Bergamo Film Meeting - Catalogo 2014

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Euro 12,00


Bergamo Film Meeting

Trentaduesima Mostra Internazionale del Cinema d’Essai

8-16 marzo 2014


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Le attivitĂ collaterali alla manifestazione sono sostenute da

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Bergamo Film Meeting è socio fondatore e membro attivo di

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Ringraziamenti Per la sezione “Mostra Concorso” ringraziamo: Yossi Aviram, Jan Forsström, Vivian Goffette, Bruce Goodison, Valentin Hotea, Marko Šantić, Jim Taihuttu. Arnaud Aubelle, Matthieu Marin (Le Pacte, Parigi), Kaarle Aho (Making Movies Oy), Jenni Domingo (The Finnish Film Foundation, Helsinki), Karine De Villers (Cinéastes Associés, Bruxelles), Valeska Neu, Anastasia Manola (Films Boutique, Berlino), Barbara Daljavec (Rtv Slovenjubia, Lubiana), Stefano Iacono (Movies Inspired), Mike Sherman, Aram Tertzakian (Xyz Films), Emanuela Martini, Mario Galasso (Torino Film Festival), Nicola Falcinella, Andrea Trovesi. Per la sezione “Visti da vicino” ringraziamo: Michal Aviad, Taj Mohammad Bakhtari, Alfredo Covelli, Floriane Devigne, Thomas Haley, Marc Isaacs, Dajan Javorac, Bart Layton, Luís Lopez Carrasco, Emmanuel Marre, Dragan Nikolić, Layla Pakalnina, Jens Pedersen, Britta Rindelaub, Nebojša Slijepčević, Carlo Zoratti. Ray Meirovitz (Ez Films, Parigi), Meproducodasolo (Roma), Gregory Betend (Andana Films, Lussas), Adriana Ferrarese (Ceresa films, Parigi), Goat Road (Banja Luka), Anastasia Plazzotta (Feltrinelli Real Cinema), Ismael Martin (Off ecam, Madrid), Kim Vanvolsom, Philippe Cotte (Centre Vidéo Bruxelles), Jovana Nikolic (Prababa films, Belgrado), Hargla (Riga), Pedersen & co. (Vanlose), Genevieve Rossier (Alva Film, Ginevra), Anja Dziersk (Rise And Shine World Sales UG, Berlino), Thomas Bertacche, Samantha Faccio (Tucker film, Udine), Erica Barbiani (Videomante, Cividale del Friuli). Per la sezione “Europa: femminile, singolare” ringraziamo in particolare Sólveig Anspach, Antonietta De Lillo, Jessica Hausner. Per la rassegna cinematografica ringraziamo Lorraine Thilloy (Les Films d’Ici, Parigi), Maud Guenoux (Point du Jour, Parigi), Sanam Madjedi (Films Distribution, Parigi), Julie Rhône, Elodie Legay (Agat Films & Cie, Parigi), Hannah Corner (Doc & Film International, Parigi), Lola Manaï (Bac Films, Parigi), Camille Jouhair (Hevadis films, Rouen), Arnaud Aubelle, Matthieu Marin (Le Pacte, Parigi), Alice Mariani (marechiarofilm), Gerald Weber (Sixpackfilm, Vienna), Diana Alonso (Coproduction Office, Berlino), Andrea Pollach (Diagonale Festival of Austrian Film, Vienna), Sacher Film, Matteo Bertolotti (2001 Distribuzione, Milano), Herbert Jäger, Claudia Grigolli (Forum Austriaco di Cultura), Sigrid Berka (Console Generale d’Austria). Ringraziamo inoltre Pietro Bianchi, Daniela Brogi, Lorenzo Rossi. Per la selezione di cortometraggi “Women’s Best of Cilect Prize” ringraziamo Sylvia Borges, Talkhon Hamzavi, Marta Karwowska, Sara Kern, Ida Lindgren, Valentina Sutti, Ramona Mismetti, Cilect - Centre International de Liaison des Ecoles de Cinéma et de Télévision. Un ringraziamento particolare a Germana Bianco e Laura Zagordi (Milano Scuola di Cinema e Televisione - Fondazione SCM). Per le anteprime di Lulu femme nue, Devil’s Knot, La luna su Torino, The Imposter ringraziamo Sólveig Anspach, Atom Egoyan, Davide Ferrario, Bart Layton e Arnaud Aubelle, Matthieu Marin (Le Pacte, Parigi), Giuseppe Davalli (Notorious Pictures), Gianluca Pavesi (Pga, Milano), Alessandro Giacobbe (Academy Two), Anastasia Plazzotta (Feltrinelli Real Cinema). Per la retrospettiva dedicata a Dirk Bogarde ringraziamo Fleur Buckley (bfi / National Film & Television Archive), Andrew Youdell, James King (bfi / Film Distribution Library), Laurence Berbon (Tamasa Distribution), Nick Varley (Park Circus), Raphaël Pollart (Jupiter Communications, Parigi), Gisela Wiltschek (Global Screen, Monaco), Luke Brawley (Hollywood Classics), Emanuela Martini. Un ringraziamento particolare a Sandro Avanzo e Tiziana Sonia Spelta per la riedizione del fotoromanzo I disperati. Per la rassegna “Ma papà ti manda sola?” ringraziamo Nick Varley (Park Circus), Peter Lang (NBCUniversal), Vincent Dupré (Théâtre du Temple), Dario Catozzo (Lab 80 film), Yuanye Lu, Margot Rossi (Mk2). Per la “Fantamaratona” ringraziamo Nick Varley (Park Circus), Sébastien Tiveyrat (Swashbuckler Films), Luke Brawley (Hollywood Classics). Per la proiezione di Adam’s Rib ringraziamo ancora Vincent Dupré (Théâtre du Temple). Per la personale dedicata a Pierre-Luc Granjon ringraziamo naturalmente Pierre-Luc Granjon insieme a Dominique Templier, Isabelle Brocal, Jeremy Mourlam, (Folimage), François Cadot (Les Éditions Corridor), Camille Condemi (Sacrebleu Productions). Ringraziamo inoltre Monica Corbani, Alessia Perego, Irene Tedeschi, Silvia Palermo, Vincenzo Beschi, Lawrence Thomas Martinelli, Fabrizio Tassi, Festival International du Film de la Rochelle. Per la mostra “Nel regno di Pierre-Luc Granjon” ringraziamo il Comune di Bergamo, Divisione Attività Culturali, Turismo, Giovani, Sport e Tempo Libero, Simone Longaretti, Federico Tacchini, Manuel Sanchioni. Per la sezione “Kino Club” ringraziamo Irene Tedeschi, Silvia Palermo, Vincenzo Beschi (Avisco – AudioVisivoScolastico), Reda Bartkute, Martin Georgiev, Pierre-Luc Granjon, Andres Tenusaar, Carlo Vogale, Matt Wolf. Ringraziamo inoltre Brian Shingles (The Works Film Group). Ringraziamo ancora Irene Tedeschi, Silvia Palermo, Vincenzo Beschi (Avisco - AudioVisivoScolastico) per il laboratorio di animazione “Telepongo” e Vincenzo Gioanola per il workshop di disegno diretto su pellicola.

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Un ringraziamento particolare a Guglielmo Benetti e Patrizia Graziani (Ufficio Scolastico per la Lombardia - Ambito territoriale di Bergamo). La sezione “Bergamo Film Meeting inaugura Bergamo Jazz” è organizzata in collaborazione con Bergamo Jazz. In particolare ringraziamo Enrico Rava, Barbara Crotti, Roberto Valentino, Massimo Boffelli. Per la performance musicale dal vivo, ringraziamo Vincenzo Vasi, Valeria Sturba, Pasquale Mirra. Per la realizzazione della sigla ufficiale di Bergamo Film Meeting 2014 Stefano Testa, Walter Buonanno, Tino Tracanna, Roberto Cecchetto. Per il progetto editoriale “Bfm Upgrade 1.0 - Parole di cinema” ringraziamo Diego Chierichetti e la Fondazione della Comunità Bergamasca. Per il workshop di serigrafia manuale ringraziamo Francesco Portesi e Andrea Baldelli (Corpoc). Per gli allestimenti, gli impianti di proiezione, i computer e l’assistenza informatica delle sale e degli spazi del Festival ringraziamo Lab 80 film, Michele Nolli (Siec), Andrea Pelliccioli (Cinema San Marco), Marino Nessi (Cinema Capitol), Franco Formenti, Emanuele Castelli (Sps), Domenico Toscano (Mmix), Multimedia Files, Fiori Bergamo e PieffeAcme. Per la disponibilità dell’atrio del Palazzo della Libertà ringraziamo Francesca Ferrandino (Prefetto di Bergamo), Monica Masserdotti (Prefettura di Bergamo). Per l’incontro dedicato al nuovo Programma Europa Creativa (2014-2020) a supporto dei settori culturali e creativi ringraziamo Silvia Sandrone (Antenna Media, Torino). Per il match di improvvisazione cinematografica “Cinecittà vs Hollywood” ringraziamo Roberto Capo (Associazione Ardega) e l’associazione Laboratorio 80. Per l’iniziativa “The Blank Kitchen: Artist’s Dinner” ringraziamo Claudia Santeroni e Olga Vanoncini (Associazione The Blank), Giancarlo Agostoni, Matteo Frigeni, Paolo Formenti, Simone Boglioni. Per l’opening e il closing party della 32ª edizione del Festival ringraziamo Stefano Kino Ferri (Circolo Maite), Giorgio Mentisci (Spazio Giovani Edoné). Un ringraziamento particolare a Francesco Perolari (Immobiliare della Fiera) per aver messo a disposizione lo spazio #Sentierone45 e a Roberto Amaddeo per l’allestimento della vetrina presso il ristorante Da Mimmo. Per le convenzioni turistiche e sui trasporti ringraziamo Alessia Longhi (ATB Mobilità S.p.A.), Laura Landi (Turismo Bergamo), Debora Zonari (Ovet Viaggi), Roberto Dal Lago (Associazione Pedalopolis), Elisa Troiani (Bergamo Sostenibile). Per la realizzazione, gli allestimenti, l’organizzazione, l’ospitalità, gli spettacoli, le degustazioni e le proposte culturali del Meeting Point ringraziamo: Antonio Terzi, Pietro Reduzzi, Valentina Ardemagni, Maria Mazza e tutto lo staff del Birrificio Indipendente Elav di Comun Nuovo (BG), Nadia Bettinelli, Luciano Bettinelli (BigMat), Sabrina Dalla Grassa, Stefania Bettoni (Pedrali Dynamic Design), Melissa Magoni (Faip), Marco Zanetti (Zanetti Hi-Fi), Gwendal Cioni (Build10Sport, Queen Garden), Claudia Ferretti, Point Break Vdj, Laura Vignes e Teo Cremaschi, I belli di Kilkenny, Awa Mirone Duo, Claudia Buzzetti - Close Quartet, Giulia Spallino, Veronica Sbergia & Max De Bernardi duo, Caravan Orkestar, The Kaleidoscope Eyes, Amnesty International, Querciabella di Greve in Chianti, Casa Arrigoni, Gianfranco Di Niso, Ctrl Magazine e Calepio Press. Per l’iniziativa After BFM ringraziamo Francesco Traini (Confesercenti), Pietro Bresciani (Ascom), Antonio Terzi, Valentina Ardemagni, Pietro Reduzzi (Birrificio Indipendente Elav), i gestori e i collaboratori dei locali che hanno aderito al circuito: Osteria della Birra, Clock Tower Pub, Circolo Maite, Reef Café, Al Quadrato Bar Caffetteria, Spazio Giovani Edoné, Osteria ai Tre Gobbi, Café de la Paix, Crocevia, Vini e Spiriti, Ristorante Da Mimmo, Ristorante Vertigo e Oca Bianca Osteria. Un sentito grazie a tutti i volontari, i tirocinanti e gli stagisti che hanno contribuito alla realizzazione della 32ª edizione di Bergamo Film Meeting: Alessandro Albrici, Ana Arce, Vanessa Bellezza, Gloria Bettoni, Paola Berardi, Carlotta Bianchetti, Valentina Boglioni, Elena Bonzi, Enea Brigatti, Simone Capoferri, Giulia Castelletti, Bianca Colombo, Francesco Colombo, Andrea Cortesi, Marco De Lucia, Silvia Fontolan, Martina Galletti, Umberto Ghidini, Lisa Gregis, Davide Gritti, Monica Gualandris, Alice Locatelli, Carlotta Maironi Da Ponte, Beatrice Malfa, Gaia Meris, Isotta Paccanelli, Giulia Panza, Clara Pellegris, Alessia Perego, Eleonora Perico, Giulia Poma, Luisa Radici, Silvia Ranica, Isabella Ravetta, Federica Redaelli, Michele Rota, Alessandra Salvoldi, Alessandro Scrignoli, Paola Signorelli, Sara Sozzi, Gianluca Suardi, Federico Tacchini, Jean Marani Tassinari, Alessandra Testa, Anna Tucci, Jenny Vassalli, Clara Zanoli, Marco Zonca. Un ringraziamento particolare a Tiziana Pirola, Auditorium Arts, Adriano Piccardi (Cineforum), Gigi Zucchetti, Maria Traldi, Pia Conti. Per l’insostituibile presenza Paola e Giulia, Fede, Paolo.

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COMITATO D’ONORE Franco Tentorio Sindaco di Bergamo Claudia Sartirani Assessore alla Cultura, Spettacolo e Turismo del Comune di Bergamo Mirella Maretti Servizio Attività Culturali e Promozione Turistica del Comune di Bergamo Erminia Renata Carbone Direzione Cultura e Turismo del Comune di Bergamo Alberto Castoldi Angelo Signorelli Bergamo Film Meeting Onlus

BERGAMO FILM MEETING Presidente Alberto Castoldi Direzione Angelo Signorelli Collaborazione alla direzione e coordinamento generale Fiammetta Girola e Chiara Boffelli Ufficio Stampa nazionale Studio Sottocorno – Lorena Borghi Ufficio Stampa locale Ada Tullo Stagista Carlotta Bianchetti Accrediti e Ufficio Ospitalità Fausta Bettoni Stagiste Silvia Fontolan, Vanessa Bellezza, Anna Tucci Comunicazione Chiara Boffelli (coordinamento), Simone Boglioni Stagista Alessandra Testa

La Mostra Concorso è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola, Angelo Signorelli La sezione “Visti da vicino” è organizza da Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli La sezione “Europa: femminile, singolare” è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola, Angelo Signorelli “Women’s Best of Cilect Prize” è organizzata in collaborazione con Milano Scuola di Cinema e Televisione Fondazione SCM Le rassegne “Dirk Bogarde” e “Ma papà ti manda sola?” sono organizzate da Angelo Signorelli, Arturo Invernici, Fiammetta Girola La Fantamaratona è organizzata da Fiammetta Girola, Angelo Signorelli La personale e la mostra dedicate a Pierre-Luc Granjon sono organizzate da Chiara Boffelli Per la realizzazione della mostra hanno collaborato Simone Longaretti, Manuel Sanchioni, Andrea Zanoli La sezione “Kino Club” è organizzata da Chiara Boffelli, Luisa Izzo Il catalogo generale è a cura di Daniela Vincenzi con la collaborazione di Chiara Boffelli, Fiammetta Girola, Arturo Invernici, Angelo Signorelli, Alberto Valtellina Responsabile di redazione Daniela Vincenzi Ricerche bibliografiche e filmografiche Arturo Invernici, Daniela Vincenzi Stagista Alessia Perego Materiali di documentazione e iconografici Fondazione Alasca Il catalogo “Pierre-Luc Granjon” è a cura di Chiara Boffelli Progetto grafico PiEFFE Grafica* con la collaborazione di Maddalena Bianchetti Ufficio stile Altomare, Jena, Muttley, Minimize YP, White Fox, Zukkee

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Stampa Tipolitografia Pagani, Flyeralarm Fundraising e progetto After BFM Chiara Donizelli Coordinatore tecnico Andrea Zanoli Moderatori incontri con gli autori Lorenzo Rossi, Pietro Bianchi Coordinamento stagisti e volontari, progetti con scuole e università Luisa Izzo Traduzioni Stefania Consonni, Monica Corbani, Daniela Vincenzi, Pietro Bianchi, Luisa Izzo Sottotitoli Luisa Izzo (coordinamento), Monica Corbani, Laura Di Mauro, Loretta Mazzucchetti, Paola Micalizzi, Filippo Ruffilli, Martina Fiorellino, Daniela Vincenzi, Pietro Bianchi, Sara Luraschi, Lorenzo Rossi, Roberta Sana Traduzioni incontri con gli autori Monica Corbani, Anna Ribotta, Lorenzo Rossi, Pietro Bianchi, Vanessa Bellezza, Anna Tucci Fotografo Renato Liguori Riprese, elaborazioni grafiche e montaggi video Stefano Testa Pratiche SIAE Dario Catozzo Assistenza sale Enea Brigatti (coordinatore), Valentina Masper, Dario Catozzo (cassieri) Volontari Alessandro Albrici, Ana Arce, Gloria Bettoni, Paola Berardi, Valentina Boglioni, Elena Bonzi, Simone Capoferri, Bianca Colombo, Francesco Colombo, Andrea Cortesi, Marco De Lucia, Martina Galletti, Umberto Ghidini, Lisa Gregis, Davide Gritti, Monica Gualandris, Alice Locatelli, Carlotta Maironi Da Ponte, Beatrice Malfa, Gaia Meris, Isotta Paccanelli, Giulia Panza, Clara Pellegris, Alessia Perego, Eleonora Perico, Giulia Poma, Luisa Radici, Silvia Ranica, Isabella Ravetta, Federica Redaelli, Michele Rota, Alessandra Salvoldi, Alessandro Scrignoli, Paola Signorelli, Sara Sozzi, Gianluca Suardi, Federico Tacchini, Jean Marani Tassinari, Alessandra Testa, Jenny Vassalli, Clara Zanoli, Marco Zonca.

Proiezionisti Alessandra Beltrame, Mauro Frugiuele, Pietro Plati, Sergio Visinoni, Giulia Castelletti Proiezioni video e digitali Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli, Lab 80 film Sigla ufficiale di Bergamo Film Meeting 2014 Stefano Testa, Walter Buonanno, Tino Tracanna, Roberto Cecchetto Assistenza informatica Emanuele Castelli Pagine web, Media Box, BFM Mobile Emanuele Castelli (SPS) con la collaborazione di Chiara Boffelli, Simone Boglioni, Paolo Formenti Ospitalità e organizzazione eventi presso il Meeting Point Birrificio Indipendente ELAV Corriere internazionale DHL, TNT Allestimenti LP Grafica & Pubblicità, Mirage, Print Evolution, PieffeAcme Computer e informatica Multimedia Files Assistenza psicologica Lucy van Pelt, Sally Brown, Baruch Spinoza, Linus Jones

©Edizioni di Bergamo Film Meeting Via Pignolo, 123 - 24121 Bergamo (Italia) www.bergamofilmmeeting.it ISBN 978-88-98271-03-0

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Europe loves European Festivals A privileged place for meetings, exchanges and discovery, festivals provide a vibrant and accessible environment for the widest variety of talent, stories and emotions that constitute Europe’s cinematography. The MEDIA Programme of the European Union aims to promote European audiovisual heritage, to encourage the transnational circulation of films and to foster audiovisual industry competitiveness. The MEDIA Programme acknowledges the cultural, educational, social and economic role of festivals by co-financing every year almost 100 of them across Europe. These festivals stand out with their rich and diverse European programming, networking and meeting opportunities for professionals and the public alike, their activities in support of young professionals, their educational initiatives and the importance they give to strengthening inter-cultural dialogue. In 2012, the festivals supported by the MEDIA Programme have programmed more than 20.000 screenings of European works to nearly 3 million cinema-lovers. MEDIA is pleased to support the 32nd edition of the Bergamo Film Meeting and we extend our best wishes to all of the festival goers for an enjoyable and stimulating event. European Union MEDIA PROGRAMME http://ec.europa.eu/culture/media/fundings/festivals/index_en.htm

L’Europa ama i festival europei Luogo privilegiato per gli incontri, gli scambi e le nuove scoperte, i festival offrono un ambiente accessibile e vivace a un’ampia varietà di talenti, storie ed emozioni, che costituiscono la cinematografia europea. Il Programma MEDIA dell’Unione Europea mira a promuovere il patrimonio audiovisivo europeo, a incoraggiare la circolazione transnazionale di film e a favorire la competitività del settore audiovisivo. Il Programma MEDIA ha riconosciuto l’importanza culturale, educativa, sociale ed economica dei festival co-finanziando ogni anno quasi 100 manifestazioni in tutta Europa. Sono festival che si distinguono per la loro ricca e diversificata programmazione europea, per la creazione di networking e occasioni di incontro per i professionisti e il pubblico, per la loro attività a sostegno dei giovani professionisti, per le loro iniziative educative e per l’importanza che danno al rafforzamento del dialogo inter-culturale. Nel 2013, i festival sostenuti dal Programma MEDIA hanno proposto più di 20.000 opere europee a più di 3 milioni di amanti del cinema. MEDIA è lieto di sostenere la 32a edizione di Bergamo Film Meeting e augurare a tutti i frequentatori del festival un’esperienza stimolante e divertente. Unione Europea MEDIA PROGRAMME http://www.ec.europa.eu/information_society/media/index_en.htm 8


Associazione Festival Italiani di Cinema Nel complesso del sistema audiovisivo italiano, i festival rappresentano un soggetto fondamentale per la promozione, la conoscenza e la diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva, con un’attenzione particolare alle opere normalmente poco rappresentate nei circuiti commerciali come ad esempio il documentario, il film di ricerca, il cortometraggio. E devono diventare un sistema coordinato e riconosciuto dalle istituzioni pubbliche, dagli spettatori e dagli sponsor. Per questo motivo e per un concreto spirito di servizio è nata nel novembre 2004 l’Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic). Gli associati fanno riferimento ai principi di mutualità e solidarietà che già hanno ispirato in Europa l’attività della Coordination Européenne des Festivals. Inoltre, accettando il regolamento, si impegnano a seguire una serie di indicazioni deontologiche tese a salvaguardare e rafforzare il loro ruolo. L’Afic nell’intento di promuovere il sistema festival nel suo insieme, rappresenta già oggi più di trenta manifestazioni cinematografiche e audiovisive italiane ed è concepita come strumento di coordinamento e reciproca informazione. Aderiscono all’Afic le manifestazioni culturali nel campo dell’audiovisivo caratterizzate dalle finalità di ricerca, originalità, promozione dei talenti e delle opere cinematografiche nazionali ed internazionali. L’Afic si impegna a tutelare e promuovere, presso tutte le sedi istituzionali, l’obiettivo primario dei festival associati.

The Association of Italian Film Festivals Within the framework of the Italian audiovisual system, film festivals are fundamental in the promotion, awareness and diffusion of cinema and audiovisual culture, as they pay particular attention to work that is usually not represented by commercial circuits, such as, for example, documentaries, experimental films and short films. And they must become a system that is coordinated and recognized by public institutions, spectators and sponsors alike. For this reason, and in the explicit spirit of service, the Association of Italian Film Festivals (Afic) was founded in November, 2004. The members follow the ideals of mutual assistance and solidarity that are the guiding principles of the Coordination Européenne des Festivals and, upon accepting the Association’s regulations, furthermore strive to adhere to a series of ethical indications aimed at safeguarding and reinforcing their role. In its objective to promote the entire festival system, the Afic already represents over thirty Italian film and audiovisual events and was conceived as an instrument of coordination and the reciprocal exchange of information. The festivals that are part of the Afic are characterized by their search for the new, originality, and the promotion of talent and national and international films. The Afic is committed to protecting and promoting, through all of its institutional branches, the primary objective of the member festivals. Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic) Via Villafranca, 20 - 00185 Roma, Italia

Coordinamento dei Festival e delle Iniziative Cinematografiche della Lombardia Questo coordinamento nasce dall’esigenza di costruire un progetto in comune tra le iniziative che da anni svolgono un ruolo determinante sul territorio lombardo, con specificità diverse ma con intenti comuni di approfondimento e diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva in genere. Il cinema continua ad essere un momento importante e necessario di partecipazione e aggregazione del pubblico e di riflessione sui grandi temi della contemporaneità. Il sistema dei Festival e di altre iniziative legate in particolare all’associazionismo, alla distribuzione e all’esercizio inteso come organizzazione di circuiti di sale, gioca un ruolo importante per la formazione degli spettatori e per la valorizzazione delle opere di qualità. Da un anno ormai il Coordinamento sta lavorando, tra l’altro, sull’organizzazione di iniziative in comune, la messa in rete delle proposte, la condivisione di strategie per la diffusione delle opere e degli autori, un più intenso scambio di idee e momenti di verifica sui lavori in corso, con la convinzione che il confronto è sempre la strada migliore. This coordinating group comes from the need to build up a common project by the initiatives which for several years have played a decisive role in Lombardy, with different specificities but with common intentions of studying and diffusing film and audiovisual culture in general. The cinema continues to be an important and essential occasion for participation and aggregation by the public and for reflection on the major issues of the contemporary period. The system of the Festivals and of other initiatives linked in particular to associations, distribution and exhibition understood as the organization of circuits of cinemas, plays an important role in forming audiences and promoting quality films. The Coordinating Group has now been at work for one year, organizing common initiatives, pooling proposals, sharing strategies for the distribution of films and directors and with a more intense exchange of ideas and opportunities to monitor works in progress, with the conviction that discussion is always the best path to take.

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Sommario pag. 13 Inventare il futuro MOSTRA CONCORSO • EXHIBITION COMPETITION 18 La dune/The Dune • Silmäterä/The Princess of Egypt • Yam dam • Leave to Remain • Roxanne • Zapelji me/Seduce Me • Wolf 33 34

VISTI DA VICINO • CLOSE UP Conversazioni di Alberto Valtellina The Women Pioneers • Ring People • Dayana Mini Market • American Dreamer • The Road: A Story of Life and Death • Praznovanje/Celebration • The Imposter/The Imposter – L’impostore • El futuro/The Future • Chaumière/Rooms Without a View • The Undertaker • Četrdesmit divi/Forty Two • Layla’s Melody • Loin des yeux/Out of Sight • Gangster te voli/Gangster of Love • The Special Need

EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE Sólveig Anspach 50 Lost in Translation. La “terra di mezzo” del cinema di Sólveig Anspach di Pietro Bianchi 55 Biofilmografia di Sólveig Anspach 56 Sandrine à Paris • Barbara, tu n’es pas coupable • Que personne ne bouge! • Haut les coeurs! • Made in the USA • Reykjavik, des elfes dans la ville • Stormy Weather • Faux tableaux dans vrais paysages islandais • Skrapp út/Back Soon • Louise Michel, la rebelle • Anne et les tremblements • Queen of Montreuil • Lulu femme nue Antonietta De Lillo 69 Il cinema di Antonietta De Lillo di Daniela Brogi 73 Biofilmografia di Antonietta De Lillo 74 Una casa in bilico • Matilda • Angelo Novi fotografo di scena • Promessi Sposi • La notte americana del dr. Lucio Fulci • Racconti di Vittoria • Viento ’e terra • Maruzzella [ep. di I vesuviani] • O’ cinema • ’Osolemio • Non è giusto • Pianeta Tonino • Il resto di niente • Il pranzo di Natale • La pazza della porta accanto – Conversazione con Alda Merini 89 93 94

Jessica Hausner Il diavolo non dorme mai di Lorenzo Rossi Biofilmografia di Jessica Hausner Flora • Inter-View • Lovely Rita • Hotel • Toast • Lourdes

WOMEN’S BEST OF CILECT PRIZE 100 Civica Educazione • Zu dir? • Parvaneh • Sowa • Maks • Clownmedicin • Thinking About ANTEPRIME 106 Devil’s Knot/Devil’s Knot – Fino a prova contraria • La luna su Torino 108 110

BERGAMO FILM MEETING INAUGURA BERGAMO JAZZ The Unknown/Lo sconosciuto • Un témoin dans la ville/Appuntamento con il delitto CULT MOVIE Adam’s Rib/La costola di Adamo


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DIRK BOGARDE Un “love affair” con la macchina da presa di Emanuela Martini Filmografia di Dirk Bogarde a cura di Arturo Invernici Boys in Brown • The Blue Lamp/I giovani uccidono • Hunted/La colpa del marinaio • The Gentle Gunman • Desperate Moment/I disperati • The Sleeping Tiger/La tigre nell’ombra • Cast a Dark Shadow/La poltrona vuota • Doctor at Sea/Incontro a Rio • The Spanish Gardener/Il giardiniere spagnolo • A Tale of Two Cities/Verso la città del terrore • Libel/Il diavolo nello specchio • Victim • H.M.S. Defiant/Ponte di comando • The Mind Benders/Il cranio e il corvo • I Could Go On Singing/Ombre sul palcoscenico • The Servant/Il servo • King & Country/Per il re e per la patria • Darling • Our Mother’s House/Tutte le sere alle nove • Accident/L’incidente • Götterdämmerung/La caduta degli dei • Providence • Despair

MA PAPÀ TI MANDA SOLA 148 Quelle brave ragazze! di Angelo Signorelli 153 It Happened One Night/Accadde una notte • Hands Across the Table/I milioni della manicure • Nothing Sacred/Nulla sul serio • Bringing Up Baby/Susanna • 5th Avenue Girl/La ragazza della Quinta Strada • Ball of Fire/Colpo di fulmine • The Lady Eve/ Lady Eva • Bell, Book and Candle/Una strega in paradiso • What’s Up, Doc?/Ma papà ti manda sola? • Une belle fille comme moi/Mica scema la ragazza! FANTAMARATONA 164 The Fearless Vampire Killers/Per favore, non mordermi sul collo • Carrie/Carrie – Lo sguardo di Satana PIERRE-LUC GRANJON 168 Pierre-Luc Granjon di Xavier Kawa-Topor 171 Petite escapade • L’enfant sans bouche • Le château des autres • Le loup blanc • L’hiver de Léon • Le printemps de Mélie • L’été de Boniface • L’automne de Pougne • La grosse bête CARTA BIANCA A PIERRE-LUC GRANJON 176 Haut pays des neiges • The Man with the Beautiful Eyes • La funambola • Peter & The Wolf • Kodomo no keijijougaku/A Child’s Metaphysics • Old Fangs • Wakaranai buta/In a Pig’s Eye • Palmipedarium • Everything I Can See from Here • Briganti senza leggenda KINO CLUB 182 1, 2, 3... Kino Club 183 Teenage • Variazioni sul quadrato • Kalté • 7596 Frames • Kolmnurga afäär/TheTriangle Affair • Una furtiva lagrima

187 Cartoni animati in... corsia! 188 Pezzetti, Conta delle case, L’elefante, Se fossi…, Domande, L’omino della gru, Facce, facce e facce

192 Indice dei registi • Index to directors 193 Indice dei film • Index to films 194 Indice generale • Contents


GRAZIE DI NOVANTATRÉ VOLTE “GRAZIE!” a: Maurizio Alborghetti, Lara Armellini, Glauco Barboglio, Filippo Barcatta, Gabriella Barcellini, Ezio Belotti, Andrea Bertolissi, Claudia Berzi, Vincenzo Beschi, Alessandra Bianchi, Simone Boglioni, Sonia Bombardieri, Marta Bongiorno, Diego Bonicchio, Gianluigi Bozza, Paola Brunetta, Graziano Caldiani, Giacomo Carrara, Roberto Carrara, Alessandra Cavagna, Gabriella Cavagna, Fabio Ceresoli, Leyla Ciagà, Monica Corbani, Raffaella Cornelli, Paolo Crivelli, Stefano Davì, Beppe De Caro, Luigi Della Torre, Laura Di Mauro, Alfredo Di Sirio, Giuseppe Donadoni, Chiara Drago, Enrobo, Gloria Facchinetti, Michela Facchiro, Rita Fenaroli, Fondazione A.J. Zaninoni, Bruno Fornara, Cinzia Fradusco, Fabio Fruga, Mauro Frugiuele, Luigi Giavazzi, Ornella Genua, Nadia Ghisalberti, Alessandra Girola, Mario Girola, Simona Girola, Giorgio Gori, Olga Korbut, Lia Grassi, Silvia Infascelli, Valentina Invernici, Dunja Lavecchia, Annalisa Locati Spini, Sara Luraschi, Roberta Marchetti, Silvia Mattioli, Giusi Mascali, Giorgio Mastrorocco, Matteo Minelli, Guido Molinero, Fabio Montale, Alessandro Morelli, Simone Paganoni, Silvia Palermo, Anna Pedroncelli, Paolo PieffeAcme, Pippo-3, Silvana Poma, Sabrina Regazzi, Giulia Riccardi, Carla Rossi, Beniamino Rossini, Emanuele Rozzoni, Giorgio Rubino, Giulio Russi, Roberto Saba, Stefania Scarpellini, Riccardo Schwamenthal, Luca Sensi, Angelo Signorelli, Paola Signorelli, Monica Silva, Paola Suardi, Silvana Tacchio, Irene Tedeschi, Francesco Trombetta, Alessandro Vailati, Jenny Vassalli, Federico Villa, Sergio Visinoni, Virgilio Zambelli, Stefano Zenoni. Si ringrazia in particolar modo il Ristorante Vertigo.

Da dicembre a metà febbraio la piattaforma Ulule ha ospitato la raccolta fondi di Bergamo Film Meeting. Grazie ai vostri sostegni abbiamo raggiunto quota 5592 euro, oltre il 124% dell’obiettivo che ci eravamo preposti! Grazie a tutti coloro i quali hanno creduto nel nostro progetto e ci hanno permesso di arrivare così in alto. Grazie a chi ha supportato il cinema di qualità. Grazie a chi ha creduto nei giovani autori emergenti. Grazie a chi ha prediletto il cinema in lingua originale. Grazie a chi ha sostenuto la riscoperta dei grandi classici. Grazie a chi ha aiutato un grande evento culturale. Grazie di cuore a tutti voi che avete reso possibile tutto questo. I fondi raccolti sono stati destinati alla copertura delle spese artistiche: ai noleggi dei film e al sottotitolaggio dei film stranieri, per garantire la quantità e la qualità dell’offerta per il nostro pubblico durante i 9 giorni della manifestazione. Abbiamo sottotitolato in lingua italiana e in inglese alcuni dei 22 film delle sezioni Mostra Concorso e Visti da Vicino e coperto una parte di spese di noleggio alle case di produzione e distribuzione dei film delle sezioni Mostra Concorso e Visti da Vicino.


