubare la scena – impresa non da poco – allo stesso John Garfield. (Orville J. Norman, «The Kenosha Weekly», 4 febbraio 1939)
Provate a ripetere ad alta voce il titolo dell’ultimo film di Busby Berkeley («Hanno fatto di me un criminale!»): potreste divertirvi a sentire la voce di John Garfield lanciare un’accusa precisa all’indirizzo dei fratelli Warner. Questa è, in effetti, una loro prerogativa: lo hanno fatto con Paul Muni in Scarface, lo stanno facendo adesso con James Cagney e Edward G. Robinson, e pure con grande profitto. Ora hanno John Garfield da trasformare in criminale; il quale Garfield, essendo giovane, tenace e con un talento illimitato, ha ricavato il meglio da questa situazione. (- -, «The New York Times», 21 gennaio 1939)
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Alfred Hitchcock
Foreign Correspondent USA, 1940, 120’, bn
Il prigioniero di Amsterdam/Corrispondente 17 1939. Il direttore del «New York Globe», preoccupato per la crisi in Europa, incarica un giovane e intraprendente giornalista di cronaca, Johnny Jones, di recarsi a Londra a vedere la situazione. Lì, Jones conosce Stephen Fisher, presidente del Partito pacifista universale, e viene invitato a un party in onore del diplomatico olandese Van Meer. Quest’ultimo scompare misteriosamente. Jones si trasferisce ad Amsterdam, dove Van Meer è atteso per una conferenza. Il diplomatico, in effetti, vi si presenta, ma viene assassinato da un finto fotoreporter. Jones, con l’aiuto di Carol, la figlia di Fisher, e di Scott ffolliot, un giornalista inglese, comincia a indagare. [spoiler] La macchina hollywoodiana dà un aiuto prezioso a Hitchcock. Per esempio, in Inghilterra non avrebbe potuto realizzare con lo stesso brio la scena dell’attentato, dove vediamo l’assassino farsi largo in una marea di ombrelli e bombette. […] Fisher, poi, il filantropo impostore, è un personaggio tipicamente hitchcockiano: fa da tramite fra il professor Jordan di The Thirty-Nine Steps e lo zio Charlie di Shadow of a Doubt. Del primo, condivide la maschera rispettabile e inquietante (la falange mancante è sostituita qui dalla claudicazione). Del protagonista di Shadow of a Doubt, invece, l’eleganza e la cattiva coscienza. È lui il personaggio che Hitchcock ha disegnato con più cura: Fisher incarna l’idea di identificazione delle forze del Male – nel senso demonologico del termine – con il nazismo. Questo tema, come abbiamo già detto, sarà ripreso più avanti, mentre qui viene affrontato ancora con prudenza. (Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Marsilio, Venezia 1986)
Regia Alfred Hitchcock Sceneggiatura Charles Bennett, Joan Harrison, James Hilton, Robert Benchley, Ben Hecht [non accr.] Fotografia Rudolph Maté Montaggio Dorothy Spencer Scenografia Alexander Golitzen Costumi I. Magnin & Co. Musica Alfred Newman Suono Frank Maher Interpreti Joel McCrea (Johnny Jones), Laraine Day (Carol Fisher), Herbert Marshall (Stephen Fisher), George Sanders (Scott ffolliott), Albert Basserman (Van Meer), Edmund Gwenn (Rowley), Eduardo Cianelli (Krug), Alfred Hitchcock (il passante con il giornale) Produttore Walter Wanger Produzione Walter Wanger Productions
Filmografia essenziale [1] Family Plot (Complotto di famiglia, 1976) Frenzy (id., 1972) Marnie (id., 1964) The Birds (Gli uccelli, 1963) Psycho (Psyco, 1960) North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955) Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) Strangers on a Train (Delitto per delitto, 1951)
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Thorold Dickinson
Gaslight Gran Bretagna, 1940, 84’, bn
Regia Thorold Dickinson Sceneggiatura A.R. Rawlinson, Bridget Boland Soggetto basato sulla commedia Angel Street di Patrick Hamilton Fotografia Bernard Knowles Montaggio Sidney Cole Scenografia Duncan Sutherland Musica Max Stiner Suono A.J. Brunker Interpreti Anton Walbrook (Paul Mallen), Diana Wynyard (Bella Mallen), Frank Pettingell (B.G. Rough), Cathleen Cordell (Nancy), Robert Newton (Vincent Ullswater), Minnie Rayner (Elizabeth), Jimmy Hanley (Cobb) Produttore John Corfield, Richard Vernon Produzione British National Films
Luce a gas [t.l.] Inghilterra, fine Ottocento. Alice Barlow è stata assassinata da uno sconosciuto, che dopo il delitto ha messo sottosopra la casa alla ricerca, senza risultato, di alcuni rubini. La residenza rimane disabitata per parecchi anni, finché una coppia fresca di nozze, Paul e Bella Mallen, vi si trasferiscono. Non passa molto che Bella comincia a notare fatti strani: oggetti che spariscono, rumori misteriosi, la luce a gas che va e che viene. Paul considera questi fatti come frutto di una follia incipiente della consorte e la sottopone a tortura psicologica. Intanto B.G. Rough, un ex funzionario di polizia che a suo tempo si era occupato del caso Barlow, torna sul luogo del delitto. La versione inglese di Gaslight è più fedele alla commedia teatrale originaria, il thriller di successo Angel Street, almeno per quanto riguarda i personaggi e l’azione. Vi aggiunge uno sguardo amorevolmente dettagliato sullo stile di vita dell’epoca vittoriana. L’accento, come tanti altri film britannici dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, è sempre sui piccoli tocchi che rendono i personaggi e le loro azioni così specificatamente britannici, […] prestando alle sottili gradazioni della scala sociale una finissima attenzione, degna di Galsworthy o di Bennett. Chiaramente, gli accenti collocano ogni personaggio nella propria classe: alcuni, come il marito malvagio e la sottomessa moglie vittoriana, sono percettibilmente della buona società; altri, come la cameriera sfacciata e il vecchio ispettore burbero, altrettanto percettibilmente non lo sono. (William E. Stephenson, The Two Versions of “Gaslight”, «Film Heritage» n. 4, estate 1973)
Filmografia essenziale Hill 24 Doesn’t Answer (Collina 24 non risponde, 1955) Secret People (Gente segreta, 1952) The Queen of Spades (La donna di picche, 1949) Gaslight (Luce a gas, 1949) The Next of Kin (I parenti prossimi, 1942) The Prime Minister (Il Primo Ministro, 1941) The Arsenal Stadium Mystery (Il mistero dell’arsenale, 1939) The High Command (Alto Comando, 1938) The First Mrs. Fraser (Le sorprese del divorzio, 1932) School for Scandal (La scuola dello scandalo, 1930)
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L’ombra del dubbio
Alfred Hitchcock
Suspicion USA, 1941, 99’, bn
Il sospetto Johnnie Aysgarth è un affascinante, irresponsabile rampollo che ha dilapidato la sua fortuna fra corse ippiche e bella vita. Un giorno, incontra su un treno Lina McLaidlaw e, intuendo l’agiatezza economica della sua famiglia, comincia a farle una corte serrata. Tanto insiste che la conquista. Per superare l’opposizione dei genitori di lei, i due fuggono e si sposano di nascosto. Solo alla fine della luna di miele, Lina scopre la reale situazione finanziaria di Johnnie. Il quale, tra l’altro, non ha perso i suoi antichi, dispendiosi vizi. A questo punto, Lina può davvero fidarsi di suo marito? Mi sembra che il film abbia un valore psicologico più grande del romanzo, perché i caratteri sono più sfumati. Nel caso di Il sospetto si può dire che le diverse censure e leggi di Hollywood hanno purificato un intreccio poliziesco “dedrammatizzandolo”, l’esatto contrario di quello che capita abitualmente con gli adattamenti. (François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1977)
Non mi piace la fine del film, ne avevo pensata un’altra, diversa dal romanzo: Cary Grant porta il bicchiere di latte avvelenato, Joan Fontaine è intenta a scrivere una lettera a sua madre – «Cara mamma, sono irrimediabilmente innamorata di lui. Sta per uccidermi e preferisco morire. Ma penso che la società dovrebbe essere protetta contro di lui». Poi dice a Cary Grant: «Caro, per favore, vuoi spedire questa lettera alla mamma per me?». Beve il latte e muore. Dissolvenza, apertura, breve scena: Cary Grant arriva fischiettando, apre la buca delle lettere e butta dentro la lettera. (Alfred Hitchcock in François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1977)
Regia Alfred Hitchcock Sceneggiatura Samson Raphaelson, Joan Harrison, Alma Reville Soggetto basato sul romanzo Before the Fact di Francis Iles [Anthony Berkeley Cox] Fotografia Harry Stradling sr. Montaggio William Hamilton Scenografia Van Nest Polglase, Darrell Silvera Costumi Edward Stevenson Musica Franz Waxman Suono John E. Tribby Interpreti Cary Grant (Johnnie Aysgarth), Joan Fontaine (Lina McLaidlaw), Nigel Bruce (Gordon Cochrane “Beaky” Thwaite), Cedric Hardwicke (il generale McLaidlaw), May Whitty (la signora McLaidlaw), Heather Angel (Ethel), Leo G. Carroll (il capitano Melbeck), Alfred Hitchcock (l’uomo che imbuca la lettera) Produttore Harry E. Edington Produzione RKO Radio Pictures
Filmografia essenziale [2] Stagefright (Paura in palcoscenico, 1950) Under Capricorn (Sotto il Capricorno/ Il peccato di lady Considine, 1949) Notorious (Notorius, l’amante perduta, 1946) Spellbound (Io ti salverò, 1945) Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944) Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943) Saboteur (Sabotatori, 1942) Suspicion (Il sospetto, 1941) Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam/Corrispondente 17, 1940)
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L’ombra del dubbio
Alfred Hitchcock
Shadow of a Doubt USA, 1943, 108’, bn
Regia Alfred Hitchcock Sceneggiatura Thornton Wilder, Sally Benson, Alma Reville Soggetto Gordon McDonell Fotografia Joseph A. Valentine Montaggio Milton Carruth Scenografia John B. Goodman Costumi Vera West, Adrian Musica Dimitri Tiomkin Suono Bernard B. Brown Interpreti Teresa Wright (Charlie Newton), Joseph Cotten (lo zio Charlie), Macdonald Carey (Jack Graham), Henry Travers (Joseph Newton), Patricia Collinge (Emma Newton), Hume Cronyn (Herbie Hawkins), Edna May Wonacott (Ann Newton), Alfred Hitchcock (l’uomo sul treno che gioca a carte) Produttore Jack H. Skirball Produzione Universal Pictures
L’ombra del dubbio A Philadelphia, un uomo fugge da una camera ammobiliata, tallonato da due agenti. Intanto, a Santa Rosa, la giovane Charlie Newton si macera nella noia della vita di provincia. Un evento inatteso mette scompiglio e allegria in casa Newton: zio Charlie, l’amato fratello della madre della ragazza, sta arrivando a trovarli. L’uomo si presenta carico di regali e, con il suo savoir faire, in breve tempo, conquista tutti, la ragazza per prima. Quello che i Newton non sanno, è che il caro zio Charlie è lo stesso uomo fuggito da Philadelphia. [spoiler] Non ricordo più se, nel film, l’idea di fischiare alcune battute della Vedova allegra sia venuta allo zio Charlie o alla ragazza; ecco ancora una volta un caso di telepatia fra lei e lo zio Charlie. […] Si tratta di un assassino idealista. È uno di quegli assassini che sentono dentro di sé un impulso alla distruzione. Forse le vedove meritavano quello che è poi capitato loro, ma non spettava a lui farlo. C’è un giudizio morale nel film: non è forse Cotten alla fine ucciso, sia pure accidentalmente, dalla nipote? Questo significa che i cattivi non sono tutti neri e i buoni tutti bianchi. Dappertutto si possono trovare i grigi. Lo zio Charlie amava molto la nipote, tuttavia mai quanto lei. Eppure lei è stata costretta a distruggerlo; non dimentichiamo che Oscar Wilde ha detto: «Si uccide ciò che si ama». […] Tutta l’ironia della situazione sta nell’amore profondo che ha la ragazza per lo zio Charlie. L’idea è che la ragazza continuerà a essere innamorata dello zio Charlie per tutta la vita. (Alfred Hitchcock in François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1977)
Filmografia essenziale [3] The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938) Young and Innocent (Giovane e innocente, 1937) Sabotage (Sabotaggio, 1936) The Secret Agent (Amore e mistero/ L’agente segreto, 1936) The 39 Steps (Il club dei 39, 1935) The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, 1934) Number Seventeen (Numero diciassette, 1932) Rich and Strange (Ricco e strano, 1931)
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L’ombra del dubbio
Jacques Tourneur
The Leopard Man USA, 1943, 66’, bn
L’uomo leopardo L’impresario Jerry Manning, per fare pubblicità allo spettacolo della sua ragazza nonché cantante di night club Kiki, si procura un leopardo. Il felino, durante il primo spettacolo, si spaventa e fugge. Vengono subito allertate le autorità, che avviano le ricerche. Ma del leopardo, nessuna traccia. Poco tempo dopo, una ragazza viene uccisa, apparentemente per l’aggressione del leopardo. Ma il coplpevole sarà davvero il felino? In Il bacio della pantera, e poi in Ho camminato con uno zombie e L’uomo leopardo, Tourneur crea un universo ambiguo fatto di atmosfere rarefatte e misteriose, nel quale l’oscurità ingloba forme e corpi dando vita alla creazione di nuove sagome, di fantasmi inquietanti e significanti pronti a materializzarsi in microcosmi non del tutto conosciuti. Lo sguardo di Tourneur rende oggettiva la sua soggettività indagante, scruta, forza la comprensione nonostante la relatività del campo visivo: l’indeterminatezza s’impossessa dell’immagine, accompagnando, contemporaneamente, la visione di personaggi introdotti in situazioni che non conoscono e l’identificazione di uno spettatore condotto in un mondo sconosciuto da cui, conseguentemente, si sente minacciato, per una strutturazione della tensione che si fa impalpabile, incerta, incapace di agganciarsi strutturalmente a elementi definibili. (Giampiero Frasca, Maieutica dell’inquietudine, «Cineforum» n. 510, dicembre 2011)
Regia Jacques Tourneur Sceneggiatura Ardel Wray, Edward Dein Soggetto basato sul romanzo L’alibi nero di Cornell Woolrich Fotografia Robert De Grasse Montaggio Mark Robson Scenografia Albert S. D’Agostino, Walter E. Keller Musica Roy Webb Suono John C. Grubb, Terry Kellum, James G. Stewart Interpreti Dennis O’Keefe (Jerry Manning), Margo (Clo-Clo), Jean Brooks (Kiki Walker), Isabel Jewlee (Maria), James Bell (il dottor Galbraith), Margaret Landry (Teresa Delgado), Abner Biberman (Charlie How-Come) Produttore Val Lewton Produzione RKO Radio Pictures