INVENTARE IL FUTURO «Finiscila! Cerca almeno di morire da uomo coraggioso!» «Ma io non posso morire: ho un appuntamento» (Accadde una notte di Frank Capra, 1934) Uno spettro si aggira per l’Europa ed è l’Europa stessa. Un’idea, un sogno, un oggetto, forse una chimera: se ne potrebbero usare tanti di termini per esprimere una realtà piena di promesse, di traguardi, di futuro. Insomma, una meta dal percorso complicato ma nei desideri conquistabile. Le cose stanno andando diversamente o, in ogni caso, i ritardi, le complicazioni, gli impedimenti, le assenze sembrano aumentare ogni giorno di più. L’analisi degli esperti è sempre la solita: c’è stata più unione economica che politica, le differenze e le distanze tra i Paesi continuano a essere un freno più che una risorsa, movimenti antieuropei trovano nuova linfa nelle difficoltà portate dalla crisi economica, risvegliando populismi, nazionalismi, atteggiamenti xenofobi, rivolte di piazza. Queste espressioni di malcontento, unite all’incapacità delle istituzioni di porsi come baluardo alle derive antidemocratiche e agli interessi di parte, riescono purtroppo a nascondere millenni di Storia e di cultura e non fanno emergere quanto di positivo la caduta delle barriere doganali, la libera circolazione delle merci e delle competenze, i trasferimenti e la comunione dei saperi, gli scambi formativi, la facilità degli spostamenti, la delocalizzazione dell’istruzione, hanno portato nelle abitudini e nella mente di milioni di persone, di tantissimi giovani che possono crescere con orizzonti molto più ampi e con una ricchezza di opportunità mai vista prima. Bergamo Film Meeting ha scelto di credere che il Vecchio Continente è ancora in grado di uscire dal letargo delle speranze e delle occasioni mancate. Lo abbiamo già detto più volte: il cinema è uno strumento di conoscenza che mantiene viva la sua presa sul mondo, soprattutto oggi che il linguaggio audiovisivo sta vivendo grandi trasformazioni a causa delle nuove tecnologie digitali, dell’espandersi delle produzioni che entrano nel vivo della realtà come il documentario nelle sue diverse modalità creative, della sempre maggiore attenzione, nel cinema di finzione, verso storie che raccontano la vita, la memoria, i sentimenti, le fatiche quotidiane, i luoghi della visibilità. Da tre anni, l’associazione ha intrapreso diversi cammini di ricerca, portando l’attenzione su alcune specificità, alcune tendenze che caratterizzano la contorta geografia di un’Europa ancora in costruzione. L’abbondanza e l’articolazione della produzione e della distribuzione audiovisive, lo scambio intenso di informazioni con operatori degli altri Paesi dell’Unione, hanno creato un circuito fino a pochi anni fa impensabile, reso ancora più facile dalla “leggerezza” dei supporti utilizzati, condizionando in senso favorevole la quantità e la qualità delle proposte rivolte a un pubblico sempre più attento e più libero, meno condizionato dalle logiche impositive dei mercati. Così, per non venir meno ai nostri “doveri”, abbiamo deciso, quest’anno, di iniziare un percorso biennale di perlustrazione nell’universo femminile – la sezione Europa: femminile, singolare –, coinvolgendo alcune registe donne che si sono segnalate per l’efficacia dell’analisi, l’originalità dell’interpretazione e la sensibilità alle situazioni che meglio rappresentano il mondo dell’esperienza e le interazioni tra i singoli e le diverse comunità di riferimento. L’italiana Antonietta De Lillo, l’islandese Sólveig Anspach, l’austriaca Jessica Hausner sono le protagoniste dell’edizione 2014; tre donne e tre Paesi a confronto, dal freddo dell’estremo Nord al calore del Mediterraneo. Un viaggio tra le asprezze e le sorprese dell’esistenza, fatto di testardaggini, aspettative, delusioni, stravaganze, espedienti; uno sguardo coniugato al femminile singolare, ansioso con tenerezza, lucido con complicità, carnale con trepidazione. L’Europa dei cittadini: così si potrebbe chiamare il tema che accomuna molti film, compresi quelli della sezione concorso. Ma siamo lontani, oggi, dai sociologismi e dagli psicologismi dei decenni passati; le storie riguardano soggetti che agiscono contro qualcosa, contro gli altri, contro ambienti e circostanze ostili, a difesa della propria individualità, della propria unicità. Sono uomini e donne che cercano di resistere, di contrapporre il valore delle loro scelte e il fine morale che si sono assegnati, sfidando anche con la violenza – e spesso subendola – le regole dell’appartenenza e gli abusi dell’emarginazione. È un po’ come se ciascuno si portasse addosso un pezzetto di una crisi enormemente più grande, che chiude alla speranza e impedisce di immaginare un mondo migliore.

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Una strega in paradiso

Ma dalla loro c’è la volontà tenace di essere qualcuno, di mettere in campo le proprie intenzioni, di reagire al rifiuto e all’umiliazione. A volte con ironica spregiudicatezza, a volte con sgangherata imprudenza. La casa, il villaggio, il posto di lavoro o quello di ritrovo, i luoghi della frequentazione pubblica, sono i teatri più comuni del conflitto e i confini ristretti entro cui giocare il tutto per tutto. Il cinema europeo è diventato territoriale e “di vicinato”, sta tra le persone, perché da qui bisogna ripartire per comprendere gli effetti della deriva e le cause del naufragio, ma anche l’ostinazione, la voglia di “urlare” la propria dignità. Come dicevamo, ognuno di noi si porta dentro un immenso “lascito” di ideologie e di culture, con cui bene o male deve fare i conti; le domande da porsi sono diverse e forse tutte derivano da quella apparentemente più generica: cosa significa, oggi, dirsi europei, sentirsi parte di una comunità transnazionale che faccia sentire la sua voce nelle organizzazioni degli Stati e sia protagonista vera delle scelte politiche a livello globale? Per questo motivo bisogna sentirsi abitanti di un progetto che erode i confini e gli egoismi degli Stati sovrani, provare quel sentimento di comunanza e di reciprocità; in poche parole bisogna conoscere l’altro, condividerne le aspirazioni e i modi del coinvolgimento sociale. Per chi ha la passione del cinema è importante l’incontro con registi di altri Paesi, con le tante storie che si svolgono in contesti lontani o estranei, con gli sguardi che interrogano il reale in maniera diversa, con linguaggi non usuali, perché tutto ciò può aiutarci ad allargare i nostri orizzonti, a superare gli steccati non solo geografici ma anche e soprattutto mentali, a ravvivare la nostra curiosità. In pratica, a non rimanere inerti e chiusi nel nostro orticello. Viviamo in un periodo difficile, lo sappiamo, ma siamo convinti che un po’ di divertimento intelligente può dare ristoro allo spirito che, di tanto in tanto, si lascia prendere dalla sfiducia e dallo sconforto. Con la rassegna Ma papà ti manda sola? vogliamo liberare l’ingorgo psicologico, vogliamo “difendere” gli aspetti rocamboleschi, scanzonati e folli della vita, proponendo film che a torto sono stati considerati puramente di evasione: commedie che sono meccanismi a orologeria, personaggi femminili dirompenti, catastrofi annunciate, una vitalità debordante, un disordine non casuale, un ritmo che a volte lascia senza fiato. L’intrattenimento intelligente, l’equivoco esilarante e la risata liberatoria, per dire che il cinema può anche essere un’efficace terapia contro la penuria del presente. Così, possiamo anche immaginare che il problema delle risorse, sempre insufficienti e sempre a rischio, sia solo una fase passeggera, simile agli ostacoli che, nella finzione, disseminano sapientemente la trama, che, per buona pace degli spettatori, si concluderà con l’inevitabile lieto fine. Alcuni potrebbero dire che, con queste ultime considerazioni, siamo riusciti ancora una volta a toccare il problema, seppure in maniera un po’ trasversale. La questione rimane aperta e la guardia

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va tenuta alta. Per restare in ambito europeo, non possiamo non rimarcare, ad esempio, la differenza con manifestazioni simili alla nostra, che dispongono di aiuti di gran lunga maggiori, sia pubblici che privati. Questo è un dato che – ne siamo assolutamente coscienti – non riguarda solo le nostre attività, ma in generale il mondo della cultura. Siamo anche portati a pensare che le difficoltà, se da un lato ci costringono a una condizione di persistente e deprimente “precariato”, dall’altro possono anche costituire la base per inventare diverse e più attuali strategie, ovviamente con le dovute garanzie sul lungo periodo e con il giusto valore attribuito alle competenze e alle specificità. Per questo motivo auspichiamo una maggiore collaborazione con gli enti pubblici e privati che mostrano maggiore sensibilità allo sviluppo delle attività culturali. Siamo convinti che ci deve essere un confronto più frequente con i soggetti più attivi sul territorio, in relazione soprattutto alle strategie che interessano lo sviluppo futuro della città, la gestione delle risorse, il recupero e l’uso degli spazi, i tempi di assegnazione dei contributi, l’utilizzo più efficace e aggiornato della comunicazione via internet, la progettazione di nuove situazioni culturali, il miglioramento dell’ospitalità e dell’accoglienza, la capitalizzazione delle relazioni europee, il sistema delle garanzie e delle priorità, la filosofia degli investimenti. Siamo molto soddisfatti del risultato raggiunto dalla raccolta fondi online, lanciata alla fine dello scorso anno; in pochi giorni abbiamo raggiunto la quota necessaria per rendere effettivo il sostegno di tutti quelli che hanno deciso di darci una mano. A loro vanno il nostro ringraziamento e la nostra gratitudine, non solo per avere contribuito economicamente alle spese – in particolare quelle per il noleggio delle copie e il sottotitolaggio dei film stranieri –, ma per l’affetto e la solidarietà che abbiamo percepito e che, lo confessiamo vincendo la nostra tradizionale reticenza, ci suscita anche un po’ di commozione. Pensiamo che aiutare il festival a sopravvivere significa investire in cultura, in opportunità di conoscenza. Questa è la responsabilità che sentiamo e che ci stimola, ad ogni edizione, a costruire un programma il più possibile vario e intrigante e, nel corso dell’anno, a realizzare iniziative di ricerca e di approfondimento dei linguaggi audiovisivi. L’associazione nel gennaio 2013 è stata inserita nell’elenco delle Onlus, un tassello in più nella direzione di quella “utilità sociale” a cui Bergamo Film Meeting si è votato fin dalla nascita. Il programma di questa edizione è, come sempre, ricco, articolato, e si offre a molteplici percorsi di lettura. Lo sguardo sul presente, oltre che nella rassegna dedicata alle registe europee, sarà approfondito grazie alle sezioni Mostra Concorso, con sette film inediti in Italia, di giovani registi che già hanno saputo distinguersi per la maturità tecnica ed espressiva, e Visti da Vicino, dedicata al film documentario di ricerca. Una sezione, quest’ultima, che sta crescendo di anno in anno e che testimonia di un settore produttivo particolarmente vivace e in continua evoluzione. Una quindicina di opere che entrano nel vivo della realtà, scoprendo situazioni, personaggi, eccentricità, senza mai rinunciare a invenzioni narrative e a proposte linguistiche di stimolante carica innovativa. Non manca anche quest’anno l’appuntamento alla Porta S. Agostino con la presentazione dell’attività del giovane regista d’animazione e illustratore francese Pierre-Luc Granjon. Un’esposizione che coinvolge le diverse tecniche e modalità espressive utilizzate dall’autore: disegno, grafica, scultura, scenografia, découpage. Di Pierre-Luc Granjon Bergamo Film Meeting proporrà la personale completa, presentando tutti i suoi lavori e la sua Carta bianca, con gli autori che l’hanno maggiormente ispirato durante la sua carriera o di cui semplicemente ha apprezzato il lavoro. La collaborazione con Bergamo Jazz continua con l’accompagnamento musicale dal vivo del film Lo sconosciuto di Tod Browning, un piccolo gioiello arricchito delle invenzioni sonore del trio di Vincenzo Vasi, specialista di uno strumento molto particolare chiamato theremin; sarà per tutti una scoperta davvero avvincente. Altre iniziative arricchiscono il cartellone 2014, come le proposte per i più giovani con la sezione Kino Club, e i laboratori sulle tecniche dell’audiovisivo: il workshop di animazione con Vincenzo Gioanola, un regista torinese, anche illustratore, musicista, autore di spot, videoclip e sigle, con alle spalle oltre trent’anni di attività nel settore e l’ormai consolidata collaborazione con l’associazione Avisco di Brescia. Ce n’è per tutti. E, se riusciamo anche a incantare il nostro pubblico per mezzo dello sguardo magnetico e inquietante di Dirk Bogarde, la sua intrigante eleganza, il suo provocatorio distacco e la sua aria sorniona, vuol dire che avremo soddisfatto il piacere dell’occhio e catturato la mente con il fascino, resistente al tempo, della proiezione su grande schermo. Bergamo Film Meeting

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Conversazioni Alberto Valtellina

«Scrivere, quando è fatto a dovere, non è che un altro nome per conversare, e il più sincero omaggio che si possa fare all’intelligenza del lettore è di spartire il lavoro in due, amichevolmente, e lasciare ch’egli inventi la sua parte». Così Laurence Sterne all’interno del suo capolavoro Tristram Shandy. L’affermazione ci pare funzioni perfettamente anche per quanto riguarda la selezione dei film della rassegna Visti da Vicino – Close Up. Le “conversazioni” avvengono fra gli autori e i soggetti ripresi, fra gli autori e gli spettatori, fra i soggetti ripresi e gli spettatori, in un continuo rimando di suggestioni cinematografiche, di coinvolgimenti personali e intime rivelazioni, sempre discretamente esposte. È affascinante percepire (o immaginare, intuire) le tattiche seduttive scelte dagli autori per trovare un contatto con i soggetti ripresi. Questo richiede un’attenzione particolare allo spettatore, un’attenzione volta ai molteplici livelli su cui il film viene elaborato. Nella maggior parte dei casi, infatti, i film appaiono semplici e diretti, ma i lavori più efficaci si rivelano, al contrario, esiti di un piano complesso e articolato. L’autore riesce a sintetizzare, nei pochi minuti concessi al film, il tempo dedicato alla produzione: le ore e i giorni passati con gli interpreti, i pensieri, le idee, i ripensamenti, gli scrupoli di carattere etico che soprattutto questo cinema impone. In questo senso la definizione del documentario come “cinema della realtà” si rivela molto riduttiva: la dimensione cinematografica, l’inattesa chimica dell’incontro, richiesto, forzato, improvviso, ci parlano di contatti unici; noi percepiamo sottili scariche elettriche irripetibili, cercate, volute ma non create. Così, in Dayana Mini Market di Floriane Devigne, l’autrice realizza un film denso, con una fotografia claustrofobica nel piccolo negozio tamil, ma si accorda con i suoi interpreti per aperture inattese su musica in stile Bollywood. Luis López Carrasco in El futuro parla della Spagna di oggi mettendo in scena, con un gruppo di amici, una festa a Madrid nel 1982, pochi giorni dopo la vittoria del Partito Socialista alle elezioni politiche. La movida è riletta in modo critico, con un occhio al cinema di Peter Watkins. The Women Pioneers, di Michal Aviad, racconta, attraverso rari filmati d’archivio, la realtà, i sogni e le lotte delle donne ebree nei primi kibbutz. Anche qui il sogno si scontra con la realtà di una società che si vuole nuova ma si scopre legata a vecchi stereotipi. Film necessario The Special Need in cui il regista Carlo Zoratti con grande intelligenza cinematografica e creativa, inventa un viaggio, per portare l’attenzione su un problema, quello della sessualità per tutti, ignorato in Italia a causa di un blocco culturale inestirpabile. Il protagonista è semplicemente perfetto. Emmanuel Marre, in Chaumiére, ci trattiene e ci ospita nel mondo degli hotel Formule 1, economici, frequentati da un’umanità eterogenea. The Road: A Story of Life and Death di Marc Isaacs è un ingaggio in prima persona del regista, come Ring People di Alfredo Covelli e American Dreamer di Thomas Haley: dietro alla cinepresa forte è la presenza del regista, che si assume senza remore e apertamente la responsabilità per quanto viene registrato, in un’improvvisazione sfumata e attenta. Più classico nella costruzione è Loin des yeux di Britta Rindelaub, sguardo all’interno di un carcere femminile svizzero. La “semplice complessità” si trova espressa in modo pieno in The Undertaker, di Dragan Nikolić: Bata trasporta cadaveri di serbi dall’Europa alla Serbia e in Europa i cadaveri di turisti morti in Serbia. Apparentemente si parla di cadaveri, in realtà si parla di Europa. In Gangster of Love, il regista Nebojša Slijepčević scherza, ma non troppo, sulle difficili relazioni interpersonali fra generi e nazioni diversi. Film curioso Forty Two di Laila Pakalnina: parla di record del mondo nella maratona. Gioca con i generi e con gli spettatori Bart Layton con The Imposter: Nicholas Barclay è davvero lo stesso ragazzino scomparso? La selezione per la rassegna è inevitabilmente ristretta a quindici titoli. Le produzioni “documentarie” sono oggi moltissime e, spesso, di grande qualità; durante l’anno proporremo film belli e interessanti che qui non sono stati presentati per “ragioni di spazio”. Le conversazioni continuano... 33


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Michal Aviad

The Women Pioneers Israele/Israel, 2013, 52’, col.

Regia/Director Michal Aviad Montaggio/Editing Erez Laufer Ricerche/Research Tamar Katz, Michal Aviad Musica/Music Jonathan Bar Giora Suono/Sound Aviv Aldema Con/With Noa Barkai, Veronica Kedar, Sivan Levy, Maya Maron, Rotem Zisman-Cohen Produttori/Producers Mor Valtuch, Masha Popov Produzione/Production Eden Productions per/for The New Israeli Fund for Cinema and Television,The Ministry of Culture and Sport, The Israeli Film Council Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts EZ Films (Ray Meirovitz), 14 rue Mandar, 75002 Paris, France, tel. +33 (6) 82473420, ray@ez-films.com, www.ez-films.com

Filmografia/Filmography The Women Pioneers (doc, 2013) Ha’chalutzot (doc, 2013) Lo roim alaich (Invisible, 2011) For my Children (tv, 2002) Lev haaretz (Heart of the Country, tv doc, 2001) Ramleh (doc, 2001) Jenny & Jenny (1997) Daughters of the Sea (1996) Yarita ba’am b’mishehu? (Ever Shot Anyone?, doc, 1995) Ha-nashim mimul (The Woman Next Door, doc, 1992) Acting Our Age (doc, 1988)

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Le donne pioniere [t.l.] Le donne pioniere che vennero in Israele un secolo fa volevano creare un nuovo mondo e una nuova donna, indipendente quanto l’uomo. Poche dozzine di queste donne si stabilirono a Ein Harod. Scrivendo su loro stesse e sul loro mondo, descrivevano la propria lotta per l’uguaglianza e protestavano per essere tenute in silenzio. Women/ Pioneers racconta la storia delle loro vite turbolente attraverso i loro diari, per fornire una nuova prospettiva sui materiali d’archivio di quel periodo. Michal Aviad (Israele) comincia a lavorare come regista nel 1987. La sua filmografia include sei film che hanno vinto premi e sono stati distribuiti a livello internazionale. Fra questi: Acting Our Age (1988), Ever Shot Anyone? (1995) e For My Children (2002). Il film Invisible (2011) ha ricevuto il Premio Ecumenico alla Berlinale, il premio come miglior film e miglior attrice al festiva di Haifa e il Grand Prix al Women Film Festival in Francia. The Women Pioneers The women pioneers who came in Israel a century ago wanted to build a new world and create a new woman, just as independent as men. A few dozen of these women established in Ein Harod. Writing about themselves and their world, they described their fight for equality and protested against how they were silenced. Women/Pioneers tells the story of their turbulent lives through the journals they wrote, which provide a new perspective on archival materials from that time. Michal Aviad (Israel) starts working as director in 1987. Her filmography include six award winning works, internationally distributed, including Acting Our Age (1988), Ever Shot Anyone? (1995) and For My Children (2002). Invisible (2011) has received the Ecumenical Prize at the Berlinale, Best Film and Best Actress at Haifa IFF and the Grand Prix at the Women Film Festival in France.


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Alfredo Covelli

Ring People Italia • USA/Italy • USA, 2013, 38’, col.

La gente del ring [t.l.] Un regista italiano passa del tempo vivendo nella comunità dei senza dimora di Venice Beach, California. La distanza culturale permette al suo obiettivo di catturare l’allegra povertà, la poesia melanconica e la filosofia contraddittoria di queste persone che vivono ai margini, al limitare dell’oceano. Alfredo Covelli (Roma, Italia, 1979) è sceneggiatore e regista. Nel 2011 ha girato il suo primo cortometraggio, una commedia, Nonna si deve asciugare. Nel 2012, dopo un viaggio in Israele e in Palestina, ha prodotto i corti sperimentali Salmon, Missing Parts e Love Letter, Even If You Treat Me Bad. Nel 2013 firma il documentario Ring People, girato nella comunità dei senzatetto di Venice Beach, California. È fondatore della casa di produzione Meproducodasolo.

Regia, Fotografia/ Director, Cinematography Alfredo Covelli Montaggio/Editing Fabrizio Federico Interpreti/Cast Mike, Paul, Barbara, Arthur Venom, Little Skinny Guitar Player, Prince-Beggar-Soul-One, Tony B. Conscious, Lynn, Gucci Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Meproducodasolo (Alfredo Covelli), covelli79@yahoo.it, tel. +39 338 6637144

Ring People An Italian director spends time living with the homeless community in Venice Beach, CA. His cultural distance allows his lens to capture the jubilant poverty, grizzled poetry, and contradictory philosophy of those living in the margins at the ocean’s edge. Alfredo Covelli (Rome, Italy, 1979) is a screenwriter and director. In 2011 he directed his first short film, a comedy, Nonna si deve asciugare. In 2012 he visited Israel and Palestine and produced some experimental short films: Salmon, Missing Parts and Love Letter, Even If You Treat Me Bad. In 2013 he shot Ring People, while he was living in the homeless community in Venice Beach, CA. He’s the founder of his production company Meproducodasolo.

Filmografia/Filmography Ring People (doc, 2013) The Newcomers (short doc, 2012) Love Letter, Even If You Treat Me Bad (short doc, 2012) Missing Parts (short doc, 2012) Salmon (short doc, 2012) Nonna si deve asciugare (Grandma Must Get Dry, short, 2011)

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Floriane Devigne

Dayana Mini Market Francia/France, 2012, 54’, col.

Regia/Director Floriane Devigne Fotografia/Cinematography Georgi Lazarevski Montaggio/Editing Gwénola Héaulme Musica/Music Mathias Duplessy Suono/Sound Benjamin Laurent, Yohann Angelvy, Eddy Laurent, Stephan Bauer Con/With Dayana, Soum, Nila e i loro genitori/ and their parents Produttori/Producers Julie Paratian, Lucie Corman Produzione/Production Sister Productions Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Andana Films, Le village 07170 Lussas, France, tel. +33 (0) 475943467, fax +33 (0) 475942509, sriguet@andanafilms.com, www.andanafilms.com

Filmografia/Filmography La clé de la chambre à lessive [annunciato/announced] Dayana Mini Market (doc, 2012) Sœur Blandine (Sister Blandine, short, 2010) La boîte à tartine (Bread Box, doc, 2007)

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Dayana Mini Market La quindicenne Dayana frequenta una scuola alberghiera nella zona elegante di Parigi. Vive con i genitori, una coppia tamil dello Sri Lanka, e con i fratelli Soum e Nila. Dayana Mini Market è il nome del negozio condotto dai genitori. È anche il luogo dove la famiglia vive stipata dopo lo sfratto subito. Il racconto mostra i membri della famiglia mentre fanno del loro meglio per affrontare le avversità e i problemi finanziari, mentre combattere per l’amore e il denaro diventa la loro occupazione quotidiana. Floriane Devigne (Francia) si è diplomata all’INSAS (Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et des Techniques de Diffusion) di Bruxelles dopo aver studiato lingue a Losanna. Ha lavorato come attrice teatrale, cinematografica e televisiva fra il 1999 e il 2009. Come membro del fondo di aiuto all’innovazione audiovisiva del CNC (Centre National du Cinéma et de l’Image Animée), fra il 2009 e il 2011, ha preso parte all’avventura del Cut-Up. Ha appena terminato le riprese del suo primo lungometraggio documentario dal titolo La clé de la chambre à lessive. Dayana Mini Market 15-year-old Dayana studies in a hotel management school in the posh neighborhoods of Paris. She lives with her parents, a Tamil couple from Sri Lanka, and her two brothers, Soum and Nila. Dayana Mini Market is the name of the corner shop run by her parents. It is also the place where the family had to cram after their eviction. This tale show each member of the family tries their best to cope with adversity and financial problems, while fighting for love and money becomes their daily concern. Floriane Devigne (France) is graduated from the INSAS (Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et des Techniques de Diffusion) in Brussels after studying modern languages in Lausanne. She worked as a stage, movie and television actress between 1999 and 2009. As a member of the CNC (Centre National du Cinéma et de l’Image Animée) audiovisual innovation aid fund, between 2009 and 2011, she also took part in the Cut-Up adventure. She has just finished shooting her first feature-length documentary entitled La clé de la chambre à lessive.


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Thomas Haley

American Dreamer Francia • USA/France • USA, 2013, 32’, col.

Il sognatore americano [t.l.] Julian è un giovane americano alla ricerca di una via nel mondo e di una sua identità, in una nazione che sembra essa stessa soffrire la confusione di una crisi di identità dovuta in gran parte al trauma dell’11 settembre 2001. Sullo sfondo, le celebrazioni per il decimo anniversario del 9/11 e la quotidianità nella Florida del Nord. Il documentario si sofferma sui postumi di un tragico momento della storia americana contemporanea, mettendo a nudo le tensioni all’interno del tessuto sociale. Thomas Haley (Oregon, USA) vive a Parigi dai primi anni Settanta. Ha studiato fotografia, cinema e storia dell’arte. A partire dai primi anni Ottanta lavora come fotoreporter, inviato a Panama, Piazza Tienammen, nei Balcani e in Medio Oriente. Il suo reportage sull’incidente industriale di Bhopal nel 1984 ha vinto il World Press Award. Attualmente si dedica a progetti documentari. American Dreamer è il suo primo film.

Regia/Director Thomas Haley Fotografia/Cinematography Joseph Haley Montaggio/Editing Seamus Haley Produttore/Producer Adriana Ferrarese Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Ceresa Films (Adriana Ferrarese), 8 rue Meynadier, 75019 Paris, France, tel. +33 (0) 611308645, fax. +33 (0) 611308645, adriana.ferrarese@gmail.com

American Dreamer Julian is a young American man searching for his way in the world and his identity, in a country that also seems to be suffering from the confusion of an identity crisis due in large part to the trauma of 9/11. In the background, the tenth anniversary of 9/11 and Julian’s North Florida home. The documentary observs the aftermath of this tragic moment in contemporary American history, baring the tensions in the social fabric. Thomas Haley (Oregon, USA) lives in Paris since the early ’70. He did his university studies on photography, cinema and art history. Since the early ’80, he worked as reporter, from Panama to Tian’anmen Square, the Balkans and the Middle East. His work on the Bhopal industrial accident in 1984 was awarded by the World Press Awards. film.

Filmografia/Filmography American Dreamer (doc, 2013)

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Marc Isaacs

The Road: A Story of Life and Death Gran Bretagna • Irlanda/Great Britain • Ireland, 2013, 75’, col.

Regia, Fotografia/ Director, Cinematography Marc Isaacs Soggetto/Story Marc Isaacs, Iqbal Ahmed Montaggio/Editing David Charap Musica/Music Lance Hogan Interpreti/Cast Keelta, Billy, Peggy, Brigitte, Iqbal Produttore/Producer Marc Isaacs Produzione/Production Bungalow Town Productions Ltd, Crow Hill Films, BBC Distribuzione, Contatti/Distribution, Contacts Andana Films, Le village 07170 Lussas, France, tel. +33 (0) 475943467, fax +33 (0) 475942509, sriguet@andanafilms.com, www.andanafilms.com

La strada, una storia di vita e morte [t.l.] Sulla più antica strada romana della capitale inglese, il regista incontra Keelta, una giovane irlandese che lascia la sua casa per costruirsi una nuova vita. Billy, un vecchio lavoratore irlandese, combatte invece per dare un senso alla sua vita. E poi ci sono Peggy, un’anziana rifugiata ebrea viennese, e Brigitte, una ex hostess originaria della Germania, che hanno entrambe sofferto a causa di matrimoni sbagliati. Infine Iqbal, un mesto portiere d’albergo indiano, che aspetta l’arrivo della moglie dal Kashmir. Marc Isaacs (Londra, Gran Bretagna) è regista e direttore della fotografia. Ha realizzato più di dieci documentari per la BBC e Channel 4 in Gran Bretagna. I suoi film hanno vinto il premio Grierson, quello della Royal Television Society e numerosi riconoscimenti in festival internazionali. Nel 2006 il prestigioso États généraux du film documentaire, festival del documentario di Lussas (Francia), gli ha dedicato una retrospettiva. Nel 2008 è stato insignito della laurea ad honorem dall’Università di West London per il suo lavoro. Attualmente è lettore part-time alla Royal Holloway di Londra. The Road: A Story of Life and Death On the oldest Roman road in the capital, the director meets Keelta, a young Irish woman who leaves her home to build a new life. Billy, a old Irish labourer, is struggling to find a meaning to his life. Then there are Peggy, a 95-year-old Jewish refugee from Vienna and Brigitte, a German born former air hostess, who have both suffered bad husbands. Then Iqbal, an unassuming Indian hotel concierge, who awaits the arrival of his wife from Kashmir.

Filmografia/Filmography The Road: A Story of Life and Death (doc, 2013) Outside the Court (tv doc, 2010) Men of the City (doc, 2009) All White in Barking (doc, 2007) Philipp and His Seven Wives (doc, 2006) Someday My Prince Will Come (tv doc, 2005) Calais: The Last Border (tv doc, 2003) Travellers (tv doc, 2003) Lift (short doc, 2001)

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Marc Isaacs Isaacs (London, Great Britain) is a director and cinematographer. He has made more than ten documentaries for the BBC and Channel 4 in the UK. His films have won Grierson, Royal Television Society and numerous international film festival prizes. In 2006 the prestigious États généraux du film documentaire, documentary film festival in Lussas (France), dedicated him a retrospective. In 2008 he received an honorary doctorate from the University of East London for his work. Currently, he is a part-time lecturer at the Royal Holloway University in London.


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Dajan Javorac

Praznovanje Celebration

Bosnia Erzegovina/Bosnia Herzegovina, 2013, 11’, col.

Festa [t.l.] Fa freddo sul monte Manjaca. In inverno nevica, non ci si può muovere. Chi vive lì deve aspettare che qualcuno arrivi a pulire la strada. Cosa che talvolta capita, altre volte invece no. Il panorama tutto intorno è bianco, il cielo grigio e gli alberi spogli. Nell’attesa delle feste natalizie, c’è chi prende l’acqua dal pozzo mentre la madre munge le mucche. Tutto sottolinea l’isolamento dall’altro mondo, quello abitato, dei sogni. Dajan Javorac (Bosnia Erzegovina) è uno studente del terzo anno dell’Accademia d’Arte di Bagnaluca. È regista e direttore della fotografia. Celebration ha vinto diversi premi ed è stato selezionato al programma per studenti dell’IDFA (International Documentary Film Festival Amsterdam). Forest, suo primo cortometraggio di finzione, ha vinto il premio speciale della giuria al festival di Sarajevo nel 2012.

Regia, Fotografia/Cinematography Dajan Javorac Montaggio/Editing Srdjan Sipka Produttore/Producer Dajan Javorac Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Goat Road (Dajan Javorac), Krfska 126, 78000 Banja Luka, Bosnia Herzegovina, tel. +38 765448885, dajan.javorac@gmail.com, www.celebration-film.com

Celebration It’s cold up on Mount Manjaca. In winter it snows, there’s nowhere to go. People living there must wait that somebody comes to clean the road. Sometimes it happens, and sometimes it does’t. The landscape around is white, the sky is gray and the trees are bare. In preparation for Christmas celebrations, there’s who draws water from the well while the mother milks the cows. Everything underlines the isolation from that other, inhabited, world of the dreams. Dajan Javorac (Bosnia Herzegovina) is a third year student at Academy of Art in Banja Luka. He is a director and cinematographer. Celebration won several awards and was selected at the Student Program of IDFA (International Documentary Film Festival Amsterdam). His first short fiction film Forest won the Special Jury Award at Sarajevo IFF 2012.

Filmografia/Filmography Praznovanje (Celebration, doc, 2013) Šuma (Forest, short, 2012)

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Bart Layton

The Imposter Gran Bretagna/Great Britain, 2012, 99’, col.

Regia/Director Bart Layton Fotografia/Cinematography Erik Alexander Wilson, Lynda Hall Montaggio/Editing Andrew Hulme Scenografia/Set design Jon Oswald Costumi/Costume design Paula Rogers Musica/Music Anne Nikitin Interpreti/Cast Adam O’Brian (Frédéric Bourdin), Anna Ruben (Carey Gibson), Cathy Dresbach (Nancy Fisher), Alan Teichman (Charlie Parker), Ivan Villanueva (l’assistente sociale/ the social worker), María Jesús Hoyos (il giudice/the judge); Charlie Parker [immagini d’archivio/archive footage] Produttore/Producer Dimitri Doganis Produzione/Production Raw Distribuzione/Distribution Feltrinelli Real Cinema

Filmografia/Filmography The Imposter (The Imposter – L’impostore, 2012) Banged Up Abroad [ep. Venezuela] (tv series doc, 2007) 16 for a Day (tv doc, 2006) Banged Up Abroad (tv doc, 2006) Becoming Alexander (tv doc, 2005) The Trouble with Black Men [ep. Work and Education] (tv series doc, 2004)

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The Imposter – L’impostore Nicholas Barclay, un tredicenne texano, sparisce di casa senza lasciare tracce. Tre anni dopo, una notizia sconvolgente: il ragazzo viene ritrovato in Spagna. Dice di essere sopravvissuto a un incredibile rapimento e alle torture di misteriosi aguzzini. La famiglia non vede l’ora di riabbracciarlo, ma il ritrovato Nicholas suscita diversi interrogativi. Com’è possibile che alcuni dettagli del suo aspetto – carnagione, colore degli occhi e dei capelli – siano così radicalmente cambiati, così come certi tratti della sua personalità e il suo accento? Perché la famiglia non sembra accorgersi di queste differenze? E se Nicholas non fosse davvero Nicholas? Bart Layton (Londra, Gran Bretagna) è un filmmaker noto per il suo stile visivo innovativo e le sue sfide alle convenzioni. Ha diretto diversi documentari di successo per emittenti inglesi e americane ed è stato varie volte finalista per il premio al miglior documentario indetto dalla Royal Television Society e ai Grierson Awards. È direttore creativo per la Raw, nota casa di produzione britannica. Negli ultimi anni ha usato la sua esperienza di documentarista per ottenere l’accesso a luoghi off-limits come alcune prigioni di massima sicurezza in America Latina, all’interno delle quali ha portato i suoi attori, dato vita a laboratori e girato film. The Imposter Nicholas Barclay, a 13-year-old Texan boy, disappears without a trace. Three years later, a shocking news: the boy is found in Spain. He says he has survived an incredible abduction and the tortures of mysterious captors. The family is looking forward to embrace him, but the refound Nicholas raises many questions. How is it possible that some details of his appearance –skin tone, eye color and hair – are so radically changed, as well as certain traits of his personality and his accent? Why his family does not seem to notice these differences? And if Nicholas is not really Nicholas? Bart Layton (London, Great Britain) is a filmmaker known for his innovative visual style and his challenges to the conventions. He has directed several acclaimed documentaries for British and American broadcasters and has been for various times a finalist for the award for best documentary organized by the Royal Television Society and the Grierson Awards. He is creative director for Raw, a well-known UK production. In recent years he has used his experience as a documentary filmmaker to gain access in some off-limits places, such as maximum security prisons in Latin America, where he brought his actors, created labs and shot films.


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Emmanuel Marre

Chaumière

Rooms Without a View Belgio/Belgium, 2013, 70’, col.