Filmografia essenziale Night of the Demon (La notte del demonio, 1957) Nightfall (L’alibi sotto la neve, 1957) Way of a Gaucho (Il grande gaucho, 1952) Easy Living (Il gigante di New York, 1949) Out of the Past (Le catene della colpa, 1947) Days of Glory (Tamara, la figlia della steppa, 1944) Experiment Perilous (Schiava del male, 1944) The Leopard Man (L’uomo leopardo, 1943) I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno zombie, 1943) Cat People (Il bacio della pantera, 1942)
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L’ombra del dubbio
Lewis Allen
The Uninvited USA, 1944, 99’, bn
Regia Lewis Allen Sceneggiatura Dodie Smith, Frank Partos Soggetto basato sul romanzo Uneasy Freehold di Dorothy Macardle Fotografia Charles Lang Montaggio Doane Harrison Scenografia Hans Dreier, Ernst Fegté Costumi Edith Head Musica Victor Young Suono John Cope, Hugo Grenzbach Interpreti Ray Milland (Roderick Fitzgerald), Ruth Hussey (Pamela Fitzgerald), Donald Crisp (il comandante Beech), Cornelia Otis Skinner (la signorina Holloway), Dorothy Stickney (la signorina Bird), Barbara Everest (Lizzie Flynn), Produttore Charles Brackett, Buddy G. DeSylva Produzione Paramount Pictures
La casa sulla scogliera Quando i fratelli Roderick e Pamela Fitzgerald comprarono una graziosa villetta in riva al mare, avrebbero dovuto insospettirsi della fretta che aveva di disfarsene il proprietario, il capitano Beech. Il quale ne aveva ben donde: la villa sembra essere abitata da presenze inquietanti, che si palesano con gemiti notturni, luci misteriose, brividi di freddo e profumi usciti da chissà dove. Le ragioni di questi fenomeni, come scopriranno i Fitzgerald, affondano le loro radici in tragici avvenimenti del passato. Se siete di quelli che hanno paura del buio, procedete a vostro rischio. Perché questa storia di due giovanotti che comprano casa in un luogo in riva al mare, solo per poi scoprire che un paio di banshee vi hanno fissato la loro residenza, raggiunge perfettamente il suo scopo: ci sono tutti i fondamentali del genere, come candele tremolanti, porte che si aprono lentamente, movimenti soprannaturali e un misterioso profumo di mimosa. (Bosley Crowther, «The New York Times», 21 febbraio 1944)
«Potrete non credere ai fantasmi, ma non potete negare la presenza del terrore!», diceva lo slogan del terrificante The Haunting di Robert Wise, storia di una casa infestata da spiriti violentemente aggressivi. […] Un’altra casa, molto più benignamente infestata, è quella non meno ricca di atmosfera di The Uninvited, film dai toni molto delicati, nel quale la paura ondeggia all’interno degli ambienti e nella gentilezza dei personaggi. (Martin Scorsese, 11 Scaries Horror Movies of All Time, www.thedailybeast.com)
Filmografia essenziale Suddenly (Gangster in agguato, 1954) Appointment with Danger (Il cerchio di fuoco, 1951) Valentino (Rodolfo Valentino, 1951) Sealed Verdict (Il verdetto, 1948) So Evil My Love (Amarti è la mia dannazione, 1948) Desert Fury (Furia nel deserto, 1947) The Imperfect Lady (La donna di quella notte, 1947) Those Endearing Young Charms (Scintille tra due cuori, 1945) The Unseen (Il fantasma, 1945) The Uninvited (La casa sulla scogliera, 1944)
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L’ombra del dubbio
George Cukor
Gaslight USA, 1944, 114’, bn
Angoscia Londra, fine Ottocento. Una celebre cantante lirica è stata assassinata in casa sua. La nipote Paula, che ha scoperto il cadavere, viene inviata in Italia a studiare musica affinché possa riprendersi dal trauma. Lì conosce il pianista Gregory Anton, se ne innamora, lo sposa e con lui se ne torna a Londra. La casa viene rimodernata, e la coppia vi si stabilisce. Paula e Gregory iniziano così, felicemente, una nuova vita. Ma non passa molto che la donna comincia a notare fatti strani: oggetti che spariscono, rumori misteriosi, la luce a gas che va e che viene. Per Gregory sono sintomi di un esaurimento nervoso, e adotta con lei un atteggiamento iperprotettivo. Nel frattempo Brian Cameron, un ispettore di Scotland Yard… La grande casa è oscura, chiusa sul suo segreto. L’interno è suddiviso in tre piani: al piano di sotto ci sono l’ingresso e la residenza della governante, cioè del mondo (senza trasparenza) del quotidiano; al piano di mezzo c’è il soggiorno, dove vive la moglie inquieta; al piano di sopra ci sono ambienti vuoti, dove regna il mistero: la donna è sospesa fra le due dimensioni, che creano in lei una condizione schizofrenica. Starebbe per smarrirsi se non ci fosse, rassicurante, l’abbraccio del marito, sempre pronto a consolare la moglie spaventata e, infine, sospettosa. L’alternanza fra la paura di perdere la ragione e le profferte d’amore e di protezione del marito provoca quello che è il senso vero di tutta la storia: il dubbio come misura dell’esistenza, il “doppio” (l’“altro” da sé o dagli altri) come presenza con cui fare i conti, l’equivoco come pedale del comportamento. E l’ambiguità del rapporto come cemento della coppia. (Ermanno Comuzio, George Cukor, La Nuova Italia, Firenze 1978)
Regia George Cukor Sceneggiatura John Van Druten, Walter Reisch, John L. Balderston Soggetto basato sulla commedia Angel Street di Patrick Hamilton Fotografia Joseph Ruttenberg Montaggio Ralph E. Winters Scenografia Cedric Gibbons Costumi Irene Musica Bronislau Kaper Suono Douglas Shearer, Joe Edmondson Interpreti Ingrid Bergman (Paula Alquist), Charles Boyer (Gregory Anton), Joseph Cotten (Brian Cameron), May Whitty (la signorina Thwaites), Angela Lansbury (Nancy), Barbara Everest (Elizabeth), Produttore Arthur Hornblow jr. Produzione Loew’s Incorporated, Metro-Goldwyn-Mayer
Filmografia essenziale Rich and Famous (Ricche e famose, 1981) Love Among the Ruins (Amore fra le rovine, 1975) My Fair Lady (id., 1964) Selvaggio è il vento (Wild Is the Wind, 1957) A Star Is Born (È nata una stella, 1954) Born Yesterday (Nata ieri, 1950) Gaslight (Angoscia, 1944) The Philadelphia Story (Scandalo a Filadelfia, 1940) Holiday (Incantesimo, 1938) Dinner at Eight (Pranzo alle otto, 1933)
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L’ombra del dubbio
Michael Curtiz
Mildred Pierce USA, 1945, 111’, bn
Regia Michael Curtiz Sceneggiatura Ranald MacDougall, William Faulkner [non accr.], Albert Maltz [non accr.] Soggetto basato sul romanzo omonimo di James M. Cain Fotografia Ernest Haller Montaggio David Weisbart Scenografia Anton Grot Costumi Milo Anderson Musica Max Steiner Suono Oliver S. Garretson Interpreti Joan Crawford (Mildred Pierce), Jack Carson (Wally Fay), Zachary Scott (Monte Beragon), Eve Arden (Ida Corwin), Ann Blyth (Veda Pierce), Jo Ann Marlowe (Kay Pierce), Produttore Jerry Wald, Jack L. Warner Produzione Warner Bros. Pictures
Il romanzo di Mildred Monte Beragon è stato ucciso. Mildred Pierce, moglie della vittima, per scagionare il suo primo marito racconta la storia della sua vita. Dopo la separazione, la donna, per mantenere le figlie Veda e Kay, ha trovato lavoro come cameriera, per poi aprire un ristorante assieme a un’amica. Il locale, che riscuote un buon successo, si trova in un edificio di proprietà di Monte. I due si conoscono e prendono a frequentarsi. Ma le cose cominciano ad andare storte: Kay muore di polmonite, e Mildred riversa tutto il suo affetto su Veda, rendendola capricciosa e viziata. Inoltre, Monte manifesta dell’interesse per la ragazza. È l’inizio di una serie didrammatici eventi. A una prima lettura, il romanzo di James M. Cain non lasciava supporre di contenere del buon materiale cinematografico, ma il lavoro di riduzione si è dimostrato di classe, attraverso la sicura produzione di Jerry Wald e la suggestiva direzione di Michael Curtiz. E la sceneggiatura di Ranald MacDougall riesce a mantenere uno svolgimento molto maturo, pur con le dovute concessioni ai fautori della matita blu. (- -, «Variety», 31 dicembre 1944)
I sentimenti e gli atteggiamenti dei personaggi, gli uni di fronte agli altri, sono guidati dalla volontà di uscire dalla propria condizione: l’attrazione di Mildred per Monte è legata a quella per la classe dominante; l’odio di Veda per la madre al desiderio di lasciare il ceto rappresentato dalla madre; Monte, infine, manipola madre e figlia per denaro e per salvare il suo blasone. Ma il successo sociale va di pari passo con il fallimento personale, l’inasprimento del carattere e la frustrazione. (Christian Viviani, Anthologie du Cinéma: Curtiz, «L’Avant-Scène Cinéma» n. 136, maggio 1973)
Filmografia essenziale We’re No Angels (Non siamo angeli, 1954) White Christmas (Bianco Natale, 1954) Jim Thorpe – All-American (Pelle di rame, 1951) Bright Leaf (Le foglie d’oro, 1950) Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, 1945) Casablanca (id., 1942) Virginia City (Carovana d’eroi, 1940) The Private Life of Elizabeth and Essex (Il conte di Essex, 1939) Mystery of the Wax Museum (La maschera di cera, 1933) 20,000 Years in Sing Sing (20.000 anni a Sing Sing, 1932)
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L’ombra del dubbio
Otto Preminger
Fallen Angel USA, 1945, 98’, bn
Un angelo è caduto Ultimamente, a Eric Stanton non ne va una giusta. Perso il lavoro a New York, si mette in viaggio in autobus per San Francisco; ma rimane a corto di soldi, e deve scendere in una sperduta cittadina. Per rimediare un alloggio, e mettere insieme il pranzo con la cena, si aggrega al professor Madley, chiaroveggente che sta tentando di irretire le sorelle June e Clara Mills, titolari di un buon patrimonio ricevuto in eredità. Stanton riesce a farsi sposare da June, ma è innamorato di Stella, una cameriera che arrotonda lo stipendio allungando le mani sulla cassa del ristorante presso cui lavora. Date tali premesse, le cose non possono che complicarsi. Ciò che colpisce in questo noir – a partire dal soggetto, dall’intreccio di relazioni mal definite e instabili tra personaggi mal definiti e instabili – è proprio lo sbandamento, l’assenza di uno sfondo morale, il disagio. Più che la ricerca di libertà di cui parla Godard, emerge quel tentativo di presa di coscienza di sé che da Eric Stanton si trasmetterà direttamente a Mark Dixon in Sui marciapiedi, ma che riguarda, a un livello meno esplicito, molti altri personaggi premingeriani. (Giulia Carluccio, Linda Cena, Otto Preminger, La Nuova Italia, Firenze 1990)
L’ambiguità dei personaggi (il colpevole non è per niente quello che ci si aspetta) e la doppiezza dei due ruoli femminili gettano una luce crepuscolare e minacciosa su questa cronaca di provincia nella quale il poliziotto Mark Judd interroga i sospetti battendo il suo bastone sul radiatore dell’appartamento, come segno di un nervosismo e di un odio sempre meno contenuti.
Regia Otto Preminger Sceneggiatura Harry Kleiner Soggetto basato sul romanzo omonimo di Marty Holland Fotografia Joseph La Shelle Montaggio Harry Reynolds Scenografia Leland Fuller, Lyle R. Wheeler Costumi Bonnie Cashin Musica David Raksin Suono Bernard Freericks, Harry M. Leonard Interpreti Dana Andrews (Eric Stanton), Linda Darnell (Stella), Charles Bickford (Mark Judd), Alice Faye (June Mills), Anne Revere (Clara Mills), Bruce Cabot (Dave Atkins), John Carradine (il professor Madley) Produttore Otto Preminger Produzione 20th Century Fox
(Patrick Brion, Le film noir, Éditions Nathan, Parigi 1991) Filmografia essenziale Bunny Lake Is Missing (Bunny Lake è scomparsa, 1965) Advise & Consent (Tempesta su Washington, 1962) Anatomy of a Murder (Anatomia di un omicidio, 1958) Bonjour tristesse (Buongiorno tristezza!, 1958) The Man with the Golden Arm (L’uomo dal braccio d’oro, 1955) Carmen Jones (id., 1954) Angel Face (Seduzione mortale, 1952) Whirlpool (Il segreto di una donna, 1949) Fallen Angel (Un angelo è caduto, 1945) Laura (Vertigine, 1944)
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L’ombra del dubbio
Vincente Minnelli
Undercurrent USA, 1946, 116’, bn
Regia Vincente Minnelli Sceneggiatura Edward Chodorov, George Oppenheimer [non accr.], Marguerite Roberts [non accr.] Soggetto Thelma Strabel Fotografia Karl Freund Montaggio Ferris Webster Scenografia Randall Duell, Cedric Gibbons Costumi Irene Musica Herbert Stothart Suono Douglas Shearer Interpreti Katharine Hepburn (Ann Hamilton), Robert Taylor (Alan Garroway), Robert Mitchum (Michael Garroway), Edmund Gwenn (il professor “Dink” Hamilton), Marjorie Main (Lucy), Produttore Pandro S. Berman Produzione Metro-Goldwyn-Mayer
Tragico segreto Ann Hamilton conosce Alan Garroway, un celebre inventore, se ne innamora e lo sposa. La coppia si stabilisce a Washington, ma Ann mal sopporta l’ambiente un po’ troppo snob. Quindi, i Garroway si trasferiscono in un posto un po’ più tranquillo, in Virginia. Solo allora Ann scopre dell’esistenza di Michael, fratello di Alan. Ma non è tutto: i fratelli Garroway paiono avere un po’ di cose in comune da nascondere… [spoiler] Il film gioca continuamente sulla dualità fra Alan e Michael, come se i due formassero le due facce complementari di un unico personaggio: Alan il volto malefico, Michael quello positivo. E non solo. Ann è sempre più attratta dal cognato che lei crede morto. Come Joan Fontaine in Il sospetto, la donna si persuade, poco a poco e senza prove, della colpevolezza del marito, idealizzando un Michael che non conosce veramente e dalla cui personalità rimane sempre più soggiogata. […] Il quale Michael, quello autentico, sorge poco a poco dall’ombra, sovrapponendosi all’immagine creata da Ann. La figura di Giano, del resto, evidente in film come Il pirata, I quattro cavalieri dell’Apocalisse e L’amica delle cinque e mezzo, figura fra le ossessioni ricorrenti nell’opera minnelliana, e Ann si ritrova divisa fra i due fratelli, quello che ha sposato e che crede un assassino e il cognato che crede morto. (Patrick Brion, Dominique Rabourdin, Thierry De Navacelle, Minnelli, 5 ContinentsHatier, Renens 1985)
Filmografia essenziale Some Came Running (Qualcuno verrà, 1958) Gigi (id., 1958) Designing Woman (La donna del destino, 1957) Brigadoon (id., 1954) The Band Wagon (Spettacolo di varietà, 1953) The Bad and the Beautiful (Il brutto e la bella, 1052) An American in Paris (Un americano a Parigi, 1951) The Pirate (Il pirata, 1948) Undercurrent (Tragico segreto, 1946) Meet Me in St. Louis (Incontriamoci a Saint Louis, 1944) Vanity’s Price (Il prezzo della vanità, 1924)
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L’ombra del dubbio
Roy William Neill
Black Angel USA, 1946, 81’, bn
L’angelo nero Il marito di Catherine è in galera, accusato di aver ucciso una cantante. La donna è convinta della sua innocenza, per cui chiede a Martin, un pianista alcolizzato che è anche vedovo dell’uccisa, di darle una mano. Il caso sembra impossibile da risolvere, e l’unico indizio, in principio, è una spilla appartenuta alla morta. I due non si scoraggiano; le loro indagini, però, finiscono con il pestare i piedi al capitano Flood, un coriaceo poliziotto fermamente convinto della versione ufficiale, e a Marko, un ambiguo proprietario di night club. Tratto da un romanzo di Cornell Woolrich, Black Angel potrebbe scontentare gli estimatori dello scrittore per come rinuncia alla coinvolgente soggettività a lui cara, scegliendo invece le collaudate coordinate di un thriller sul tipo di La donna fantasma. Ma sarebbe uno sbaglio archiviarlo come un lavoro di routine, non foss’altro che per l’abilità con la quale regista e sceneggiatore rendono lo svolgersi dell’indagine simile più al frutto di una logica legata al caso e al sogno, che a un mero processo deduttivo. (Archie S. Devereaux, Getting to Know Mr. Woolrich, «The Ontario Guardian», 14 settembre 1997)
L’angelo nero è ricco di immaginazione e con una sceneggiatura ingegnosa. Dan Duryea, attore molto interessante ma associato troppo spesso ai ruoli di traditori o di prosseneti da lui peraltro tratteggiati così bene, recita qui, per una volta, nei panni di un personaggio romantico e commovente. Questo utilizzo inconsueto di Duryea dà tutta la forza al film. (Alain Silver, Elizabeth Ward, Encyclopedie du film noir, Rivages, Parigi-Marsiglia, 1987)
Regia Roy William Neill Sceneggiatura Roy Chanslor Soggetto basato sul romanzo omonimo di Cornell Woolrich Fotografia Paul Ivano Montaggio Saul A. Goodkind Scenografia Martin Obzina, Jack Otterson Costumi Vera West Musica Frank Skinner Suono Bernard B. Brown Interpreti Dan Duryea (Martin Blair), June Vincent (Catherine Bennett), Peter Lorre (Marko), Broderick Crawford (il capitano Flood), Constance Dowling (Mavis Marlowe), Wallace Ford (Joe), Hobart Cavanaugh (Jake) Produttore Tom McKnight, Roy William Neill Produzione Universal Pictures Filmografia essenziale Black Angel (L’angelo nero, 1946) Dressed to Kill (Il mistero del carillon, 1946) Terror by Night (Terrore nella notte, 1946) The House of Fear (La casa del terrore, 1945) The Scarlett Claw (L’artiglio scarlatto, 1944) The Pearl of Death (La perla della morte, 1944) Sherlock Holmes and the Secret Weapon (L’arma segreta, 1943) Frankenstein Meets the Wolf Man (Frankenstein contro l’uomo lupo, 1943) The Black Room (Il mistero della camera nera, 1935) Vanity’s Price (Il prezzo della vanità, 1924)
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L’ombra del dubbio
Orson Welles
The Stranger USA, 1946, 115’, bn
Regia Orson Welles Sceneggiatura Anthony Veiller, John Huston [non accr.], Orson Welles [non accr.] Soggetto Victor Trivas, Decla Dunning Fotografia Russell Metty Montaggio Ernest J. Nims Scenografia Perry Ferguson Costumi Michael Woulfe Musica Bonislau Kaper Suono Arthur Jones, Corson Jowett Interpreti Edward G. Robinson (il signor Wilson), Orson Welles (il professor Charles Rankin), Loretta Young (Mary Longstreet), Philip Merivale (il giudice Adam Longstreet), Richard Long (Noah Longstreet), Konstantin Shayne (Konrad Meinike), Produttore S.P. Eagle [Sam Spiegel] Produzione International Pictures
Lo straniero Il signor Wilson è un investigatore incaricato da una commissione delle Nazioni Unite di rintracciare e arrestare i criminali nazisti in fuga. Sulle tracce di Franz Kindler – del quale non si sa nulla, neanche che faccia abbia, solo che ha l’hobby dell’orologeria –, Wilson giunge alla cittadina universitaria di Harper, nel Connecticut. Qui ha modo di conoscere Charles Rankin, un brillante e stimato professore di storia che sta per sposarsi con Mary Longstreet, figlia di un giudice della Corte suprema. Identificare e stanare il nazista non è facile, ma Wilson è un osso duro. A partire da un intreccio alla Eric Ambler o alla Graham Greene, Welles e gli sceneggiatori Anthony Veiller e John Huston fanno crescere un po’ per volta l’irrazionale e il perturbante all’interno di una serena cittadina. Diversamente dallo stile abituale di Welles, l’immaginario di Lo straniero non è né complesso né barocco. I personaggi sono, al contrario, degli esseri mediocri, impantanati nelle loro sibilline illusioni. (Alain Silver, Elizabeth Ward, Encyclopedie du film noir, Rivages, Parigi-Marsiglia, 1987)
«Mentre cercavano nei boschi, io li guardavo da qui, come Dio guarda delle formiche», dice Charles Rankin/Franz Kindler in una scena tagliata di Lo straniero. Queste parole, metafora di megalomania e fascismo, sono un tema ricorrente nei film di o con Orson Welles. Le troviamo sulla bocca di Charles Foter Kane (Quarto potere), del colonnello Haki (Terrore sul Mar Nero), di Grisby (La signora di Shanghai), di Cagliostro (Cagliostro) e, più memorabile di tutti, di Harry Lime (Il terzo uomo). (- -, The Stranger, www.espions.com)
Filmografia essenziale F for Fake/Vérités et mensonges (F come falso, 1972) Chimes at Midnight/Campanadas a medianoche (Falstaff, 1965) Le procès (Il processo, 1962) Touch of Evil (L’infernale Quinlan, 1958) Mr. Arkadin (Rapporto confidenziale, 1955) Othello (Otello, 1952) Macbeth (id., 1948) The Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, 1947) The Stranger (Lo straniero, 1946) The Magnificent Ambersons (L’orgoglio degli Amberson, 1942) Citizen Kane (Quarto potere, 1941)
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L’ombra del dubbio
Delmer Daves
The Red House USA, 1947, 100’, bn
La casa rossa L’agricoltore Pete Morgan e sua sorella Ellen hanno allevato l’orfana Meg come se fosse una figlia. Ora che è cresciuta, la ragazza convince il suo amico Nath a venire a dare una mano nei lavori della fattoria. Quando Nath allude al fatto di voler usare una scorciatoia che passa attraverso un bosco vicino, Pete lo mette in guardia, avvisandolo di urla misteriose, maledizioni incombenti e fatti orrendi legati a una casa rossa che vi si trova in mezzo. Quanto basta perché a Meg e Nath venga una voglia matta di esplorare il luogo. Un oggetto bizzarro, un capolavoro misconosciuto, un film comunque da riscoprire, La casa rossa è un noir a dir poco atipico. Prima di tutto per l’ambientazione: alle insidie che la città riserva agli eroi in odore di dannazione dei noir coevi, qui si sostituisce uno sfondo agreste, che però nulla ha a che spartire con gli spazi ampi e carichi di ottimismo del western. In questi luoghi spira piuttosto un’aria da fiaba freudiana, perfettamente assecondata dall’inquietante coppia di fratelli formata da Edward G. Robinson (padrone, come sempre, di tutte le sfumature del personaggio) e Judith Anderson (che ricorderete nei panni della sconcertante signora Danvers di Rebecca di Hitchcock). Ma è Allene Roberts la vera sorpresa: nei panni della figlia adottiva, sa reggere benissimo il gioco imposto da un’atmosfera di inquietudine e mistero. La casa rossa è un film estremamente perturbante, non a caso molto amato da Martin Scorsese. (Fred T. O’Halloran, «Bay City Herald», 14 febbraio 2005)
Regia Delmer Daves Sceneggiatura Delmer Daves, Albert Maltz [non accr.] Soggetto basato sul romanzo omonimo di George Agnew Chamberlain Fotografia Russell Metty Montaggio Bert Glennon Scenografia Perry Ferguson Costumi Frank Beetson jr. Musica Miklós Rósza Suono Frank McWhorter Interpreti Edward G. Robinson (Pete Morgan), Judith Anderson (Ellen Morgan), Allene Roberts (Meg), Lon McCallister (Nath Storm), Rory Calhoun (Teller), Julie London (Tibby), Ona Musnon (la signora Storm) Produttore Sol Lesser Produzione Thalia Productions
Filmografia essenziale The Hanging Tree (L’albero degli impiccati, 1959) A Summer Place (Scandalo al sole, 1959) Cowboy (id., 1958) 3:10 to Yuma (Quel treno per Yuma, 1957) Jubal (Vento di terre lontane, 1956) Broken Arrow (L’amante indiana, 1950) The Red House (La casa rossa, 1947) Dark Passage (La fuga, 1947) Pride of the Marines (C’è sempre un domani, 1945) Destination Tokyo (Destinazione Tokyo, 1943)
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L’ombra del dubbio
Douglas Sirk
Sleep, My Love USA, 1948, 97’, bn
Regia Douglas Sirk Sceneggiatura St. Clair McKelway, Leo Rosten, Decla Dunning [non accr.], Cy Enfield [non accr.] Soggetto basato sul romanzo omonimo di Leo Rosten Fotografia Joseph A. Valentine Montaggio Lynn Harrison Scenografia William Ferrari Costumi Sophie, Margaret Jennings Musica Rudy Schrager Suono William M. Randall jr. Interpreti Claudette Colbert (Alison Courtland), Robert Cummings (Bruce Elcott), Don Ameche (Richard W. Courtland), Rita Johnson (Barby), George Couloris (Charles Vernay), Queenie Smith (Grace Vernay), Produttore Ralph Cohn, Charles “Buddy” Rogers, Mary Pickford [non accr.] Produzione Triangle Productions
Donne e veleni Di come ci è finita sul treno per Boston, l’agiata newyorkese Alison Courtland non ne ha la minima idea; né ricorda di aver minacciato il marito Richard con una pistola prima di andarsene, come le viene riferito dallo stesso. Per questo, Richard la convince a sottoporsi a una serie di sedute psichiatriche. Bruce Elcott, un passeggero che Alison ha conosciuto sul volo al ritorno, e che ha preso una cotta per lei, non è convinto della pazzia della donna, e comincia a indagare. Alla dark lady perfida e attiva, Sirk preferisce quella “passiva”, oggetto di complotti e di cinici disegni. Quest’ottica è rafforzata dall’esistenza di un polo femminile diverso, rappresentato dalla torbida Daphne. Sono personaggi che già consentono a Sirk di muoversi con disinvoltura nell’ambito familiare. Donne e veleni ha in comune con Lo sparviero di Londra l’assenza del destino, che diventerà una componente fondamentale dell’ideologia sirkiana: sono gli individui che devono risolvere il caso o sfuggire alla congiura. (Alberto Castellano, Douglas Sirk, La Nuova Italia, Firenze 1987)
Sirk, utilizzando il leitmotif delle persiane che si aprono e si chiudono, trasforma la residenza dei Courtland in una sorta di trappola, anticipando le metafore architettoniche che si troveranno nei suoi successivi Desiderio di donna, Secondo amore e Come le foglie al vento. Allo stesso tempo, questo leitmotif costituisce una variante di uno dei temi che ossessionano Sirk, la visione e la cecità (ricordiamo che persiana, in inglese, si dice “blind”). (Jean-Loup Bourget, Douglas Sirk, Edilig, Parigi 1984)
Filmografia essenziale Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1959) The Tarnished Angels (Il trapezio della vita, 1957) Written on Wind (Come le foglie al vento, 1956) All That Heaven Allows (Secondo amore, 1955) Magnificent Obsession (La magnifica ossessione, 1954) All I Desire (Desiderio di donna, 1953) Sleep, My Love (Donne e veleni, 1948) Lured (Lo sparviero di Londra, 1947) La Habanera (Habanera, 1937)
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L’ombra del dubbio
Terence Young
Corridor of Mirrors Gran Bretagna, 1948, 105’, bn
Il mistero degli specchi Paul Mangin, un eccentrico collezionista inglese che nutre per il Rinascimento italiano una passione che sconfina con l’ossessione, acquista a Venezia un ritratto di signora cinquecentesco. Tale è l’influenza del dipinto su di lui, che si mette in testa di aver amato in una vita precedente la donna ritratta nel dipinto. Arriva al punto di arredare la sua casa di Londra secondo i gusti del Cinquecento veneziano, e trova pure una fanciulla che regge il gioco abbigliandosi con vestiti d’epoca. Un giorno, l’uomo viene accusato di omicidio… Eric Portman, pochi anni dopo aver interpretato l’Uomo della colla di A Canterbury Tale, è un ipnotizzatore ossessivo, che passa gran parte del suo tempo abbigliato come un Borgia: una presenza carismatica, più che un mostro. […] Surriscaldato da repentini cambi di trama, con suggestivi (per il 1948) tocchi di psicoanalisi e recitato con trattenuta passione da Edana Romney, Corridor of Mirrors è un film difficile da valutare: abbraccia senza riserve il suo lato grottesco, guadagnando in potenza dal suo stesso essere morboso. […] Il titolo del film evoca un’immagine di Quarto potere, ed è riferito a un ambiente della casa di Mangin, con un corridoio di ante (di un armadio a specchio) che ospitano dietro di loro sconcertanti statue di cera dall’aspetto cadaverico rappresentanti le donne dei Borgia. Cosa che dà alla storia un vago aspetto alla Barbablu quando l’eroina le apre una ad una. (Kim Newman, Vertigo-inducing: Corridor of Mirrors, www.bfi.org.uk)
Regia Terence Young Sceneggiatura Rudolph Carter, Edana Romney Soggetto basato sul romanzo omonimo di Christopher Massie Fotografia André Thomas Montaggio Douglas Myers Scenografia Terence Verity Costumi Owen Hyde-Clark Musica Georges Auric Suono J.S. Davie Interpreti Eric Portman (Paul Mangin), Edana Romney (Mifanwy Conway), Barbara Mullen (Veronica), Hugh Sinclair (Owen Rhys), Bruce Belfrange (sir David Conway), Alan Wheatley (Edgar Orsen), Joan Maude (Caroline Hart) Produttore Rudolph Cartier Produzione Apollo Filmografia essenziale The Valachi Papers (Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra, 1972) Mayerling (id., 1968) Wait Until Dark (Gli occhi della notte, 1967) The Amorous Adventures of Moll Flanders (Le avventure e gli amori di Moll Flanders, 1965) Thunderball (Agente 007, operazione tuono, 1965) From Russia with Love (Agente 007, dalla Russia con amore, 1963) Dr. No (Agente 007, licenza di uccidere, 1962) Storm Over Nile (Tempesta sul Nilo, 1955) The Red Beret (Berretti rossi, 1953) Corridor of Mirrors (Il mistero degli specchi, 1948)