Camere senza vista [t.l.] Gli hotel Formule 1 sono costruzioni ultra economiche collocate in aree periurbane. Al di là delle porte delle camere, l’uniformità dello spazio, ridotto al minimo funzionale, contrasta e rivela l’inclinazione propria di ciascuno di noi: il sedentario contro il nomade, l’eccesso contro la compostezza, l’abitudine contro la sopravvivenza. Se il protagonista di Chaumière è un solido albergo strutturato, i suoi ospiti non sono così facilmente etichettabili. Emmanuel Marre (Parigi, Fancia, 1980), dopo aver studiato letteratura a Parigi, si è iscritto allo IAD (Institut des Arts de Diffusion) a Louvain-La-Neuve, in Belgio. Attualmente vive e lavora a Brussels, dedicando la sua carriera sia alla fiction che al documentario. Nel suo lavoro cerca di mostrare le fasi della vita quotidiana, il gioco di ruoli che il lavoro e la società impongono e gli sforzi continui per evadere e dimenticare. Al momento lavora al suo primo film di narrazione: Territory.

Regia/Director Emmanuel Marre Fotografia/Cinematography Pierre Choqueux, Vincent Pinckaers Montaggio/Editing Rudi Maerten Suono/Sound Félix Blume, Fabrice Osinski Produttore/Producer Cyril Bibas Produzione/Production CVB − Centre Vidéo de Bruxelles, TS production Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts CVB − Centre Vidéo de Bruxelles (Kim Vanvolsom), 111 rue de la Poste , 1030 Bruxelles , tel. +32 (0)2 2211050 , fax +32 (0)2 2211051, info@cvb-videp.be, www.cvb-videp.be

Rooms Without a View Formule 1 Hotels are ultra cheap establishments set in peri-urban zones. Behind the doors of the rooms, the uniformity of the space, reduced to the strict functional minimum, contrasts and reveals the tension inherent in each human life: sedentary versus nomadic, excess versus restraint, routine versus survival. While the main character of Chaumière is a tightly formatted hotel, its residents are not so easy to package. Emmanuel Marre (Paris, France, 1980), after studies in literature in Paris, went to the IAD (Institut des Arts de Diffusion) in LouvainLa-Neuve, Belgium. Currently, he lives and works in Bruxelles, devoting his career either to fiction films or documentaries. In his work he tries to show the staging of daily life, the role playing that work and society have imposed on us, as well as the continuous efforts to fill and forget. At the moment he is working at his first fiction film: Territory.

Filmografia/Filmography Territory [annunciato/announced] Chaumière (Rooms Without a View, doc, 2013) Le petit chevalier (The Little Knight, short, 2011)

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Luis López Carrasco

El futuro The Future

Spagna/Spain, 2013, 67’, col.

Regia/Director Luis López Carrasco Fotografia/Cinematography Ion de Sosa Montaggio/Editing Sergio Jiménez Musica/Music Ciudad Jardin, Ultima emoción, Ataque de Caspa, Flácidos lunes, Fanzine, Aviador dro, Oviformia sci, Los iniciados, Monaguillosh Suono/Sound Jose Alarcón, Jaime Lardíés Costumi/Costume Design Ana Martínez Fesser Produttori/Producers Ion de Sosa, Luis Ferrón, Manuel Calvo, Roberto Butragueño Produzione/Production Encanta Films Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Elamedia, c/eros 7, portal B, 9F, 28045 Madrid, Spain, tel. +34 (9)11 727412, elamedia@elamedia.es, www.elamedia.es

Filmografia/Filmography El futuro (The Future, doc, 2013) Árboles [coll. Los Hijos] (Trees, doc, 2013) Enero 2012 o la apoteosis de Isabel la [coll. Los Hijos] (January 2012 or the Apotheosis of Isabel the Catholic, doc, 2012) Tarde de verano [coll. Los Hijos] (Summer Afternoon, doc, 2011) Circo [coll. Los Hijos] (Circus, doc, 2010) Los materiales [coll. Los Hijos] (The Materials, doc, 2009) Para ser cajera del súper siempre hay tiempo (short, 2007)

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Il futurO [t.l.] Un gruppo di giovani ballano e bevono in una casa. L’atmosfera è festosa e allegra. La vittoria del PSOE (Partido Socialista Obrero Español) nelle elezioni del 1982 è recente e la notte è contagiata dall’euforia per la vittoria. In Spagna, in quell’anno, tutto poteva accadere, tutto era futuro. Un film tra fiction e documentario, con un occhio particolare al cinema di Peter Watkins. Luis López Carrasco (Murcia, Spagna, 1981) è regista, scrittore e artista visivo. È co-fondatore del collettivo Los Hijos, che si dedica al cinema documentario e sperimentale. Le opere del collettivo sono state presentate in numerosi festival internazionali. El futuro è il suo primo film come solista. The Future A group of young people dance and drink in a house. The atmosphere is warm and happy. The PSOE (Partido Socialista Obrero Español) has recently won the elections of 1982 and the night is filled with contagious euphory for the win. In Spain, in that year, everything could happen, everything was meaning future. A film between fiction and documentary, with an eye on Peter Watkins’ work. Luis López Carrasco (Murcia, Spain, 1981) is a director, writer and visual artist. He is co-founder of the collective Los Hijos, that works on documentary and experimental cinema. Los Hijos were invited in many international festival. El futuro is his first solo film.


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Laila Pakalnina

Četrdesmit divi Forty Two

Lettonia/Latvia, 2013, 56’, col.

Quarantadue [t.l.] «Vorrei far capire qualcosa della maratona a quelli che non la corrono, perché non vogliono o perché non possono. Come a esempio mia madre, che ha dolori alle gambe. È come se fossi una spia mandata a correre la maratona». (L. Pakalnina) Laila Pakalnina (Liepaja, Lettonia, 1962), diplomata al prestigioso VGIK, scuola di cinema moscovita, al Dipartimento di Regia, nel 1991. È regista e sceneggiatrice, con all’attivo ventitrè documentari, cinque cortometraggi e quattro lungometraggi narrativi. Oltre ai trentadue film, ha due figli, un marito, un cane e una bicicletta. E molte idee per nuovi film. Le sue opere sono state presentate ai principali festival cinematografici internazionali, come Cannes, Venezia, Berlino, Locarno e Roma.

Regia, Produttore/ Director, Producer Laila Pakalnina Fotografia/Cinematography Kriss Rozins, Arko Okk, Uldis Cekulis, Anna Pakalnina, Uldis Jancis Montaggio/Editing Kaspar Kallas Suono/Sound Anrijs Krenbergs Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Hargla (Laila Pakalnina), Valtaiku 19, LV-1029 Riga, Latvia, tel. +371 29235618, fax +371 67577686, laila.pakalnina@inbox.lv

Forty Two «I wish to bring out something from inside of the marathon run for those who do not run it, because they don’t want or because they can’t. For example, for my mum, whose legs are aching. I am acting like a spy sent in the marathon run». (L. Pakalnina) Laila Pakalnina (Liepaja, Latvia, 1962), graduated from the prestigious Moscow Film Institute (VGIK), Department of Film Direction, in 1991. She is director and scriptwriter of 23 documentaries, 5 shorts, 4 fiction features. Besides her 32 films, she has two children, one husband, one dog and one bicycle. And many ideas for new films. Her works were screened in most important international film festival, such as Cannes, Venice, Berlin, Locarno and Rome. Filmografia/Filmography Skurstenis (The Chimney, doc, 2013) Četrdesmit divi (Forty Two, doc, 2013) Picas (Pizzas, 2012) Sniegs (Snow Crazy, doc, 2012) 33 zvēri Ziemassvētki vecītim (33 Animals of Santa Claus, doc, 2011) Pa Rubika ceļu (On Rubiks’ Road, doc, 2010) Par dzimtenīti (Three Men and Fish Pond, doc, 2008) Teodors (Theodore, doc, 2008) Ķīlnieks (The Hostage, 2006) The Python (Pitons, 2003) The Shoe (Kurpe, 1998)

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Dragan Nikolić

The Undertaker Serbia • Germania • Norvegia • Finlandia/Serbia • Germany • Norway • Finland, 2013, 52’, col.

Regia, Fotografia/ Director, Cinematography Dragan Nikolić Soggetto/Story basato su una ricerca di/ based on a research by Horst Widmer Montaggio/Editing Milan Popović, Srđan Radmilović Suono/Sound Dragan Nikolić Interpreti/Cast Miladin Korać, Tanja Korać, Radiša Mihajlović Produttore/Producer Jovana Nikolić Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Prababa Production (Jovana Nikolić), 153 boul. Zoran Djindjic, app. 25, 11070 Belgrado, Serbia, tel. +381 (60) 0250009, jovana@prababa.rs, www.prababa.rs

Il becchino [t.l.] Bata è un serbo che lavora per la ditta del suocero, la Drnda Internacional, nel settore funerario. La ditta è oggi un businness a livello internazionale, con ventisei carri funebri, che riportano a casa i serbi o rimpatriano turisti le cui vacanze sono terminate malamente. Bata guida in tutta Europa trasportando cadaveri, cercando di apparire calmo e composto. La video camera è fissa su Bata, tratteggiando un intimo, realistico e profondo ritratto di lavoratore. Dragan Nikolić (Serbia) è regista, autore di film documentari, sceneggiatore e direttore della fotografia. I suoi film precedenti The Caviar Connection (2008) e National Park (2006) sono stati presentati e premiati in numerosi festival internazionali. È stato inoltre cosceneggiatore e assistente alla regia per il cortometraggio Run Rabbit Run (2003) di Pavle Vuckovic, premiato al festival di Cannes. The Undertaker A Serbian named Bata works in his father-in-law’s company, the Drnda Internacional, an international undertaker’s business with 26 hearses, which brings Serbians back home, or repatriates tourists whose vacations in Serbia ended badly. Bata drives all over Europe transporting various corpses trying hard to look calm and collected. The camera remains on Bata, depicting an intimate, realistic and profound portrait of a worker. Dragan Nikolić (Serbia) is a director, author of documentary films, scriptwriter and cinematographer. His previous films The Caviar Connection (2008) and National Park (2006) were screened and awarded at several international film festivals. He was also coscriptwriter and director assistant of the short film Run Rabbit Run (2003) by Pavle Vuckovic, which received the first award at Cannes IFF.

Filmografia/Filmography The Undertaker (doc, 2013) The Caviar Connection (doc, 2008) National Park (doc, 2006) Hot Line (doc, 2004) Run Rabbit Run (short, 2003)

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Jens Pedersen, Taj Mohammad Bakhtari

Layla’s Melody Danimarca/Denmark, 2013, 15’, col.

La melodia di Layla [t.l.] In una scuola di musica di Kabul, Layla invidia gli amici, che ricevono le visite dei loro genitori. Layla è stata messa in un orfanatrofio dallo zio quando i Talebani le hanno ucciso il padre. Non vede sua madre da cinque anni. Un giorno lo zio la chiama: la madre sta arrivando a Kabul. Sorge un dubbio: Layla ormai ha undici anni, l’età in cui le donne si sposano al villaggio. Allora, perché la madre arriva proprio adesso? Jens Pedersen (Danimarca, 1961) e Taj Mohammad Bakhtari (Afghanistan), hanno entrambi alle spalle studi in ambito sociale e cinematografico. Jens Pedersen ha alle spalle una carriera ventennale come produttore e regista. Ha ricevuto diversi premi, tra cui un premio speciale dalla Danish Film Academy e il premio per il miglior cortometraggio documentario all’Artivist Filmfestival di Hollywood. Taj Mohammad Bakhtari ha lavorato anche per ArteFrance. Layla’s Melody In a music school in Kabul, Layla envies her friends, who get to visit their families. Layla was put in an orphanage by her uncle, when the Taliban killed her father. She hasn’t seen her mother for five years. One day her uncle calls her: Layla’s mother is coming to Kabul. But a big question pops up: Layla is now eleven, which is the usual age for girls to get married in her village. So, why her mother is coming just now? Jens Pedersen (Denmark, 1961) and Taj Mohammad Bakhtari (Afghanistan) have both a background in social studies and filmmaking. Jens Pedersen has a career of more than twenty years as a producer and director. He has received several awards, such as a special prize from the Danish Film Academy and the award for the best short documentary at the Artivist Filmfestival in Hollywood. Taj Mohammad Bakhtari worked also for Arte-France.

Regia, Fotografia/ Directors, Cinematography Jens Pedersen, Taj Mohammad Bakhtari Montaggio/Editing Jesper Osmund Suono/Sound Niels David Produttore/Producer Jakob Gottschau Produzione/Production Danish Broadcasting Corporation Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Pedersen & Co. Aps (Jens Pedersen), Hvidtjoernevej 34, DK-2720 Vanloese, tel. +45 40757172, producer.pedersen@gmail.com, www.pedersenogco.dk

Filmografia/Filmography Jens Pedersen Layla’s Melody (doc, 2013) A Diagnosed Boy (doc, 2012) Nicaragua − Dictatorship restored? (doc, 2011) Cops on a Mission (doc, 2010) Afghanistan at Work & the Schools in Afghanistan (doc, 2010) Countries in a Hot Spot (doc, 2010) From Brothel to Bridehood (doc, 2009) The Winners of Globalisation (doc, 2009) The Big Bean Scam (doc, 2007) Taj Mohammad Bakhtari Layla’s Melody (doc, 2013) A Diagnosed Boy (doc, 2012) Nicaragua − Dictatorship restored? (doc, 2011) Cops on a Mission (doc, 2010) Faith Hope Afghanistan (doc, 2009)

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Nebojša Slijepčević

Gangster te voli

Gangster of Love

Croazia • Germania • Romania/ Croatia • Germany • Romania, 2013, 52’, col.

Regia, Fotografia/ Director, Cinematography Nebojša Slijepčević Montaggio/Editing Iva Kraljević, Nebojša Slijepčević Suono/Sound Vlada Bozic, Milan Cekic Produttore/Producer Vanja Jambrović Produzione/Production Restart [HR] Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Rise and Shine World Sales, Schlesische Str. 20/30, 10997 Berlin, Germany, tel. +49 (30) 47372980, info@riseandshine-berlin.de, www.riseandshine-berlin.com

Gangster dell’amore [t.l.] Nediljko Babic organizza matrimoni. È conosciuto anche come “Gangster”. Nediljko cerca di aiutare una madre bulgara single a trovare un marito in Croazia. Ma una serie di tragicomici appuntamenti rivelano la natura tradizionalista degli uomini croati: preferiscono morire, piuttosto che sposarsi con una straniera con un figlio a carico. Nebojša Slijepčević (Zagabria, Croazia, 1973) si è diplomato in regia presso l’Accademia di Arte Drammatica di Zagabria nel 2005. Ha diretto diversi documentari televisivi e serie tv, con cui ha ricevuto numerosi premi. È anche autore di un cortometraggio di animazione, Dog/Rabbit (2011). Gangster of Love è il suo primo lungometraggio documentario. Gangster of Love Nediljko Babic is a matchmaker, also known as “Gangster”. He tries to help a Bulgarian single mother to find a new husband in Croatia. But a series of comically disastrous dates discloses the true nature of conservative Croatian men: they would rather die alone than marry a foreigner with a child. Nebojša Slijepčević (Zagreb, Croatia, 1973) graduated in film directing from the Academy of Drama and Art in Zagreb in 2005. He directed various television documentaries and tv series and received numerous awards. He also directed a short animation film, Dog/Rabbit (2011). Gangster of Love is his first full-lenght documentary film.

Filmografia/Filmography Gangster te voli (Gangster of Love, doc, 2013) Muski film (short doc, 2012) Zagrebacke price (2009) Za 4 godine (short doc, 2007) Ostati ziv (tv series doc, 2007) Vinko na krovu (short, 2000) kravama i ljudima (short doc, 2000) Bijes (short doc, 1998)

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Britta Rindelaub

Loin des yeux Out of Sight

Svizzera/Suisse, 2013, 77’, col.

Lontano dagli occhi [t.l.] Nel carcere di Tuilière sono detenute trenta donne. Fra loro Kashka, Karima, Mirsada e Fatiha, che scontano pene che vanno da un paio di mesi a diversi anni. Queste donne sono madri i cui figli sono cresciuti altrove, accuditi da cognate, in affido presso famiglie o addirittura presso membri della famiglia, nei Paesi d’origine. Viste da vicino, chi sono davvero queste donne? Britta Rindelaub (Schaffouse, Svizzera, 1973) dapprima studia etnologia e filosofia a Neuchâtel, passando poi a belle arti nel corso degli studi a Barcellona e all’ESBA (École Supérieure des BeauxArts) di Ginevra. Il suo lavoro è di natura ibrida, attingendo al documentario, alla fiction e alla performance video, ed esprime il costante interesse dell’artista nella ricerca interdisciplinare. Vive a Ginevra, è cineasta indipendente e produttrice con il collettivo Alva Film. Dal 2010 insegna all’HEAD (Haut École d’Art et de Design) di Ginevra.

Regia/Director Britta Rindelaub Fotografia/Cinematography Milivoj Ivkovic, Heidi Hassan, Patrick Tresch Montaggio/Editing Ana Acosta Musica/Music Vincent Haenni Suono/Sound Masaki Hatsui, Carlos Ibanez Diaz Produttore/Producer Genevieve Rossier Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Alva Film, rue de la colline 10, 1205 Geneva, Switzerland, tel. +41 (0)22 3217038, britta@alvafilm.ch, www.loindesyeux.ch, www.alvafilm.ch

Out of Sight At the Tuilière’s prison, thirty women are jailed in the inmate section. Among them, Kashka, Karima, Mirsada and Fatiha are serving sentences that range from a couple of months to several years. These women are mothers whose children are being raised elsewhere, in the care of a sister-in-law, a foster family, or further even by family members in their country of origin. Getting close to them, who really are these women? Britta Rindelaub (Schaffouse, Switzerland, 1973) first studied ethnology and philosophy in Neuchâtel, then chose fine arts, studying in Barcelona and at the ESBA (École Supérieure des Beaux-Arts) in Geneva. Her work is often hybrid in nature since it draws on documentary, feature films and stage video arts, all while expressing her ongoing interest in trans-disciplinary research. She is based in Geneva as an independent film maker and producer with the collective Alva Film. Since 2010 she also teaches at the HEAD (Haut École d’Art et de Design) in Geneva.

Filmografia/Filmography Loin des yeux (Out of Sight, doc, 2013) Zurück (Go Back, doc, 2009) Le bord de la table (The Edge of the Table, doc, 2003)

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Carlo Zoratti

The Special Need Italia • Germania/Italy • Germany, 2013, 87’, col.

Regia/Director Carlo Zoratti Fotografia/Cinematography Julián Elizalde Montaggio/Editing David Hartmann Musica/Music Dario Moroldo Suono/Sound Andrea Basetig Interpreti/Cast Enea Gabino, Alex Nazzi, Carlo Zoratti, Bruna Savorgnian, Carla Meneghin, Pia Covre, Carla Corso, Ute Prankl, Lothar Sandfort, Francesca Mucignat, Nerino Gabino, Elia Gabino Produttori/Producers Henning Kamm, Erica Barbiani Produzione/Production Videomante Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Tucker Film (Samantha Faccio), via Villalta 24, 33100 Udine, Italy, tel. +39 0432 299545, fax +39 0432 229815, samantha@tuckerfilm.com, www.tuckerfilm.com

La necessità speciale [t.l.] Enea ha trent’anni, un lavoro e un problema. Anzi: più che un problema, una necessità. Una necessità speciale: fare (finalmente) l’amore. Enea ha anche due amici, Carlo e Alex, decisi ad aiutarlo. Se già è difficile realizzare i propri sogni, figuriamoci realizzare quelli altrui. Ma il sogno di Enea, impigliato nella rete dell’autismo, richiede un’attenzione delicatissima. Basteranno un piccolo viaggio e una grande complicità tutta maschile per trovare una soluzione? Carlo Zoratti (Udine, Italia, 1982) è laureato in Interaction Design all’università di Torino. Ha lavorato nel dipartimento Interactive di Fabrica, il centro di comunicazione di Benetton fondato da Oliviero Toscani, e poi come freelance in Olanda, Italia e Germania. Ha diretto diversi videoclip, ha partecipato alla fondazione della webtv Pronti Al Peggio e ha curato la direzione artistica del tour 2013 di Jovanotti. The Special Need, presentato al festival di Locarno nel 2013, è il suo primo lungometraggio. The Special Need Enea is thirty, has a job and a problem. More than a problem: a need. A special need: to make (at least) love. Enea has two friends too, Carlo and Alex who want to help him. If it’s true that it’s difficult to realize our own dreams, it’s more difficult to realize those of the others. Enea’s dream it’s more delicate to obtain, while he’s autistic. Maybe a little journey and male complicity could be enough to help a solution? Carlo Zoratti (Udine, Italy, 1982) has graduated in Interaction Design from Turin University. He worked in Interactive department of Fabrica, the Benetton centre for communication founded by Oliviero Toscani, before freelancing in the Netherlands, Italy and Germany. He directed several video clips, took part in setting up the web-tv Pronti Al Peggio and was artistic director for the 2013 tour by Jovanotti. Currently he lives in Berlin. The Special Need, screened at Locarno IFF in 2013, is his first full-length feature.

Filmografia/Filmography The Special Need (doc, 2013)

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Europa: Femminile, singolare Sólveig anspach | Antonietta de lillo | Jessica Hausner women’s best of cilect prize

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Europa: femminile, singolare Sólveig anspach

Lost in Translation La “terra di mezzo” del cinema di Sólveig Anspach Pietro Bianchi Spesso si crede che la traduzione che si compie da una lingua a un’altra sia semplicemente un atto di “trasporto” di un oggetto già dato da uno spazio linguistico di partenza a un altro di destinazione: come se il testo d’origine non facesse altro che essere assimilato alla lingua in cui viene tradotto. Un’intera generazione di linguisti, filosofi e studiosi dei sistemi culturali ha invece sottolineato negli ultimi decenni – da quando, cioè, lo studio della traduzione è diventato a tutti gli effetti una disciplina – come sia impossibile pensare di creare tra il testo d’origine e quello di destinazione una pura equivalenza. Qualcosa dell’origine non può che essere persa nel suo atto di riscrittura in un’altra lingua, e tuttavia – sottolinea la filosofa indiana Gayatri Spivak, grande studiosa di questi temi – qualcosa dell’alterità del testo di partenza non può essere completamente cancellata. In un mondo dove si pensa che l’inglese sia ormai diventata una lingua/ moneta universale e che tutto possa essere assimilato all’equivalente generale della cultura dominante, è senz’altro interessante registrare come invece qualcosa di una lingua altra non possa che rimanere, anche al termine del suo processo di traduzione, sempre altra. La traduzione – quell’atto che, cioè, conduce un testo tra due sistemi culturali – circoscrive dunque una “terra di mezzo”: qualcosa che non è né dell’ordine dell’origine né di quello dell’assimilazione. Una specie di spazio ibrido, incerto, dove le cose mostrano fino in fondo la loro ambiguità. D’altra parte non è forse vero che tra persone di lingue diverse la comunicazione non possa che nascere sempre su un minimo sfondo di incomprensione e fraintendimento? La parola traduzione potrebbe essere un buon termine per definire il cinema di Sólveig Anspach. Islandese di nascita ma francese d’adozione (e soprattutto di cultura cinematografica), la Anspach non è solo una regista che biograficamente si trova nel mezzo tra due culture ma anche una che nelle sue opere mette continuamente a tema questa terra di mezzo, dove ci sono incomprensioni e fraintendimenti ma dove soprattutto i soggetti si trovano sempre in una condizione di smarrimento. Una delle sequenze più eloquenti a riguardo si trova in Queen of Montreuil (2012) dove due islandesi, una madre e un figlio, che stanno tornando dalla Giamaica, si trovano bloccati a Parigi per problemi d’aereo. Costretti a trascorrervi qualche giorno, i due vanno a usare internet in una lavanderia a gettoni gestita da magrebini a Montreuil dove si sente sempre una musica arabeggiante ad altissimo volume e dove in una conversazione con degli amici via Skype, questi, vedendo degli avventori presuntamente locali nello schermo della chiamata del computer, si mettono a cantare «Vive la France! Vive la France!» (non sospettando che i loro interlocutori hanno davvero ben poco di francese). L’insieme di provenienze culturali di questa scena – Giamaica, Magreb, Islanda, Francia, più l’inglese che molti usano per comunicare tra loro – crea un cortocircuito di stereotipi e fraintendimenti che finisce per mostrare un effetto di smarrimento quasi comico. O come quando in Skrapp út (Back Soon, 2008) un giovane francese appassionato di poesie va in Islanda a cercare la poetessa su cui sta scrivendo la tesi e si trova in mezzo a un gruppo di locali, non certo intellettuali, che sta aspettando la loro venditrice di marijuana: in questo caso oltre alla divisione tra culture linguistiche si sovrappone quella relativa alla dimensione sociale, con in più il senso di smarrimento intensificato dall’uso di droghe. Il cinema della Anspach però non è un cinema “culturalista”, improntato cioè alla descrizione e al confronto/scontro tra tipologie culturali diverse. Anzi, in molte sue opere la filmmaker francoislandese è particolarmente attenta a decostruire continuamente gli stereotipi che spesso vengono proiettati sui Paesi nordici e a maggior ragione sull’Islanda, 50


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Anne et les tremblements

che viene spesso rappresentata come un’alterità assoluta. Si tratta infatti di un Paese di fatto non europeo ma nemmeno americano, che è isolato da tutto ciò che gli sta attorno, che vive in una dimensione naturale estrema e unica (i vulcani, la temperatura, la luce eccetera) e dove la gente viene spesso ridotta ai tratti malinconici e introversi. L’Islanda sembra occupare nell’immaginario collettivo uno spazio quasi-mitico e irreale. In Reykjavik, des elfes dans la ville (2001) invece, un documentario che Sólveig Anspach gira nel 2001 per raccontare i giovani dell’isola nordica, a dispetto del titolo (“gli elfi della città”) il racconto è tutto improntato sulla “modernità” di questi giovani che vanno in giro con i vestiti sportivi, bevono un sacco di birra e quando parlano di sesso lo fanno con termini alquanto espliciti. Ma lo si vede anche in Skrapp út, dove i ragazzi hanno familiarità con la musica rap e dove il consumo di droghe leggere non farebbe invidia a qualunque altra città europea. L’Islanda della Anspach insomma non è un luogo unico e irreale, è semplicemente un luogo altro. La Anspach però porta questa riflessione sull’alterità in una direzione più consapevolmente radicale. Quello che vuole fare è andare a vedere come questo processo di impossibile traduzione produca un senso di smarrimento: è quello che accade ai personaggi dei suoi film, che possono indagare qualcosa di vero su di sé solo a partire da una condizione interstiziale. Il film che porta questa riflessione verso un registro più consapevolmente drammatico è Stormy Weather, che passò a Un Certain Regard a Cannes nel 2003 e che rappresenta uno dei suoi lungometraggi di finzione di maggior successo. Qui, proprio come in una traduzione fallita, è la parola che non riesce a trovare spazio e che rimane in gola. Quello che vediamo è infatti il luogo che più di tutti costringe i soggetti che vi entrano al silenzio: ovvero il manicomio. Lola, interpretata splendidamente dall’attrice-feticcio della Anspach, Didda Jónsdóttir (che è anche il soggetto dell’omonimo documentario che la regista firma per la serie Gents d’Europe), quando la troviamo in quel luogo, è nel momento di massimo 51


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Skrapp út/Back Soon

smarrimento soggettivo: non parla, e i medici non sanno da dove venga e dunque non ha nemmeno un nome. Lola rappresenta il grado zero di una persona: è soltanto un corpo. Da lì inizia un confronto serrato con l’alter ego della donna, che è la psichiatra Cora, che fin dal primo momento in cui la vede non riesce a smettere di chiedersi perché quella donna si comporti in un modo così strano. Ma se nel manicomio è Cora il soggetto forte, e Lola quello ridotto a nuda vita – cosa che viene letteralmente manifestata in seguito quando Lola si spoglia dei vestiti e si mette a correre e urlare nuda – quando la vicenda si sposta in Islanda, le parti si rovesciano. Quando viene rivelata l’identità di Lola e quindi viene rispedita in Patria, Cora non riesce a starle lontana: la segue in Islanda dove il freddo, lo smarrimento dato dall’enigmaticità del luogo, ma soprattutto la scoperta sconcertante che Lola a casa sia una persona che conduce una vita quasi normale, fanno sì che sia Cora a diventare il soggetto debole. Le parti dunque si invertono: la follia non è una malattia, è semplicemente il grado di smarrimento massimo che tutti provano quando gli elementi della quotidianità della vita iniziano a vacillare, e non rimane che un soggetto vuoto, spogliato di tutto, e pronto a prendere le scelte più radicali. A Cora succede questo: perde l’ultimo battello, perde il biglietto della pensione dove andare a dormire, perde soprattutto il senso della sua vita (il rapporto con il compagno inizia a vacillare). Vi è dunque un’asimmetria di fondo in Stormy Weather: un’inquietudine che è data da due lingue, due punti di vista, due storie che non riescono a tradursi l’una nell’altra e che non riescono mai ad avere un momento di vera comprensione. Persino quando Lola decide di seguire Cora scappando dall’isola, sembra che la decisione venga presa più per un fraintendimento che per una vera comunione d’intenti. La traduzione tra queste due donne è insomma una traduzione fallita. Ma se in Stormy Weather il rapporto con l’alterità è costruito in parallelo tramite il rapporto/scontro tra due donne, due provenienze, due luoghi diversi, due condizioni eccetera, in Haut les coeurs! (il primo lungometraggio di finzione della Anspach, del 1999) l’alterità è portata dentro al corpo stesso, e il fattore di vacillamento è rappresentato da un cancro al seno che viene scoperto in stadio avanzato proprio durante la prima gravidanza 52


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di una donna: che quindi si trova nella difficile posizione di dover scegliere tra la propria vita e quella del bambino. Questi primi due lungometraggi di finzione, che rappresentano le opere dove il registro drammatico è più esplicitamente perseguito rispetto alla successive, mostrano già quello che sarà uno dei tratti dominanti della cinematografia della Anspach: quello del racconto di figure femminili che prendono una scelta radicale, anche a dispetto delle possibili conseguenze negative che questa scelta potrà comportare. Spesso nei suoi film c’è una relazione insoddisfacente con un uomo (anche dal punto di vista sessuale, come si vede in Queen of Montreuil), che una donna decide di rompere per seguire il proprio desiderio. Vi è dunque una volontà deliberata di andare a produrre e ricercare una situazione di incertezza, vacillamento, crisi: quella “terra di mezzo”, appunto, dove l’incomprensione e la possibilità stanno l’una accanto all’altra. Il film che riesce a elevare questo tema alla sua forma più compiuta e convincente è l’ultimo lavoro di Sólveig Anspach, Lulu femme nue (2013). Qui il momento della fuga di una donna richiama il modello già visto in Stormy Weather e in Skrapp út. Tuttavia, se nel primo la fuga era una sorta di intensificazione della propria missione di medico (anche se naturalmente era abitato da un desiderio che lo trascendeva), mentre nel secondo si trattava di una fuga da un’attività socialmente non completamente accettata – come è quella di pusher di marijuana –, in Lulu femme nue la fuga è vista esplicitamente come una fuga dalle responsabilità di madre: quindi anche una fuga dai figli, dal marito, dal lavoro eccetera. Che Lulu, la protagonista del film (interpretata da Karin Viard, già protagonista di Haut les coeurs!), abbia poco feeling con il mondo del lavoro lo si vede già nei primi minuti della pellicola, in cui la donna viene umiliata in un colloquio di lavoro per un posto da segretaria durante il quale le viene persino rimproverato il suo pessimo aspetto esteriore. Lei, che era andata in treno nel piccolo paesino sull’Atlantico di Saint-Gilles-Croix-de-Vie per il colloquio, decide semplicemente di perdere il treno e di non tornare più a casa. Non si sa per quanto tempo, si sa solo che per il momento quel treno non lo vorrà prendere. Quando i familiari le chiedono una spiegazione al telefono lei semplicemente glissa, mentre quando il cellulare va fuori uso e persino la carta di credito pare non funzionare più, diventa chiaro che lo spazio emozionale che il film vuole creare è quello dell’isolamento rispetto alle proprie responsabilità di moglie e di madre. La Anspach sottolinea questo aspetto anche con una trovata assai efficace: fa dimenticare alla protagonista l’anello di matrimonio sul lavandino. Questo vero e proprio atto mancato (che, come ricordava Freud, dal punto di vista dell’inconscio è sempre un “atto riuscito”) ci indica una cosa: che la donna vuole per un certo periodo di tempo non rispondere più a quella che è una delle interpellazioni ideologiche socialmente più inesorabili. Per negare però questa chiamata al ruolo di madre e di moglie è necessario un atto unilaterale di rifiuto. Come una novella Bartleby, Lulu dice semplicemente questo: non che vuole negare o uccidere il suo ruolo di madre e moglie, ma che per il momento lei farà altro e non risponderà a quella chiamata. Per ribaltare la propria dimensione soggettiva, e per lasciare spazio alla possibile emersione di qualcosa di nuovo è necessario creare una “terra di mezzo”, uno spazio interstiziale dove l’alterità del proprio desiderio non venga più contrabbandata con il proprio ruolo sociale pubblico. Lulu quindi vaga per il paese, passeggia sul lungo mare e poi trova un uomo, Charles, con cui ha una storia d’amore. Tuttavia se la Anspach riducesse la fuga alla sostituzione di un uomo con un altro, la messa in discussione del proprio ruolo femminile non sarebbe così radicale: sarebbe solo la sostituzione di una responsabilità di moglie con un’altra responsabilità di moglie più efficace della prima. Invece non appena Lulu vede che la propria sorella e la propria figlia sono venute a vedere dov’è, se ne va nuovamente e lascia sia Charles sia il paesino di Saint-Gilles-Croix-de-Vie per andare in autostop verso un nuovo luogo. L’incontro con un’anziana femminista dalla limitata mobilità, di cui inizia a prendersi cura, e con una giovane cameriera di un bar che viene continuamente umiliata dal proprio capo, protrae questo senso di incertezza e transizione tra un luogo e un altro. Lulu femme nue è infatti un film che descrive in modo positivo questo senso di vacillamento. È come se per fare sì che il proprio desiderio di donna possa esprimersi liberamente è necessario, per un momento, mettere tra parentesi il proprio senso di responsabilità. 53


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Queen of Montreuil

La Anspach è come se facesse una riflessione di pedagogia orizzontale femminile in questo film: vi è un insegnamento che viene trasmesso da donne a donne e senza il quale non sarebbe possibile dare forma al proprio desiderio femminile. Lulu ritrova la forza per andare avanti nella sua vita grazie all’incontro con l’anziana femminista Marthe, così come la giovane cameriera Virginie riuscirà a mandare al diavolo il capo che la umiliava e lasciare finalmente il paese facendo l’autostop proprio grazie al suo incontro con le altre due. Tuttavia è proprio nella scena finale, dove si vede il gesto di violenza del marito di Lulu – che prima tenta di abusare sessualmente di lei per poi accusarla di tradimento –, che si osserva come un desiderio per la propria vita possa prendere forma solo grazie al rapporto tra due donne. Se in Lulu femme nue il rapporto tra donne è finalizzato a dare forma a questa “terra di mezzo” incerta, attraversando la quale è possibile assumere la propria dimensione soggettiva, in Queen of Montreuil l’obiettivo è invece quello di elaborare un lutto. La perdita di una persona cara è forse l’evento per eccellenza che getta in una dimensione di incertezza, dubbio e quindi nello stesso tempo, grande possibilità, coloro che la vivono. In questo film, dove la Anspach gioca più consapevolmente con il registro della commedia, praticamente tutti i personaggi sono “in transito”: senz’altro la protagonista Agathe, che deve superare il trauma della morte del marito (e che scopre persino che il marito non era esattamente quello che lei pensava); i due islandesi Anna e Ulfùr, che sono bloccati a Parigi e che tentano di barcamenarsi nella città e nel lavoro senza sapere il francese; la foca, che doveva essere riportata alla zoo e che invece Ulfùr vuole tenere in casa; e naturalmente il vestito da sposa rosa, che è il cosiddetto “McGuffin” su cui si basa l’intreccio del film e che quindi passa in continuazione di mano in mano mettendo continuamente dinamicità all’intreccio. Anche qui è un rapporto tra donne che fa sì che Agathe riesca a capire che nonostante la morte del marito è necessario che lei vada avanti. E per andare avanti non c’è bisogno soltanto di portare la nostalgia all’estremo – facendo della mancanza di ciò che c’era prima una ragione di vita – ma avere il coraggio 54


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finalmente di fare a meno della mancanza, ovvero di produrre “una mancanza della mancanza”. Il gesto della liberazione della foca in mare (che nel frattempo aveva ingerito molte delle ceneri del marito e perciò simbolico) indica che è solo così che possiamo finalmente liberarci da una condizione di stallo: creare un momento di ambiguità e vacillamento che faccia sì che quello che ci teneva legati subisca improvvisamente uno scossone. Perché – ci dice la Anspach – è solo osando e mettendo noi stessi in una condizione di incertezza e di transito che possiamo aprirci a una dimensione nuova, dove è il nostro desiderio a guidarci e non più l’abitudine di ciò che era prima. Per farlo ci vuole solo un po’ di coraggio. E forse anche l’aiuto di una compagna/sorella.