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L’ombra del dubbio
Anthony Asquith
The Woman in Question Gran Bretagna, 1950, 88’, bn
Regia Anthony Asquith Sceneggiatura John Cresswell, Joseph Janni Soggetto John Cresswell Fotografia Desmond Dickinson Montaggio John D. Guthridge Scenografia Carmen Dillon Costumi Yvonne Caffin Musica John Woolridge Suono Kenneth Heeley-Ray Interpreti Jean Kent (Agnes Huston/Madame Astra), Dirk Bogarde (R.W. “Bob” Baker), John McCallum (Michael Murray), Susan Shaw (Catherine Taylor), Charles Victor (Albert Pollard), Hermione Baddeley (la signora Finch), Joe Linnane (l’ispettore Butler), Produttore Teddy Baird Produzione Javelin Films, Vic Films Productions, J. Arthur Rank Organisation
Donna nel fango Agnes Huston si guadagna da vivere, con il nome d’arte di Madame Astra, come chiromante in un luna park. Un giorno viene trovata uccisa. La polizia interroga alcune delle persone a lei più vicine: la sorella Catherine, il fidanzato Bob, il marinaio Murray, il negoziante Pollard. Da ciascuna delle loro versioni emerge una personalità diversa della donna. Qual’è la vera Agnes? E i pezzi di questo mosaico aiuteranno la polizia a far luce sul caso? Lo stesso anno di Rashomon di Akira Kurosawa, ecco arrivare un film che segue un’idea molto simile. The Woman in Question è basato principalmente su due domande: chi è davvero Agnes/Madame Astra? Una brava ragazza o una vamp? E cos’è che ha spinto il suo assassino? Domande che vengono poste attraverso un duplice tour de force, quello di Asquith, che sa giocare da maestro su di un’ambientazione estremamente suggestiva (una Brighton dalle tinte noir), e soprattutto di Jean Kent, che scompone il suo personaggio in diversi angoli di visione – dolcemente mielosa quando fa la brava ragazza, vampireggiante quando fa il suo contrario – per poi ricostruirlo sotto i nostri occhi come un puzzle ambiguo. Hermione Baddeley ruba elegantemente la scena, mentre il giovane Dirk Bogarde – già visto quest’anno in I giovani uccidono e Tragica incertezza – ci dà la netta impressione che di lui ne sentiremo ancora parlare. (Phineas H. Bates, «The Grantham Express», 10 ottobre 1950)
Filmografia essenziale The Yellow Rolls-Royce (Una Rolls-Royce gialla, 1964) Libel (Il diavolo nello specchio, 1959) The Doctor’s Dilemma (Il dilemma del dottore, 1958) The Young Lovers (Giovani amanti, 1954) The Importance of Being Earnest (L’importanza di chiamarsi Ernesto, 1952) The Browning Version (Addio Mr. Harris, 1951) The Woman in Question (Donna nel fango, 1950) The Winslow Boy (Tutto mi accusa, 1948) Fanny by Gaslight (Il mio amore vivrà, 1945) Pygmalion (Pigmalione, 1938)
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L’ombra del dubbio
Antony Darnborough, Terence Fisher
So Long at the Fair Gran Bretagna, 1950, 86’, bn
Tragica incertezza I fratelli Vicky e Johnny Barton, giunti a Parigi dall’Inghilterra per assistere all’Esposizione universale del 1889, scendono in un albergo dove vengono loro assegnate le camere 17 e 19. L’indomani, di Johnny non c’è più traccia. Non solo: la camera 19, quella di Johnny, sembra non essere mai esistita. All’esterrefatta Vicky, i dipendenti dell’albergo rispondono che la notte precedente è arrivata da sola. Neppure la polizia cittadina e l’ambasciata britannica sembrano credere alla sue parole. Solo il pittore George Hathaway è disposto a starla a sentire. I due si mettono a indagare. La spiegazione semplice non modifica la scansione ossessiva e l’accumulo di particolari inquietanti che preludono al posteriore romanticismo orrifico di Fisher. Come sottolinea David Pirie, «So Long at the Fair avrebbe potuto benissimo essere rigirato, sequenza per sequenza, come un film di vampiri senza che questo portasse alcuna differenza nei suoi meccanismi di base, perché ogni inquadratura è pervasa dalla stessa struttura dualistica». È un film in qualche maniera “congelato”, sospeso tra due mondi che non sono limitrofi solo a causa dell’ossessione perbenista del cinema inglese, un film che nasconde il noir sotto le spoglie del melodramma in costume, ma elegge il sadomasochismo astratto, tipico dell’horror, a proprio registro dominante. Non ci sono passioni calde in So Long at the Fair, ma una gelida discesa nell’incubo, che sembra attendere solo l’apparizione del mostro per trasformarsi in un teorema dell’immaginario britannico. (Emanuela Martini, Storia del cinema inglese. 1930-1990, Marsilio, Venezia 1991)
Regia Antony Darnborough, Terence Fisher Sceneggiatura Hugh Mills, Anthony Thorne Soggetto basato su una leggenda metropolitana della seconda metà dell’Ottocento Fotografia Reginald H. Wyer Montaggio Gordon Hales Scenografia Cedric Dawe, George Provis Costumi Elizabeth Haffenden Musica Benjamin Frankel Suono Gerry Anderson Interpreti Jean Simmons (Vicky Barton), Dirk Bogarde (George Hathaway), David Thomlison (Johnny Barton), Marcel Poncin (Narcisse), Cathleen Nesbitt (madame Hervé), Honor Blackman (Rhoda O’Donovan), Produttore Betty E. Box, Sydney Cox, Vivian Cox Produzione Gainsborough Pictures Filmografia Antony Darnborough So Long at the Fair (Tragica incertezza, 1950) The Astonished Heart (Lo spirito, la carne, il cuore, 1950) Filmografia essenziale Terence Fisher Frankenstein and the Monster from Hell (Frankenstein e il mostro dell’inferno, 1974) Phantom of the Opera (Il fantasma dell’opera, 1962) The Curse of the Werewolf (L’implacabile condanna, 1961) The Hound of Baskerville (La furia dei Baskervilles, 1959)
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L’ombra del dubbio
Rudolph Maté
D.O.A. USA, 1950, 83’, bn
Regia Rudolph Mathé Sceneggiatura, Soggetto Russell Rouse, Clarence Greene Fotografia Ernest Laszlo Montaggio Arthur H. Nadel Scenografia Duncan Cramer Costumi Maria P. Donovan Musica Dimitri Tiomkin Suono Mac Dalgleish, Ben Winkler Interpreti Edmond O’Brien (Frank Bigelow), Pamela Britton (Paula Gibson), Luther Adler (Majak), Beverly Garland (la signorina Foster), Lynn Baggett (la signora Philips), William Ching (Halliday), Henry Hart (Stanley Philips) Produttore Leo C. Popkin Produzione Cardinal Pictures
Due ore ancora Il notaio Frank Bigelow si trova a San Francisco in viaggio d’affari. Dopo una serata passata con alcuni clienti in un bar, accusa dei malori. Si fa visitare da un medico, il quale scopre che l’uomo è stato avvelenato con una sostanza tossica contro la quale non esiste antidoto. Gli restano ancora due giorni di vita, quanto basta per passare in rassegna fatti vissuti e persone incontrare nelle ultime ore, allo scopo di consegnare, prima di morire, il suo assassino alla polizia. Inizia così una corsa contro il tempo, e una lotta contro reticenze e testimonianze sfuggevoli. In una delle scene d’apertura più tese della storia del cinema, il protagonista Frank Bigelow irrompe in una stazione di polizia per denunciare un omicidio: il suo. Deliziosamente oscuro, D.O.A. è uno dei più riusciti, innovativi e convulsi capolavori del genere noir. Ci sono tutti gli elementi del genere: l’uomo qualunque la cui debolezza morale procura solo guai e sciagure; femmes fatales ambigue e minacciose; un lavoro di fotografia suggestivamente espressionistico (il direttore della fotografia è Ernest Laszlo, al cui merito è da ascrivere fra gli altri Un bacio e una pistola). In un’atmosfera efficacemente nichilista, Maté (già lui stesso finissimo direttore della fotografia per altri registi: Il prigioniero di Amsterdam e Gilda) dirige con sicurezza e stile, gettando il sottovalutato Edmond O’Brien in una corsa alla verità concitata e (letteralmente) fino all’ultimo respiro. (David Wood, Film Reviews: D.O.A., 1950, www.bbc.co.uk)
Filmografia essenziale Il dominatore dei sette mari (1962) For the First Time (Come prima, 1959) Deep Six (Acque profonde, 1958) Miracle in the Rain (Incontro sotto la pioggia, 1956) The Black Shield of Falworth (Lo scudo dei Falworth, 1954) Second Chance (Duello sulla Sierra Madre, 1953) When Worlds Collide (Quando i mondi si scontrano, 1951) D.O.A. (Due ore ancora, 1950) Union Station (L’ultima preda, 1950) It Had to Be You (L’uomo dei miei sogni, 1947)
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L’ombra del dubbio
Nicholas Ray
In a Lonely Place USA, 1950, 94’, bn
Il diritto di uccidere Dixon Steele è uno sceneggiatore, un tempo assai apprezzato, che adesso sta passando un brutto periodo. La ragione principale è il suo carattere: creativo e brillante, ma estremamente impulsivo, Dixon a volte viene preso da violenti scatti d’ira. Accusato dell’omicidio di una guardarobiera, nel corso delle indagini ha modo di conoscere Laurel, una vicina di casa che testimonia in suo favore. I due iniziano a frequentarsi, e tutto, all’inizio, sembra andare bene. Ma il caratteraccio di Dixon non tarda a manifestarsi, e la donna finisce con il chiedersi con chi ha veramente a che fare. Le circostanze all’origine di In a Lonely Place sono le stesse di quelle di Knock on Any Door, eppure questo film, tanto misterioso quanto l’altro è esplicito, ne è l’opposto. Non si ferma alla descrizione della violenza, ma fa un ritratto di Hollywood che rimane tra i più belli sia al cinema che in letteratura; non entra mai all’interno di un set ma, attraverso la descrizione di uno sceneggiatore in declino, messo sulla lista nera dai produttori per il suo alcolismo e la propensione alla rissa, si avvicina di più ad autori come Nathanael West e Francis Scott Fitzgerald che a film come A Star Is Born. (Bernard Eisenschitz, Roman américain. Les vies de Nicholas Ray, Christian Bougois Éditeur, Parigi 1990)
«Sono nato quando mi hai baciato. Sono morto quando mi hai lasciato. Ho vissuto le poche settimane in cui mi hai amato». (Dixon Steele/Humphrey Bogart in In a Lonely Place)
Regia Nicholas Ray Sceneggiatura Andrew Solt, Edmund H. North Soggetto basato sul romanzo omonimo di Dorothy B. Hughes Fotografia Burnett Guffey Montaggio Viola Lawrence Scenografia Robert Peterson Costumi Jean Louis Musica George Antheil Suono Howard Fogetti Interpreti Humphrey Bogart (Dixon Steele), Gloria Grahame (Laurel Gray), Frank Lovejoy (il sergente Brub Nicolai), Carl Benton Reid (il capitano Lochner), Art Smith (l’agente Mel Lippman), Jeff Donnell (Sylvia Nicolai), Martha Stewart (Mildred Atkinson) Produttore Robert Lord, Henry S. Kesler Produzione Santana Pictures, Columbia Pictures
Filmografia essenziale Lightning Over Water (Lampi sull’acqua/Nick’s Movie, 1980) 55 Days in Peking (55 giorni a Pechino, 1963) Party Girl (Il dominatore di Chicago, 1958) Bigger Than Life (Dietro lo specchio, 1956) Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, 1955) Johnny Guitar (id., 1954) On Dangerous Ground (Neve rossa, 1952) The Lusty Man (Il temerario, 1952) In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950) Knock on Any Door (I bassifondi di San Francisco, 1949)
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Crime. Attento: sei seguito L’ombradalle del dubbio ombre
L’ombra lunga del noir Quando si ha una grande paura, la morte, la peste, bisogna conoscerla. I noir possono servire anche a questo. (Fred Vargas)
Il noir, codificato in un apparato di temi, luoghi, personaggi, situazioni, inquadrature e iconografie, è propriamente identificato con un particolare cinema americano degli anni Quaranta, che ne ha definito, forse più della letteratura, le caratteristiche salienti. Ma di sicuro non è stato e non è soltanto quello: in un’accezione più ampia è uno stile visivo, espressivo e narrativo che si fonda su un certo tipo di ambientazione, toni, atmosfere e si presta ad essere re-interpretato, rivisto, declinato in forme e linguaggi diversi. Il noir, con i suoi innumerevoli sottogeneri, è arrivato sino ai giorni nostri nella malinconia del blues come nelle atmosfere metropolitane del jazz, nei film di De Palma e dei fratelli Coen, nella letteratura americana di Ellroy e Lansdale, o in quella italiana di Carlotto e Lucarelli; nelle serie televisive (come Braquo di Olivier Marchal o Quo Vadis Baby? diretta da Guido Chiesa e ispirata all’omonimo film di Salvatores), nei videogiochi (L.A. Noir, Mafia Wars, Mafia II), o, ancora, nella bicromia dei fumetti e del graphic novel, concretizzatasi spesso nell’incontro tra scrittori e disegnatori, autori e narratori, che procedono in sintonia e in sincronia nell’elaborazione delle storie. Due esempi, tra i più recenti: I quattro fiumi di Fred Vargas, Baudoin (Einaudi, 2010) e Dimmi che non vuoi morire di Massimo Carlotto, Igort, (Mondadori, 2007 – Coconino Press, 2011). Testimonianza della vitalità del noir sono oggi i film, le fortune editoriali e le trasposizioni cinematografiche di scrittori come quelli sopra citati, e forse non esiste cultura che non abbia i suoi cultori ed estimatori del genere. Intorno ad esso nascono archivi, rassegne, festival, movimenti e scuole di pensiero (solo in Italia, ad esempio, Milanonera, la Scuola dei Duri di Milano, il Gruppo 13 di Bologna). Lasciandosi contaminare (o arricchire) da altri generi (gangster, spy story, giallo, melodramma, thriller, poliziesco, gotico, dark, punk) ma portando con sé il fascino del lato oscuro, del colore nero, e la capacità di leggere tra le pieghe malate della società, il noir è sopravvissuto a sé stesso e a una codificazione rigida che avrebbe potuto farlo sparire, una volta esaurito il contesto che l’aveva dato alla luce. Con la forza della sua modernità, continua a rinnovarsi, allungando le sue ombre dentro nuove e innumerevoli storie.
Igort «Mi piace: il suono dei geta nelle strade di Tokyo, la musica di Fats alla mattina presto, leggere Cechov quando viaggio, parlare con una bella donna e innamorarmi della sua intelligenza, i quadri di Redon esposti al buio, nei piani alti del Musée d’Orsay, la birra Sapporo 118
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L’ombraAttento: Crime. del dubbio sei seguito dalle ombre
bevuta nel ‘94 a Sendagi. La luce del pomeriggio nella mia casa di Parigi, il frusciare delle palme a Capitana, il telefono che tace, andare al mare di primavera e scrivere, Buster Keaton, capire come un artista ha disegnato una cosa, leggere le lettere, il white russian, stare seduto, immergermi in altri tempi, altri luoghi. Cucinare qualcosa, stare all’ascolto, immaginare come viveva Hokusai, perdermi, emozionarmi davanti a una bella foto, osservare i palazzi e capire chi li ha abitati.» Igort, nome d’arte di Igor Tuveri, è nato a Cagliari nel 1958. Con un’attività trentennale e opere tradotte in quindici Paesi, è oggi tra i più importanti e noti autori italiani di fumetti. Negli anni Ottanta, a Bologna, ha partecipato al rinnovamento del fumetto italiano insieme ad artisti come Daniele Brolli, Lorenzo Mattotti, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori e altri, del gruppo Valvoline, rivista sperimentale orientata verso la ricerca, la contaminazione dei linguaggi e la rottura con i codici del fumetto tradizionale. In seguito ha avviato altre riviste come Dolce vita, Fuego, Due e Black e ha collaborato con le più importanti testate italiane e straniere: Alter, Linus, Echo des Savanes, Frigidaire, 119
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Crime. Attento: sei seguito L’ombradalle del dubbio ombre
Metal Hurlant, Morning, The Face. Le sue opere sono edite in tutta Europa, Asia, Oceania e America. Dagli anni Novanta pubblica in Giappone con Kodansha, Magazine House Tokyo e Hon Hon Do. Per Kodansha, gigante dell’editoria nipponica e principale diffusore di manga, sono usciti la serie Amore, ambientata in Sicilia, e Yuri. Nel 1994 ha esposto i suoi lavori alla Biennale di Venezia. Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti in Italia, in Europa e oltreoceano, ha collaborato con celebri scrittori, sceneggiatori, cineasti e musicisti. Nel 2000, insieme a Carlo Barbieri ha fondato la Coconino Press, casa editrice che ha fatto conoscere in Italia i capolavori internazionali del romanzo a fumetti, della quale è tuttora direttore artistico. Dal 2009 Coconino Press ha stretto una solida alleanza editoriale con la casa di produzione e distribuzione cinematografica Fandango. In ambito musicale, Igort ha collaborato col duo elettronico Yello e con Ryuichi Sakamoto, è membro degli Igort & Lo Ciceros e della band di ispirazione futurista Slava Trudu. Ha lavorato come autore e conduttore radiofonico a Radio Città del Capo e Radio 2 RAI. Scrive sceneggiature cinematografiche. Dai suoi disegni sono nati gadget, oggetti di design e altro merchandising, come l’orologio “Yuri” prodotto da Swatch. Indomito viaggiatore, oggi vive tra Parigi e la Sardegna. Recentemente ha pubblicato Quaderni russi. La guerra dimenticata del Caucaso (Mondadori, 2011), e Quaderni Ucraini (Mondatori, 2010) reportage a fumetti, frutto di due anni trascorsi tra Ucraina, Russia e Siberia. Sito ufficiale: www.igort.com
pubblicazioni That’s all Folks, Granata Press, Bologna, 1993 Il letargo dei sentimenti, Granata Press, Bologna, 1993 Cartoon Aristocracy, Carbone, Palermo 1994 Perfetti e invisibili, Skirà, Milano 1996 Yuri, Kodansha, Tokyo 1996 Brillo: i segreti del bosco antico, De Agostini, Novara 1997 (cd-rom) Sinatra, Coconino Press, Bologna 2000 City Lights, Coconino Press, Bologna 2001 Maccaroni Circus, Cut up, La Spezia 2001 5 è il numero perfetto, Coconino Press, Bologna 2002 Il letargo dei sentimenti, Coconino Press, Bologna 2002 5 Variations, John Belushi, 2002 Brillo Croniche di Fafifurnia, Coconino Press, Bologna 2003 Yuri, Asa Nisi masa, Coconino Press, Bologna 2003 Fats Waller, Coconino Press, Bologna 2004 Baobab 1, Coconino Press, Bologna 2005 Baobab 2, Coconino Press, Bologna 2006 Storyteller, Coconino Press, Bologna 2006 Dimmi che non vuoi morire, Mondadori, Milano 2007 Casinò, Nocturne, 2007 Baobab 3, Coconino Press 2008 La ballata di Hambone 1, Coconino Press, Bologna 2009/2010 Quaderni ucraini, Mondadori (Strade blu), Milano 2010 Parola di Chandler, Coconino Press, Bologna 2011 Alligatore. Dimmi che non vuoi morire, Coconino Press, Bologna 2011 Quaderni russi. La guerra dimenticata del Caucaso, Mondadori, Milano 2011 120
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L’ombraAttento: Crime. del dubbio sei seguito dalle ombre
L’ombra che cammina «La mia storia d’amore con i film noir risale alla notte dei tempi. A quando ero bambino, nei primi anni Sessanta, e trasmettevano una serie di film espressionisti alla tv. Erano opere di Fritz Lang, Robert Wiene, o Robert Siodmak, per esempio. Alcuni di questi film erano muti, e accompagnati da atroci note di pianoforte (sui bassi preferibilmente) altri invece parlati (ma densi di suoni stridenti, e di urla) che mi innervosivano puntualmente. La cosa che ricordo chiaramente è che in comune tutti questi avevano un uso delle atmosfere cupe e delle luci tagliate, che definiva i visi come sculture minacciose. E questo, mi terrorizzava e ammaliava al tempo stesso. Così uscivo dalla stanza di mio padre, al terzo piano di quella casa tanto amata al 71 di via Dante a Cagliari, per spiare da più lontano, dal corridoio se possibile, quel che accadeva sul piccolo schermo. Mi ero illuso, in quel modo, di scampare agli incubi, e mi imponevo di immaginare, una volta a letto, delle lunghe storie solari, ambientate di preferenza al mare, per cancellare quei ricordi. Ma poi mio fratello mi passava i giornaletti di Kriminal o Satanik e niente, tutto il lavoro era vanificato, arrivava il sonno e quando mia madre spegneva la luce era fatta, in sogno quelle forme misteriose riprendevano a minacciarmi. Ero seguito dalle ombre. Crescendo imparai a creare dei cassetti mentali. E ci misi dentro la paura, nella speranza, vana, di imparare a conoscerla. Usavo lo studio, immaginando che comprendere le diverse sfumature del noir mi avrebbe aiutato ad esorcizzarlo. Ma quello, il noir, ha più di sette vite, e si rinnovava, diventava incubo giapponese (attraverso le forme di Hokusai), poi russo (la Baba Yaga!) e poi incubo americano (i fumetti della EC-line, pubblicati nel volume il piacere della paura) e dunque, anche nella penombra del cassetto, qualcosa, io lo sapevo, sempre strisciava. Poco a poco mi resi conto che quelle luci molto calcate, quelle ombre lunghe e avvolgenti, avevano finito per piacermi e si erano depositate in profondità. Dopo anni tornavano perfino nei miei lavori (avevo cominciato a raccontare storie con le immagini nel frattempo). E un bel giorno mi venne idea che forse potevo giocarci, con quei fantasmi. Ma non per fare paura a mia volta. Era un gioco nostalgico, un gioco della memoria, quello che mi intrigava. 5 è il numero perfetto e Sinatra sono nati simultaneamente da una serie di schizzi veloci eseguiti tra Tokyo e Yogyakarta, ai primi anni Novanta. Al principio erano delle situazioni, che emergevano. Un uomo immerso sino alla vita. Una donna sdraiata, avvolta dall’ombra delle persiane. E molte persone armate. Spari, automobili, fughe. Una storia nasce così, immagini delle situazioni, e poi queste si inanellano. In una catena di idee. Un libro. Al principio era un un solo libro, Poi, dopo, ho capito che erano due narrazioni diverse. Le storie sono così, si svelano man mano a chi le fa. Come, in seguito, a chi le legge. Mi piaceva raccontare delle storie un po’ disperate di persone che sono costrette ad avere a che fare con qualcosa di più grande di loro. Sono nati centinaia di disegni, in quei carnet comprati di fretta a Yogyakarta, che poi si sono moltiplicati. E sono diventati altro, serigrafie, stampe, cartoline, graphic novel. Mi portano in giro, le seguo, queste visioni, e loro continuano ad abitarmi. Le ombre parlano, nella notte. E io ho imparato il loro linguaggio». (Igort, Parigi, marzo 2012)
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Crime. Attento: sei seguito L’ombradalle del dubbio ombre
CRIME. Attento: sei seguito dalle ombre
La mostra: Bergamo, Sala alla Porta di S. Agostino, 9 marzo - 2 aprile 2012 In mostra le tavole originali e le serigrafie di Sinatra (Coconino Press, Collana Maschera Nera, Bologna, 2000), racconto a fumetti di un looser italoamericano perduto nella grande metropoli newyorkese, dove i giochi di luci ed ombre, le pause e i silenzi, le atmosfere rarefatte e le ambientazioni noir si materializzano attraverso un uso originale dell’acquerello e della bicromia nera e azzurra. Accanto, le suggestioni e i quadri di Polar (Coconino Press, tiratura limitata e numerata, Bologna, 2004) prezioso portfolio di 8 immagini di ispirazione polar, firmate e serigrafate a colori con pellicole ritoccate a mano dall’artista, e di Suspense (Squadro Edizioni Grafiche, Bologna 1998) libro/opera composto da 10 disegni stampato in serigrafia a sei colori, tirata in 150 esemplari numerati e firmati dall’artista. Il tabloid Un noir formato tabloid, di 32 pagine prodotto da Bergamo Film Meeting, con riproduzione di tavole e disegni originali di Igort, stampato su carta Arcoprint Edizioni da 140 gr, formato 32,5x32,5 cm, rilegato con punti metallici e realizzato in edizione limitata autografata dall’artista. Il manifesto Un noir formato manifesto prodotto da Bergamo Film Meeting, stampato su carta Arcoprint Edizioni da 300 gr, formato 70x100 cm, realizzato in edizione limitata autografata dall’artista. 122
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Midnight Movie
L’ombra del doppio
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Midnight Movie. L’ombra del doppio
“Je est un autre”, ovvero: l’Overlook Hotel e i dadi per il brodo Andrea Frambrosi
Abitiamo tutti all’Overlook Hotel, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore è lui che abita in noi. Nel senso che abbiamo tutti una fotografia sbiadita di un altro noi stessi in qualche tiroirs de la mémoire, un “io” che siamo e non siamo noi: così lontano eppure così vicino. Lo disconosciamo perché ci fa paura: no, quello non sono (stato) io!, eppure vi ci riconosciamo perché in questo “altro” riconosciamo tutto il nostro essere, sappiamo di essere sia lui che noi. Ecco perché ci piacciono e ci inquietano allo stesso tempo i racconti o i film che parlano del doppio: perché tracciano un modello di rappresentazione – come notava l’indimenticato Lodovico Stefanoni a proposito del film di Peter Greenaway, Lo Zoo di Venere (A Zed & Two Noughts, 1986) – che sta tra l’essere e il divenire. «Nel postulato di Rimbaud “Je est un autre” – scrive George Steiner in Vere presenze – al di là della forma volutamente lapidaria e anti-sintattica, l’impatto è chiaro. L’io non è più se stesso. Più precisamente non è più se stesso per se stesso». E più oltre: «La decomposizione di Rimbaud non introduce nel vaso infranto dell’io soltanto l’“altro”, l’anti-persona del dualismo gnostico e manicheo, ma una pluralità senza limiti». Una “pluralità senza limiti!”: sembra il ritratto di Alec Guinness che in Sangue Blu (Kind Heart and Coronets, 1949), interpreta ben otto personaggi (altro che doppio!). «Mi sono fatto asportare chirurgicamente l’“io”», dirà anni dopo un suo geniale successore, Peter Sellers, parlando della sua camaleontica capacità di interpretare più ruoli. Certo, certo, è chiaro che a questo punto bisogna tirare in ballo un certo Sigmund Freud, tanto non corriamo il rischio di quel personaggio di Io e Annie (Annie Hall, 1977) di Woody Allen che, dopo aver concionato per ore sulle teorie di Marshall McLuhan per far colpo su una ragazza, se lo vede comparire davanti in carne e ossa, e si sente apostrofare con un lapidario: «Lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro». Freud, dicevamo. Si deve al celebre medico viennese la definizione di “perturbante”, in originale unheimlich (sinistro, sospetto, ambiguo, infido); il contrario di heimlich (familiare, domestico, intimo). Due termini passpartout, se vogliamo, ma che si applicano bene al nostro discorso sul “doppio”. Prendiamo i due fratelli del film di Greenaway: entrambi etologi hanno perso le rispettive mogli nello stesso incidente stradale (causato da un cigno); si scopre poi che sono gemelli e ancora più in là, gemelli siamesi separati con un’operazione chirurgica: un’escalation degna dell’autore inglese e un combinato disposto di domestico e sinistro, intimo e ambiguo, palese e nascosto: heimlich e unheimlich. Per non dire dei gemelli incestuosi di Sul tuo corpo adorabile sorella (Goodbye Gemini, 1970), di Alan Gibson dove questo dualismo è portato al parossismo proprio dalla morbosità della situazione familiare, in un continuo interscambio tra i rassicuranti interni borghesi e l’orrore delle 124
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azioni che vi si commettono in una Londra già post-swinging e grigia al punto giusto per evocare atmosfere d’antan, in una sorta di Gemütlichkeit dell’orrore. In questo caso e nel precedente citato, i gemelli protagonisti (un ragazzo e una ragazza nel film di Gibson, due fratelli in quello di Greenaway), sono interpretati, ovviamente, da due attori diversi ma i film “di gemelli” hanno dato l’occasione a più di un interprete di “sdoppiarsi” e interpretare da solo, tutti e due i ruoli. Con l’operazione di chirurgia artistico-intellettuale di cui parlava Sellers e un’audacia che prevede un innegabile tour de force recitativo. Ne abbiamo qui due esempi: Chi giace nella mia bara? (Dead Ringer, 1964) di Paul Henreid con Bette Davis nel ruolo delle due sorelle e Le due sorelle (Sisters, 1973) di Brian De Palma. Nel primo, due sorelle gemelle (entrambe interpretate dalla Davis): quella povera uccide quella ricca che le aveva soffiato il fidanzato e si sostituisce a lei; nel secondo, la sopravvissuta di due gemelle siamesi separate con un’operazione durante la quale una delle due era morta, ogni tanto assume la personalità della defunta e si trasforma in una feroce assassina. Al di là dei meriti cinematografici (in De Palma si vede già il genio) i due film valgono esclusivamente per le doppie performance delle interpreti che, appunto, si sdoppiano, creando una vertiginosa sensazione di inquietudine. L’ombra del dubbio, insomma, si trasforma nell’ombra del doppio. E a proposito di ombre, si veda Invisibile Ghost dove è proprio l’ombra (del noir?) di Bela Lugosi (l”ombra” per eccellenza) ad allungarsi, oltre che sui muri, sulle nostre coscienze. Perché è proprio l’ombra, forse, il nostro peggior doppio: “aver paura della propria ombra” è un’espressione efficacissima per esprimere un certo stato d’animo e quale mezzo migliore del cinema (il “regno” delle ombre elettriche per eccellenza), per stimolare questa inquietudine? Il doppio, dunque: perfino la pubblicità se ne era impossessata: una nota marca di dadi da brodo utilizzava addirittura Totò per fargli declamare questi celebri versi: «Se vi resta ancora un dubbio, tanto semplice è provar. La minestra vale il doppio, con il Doppio Brodo Star». Insomma: anche quest’anno il Meeting non lascia, raddoppia! 125
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Joseph H. Lewis
Invisible Ghost USA, 1941, 64’, bn
Regia Joseph H. Lewis Sceneggiatura, Soggetto Helen Martin, Al Martin Fotografia Harvey Gould, Marcel Le Picard Montaggio Robert Golden Scenografia Fred Preble Musica Johnny Lange, Lew Porter Suono Glen Glenn Interpreti Bela Lugosi (il dottor Charles Kessler), Polly Ann Young (Virginia Kessler), John McGuire (Ralph Dickson/Paul Dickson), Clarence Muse (Evans), Terry Walker (Cecile Mannix), Betty Compson (la signora Kessler), Ernie Adams (Jules Mason) Produttore Sam Katzman, Pete Mayer Produzione Banner Productions, Monogram Productions