Sólveig Anspach (Vestmannaeyjar, Islanda, 1960), di padre americano e madre islandese, si trasferisce a Parigi per gli studi in filosofia e psicologia clinica, per laurearsi poi in cinema, indirizzo regia, alla FÉMIS (École nationale supérieure des métiers de l’image et du son) nel 1989. Regista sottile e intimista, porta avanti un’opera che non bada ai generi. Il suo talento traspare sin dai primi film – Sandrine à Paris (1992), Barbara, tu n’es pas coupable (1998) – e il suo lavoro riceve presto importanti riconoscimenti ai principali festival internazionali. Con Que personne ne bouge! (1998) vince il gran premio della giuria e del pubblico al Festival International de Films de Femmes de Créteil nel 1999. Con Haut les coeurs! (1999), suo primo lungometraggio di finzione, la protagonista Karin Viard vince il César come migliore attrice nel 2000. Anspach continua, parallelamente, a sviluppare la vena documentaristica, sia in ambito televisivo che cinematografico, con Made in the USA (2001), presentato al festival di Cannes, Reykjavik, des elfes dans la ville (2001) e Faux tableaux dans vrais paysages islandais (2004). Il lungometraggio di finzione Stormy Weather, con Elodie Bouchez e l’islandese Didda Jónsdóttir, presentato al festival di Cannes nel 2003, è girato a Vestmannaeyjar, la sua isola natale. Nel 2007, con Back Soon (Skrapp út), la regista rivela il proprio lato comico e grottesco, portando nuovamente sullo schermo l’attrice Didda Jónsdóttir in una commedia ambientata in Islanda, che riceve numerosi riconoscimenti tra cui il Variety Prize al festival di Locarno. Nel 2009 firma per la televisione Louise Michel, la rebelle, girato in Nuova Caledonia, mentre con Queen of Montreuil, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia nel 2012, la cineasta torna in Francia con una commedia. Lulu femme nue (2013) è il suo utimo lavoro, una sorta di road movie tratto dal graphic novel di Étienne Davodeau.

Filmografia essenziale Sandrine à Paris (doc, 1992) Barbara, tu n’es pas coupable (doc tv, 1998) Que personne ne bouge! (doc tv, 1999) Haut les coeurs! (1999) Made in the USA (doc, 2001) Reykjavik, des elfes dans la ville (doc, 2001) Stormy Weather (2003) Faux tableaux dans vrais paysages islandais (doc, 2004) Jane by the Sea (short, 2006) Didda Jónsdóttir [short doc, ep. di Gens d’Europe] (2006) Manon, Montreuil sous bois [short doc, ep. di Gens d’Europe] (2006) Skrapp út (Back Soon, 2008) Louise Michel, la rebelle (2009) Queen of Montreuil (2012) Anna et les tremblements (short, 2010) Lulu femme nue (2013)

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Sólveig Anspach

Sandrine à Paris Francia, 1992, 52’, col.

Regia Sólveig Anspach Fotografia Pierre Milon Montaggio Anne Riégel Suono Éric Boisteau Produzione Les Films du Saint, Les Films d’Ici, FR3 Distribuzione Les Films d’Ici

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Sandrine a Parigi [t.l.] Sandrine, una giovane ragazza nordafricana di ventitrè anni, scappata da Rouen a Parigi, ha esercitato con abilità il mestiere della borseggiatrice. È stata numerose volte in prigione e oggi riflette sul suo percorso e su quello che le piacerebbe fare della sua vita, ora che è diventata adulta. «La complicità che il film suggerisce, permette di salvaguardare, intatte, la freschezza, il rigore e la follia di Sandrine. È, forse, il nostro solo punto in comune: siamo entrambe candide».


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Sólveig Anspach

Barbara, tu n’es pas coupable Francia, 1997, 52’, col.

Barbara, tu non hai colpa [t.l.] Alcune lettrici confidano la loro passione per i fotoromanzi, come se parlassero di un piacere da difendere. Si capisce l’importanza di questo appuntamento settimanale, e lo statuto quasi iniziatico di queste riviste, che si trasmette come un segreto. Il film abbandona il fotoromanzo e i sentimenti sognati per descrivere la vita sentimentale reale delle lettrici: i primi incontri e le prime promesse d’amore, sogni teneri e realtà talvolta meno rosee, ricordi e fotografie di matrimonio. Anspach realizza un documentario di rara intelligenza, perché utilizza un genere di pubblicazione molto più diffuso di quanto si pensi, per toccare corde interiori di persone comuni, che alimentano sentimenti e aspettative proprio attraverso le storie pubblicate dai fotoromanzi. In questo modo, la regista riesce a far “confessare” le persone interpellate, con leggerezza e ironia, entrando nel vivo delle loro storie personali. La regista islandese porta lo spettatore sui set creati per la realizzazione di questi racconti per immagini. Divertente è vedere come sono realizzati i momenti di alta tensione drammatica, prima a livello fotografico, e poi con l’inserimento del testo letterario nel fumetto. Interessante, poi, è la visione del risultato finale, che è lavorato in funzione anche del supporto cartaceo utilizzato. I luoghi delle riprese sono adattati, attraverso la collocazione del punto di vista, a rendere ancora più grandi i pericoli e gli ostacoli che i personaggi devono affrontare, così come le passioni e i sentimenti, sempre vissuti tra sofferenze e tradimenti. Insomma, una finzione ben congegnata, che punta diritto alla sensibilità di lettrici e lettori.

Regia Sólveig Anspach Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Anne Riegel Musica Martin Wheeler Suono Olivier Mauzevin Produzione La Sept Arte, Quark Productions, CNC, Procirep Distribuzione Arte France

(Sigrún Katrin Gudmundsdóttir, Sólveig Anspach, «Hafnarfjördur Posturinn», 6 giugno 2007)

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Sólveig Anspach

Que personne ne bouge! Francia, 1999, 58’, col.

Regia Sólveig Anspach Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Anne Riegel Musica Martin Wheeler Suono Eric Boisteau Produzione Canal+, Point du Jour Distribuzione Point du Jour

Che nessuno si muova! [t.l.] Cathy, Hélène, Carole, Malika e Fatija, cinque madri di famiglia note anche come le “amazzoni della Valchiusa”, raccontano le rapine fatte per sopravvivere. Tra il 1989 e il 1991, Cathy, Hélène, Carole, Malika e Fatija si sono trasformate in uomini e hanno rapinato delle banche: sette in totale, 300.000 franchi da dividere in cinque (su due anni, appena l’equivalente dello Smic, il salario minimo interprofessionale garantito), per pagare le fatture e fare delle razzie all’Auchan con i figli. Arrestate, le “amazzoni della Valchiusa” furono rimesse in libertà dopo qualche mese di prigione. Si è grati a questo documentario di non cadere nel docu-drama lacrimevole: «Quello che mi interessa sono le prove che incontrano le persone, come le attraversano e ne sono trasformate». Sólveig Anspach si guarda bene dal tracciare le motivazioni delle rapinatrici, lasciando che siano i loro racconti a tessere la trama del film. Di conseguenza, gli atti che l’onesto cittadino osserva a distanza come un errore di gioventù o un dramma della precarietà, ritrovano qui tutta lo loro energia. Si ascolta e si immagina: davanti al Crédit Agricole di Caumont, le cinque ragazze portano avanti il gioco. A dispetto della paura, loro si divertono. Anni dopo, l’eccitazione è intatta. Così come nelle brevi immagini della telecamera di sorveglianza di una delle banche che proietta le nostre eroine in un improbabile Thelma e Louise mediterraneo. Se l’epilogo è amaro (famiglie e amicizie a pezzi, breve ma dolorosa esperienza carceraria, sguardo ancora ambiguo dei vicini), non c’è il gusto del rimorso, semplicemente il dispiacere che la giovinezza così presto abbia avuto fine. (Justine Hiriart, «Libération», 4 marzo 1999)

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Sólveig Anspach

Haut les coeurs! Francia • Belgio, 1999, 110’, col.

In alto i cuori! [t.l.] Mentre aspetta il suo primo figlio, Emma scopre di avere un tumore al seno. Il medico che glielo annuncia prevede un aborto: le cure raccomandate sono, a suo avviso, incompatibili con la gravidanza. Simon, il suo compagno, la sprona a consultare un altro specialista, il dottor Morin, che invece è convinto che i trattamenti possano essere portati avanti durante la gravidanza. Emma riacquista la fiducia. Il suo corpo, che l’ha tradita, ritorna ad essere un luogo di vita: ora deve battersi per due. Il primo lungometraggio di Sólveig Anspach possiede una qualità insolita: la padronanza del ritmo della storia. Emma Stern (Karin Viard) è musicista, suona il contrabbasso. La giovane donna aspetta un bambino che sente ogni giorno, con felicità, crescere dentro di lei. Durante una visita medica, il medico le scopre un tumore cancerogeno al seno sinistro. Emma decide, con l’aiuto di un altro medico, di cominciare una chemioterapia senza rinunciare alla gravidanza. Sembrerebbe (Sólveig Anspach non nasconde che si tratta di un film autobiografico) che la padronanza della narrazione provenga, ancor più che dal talento della regista, dalla volontà del personaggio di Emma che precede e anticipa con fervore tutte le decisioni che andrà a prendere. Incinta di questo figlio, crede in sé stessa. L’effetto che produce Haut les coeurs! è inquietante. Si tratta di un film atipico. Contrariamente ad altri, la cineasta si è glissata sotto la pelle dell’attrice, e non l’inverso. L’attrice è un personaggio già di per sé, guardata dall’esterno e deprivata di interiorità. È una superficie luminosa e riflettente, non ha indossato l’esperienza della regista, non si è mai avvicinata alla sua intimità. È nel montaggio, nel filo stretto della storia, nella disposizione delle scene, nell’associazione dei personaggi all’interno del quadro che riposano tutta la forza mentale e i tormenti interiori che hanno indirizzato la scelta di una messa in scena fondamentalmente documentaria. […] Di questa storia banale, di questa sceneggiatura Sólveig Anspach ne fa un commovente manifesto in favore del cinema come luogo dove si lascia la costruzione della propria storia all’interpretazione degli altri in modo da diventare in un momento attrice e nell’altro spettatrice.

Regia Sólveig Anspach Sceneggiatura Sólveig Anspach, Pierre Erwan Guillaume Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Anne Riegel Costumi Marie Le Garrec Musica Olivier Manoury, Martin Wheeler Suono Olivier Mauzevin, Dominique Lancelot, Franco Piscopo, Manu de Boissieu Interpreti Karin Viard (Emma Stern), Laurent Lucas (Simon), Julien Cottereau (Olivier), Philippe Duclos (il dottor Morin), Charlotte Clamens (la dottoressa Colombier), Claire Wauthion (la madre) Produttore Patrick Sobelman Produzione Agat Films & Cie/Ex Nihilo, Entre Chien et Loup, RTBF Distribuzione Agat Films & Cie

(Marie-Anne Guerin, «Cahiers du Cinéma» n. 540, novembre 1999)

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Sólveig Anspach

Made in the USA Francia • Belgio, 2001, 105’, col.

Regia Sólveig Anspach Sceneggiatura Sólveig Anspach, Cindy Babski Fotografia Laurent Machuel Montaggio Anne Riegel Suono Ludovic Henault, Randy Foster

Fatto in USA [t.l.] Odell Barnes, nato a Wichita Falls, è giustiziato nel carcere di Huntsville, Texas, il 1 marzo 2000 all’età di trentun’anni. Per quasi un decennio, il condannato a morte ha combattuto dietro le sbarre per ottenere la riapertura del caso, la cui sentenza era stata oggetto di molte polemiche. Non c’è una posizione rispetto alla colpevolezza o all’innocenza di Barnes, ma solo l’evidenza di come le indagini siano state compiute da persone che volevano a tutti i costi trovare un colpevole da punire con un verdetto esemplare.

Produttori Luc Martin-Gousset, Emmanuel Fage Produzione Point du Jour, Entre Chien et Loup, RTBF Distribuzione Celluloid Dreams

«Made in the USA arriva come una risposta al mio primo lungometraggio di finzione Haut les coeurs!. Questi due film parlano del desiderio di vivere e del sentimento d’impotenza di fronte alla morte. Haut les coeurs! racconta la storia della donna che combatte dentro la sua stanza sterile, contro se stessa e le sue cellule che si moltiplicano anarchicamente. Made in the USA racconta la storia di un uomo che si batte in questo spazio chiuso che è la sua cella, contro la morte. Il nemico questa volta non è la Natura ma la giustizia degli uomini. Rispondere a un film di finzione con un documentario è per me una necessità, come se il documentario fosse una sorta di pulizia mentale necessaria per mantenere i piedi sulla terra e non perdere il contatto. Ho bisogno di navigare tra i due. Il cinema si situa, talvolta con molta evidenza, da un lato piuttosto che dall’altro».

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Sólveig Anspach

Reykjavik, des elfes dans la ville Reykjavik, Elves in the City Francia • Islanda, 2001, 58’, col.

Reykjavik, elfi in città [t.l.] Un ritratto della capitale islandese, vista e vissuta da tre giovani islandesi. Reykjavik cambia aspetto, si muove, erutta alla stessa maniera dei vulcani dell’isola. Tutto sembra possibile: hanno meno di venticinque anni, raccontano le loro vite, i loro sogni. Potrebbero esaudirsi in Islanda, in Europa o altrove? Le loro storie attraversano e delineano i contorni della città, fanno sentire l’euforia dell’estate senza notte, dopo la malinconia dell’inverno senza giorno. Reykvaik, des elfes dans la ville: con un titolo così incantatore, avremmo potuto aspettarci di vedere le immagini standardizzate, ma non meno sublimi, di un’Islanda patinata e da dépliant turistico, congelata dentro a paesaggi lunari, tra fuoco e ghiaccio, vulcani e sorgenti d’acqua bollente nelle quali alcuni non esitano a immergersi a -10º. Un’isola arida coperta di schiuma e di lava da cui si dipana una spessa foschia, come se la roccia nera custodisse dei draghi mangiafuoco e tutta una fauna favolosa venisse a schernire troll e folletti. Ma la magia del documentario di Sólveig Anspach [...] è altrove. Risiede meno nei suoi riferimenti alla mitologia scandinava e nello sguardo affascinato che la cineasta franco-islandese poggia su questa terra perduta al centro dell’Oceano Atlantico, vicino alla calotta polare, piuttosto che nell’intimità miracolosa che crea con il tema che tratta, la complicità e il clima caldo e accogliente che ha saputo instaurare con dei giovani islandesi che ha accompagnato nella loro quotidianità per alcune settimane. Una gioiosa banda dall’abbigliamento sportivo tre volte più largo del necessario, come un ultimo segno di fedeltà al sogno americano.

Regia, Sceneggiatura Sólveig Anspach Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Matilde Grosjean Musica Martin Wheeler Suono Olivier Mauzevin Interpreti Tinna Halldorsson, David Gudmundsdottir, Svanhvit Tryggvadottir Produttore Nicolas Blanc Produzione Agat Films & Cie, Nicolas Blanc, Arte France, Icelandic Broadcasting Distribuzione Arte France

(Nathalie Dray, «Les Inrockuptibles»)

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Sólveig Anspach

Stormy Weather Belgio • Islanda • Francia, 2003, 91’, col.

Regia Sólveig Anspach Sceneggiatura Sólveig Anspach, Cécile Vargaftig, Pierre Erwan Guillaume, Roger Bohbot Fotografia Benoît Dervaux Montaggio Anne Riegel Scenografia Stígur Steinthórsson Musica Alexandre Desplat Suono Eric Boisteau Interpreti Elodie Bouchez (Cora Levine), Didda Jónsdóttir (Loa), Baltasar Kormákur (il medico Einar), Ingvar E. Sigurdsson (Gunnar), Christophe Sermet (Romain) Produttori Patrick Sobelman, Baltasar Kormákur, Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne, Arlette Zylberberg Produzione Ex Nihilo, BlueEyes Productions, Les Films du Fleuve, RTBF, AB3, Canal+, Icelandic Film Centre, Gimages 6, Natexis, Cofimages 13, Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté Française de Belgique et des Télédistributeurs Wallons Distribuzione Diaphana, Films Distribution

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Aria di tempesta [t.l.] Cora Levine, giovane psichiatra, ha da poco una nuova paziente che si rifiuta di parlare e di cui nessuno conosce l’identità. Cora sente come un richiamo da parte di questa donna. Si attacca a lei e stabilisce una relazione che si allontana sempre di più dal quadro terapeutico classico. Un giorno si scopre l’identità di questa donna: è straniera, si chiama Loa e viene da Vestmannaeyjar, una piccola isola islandese. «Sono diversi anni che mi sono interessata a un fatto di cronaca con l’idea, forse, di farne un film documentario. Il film non è mai iniziato, ma questo fatto di cronaca è all’origine di Stormy Weather. Si trattava di una donna trovata a girovagare per le strade di Parigi e che si credeva fosse muta e sorda. Fu internata in un ospedale psichiatrico della vicina periferia parigina. Non avendo alcun documento di identità con sè, nessuno seppe quali erano le sue origini fino al momento in cui si mise a disegnare dei grandi affreschi e a firmarli con il nome di “Danièle”. Questo mistero affascinava molto gli infermieri, e anche il fatto che li battesse regolarmente a scacchi. Il primario di psichiatria dell’ospedale, che in seguito ho incontrato, ha deciso di farla partecipare a una trasmissione televisiva per il grande pubblico e molte persone l’hanno riconosciuta. Si è scoperto che non era nè sorda nè muta, che non era francese e neppure inglese, e che il suo nome non era Danièle ma Karen. E che era solita scappare, lo aveva già fatto in precedenza. Così fu riportata nel suo Paese. Avendo fatto degli studi di psicologia clinica prima di occuparmi di cinema, mi sono domandata cosa mi sarebbe successo se avessi incontrato qualcuno come Danièle/Karen durante il mio percorso formativo. Mentre giro dei documentari mi faccio delle domande sulla distanza che stabilisco tra me e le persone riprese. Questa distanza è difficile da trovare e quando le riprese terminano la separazione è spesso dolorosa. Per molti anni mi sono occupata di una giovane ladra con la quale avevo girato il mio primo film, Sandrine à Paris, e non so bene ancora oggi se l’ho aiutatata oppure no. Ad ogni film si fanno degli incontri e si creano dei legami. Come mantenere questi legami? Bisogna davvero conservarli? Che cosa significa essere generosi? Come aiutare l’altro senza creare con lui una relazione di dipendenza che può talvolta andare oltre, fino a nuocergli? Stormy Weather si allontana da questi interrogativi, è la storia di una donna cresciuta con il fantasma di “aggiustare il mondo”».


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Faux tableaux dans vrais paysages islandais Francia • Islanda, 2004, 55’, col.

Quadri falsi in veri paesaggi islandesi [t.l.] Questo è un racconto di dipinti falsi. Niente di più banale, se non fosse che il tutto si svolge in Islanda, un Paese con una popolazione inferiore ai 300.000 abitanti, dove tutti sono cugini con gli altri, ormai da generazioni e generazioni. Il fatto diventa improvvisamente un affare di Stato. L’indagine diviene la più lunga e la più costosa nella storia del Paese, occupando le prime pagine dei giornali e creando un clima di sospetto generale in cui tutti non possono più guardare i propri muri senza chiedersi: ma il mio quadro è vero oppure è un falso? Chi penserebbe mai che in Islanda girino quadri falsi? In un Paese con così pochi abitanti? Eppure il caso ha occupato le prime pagine dei giornali e creato scompiglio tra gli abitanti dell’Isola. Come l’eruzione di un vulcano, si potrebbe dire, ma l’espressione risulterebbe abusata per un territorio in perenne subbuglio geologico e che solo quattro anni fa assistette a una delle eruzioni più spettacolari tra quelle viste di recente, che bloccò per diversi giorni le rotte aeree, numerose nei cieli del Paese. La storia permette alla Anspach di muoversi tra i paesaggi della sua terra, sempre bellissimi e mutevoli: una bellezza che vince il freddo e i forti venti che soffiano costantemente. Nonostante ciò, gli islandesi sono persone cordiali e affabili, che si interessano con passione ai problemi del proprio Paese, come lo si è sperimentato durante le due crisi economiche che hanno rischiato di piegare questo piccolo Stato dalle lunghe tradizioni democratiche. Con lo stesso fervore hanno affrontato questo fatto di cronaca.

Regia, Sceneggiatura Sólveig Anspach Fotografia Ingi R. Ingason Montaggio Anne Riegel Musica Martin Wheeler Suono Petur Einarsson Produttore Patrick Sobelman Produzione Ex Nihilo, Vera Liv Films, Arte France, SCAM – Brouillon d’un rêve, CNC, Procirep Distribuzione Doc & Film International

(Clifford W. Hughes, Fake! A Half-Serious History of Art Forgery in the Movies, «St. Ignatius University Bulletin», Minneapolis, autunno 2011)

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Skrapp út Back Soon

Islanda • Francia, 2008, 92’, col.

Regia Sólveig Anspach Sceneggiatura Sólveig Anspach, Jean-Luc Gaget Fotografia Bergsteinn Björgúlfsson Montaggio Anne Riegel Scenografia Hálfdan Lárus Pedersen Costumi Marie Le Garrec Musica Martin Wheeler, Hjalmar Suono Steingrímur E. Guomundsson Interpreti Didda Jónsdóttir (Anna Hallgrimsdottir), Julien Cottereau (Raphaël), Joy Doyle (Joy), Ingvar Eggert Sigurðsson (Siggi), Jörundur Ragnarsson (Tómas), Úlfur Ægisson (Ulfùr), Hrafn Berrett (Krummi), Frosti Jón Runólfsson (il manovratore della gru) Produttori Patrick Sobelman, Skuli Fr. Malmquist, Pórir S. Sigurjónsson Produzione Ex Nihilo, Zik Zak Kvikmyndir, Bac Films Distribuzione Bac Films

Torno subito [t.l.] Anna Halgrimsdottir vive a Reykjavik con i suoi due figli. Stanca del freddo islandese, decide di vendere la sua attività per lasciare l’isola. Anna vende marijuana; è un commercio che rende e quindi vuole portare a casa un buon prezzo. L’acquirente a cui lascia il suo telefonino (un oggetto magico che contiene le coordinate di tutti i suoi clienti) le chiede quarantotto ore per raccogliere il denaro. Nel frattempo Anna si trova coinvolta in un mucchio di storie molto islandesi, segnate da incontri inaspettati e bislacchi. Mentre percorre l’isola da un capo all’altro, la sua casa si trasforma in una sala d’attesa dove i suoi clienti, sempre più numerosi, aspettano con impazienza il suo ritorno per acquistare i loro grammi quotidiani. Sempre restando fedele alla sua vena intimista, con questo terzo lungometraggio Sólveig Anspach aggiunge delle frecce al suo arco e si avventura nei territori del comico. Gli ingredienti – un telefonino e un’oca – danno il tono a questa commedia interpretata dalla carismatica Anna Hallgrimsdottir. Back Soon gioca la carta della diversità, ravvivando le peregrinazioni di Anna alla ricerca del suo cellulare nei quattro angoli dell’isola e svelando la bellezza selvaggia dell’Islanda, con le scene d’interno nella casa di Anna, dove i suoi clienti si organizzano in comunità per ammazzare il tempo della sua assenza. Nel gruppo ci sono sia le eccellenze del cinema islandese (Ingvar Eggert Sigurdsson), sia talenti nazionali (musicisti, un cantante d’opera, uno slalomista, un poeta), sia figure locali (il direttore della prigione e suo figlio!): tutti sono presenti per quello che veramente sono, tra i clienti di Anna. E non va dimenticato il clown e attore Julien Cottereau, la nota francese del film, nei panni di uno studente venuto a intervistare Anna. Questa mescolanza di dilettanti e professionisti dà all’insieme un’aria famigliare molto gradevole, in senso proprio e in senso figurato, poiché i figli di Anna nel film lo sono anche nella vita. Ma sotto questi aspetti bonari e una successione di gag strampalate, Back Soon sfiora in filigrana problemi sociali come il suicidio, l’alcolismo e la consumazione diffusa di cannabis, confermando la predilezione della regista per la commedia dolceamara. (www.avoir-alire.com)

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Louise Michel, la rebelle The Rebel, Louise Michel Francia, 2009, 90’, col.

Louise Michel, la ribelle [t.l.] Louise Michel è una donna determinata, una militante. Tutti conoscono il suo nome ma nessuno sa niente di lei. Condannata per aver aver imbracciato le armi contro le truppe di Bismarck e poi quelle di Versailles, dopo la sua incarcerazione nella fortezza di Rochefort, Louise è deportata con migliaia di altri rivoluzionari su un’isola sperduta in Nuova Caledonia. Maestra, vicina a Victor Hugo, Louise si rivela, durante la deportazione, una “resistente” esemplare e un’incredibile leader. Tutti la ammirano. Non soltanto rinsalda il coraggio dei compagni detenuti, ma si lega agli abitanti dell’isola: insegna loro il francese, si interessa alle loro usanze, alla loro identità e solidarizza attivamente con loro nel momento in cui si rivoltano contro l’ordine coloniale. La sua anarchia non è ideologica, ma un comportamento morale, un ostinato rifiuto nei confronti dell’ingiustizia e delle discriminazioni. A Parigi, come a Nouméa, la storia di Louise è quella di una ribelle. «Quando mi hanno proposto di realizzare questo film su Louise Michel, devo confessare che ignoravo tutto di lei. […] Quello che è appassionante di Louise Michel è che si tratta di una donna totalmente moderna, attenta a tutto quello che la circondava, dalle persone alla natura. […] Ho l’impressione che la Comune, in senso ampio, e Louise Michel in particolare, siano molto attuali. Fanno eco a quello che vivono oggi le persone nel quotidiano, non soltanto le donne ma le persone che vivono nella miseria, coloro che non hanno un permesso di soggiorno, gli operai e i lavoratori».

Regia Sólveig Anspach Soggetto da una sceneggiatura originale di Michel Ragon, Jacques Kirsner Sceneggiatura Sólveig Anspach, Jean-Luc Gaget Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Matilde Grosjean Musica Martin Wheeler Suono Eric Boisteau Interpreti Sylvie Testud (Louise Michel), Nathalie Boutefeu (Nathalie Lemel), Bernard Blancan (Henri Rochefort), Eric Caruso (Grippart), Augustin Watreng (Daoumi), Alexandre Steiger (Charles Malato) Produzione Jem Productions Distribuzione Hevadis Film (Francia)

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Sólveig Anspach

Anne et les tremblements Francia, 2010, 19’, col.

Regia, Sceneggiatura Sólveig Anspach Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Léa Masson Scenografia, Costumi Marie Le Garrec Musica Martin Wheeler, Kate Bruchon, Dan Williams Suono Mathieu Villien Interpreti Anne Morin (se stessa), Bernard Bloch (il signor Léonard), Alexandre Steiger (l’uomo), Alexandrine Serre (la donna), Sabine Macher (l’amica), Jean-Philippe Urbach (se stesso) Produttore Patrick Sobelman Produzione Agat Films & Cie/Ex Nihilo Distribuzione Agat Films & Cie

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Anne e le scosse [t.l.] Come e perché Anne M. sistema il suo appartamento, riordinando i suoi oggetti in modo metodico. Come e perché Anne M. si mette a scrivere alla RATP (Ente Autonomo dei Trasporti Parigini) per risolvere i suoi problemi e come, un bel giorno, viene messa in contatto con il signor Léonard, del Servizio Rumori e Vibrazioni. Una storia vera che parla di amore, di scosse e di vibrazioni. «Per questa storia, di Anne et les tremblements, io non volevo fare un lungometraggio, non avrebbe avuto senso... avevo invece voglia di fare un cortometraggio perché trovo questo racconto davvero strano, divertente, e in più si tratta di una storia molto ispirata ad Anne Morin, che recita il ruolo di se stessa. Avevo voglia di riprendere proprio lei, e credo di aver avuto voglia anche di ritornare a qualcosa di più calmo, meno stressanto e più divertente. È stato molto gioioso e piacevole girare Anne et les tremblements. L’idea del film non è venuta da lei, Anne Morin, ma diciamo che è qualcosa che è stata lei a dirmi: eravamo a una festa e lei mi raccontava questa storia... io avevo l’aria un po’ distratta, c’erano degli amici, molto brusio e lei mi parlava di queste “scosse” e io non sentivo e non capivo niente. Dopo sono tornata a casa e ho pensato che fosse divertente questa storia, e dunque sono tornata da lei, dopo la festa, per ascoltare e capire se anch’io sentivo delle scosse…e mi sono detta che questa storia era folle e bizzarra, e avevo voglia di riprendere Anne».


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Sólveig Anspach

Queen of Montreuil Francia, 2012, 87’, col.

Regina di Montreuil [t.l.] È l’inizio dell’estate e Agathe è di ritorno in Francia, a casa sua, a Montreuil. Deve rimettersi a fare la regista ma anche occuparsi della perdita di suo marito, deceduto in modo brutale. L’arrivo inaspettato, al suo domicilio, di una coppia di islandesi, di un’otaria e di un vicino sempre desiderato − ma mai completamente conquistato −, le daranno la possibilità di riprendersi la sua vita. «Queen of Montreuil è una commedia su Agathe, su un lutto che elabora grazie all’arrivo di una coppia di islandesi e di un leone marino. Queen of Montreuil è un film sulle famiglie che creiamo per noi stessi, perché a volte è difficile stare in piedi da soli quando non si hanno radici, e perché comunque è sempre meglio stare insieme con molte persone che vivere per conto proprio».

Regia Sólveig Anspach Sceneggiatura Sólveig Anspach, Jean-Luc Gaget Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Anne Riegel Scenografia Marie Le Garrec Musica Martin Wheeler Suono Jean Mallet Interpreti Florence Loiret Caille (Agathe), Didda Jónsdóttir (Anna), Úlfur Ægisson (Ulfùr), Eric Caruso (Caruso), Samir Guesmi (Samir), Alexandre Steiger (Alexandre), François Tarot (Ludovic), Anne Morin (Virginie), Zakariya Gouram (Selim Loubna), Bernard Bloch
(il capocantiere), Martin Porter (Krummi) Produttore Patrick Sobelman Produzione Ex Nihilo Distribuzione Diaphana

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Sólveig Anspach

Lulu femme nue Lulu in the Nude

Francia, 2013, 87’, col.

Regia Sólveig Anspach Soggetto dal graphic novel di Étienne Davodeau Sceneggiatura Sólveig Anspach, Jean-Luc Gaget Fotografia Isabelle Razavet Montaggio Anne Riegel Scenografia Stéphane Lévy Costumi Marie Le Garrec Musica Martin Wheeler Suono Éric Boisteau Interpreti Karin Viard (Lucie, detta Lulu), Bouli Lanners (Charles), Claude Gensac (Marthe), Pascal Demolon (Richard), Philippe Rebbot (Jean-Marie) Produttori Caroline Roussel, Jean Labadie Produzione Arturo Mio, Le Pacte Distribuzione Le Pacte

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Lulu donna nuova [t.l.] Dopo un colloquio di lavoro andato male, Lulu va via di casa lasciando il marito e i tre figli. La sua avventura la porta ad avere tre incontri fondamentali: con un ex detenuto protetto dai fratelli, con un’anziana donna che si annoia a morte e con una dipendente molestata dal suo capo. Simboli di un amore sorprendente, del conforto dell’intimità femminile e di una compassione mal interpretata, i tre incontri aiuteranno Lulu a ritrovare innanzitutto se stessa. «Il cammino che Lulu decide di intraprendere per non subire più la sua vita ma viverla pienamente prende la forma di un’iniziazione, certo tardiva ma essenziale. Lulu manca a se stessa, guarda indietro e si accorge che si è persa per strada. Deve riprendere questa strada e in questo road movie che l’ha portata a meno di cinquanta chilometri da casa sua, ritrova, attraverso dei frammenti, il suo desiderio smarrito, la propria personalità, un’audacia che non sapeva sua. È questo percorso che io ho voluto cogliere al meglio, questo ritorno alla vita: la capacità di incontrare gli altri, di provare nuovamente dei sentimenti, di innamorarsi, di seguire i propri slanci. È in relazione agli altri che acquisisce la sua autonomia e trova finalmente un posto, quello che nessuno potrà più portarle via, il suo. Ciò che ognuno teme e desidera il più possible: essere insieme attore e regista della propria vita».