Fantasma invisibile [t.l.] Non è una coppia normale quella composta dal signore e la signora Kessler: lui, pur essendo uno dei più rispettabili esponenti della sua comunità cittadina, è affetto da turbe psichiche che lo portano ad avere irrefrenabili impulsi omicidi; lei, che lo ha lasciato per un altro, dopo un incidente automobilistico è tornata di nascosto a casa e, dalla cantina, riesce a esercitare in qualche maniera il suo controllo sul consorte. Un uomo viene giustiziato per uno dei delitti commessi da Kessler. Il suo fratello gemello vuole vederci chiaro… Non lasciatevi trarre in inganno dalla presenza di Bela Lugosi, che si è sempre portato dietro, sullo schermo come nella vita (per sua disgrazia personale) il mantello del conte Dracula. Non lasciatevi ingannare neanche dal titolo, giacché in questo film non troverete né fantasmi, né esseri invisibili, né altre impalpabili entità. Invisible Ghost è, invece, un solidissimo noir di ambientazione domestica, sul tipo di Rebecca o Dietro la porta chiusa (fatte le debite proporzioni, ovviamente). Primo dei nove film recitati da Lugosi per la Monogram, e con alcuni notevoli tocchi di stile del regista Joseph H. Lewis (che di lì a otto anni realizzerà La sanguinaria), Invisible Ghost riesce a essere una o due tacche al di sopra dell’abituale media dei film sfornati dalla cosiddetta poverty row di Hollywood. Lugosi, a parte quando va soggetto ai suoi raptus, recita insolitamente sottotono, e l’atmosfera e la tensione sono ben costruite. (Sherrinford Doyle, Silver Screen, «The Denton Daily», 23 febbraio 1987)
Filmografia essenziale Terror in a Texas Town (Il terrore del Texas, 1958) The Halliday Brand (Il marchio dell’odio, 1957) 7th Cavalry (7 cavalleria, 1956) The Big Combo (La polizia bussa alla porta, 1955) Retreat, Hell! (Valanga gialla, 1952) Gun Crazy (La sanguinaria, 1950) So Dark the Night (Così scura la notte, 1946) My Name Is Julia Ross (Mi chiamo Giulia Ross, 1945) Criminals Within (Criminali, 1943) Invisible Ghost (1941)
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Robert Hamer
Kind Hearts and Coronets Gran Bretagna, 1949, 106’, bn
Sangue blu Louis Mazzini d’Ascoyne, duca di Chalfont, è in prigione in attesa di essere impiccato. Per stabilire la sua versione dei fatti che lo hanno portato a tali frangenti, decide di scrivere un memoriale. Figlio di una rampolla del nobile casato dei d’Ascoyne, diseredata per aver sposato un cantante d’opera italiano, sulla soglia dei vent’anni Louis decide che è giunto il momento di far valere i suoi diritti nei confronti della famiglia, ricorrendo anche ai metodi più drastici. Il destino, però, ci mette lo zampino, facendo incrociare i suoi passi con quelli dell’ambiziosa Sibella. Narrato dal sardonico Louis Mazzini (Dennis Price), che ha in progetto di eliminare gli otto membri di un’aristocratica famiglia che ha estromesso la sua affezionatissima madre dalla linea di successione, Sangue blu procede in punta di piedi come la più nera delle commedie. Price e la sua stretta complice Joan Greenwood, la cui voce è una musica oscura in ogni sua seducente sillaba, sono splendidi, come Alec Guinness nei panni degli otto d’Ascoyne. Dei quali il mio preferito è l’anziano parroco, che si delizia a presentare la sua chiesetta medievale («Dico sempre che la vetrata ha tutta l’esuberanza di Chaucer senza, fortunatamente, nessuna delle concomitanti barbarie di quel periodo»). La regia di Hamer è un gioiello di secca delicatezza, ma è la sceneggiatura che ne fa definitivamente una commedia Ealing. È uno dei pochi lavori di letteratura drammatica, e l’unico film che conosca, la cui arguzia epigrammatica e la cui cattiveria possono essere paragonate a quelle di Oscar Wilde. (Richard Corliss, All-Time 100 Movies, «Time», 23 gennaio 2012)
Regia Robert Hamer Sceneggiatura Robert Hamer, John Dighton Soggetto basato sul romanzo omonimo di Roy Horniman Fotografia Douglas Slocombe Montaggio Peter Tanner Scenografia William Kellner Costumi Anthony Mendleson Musica Ernest Irving Suono Stephen Dalby Interpreti Dennis Price (Louis Mazzini), Valerie Hobson (Edith D’Ascoyne), Joan Greenwood (Sibella Holland), Alec Guinness (il Duca/ il banchiere/il parroco/il generale/ l’ammiraglio/il giovane Ascoyne/ il giovane Henry/lady Agatha), Produttore Michael Balcon, Michael Relph Produzione Ealing Studios Filmografia essenziale School for Scoundrels (La scuola dei dritti, 1960) The Scapegoat (Il capro espiatorio, 1959) To Paris with Love (Due inglesi a Parigi, 1955) Father Brown (Padre Brown, 1954) The Long Memory (Vendicherò il mio passato, 1953) Kind Hearts and Coronets (Sangue blu, 1949) It Always Rains on Sunday (1947) The Loves of Joanna Godden (1947) Pink String and Sealing Wax (1945) Dead of Night [ep. The Haunted Mirror] (Incubi notturni [ep. Lo specchio maledetto], 1945)
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Paul Henreid
Dead Ringer USA, 1964, 115’, bn
Regia Paul Henreid Sceneggiatura Albert Beich, Oscar Millard Soggetto basato sul racconto La Otra/Dead Pigeon di Rian James Fotografia Ernest Haller Montaggio Folmar Blangsted Scenografia Perry Ferguson Costumi Don Feld Musica André Previn Suono Robert B. Lee Interpreti Bette Davis (Margaret DeLorca/ Edith Phillips), Karl Malden (il sergente Jim Hobbson), Peter Lawford (Tony Collins), Philip Carey (il sergente Hoag), Jean Hagen (Dede Marshall), George Macready (Paul Harrison), Estelle Winwood (Dona Anna) Produttore William H. Wright Produzione Warner Bros.
Chi giace nella mia bara? Edith e Margaret, da tempo, non si parlano, La prima non ha mai perdonato la seconda per averle portato via l’uomo che amava. Ora che questo è morto, Edith invita la sorella a casa, facendole credere di volersi riconciliare con lei. In realtà il suo disegno è di ucciderla per prenderne il posto (che tra l’altro è economicamente molto più appetibile del suo). Porta a termine il suo piano, ma l’amante della morta la scopre e comincia a ricattarla. Non solo: la sorellina aveva i suoi bravi scheletri nell’armadio, e adesso Edith si trova a dover pagare il conto. Ricordate quel celebre adagio pubblicitario della Warner Bros. di qualche anno fa, che diceva con orgoglio: «Nessuno è così bravo come Bette quando è cattiva»? Bene, Bette Davis è tornata, ed è veramente, veramente cattiva. Nessuna intenzione di parlar male di lei, al contrario: la sua gigantesca creazione di due sorelle gemelle con istinti omicidi non solo galvanizza questo film, ma è un piacere per la vista. Non è neanche corretto criticare i fratelli Warner per come hanno trattato la loro indistruttibile star, perché anche qui, come nel passato, le hanno fornito gli appigli per esercitare tutto il suo talento drammatico. (Eugene Archer, «The New York Times», 20 febbraio 1964)
Dead Ringer si basa sul presupposto che due Bette Davis sono meglio di una… La giustizia poetica potrà essere fuori moda, ma è sempre divertente. Così come lo è tutto il resto in questo thriller, specialmente Bette Davis. La sua figura è un po’ appesantita, il suo volto pesantemente truccato sembra una foto dello Utah presa da un U-2. E la sua recitazione, forse, è un po’ troppo esuberante. Ma provate a staccare gli occhi da lei… (- -, Scareer Girls, «Time», 7 febbraio 1964)
Filmografia Dead Ringer (Chi giace nella mia bara?, 1964) Ballad in Blue (Ballata in blu, 1964) A Woman’s Devotion (Acapulco – Anche gli eroi sono assassini, 1956) For Men Only (1952)
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Alan Gibson
Goodbye Gemini Gran Bretagna, 1970, 89’, col.
Sul tuo corpo, adorabile sorella Il legame fra i benestanti gemelli Jacki e Julian Dewar è talmente forte da andare un po’ oltre un semplice rapporto di profondo affetto tra fratello e sorella. Insieme dividono una vita fatta di notti passate in giro per la Swinging London, il loro padre è assente, se non per i soldi che passa regolarmente loro, e l’unico depositario delle loro confidenze è Agamemnon, l’orsaccchiotto di peluche della ragazza. Dell’ambiguità del loro rapporto se ne accorge Clive Landseer, un cialtrone cominciare a ricattarli. Julian prende una drastica decisione, e si fa aiutare dalla sorella. Ma… Quando guardiamo nel loro mondo, ci sentiamo un po’ a disagio, il che qualifica Goodbye Gemini come un horror. Mentre i due gemelli, sui titoli di testa, entrano a Londra attraverso la Great West Road, sappiamo di non essere i benvenuti. Questo film ha a che fare, inoltre, con un tema ricorrente del genere, la psicosi (che l’inevitabilmente ovvio titolo della versione americana, Twinsanity, non fa nessuno sforzo di annunciare in maniera sottile). Fin dall’inizio, Jacki e Julian (o Jube, come lei chiama lui) sono, se non proprio pazzi, almeno un po’ squinternati. Come molti loro coetanei dell’alta borghesia del tempo (il loro reddito è garantito da un padre “assente”), credono che la loro crescita emotiva non debba necessariamente andare di pari passo con la maturazione dell’intelligenza, e la loro incapacità di vivere uno senza l’altra (o, più precisamente, l’incapacità di Jube di funzionare senza Jacki, che è più anziana di lui di un paio d’ore) è un sintomo di questo problema. (Drewe Shimon, Goodbye Gemini, www.britmovie.co.uk)
Regia Alan Gibson Sceneggiatura Edmund Ward Soggetto basato sul romanzo Ask Agamemnon di Jenni Hall Fotografia Geoffrey Unsworth Montaggio Ernest Hosler Scenografia Wilfred Shingleton Costumi Andy Moss Musica Christopher Gunning Suono Leslie Hammond Interpreti Judi Geeson (Jacki Dewar), Martin Potter (Julian Dewar), Michael Redgrave (James Harrington-Smith), Alexis Kanner (Clive Landseer), Mike Pratt (Rod Barstowe), Marian Diamond (Denise Pryce-Fletcher), Freddie Jones (David Curry) Produttore Peter Snell, William Hill Produzione Joseph Shaftel Productions
Filmografia Martin’s Day (1985) Checkered Flag or Crash (Percorso infernale, 1977) The Satanic Rites of Dracula (I satanici riti di Dracula, 1973) Dracula A.D. 1972 (Dracula colpisce ancora!, 1972) Goodbye Gemini (Sul tuo copro, adorabile sorella, 1970) Crescendo (Crescendo… con terrore, 1970) Journey to Midnight (1968)
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Brian De Palma
sisters USA, 1973, 93’, col.
Regia Brian De Palma Sceneggiatura Brian De Palma, Louisa Rose Soggetto Brian De Palma Fotografia Gregory Sandor Montaggio Paul Hirsch Scenografia Gary Weist Musica Bernard Herrmann Suono John Fox Interpreti Margot Kidder (Danielle Breton/ Dominique Blanchion), Jennifer Salt (Grace Collier), Charles Durning (Joseph Larch), William Finley (Emil Breton), Lisle Wilson (Phillip Woode), Barbard Hughes (Arthur McLennen), Mary Davenport (la signora Collier) Produttore Edward R. Pressman, Lynn Pressman-Raymond, Robert Rohdie Produzione American International Pictures, Pressman-Williams
Le due sorelle Phillip Woode, per essere stato coinvolto in una candid-camera televisiva, ha ricevuto come premio una cena con la modella Danielle Breton. La serata va a gonfie vele, tanto che Philip è invitato a trascorrere la notte a casa di Danielle. La mattina dopo, venuto a conoscenza del fatto che è il compleanno della ragazza, Philip esce a comprarle una torta. Al ritorno, è aggredito e ucciso a pugnalate dalla sorella di Danielle. A far sparire ogni traccia provvede l’ex marito della modella. Ma Grace Collier, un’impicciona giornalista che abita di fronte, ha visto qualcosa. Lo sdoppiamento del personaggio-leader è solo un frammento del sistema di duplicazioni che attraversa il film (le gemelle, naturalmente; ma anche Danielle e Grace). Il “doppio”, anzi, è il vero tema narrativo di Sisters. A sua volta, ciascuno dei personaggi rappresenta il doppio di se stesso, quanto alla narrazione drammaturgica che lo spettatore ne riceve. Danielle non ha soltanto un alter ego, ma anche un repertorio di identità (vittima dell’ex marito, detentrice di un orribile segreto). Così per Grace, che Emil presenta come vittima di uno sdoppiamento di personalità. Lo stesso medico appare come il persecutore di Danielle, il suo complice, l’innamorato disposto a tutto. (Roberto Nepoti, Brian De Palma, La Nuova Italia, Firenze 1981)
– Il film si apre con una messinscena che viene data per verità… – Sì, perché contrariamente a Jean-Luc Godard, al quale piace sostenere che il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo, io sono convinto che al contrario è menzogna ventiquattro volte al secondo! (Samuel Blumenfeld, Laurent Vachaud, a cura di, Brian De Palma. Entretiens, Calmann-Lévy, Parigi 2001)
Filmografia Redacted (id., 2007) The Black Dahlia (Black Dahlia, 2006) Mission to Mars (id., 2000) Carlito’s Way (id., 1993) The Untouchables (The Untouchables – Gli intoccabili, 1987) Scarface (id., 1983) Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980) Obsession (Complesso di colpa, 1976) Sisters (Le due sorelle, 1973) Greetings (Ciao America, 1968) Killer’s Kiss (Il bacio dell’assassino, 1955)
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Stanley Kubrick
The Shining Gran Bretagna • USA, 1980, 146’, col.
Shining Jack Torrance, uno scrittore in crisi creativa, accetta il posto di custode invernale di un grande albergo sulle montagne del Colorado. Nonostante debba stare, con la moglie Wendy e il figlioletto Danny, per cinque mesi isolato a causa della neve, Jack trova il lato pratico della situazione: l’isolamento lo aiuterà a scrivere il suo nuovo romanzo. E non si lascia impressionare da uno sconcertante precedente: anni prima, un altro custode aveva avuto un forte esaurimento nervoso, finendo con il massacrare moglie e figlie. Giunti sul luogo, Jack comincia a dare strani segni, mentre il piccolo Danny, in possesso della “luccicanza”, intuisce che le cose non vanno come dovrebbero. È l’interpretazione “oltranzista” di Jack Nicholson, così come la frenesia di Jack Torrance, a mettere in gioco questo particolare accostamento tra Shining e i concetti della psicoanalisi (alla quale è del resto riconducibile tutto il film) sotto il patrocinio generale dell’Edipo. Allorché, per il delirante paranoico, la realtà non si sperimenta più se non in termini immaginativi, essa diviene immagine. Diviene film… […] In questo formicolio nel quale passato, presente e futuro confondono le proprie tracce che essi giustappongono agli ordini del visibile e dell’invisibile, lo spettatore è incline a ricercare su questa o quella pista indicata qualcosa che si troverebbe all’origine, e che sarebbe l’origine stessa, di questo gioco molteplice, e a scoprire allora quale potrebbe essere il mistero formulato da Shining. Errore di prospettiva… sarebbe semmai la “presenza depressiva” di ciò che non si dice, ciò che popola il film e il suo disordine.
Regia Stanley Kubrick Sceneggiatura Stanley Kubrick, Diane Johnson Soggetto dal romanzo omonimo di Stephen King Fotografia John Alcott Montaggio Ray Lovejoy Scenografia Roy Walker Costumi Milena Canonero Musica Wendy Carlos, Rachel Elkind Suono Dino Di Campo Interpreti Jack Nicholson (Jack Torrance), Shelley Duvall (Wendy Torrance), Danny Lloyd (Danny Torrance), Scatman Crothers (Dick Halloran), Barry Nelson (Stuart Ullman), Produttore Stanley Kubrick, Robert Fryer, Mary Lea Johnson, Martin Richards Produzione Hawk Films, Peregrine, Producers Circle, Warner Bros. Pictures
(Pierre Giuliani, Stanley Kubrick, Le Mani, Recco-Genova 1996) Filmografia essenziale Eyes Wide Shut (id., 1999) Full Metal Jacket (id., 1987) The Shining (Shining, 1980) Barry Lyndon (id., 1975) A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, 1964) Lolita (id., 1962) Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957) The Killing (Rapina a mano armata, 1956)
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Peter Greenaway
A Zed & Two Noughts Gran Bretagna • Olanda, 1986, 115’, col.
Regia, Sceneggiatura, Soggetto Peter Greenaway Fotografia Sacha Vierny Montaggio John Wilson Scenografia Ben van Os Costumi Patricia Lim Musica Michael Nyman Suono C. Ware Interpreti Brian Deacon (Oswald Deuce), Eric Deacon (Oliver Deuce), Andréa Ferréol (Alba Bewick), Frances Barber (la Venere di Milo), Joss Ackland (il dottor Van Hoyten), Gerard Thoolen (il dottor Van Meegeren), Agnès Brulet (Beta Bewick) Produttore Kees Kasander, Peter Sainsbury Produzione British Film Institute, Allarts Enterprises, Artificial Eye, Film Four International, Vrijzinnig Protestantse Radio Omroep
Lo zoo di Venere I fratelli gemelli Oswald e Oliver Deuce hanno appena perso le rispettive mogli in un bizzarro incidente fuori dai cancelli dello zoo di Amsterdam: un cigno è andato a sbattere contro il parabrezza dell’automobile, coinvolgendo anche una terza donna, Alba Bewick, alla quale è stata poi amputata una gamba. L’incidente acuisce l’ossessione dei due fratelli per la decomposizione animale, e li porta a instaurare con Alba una contorta relazione amorosa che finisce per coinvolgere anche il dottor Van Meegeren, un chirurgo con la fissa di Vermeer, e l’ambiguo dottor Van Hoyten, direttore dello zoo. Il giardino zoologico, come universo protettivo in cui l’uomo ha devitalizzato la natura e l’ha trasformata in un teatro per le proprie fantasie, è il catalizzatore di una babele di immagini: documentari scientifici e citazioni mitologiche (il cigno di Leda, l’unicorno), animali dal vero e gigantografati nella pubblicità della Esso o della Camel. Ogni personaggio ha il suo bestiario: il direttore dello zoo è ossessionato dall’idea di eliminare tutti i suoi ospiti col mantello bianco e nero; la prostituta Venere di Milo esercita il mestiere fra le gabbie e seduce i clienti con racconti pornografici ambientati fra gli animali, in attesa che qualcuno la metta in contatto con un editore. Per tutto il film aspirazioni artistiche e vendita, manipolazione, mutilazione dei corpi vanno insieme in un connubio degradato, dove domina l’inibizione del sesso e una persistente necrofilia. (Lodovico Stefanoni, Lo zoo di Venere, «Cineforum» n. 259, novembre 1986)
Filmografia essenziale Tulse Luper Suitcases (Le valigie di Tulse Luper, 2003-2004) The Pillow Book (I racconti del cuscino, 1996) Prospero’s Books (L’ultima tempesta, 1991) The Cook the Thief His Wife & Her Lover (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, 1989) Drowning by Numbers (Giochi nell’acqua, 1988) The Belly of an Architect (Il ventre dell’architetto, 1987) A Zed & Two Noughts (Lo zoo di Venere, 1986) The Draughtman’s Contract (I misteri del giardino di Compton House, 1982) The Falls (id., 1980) A Walk Through H. (id., 1979)
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Fernando León de Aranoa
Fernando León de Aranoa Chiara Boffelli
Sceneggiatore e regista cinematografico, Fernando Léon De Aranoa è nato a Madrid nel maggio del 1968. Nella fase iniziale della sua carriera si dedica alla sceneggiatura, sia per lungometraggi di finzione che per programmi e serie televisive. Ancora giovanissimo, scrive e dirige il suo primo lungometraggio, Familia (1996), grazie al quale vince il Premio Goya come miglior regista esordiente. Con il secondo lungometraggio, Barrio (1998), vince tre premi Goya e il Premio come miglior regista al festival del cinema di San Sebastián. Il film – ambientato nella periferia madrilena, dove tre ragazzi trascorrono un’afosa estate, schiacciati da un disagio e da una monotonia che non lascia scampo – evidenzia la sensibilità del regista per le storie di degrado e di emarginazione sociale. Lucido osservatore della realtà contemporanea e delle sue contraddizioni, De Aranoa si concentra sia sulla società spagnola, quanto su quella internazionale. Con il documentario Caminantes (2001), premiato al festival del cinema dell’Avana, al festival Cinelatino di Los Angeles e di New York, racconta con un approccio creativo e originale la marcia zapatista dell’inizio del 2001. Los lunes al sol (I lunedì al sole, 2002) è il film che lo consacra a livello internazionale: vince cinque premi Goya (tra cui quello per il miglior attore a Javier Bardem) e il Premio come miglior film al festival del cinema di San Sebastián. Ambientato in Galizia negli anni successivi alla riconversione industriale e i pesanti licenziamenti, ci racconta di alcuni disoccupati che vivono alla giornata, trascorrendo lunghe ore al bar, filosofeggiando e tentando di trovare un nuovo lavoro. Il film era stato presentato in anteprima italiana a Bergamo Film Meeting nel 2003. Nel 2004, De Aranoa fonda la propria casa di produzione, la Reposado, con la quale produce tutti i film successivi. Nel 2005 scrive, dirige e produce Princesas, vincitore di tre premi Goya. Storia di due prostitute, una trentenne spagnola e una clandestina dominicana, il film è accompagnato dalla colonna sonora di Manu Chao, per il quale De Aranoa dirige anche il videoclip del brano Me llaman Calle. Nel 2007, collabora al film collettivo Invisibles, realizzato con Mariano Barroso, Isabel Coixet, Javier Corcuera e Wim Wenders, in occasione del ventennale della sezione spagnola di Medici Senza Frontiere. Il suo ultimo lungometraggio Amador (2011), presentato al festival di Berlino, è un dramma realista e intimo che racconta le molteplici difficoltà di una giovane donna sudamericana immigrata in Spagna. Attualmente, De Aranoa sta girando un film sul tour del cantautore e poeta spagnolo Joaquín Sabina. 134
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Fernando León de Aranoa
«Fernando León piace ed è rispettato perché è un regista “terreno”. Rispetto ad altri registi che cercano l’ispirazione e le proprie storie nei sogni, nelle fantasie, nei complessi o nei sentimenti umani, lui scrive storie che hanno a che vedere con quello che accade attorno a lui. A Fernando interessa – e molto – il mondo che lo circonda e la gente che lo abita. Gli interessa di più quello che accade nel cortile nel retro di casa sua, in un parco vicino, in un quartiere della sua città o del suo Paese piuttosto che in territori lontani o immaginari. Perché lui è, prima di tutto, una persona sensibile e attenta a ciò che lo circonda, impegnato, con idee e progetti “politicamente scorretti” per i tempi che corrono. Un uomo con una coscienza sociale. Tutto quello che accade all’essere umano lo riguarda e può essere argomento dei suoi film. Tant’è che, se ripassiamo la sua filmografia, non c’è un solo tema che riguardi l’essere umano che Fernando non abbia affrontato nei suoi film: l’istituzione della famiglia (àncora di salvezza per alcuni e problema per molti altri), la solitudine, l’amore, la disoccupazione (con tutto ciò che ne segue di distruttivo e degradante), l’avidità, il razzismo, il maschilismo e la violenza di genere, però dall’altra parte anche l’altruismo e la solidarietà». (Javier Angulo Barturen, Direttore della Semana Internacional de Cine de Valladolid, SEMINCI)
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Regia, Sceneggiatura Fernando León de Aranoa Fotografia Andrés Torres Montaggio Miguel González Sinde Scenografia Soledad Saseña Costumi Vanesa Pablos Musica Fernando Sancho Suono Tomas Losa Interpreti Txema Blasco (Antonio), José Yepes (Santiago), Dani Martín (Carlos) Produttore Rocio Rodiel Produzione Xaloc P.C.
Regia, Sceneggiatura Fernando León de Aranoa Fotografia Alfredo Mayo Montaggio Nacho Ruiz Capillas Scenografia Soledad Seseña Costumi Adolfo Domínguez, Maiki Marín Suono Gilles Ortion Interpreti Juan Luis Galiardo (Santiago), Amparo Muñoz (Carmen), Ágata Lys (Sole), Chete Lera (Ventura), Elena Anaya (Luna), Raquel Rodrigo (Rosa), Juan Querol (Carlos), Aníbal Carbonero (Nico) Produttore Elías Querejeta Produzione Albares Production, Elías Querejeta Producciones Cinematográficas S.L., MGN Films Distribuzione Vídeo Mercury Films
Fernando León de Aranoa
Sirenas Spagna, 1994, 15’, col.
Sirene [t.l.] Il nonno Antonio sfuggì all’annegamento, durante il naufragio della sua barca nel golfo di Biscaglia. Lo salvò la sua sordità: non sentì il canto delle sirene che lo chiamavano dal fondo del mare. Tutto il resto dell’equipaggio morì. Antonio, dopo essere rimasto vedovo, si trasferisce da Getaria, il suo piccolo paesino affacciato sull’oceano, a Madrid dove vive sua figlia con il marito e il figlio. La sua prima domanda, sceso dall’autobus è: «Dove è il mare?». Il nipote, da sempre affascinato dai suoi racconti di quando era marinaio, è l’unico a credere alle parole del nonno, e a pensare che le sirene davvero esistano, anche in città, e che prima o poi tutti finiamo per ascoltare il loro magico richiamo.
Fernando León de Aranoa
Familia Spagna, 1996, 94’, col.
Famiglia [t.l.] Santiago è un uomo che si sveglia, il giorno del suo cinquantacinquesimo compleanno, circondato dalla sua numerosa famiglia, che gli dimostra il suo amore e lo riempie di regali. Tutti lo aspettano in cucina per fargli gli auguri, però c’è qualcosa che va subito storto: a Santiago non piace il regalo di suo figlio minore, una pipa. Così si arrabbia, grida, litiga con tutti, e dice di non volere più quel figlio, grasso, con gli occhiali, che proprio non gli assomiglia. Sembra che tutta la famiglia sia spaventata da questo padre così irascibile e nervoso. Stanno per arrivare anche altri parenti a complicare la situazione, in questa famiglia all’apparenza così “normale”. Con il passare delle ore si scoprono cose strane, che sempre meno hanno a che vedere con l’apparente tranquillità iniziale.
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Fernado León de Aranoa
Barrio Spagna, 1998, 94’, col.
Quartiere [t.l.] Javi, Manu e Rai sono tre amici e compagni di scuola. Condividono quell’età in cui non sei né uomo né bambino, in cui si parla molto di ragazze e molto poco con loro. Condividono pure la vita di quartiere, il caldo dell’estate e un mucchio di problemi. Il primo è il quartiere stesso, un quartiere di grandi casermoni di edilizia popolare, di mattoni scuri e architettura impossibile. Non ci sono molte cose da fare in un posto così, men che meno in agosto. Il centro della città è lontano e poco agevole da raggiungere, per questo i tre amici passano la maggior parte del tempo nel quartiere. Dicono in tv che in questi giorni ci sono milioni di abitanti delle grandi città che se ne vanno al mare e a Javi, a Manu e a Rai piacerebbe fare come loro. Il tempo in quartiere passa più lento e d’estate, si sa, c’è un mucchio di tempo libero. Troppo per non spenderlo mettendosi nei guai.
Fernado León de Aranoa
Caminantes Spagna, 2001, 89’, col.
Camminatori [t.l.] Inverno dell’anno 2001. La vita di una piccola comunità indigena viene trasformata dalla notizia che la marcia organizzata dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale passerà per i suoi sentieri prima di raggiungere Città del Messico. Le autorità locali incaricano il maestro di scuola di mettere a punto il discorso con cui accogliere la carovana, i bambini preparano un’opera teatrale da mettere in scena apposta per i visitatori, la banda musicale comincia a provare le canzoni che saluteranno il loro arrivo. Prendono il via i preparativi e con quelli si apre il dibattito nella comunità. Nel frattempo in un punto imprecisato del suo viaggio il subcomandante Marcos, capo invisibile del movimento zapatista, parla di questo viaggio e di quell’altro, iniziato diciotto anni prima nella foresta Lacandona.
Regia, Sceneggiatura Fernando León de Aranoa Fotografia Alfredo Mayo Montaggio Nacho Ruiz Capillas Scenografia Soledad Seseña Costumi Maiki Marín Musica Lucía Cárdenas Suono Miguel Ángel Polo Interpreti Críspulo Cabezas (Rai), Timy Benito (Javi) Eloi Yebra (Manu), Marieta Orozco (Susi), Alicia Sánchez (Carmen), Enrique Villén (Ricardo), Francisco Algora (Ángel) Produttore Elías Querejeta Produzione Elías Querejeta Producciones Cinematográficas S.L., MGN Filmes, Sociedad General de Televisión (Sogetel) Distribuzione Vídeo Mercury Films
Regia Fernando León de Aranoa Sceneggiatura Fernando León de Aranoa, Ángel Luis Lara Fotografia Jordi Abusada Montaggio Mariela Poppema Musica Alfonso Arias Suono Eva Baliño, Santiago Tevhenet Produttori Luis M. Fernández, José Ibáñez, Juan Ibáñez-Martín Produzione José Ibáñez-Martín Piran, Pentagrama Films, Plural Entertainment Distribuzione Pentagrama Films
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Fernando León de Aranoa
Regia Fernando León de Aranoa Sceneggiatura Fernando León de Aranoa, Ignacio del Moral Fotografia Alfredo Mayo Montaggio Nacho Ruiz Capillas Scenografia Julio Esteban Costumi Maiki Marín Musica Lucio Godoy Interpreti Javier Bardem (Santa), Joaquín Climent (Rico), José Ángel Egido (Lino), Luis Tosar (José), Celso Bugallo (Amador),Serge Riaboukine (Serguei), Enrique Villén (Reina) Produttori Elías Querejeta, Jaume Roures, Andrea Occhipinti, Jérôme Vidal Produzione Antena 3 Televisión, Elías Querejeta Producciones Cinematográficas S.L., Eyescreen S.r.l., Mediapro, Quo Vadis Cinéma, Sogepaq, Televisión de Galicia (TVG) S.A., Vía Digital Distribuzione Lucky Red Regia, Sceneggiatura Fernando León de Aranoa Fotografia Ramiro Civita Montaggio Nacho Ruíz Capillas Scenografia Llorenç Miquel Costumi Sabine Daigeler Musica Alfonso Vilallonga, tema musicale di Manu Chao Suono Miguel Rejas Interpreti Micaela Nevárez (Zulema), Candela Peña (Caye), Mariana Cordero (Pilar), Llum Barrera (Gloria), Violeta Pérez (Caren), Mònica Van Campen (Ángela), Flora Álvarez (Rosa), María Ballesteros (Miss Metadona) Produttori Fernando León de Aranoa, Jaume Roures Produzione Reposado Producciones, Mediapro, Antena 3 Televisión, Canal+ España Distribuzione Lucky Red
Fernando León de Aranoa
Los lunes al sol
Mondays in the Sun
Spagna • Francia • Italia, 2002, 113’, col.