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Non è giusto

Il cinema di Antonietta De Lillo Daniela Brogi

Tra l’esordio di Una casa in bilico (1986) e La pazza della porta accanto (2013) Antonietta De Lillo ha realizzato circa venti lavori, mentre tuttora è in corso la preparazione del film partecipato Oggi insieme, domani anche. Ciascuna di queste esperienze ha le proprie specificità; spesso entrano in gioco tecniche, linguaggi, generi diversi; ciascuna situazione possiede pure qualità differenti, ma ciò nonostante i singoli momenti formano una trama che fa sistema, e, nell’arco di quasi trent’anni, compone un’opera complessiva. Un’opera, vale a dire un insieme di singolarità che costruiscono, con uno stile che si vuole trasversale, un profilo d’insieme che riguarda l’impresa di una vita: qualcosa di somigliante a quello che nell’italiano antico s’intendeva per “tessuto a opera”, od “operato”, cioè con figure non stampate ma composte sul fondo da orditi e trame che lavorano d’intreccio. Al centro del disegno, per molti motivi, sta Il resto di niente (2004), ma anche quel lavoro non occupa uno spazio isolato e solitario, né vive strettamente di sé, perché anzi dialoga, magari anche per sfida, o per scarto, con gli altri film di De Lillo. Proviamo allora a guardare meglio queste tracce che persistono. Si tratta di «riuscire a fermare una cosa che sta scomparendo. L’abbiamo fermata, l’abbiamo fermata… è tutto lì»: le parole con cui il protagonista del primo videoritratto, Angelo Novi fotografo di scena (1992), ci comunica la passione per la sua professione funzionano anche come chiave di lettura per la speciale attenzione al linguaggio e alle sperimentazioni del cinema documentario che attraversa l’intera opera di De Lillo, sin dai primi lavori (compreso il film Matilda, del 1990, così attento a un’ambientazione napoletana borghese, anziché popolare, e perciò fuori clichés). 69


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O’ cinema

Documentare, difatti, significa da un lato fermare realtà attraverso la testimonianza: restituire forza di espressione, e dignità, a identità minacciate dall’oblio perché sono più appartate. O magari, al contrario, si tratta di testimoniare per riscattarsi dal luogo comune (De Lillo usa continuamente materiali narrativi attinti dai pregiudizi e dalle frasi fatte: la superstizione, il Sud, il matrimonio d’interesse, la femminilità, la coppia eterosessuale, il Natale, la canzone napoletana, il porno, l’amicizia impossibile), e allora documentare significherà trattare forme di vita anche troppo “appariscenti” ma ammalate, per così dire, di sovraesposizione, cioè guardate solo in quanto stereotipi (come nel caso di ’Osolemio, 1998; o della pazzia eccentrica di Alda Merini, riguardata e fatta guardare invece come situazione a cui si restituisce normalità, prossimità per contrasto, tant’è vero che diventa la pazza “della porta accanto”). Oppure, ancora, si può trattare di fermare realtà documentando con spirito civile, proponendo, in Viento ’e terra (1996) la storia di E’ Zezi, lo storico gruppo musicale dell’entroterra napoletano, composto prevalentemente dagli operai dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco. Ma, dall’altro lato, e al tempo stesso, documentare vuol dire anche dare persistenza a ciò che da un momento all’altro potrebbe scomparire, sta scomparendo (di continuo ci si confronta con il tema della morte), proprio perché è più fragile; ma non per questo è meno essenziale, e dunque non basta, a coglierlo, nemmeno la fotografia: piuttosto si tratterà di restituire esistenza a un mondo sensibile fatto, oltre che di ciò che si vede, di rumori, di voci, di ombre, di sensazioni tattili continuamente legate al mondo degli oggetti. Per incorporarli, in senso tecnico, occorre non trattarli come semplici estensioni decorative del vivere umano, ma farli entrare, agire: tanti lavori di De Lillo, a tal riguardo, sono pieni di scene silenziose in cui si toccano le cose (In alto a sinistra, in Racconti di Vittoria, 1995), o sono animati, per esempio, da ticchettare di sveglie, trilli di telefono, o perfino tintinnìi di una tazzina da caffè traballante: il suono che occupa la prima scena di Il resto di niente (2004), che si apre con il tonfo della porta aperta con violenza da una guardia borbonica, sùbito seguito dallo sbattere degli stivali: ancora prima della storia e di tutto il resto, la vulnerabilità di Leonòr che sta attendendo di essere giustiziata, la sua totale esposizione agli eventi esterni e la relativa paura, si esprimono in quanto esperienze della realtà sensibile. 70


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Antonietta De Lillo è stata tra i primi in Italia, forse la prima, a cimentarsi con il videoritratto, e in questo senso è interessante il lavoro di reinvenzione dell’antropologia documentaria classica – tesa soprattutto alla rappresentazione di un’umanità attraverso le forme di vita più evidenti in quanto visibili. Il cinema di De Lillo reimposta questa tradizione di sguardo, inserendo, al posto di ciò che è più “vistoso”, il ruolo della voce come dispositivo di rivelazione del reale – anche come presa di consapevolezza, come attesta la scelta di costruire il film di montaggio Operai (1996) attraverso tanti tasselli che in progressione formano un racconto di formazione della coscienza di classe. Rinunciando, sempre, a ogni occasione di intrusione autoriale, lo spazio filmico dei videoritratti diventa lo spazio del racconto, per lo più dentro una scena fissa – magari col bianco e nero, in un gioco di chiaroscuri e di campi e controcampi ridotti a un’intelaiatura essenziale, come in Promessi Sposi (1993), da cui prenda identità, prima di testimonianza e poi di forme, la storia di un cambiamento di sesso. In tal senso, il recupero stesso, in La pazza della porta accanto, dei materiali di un’intervista ad Alda Merini già parzialmente usati nel primo ritratto dedicato alla poetessa (Ogni sedia ha il suo rumore, 1995), va in direzione di una maggiore essenzialità, tesa a dare più rilievo possibile a una figura di intelligenza austera, che smentendo il senso comune, si impone non per seduzione sentimentale o iconica, ma per autorevolezza del pensiero. La cifra documentaria definisce, ancor prima che uno sguardo, un situarsi nel mondo: un’affermazione, anche tecnica, di riconoscimento delle individualità come identità in relazione con la presenza degli altri. «Come mi vedi? Sai veramente che esisto anche io?», ci chiedono tanti suoi personaggi, facendo risuonare questa domanda dentro una piattaforma filmica e spettatoriale di condivisione. E così alla costante documentaria si affianca un’altra seconda traccia dell’opera di De Lillo: la sensibilità per il cinema come linguaggio interdialogico e interlocutorio, con possibilità molteplici di sperimentazione. Si va dalle strutture di appello degli inserti teatrali di Enzo Moscato, fino alle esperienze di film collettivo (Maruzzella, in I vesuviani, 1997), o partecipato (Il pranzo di Natale, 2011; Oggi insieme, domani anche). Altre volte, invece, questo interrogarsi sui modi possibili in cui far stare anche la propria esistenza tra le vite degli altri, si tematizza, trasformando i personaggi stessi in spettatori dei propri ricordi (Il resto di niente) o delle proprie proiezioni – come i due bambini protagonisti di Non è giusto. Racconti di Vittoria, un film in tre atti sull’entrata in contatto con la morte – attraverso il mito, il lutto, la malattia – rielabora la riflessione sui livelli possibili di distanza e partecipazione costruiti da una storia filmata variando, in ciascuno dei tre momenti, la tecnica stessa di messa in scena: teatrale, nella prima parte (Pozzi d’amore); letteraria, nella seconda parte tratta dal testo omonimo di Erri De Luca (In alto a sinistra); documentaria e televisiva nel terzo quadro (Racconti di Vittoria), in cui la narrazione di un’esperienza di malattia e di cura si alterna a interviste per strada, con l’effetto complessivo di una capacità abbastanza inusuale nel creare attenzione e senso di comunità attorno al tema della malattia. Il film Non è giusto (2001), realizzato in digitale, ferma un terzo motivo importante dell’opera di De Lillo, ossia il racconto del mondo attraverso lo sguardo sporco, in senso tecnico (il film è girato in soggettiva) e immaginoso dell’infanzia. Si tratta in questo caso di due bambini ripresi dentro il mondo faticoso di relazioni adulte che li squilibrano – e càpita di ripensare, in un certo senso, anche al cinema di Capuano, o Di Costanzo. Con la particolarità, però, di raccontare la storia senza tensione drammatica, ma come successione normalizzata di situazioni che, semplicemente mostrandosi, senza filtri autoriali, finiscono per rovesciare la relazione tra il mondo dei grandi e quello dei piccoli, facendo apparire l’universo adulto come quello più attraversato da una logica di irresponsabilità infantile. L’eco di questa sorta di documentarismo fantasioso, attento a guardare la realtà come coesistenza di sguardi paralleli, giunge, sottotraccia, anche nel film più noto di De Lillo, Il resto di niente, che è tratto dal libro omonimo di Enzo Striano – pubblicato nel 1986. I film tratti dalle opere letterarie, e particolarmente dalle narrazioni storiche, non sono mai facili, a meno che non si intenda realizzare una semplice trasposizione, perché l’interpretazione visiva di ciò che è sulla pagina non solo richiede ma impone l’arte: la 71


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Il resto di niente

prova di una regia da cui emerga una visione personale, capace di capire e decidere cosa va ripreso e cosa invece va tagliato, cosa va ricreato come se venisse al mondo per la prima volta. E così la storia di Eleonora de Fonseca Pimentel e della rivoluzione napoletana del 1799, nel passaggio dalla versione letteraria a quella cinematografica, riconquista vita, con un risultato finale perfino superiore a quello del libro. Alcuni motivi, in particolare, possono far cogliere bene questo salto creativo: in cima a tutti la scelta di intrecciare la storia, che nel romanzo scorreva su un piano lineare, su un ordito memoriale – assecondato, tecnicamente, dalle riprese con la macchina a mano in pellicola 16mm poi rielaborate in digitale. Si parte dalla fine, dall’ora estrema del fallimento dell’esperienza rivoluzionaria e della condanna a morte; attraverso la prima immagine della bimba “lazzarona” che porta a Leonòr l’ultimo caffè per scappare subito, ripercorrendo al contrario il lungo corridoio da cui era arrivata, scatta il transfert tra le due figure: il montaggio sovrappone le situazioni, proseguendo il movimento all’indietro; comincia la storia di Eleonora dall’epoca in cui, bambina, esce dal palazzo romano per salire sulla carrozza che la porterà a Napoli. L’infanzia non fissa la diacronia ma il fuoco della storia: tutta la vicenda passa attraverso gli occhi di Leonòr che, rispecchiandosi nel sé bambina, rivive il film della propria vita, diventando spettatrice dei propri ricordi. Leonòr: «Dove abbiamo sbagliato? L’errore che ci ha sconfitto, l’ultimo gioco, quello che abbiamo avuto paura di giocare, quale è stato?»; Filangieri: «Io ho avuto solo il coraggio di scrivere, e la banale idea di morire su un letto d’infermo. Essere bambino fino alla fine, la prova suprema: questo mi fu negato. Costruirli i sogni, non dirli soltanto: volerli». Attraverso i dialoghi surreali con Filangieri (Enzo Moscato), o attraverso la voce fuori campo di Leonòr (Maria de Medeiros) che si ricorda, che ricorda se stessa che in carcere si ricorda di quando “passò a marito”, l’infanzia e la morte diventano le due soglie visive e coscienziali che si scambiano fantasmi di racconto, dilatando o contraendo il senso della storia, come in una valle di echi. Non assisteremo all’impiccagione di Leonòr, come nel libro: l’ultima scena, in un gioco di rime con la prima, resta dietro al personaggio, mentre attraversa il passaggio dal palazzo al mondo esterno, verso una possibilità di significato e di partecipazione alla vita che rimane aperta, proiettata verso la luce. L’uso del documentarismo per sperimentare nuove occasioni di sguardo sul reale, la tensione dialogica, l’attenzione ai modi di trattamento dell’infanzia: è come se l’opera di 72


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De Lillo provasse sempre a rispondere al richiamo del cinema come azione, lavoro che non può essere preservato ma buttato dentro il mondo. Questo dinamismo comporta come conseguenza quasi implicita la sperimentazione, la ricerca di varchi fuori dai confini, e spiega anche una quarta costante: la polifonia. Già se ne trovava traccia nel bisogno di far parlare il cinema dentro il cinema, attraverso i dialoghi tratti da altre opere classiche e fatti risuonare dentro il cortometraggio O’ cinema (1999), dove fantasie infantili e memorie cinematografiche si confondono nella passeggiata di un bambino per le strade di Napoli; o ancora nel videoritratto dedicato a Tonino Guerra (Pianeta Tonino, 2002). Intrecciare voci equivale a non smettere mai di dare valore alla propria esperienza individuale solo a condizione di farla risuonare in un concerto di vite e di storie, e anche a rischio, e onore, di mettere da parte la propria. Il pranzo di Natale, che si compone di tanti film realizzati da autori diversi e tenuti assieme dai frammenti di racconto di Piera Degli Esposti, porta al punto di massima tensione, e di coerenza, questo impulso creativo vissuto come relazione. Un punto provvisorio, evidentemente, perché un’opera in azione chiede di produrre sempre qualcosa di nuovo.

Antonietta De Lillo (Napoli, Italia, 1960), dopo la laurea in Spettacolo al D.A.M.S. di Bologna, lavora dapprima come giornalista pubblicista e fotografa per importanti testate nazionali e in seguito come assistente operatore in produzioni televisive e cinematografiche. Da sempre sensibile ai temi dell’amore e della separazione nella società italiana contemporanea, nel 1986 dirige il suo primo lungometraggio, Una casa in bilico, vincitore del Nastro d’Argento come miglior opera prima. Tra il 1992 e il 1999 firma numerosi documentari e videoritratti, tra cui: Angelo Novi fotografo di scena, Promessi Sposi e La notte americana del dr. Lucio Fulci, selezionati e premiati in diversi festival internazionali. Nel 2004 presenta a Venezia Il resto di niente, con cui vince tre David di Donatello e il Premio Flaiano per la sceneggiatura. Nel 2007 fonda la Marechiarofilm, casa di produzione e distribuzione indipendente che idealmente prosegue l’esperienza maturata prima con la Angio Film e poi con Megaris. Per Marechiarofilm realizza il film partecipato Il pranzo di Natale (2011) e il documentario La pazza della porta accanto – Conversazione con Alda Merini (2013), presentato all’ultima edizione del Torino Film Festival. Attualmente De Lillo sta lavorando alla preparazione del nuovo film partecipato Oggi insieme, domani anche. Filmografia essenziale Una casa in bilico [co-regia Giorgio Magliulo] (1986) Matilda [co-regia Giorgio Magliulo] (1990) Angelo Novi fotografo di scena [co-regia Giorgio Magliulo] (short doc, 1992) Promessi Sposi (short doc, 1993) La notte americana del dr. Lucio Fulci (short doc, 1994) Ogni sedia ha il suo rumore (doc, 1995) Racconti di Vittoria (1995) Viento ’e terra (short, 1996) Maruzzella [ep. di I vesuviani] (short, 1997) O’ cinema (short, 1999) ’Osolemio (1999) Non è giusto (2001) Pianeta Tonino (doc, 2002) Il resto di niente (2004) Il pranzo di Natale (2011) La pazza della porta accanto – Conversazione con Alda Merini (2013) Oggi insieme, domani anche [annunciato]

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Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo

Una casa in bilico Tottering in the Dark

Italia, 1986, 80’, col.

Regia Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo Soggetto, Sceneggiatura Giuditta Rinaldi, Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo Fotografia Giorgio Magliulo Montaggio Mirco Garrone Scenografia Paola Bizzarri Costumi Sandra Montagna Musica Franco Piersanti Suono Hubrecht Nijhuis Interpreti Luigi Pistilli (Giovanni), Riccardo Cucciolla (Teo), Marina Vlady (Maria) Produttori Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo Produzione Angio Film Distribuzione Mikado Film

Una casa in bilico Giovanni, un donnaiolo amante della vita, Teo, un suo vecchio compagno di scuola, meticoloso collezionista di orologi, e Maria, un amore di gioventù, sempre pronta ad aiutare i connazionali emigrati in Italia, ereditano un appartamento a Roma. Questa convivenza casuale, dopo un inizio faticoso, porta nuova energia nella vita di tutti e tre, all’insegna dei principi di solidarietà e tolleranza. Ma la morte improvvisa di uno di loro pone i due rimasti di fronte a una scelta: cancellare quell’esperienza e rientrare nel grigiore del proprio destino, oppure continuare nel cammino intrapreso verso un futuro insieme. «Una casa in bilico è un film piccolo, ingenuo ma che ho rivisto anni dopo come spettatrice e di cui non mi sono vergognata. Io sono molto critica con i miei lavori e crescere non vuol dire solo invecchiare ma migliorare la propria sensibilità e la propria capacità tecnica e professionale. Il film trovò mille difficoltà e lo videro in pochi». Lievi e continui scompensi, esilità, incertezze che appartengono alla fisiologia dell’esordio, ma anche una solidità narrativa per molti versi inedita nel giovane cinema italiano. I personaggi crescono, la storia matura, il numero di scene è proporzionato alla drammaturgia, i dialoghi non costringono lo spettatore al disagio. Ambientato per la maggior parte in interni, che assumono grande importanza in relazione alle azioni e ai sentimenti dei protagonisti. Magliulo e De Lillo hanno approfondito accuratamente la sceneggiatura per lungo tempo dedicandosi ad essa con lo stesso rigore che non è mai stato negato alla messa in scena o agli stili di ripresa. Ma il fatto più interessante è che la solidità del lavoro di sceneggiatura corrisponde a una eccellente resa degli interpreti, a una apprezzabile sicurezza del linguaggio. Che il film andasse intensamente pensato, vissuto, realizzato prima del set è una conoscenza pragmatica e teorica persa in un punto imprecisato degli anni Sessanta forse. Quanto questo possa essere importante per il cinema, forse lo stiamo scoprendo sul serio solo adesso. (Mario Sesti, Le storie – Come non si scrivono (più), «Cineforum» n. 261, gennaio-febbraio 1987)

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Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo

Matilda Italia, 1990, 82’, col.

Matilda Matilda è una giovane affascinante e di buona famiglia, con un’inspiegabile sfortuna in amore. Per quanto i pretendenti non le siano mai mancati, i suoi ultimi tre fidanzati, per una strana coincidenza, sono tutti morti di morte violenta. Ansiosa di sposarsi, Matilda decide di pubblicare un annuncio matrimoniale. Si presenta il riluttante Torquato, giovane colto ma di poche pretese. I due si piacciono e iniziano una relazione sentimentale che sembra destinata a durare, sino a quando Torquato viene messo al corrente delle sventure che hanno colpito i suoi predecessori. Persona culturalmente preparata, Torquato tenta di porsi in modo ragionato rispetto al problema jella, fino a quando alcuni oscuri incidenti non mettono a repentaglio la sua incolumità. «Era una black comedy molto divertente, tanto che gli americani volevano comprare i diritti per farne un remake. Era girato in una Napoli borghese che sembrava Los Angeles e che squarciava la solita rappresentazione di Napoli dei ceti bassi e popolari». Ambientato e girato a Napoli, il film rifugge anche dal costituire una (facile) rappresentazione e una (sterile) denuncia dei mali e dei problemi di Napoli, e gli autori, pur rispettando certa tradizione recente del cinema impegnato napoletano se ne situano agli antipodi. Si tratta infatti “solo” di una commedia sofisticata, con un pizzico di giallo (che non guasta) e nella quale si registra la commistione tra una storia d’amore, presunte qualità iettatorie (queste sì, molto napoletane) della protagonista e la rappresentazione di certi ambienti e noti personaggi appartenenti a circoli e istituzioni intellettuali partenopee. (Aldo Fittante, «Segnocinema» n. 47, gennaio-febbraio 1991)

Regia Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo Soggetto Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo, Graziano Diana Sceneggiatura Graziano Diana, Antonio Fiore, Stefano Masi Fotografia Giorgio Magliulo, Simona Paggi Montaggio Simona Paggi Scenografia Paola Bizzarri Costumi Magda Bava Musica Franco Piersanti Suono Uberto Marinus Nijus Interpreti Silvio Orlando (Torquato), Carla Benedetti (Matilda), Gianni Agus (il padre di Matilda), Milena Vukotic (la madre di Matilda), Mario Santella (il fratello di Matilda), Wanna Polverosi (la domestica), Tino Schirinzi (il “Presidente”) Produzione Angio Film, So.co.f.imm Distribuzione Mikado Film

I due registi hanno deciso di affrontare un genere che oggi è carico di insidie: quello della commedia sofisticata. Il film tenta quindi in modo coraggioso di rifrequentare la struttura, i codici propri della commedia, e trova i suoi punti di forza nel ritmo brioso e filante – che tradisce qualche caduta nella seconda metà – nella buona qualità della sua realizzazione tecnica e nella riuscita dell’impresa di omogeneizzare l’attore affermato con l’esordiente. (Fabrizio Liberti, «Cineforum» n. 299, novembre 1990)

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Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo

Angelo Novi fotografo di scena Italia, 1992, 25’, col.

Regia Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo Montaggio Simona Paggi Produzione Megaris

Angelo Novi fotografo di scena Un viaggio nella memoria del nostro cinema, dal dopoguerra alla fine del Novecento. Le fotografie di Angelo Novi scattate sui set di Pasolini, Rossellini, Leone e Bertolucci, sono commentate dal sonoro originale dei film e dallo stesso fotografo che descrive l’istante preciso del suo scatto. Attraverso i suoi racconti, ricchi di aneddoti ed emozioni, conosciamo uno dei più importanti testimoni del cinema italiano. Un ritratto di uno dei più quotati fotografi di scena del cinema italiano che assume, attraverso i suoi racconti e le foto di registi e attori, la valenza di un vero e proprio viaggio in trent’anni di cinema tricolore. («L’Unità»)

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Antonietta De Lillo

Promessi Sposi The Betrothed Italia, 1993, 20’, col.

Promessi Sposi Un piccolo centro ai margini dell’area metropolitana napoletana. Antonio e Lina raccontano la loro storia d’amore. Una profonda cicatrice sul braccio di Antonio rivela una realtà nascosta. Così, diventa difficile stabilire la linea di confine tra sentimenti e inquietanti manipolazioni degli stessi. Una testimonianza della forza dell’amore che lega due persone, due “Promessi Sposi” dei nostri giorni. Il racconto avanza come un thriller in cui i due protagonisti nascondono un mistero: tracce visive, cicatrici su un braccio, dettagli s’insinuano nella loro storia, fino a svelare l’enigma. Lui prima era una lei. Una metamorfosi contemporanea resa possibile dal loro amore.

Regia, Sceneggiatura Antonietta De Lillo Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Interpreti Antonio, Lina Produzione Megaris

(www.marechiarofilm.it)

Bianco e nero per uno sguardo curioso, acuto, che si posa sui volti, fruga negli sguardi, interroga ogni minimo particolare dei corpi come delle sfumature nella voce di chi parla. […] E siamo già in un thriller che la regista costruisce a poco a poco, entrando nell’universo della coppia con delicatezza, quasi in punta di piedi. (Cristina Piccino, «Il Manifesto»)

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Antonietta De Lillo

La notte americana del dr. Lucio Fulci

Doctor Lucio Fulci’s Day for Night Italia, 1994, 30’, col.

Regia Antonietta De Lillo Intervista a cura di Francesco Garofalo, Antonietta De Lillo Fotografia Bruno Di Virgilio Montaggio Giogiò Franchini Suono Ivo Nardi Interpreti Lucio Fulci Produttore Donatella Botti Produzione Angio Film, Megaris

La notte americana del dr. Lucio Fulci Nel 1990 Lucio Fulci, maestro del B-movie, dirige, produce e interpreta Un gatto nel cervello, il suo personalissimo Effetto notte. Qui il regista rivive le proprie ossessioni cinematografiche in una folle quanto bugiarda autoanalisi ai confini del trash, richiamando in vita i suoi veri fantasmi, da Totò agli zombies, con il desiderio e la viva contraddizione che la sua “notte americana” sia per forza, o per amore, illuminata da un barlume di riconoscenza autoriale. Una lunga riflessione che affascina per sincerità, ironia e lucidità, sul suo fare cinema e sulla sua eccentrica carriera. Riconosciuto maestro dell’horror internazionale, Fulci racconta in un’intervista informale e arguta, i momenti essenziali della sua carriera: la formazione sotto Steno, la scoperta di Celentano e di Franchi-Ingrassia, fino alla direzione di anarchici film cult che gli hanno valso il significativo epiteto di “terrorista dei generi”. Frequenti le frecciate ironiche che non risparmiano critici cinematografici (Kezich), colleghi (Maselli, Argento) e persino la psicoanalisi del “noto cocainomane” Freud. (I gusti di Homesick, www.davinotti.com)

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Antonietta De Lillo

Racconti di Vittoria

Pozzi d’amore | ep. 2 In alto a sinistra | ep. 3 Racconti di Vittoria ep. 1

Italia, 1995, 70’, col.

Racconti di Vittoria Un film in tre episodi in cui, in modo diverso, si combatte contro la morte. In Pozzi d’amore, Enzo Moscato recita una sorta di monologo teatrale sulla paura per la fine imminente e l’angoscia della separazione da chi si ama. In In alto a sinistra un giovane ripensa al padre scomparso e in nome di quel ricordo riesce a superare il dolore che accompagna la sua solitudine. In Racconti di Vittoria, infine, è una donna medico, l’oncologa Vittoria Belcastro, ad ammalarsi di cancro e a spronare i suoi pazienti a lottare per vivere, con coraggio e dignità. Il dolore e la morte, visti da tre differenti prospettive: quella teatrale, quella letteraria e quella televisiva. «Racconti di Vittoria ha rappresentato per me, e per tutti coloro che mi hanno seguita nella realizzazione di questo progetto, una strada da percorrere per avvicinarsi a una realtà che si tenta di esorcizzare, com’è quella dell’ineluttabilità della nostra fine. La morte oggi è perlopiù vissuta in modo traslato, ad esempio attraverso i media che trasmettono immagini spesso più atroci di qualsiasi morte naturale, ma che percepiamo ormai con freddezza, quasi con indifferenza. Cerchiamo di allontanarla dai pensieri e dalle nostre parole, di precluderne la conoscenza ai nostri figli, come se la sua fosse una presenza innaturale. Ho messo insieme storie diverse che mostrano i diversi atteggiamenti che scaturiscono dalla grande paura della perdita dell’altro e della propria fine, piccole dichiarazioni che rivelano sia il rifiuto che l’accettazione (non solo passiva) di un fenomeno così inevitabilmente presente nelle nostre esistenze. La percezione della morte è talmente individuale, è così intima che non si può cercare di dare una risposta. Forse si può – ed è quello che ho cercato di fare con il mio lavoro – tentare di trovare un contatto, di porsi delle domande che, se non trovano risposta, ci permettono in qualche modo di migliorare il nostro rapporto con la morte attraverso lo sforzo di assumerla come evento vitale, come qualcosa che è parte integrante dell’esistenza umana».

Regia Antonietta De Lillo Soggetto dal testo teatrale Scannasurice di Enzo Moscato [ep. 1 Pozzi d’amore], liberamente tratto dal romanzo di Erri De Luca [ep. 2 In alto a sinistra], Antonietta De Lillo [ep. 3 Racconti di Vittoria] Sceneggiatura Antonietta De Lillo, Filippo Pichi Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Scenografia Tata Barbalato, Paola Bizzarri Costumi Daniela Ciancio Musica Fred Frith, Harold Budd, Walter Fanhdrich Suono Giuseppe Napoli Interpreti Enzo Moscato, Enzo De Caro, Vittoria Belcastro Produttori Donatella Botti, Antonietta De Lillo Produzione Angio Film, Bianca Film Distribuzione Atelier

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Antonietta De Lillo

Viento ’e terra Italia, 1996, 38’, bn

Regia Antonietta De Lillo Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Musica E’ Zezi Suono Emanuele Cecere Produzione Metafilm

Viento ’e terra E’ Zezi, è uno storico gruppo musicale dell’entroterra napoletano, composto prevalentemente dagli operai dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco. Attraverso la loro musica tarantella, tammurriata e fronne, ci parlano del loro mondo, della trasformazione della società che da agricola è diventata industriale. Una musica che unisce, con incredibile vitalità, l’antico al moderno. Una musica viscerale e potente che diventa strumento politico e di lotta sociale. «Per essi, cantar non è un lavoro, ma fa parte della loro vita. È per questo motivo che sempre, dopo un concerto, all’alba, indossano la loro tuta da lavoro e se ne vanno direttamente in fabbrica». L’installazione di una fabbrica dell’Alfa Romeo a Pomigliano D’Arco, una piccola cittadina a quaranta chilometri da Napoli, negli anni Settanta, ha sconvolto il paesaggio economico, sociale e culturale della regione. In breve tempo, gli agricoltori sono diventati operai, perdendo i legami con le lori radici contadine. Allo scopo di arginare questa “catastrofe naturale”, alcuni hanno deciso di riunirsi mediante la musica, e di creare il gruppo operaio E’ Zezi, composto da lavoratori di tutti i generi, che si fa promotore di una vecchia cultura della canzone e della musica (come le fronne cantate a cappella e le tamburiate accompagnate dal tamburello), contaminandola con temi e ritmi contemporanei: ne risulta un formidabile sincretismo fra il vecchio mondo contadino e l’universo industriale, dove l’utilizzo dei suoni e degli strumenti della tradizione contadina (flauti, bombarde, scetavaiasse, triccaballacche, tammorre) si mescola ai drammi e alla rabbia del proletariato. Con il tempo, le loro canzoni hanno ricreato un legame con il territorio, con la gente del quartiere e dei vicoli dalla quale non si sono mai voluti separare. (Catalogo generale, Festival Internazionale del Film di Locarno, 1996)

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Antonietta De Lillo

Maruzzella ep. di

I vesuviani

Italia, 1997, 18’, col.

Maruzzella [ep. di I vesuviani] Maruzzella è un travestito che si aggira come un moderno fantasma dell’Opera per i corridoi di un cinema a luci rosse, offrendo prestazioni sessuali molto particolari ai suoi clienti. Finché l’incontro con una giovane ragazza, sconsolata spettatrice di film hard, cambierà radicalmente la sua vita. «Fu un film molto particolare dove nessuno di noi voleva firmare un capolavoro, né prevalere sugli altri, ma fu per noi soprattutto una modalità di stare insieme. Ricordo che c’era molta attesa per l’uscita del film, ma anche un sottile piacere di dire “Forse sbagliano” e questo atteggiamento ferisce. Ci sono persone che ti aspettano al varco e che godono nel vederti quando sei in difficoltà». Delicata e naturale, la storia d’amore tra un travestito (interpretato da Enzo Moscato) e una spettatrice abituale, ma in fondo casuale, di un cinema hardcore. In una sala cinematografica Maruzzella (che è anche il titolo di una canzone napoletana che racconta del pianto per una donna andata) intrattiene e provoca il pubblico con travestimenti e canzoni, sollecita il desiderio e lo mescola alle sue arti culinarie. Si trasformerà in un lieto fine l’incontro di Maruzzella con la spettatrice, che arriva con puntualità al cinema, e sconvolge la routine dell’appuntamento quotidiano diventato evento creato dal dolce Maruzzella. Funziona bene anche la scena finale di questo piccolo film, in cui i ruoli si mescolano e le immagini dei corpi danzanti prendono il sopravvento. E andrebbe sottolineata la discrezione con cui si racconta un’avventura tutta cinematografica, tra spettatori, sala e magico intrattenitore, che anima e arricchisce l’audiovisione.

Regia, Sceneggiatura Antonietta De Lillo Soggetto Marcello Garofalo Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Scenografia Paola Bizzarri Costumi Daniela Ciancio Musica Pasquale Catalano Suono Mario Iaquone Interpreti Enzo Moscato (Maruzzella), Nunzia Di Somma (Elvira Lento), Armando Pugliese (il gestore del cinema), Marcello Colasurdo (Geppino), Luigi Petrucci (il cliente), Sebastiano Ciccarelli (il forestiero), Emanuele Valenti (Giulio) Produttore Giorgio Magliulo Produzione Megaris, Mikado Distribuzione Sacis, Mikado Films

(Anja Franceschetti, «Segnocinema» n. 88, novembre-dicembre 1997)

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Antonietta De Lillo

O’ cinema Italia, 1999, 18’, col.

Regia Antonietta de Lillo Soggetto Enzo Moscato Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Musica Daniele Sepe, Marco Zurzolo Produzione Megaris

O’ cinema Da uno scritto di Enzo Moscato, un breve racconto per immagini che tenta di inseguire le emozioni che la “pratica” del cinema può far affiorare. Un omaggio al cinema e a una città, Napoli, “che tutti hanno visto e che pochi conoscono”. In bilico tra passato e presente, tra realtà e immaginazione, la passeggiata di un bambino (forse la nostra), il suo sguardo sulle cose, sulle persone, sui vicoli della città. «L’attuale Teatro Galleria Toledo, situato nel cuore pulsante dei Quartieri Spagnoli, è stato un tempo una popolare sala cinematografica “o’ cinema”, come dicevamo euforici noi ragazzi. Era, di volta in volta, l’incontro con la fantasia, con l’immaginario, con la possibilità di viaggiare a briglia sciolta attraverso tutti i mondi del possibile». La passeggiata di un ragazzino napoletano attraverso le vie della sua città. Il suo sguardo curioso si posa sia sulle persone sia sulle cose e le trasfigura, portandoci nel mondo dell’immaginazione, ora personale, ora cinematografica. Suggestioni sonore, visive e spezzoni di vecchi film si fondono in questo viaggio nel cuore di Napoli. L’unione tra realtà e fantasia è il pretesto per ricomporre i frammenti della storia di una città e del suo meraviglioso cinema. (www.marechiarofilm.it)

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Antonietta De Lillo

’Osolemio Italia, 1998, 39’, col.

’Osolemio Un racconto che scalfisce i luoghi comuni di una Napoli spesso definita solo come “sole-pizza-amore”. Il film, attraverso la storia della canzone ’O sole mio, dalla nascita nel 1898 alla sua consacrazione, racconta i due volti di Napoli: da una parte quello paradisiaco, luminoso, delle cartoline, dall’altra quello oscuro, misterioso, dei vicoli. Un caleidoscopio fatto di testimonianze che spaziano dall’epoca del muto ai giorni nostri, con le interpretazioni famose di Del Monaco, Elvis Presley, Pavarotti, Sergio Bruni, e quelle occasionali di Paul McCartney e Spice Girls.

Regia Antonietta De Lillo Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Produttore Flavia Villevieille Bideri Produzione Raisat Artè

«Il ritratto della canzone delle canzoni, dello stereotipo della napoletanità per antonomasia, diventa occasione di un viaggio alla scoperta del volto più nascosto di questa città, scavando in profondità fino ad arrivare alle viscere, al buio dei suoi vicoli che fa da contrappunto alla solarità che l’ha resa famosa in tutto il mondo».

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Antonietta De Lillo

Non è giusto Italia, 90’, col.

Regia, Soggetto Antonietta De Lillo Sceneggiatura Mattia Betti, Antonietta De Lillo Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Scenografia Giancarlo Muselli Costumi Costanza Licenziati Musica Antonio Fresa Suono Max Gobiet Interpreti Maddalena Polistina (Sofia), Daniel Prodomo (Valerio), Valerio Binasco (Matteo), Antonio Manzini (Giacomo), Lucia Ragni (la nonna), Monica Nappo (Graziella), Antonella Stefanucci (Paola), Rosa Di Brigida (Cinzia), Nadia Carlomagno (Stella) Produttori Paola Capodanno, Antonietta De Lillo Produzione Megaris, Mikado, Bianca Film Distribuzione Mikado

Non è giusto Sofia e Valerio, due ragazzini di undici e dodici anni, si incontrano casualmente in una Napoli estiva, afosa e semideserta. Entrambi sono stati affidati ai loro padri, due quarantenni afflitti da ogni genere di problema, sentimentale ed esistenziale, mentre le loro madri sono assenti e lontane, all’infuori di brevi incursioni telefoniche. I due ragazzini si sentono continuamente minacciati dall’instabilità e dalla confusione delle loro famiglie. «Non è giusto…», si dicono, alleandosi per affrontare insieme il mondo degli adulti, con distacco e ironia. E per imparare a non averne più paura. «Il film fu girato in digitale e tutto in soggettiva, con la macchina da presa che si sostituiva agli occhi dei bambini. Per me è soprattutto un film sullo sguardo, sulla memoria e su come i bambini vedono il mondo degli adulti». Quel che colpisce nell’impostazione della regista è l’adesione a un universo “in crescita” che si dispiega senza la necessità di far ricorso a quei mezzi e a quelle forzature che troppe volte hanno accompagnato la descrizione per immagini di un mondo “minorenne”. Qui la contrapposizione tra generazioni non si manifesta nell’espressione retorica di rabbie giovanili o nella schematica invenzione di lingue segrete o, peggio, di giochi proibiti: l’antagonismo di Sofia e Valerio, seppur legittimo, è tutt’altro che programmatico, il loro pensiero si fa voce off e manifestazione d’intenti al solo scopo di attraversare l’estate napoletana, come personale percorso di conoscenza. Una tenerezza malinconica e un sorriso dolce, quelli di Valerio e Sofia, spesso ripresi in stretti primi piani in campo/controcampo: la spontaneità dei due ragazzini per la prima volta sullo schermo è probabilmente il punto di maggiore forza di Non è giusto, aperta non soltanto a documentare lo spirito di una stagione a ciascuno appartenuta, ma insospettabilmente capace di indagare anche, con mezzi toni ed espressioni sospese, l’oscura profondità dei sentimenti. (Carlo Avondola, «Segnocinema» n. 114, marzo-aprile 2002)

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Antonietta De Lillo

Pianeta Tonino Italia, 2002, 50’, col.

Pianeta Tonino Ritratto di Tonino Guerra, uno tra i più importanti sceneggiatori Italiani, autore per registi di grande fama come Fellini, Tarkovskij, Antonioni, i fratelli Taviani, Mikhalkov: la sua carriera e la sua vita quotidiana a Pennabilli, piccolo paese del riminese. Proprio qui Tonino Guerra è riuscito a costruire un mondo a sua immagine e somiglianza, attraverso la realizzazione di una serie di opere-segni di indomita vitalità e creatività: fontane, targhe sulle strade, giardini “pensanti”. «Alla mia età non mi piace quasi più niente non solo di me, ma anche degli altri. Ho voglia di robe più sporche, più sbagliate, più interrotte. Mentre parlo con lei, sta passando un cammello, ecco… vorrei che fosse così».

Regia Antonietta De Lillo Fotografia Marco Tani Montaggio Giogiò Franchini Musica Francesco D’Errico Suono Nadia Mersguich Produzione SNC – Produzioni Fondazione Scuola Nazionale di Cinema

«Il ritratto dedicato a Tonino Guerra è un “disegno” in bilico tra la “grandezza” delle sue parole regalate alla poesia e al cinema e la semplicità del suo vivere “ritirato” a Pennabilli, luogo nel quale si respira un po’ ovunque la sua presenza. Tonino Guerra, intrecciata con alcune sequenze tratte dai film che testimoniano la sua lunga carriera di sceneggiatore di oltre ottanta film, il suo rapporto con grandi registi quali Fellini, Antonioni, Rosi, Tarkovskij, i Taviani, Angelopoulos che, come Tonino ama ricordare, “sono quelli che lo hanno cercato, che hanno creduto di trovare in una parte di lui o in lui, quello che a loro fa comodo”. Ho tentato di costruire attraverso le sue parole, le sequenze dei film, le testimonianze della moglie, degli amici di Pennabilli, di Francesco Rosi e dei fratelli Taviani, un unico discorso capace di raccontare non tanto gli avvenimenti della sua vita, quanto le emozioni e le circostanze che li hanno generati. L’esplorazione della vita di Tonino Guerra mi ha rivelato un personaggio difficile, ma generosissimo. Pianeta Tonino è, per me, il risultato dell’incontro con un uomo che possiede un’enorme forza vitale, attraverso la quale egli costruisce le sue “favole” per sconfiggere la sua (e la nostra) più grande paura: la noia e la prevedibilità della vita quotidiana».

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Antonietta De Lillo

Il resto di niente

The Remains of Nothing Italia, 2004, 103’, col.

Regia Antonietta De Lillo Sceneggiatura Giuseppe Rocca, Laura Sabatino, Antonietta De Lillo Soggetto liberamente tratto dal romanzo di Enzo Striano Fotografia Cesare Accetta Montaggio Giogiò Franchini Scenografia Beatrice Scarpato Costumi Daniela Ciancio Musica Daniele Sepe Suono Glauco Puletti Interpreti Maria de Medeiros (Eleonora Pimentel Fonseca), Enzo Moscato (Filangieri), Rosario Sparno (Gennaro), Raffaele Di Florio (Sanges), Imma Villa (Graziella), Lucia Ragni (donna Crezia), Maria Grazia Frassini (donna Vovò Fonseca), Marco Manchisi (Pagliuchella), Riccardo Zinna (Pasquale Tria), Daniele Russo (Giuliano Colonna) Produttori Mariella Li Sacchi, Amedeo Letizia Produzione Factory, Film Corsari Distribuzione Istituto Luce, Revolver

Il resto di niente La nobildonna portoghese Eleonora Pimentel Fonseca, voce della rivoluzione partenopea del 1799, insieme ad altri giovani aristocratici napoletani, si batte per gli ideali di uguaglianza, libertà e fraternità. Ben presto, però, la lama della restaurazione si abbatte sui fondatori dell’effimera Repubblica e il loro sogno divenuto realtà si frantuma in mille pezzi. «La scoperta del libro [di Enzo Striano] ci ha spinto a interrogarci su questa storia e cercare di raccontare, più che gli eventi storici, i sentimenti, le spinte emotive e le ragioni profonde che li animarono: la ricerca della felicità – una felicità per tutti e non più privilegio di pochi; l’ideale di un mondo nuovo, il sogno di una Repubblica basata sulla comune responsabilità. Un’utopia che per un momento sembrò avverarsi nell’esperienza effimera della Repubblica partenopea e che ebbe tra i suoi protagonisti Eleonora Pimentel Fonseca. La scelta di Eleonora come guida, al di là del fascino e dell’interesse del personaggio, ci ha permesso di assumere un punto di vista particolare: era la meno giovane nel gruppo dei patrioti, l’unica straniera e una delle poche donne. Abbiamo scelto di raccontare le vicende attraverso la dilatazione di un “tempo reale”: le poche ore che precedono la fine della vita di Eleonora. Questo ci ha permesso di mettere la macchina da presa al centro dell’anima di una donna per registrare dolori, speranze e passioni di un’intera esistenza. Ci ha consentito di accompagnarla in questo “viaggio” nella memoria, nel desiderio di continuare a porci domande alle quali i rivoluzionari dell’epoca non riuscirono a dare risposte. E che sono attuali oggi, quanto lo erano nel Settecento napoletano». Una storia al femminile in un contesto maschile, la rivoluzione mancata nel tempo che manca alla Storia per farsi finalmente “dire”. Un flashback che diventa flash forward, uno sguardo a retro che guarda oltre assumendo il passato per l’apprendimento del presente; il ricorso a una tecnica molto originale, che sembra fare il verso al Godard dei tableaux vivant, consente la visione concreta e reale di una realtà volta in assioma, un risvolto di memoria che (s) piega la necessità di una visione complessa, in cui la tensione etica e il relativo annunciato disincanto politico sono le facce della stessa medaglia. Il naufragio dell’ideale diviene il senso di una deriva storica e personale nell’estenuata volontà di aprire la Storia al tempo del riscatto, la lotta verso l’emancipazione civile e individuale. (Walter Mazzotta, Al margine della deriva, «Filmcritica» n. 579, novembre 2007)

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AA.VV.

[film partecipato coordinato da Antonietta De Lillo]

Il pranzo di Natale Italia, 2011, 50’, col.

Il pranzo di Natale Il pranzo di Natale come rito centrale della nostra collettività sullo sfondo di una società in crisi, ma anche l’immagine di un’umanità onesta che con orgoglio manifesta la forza e la volontà di reagire. I “Natali” narrati sono vari: c’è quello ingenuo e felice di un bambino che aspetta i regali da Babbo Natale, quello rassegnato e “nero” di chi ormai ha perso tutto, quello festeggiato in solitudine e quello in comunità… I treni sono affollati di persone e desideri che raggiungono i propri cari per l’irrinunciabile rito. «Sono da sempre attratta dalla finzione, il cinema per me è narrazione ma anche realtà e quindi documentazione. Ecco perché in questo caso non attingo da un’unica fonte, ma ho messo insieme materiali diversi, a partire dai ritagli di giornali e spezzoni tv. Del resto la nostra vita oggi è un po’ così. Si è trattato di ottenere un prodotto che prendesse forma sulla base della condivisone di un argomento noto a tutti, come il tema del pranzo di Natale. I contributi sono arrivati da soggetti molto diversi: giovani attrici, teatranti, filmmakers, un videoartista, gente comune. Mi aspettavo più prodotti domestici, invece c’è stata una vasta area di giovani desiderosi di mettersi alla prova».

Regia AA.VV. Soggetto Antonietta De Lillo Montaggio Valeria Sapienza Musica Matthew Temple, Frédèric Fasel, Zen Circus, Fabio Gargano e Pietra Montecorvino, Harold Budd e Michael Hoenig Con Piera Degli Esposti Produzione, Distribuzione Marechiarofilm

Questa pellicola è la risposta a due specifiche esigenze che da sempre ispirano la regista. La prima è connessa alla sua curiosità nei confronti dell’evoluzione del linguaggio tecnico, con particolare attenzione al mondo digitale e alla Rete; la seconda riguarda invece la consapevolezza del fatto che ognuno di noi si sia sentito, anche solo per un momento, non compreso o isolato. Attorno a queste riflessioni ha preso forma e sostanza il progetto Il pranzo di Natale. Una mirata campagna d’informazione veicolata attraverso i social network, gli uffici stampa, internet, la collaborazione con repubblica. it, la piattaforma digitale marechiarofilm.it ha scandito la genesi e la crescita di un’operazione volta a coinvolgere cineasti (professionisti e non) affinché girassero e inviassero le loro testimonianze sul tema delle ritualità natalizie. I materiali, con l’ausilio di un coordinamento artistico, sono stati selezionati per andare a comporre tanti tasselli che oggi costituiscono la pellicola. (Elena Canavese, «Duellanti» n. 74, dicembre 2011)

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Antonietta De Lillo

La pazza della porta accanto

Conversazione con Alda Merini The Crazy Woman Next Door

Conversation with Alda Merini Italia, 2013, 52’, col.

Regia Antonietta De Lillo Montaggio Valeria Sapienza Musica Philippe Sarde (La vie devant soi), Ascanio Celestini (L’amore stupisce) Con Alda Merini Produzione, Distribuzione Marechiarofilm

La pazza della porta accanto Conversazione con Alda Merini Alda Merini racconta la propria vita in una narrazione intima e familiare, oscillando continuamente tra pubblico e privato, soffermandosi sui capitoli più significativi della sua esistenza: l’infanzia, la femminilità, gli amori, la maternità e il rapporto con i figli, la follia e la lucida riflessione sulla poesia e sull’arte. Il volto della poetessa e i dettagli di occhi, mani e corpo, ne compongono un ritratto che non nasconde le contraddizioni di una tra le più importanti e note figure letterarie del secolo scorso. «Io sono una donna molto facile, molto normale, hanno fatto una costruzione enorme ma in fondo sono una persona di tutti i giorni, sono proprio la pazza della porta accanto». «Da quando realizzai Ogni sedia ha il suo rumore nel 1995 ho sempre avuto nel cuore l’idea di recuperare il materiale prezioso “rimasto nel cassetto” dell’incontro con Alda Merini. Un materiale che in quel lavoro si intrecciava con la performance di Licia Maglietta, tagliando inevitabilmente fuori la parte della conversazione con Alda Merini. A distanza di vent’anni, grazie alla collaborazione di Rai Cinema, questo materiale è stato finalmente recuperato ed è diventato La pazza della porta accanto, un lavoro che restituisce integralmente quello straordinario incontro». La visione del film è uno sfogliare continuo toccanti pagine sull’amore, la maternità, la follia, la coppia, la vita, la morte. Un far luce su un’esistenza speciale che porta con sé la capacità di illuminare il cammino degli altri. Perché se la chiave apparente del documentario è quella dell’intervista, il ritmo interno e l’organizzazione dei blocchi narrativi ne fanno uno straordinario compendio sull’arte di sopravvivere e su come sia possibile per ogni individuo ritrovare sempre in sé un briciolo di speranza, anche nella peggiore delle situazioni. La pazza della porta accanto è un cazzotto nello stomaco che si trasforma miracolosamente in una boccata d’aria pura. Le parole di Merini sono carezze per lo spirito. E soprattutto un dono a chi l’ha amata e continua ad amarla. Per citare ancora una volta dei suoi versi, «Ho scritto migliaia e migliaia di poesie. Ma non ne ho conservata nessuna. Le regalo. Per me conservo i sentimenti che le hanno animate». Non questa volta, di fronte all’obiettivo di De Lillo. Felice eccezione. (Angela Prudenzi, www.cinematografo.it)

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Lourdes

Il diavolo non dorme mai Lorenzo Rossi

Spesso, qui dalle nostre parti, quando si pensa ai Paesi che stanno a Nord, appena al di là delle Alpi, in quella Mitteleuropa che è il motore del Continente, specialmente coi tempi che corrono, ci si figura un’immagine di benessere diffuso, di Stati che si prendono cura dei propri cittadini e di una qualità della vita decisamente migliore della nostra. Allo stesso tempo, tuttavia, resiste anche un vecchio luogo comune secondo il quale tanta abbondanza sia inversamente proporzionale al tasso di soddisfazione e di felicità individuale. La questione, naturalmente, è ben più complessa di così e andrebbe approfondita in maniera razionale, eppure come diceva Ennio Flaiano sembra innegabile che «la civiltà del benessere porti con sé proprio l’infelicità». Si potrebbe partire da qui per parlare del cinema di Jessica Hausner – quarantadue anni, nata a Vienna, sei film all’attivo – e, anzi, si potrebbe quasi dire che il cinema della regista austriaca si situi proprio in quella piega e in quel vuoto insondabile che sta fra il benessere e l’infelicità, fra la materia e la percezione, fra il desiderio e il possesso. Fra quelle emozioni e quelle sensazioni, cioè, che costituiscono il locus in cui risiedono i nostri bisogni e le nostre passioni primarie ed entro i quali si originano i nostri comportamenti sociali. E si potrebbe partire proprio dall’Austria per capire quanto mettere in scena situazioni e personaggi dal respiro universale e storie quasi senza luogo e tempo, significhi per Hausner calarsi nella rappresentazione della cultura che le appartiene (austriaca sì, ma fatalmente anche europea) e nell’esplorazione proprio di quello che sta fra la dimensione delle valutazioni percettive e la insondabilità delle credenze popolari. Quell’Austria che abbiamo visto e conosciuto attraverso i film di alcuni dei suoi 89


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Hotel

più illustri connazionali cineasti, già da qualche anno protagonisti di una progressiva affermazione del cinema nazionale, e con i quali in qualche modo, nel lavoro della regista, individuiamo una certa contiguità. Come Michael Haneke, del quale in effetti Hausner è stata collaboratrice agli albori della carriera, e che ha senz’altro esercitato un’influenza non trascurabile su alcuni aspetti del lavoro della giovane filmmaker, soprattutto per via del rigore e della glacialità del proprio sguardo sul mondo, ma anche Ulrich Seidl, capace di un punto di vista sulle cose talmente endemico e spietato da risultare quasi didattico. E più di tutti Götz Spielmann, regista dalla spiccata coerenza estetica con cui Hausner condivide molto, cinematograficamente parlando: non soltanto dal punto di vista narrativo e della rappresentazione, ma anche da quello produttivo. Anche se ciò che dalla visione dei film di Jessica Hausner viene alla luce, al di là dell’appartenenza a un canone cinematografico nazionale ricco di modelli autorevoli, è la capacità di descrivere e dare corpo a una società e a un mondo che, seppur costituiti da pochissimi elementi, sono tuttavia in grado di rendersi interpreti di una rappresentazione tanto organica quanto universale. Riassumendo, di fatto, una lunga e variegata sequela di emozioni, sentimenti e impulsi in pochissimi gesti, in una messinscena essenziale e sottrattiva e in un apparato narrativo svuotato di qualsivoglia straripamento emozionale. L’estrema razionalizzazione, anche estetica, che Hausner opera in sintonia con un gusto armonico per le forme e i colori, che è il sintomo più evidente della sua personalità registica, corrisponde all’intenzione di proporre un cinema che dal punto di vista enunciativo è indirizzato alla restituzione di quella che potremmo definire una presa di coscienza del reale. Non c’è la ricerca di risposte né la pretesa di fornirne nel suo cinema, mentre al contrario sono le domande a esser avanzate in continuazione. A contatto con una costruzione narrativa quasi autarchica, infatti, la mdp della regista viennese sembra nutrire il proprio sguardo di un’osservazione entro la quale viene completamente meno il concetto di mediazione. E in questo senso, quello che risulta necessario alla messinscena è la definizione di spazi onirici e metaforici costituiti da elementi che 90


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rimandano continuamente a qualcosa d’altro. Che nella loro materialità e concretezza sono in grado, cioè, di rendere corporeo l’atto simbolico della rappresentazione e di dare accesso alla dimensione psichica dei personaggi. In questo senso, dunque, l’invasione impudica dell’occhio cinematografico negli interni delle case, nelle stanze, fino addirittura nei corpi e nei luoghi più intimi dell’esistenza dei protagonisti, si attesta come la manifestazione della forza carsica ed eversiva di questo cinema che infrange la sacralità della separazione fra pubblico e privato decretandone definitivamente la fine. Mettendo così in discussione il complesso rapporto che esiste fra individuo e collettività e fra sentire intimo e necessità sociale. Ma è, a ben guardare, anche la restituzione visiva della capacità di quegli stessi luoghi di ergersi a costruzioni materiali e a tangibili evocazioni dei meandri degli inconsci e delle coscienze dei personaggi che vivono sullo schermo. L’esigenza di una messa in scena organica e sorretta dalla costruzione geometrica e lineare degli spazi, del resto, deriva proprio dalla necessità di restituire tale apparato enunciativo. Atteggiamento che si riflette, nondimeno, in una regia che predilige la frontalità e la centralità dei soggetti, preferibilmente colti, questi ultimi, nella loro interezza e inseriti in spazi che li inglobano e ai quali essi si rendono assimilabili. La forte oggettivizzazione che viene a generarsi dà vita, in questo modo, a un’illustrazione profondamente ambigua di ciò su cui la macchina si fissa. Un’ambiguità accentuata anche dal continuo dialogare delle inquadrature con ciò che rimane a loro estraneo: ovvero quel fuori campo che costituisce un nucleo tematico centrale della realizzazione filmica hausneriana. Sembra, osservando con attenzione, che nel cinema di Hausner vi sia sempre qualcosa che rimane volutamente escluso dalla centralità della scena, qualcosa che dialoga da fuori e che da fuori viene evocato. Come un referente esterno, un occhio cui si chiede di soggettivizzare quanto è mostrato, di umanizzarne il punto di vista, di essere il controcampo mentale di quell’istantanea asettica, glaciale e intrisa di spietata impersonalità, che abita lo schermo. Questa consustanzialità tra forma e sguardo diviene in ultima analisi una sorta di dispositivo autoriale, una struttura espressiva, se si preferisce, attraverso la quale la regista opera una propria mappatura della realtà e un’indagine su ciò che la circonda. Sarebbe a dire la messa in opera un vero e proprio stile, termine abusatissimo – soprattutto in epoca contemporanea – eppure, nel caso specifico, assolutamente non usato a sproposito. Perché ciò che più colpisce, osservando i film di Jessica Hausner, è proprio la lucidità e la pertinenza di uno sguardo che non si piega alle logiche del consumo o delle ultime tendenze in fatto di rappresentazione e messinscena. Ma che anzi appare capace di rendersi interprete delle esigenze enunciative che di volta in volta, quindi di film in film, appaiono necessarie a coniugare il racconto e il linguaggio, la forma e l’espressione o più semplicemente il cosa e il come. Già dal primo lavoro, il cortometraggio Flora (1995), realizzato alla Filmakademie di Vienna da una Hausner giovanissima e ancora studentessa, si cominciano a intravedere alcune delle caratteristiche che troveranno maturazione nelle successive esperienze cinematografiche. Come l’interesse per il tema dell’adolescenza, che ritroveremo in Lovely Rita (2001), o per uno sguardo sentitamente femminile sul mondo – dato, quest’ultimo, che rimarrà una costante in tutto il successivo lavoro della filmmaker – ma anche il gusto per una raffigurazione dei personaggi secondari a metà fra l’eccentricità del grottesco e la bidimensionalità della maschera, atteggiamento in linea, sì, con le esigenze narrative e le limitatezze dovute alla durata di un cortometraggio, ma tuttavia riscontrabile anche in diverse opere successive. Flora è dunque l’atto inauguratore di un’espressione cinematografica determinata a rifuggire le vie dell’intrattenimento più comodo o l’adesione a codici di rappresentazione scontati e che, seppur imperfetto e forse un poco incompiuto, si segnala per un acume e una coerenza davvero rari per un lavoro scolastico. Il successivo Inter-View (1999), che della Filmakademie è il saggio di diploma, con un metraggio sempre inferiore all’ora, diviene per Hausner l’occasione di unire le proprie conoscenze in ambito cinematografico con la formazione in campo psicologico che aveva sviluppato negli anni precedenti gli studi all’Accademia. Impostando una prospettiva che riemergerà irrobustita in Lourdes (2009), la regista lavora sul conflitto – 91


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quello dei due protagonisti, uno votato al disprezzo e l’altra all’amore – quale elemento di messa a nudo della lacerazione dei rapporti sociali e della contraddittorietà dei sentimenti. Quella della felicità come raggiungimento del desiderio e soprattutto come appagamento individuale è una ricerca che appare mendace e senza sbocchi. Anche se ciò a cui l’analisi punta sembra essere non tanto il (falso) problema dell’esistenza della felicità, quanto piuttosto come essa condizioni più o meno direttamente i legami interpersonali e come, soprattutto, sia una sorta di catalizzatore di ben altri sentimenti: come l’invidia, il dolore o il rancore. Allo stesso modo anche nei film successivi l’occhio dell’autrice, estraneo a prese di posizione di qualsivoglia natura, assume il ruolo di un osservatore freddo, impassibile, spietato. Come spietato è Lovely Rita, il film che ha rivelato Hausner alle platee internazionali. Selezionato per la sezione Un Certain Regard al festival di Cannes nel 2001, il film è anche il primo lavoro della regista dopo il diploma e il suo esordio nel lungometraggio. Il racconto dell’adolescenza vista attraverso Rita, una quindicenne come tante – bruttina, non particolarmente intelligente né dotata, ma del tutto fuori dagli schemi – è lucido e terribile. Un ritratto nel quale l’influenza hanekiana appare palese e ancor più palese l’intenzione di non dare riferimenti allo spettatore, di lasciare che la storia proceda in maniera quasi naturale e che si compia da sé. La discontinuità del montaggio e il procedere verticale di una narrazione spesso dimentica dei raccordi logici e impostata sull’accostamento di sequenze fra loro quasi interdipendenti, ne sono le prove più manifeste. E in effetti l’abilità di Hausner nel gestire il racconto, si avverte nel modo raffinato con il quale riesce a dare scorrevolezza e linearità alla storia senza intervenire sulla sceneggiatura o sui dialoghi, ma punteggiando di riferimenti visivi e di elementi ricorrenti la pellicola. Come dimostra il particolare della lampada del salotto della casa di Rita che si accende in modo automatico, immagine con la quale il film si chiude. Un momento evocativo profondo, brutale e allo stesso tempo toccante, che da solo basta allo spettatore per mettere in discussione tutto ciò a cui ha fin lì assistito. Lovely Rita è in questo senso la rappresentazione di un orrore del quale non si danno giudizi morali e in cui alberga la liceità di mostrare la violenza senza che chi guarda venga invitato, o spinto, a prendere posizione contro o a favore di chi di quella violenza si rende colpevole. Ma l’orrore, inteso questa volta come genere vero e proprio, è anche al centro di Hotel (2004), il secondo lungometraggio della regista e il suo film di certo più enigmatico. Ambientato in un lugubre albergo delle Alpi austriache, Hotel ha tutti i crismi del film horror riuscendo allo stesso tempo, però, a essere tutt’altro. L’ambientazione claustrofobica e il clima di costante inquietudine nel quale la vicenda di Irene – la nuova receptionist dell’hotel assunta per rimpiazzare Eva, scomparsa in circostanze misteriose – è inserita, conduce a riflessioni e domande sull’origine della paura. Il rispecchiamento visivo dei sentimenti della protagonista, ai quali Hausner dà corpo tramite una continua insistenza sugli stessi elementi, come il vuoto, il buio, i lunghi corridoi dell’albergo ciechi e che non conducono in nessun posto e la presenza disturbante del bosco che circonda l’hotel, e che ha valso al film una schiera di illustri paragoni – da Repulsion (id., 1965) di Polanski a Shining (The Shining, 1980) di Kubrick e fino a Strade Perdute (Lost Highway, 1997) di Lynch – è, ancora una volta, il modo attraverso il quale la regista non solo riesce a calare il proprio personaggio principale in una dimensione onirica nella quale realtà e sogno si mischiano ineluttabilmente, ma anche la soluzione con cui ella dà corpo in maniera non scontata al senso del perturbante che domina la vicenda. Anche perché l’orrore che è parte della storia, si situa esclusivamente all’interno di questo vuoto spaziale su cui lo sguardo dello spettatore è invitato a fissarsi, e non assume corpo alcuno se non, come evidenziato dallo sguardo in macchina della protagonista nel momento in cui il film raggiunge il proprio climax, dalla presenza della mdp stessa. Una macchina che sembra aprire le finestre dell’incubo, che getta il terrore contro chi la guarda e che rende manifesto il senso di vampirizzazione insito nell’atto voyeristico del guardare. Il film che ha sancito la definitiva affermazione di Jessica Hausner nel panorama del cinema d’autore contemporaneo e finora suo ultimo lavoro (aspettando l’atteso Amour fou che dovrebbe uscire nel corso di quest’anno) è Lourdes. In concorso a Venezia nel 92


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2009 e pluripremiato, oltre che al Lido, nei festival di mezzo mondo, il film racconta la storia di Christine, malata di sclerosi e costretta sulla sedia a rotelle, che durante un pellegrinaggio a Lourdes guarisce e inizia a camminare. I numerosi e complessi temi che la pellicola affronta non sono soltanto di natura religiosa. Accanto a questioni come quelle connesse alla fede, all’operato di Dio, agli affari e alla mercificazione legati ai luoghi di culto e al significato spirituale e trascendentale dei miracoli, convivono domande e dubbi che hanno a che fare con gli istinti, le passioni e i sentimenti, più materiali e terreni, degli uomini. L’invidia, l’egoismo, la vanità e la gelosia si mescolano e convivono con il dolore, la sofferenza, l’orgoglio e la rabbia che abitano tanto i corpi dei malati, quanto quelli di volontari e accompagnatori. Ancora una volta Hausner non sceglie di schierarsi a favore o contro qualcuno, né di adottare una prospettiva manichea o pietista all’interno della materia che si trova a trattare. Non per questo, tuttavia, il suo occhio risulta prevalentemente documentario, piuttosto ella lascia che siano soprattutto i personaggi a porsi quali mediatori della rappresentazione. E per farlo lavora minuziosamente una composizione profilmica all’interno della quale ci viene chiesto di scrutare, osservare, essere spettatori attivi. Privilegiando campi medi e lunghi nei quali i personaggi rimangono spesso subordinati rispetto alla totalità dell’inquadratura – in quella che apre il film sulle note dell’Ave Maria di Schubert, addirittura, un lento carrello stringe verso il centro lasciando fuori campo la protagonista – la regista compone dei piccoli tableaux vivants entro i quali, proprio come nei corpi dei personaggi, convivono in contemporanea diverse e contrastanti passioni, emozioni e desideri. Ma senza esimersi, in tutto questo, dal rivestire l’orizzonte della propria narrazione di un senso di angosciante e opprimente inquietudine, la stessa che dimora in tutti gli altri suoi film e che qui assume la forma del dubbio e dell’incertezza. Quasi che dietro a ogni azione manifesta, ovvero visibile e rappresentabile, si nasconda qualcosa di inavvertibile e incorporeo che resta fuori dall’inquadratura, come quell’interlocutore invisibile che Christine saluta con un cenno della testa e guardando furtivamente in camera in una delle prime immagini del film. «Il diavolo non dorme mai!», esclama il direttore dell’albergo serrando a chiave la porta del seminterrato in Hotel. Si tratta solo di capire se l’abbiamo lasciato fuori, o se ci siamo chiusi dentro con lui.

Jessica Hausner (Vienna, Austria, 1972), regista e sceneggiatrice, frequenta i corsi di regia alla Filmakademie di Vienna, dove nel 1995 gira il cortometraggio Flora con cui si aggiudica il premio Pardi di domani al festival di Locarno. Due anni più tardi è addetta allo script sul set di Funny Games di Michael Haneke. Nel 1999, grazie al suo secondo lavoro, Inter-View, partecipa al festival di Cannes dove vince il Prix de la Cinéfondation. Nel 2001 è ancora a Cannes, sezione Un Certain Regard, con Lovely Rita – poi distribuito in venti Paesi − e nel 2004 con Hotel. Nel 2009 è in concorso al festival di Venezia con Lourdes, film che le vale il premio Fipresci e l’attenzione unanime della critica. Lourdes viene inoltre singolarmente premiato sia dall’Organizzazione cattolica per il cinema (Premio SIGNIS) che dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Attualmente sta completando la lavorazione del suo prossimo film, Amour fou, annunciato per il 2014.

Filmografia Flora (short, 1995) Inter-View (1999) Lovely Rita (id., 2001) Hotel (id., 2004) Toast (2006) Lourdes (id., 2009) Amour fou (2014) [annunciato]

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Jessica Hausner

Flora Austria, 1995, 25’, col.

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio Jessica Hausner Fotografia Robert Winkler Scenografia Kristina Haider, Rupert Müller Costumi Tanja Hausner, Malvine Kohout Suono Dieter Draxler Interpreti Claudia Penitz (Flora), Andreas Götz (Jakob), John F. Kutil (Attila), Hartha Hans (la madre di Flora), Alfred Farkas (il padre di Flora) Produttore Martin Gschlacht, Jessica Hausner Produzione Filmakademie Wien Distribuzione Sixpack Film

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Flora Flora è un’adolescente, vive con i genitori e frequenta un corso di ballo. È attratta dallo spavaldo Attila ma frequenta il timido Jakob. Poi cambia idea, scappa di casa e si fa avanti con Attila. Ma forse non è la scelta migliore… Jessica Hausner racconta l’adolescenza attraverso uno sguardo cupo, fra Haneke e Korine. E con un’idea di messa in scena cruda, secca e intenzionata a sradicare il reale dal suo terreno. Flora mette in scena la solitudine di coloro che sono esclusi dalla socialità, non dei veri emarginati, ma solo persone che non hanno accesso agli scambi di opinione, ai rapporti con gli altri e al sesso. (Baptiste Piégay, «Cahiers du Cinéma» n. 557, maggio 2011)


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Jessica Hausner

Inter-View Austria, 1999, 45’, col.

Inter-View Un giovane, armato di registratore, ferma le persone per la strada chiedendo loro se sono felici. Una ragazza, dopo diversi tentativi falliti, trova l’amore e per la prima volta le cose nella sua vita sembrano andare per il meglio. I due sono vicini si casa, lui la intervista e l’atteggiamento vitale e gioioso di lei lo infastidisce enormemente. Sembra che lei sappia qualcosa sull’amore, sulla felicità e sulla vita, che per lui resta irraggiungibile. Alla fine il ragazzo si infuria, lei fugge, e lui scopre di riuscire a trovare il proprio appagamento soltanto nel disprezzo della felicità altrui. L’approccio visivo di Hausner, già molto scarno, è anche rigido e distaccato; la regista non usa alcun taglio di montaggio all’interno delle scene e, al contrario, opera dei lunghissimi piani fissi in “master ground” e tramite una macchina da presa immobile e un poco sgraziata tiene volutamente lo spettatore a distanza. Naturalmente l’approccio è destinato a rinforzare il distacco fra il protagonista, intervistatore, e il resto della società, ma il senso di stasi che risulta da questo tipo di operazione appare fiacco e inquietante. (Lael Loewenstein, «Variety», 21 agosto 1999)

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Produttore Jessica Hausner Fotografia Martin Gschlacht Montaggio Karin Hartusch Scenografia Kristina Haider Costumi Tanja Hausner, Lia Manikas Suono Dieter Draxler Interpreti Birgit Doll, Hagnot Elischka, Hakon Hirzenberger, Klaus Händl, Nica Steinbauer, Andreas Zacharasiewicz Produzione Filmakademie Wien Distribuzione Sixpack Film

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Jessica Hausner

Lovely Rita Austria, 2001, 76’, col.

Regia, Soggetto, Sceneggiatura Jessica Hausner Fotografia Martin Gschlacht Montaggio Karin Hartusch Scenografia Katharina Wöppermann Costumi Tanja Hausner Suono Martin Schalow, Thomas Schmidt-Gentner Interpreti Barbara Osika (Rita), Christoph Bauer (Fexi), Peter Fiala (l’autista dell’autobus), Karina Brandlmayer (la madre di Rita), Wolfgang Kostal (il padre di Rita), Gabriele Wurm Bauer (la madre di Fexi), Harald Urban (il padre di Fexi), Felix Eisier (il fratello di Fexi), Ursula Pucher (l’insegnante), Lili Schageri (Alex) Produttori Philippe Bober, Heinz Stussak, Antonin Svoboda Produzione Coop 99, Essential Filmproduktion, Prisma Film Distribuzione Mikado

Lovely Rita Rita ha quindici anni, abita con i genitori e frequenta una scuola cattolica. Per via del suo carattere irrequieto e della sua indisciplina non riesce però a trovare il suo posto nel mondo. Odiata dai compagni di classe, mal sopportata dai professori e incompresa dai genitori, si lascia andare in continuazione a gesti sconsiderati. Anche la scoperta della propria sessualità, prima con un vicino di casa troppo giovane e poi con un autista di bus troppo vecchio, non fa che acuire il suo isolamento. Finché un giorno la combina più grossa del solito. Le conseguenze saranno dure per tutti. «ll personaggio principale non deve essere un mostro mentre tutti gli altri sono normali. La madre di Rita per esempio, potrebbe anche aver tagliato la gola a un canarino una volta, ma a nessuno interessa. I personaggi principali sono piuttosto dei barometri che ci aiutano a prendere la misura delle cose, perchè essi si scontrano con l’ambiente nel quale vivono. Sono soltanto uno specchio: sono persone come le altre, con le proprie debolezze e i propri errori, e non c’è alcuna possibilità di immedesimazione con loro». Questa “Lovely Rita” non ha nulla a che vedere con l’affascinante vigilessa di Lennon e McCartney. Adolescente silenziosa e capace solo di rapporti distruttivi con tutti quelli che la circondano – fatta eccezione per un giovane vicino di casa e un autista di autobus che lei utlizza, secondo modelli differenti, come catalizzatori sessuali – non concede alcun appiglio né alla comprensione, né all’analisi. Jessica Hausner ne traccia un ritratto allo stesso tempo dettagliato e lacunoso, opaco e sensibile: Rita è in ogni inquadratura maldisposta, inadeguata e ostile, completamente presa dalla sua ribellione e capace di comportamenti imprevedibili fatti della stessa natura eversiva. (Lucien Logette, «Jeune Cinéma» n. 211, estate 2009)

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Jessica Hausner

Hotel Austria • Germania, 2004, 76’, col.