I lunedì al sole In una città di mare della Galizia, nella Spagna del Nord, i cantieri navali chiudono a causa della riconversione industriale. Con i soldi della liquidazione, Rico ha aperto un piccolo bar dove alcuni ex operai, ora disoccupati, si ritrovano la sera per chiacchierare del più e del meno. Santa ha ancora dei guai con la giustizia perché all’epoca dei licenziamenti aveva distrutto un lampione. Lino spera sempre di poter essere assunto da qualche parte e a ogni nuovo colloquio di lavoro si tinge i capelli per apparire più giovane. José è costretto a farsi mantenere dalla moglie, Ana. Amador, il più anziano della compagnia, è perennemente ubriaco. Serguei è un immigrato russo. Reina è riuscito a farsi assumere in un cantiere come addetto alla sicurezza. Da quando non si deve più lavorare, i giorni della settimana si somigliano tutti. Il lunedì si sta al sole, a far niente, come se fosse domenica.
Fernando León de Aranoa
Princesas Spagna, 2005, 114’, col.
Principesse [t.l.] Madrid. Zulema è un’immigrata dominicana che si prostituisce con l’obiettivo di portare in Spagna il figlio di cinque anni. Caye, anche lei prostituta, è una ragazza spagnola di circa trent’anni e la sua famiglia è all’oscuro della sua professione. L’avvicinamento fra le due donne è burrascoso: Zulema abita al piano superiore rispetto a Caye e si prostituisce, assieme a molte straniere, di fronte al negozio di parrucchiera dove Caye passa il tempo libero con amiche e colleghe spagnole, che si sentono danneggiate dalla concorrenza delle straniere. Un giorno Caye soccorre Zulema dopo l’aggressione da parte di un sedicente funzionario che dovrebbe garantirle il permesso di soggiorno. Da qui nasce un’amicizia che porta le due donne lungo un percorso di maturazione e crescita, nella speranza di raggiungere una vita migliore.
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Invisibles
[ep. Buenas noches, Ouma] Spagna, 2007, 28’, col.
Buona notte, Ouma [t.l.] Invisibles è un film in cinque episodi legati da un unico filo conduttore: il desiderio di dar voce a chi è rimasto avvolto dal velo dell’indifferenza e rendere un modesto tributo a coloro che non si sono mai voltati indietro. L’obiettivo è quello di presentare storie di vita reale dando visibilità ai protagonisti, vittime di altrettante crisi tra le più dimenticate dai mezzi di comunicazione, di cui si occupa Medici Senza Frontiere. Fernando León de Aranoa ripercorre vent’anni di guerra civile nel Nord Uganda attraverso la testimonianza di alcuni night commuters, bambini che ogni notte cercano un luogo sicuro per evitare di essere reclutati come bambini soldato dal gruppo armato del Lord’s Resistance Army (LRA).
Fernando León de Aranoa
Amador Spagna, 2011, 112’, col.
Amador Marcela è una giovane immigrata con difficoltà finanziarie, che ha trovato un nuovo lavoro: passerà l’estate prendendosi cura di Amador, un anziano costretto a letto, tenendogli compagnia finché i suoi parenti saranno in vacanza. Marcela e Amador condividono presto tutti i loro segreti: Marcela è incinta e non l’ha ancora detto a nessuno, nemmeno al suo fidanzato, di cui non ha molta fiducia. Amador sa che non ha più molto tempo per vivere. Forse è per questo ad essere l’unico in grado di percepire la nuova vita che cresce dentro Marcela. Fianco a fianco, i due trascorrono molto tempo insieme nella piccola camera da letto di Amador. Ma poi, un giorno, Amador muore e Marcela sarebbe di nuovo disoccupata. La giovane donna si trova di fronte a un dilemma, che forse ha una via d’uscita. Insieme ad Amador, Marcela dimostrerà che la morte non significa necessariamente porre fine alla vita.
Regia, Sceneggiatura Fernando León de Aranoa Fotografia Jordi Abusada Montaggio Patricia López Suono Daniel Ramírez Zayas Produttore Javier Bardem Produzione Pinguin Films, Reposado Producciones, Medici Senza Frontiere Distribuzione Medici Senza Frontiere
Regia, Sceneggiatura Fernando León de Aranoa Fotografia Ramiro Civita Montaggio Nacho Ruiz Capillas Scenografia Llorenç Miquel Costumi Fernando García Musica Lucio Godoy Suono Iván Marín, Daniel Peña, Alfonso Raposo Interpreti Magaly Solier (Marcela), Celso Bugallo (Amador), Pietro Sibille (Nelson), Sonia Almarcha (Yolanda), Fanny de Castro (Puri) Produttori Fernando León de Aranoa, Jaume Roures Produzione Reposado Producciones, Mediapro Distribuzione Imagina International Sales
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Indici Indices
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Indici Indices
Indice dei registi Index to directors A AA.VV., 56 Aladag, Feo, 58 Allen, Lewis, 104 Asquith, Anthony, 114 B Bach, Enric, 34 Bergman, Ingmar, 80 Berkeley, Busby, 98 Bijlsma, Carine, 35 Buñuel, Luis, 83 Burnat, Emad, 36 C Chabrol, Claude, 84 Considine, Paddy, 62 Cuenca, Manuel Martin, 18 Cukor, George, 105 Curtiz, Michael, 106 D Daoud, Tareq, 37 Darnborough, Antony, 115 Daves, Delmer, 111 Davidi, Guy, 36 De Aranoa, Fernando Léon, 136, 137, 138, 139 Demy, Mathieu, 20 De Palma, Brian, 130 De Tilla, Pietro, 38 Dickinson,Thorold, 100 E Eboué, Fabrice, 68 Evans, Christopher, 39 F Ferreri, Marco, 79 Fisher, Terence, 115 Friedlich, Hadar, 24 G Geyrhalter, Nikolaus, 57 Gibson, Alan, 129 Giorgelli, Pablo, 24 Greenaway, Peter, 132 H Hamer, Robert, 127 Henreid, Paul, 128 Hitchcock, Alfred, 99, 101, 102 Hníková, Erika, 40 Hohenboken, Angus, 39 K Kubrick, Stanley, 131
M Malle, Lous, 77 Manuzzi, Elvio, 38 Masset-Depasse, Olivier, 59 Maté, Rudolph, 116 Minnelli, Vincente, 108 Minorowicz, Marta, 41 Monés, Adrià, 34 Mréjen, Valérie, 26 Mucha, Stanisław, 54 N Neill, Roy William, 109 Ngijol, Thomas, 68 O Okstad, Klaus Erik, 42 P Preminger, Otto, 107 R Ray, Nicholas, 117 Renoir, Jean, 66 Risi, Simona, 65 Rohmer, Eric, 82 S Scarponi, Francesco, 43 Schefer, Bertrand, 26 Schlöndorff, Volker, 81 Sirk, Douglas, 112 Sitaru, Adrian, 28 Steketee, Lionel, 68 Stöhr, Hannes, 55 T Tourneur, Jacques, 103 Truffaut, François, 78 Trupia, Guglielmo, 38 V Vadim, Roger, 67 Van Geffen, Marco, 30 Viimne, Kullar, 44 Von Trotta, Margarethe, 81 W Welles, Orson, 110 Wojtyłło, Monika Anna, 60 Y Young, Terence, 113 Z Zambelli, Andrea, 63 Zanoli, Andrea, 63
L Lewis, Joseph H., 126 Losey, Joseph, 76 142
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Indici Indices
Indice dei film Index to films 5 Broken Cameras, 36 A Abendland, 57 Acacias (Las), 24 Afghanske mareritter (Det)/ Afghan Nightmare (The), 42 Amador, 139 Americano, 20 Atelier Colla, 38 B Barrio, 137 Black Angel/Angelo nero (L’), 109 C Caminantes, 137 Case départ, 68 Cet obscur objet du désir/ Quell’oscuro oggetto del desiderio, 83 Corridor of Mirrors/Mistero degli specchi (Il), 113 D Dead Ringer/Chi giace nella mia bara?, 128 Descrescendo, 41 Deux anglaises et le continent (Les)/Due inglesi (Le), 78 Dimanche à Brazzaville/Sunday in Brazzaville, 34 Din dragoste cu cele mai bune intenţii/Best Intentions, 28 D.O.A./Due ore ancora, 116 E Emek tiferet/ Beautiful Valley (A), 22 En ville/Iris in Bloom, 26 F Fallen Angel/ Angelo è caduto (Un), 107 Familia, 136 Foreign Correspondent/ Prigioniero di Amsterdam (Il)/ Corrispondente 17, 99 Fremde (Die)/ When We Leave, 58 G Gaslight, 100 Gaslight/Angoscia, 105 Go-Between (The)/ Messaggero d’amore, 76 Goodbye Gemini/Sul tuo corpo, adorabile sorella, 129 H Hing/Breath, 44
I In a Lonely Place/Diritto di uccidere (Il), 117 Illégal/Illegal, 59 In absentia, 37 Invisible Ghost, 126 Invisibles [ep. Buenas noches, Ouma], 139 K Kind Hearts and Coronets/ Sangue blu, 127 L Leopard Man (The)/ Uomo leopardo (L’), 103 Liaisons dangereuses (Les)/ Relazioni pericolose, 67 Liza/Cagna (La), 79 Lunes al sol (Los)/ Lunedì al sole (I), 138 M Marquise von O… (Die)/ Marchesa Von… (La), 82 Mildred Pierce/Romanzo di Mildred (Il), 106 Milongueros, 63 Mitad de Óscar (La)/ Half of Óscar, 18 Mitte (Die)/Center (The), 54 N Nesvatbov/Matchmaking Mayor: The Heart Can’t Be Commanded, 40 O Onder ons/Among Us, 30 One Day in Europe, 55 One Man Riot [work in progress], 39
Philippens, 23 Years Old, 35 So Long at the Fair/ Tragica incertezza, 115 Souffle au coeur (Le)/ Soffio al cuore, 77 Stranger (The)/Straniero (Lo), 110 Sur un air de charleston/ Charleston, 66 Suspicion/Sospetto (Il), 101 T They Made Me a CriminalHanno fatto di me un criminale, 98 Tyrannosaur, 62 U Undercurrent/ Tragico segreto, 108 Uninvited (The)/Casa sulla scogliera (La), 104 V Verlorene Ehre der Katharina Blum oder: Wie Gewelt entstehen und wohin sie führen kann (Die)/Caso Katharina Blum (Il), 81 Violette Nozière, 84 Visions of Europe, 56 Viskningar och rop/ Sussurri e grida, 80 W White (Le), 65 Woman in Question (The)/ Donna nel fango, 114 Z Zed & Two Noughts (A)/Zoo di Venere (Lo), 132
P Polska Love Serenade, 60 Princesas, 138 R Red House (The)/Casa rossa (La), 111 S Santino, 43 Shadow of a Doubt/Ombra del dubbio (L’), 102 Shining (The)/Shining, 131 Sirenas, 136 Sisters/Due sorelle (Le), 130 Sleep, My Love/ Donne e veleni, 112 Soliste, Rosanne Philippens, 23 jaar/Soloist, Rosanne 143
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Indici Indices
Indice generale Contents MOSTRA CONCORSO EXHIBITION COMPETITION Mitad de Óscar (La)/ Half of Óscar, 18 Americano, 20 Emek tiferet/ Beautiful Valley (A), 22 Acacias (Las), 24 En ville/Iris in Bloom, 26 Din dragoste cu cele mai bune intenţii/Best Intentions, 28 Onder ons/Among Us, 30 VISTI DA VICINO CLOSE UP Dimanche à Brazzaville/ Sunday in Brazzaville, 34 Soliste, Rosanne Philippens, 23 jaar/Soloist, Rosanne Philippens, 23 Years Old, 35 5 Broken Cameras, 36 In absentia, 37 Atelier Colla, 38 One Man Riot [work in progress], 39 Nesvatbov/Matchmaking Mayor: The Heart Can’t Be Commanded, 40 Descrescendo, 41 Afghanske mareritter (Det)/ Afghan Nightmare (The), 42 Santino, 43 Hing/Breath, 44 I CONFINI DELL’EUROPA Mitte (Die)/Center (The), 54 One Day in Europe, 55 Visions of Europe, 56 Abendland, 57 Fremde (Die)/ When We Leave, 58 Illégal/Illegal, 59 Polska Love Serenade, 60 ANTEPRIME Tyrannosaur, 62 Milongueros, 63 AVANTI
Un progetto di distribuzione culturale
White (Le), 65
BERGAMO FILM MEETING INAUGURA BERGAMO JAZZ Sur un air de charleston/ Charleston, 66 Liaisons dangereuses (Les)/ Relazioni pericolose, 67
BERGAMO FILM MEETING PRESENTA FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, ASIA E AMERICA LATINA Case départ, 68 RITRATTO D’AUTORE
ANNI ’70: UOMINI CHE RACCONTANO LE DONNE
Go-Between (The)/ Messaggero d’amore, 76 Souffle au coeur (Le)/ Soffio al cuore, 77 Deux anglaises et le continent (Les)/Due inglesi (Le), 78 Liza/Cagna (La), 79 Viskningar och rop/ Sussurri e grida, 80 Verlorene Ehre der Katharina Blum oder: Wie Gewelt entstehen und wohin sie führen kann (Die)/ Caso Katharina Blum (Il), 81 Marquise von O… (Die)/ Marchesa Von… (La), 82 Cet obscur objet du désir/ Quell’oscuro oggetto del desiderio, 83 Violette Nozière, 84 L’OMBRA DEL DUBBIO
L’AMBIGUITà COME ESSENZA DEL NOIR
They Made Me a Criminal/ Hanno fatto di me un criminale, 98 Foreign Correspondent/ Prigioniero di Amsterdam (Il)/ Corrispondente 17, 99 Gaslight, 100 Suspicion/Sospetto (Il), 101 Shadow of a Doubt/Ombra del dubbio (L’), 102 Leopard Man (The)/Uomo leopardo (L’), 103 Uninvited (The)/Casa sulla scogliera (La), 104 Gaslight/Angoscia, 105 Mildred Pierce/Romanzo di Mildred (Il), 106 Fallen Angel/ Angelo è caduto (Un), 107 Undercurrent/ Tragico segreto, 108 Black Angel/ Angelo nero (L’), 109 Stranger (The)/ Straniero (Lo), 110 Red House (The)/ Casa rossa (La), 111 Sleep, My Love/ Donne e veleni, 112 Corridor of Mirrors/
Mistero degli specchi (Il), 113 Woman in Question (The)/ Donna nel fango, 114 So Long at the Fair/ Tragica incertezza, 115 D.O.A./Due ore ancora, 116 In a Lonely Place/ Diritto di uccidere (Il), 117 MIDNIGHT MOVIE
L’OMBRA DEL DOPPIO
Invisible Ghost, 126 Kind Hearts and Coronets/ Sangue blu, 127 Dead Ringer/Chi giace nella mia bara?, 128 Goodbye Gemini/Sul tuo corpo, adorabile sorella, 129 Sisters/Due sorelle (Le), 130 Shining (The)/Shining, 131 Zed & Two Noughts (A)/ Zoo di Venere (Lo), 132 FERNANDO LEÓN DE ARANOA Sirenas, 136 Familia, 136 Barrio, 137 Caminantes, 137 Lunes al sol (Los)/ Lunedì al sole (I), 138 Princesas, 138 Invisibles [ep. Buenas noches, Ouma], 139 Amador, 139
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BIRRA UFFICIALE DEL “BERGAMO FILM MEETING 2012”
AHTANUM HOP CHÂTEAU PALE MALT CONTINUUM SERIES an Elav Brewery production in Pale Ale style Birra ambrata chiara luppolata in continuo dedicata al “XXX Bergamo Film Meeting”, ad un genio dell’arte ���������������������������������������������������
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Progetto grafico: PiEFFE Grafica* Stampa: Grafica Sette - Bagnolo Mella, BS Finito di stampare il 5 marzo 2012
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