Hotel Irene è la nuova receptionist in un hotel delle Alpi austriache. Eva, la ragazza che sostituisce, è scomparsa misteriosamente e senza lasciare traccia. Ben presto Irene comincia ad avvertire qualcosa di strano. Durante i turni di notte nel grande albergo tutto quanto appare bizzarro e gli eventi assumono un carattere inquietante. La donna sospetta qualcosa di poco chiaro, ma fra i colleghi e gli ospiti dell’hotel regna una misteriosa e sinistra omertà. Scossa, psicologicamente prostrata e preoccupata per la sua incolumità, decide di andarsene via. Lasciare l’albergo, però, non sarà affatto semplice. «La mia immaginazione è influenzata dalla cultura dell’ambiente in cui vivo. Ho letto molte storie e numerosi racconti austriaci mentre scrivevo Hotel. E gli elementi che hanno a che fare con la mitologia germanica, come la foresta e la “Signora dei boschi” fanno tutti parte del film. Ma questi sono solo richiami drammatici e non vanno presi troppo sul serio. Io, per esempio, vedo in loro un aspetto ludico. La caratteristica principale di un film di genere, poi, è la sua aderenza al genere stesso. È una cosa che dà allo spettatore una sensazione di familiarità. Qui tutte le convenzioni sono rispettate e il senso di sicurezza del pubblico, in questo senso, non è mai messo alla prova». Se qualcuno avesse mai sognato una versione austriaca di Shining di Stanley Kubrick, con Hotel è stato accontentato. Non c’è alcun cimitero indiano e nemmeno un Jack Nicholson posseduto, ma soltanto una giovane receptionist emarginata, Irene, che si aggira per i lunghi corridoi bui di un hotel di lusso delle Alpi austriache, il Waldhaus. Un luogo estremamente sinistro, che più che un albergo ricorda un vecchio sanatorio. Non c’è nulla di sconvolgente né di allucinante nella confezione glaciale imbastita da Hausner, solo la rappresentazione di una minaccia sconosciuta che gira per i corridoi dell’hotel.

Regia, Soggetto, Sceneggiatura Jessica Hausner Fotografia Martin Gschlacht Montaggio Karina Ressler Scenografia Katharina Wöppermann Costumi Tanja Hausner Suono Frieder Glöckner Interpreti Franziska Weisz (Irene), Birgit Minichmayr (Petra), Marlene Streeruwitz (la signora Maschek), Rosa Waissnix (la signora Liebig), Christopher Schärf (Erik), Peter Strauß (il signor Kross), Regina Fritsch (la signora Karin), Alfred Worel (il signor Liebig) Produttori Philippe Bober, Martin Gschlacht, Susanne Marian, Antonin Svoboda Produzione Essential Filmproduktion, Arte, Coop 99, Westdeutscher Rundfunk (WDR), Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF), Österreichischer Rundfunk (ORF) Distribuzione EP Production

(Vincent Thabourey, «Positif» n. 529, marzo 2005)

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Jessica Hausner

Toast Austria, 2006, 1’ 45”, col.

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio Jessica Hausner Fotografia Martin Gschlacht Interpreti Susanne Wuest Produttore Adam Budak Produzione, Distribuzione Coop 99

Toast Una ragazza entra in cucina e inizia a prepararsi un toast. Quella che a prima vista sembra una semplice attività giornaliera, ben presto si trasforma in un’abbuffata ossessiva e senza limite. Assurdo nella sua ordinarietà e quasi dadaista nel suo impianto in stile slapstick, il film di Jessica Hausner è divertente e provocatorio e come tale non porta con sé alcuna dichiarazione di natura estetica o politica. Echeggiando il pensiero post-femminista, e mettendo in discussione lo stereotipo femminile della rabbia e della frustrazione, funziona sia come un ritratto parodico di un momento di isteria e disperazione che come satira di una società dedita all’iper-consumismo e alla superficialità. (DIAGONALE. Festival del film austriaco, Graz 2006, www.diagonale.at)

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Jessica Hausner

Lourdes Austria • Francia • Germania, 2009, 96’, col.

Lourdes Christine, bloccata sulla sedia a rotelle da una malattia incurabile, partecipa a un pellegrinaggio a Lourdes. Nel corso del viaggio si affeziona a Maria, una giovane volontaria dell’Ordine di Malta che si prende cura di lei, e alla signora Hartl, una sessantenne brusca e solitaria. Durante il soggiorno presso il santuario Christine guarisce dalla malattia: questa improvvisa e inaspettata situazione la getta in uno stato di grande felicità e allo stesso tempo di timore per un’eventuale ricomparsa dell’infermità. L’origine miracolosa dell’evento, inoltre, inizia a generare un crescente sentimento di invidia e scetticismo. «Il film mostra da un lato la fede in un Dio buono ed eterno e dall’altro la realtà arbitraria ed effimera. Lourdes è un racconto crudele. Malati e moribondi accorrono al santuario dai quattro angoli del pianeta per ritrovare la salute. Sperano in un miracolo, perché è proprio lì che i miracoli accadono. Peccato che Dio sia così capriccioso, che dia e tolga a seconda del suo umore e che le sue vie rimangano insondabili. Lourdes è un luogo in cui si afferma l’esistenza del miracolo, un luogo che è sinonimo di speranza, di conforto e di guarigione per i moribondi e i disperati. Eppure, la speranza che a un passo dalla morte tutto possa ancora risolversi sembra assurda, quando la vita arriva alle sue battute finali». Al progetto di filmare un luogo di fede, descrivendo con precisione da entomologo le dinamiche e i comportamenti sociali che si sviluppano, si aggiunge l’idea di spingere la scrittura a confrontarsi con il concetto di miracolo. Affrontando il soggetto da una prospettiva laica e trattandolo con la massima serietà, senza negarsi una punta di humour, la regista austriaca esclude ogni deriva parodica o immersione nel kitsch. Il rigore della macchina da presa resta invariato sia quando si tratta di evidenziare i goffi comportamenti di una crocerossina infatuata di un ufficiale della Croce di Malta sia quando si segue il nascere e lo svilupparsi di un movimento nel fisico della protagonista».

Regia, Soggetto, Sceneggiatura Jessica Hausner Fotografia Martin Gschlacht Montaggio Karina Ressler Scenografia Katharina Wöppermann Costumi Tanja Hausner Suono Uwe Haussig Interpreti Sylvie Testud (Christine), Léa Seydoux (Maria), Bruno Todeschini (Kuno), Elina Löwensohn (Cécile), Gilette Barbier (la signora Hartl), Gerhard Liebmann (padre Nigl), Linde Prelog (la signora Huber), Heidi Baratta (la signora Spor), Hubsi Kramar (il signor Olivetti), Helga Illich (la signora Olivetti), Walter Benn (il signor Hruby) Produttori Philippe Bober, Martin Gschlacht, Susanne Marian Produzione Arte France, Canal+, Coop 99, Essential Filmproduktion, Société Parisienne de Production, Thermidor Filmproduktion, Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF), Österreichischer Rundfunk (ORF) Distribuzione Cinecittà Luce

(Carlo Chatrian, www.duellanti.com)

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Europa: femminile, singolare women’s best of cilect prize

Le scuole di cinema e televisione Anche quest’anno, la rassegna dedicata al cinema europeo si completa con una selezione di cortometraggi realizzati come film di diploma alle scuole di cinema europee che aderiscono al CILECT. Questa volta, naturalmente, si tratta di giovani registe che, con le loro opere d’esordio, hanno partecipato a diversi festival internazionali e sono state premiate con il CILECT Prize, attribuito dall’intera comunità di studenti e insegnanti delle oltre centocinquanta scuole che partecipano al CILECT. Il programma, definito in collaborazione con Milano Scuola di Cinema e Televisione – Fondazione SCM sarà arricchito dalla proiezione del film documentario Civica Educazione di Gianmaria Sortino, studente della Scuola di Cinema e Televisione di Milano, che racconta i percorsi di alcuni ex studenti, dopo il diploma. Il CILECT – Centre International de Liaison des Ecoles de Cinéma et de Télévision nasce a Cannes nel 1955, allo scopo di stimolare la collaborazione tra le scuole di cinema di tutto il mondo. Gli Stati fondatori sono Cecoslovacchia, Francia, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. Negli anni il CILECT si è allargato ad altri Paesi e oggi riunisce oltre centocinquanta scuole di cinema e televisione di sessanta Paesi sparsi per i cinque continenti. Con l’obiettivo più ampio di sostenere la diffusione dell’alfabetizzazione audiovisiva e contribuire allo sviluppo della cultura e della comunicazione, in particolare il CILECT fornisce i mezzi per uno scambio di idee tra le scuole, sostiene la formazione delle professioni creative di cinema, televisione e media correlati, incoraggia e sostiene la cooperazione regionale e internazionale tra le scuole, e promuove la formazione cinematografica e televisiva nel mondo. Tra le azioni promosse ogni anno, vi sono le attività di ricerca intorno a svariati temi (l’insegnamento e la formazione, le nuove tecnologie, il cinema per l’infanzia, la produzione delle opere prime, eccetera); i progetti di formazione, cooperazione e approfondimento su base regionale; la partecipazione ai festival internazionali di cinema e televisione dedicati alle scuole; la realizzazione di forum per gli insegnanti e l’organizzazione di seminari internazionali per gli studenti.

Regia Gianmaria Sortino Sceneggiatura Alessio Calabresi, Davide Cogni, Brando Currarini, Guglielmo Fava, Andrea Parma Fotografia Roberta Jegher, Elena Pellegatta, Jacopo Trinca Montaggio Simone Petruzzelli, Nicola Quarta Musica Numeri 2 (Gaia Formenti, Giulia Bertasi, Francesco Cafagna) Suono Michele Brambilla, Fortuna Fontò Produttori Roberto Mansi, Alessandro Pellegrino, Filippo Broglia Produzione MSCT – Milano Scuola di Cinema e Televisione

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Gianmaria Sortino

Civica Educazione Italia, 2013, 22’, col. Civica Educazione Studente del terzo anno di regia e prossimo ad affacciarsi al mondo del lavoro, Gianmaria incontra e intervista alcuni ex allievi della Scuola di Cinema e Televisione, curioso di conoscerne le traiettorie professionali, i momenti positivi e le difficoltà incontrati dopo il diploma.


Europa: femminile, singolare women’s best of cilect prize

Sylvia Borges

Zu dir? Germania, 2012, 29’, col.

Da te? [t.l.] Dopo aver ballato tutta la notte, quando si accendono le luci della discoteca, Freya e Max si ritrovano l’una davanti all’altro. Dando per scontato che ci sarà un “dopo”, Max le chiede: «Da me o da te?». Ma Freya lo sorprende con una proposta alternativa…

Talkhon Hamzavi

Parvaneh Svizzera, 2012, 25’, col.

Parvaneh Parvaneh, giovane afgana migrante, vive sola in un centro accoglienza sulle montagne svizzere. Avendo saputo che il padre è malato, si reca in città per spedire un po’ di soldi alla famiglia. Dopo una serie di incontri frustranti, Parvaneh trova l’amicizia.

Regia, Sceneggiatura Sylvia Borges Fotografia Claire Jahn Montaggio Moritz Poth Scenografia, Costumi Imme Kachel Musica Sebastian Hassler, Holger Dix Suono Marius Grote, Moritz Minhoefer Interpreti Katrin Bühring (Freya), Björn von der Wellen (Max), Jonas Baeck (Matthias), Jean Paul Baeck (Paul), Babette Winter (Marianne) Produttori Christof Groos, Danny Fischer Produzione KHM – Kunsthochschule für Medien Köln

Regia, Sceneggiatura Talkhon Hamzavi Fotografia Stefan Dux Montaggio Hannes Rüttimann Scenografia Vera Locher, Ladina Bosshard Costumi Jacqueline Kobler Musica Dominik Blumer Suono Daniel Hobi Interpreti Nissa Kashani (Parvaneh), Cheryl Graf (Emely), Albert Tanner (il fattore), Brigitte Beyeler (la madre di Emely), Patrick Slanzi (il ragazzo alla festa) Produttore Stefan Eichenberger Produzione ZHDK – Zürcher Hochschule der Künste, Fachrichtung Film

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Regia, Sceneggiatura Marta Karwowska Fotografia Jakub Giza Montaggio Barbara Fronc Scenografia Karolina Pawłowska Costumi Zuzanna Sterzycka Musica Sylwia Sałacińska Suono Krzysztof Salawa Interpreti Julia Migdalska (Sowa), Sylwia Juszczak (la madre), Piotr Głowacki (il padre), Jacek Braciak (Bolo) Produttore Daniel Wożbiński Produzione PWSFTviT – Państwowa Wyższa Szkoła Filmowa, Telewizyjna i Teatralna

Regia, Sceneggiatura Sara Kern Fotografia Uroš Hočevar Montaggio Zlatjan Čučkov Scenografia Neža Zinaić Costumi Tina Pavlović Musica Aldo Kumar Suono Peter Žerovnik Interpreti Rok Arsović (Maks), Štefka Drolc (la nonna), Nik Svetek (Superman), Robert Prebil (il padre) Produttore Jožica Blatnik Produzione AGRFT – Akademija za Gledališče Radio Film in Televizijo

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Marta Karwowska

Sowa Polonia, 2012, 34’, col.

Gufo [t.l.] Sowa, otto anni, trascorre le vacanze estive al lago, con papà e mamma. Ha recuperato un gommone bucato, con il quale vorrebbe raggiungere un isolotto deserto. Per ripararlo, le serve l’aiuto dei genitori, purtroppo indaffarati con i loro problemi sentimentali.

Sara Kern

Maks Slovenia, 2012, 16’, col.

Maks È la festa di Halloween e il piccolo Maks vuole andare dalla nonna, nonostante il parere contrario di suo padre. Col suo costume da orso e insieme all’amico travestito da Superman, attraversa la città in monopattino per raggiungere la sua meta.


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Ida Lindgren

Clownmedicin Svezia, 2012, 21’, col.

Regia, Fotografia, Produttore Ida Lindgren Montaggio Julian Anteli Musica Isabelle Engman Bredvik, Mats Jönsson Suono Calle Buddee Roos Produzione STDH – Stockholms Dramatiska Högskola

Clownmedicina [t.l.] La vita di tre bambini ricoverati all’ospedale Astrid Lindgrens, tra interventi chirurgici, esami, terapie. Ma quando arrivano i clown, i bambini ritrovano il sorriso, i loro sogni e l’immaginazione.

Valentina Sutti

Thinking About Italia, 2013, 8’, col.

Pensando a [t.l.] I pensieri di una bambina scorrono fluidi fra suoni e animazioni. Un rincorrersi di emozioni e riflessioni prende forma attraverso disegni infantili. A poco a poco, le animazioni lasciano spazio alla realtà.

Regia, Sceneggiatura, Montaggio Valentina Sutti Fotografia Luca Sabbioni Scenografia Lotte Keijzer, Julia Reijman Costumi Elena Mela Musica Comaneci Suono Daniel Covi Animazione Andrea Carenzi, Ramona Mismetti Interpreti Lavinia Santaloja (la bambina), Martino (il cane) Voce Alessia Zappa Produttori Stefano Guerini Rocco, Massimo Lazzaroni Produzione Corti Sonici Lab, MSCT – Milano Scuola di Cinema e Televisione

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Atom Egoyan

Devil’s Knot USA, 2013, 114’, col.

Regia Atom Egoyan Soggetto dal libro Devil’s Knot: The True Story of the West Memphis Three di Mara Leveritt Sceneggiatura Scott Derrickson, Paul Harris Boardman Fotografia Paul Sarossy Montaggio Susan Shipton Scenografia Phillip Barker Costumi Kari Perkins Musica Mychael Danna Interpreti Colin Firth (Ron Lax), Reese Witherspoon (Pam Hobbs), Mireille Enos (Vicki Hutcherson), Kevin Durand (John Mark Byers), Elias Koteas (Jerry Driver), Bruce Greenwood (il giudice David Burnett), Alessandro Nivola (Terry Hobbs) Produttori Paul Harris Boardman, Elizabeth Fowler, Clark Peterson, Richard Saperstein, Christopher Woodrow Produzione Worldwide Entertainment Distribuzione Notorious Pictures Filmografia essenziale Devil’s Knot (Devil’s Knot – Fino a prova contraria, 2013) Chloe (Chloe – Tra seduzione e inganno, 2009) Adoration (2008) Where the Truth Lies (False verità, 2005) Ararat (id., 2002) Felicia’s Journey (Il viaggio di Felicia, 1999) The Sweet Hereafter (Il dolce domani, 1997) Exotica (id., 1994) Calendar (id., 1993) Next of Kin (id., 1984)

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Devil’s Knot – Fino a prova contraria West Memphis, Arkansas, 1993. La cittadina viene sconvolta dai brutali omicidi di tre bambini di otto anni, mentre giocavano nel bosco. I loro corpi vengono trovati in un fiume, braccia e gambe legate con i lacci delle loro scarpe. I primi indiziati sono tre adolescenti, accusati di avere ucciso i piccoli durante un rito satanico. Ron Lax, offertosi spontaneamente di rappresentare gli imputati, si rende ben presto conto che il caso è interamente basato su prove circostanziali e preconcetti fondati sull’interesse dei ragazzi per la cultura gotica e la musica heavy metal. Nel corso delle indagini, Ron scoprirà con orrore che la verità è molto più raccapricciante… Atom Egoyan (Il Cairo, Egitto, 1960) è regista e sceneggiatore. Di origini armene, Egoyan cresce a Toronto, dove si laurea nel 1982. Interessato inizialmente alla drammaturgia, dopo il primo lungometraggio Next of Kin (1984) rimane affascinato dalla potenzialità narrativa del mezzo cinematografico. Nel film etnico Calendar (1993) esplora la terra d’origine (tema che riprenderà nel 2003 in Ararat). Raggiunge l’attenzione della critica e la popolarità commerciale con Exotica (1994) che vince il Premio Fipresci al Festival di Cannes. Il successo si ripete con Il dolce domani (1997), candidato all’Oscar nel 1998 per la miglior regia e sceneggiatura e il Gran Premio della Giuria a Cannes. Del suo ultimo film The Captive, annunciato per il 2014, ha da poco ultimato le riprese. «Quando ricevetti lo script di Devil’s Knot rimasi immediatamente colpito dalla complessità di questa storia vera. Chi poteva aver commesso tali orrori? Ponendosi questa domanda, il film diventa un’esplorazione su come conviviamo con il Male, come gestiamo il desiderio di vendetta e come affrontiamo una perdita inimmaginabile. Devil’s Knot mostra un sistema legale impostato per dare una risposta pronta all’atto criminale, mentre due personaggi – una madre addolorata e un investigatore idealista – iniziano a capire quanto ciò sia profondamente sbagliato. Mentre facevo una prima stesura del soggetto, la mia preoccupazione principale era di presentare e sviluppare la storia in modo da permettere al pubblico di porsi domande profonde su come costruiamo la realtà per soddisfare il bisogno collettivo di verità, anche al costo tremendo della libertà personale». (Atom Egoyan, The Devil’s Knot That Bound the West Memphis Tree, www. huffingtonpost.ca)


anteprime

Davide Ferrario

La luna su Torino 45th Parallel Italia, 2013, 90’, col.

La luna su Torino Ugo, ormai quarantenne, nella vita non ha mai combinato niente di serio, potendo contare sull’eredità ricevuta da adolescente: una villa sulle colline torinesi lasciata dai genitori, ricchi borghesi di sinistra. Ma i soldi stanno finendo, così decide di subaffittare Ia casa: a Maria, giovane impiegata in un’agenzia di viaggi, e a Dario, studente precario che sbarca il lunario lavorando in un singolare bioparco. La situazione precipita quando l’ipoteca che pende sulla casa sta per scadere e i tre rischiano di ritrovarsi per strada... Davide Ferrario (Casalmaggiore, Italia, 1956) si laurea in letteratura americana all’Università di Milano. Inizia a lavorare nel cinema negli anni Settanta come critico e saggista, avviando al contempo una piccola società di distribuzione, la Dinosaura, a cui si deve la circuitazione in Italia di autori come Fassbinder, Wenders, Wajda. Lavora inoltre come agente italiano per alcuni registi americani indipendenti come Spike Lee, John Sayles, Jim Jarmusch. Il suo debutto alla regia è nel 1989 con La fine della notte. Dirige poi sia opere di finzione che documentari, presentati in numerosi festival internazionali. Vive a Torino, dove ha sede la sua casa di produzione indipendente Rossofuoco. «Viviamo in tempi in cui credo che ci sentiamo tutti un po’ acrobati sul filo. Proprio questa metafora spiega La luna su Torino, un film che cerca di cogliere lo spirito dei tempi con la ferma convinzione che per parlare di quello che ci accade occorra, soprattutto, leggerezza. La leggerezza di chi cammina su una corda tesa, ma anche la leggerezza di cui parla Italo Calvino nelle Lezioni americane, “leggerezza della pensosità”. Nel film non è che non si trattino temi importanti, ma vorrei che il tono con cui sono trattati fosse come la mongolfiera su cui sale Ugo a un certo punto: una cosa ancora più leggera e inconsistente dell’aria, ma proprio per questo capace di volare in alto. C’è anche un grande investimento di fiducia nella fantasia: l’unico mezzo che ci consente di liberarci dalla tirannia del presente per poter guardare lontano. Come fa chiunque alzi la testa per cercare la luna in cielo».

Regia, Sceneggiatura, Produttore Davide Ferrario Fotografia Dante Cecchin Montaggio Claudio Cormio Scenografia Francesca Bocca, Valentina Ferroni Costumi Paola Ronco Musica Fabio Barovero Suono Vito Martinelli Interpreti Walter Leonardi (Ugo), Manuela Parodi (Maria), Eugenio Franceschini (Dario), Daria Pascal Attolini (Eugenia), Aldo Ottobrino (Guido), Benedetta Perego (Greta), Franco Maino (Gino), Giulia Odori (l’acrobata), Franco Olivero (l’avvocato Ungari) Produzione Rossofuoco Distribuzione Academy Two

Filmografia essenziale La luna su Torino (45th Parallel, 2013) Piazza Garibaldi (2011) Tutta colpa di Giuda (2009) La strada di Levi (doc, 2006) Dopo mezzanotte (2004) Le strade di Genova (doc, 2002) Guardami (1999) Figli di Annibale (1998) Sul 45º parallelo (doc, 1997) Tutti giù per terra (1997) Materiale resistente [co-regia Guido Chiesa] (1995) La fine della notte (1989)

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Bergamo Jazz

Todd Browning

The Unknown USA, 1927, 49’, bn

Regia Tod Browning Soggetto dal romanzo K di Mary Roberts Rinehart Sceneggiatura Joseph Farnahm Fotografia Merritt B. Gerstad Montaggio Harru Reynods, Errol Taggart, Irving G. Thalberg [non accr.] Scenografia Richard Day, Cedric GIbbons Costumi Lucia Coulter Interpreti Lon Chaney (Alonzo), Joan Crawford (Nanon Zanzi), Nick De Ruiz (Antonio Zanzi), Norman Kerry (Malabar), John George (Cojo), Frank Lanning (Costra) Produttore Irving G. Thalberg Produzione, Distribuzione Metro-Goldwyn-Mayer

Lo sconosciuto Alonzo è l’attrazione di un circo per lo spericolato numero che compie nonostante la sua condizione: senza braccia, lancia i coltelli con i piedi. In realtà, Alonzo le braccia le ha, eccome. Non solo, le sue mani hanno una curiosa particolarità: sono fornite di due pollici ciascuna. Nanon, la bella del circo, soffre invece di una fobia che non le consente di lasciarsi abbracciare. Alonzo, un po’ per questa ragione, un po’ perché nel frattempo ha ucciso il padre della ragazza, direttore del circo (e Nanon, che è stata testimone, dell’assassino ha visto solo la mano con il doppio pollice), si sottopone a un’operazione per farsi asportare le braccia, e così conquistarla. Ma, subito dopo l’operazione… Quando girarono Lo sconosciuto nel 1927, il divo Lon Chaney e il regista Tod Browning erano due dei più grandi nomi di Hollywood. Joan Crawford era una stellina in ascesa, che lottava ancora per imporre la sua presenza. Lo sconosciuto gliene diede l’occasione. Sesta collaborazione fra Chaney e Browning, il film è ambientato nel mondo del circo, un tema particolarmente caro al regista, sia dentro che fuori lo schermo. In gioventù, era stato così affascinato dal suo mondo che era fuggito di casa a sedici anni per raggiungerne uno, diventando di volta in volta un clown dei Ringling Brothers, un contorsionista e persino l’assistente di un mago. Chaney, da parte sua, per il suo personaggio decise di non basarsi solo su di un trucco pesante. Come lui stesso rivelò: «Mi impegnai nel ruolo di un uomo senza braccia non tanto per scioccare e orrorizzare, quanto per portare sullo schermo la sua drammatica storia». (Scott Brogan, “The Unknown”, 1927, www.silenfilm.org)

Filmografia essenziale Miracles for Sale (1939) The Devil-Doll (La bambola del diavolo, 1936) Freaks (id., 1932) Dracula (id., 1931) The Unknown (Lo sconosciuto, 1927) The Road to Mandalay (1926) The Unholy Three (Il trio infernale, 1925) Outside the Law (Uomini nella notte, 1920) The Wicked Darling (La bestia nera, 1919) The Lucky Transfer (1915)

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Bergamo Jazz

Édouard Molinaro

Un témoin dans la ville Francia • Italia, 1959, 86’, bn

Appuntamento con il delitto Un tale di nome Verdier ha ucciso l’amante gettandola da un treno. Arrestato e processato, beneficia di un cavillo legale e viene assolto. Il marito della donna, il camionista Ancelin, giura vendetta. Una sera, si introduce in casa dell’assassino, lo aspetta paziententemente, lo uccide e poi sistema le cose in modo da far sembrare un suicidio la morte dell’uomo. All’uscita dalla casa della sua vittima, tuttavia, Ancelin è visto da Lambert, un tassista chiamato poco prima da Verdier. Ancelin annota il numero di matricola del taxi, deciso a rintracciare il testimone per poi eliminarlo. Inizia la caccia. Abilissimo nel passare da un genere all’altro (e quasi sempre con ottimo successo di critica e di pubblico), Édouard Molinaro è stato anche un maestro del noir: con Appuntamento con il delitto, girato nel 1959 basandosi su di un soggetto della coppia Boileau-Narcejac (gli stessi da cui avevano tratto tra da poco ispirazione Clouzot per l diabolici e Hitchcock per La donna che visse due volte), ci ha dato il suo film più angoscioso e stilizzato. Sulla scia dei noir americani, ma anche dei loro corrispettivi francesi, Molinaro costruisce un thriller ben intonato, che segue il passo di una partitura jazz di grandissimo livello (le musiche, notevoli, sono di Barney Wilen, Kenny Dorham e Kenny Clarke) e raggiunge quasi la dignità di film d’arte grazie alla fotografia evocativa di Henri Decaë (uno dei suoi lavori migliori). In uno dei suoi rari ruoli negativi, Lino Ventura dà intensità e pathos alla figura di un uomo che cerca di districarsi dai pasticci in cui lui stesso s’è cacciato. (Aloisius Zigman, “Der Mörder kam um Mitternacht”, 1959, «Neue Zürcher Gazette», 21 febbraio 1997)

Regia Édouard Molinaro Soggetto Pierre Boileau, Thomas Narcejac, Gérard Oury Sceneggiatura Gérard Oury, Pierre Boileau, Thomas Narcejac, Alain Poiré, Édouard Molinaro, Georges-André Tabet Fotografia Henri Decaë Montaggio Monique Isnardon, Robert Isnardon Scenografia Georges Lévy Musica Barney Wilen, Kenny Dorham, Kenny Clarke Suono Robert Biard Interpreti Lino Ventura (Ancelin), Sandra Milo (Liliane), Franco Fabrizi (Lambert), Jacques Berthier (Pierre Verdier), Robert Dalban (Raymond), Micheline Luccioni (Germaine), Ginette Pigeon (Muriel), Françoise Brion (Jeanne Ancelin) Produttori Henry Deutschmeister, Moris Ergas Produzione Franco London Films, Paris Union Films, Société Nouvelle des Établissements Gaumont, Tempo Film, Zebra Film Distribuzione Gaumont Filmografia essenziale Beaumarchais l’insolent (L’insolente, 1996) Le souper (A cena con il diavolo, 1995) La cage aux folles (Il vizietto, 1978) L’emmerdeur (Il rompiballe, 1973) La mandarine (La mandarina, 1972) Oscar (Io, due figlie, tre valigie, 1967) Un témoin dans la ville (Appuntamento con il delitto, 1959) Le dos au mur (Spalle al muro, 1958)

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George Cukor

Adam’s Rib USA, 1949, 101’, bn

Regia George Cukor Soggetto, Sceneggiatura Ruth Gordon, Garson Kanin Fotografia George J. Folsey Montaggio George Boemler Scenografia William Ferrari, Cedric Gibbons Costumi Walter Plunkett Musica Miklós Rózsa Suono Douglas Shearer Interpreti Spencer Tracy (Adam Bonner), Katharine Hepburn (Amanda Bonner), Judy Holliday (Doris Attinger), Tom Ewell (Warren Attinger), David Wayne (Kip Laurie), Jean Hagen (Beryl Caighn), Hope Emerson (Olympia La Pere), Eve March (Grace) Produttore Lawrence Weingarten Produzione, Distribuzione Metro-Goldwyn-Mayer

La costola di Adamo Quando Doris Attinger ha sparato al marito, da lei sorpreso in compagnia dell’amante, le sue intenzioni erano di uccidere. Fortunatamente, la sua scarsa esperienza con le armi da fuoco ha fatto sì che il fedifrago sia rimasto solo leggermente ferito, e che il capo di imputazione a carico della donna sia ora meno grave di quanto avrebbe potuto essere. Viene istruito il processo. L’accusa è di competenza del viceprocuratore distrettuale Adam Bonner, la difesa è sostenuta dal brillante avvocato Amanda Bonner. Il fatto che i due abbiano lo stesso cognome non è un caso: in effetti sono marito e moglie. La qual cosa avrà le sue conseguenze, sia in aula che nel ménage familiare… È innegabile che, da Perry Mason ad Atticus Finch fino ad arrivare a John Grisham, i principi del foro al cinema hanno sempre goduto di un loro solido carisma, così come è un dato di fatto che le procedure giudiziarie americane (ma anche quelle britanniche) regalino materiale e ispirazione in abbondanza per allestire dei robustissimi faccia a faccia in cui tuttavia la ricerca della giustizia rischia a volte di passare in secondo piano. A pochi, però, era venuto in mente di declinare l’aula di tribunale secondo i canoni della commedia sofisticata. L’idea vincente è venuta a George Cukor, che a una solida sceneggiatura dell’arguta coppia Gordon-Kanin ha aggiunto la raffinata recitazione dell’aristocratica Katharine Hepburn e del concreto Spencer Tracy, qui al meglio della loro forma e del loro affiatamento (senza dimenticare Judy Holliday, ingenua e allo stesso tempo dolcissima nonostante la mira imprecisa). Femminismo un po’ datato, quello di questo film. Ma forse neanche tanto. (Wilfrid Bowden, Nice Movie, Your Honor! A Brief History of Top Lawyers & Pettifoggers on Screen, «The Old Colony State Herald», 22 febbraio 1992)

Filmografia essenziale Rich and Famous (Ricche e famose, 1981) My Fair Lady (id., 1964) A Star Is Born (È nata una stella, 1954) Born Yesterday (Nata ieri, 1950) Adam’s Rib (La costola di Adamo, 1949) Gaslight (Angoscia, 1944) The Philadelphia Story (Scandalo a Filadelfia, 1940) Holiday (Incantesimo, 1938) Sylvia Scarlett (Il diavolo è femmina, 1935) Dinner at Eight (Pranzo alle otto, 1933)

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Un “love affair” con la macchina da presa Emanuela Martini

Diventò famoso nel 1950, come il bastardo che, all’uscita di un cinema, aveva sparato al tenente Dixon, il bravo poliziotto di quartiere che tentava di redimere più che reprimere i giovani delinquenti. Il film s’intitolava I giovani uccidono (The Blue Lamp), ebbe un successo enorme ed era diretto da Basil Dearden, un regista che se ne intendeva di “problemi sociali” (tra il secondo dopoguerra e i primi anni Sessanta affrontò più volte il tema del disadattamento giovanile, come quelli della discriminazione razziale, della questione irlandese, del fondamentalismo religioso, dell’omosessualità). Il bravo “bobby” George Dixon era interpretato da Jack Warner: ucciso a metà film, sarebbe stato presto resuscitato come protagonista di una fortunatissima serie televisiva, Dixon of Dock Green, 432 episodi da 30 e 50 minuti prodotti dalla BBC e andati in onda dal 1955 al 1976 (nelle ultime serie, quando Jack Warner aveva più di ottant’anni ed era poco credibile in servizio attivo, Dixon fu mandato in pensione e utilizzato come collaboratore dell’Intelligence della Polizia). Il giovane “bastardo”, invece, l’irredimibile Riley, erotizzato dalla sola vista di una pistola, era un attore ventottenne arruolato dal 1947 nella squadra delle giovani promesse della Rank Films, che fino ad allora era stato utilizzato piuttosto maldestramente, per lo più in ruoli romantici: Derek Niven Van der Bogaerde, nato a Hampstead, Londra, da genitori creativi (il padre era picture editor del «Times», la mamma attrice), buoni studi a Glasgow, all’Università di Londra e al Chelsea Polytechnic (oggi la Chelsea School of Art), debutto in palcoscenico nel 1939 (nel West End nel 1940), arruolato nel 1941 nella Army Intelligence Photographic Unit (con la quale partecipò allo sbarco in Normandia e poi prestò servizio in Europa e a Singapore), ritornato al teatro alla fine della guerra e notato dalla Rank, che lo fece esordire sul grande schermo nel 1948 in Esther Waters, nella parte di un cinico seduttore vittoriano. In arte: Dirk Bogarde, fisico asciutto, bocca intrigante, occhi interrogativi, un gran ciuffo di capelli difficili da tenere in ordine. Non c’è da stupirsi che in poco più di cinque anni diventasse “l’idolo degli Odeon” (pare che abbia smesso di recitare in teatro perché non sopportava più di venir interrotto, durante la rappresentazione, dalle fan che gli urlavano «We love you, Dirk!»). Dopo l’infausto Esther Waters e qualche altro film insignificante, e dopo l’interessante Boys in Brown (1949) di Montgomery Tully (sui ragazzi del riformatorio, nel quale l’attore interpreta un giovanotto insinuante e bugiardo che corrompe il compagno buono Richard Attenborough), arrivò il successo, anche personale, di I giovani uccidono, nel quale Bogarde trovava la parte giusta, attuale, e gli accenti nevrotici che, più o meno esplicitamente, avrebbero continuato a caratterizzare le sue interpretazioni migliori. Insomma, pareva che, quasi in contrasto con il suo bell’aspetto, la parte del “cattivo” (o, almeno, “problematico”) gli si addicesse più di quella dell’eroe galante. Era vero, sia in termini di cifra stilistica personale che in un contesto culturale, storico e cinemagrafico che stava per muoversi risolutamente verso la modernità e verso sfumature più complesse e aggressive. Eppure, è una parte brillante e romantica che lo consegna al vero “stardom”: nel 1954 accetta di interpretare la parte di Simon Sparrow in Quattro in medicina (Doctor in the House) di Ralph Thomas, una commedia ambientata tra gli studenti di medicina che fanno pratica in un grande ospedale londinese. Fu il maggior successo dell’anno, inaugurò una fortunatissima serie cinematografica (sei sequel, tre dei quali ancora con Bogarde) e una televisiva dallo stesso titolo, e trasformò Dirk Bogarde nel più popolare 112


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Il servo

divo inglese della seconda metà degli anni Cinquanta (l’attore riceveva circa quattromila lettere di fan alla settimana). Al culmine della sua carriera con la Rank (con la quale rimase sotto contratto per quattordici anni, dal 1947 al 1960), Bogarde aveva praticamente percorso tutta la gamma dei caratteri concessi in quegli anni agli attori britannici, tutta la gamma della “mascolinità” com’era auspicata o, all’apparenza, condannata da un immaginario che stava perdendo i contatti con una realtà in evoluzione (e da un’industria che stava perdendo smalto), oscillante tra solide, compassate figure paterne e isteriche, fragili figure filiali, tra gli uomini che avevano vinto la guerra (ma avevano perso l’Impero) e i giovani scardinati senza ideali, tra i tenebrosi sadici alla James Mason e gli eroi aitanti alla Stewart Granger. Troppo presto per gli “angry young men” alla Burton/Finney/Courtenay, troppo tardi per gli autentici “British eccentrics” alla Guinness/Livesey/Walbrook. Figli nevrotici e padri ambigui Dirk Bogarde (come Peter Finch, un altro attore nevrotico e intrigante, che non ha avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada un grande autore che ne rivelasse la fisionomia profonda) cresce lì, in bilico tra due epoche molto diverse: anagraficamente “figlio”, ma troppo ambiguo per essere un figlio buono (come, per esempio, John Mills o Richard Attenborough), passa automaticamente nella schiera dei giovani “vilain”. Ma è anche troppo bello perché il filone romantico si dimentichi di lui; ed ecco allora le commedie e i mélo in costume, come il bizzarro Tragica incertezza (So Long at the Fair, 1950) di Terence Fisher (noir che strizza l’occhio ai futuri Hammer horror), dove aiuta galantemente l’ingenua Jean Simmons a togliersi dai guai nella Parigi dell’Expo del 1889, 113


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I giovani uccidono

e Verso la città del terrore (A Tale of Two Cities, 1958) di Ralph Thomas, fiacca versione del romanzo di Dickens ambientato durante la Rivoluzione francese tra Londra e Parigi, che non regge il confronto con quella appassionata diretta da Jack Conway nel 1935, dove Ronald Colman, nella parte di Sydney Carton, avvocato disilluso e alcolizzato, offriva una delle migliori interpretazioni della sua carriera (mentre qui Bogarde è poco più che diligente). Insomma, la maggiore star britannica degli anni Cinquanta non trovava la propria misura, la “pelle” nella quale calarsi. Forse il problema fu proprio l’istantaneo divismo: «Nessun attore dovrebbe cominciare come una star», ha detto. «È tutto troppo improvviso». Ha riassunto bene la sua carriera Robert Tanitch, nel libro Dirk Bogarde (Ebury Press, Londra 1988): «Scritturato all’inizio per parti di giovane delinquente nevrotico o di ricercato dalla giustizia (con addosso invariabilmente un impermeabile lurido), fu poi promosso soldato in uniforme, spesso ugualmente nevrotico, ed eroe romantico in costume. Ha interpretato compositori, pittori, romanzieri, spie, giornalisti televisivi e un buon numero di omosessuali. È stato allibratore, campione automobilistico, ragazzo da riformatorio, drogato, musicista di strada senza un soldo, disertore dall’esercito, profugo olandese, commerciante di formaggi, studente di medicina, sposo novello, medico di bordo, giardiniere, bandito messicano, prete spretato, avvocato, psicologo, chirurgo, domestico, ufficiale dei servizi segreti, professore di Oxford, decifratore di codici, console britannico, un fabbricante di cioccolato schizofrenico e un cattivo ultra-camp in un film che sembra un cartoon. Ha servito nell’esercito, bombardato Berlino, assalito un campo d’aviazione a Rodi, si è ritirato sulla Manica, ha rapito il comandante tedesco di Creta occupata, è evaso da un campo di prigionia, ha messo bombe nella metropolitana di Londra, combattuto i Mau Mau, si è immerso nel maelstrom in Canada, ha sposato una giapponese in India, ha sofferto di amnesia, si è suicidato almeno tre volte, ha ucciso l’amante di sua moglie e ha fatto carriera assassinando donne ricche. È lui che ha sparato al tenente Dixon. Ed è anche stato assassinato, accoltellato in mezzo al mare, impiccato in Russia, ghigliottinato in Francia e colpito alla testa con un attizzatoio in un sobborgo londinese». 114


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Nel calderone dei personaggi esangui o stereotipati interpretati per la Rank, sospeso tra la leggerezza del commediante e la tensione dell’uomo in fuga (come scrisse il «Times» nel 1952, «Il cinema britannico ha un particolare attaccamento al tema della “caccia” e Dirk Bogarde è il campione dei fuggiaschi. Se fosse indetta una maratona cittàcampagna per gli attori, Mr. Bogarde partirebbe favorito, con la fantastica pratica che ha fatto»), l’attore incrociò anche alcune parti che anticipavano la successiva maturità e alcuni registi che intercettarono le sue potenzialità migliori: prima di tutti Basil Dearden, che dopo I giovani uccidono lo scelse come fratello di John Mills in The Gentle Gunman (1952), un dramma sui terroristi dell’IRA, e più tardi, nel 1960, lo mise al centro del film che modificò radicalmente la sua immagine (Victim); e Charles Crichton e Philip Leacock, che intuirono la sua ambigua efficacia al fianco di attori bambini, rispettivamente in La colpa del marinaio (Hunted, 1952), dove Bogarde, che ha assassinato l’amante della moglie, diventa compagno di fuga di un bambino che scappa dai brutali genitori adottivi, e in Il giardiniere spagnolo (The Spanish Gardener, 1956), la storia dell’attaccamento del figlio di un rigido diplomatico inglese per il giardiniere gentile con cui fa amicizia, della quale Leacock riesce a far balenare i sotterranei motivi omosessuali. E, naturalmente Joseph Losey, che Bogarde incontrò nel 1954 quando il regista, blacklisted, era costretto a lavorare sotto pseudonimo (in questo caso, Victor Hanbury). Alle prese con il suo primo film inglese, a bassissimo budget, e con una storia piuttosto fiacca tratta da James Hadley Chase, Losey (dopo aver visto La colpa del marinaio), s’impuntò su Bogarde, nonostante i suoi compensi enormi, gli chiese un appuntamento e gli propose di vedere un suo film americano, Sciacalli nell’ombra (The Prawler, 1951). E Bogarde accettò di interpretare l’ennesimo, prestante criminale nevrotico in La tigre nell’ombra (The Sleeping Tiger), e nacquero un’amicizia e una stima reciproca che avrebbero portato ai grandi sviluppi successivi. «È certo che la mia carriera, che l’esistenza stessa della mia carriera, fu resa possibile dall’accordo di Dirk», ha detto Losey nel bel libro intervista di Michel Ciment (Il libro di Losey, Bulzoni, Roma 1983). «Però», ha aggiunto «è anche giusto dire che in seguito, con gli altri film che abbiamo fatto insieme, la carriera di Dirk fu anch’essa trasformata». Ma la prima radicale trasformazione, almeno sul piano dell’immagine pubblica dell’attore, arrivò nel 1960, con un gesto di coraggio: accettò la parte di Melville Farr, l’arrivato avvocato londinese, potenzialmente omosessuale, che quando un suo giovane amico si suicida mette in gioco la sua carriera e il suo matrimonio identificando e poi denunciando i ricattatori che seminano il panico tra gli omosessuali. Anche se nel 1957 il Rapporto Wolfenden su prostituzione e omosessualità, per quanto enormemente ambiguo e “moralizzatore”, aveva aumentato la tolleranza verso l’omosessualità, suggerendo di curarla piuttosto che reprimerla, nel 1960 questa era ancora punibile con il carcere o addirittura i lavori forzati (la decriminalizzazione arrivò soltanto nel 1967). Victim di Dearden, con il suo impianto da thriller e la sua carrellata di omosessuali di ogni ceto, tutti anomali rispetto allo stereotipo laido e ridicolo proposto per lo più dal cinema dell’epoca, diede uno scossone al perbenismo imperante e aiutò a cambiare la legge. Diede uno scossone anche alla carriera di Bogarde, che forse per la prima volta, nella parte di uomo maturo, raccolse il consenso unanime dei critici, ma perse una bella fetta di adoratrici femminili. Aveva quarant’anni, si era distaccato dalla Rank e aveva deciso di prendere in mano la propria carriera e la propria immagine. Il “figlio” nevrotico (o la giovane “figura paterna” di ragazzini sperduti) stava cedendo il posto a un “padre” anomalo e tutt’altro che rassicurante, impastato anch’egli di isteria e insicurezze, spesso poco raccomandabile o, nei casi migliori, ambiguo. Stava nascendo in quegli anni, anche in Inghilterra, il cinema moderno, gli eroi gentiluomini avevano fatto il loro tempo e i giovani titanici dissacratori della working class stavano invadendo gli schermi. Una precisazione è indispensabile: la differenza, in termini di qualità attoriali, che corre tra un Albert Finney, un Richard Burton, un Tom Courtenay, un Richard Harris, uno Stanley Baker (per citare solo i campioni del cinema “arrabbiato”, della nuova mascolinità emersa con il Free Cinema) e Dirk Bogarde è grande. E non si tratta di una questione di età o di physique du rôle (Tom Courtenay era ancor più mingherlino di lui). Il fatto è che Dirk 115


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Bogarde non fu un grande attore (come tutti quelli citati); fu una grande star e un ottimo scrittore (attività alla quale si dedicò prevalentemente più tardi). L’interessante miscuglio di sadismo e fragilità, di arroganza e subordinazione che il suo aspetto rivelava non si era affinato nella lunga pratica di palcoscenico che contraddistingue quasi tutti gli attori britannici. La macchina da presa voleva il suo charme; e questo charme lui le concesse, fatto di sguardi ironici e interrogativi, di sorrisi vagamente sprezzanti, di mani nervose e calibrate, di un ciuffo perennemente ribelle e di un’aura di malinconica solitudine sulla quale impostò la sua recitazione soprattutto nella seconda parte della sua carriera, da L’incidente (Accident, 1967) di Losey fino a Morte a Venezia (1970) di Visconti e al bellissimo Despair (id., 1978) di Fassbinder. Eppure, ebbe l’intelligenza di rischiare, di giocarsi la carriera su ruoli scomodi e film “difficili”, e così acchiappò al volo la breve rinascita del cinema inglese e si trasformò in un’icona del cinema d’autore europeo. La fragilità del predatore La chiave di volta, naturalmente, fu il rapporto con Joseph Losey e quello straordinario film che è Il servo (The Servant, 1963). Losey avrebbe voluto adattare il romanzo di Robin Maugham dieci anni prima, ai tempi di La tigre nell’ombra, e avrebbe voluto l’attore per la parte di Tony, il giovin signore; ma il progetto non si era concretizzato. Mentre era a Roma, a lavorare a Eva (id., 1962), il regista ricevette la telefonata di Bogarde che lo informava che Harold Pinter, un giovane commediografo ancora sconosciuto come sceneggiatore, aveva scritto la sceneggiatura di Il servo e che il film era stato commissionato a Michael Anderson. Losey, con il suo agente, riuscì ad acquistare la sceneggiatura da Anderson e cominciò a lavorare con Pinter e Bogarde a quello che sarebbe diventato uno dei più grandi ritratti della malattia insanabile della borghesia contemporanea, uno studio psicologico e ambientale barocco e malsano, del quale si ritrovano le tracce (non solo via Bogarde) in moltissimi film d’autore posteriore. La decadenza di un mondo ci avviluppa e, drammaticamente, non ci sono strade o ideali che ci affranchino dalla disintegrazione. Il servo è un film disperato e premonitore, un film in cui la “rivoluzione” è impossibile e in cui la working class è rovinosamente partecipe della volgarità, dell’arroganza e dell’aggressività della morta “gentry”. Cinquant’anni di storia successiva, di blairismo e berlusconismo, ci hanno portato esattamente all’orgia finale di Il servo (che, tra l’altro, all’epoca fu molto criticata, come un “eccesso” barocco e spettacolare). E, al centro del film, ecco Hugo Barrett, il servo Dirk Bogarde, qui sì davvero grande: Barrett, sinistro e umile, deferente e pericoloso fin dalla prima apparizione, in formale cappotto scuro, bombetta e guanti bianchi, dà il tempo avviluppante e la scura tonalità di questo racconto di possessione e dominio, in cui buoni e cattivi, sessi e caratteri, perversioni e debolezze si mescolano nella circolare ossessione di una perfetta dimora londinese. Nella collaborazione esemplare che s’instaurò tra regista, sceneggiatore e interprete durante la stesura della sceneggiatura e durante le riprese (talmente esemplare che, quando Losey fu costretto a star lontano dal set per dieci giorni a causa di una broncopolmonite doppia, fu Bogarde a realizzare alcune scene), non solo presero forma uno spietato gioco al massacro e una lucida fotografia dei rapporti di classe e di sesso su cui si basa la società inglese, ma si fissò anche l’immagine del Bogarde quintessenziale: intelligente, metodico, solitario predatore, sessualmente pericoloso (per uomini e donne), puntiglioso nei gusti, negli abiti, nel portamento, ma dannato da sotterranee insicurezze. In Il servo, Barrett, per quanto più colto e raffinato del padrone, è e resta un servo (e, nel gran calderone messo in scena da Visconti in Götterdämmerung, La caduta degli dei, 1969, Friedrich Bruckman non è altro, rispetto ai von Essenbeck, che un servo di estrazione più elevata di Barrett); in L’incidente, l’altro agghiacciante ritratto borghese firmato da Losey nel 1967, Stephen, arrivato e civilissimo professore di Oxford, non resiste al tarlo della competizione nei confronti del suo amico Charley, professore come lui ma anche donnaiolo e celebrità mediatica; e in Per il re e per la patria (King & Country, 1964), ancora di Losey, il tarlo che s’insinua nell’ufficiale è quello della progressiva consapevolezza 116


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La colpa del marinaio

dell’ingiustizia di classe (complicato dall’attrazione omosessuale che, in questo film come in tutti i precedenti, corre più o meno sotterranea tra lui e il soldato Hamp). Il migliore Dirk Bogarde non fu mai limpido, ma un sottile veicolo di sottotesti ambigui. E tanto meglio se questi sottotesti non riguardano soltanto l’(ovvia) omosessualità, ma anche l’origine proletaria o quanto meno piccolo borghese dei personaggi. Una traccia cockney nell’accento, un’alzata di spalle o uno sguardo grossolano, una certa trasandatezza nella scelta delle compagnie femminili, e la perfezione ossequiosa di Hugo Barrett s’incrina. In questo senso, un piccolo film gemello che deriva da Il ,servo è Tutte le sere alle nove (Our Mother’s House, 1967) di Jack Clayton (specialista in bambini diabolici e case-trappola), dove Charlie Hook, marito della madre morta di sette ragazzini, s’insinua in casa loro come figura paterna ma ben deciso a depredarli. Sostituito l’inappuntabile look del maggiordomo con quello informale degli anni Sessanta, giacca di montone e cappello sbarazzino, sciarpa bianca e giacca blu con lo stemma, Bogarde fa risaltare l’anima cheap che era stata anche di Barrett, in un intrigante gioco a rimpiattino e in uno scambio di ruoli tra carnefice e vittime. Dalla grande esperienza con Losey in avanti, non più “figlio” né mai vero “padre” (se non, forse, nel suo ultimo film, l’accorato Daddy Nostalgie diretto da Bertrand Tavernier nel 1990, dove fronteggia con pazienza la figlia Jane Birkin), Dirk Bogarde attraversa il cinema d’autore europeo degli anni Sessanta e Settanta con un’educata, fragile rigidità, dal civile giornalista televisivo del ritratto al vetriolo della Swinging London diretto da John Schlesinger nel 1966 (Darling), dov’è conquistato, tradito, lasciato, ripreso dall’eroina del titolo (l’irresistibile Julie Christie), fino alla sua durissima vendetta finale, al figlio scostante e puntuto di John Gielgud nel multiforme gioco di Alain Resnais Providence (id., 1975) o alle molte facce del disperato fabbricante di cioccolato di origini ebree di Despair, capolavoro di Fassbinder e forse, insieme a Il servo e a Darling, la sua migliore interpretazione. 117


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Despair

Molto intelligente e riservato, Dirk Bogarde è sempre stato anche molto onesto rispetto al suo lavoro: consapevole del “love affair” che esisteva tra lui e la macchina da presa, ha però anche sottolineato spesso che “quella bestiolina” (la macchina da presa) in realtà fotografa la tua mente, i tuoi pensieri e che, se non c’è niente nella tua mente nel momento in cui la macchina sta lavorando, allora è come se non ci fosse nessuno in casa. Non ha nemmeno mai rinnegato le decine di film di genere e d’intrattenimento interpretati prima (e durante) la sua affermazione nel cinema d’autore: «Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto con tutto me stesso. Non ho mai considerato quei film robaccia o stupidaggini. Erano fatti per piacere alla gente, la gente che veniva a vederci. Non tradisci chi ha fiducia in te, chi esce di casa nella neve per venire al cinema. Tu fai tutto quello che puoi. Si davano appuntamento ai miei film, si davano appuntamento e poi magari si sposavano. Ci sono oggi tre o quattro generazioni delle quali io sono direttamente responsabile: il minimo che potessi fare era dare il meglio di me stesso. Non avrei mai potuto disprezzarli. E quel tipo di cinema mi piaceva, era come essere integrati in una forza che produceva qualcosa che il pubblico amava. Sono molto orgoglioso di averli fatti, anche se ammetto che molti erano robaccia. Ma il pubblico non vuole essere sempre educato». Ogni tanto, è ovvio, avrebbe preferito dimenticare alcuni dei film che aveva interpretato: accadde addirittura con un film di Losey, lo “scherzo” Modesty Blaise (id., 1966), dov’era l’arci-cattivo Gabriel, un dandy fino al midollo con i capelli ossigenati, dove il sadismo e la fragilità che si combattevano abitualmente dentro di lui erano portati alla massima potenza da una dispiegata consapevolezza camp, la stessa che il solo Bogarde aveva in un film precedente, il western sui generis Il coraggio e la sfida (The Singer Not the Song, 1961) di Roy Baker, dove il cattivo pistolero messicano Anacleto amava il buon prete del villaggio John Mills, ma peccato che Mills non se ne fosse accorto. L’ironia esplodeva (esplicita nel film di Losey, involontaria in quello di Baker), e Dirk Bogarde riusciva a essere in realtà molto migliore di quanto non pensasse lui stesso. 118


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Filmografia di Dirk Bogarde a cura di Arturo Invernici

1939 | Come On, George! | Forza Giorgio! Regia: Anthony Kimmins; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: comparsa

1950 | The Woman in Question | Donna nel fango Regia: Anthony Asquith; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: R.W. Baker

1947 | Dancing with Crime Regia: John Paddy Carstairs; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: un poliziotto

1950 | The Blue Lamp | I giovani uccidono Regia: Basil Dearden; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Tom Riley

1947 | Rope (tv) Regia: Stephen Harrison; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Charles Granillo

1951 | Blackmailed Regia: Marc Allégret; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Stephen Mundy

1947 | Power Without Glory (tv) Regia: - -; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Cliff

1952 | Hunted | La colpa del marinaio Regia: Charles Crichton; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Chris Lloyd

1948 | Esther Waters Regia: Ian Dalrymple; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: William Latch

1952 | The Gentle Gunman Regia: Basil Dearden; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Matt Sullivan

1949 | Once a Jolly Swagman Regia: Jack Lee; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Bill Fox

1952 | Penny Princess Regia: Val Guest; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Tony Craig

1948 | Quartet | Passioni [ep. The Alien Corn] Regia: Harold French; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: George Bland

1953 | Desperate Moment | I disperati Regia: Compton Bennett; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Simon van Halder

1949 | Boys in Brown Regia: Montgomery Tully; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Alfie Rawlins 1949 | Dear Mr. Prohack Regia: Thornton Freeland; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Charles Prohack 1950 | So Long at the Fair | Tragica incertezza Regia: Antony Darnborough, Terence Fisher; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: George Hathaway

1953 | Appointment in London | L’ora del grande attacco Regia: Philip Leacock; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il comandante di squadrone Tim Mason 1954 | The Sleeping Tiger | La tigre nell’ombra Regia: Victor Hanbury [Joseph Losey]; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Frank Clemmons 1954 | Quattro in medicina | Doctor in the House Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il dottor Simon Sparrow

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1954 | For Better, for Worse | Sposi in rodaggio Regia: J. Lee Thompson; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Tony Howard 1954 | They Who Dare | Operazione Commandos Regia: Lewis Milestone; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il tenente Graham 1954 | The Sea Shall Not Have Them Regia: Lewis Gilbert; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il sergente Mackay 1955 | Cast a Dark Shadow | La poltrona vuota Regia: Lewis Gilbert; Origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Edward Bare 1955 | Doctor at Sea | Appuntamento a Rio Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il dottor Simon Sparrow 1955 | Simba | Simba Regia: Brian Desmond Hurst; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Alan Howard 1956 | The Spanish Gardener | Il giardiniere spagnolo Regia: Philip Leacock; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: José 1957 | Doctor at Large | Dottore a spasso Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il dottor Simon Sparrow 1957 | Ill Met by Moonlight | Colpo di mano a Creta Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il maggiore Patrick Leigh Fermor, noto anche come Philedem

1959 | Libel | Il diavolo nello specchio Regia: Anthony Asquith; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: sir Mark Sebastian Loddon/Frank Welney 1960 | The Angel Wore Red | La sposa bella Regia: Nunnally Johnson; origine: USA/Italia Dirk Bogarde: Arturo Carrera 1960 | Song Without End | Estasi Regia: George Cukor, Charles Vidor; origine: USA Dirk Bogarde: Franz List 1961 | The Singer Not the Song | Il coraggio e la sfida Regia: Roy Ward Baker; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Anacleto Comachi 1961 | Victim | Victim Regia: Basil Dearden; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Melville Farr 1962 | The Password Is Courage | Parola d’ordine: Coraggio Regia: Andrew L. Stone; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il sergente maggiore Charles Coward 1962 | H.M.S. Defiant | Ponte di comando Regia: Lewis Gilbert; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il tenente Scott-Padget 1962 | We Joined the Navy Regia: Wendy Toye; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il dottor Simon Sparrow

1957 | Campbell’s Kingdom | La dinastia del petrolio Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Bruce Campbell

1963 | The Mind Benders | Il cranio e il corvo Regia: Basil Dearden; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il dottor Henry Laidlaw Longman

1958 | The Wind Cannot Read | Il vento non sa leggere Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il tenente Michael Quinn

1963 | I Could Go On Singing | Ombre sul palcoscenico Regia: Lewis Gilbert; origine: Gran Bretagna/USA Dirk Bogarde: David Donne [anche co-sceneggiatura, non accr.]

1958 | A Tale of Two Cities | Verso la città del terrore Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Sidney Carton

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1958 | The Doctor’s Dilemma | Il dilemma del dottore Regia: Anthony Asquith; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Louis Dubedat

1963 | The Servant | Il servo Regia: Joseph Losey; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Barrett


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Incontro a Rio

1963 | Hot Enough for June | Troppo caldo per giugno Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Nicholas Whistler

1964 | The High Bright Sun | Il sole scotta a Cipro Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il maggiore McGuire

1963 | Doctor in Distress | Dottore nei guai Regia: Ralph Thomas; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il dottor Simon Sparrow

1964 | Little Moon of Alban (tv) Regia: George Schaefer; origine: USA Dirk Bogarde: Kenneth Boyd

1964 | King & Country | Per il re e per la patria Regia: Joseph Losey; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il capitano Hargreaves

1965 | Darling | Darling Regia: John Schlesinger; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Robert Gold

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1966 | Modesty Blaise | Modesty Blaise – La bellissima che uccide Regia: Joseph Losey; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Gabriel

1974 | The Night Porter | Il portiere di notte Regia: Liliana Cavani; origine: Italia/USA Dirk Bogarde: Maximilian Theo Aldorfer

1966 | Blythe Spirit (tv) Regia: George Schaefer; origine: USA Dirk Bogarde: Charles Condomine

1975 | Permission to Kill | C.I.A. Criminal International Agency sezione sterminio Regia: Cyril Frankel; origine: Austria/Gran Bretagna/USA Dirk Bogarde: Alan Curtis

1967 | Our Mother’s House | Tutte le sere alle nove Regia: Jack Clayton; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Charlie Hook 1967 | Accident | L’incidente Regia: Joseph Losey; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Stephen 1968 | The Fixer | L’uomo di Kiev Regia: John Frankenheimer; origine: USA Dirk Bogarde: Bibikov 1968 | Oh! What a Lovely War | Oh, che bella guerra! Regia: Richard Attenborough; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Stephen 1968 | Sebastian Regia: David Green; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: il signor Sebastian 1969 | Götterdämmerung | La caduta degli dei Regia: Luchino Visconti; origine: Italia/Germania Dirk Bogarde: Frederich Bruckmann 1969 | Justine | Rapporto a quattro Regia: George Cukor; origine: USA Dirk Bogarde: Pursewarden 1970 | Upon This Rock | Su questa roccia Regia: Harry Rasky; origine: USA Dirk Bogarde: Bonnie Prince Charlie (voce) 1971 | Death in Venice | Morte a venezia Regia: Luchino Visconti; origine: Italia/USA Dirk Bogarde: Gustav von Aschenbach 1973 | Le serpent | Il serpente Regia: Henri Verneuil; origine: Francia/Italia/Repubblica Federale Tedesca Dirk Bogarde: Philip Boyle

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1977 | Providence | Providence Regia: Alain Resnais; origine: Francia/Svizzera/Gran Bretagna Dirk Bogarde: Claude Langham 1977 | A Bridge Too Far | Quell’ultimo ponte Regia: Richard Attenborough; origine: USA Dirk Bogarde: il generale Frederick “Boy” Browning 1978 | Despair | Despair Regia: Rainer Werner Fassbinder; origine: Germania/Francia Dirk Bogarde: Hermann Hermann 1981 | The Patricia Neal Story | La storia di Patricia Neal (tv) Regia: Anthony Harvey, Anthony Page; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: Roald Dahl 1985 | Le plus grand musée (tv) Regia: Daniel Lander; origine: Francia/Giappone Dirk Bogarde: se stesso 1986 | May We Borrow Your Husband? (tv) Regia: Bob Mahoney; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: William Harris [anche sceneggiatura] 1988 | The Vision (tv) Regia: Norman Stone; origine: Gran Bretagna Dirk Bogarde: James Marriner 1990 | Daddy Nostalgie | Daddy Nostalgie Regia: Bertrand Tavernier; origine: Francia Dirk Bogarde: Tony “Daddy” 1993 | Voices in the Garden (tv) Regia: Pierre Boutron; origine: Gran Bretagna [solo sceneggiatura]


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Montgomery Tully

Boys in Brown Gran Bretagna, 1949, 85’, bn

Ragazzi in uniforme marrone [t.l.] Non contento di essere libero sulla parola per precedenti reati, il giovane Jackie Knowles si mette di nuovo nei guai tentando di compiere un’altra rapina. Viene perciò condannato a tre anni di riformatorio. Qui conosce altri coetanei, come lo scafato Alfie Rawlins, che lo mette subito in guardia sulla noia e sulla solitudine legate alla routine del luogo. Quando sei compagni lo invitano a partecipare al loro piano di fuga, Jackie all’inizio vorrebbe chiamarsi fuori. Viene però convinto da Alfie, il quale lo fa dubitare della fedeltà della sua fidanzata Kitty. Il piano fallisce, ma la comprensione del direttore, nonché l’intervento della stessa Kitty, eviteranno al giovane guai maggiori. La maggior parte dell’azione si svolge presso un non meglio precisato riformatorio, il cui direttore (Jack Warner) è enfaticamente descritto come un uomo costantemente preoccupato per le condizioni dei suoi giovani ospiti e per le cause sociali e familiari che li hanno portati a dover beneficiare delle sue cure. […] Bill (Jimmy Hanley) è incapace di venire a patti con la vita fuori, e finisce con il ritornare al riformatorio; Jackie (Richard Attenborough), al contrario, ha una fidanzata sveglia e buone prospettive, sempre che si metta in testa di rigare dritto. Molto meno ci viene rivelato, invece, di Alfie Rawlins, sebbene la recitazione di Dirk Bogarde sia abbastanza sottile da suggerire un passato piuttosto traumatico, un carattere che lo porta a manifestare solidarietà con gli altri solo se gli viene comodo e uno status di emarginato sottolineato dall’accento gallese. Un saggio di intrigante ambiguità, da parte di Bogarde, come nel successivo The Blue Lamp (1950) di Basil Dearden. (Michael Brooke, BFI Screen on Line: “Boys in Brown”, www.screenonline.org.uk)

Regia, Sceneggiatura Montgomery Tully Soggetto dalla commedia di Reginald Beckwith Fotografia Cyril Bristow, Gordon Lang Montaggio James Needs Scenografia Douglas Daniels Costumi Yvonne Caffin Musica Doreen Carwithen Suono Reg Barnes Heath Interpreti Richard Attenborough (Jackie Knowles), Dirk Bogarde (Alfie Rawlins), Jack Warner (il direttore del riformatorio), Jimmy Hanley (Bill Foster), Barbara Murray (Kitty Hurst), Patrick Holt (Tigson), Andrew Crawford (Casey), Thora Hird (la signora Knowles) Produttore Anthony Darnborough Produzione Gainsborough Pictures Distribuzione General Film Distributors

Filmografia essenziale The Terrornauts (1967) Master Spy (X21 Spionaggio atomico, 1964) The House in Marsh Road (1960) Escapement (Il terrore non ha confini, 1958) No Road Back (Club di gangsters, 1957) The Counterfeit Plan (La Primula Gialla, 1957) 36 Hours (Trentasei ore di mistero, 1953) Boys in Brown (1949) Mrs. Fitzherbert (Un grande amore di Giorgio IV, 1947) Murder in Reverse (La parola che uccide, 1945)

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Basil Dearden

The Blue Lamp Gran Bretagna, 1950, 84’, bn

Regia Basil Dearden Soggetto Jan Read, Ted Willis Sceneggiatura T.E.B. Clarke, Alexander Mackendrick Fotografia Gordon Dines Montaggio Peter Tanner Scenografia Jim Morahan Costumi Anthony Mendleson Musica Ernest Irving (brani jazz di Jack Parnell) Suono Arthur Bradburn, Stephen Dalby Interpreti Jimmy Hanley (il tenente Andy Mitchell), Jack Warner (il tenente George Dixon), Dirk Bogarde (Tom Riley), Patrick Doonan (Spud), Robert Flemyng (il sergente Roberts), Bernard Lee (l’ispettore Cherry), Peggy Evans (Diana Lewis), Gladis Henson (la signora Dixon) Produttore Michael Balcon Produzione Ealing Studios Distribuzione General Film Distributors Filmografia essenziale [1] The Man Who Haunted Himself (L’uomo che uccise se stesso, 1970) The Assassination Bureau (Assassination Bureau, 1969) Only When I Larf (… solo quando rido, 1968) Khartoum (id., 1966) Masquerade (50.000 sterline per tradire, 1965) Woman of Straw (La donna di paglia, 1964) A Place to Go (1963) The Mind Benders (Il cranio e il corvo, 1963) Life of Ruth (Delitto di coscienza, 1962) All Night Long (1962)

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I giovani uccidono Andy Mitchell è un giovane poliziotto appena entrato in servizio. L’anziano ed esperto tenente Dixon, oltre a seguirlo nel suo tirocinio, offre al giovane una stanza a pensione in casa sua. La serenità dell’ambiente domestico di Dixon e signora, e il senso di amichevole cooperazione alla stazione di polizia, contrastano con la storia parallela di due giovani teppisti, Spud e Tom Riley che, nel corso di una rapina, uccidono l’anziano tenente. La polizia inizia le sue indagini, tacitamente aiutata dalla malavita locale. I colpevoli sono fermati e affidati alla giustizia. A Mitchell, ormai completamente ambientato, viene assegnato il percorso di ronda che era stato di Dixon. Un caloroso e affezionato omaggio alla Polizia metropolitana londinese nell’esercizio dei suoi quotidiani compiti viene intrecciato, in questo I giovani uccidono, con un ben fatto melodramma criminale dai toni estremamente realistici. Ricco di freschi tocchi di umana sensibilità, come di una sincera ammirazione per le forze dell’ordine, il film combina l’intrattenimento con un solido substrato sociologico. […] T.E.B. Clarke ha scritto una sceneggiatura molto fluida e sapientemente strutturata, mentre Basil Dearden dirige con uno stile efficacemente naturalistico. Un ampio cast di eccellenti attori è diretto con polso, e comprende interpreti come Jack Warner, Jimmy Hanley e Meredith Edwards nei panni dei bobbies e Robert Flemyng e Bernard Lee in quelli dei detective. Dirk Bogarde è un capogang morboso e maligno, Patrick Doonan e Peggy Evans i suoi ottimi complici. (Bosley Crowther, Movie Review: “The Blue Lamp”, «The New York Times», 9 gennaio 1951)


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Charles Crichton

Hunted Gran Bretagna, 1952, 84’, bn

La colpa del marinaio Il piccolo orfano Robbie è stato piazzato presso alcuni suoi parenti che, verso di lui, non dimostrano granché affetto. Dopo aver provocato accidentalmente un piccolo incendio nella loro casa, temendo una severa punizione, Robbie scappa, vagando senza meta per le vie di Londra. Giunge in una casa abbandonata, dove si imbatte in un tale di nome Chris Lloyd. Questi ha appena ucciso un uomo per motivi di gelosia e, convinto che il bambino sia un potenziale testimone a suo carico, decide di fuggire portandolo con sé. I due si dirigono verso la Scozia, da dove Lloyd intende imbarcarsi per l’Irlanda. Durante il viaggio, i due cominciano a diventare amici. In uno dei suoi primi ruoli di rilievo, Bogarde brilla già per il suo magnetismo di carattere e per una carica di violenza magistralmente trattenuta. È un uomo qualunque, un povero disgraziato che si è trovato al di fuori della legge e che, tormentato dal peso delle sue gravi colpe, intraprende un cammino di redenzione. Il suo tormento è esteriorizzato da Bogarde con una notevole economia di mezzi espressivi, e l’interazione con il suo piccolo compagno di fuga (il bravissimo Jon Whiteley) si rivela senz’altro un’idea vincente. Se la sceneggiatura di Whittingham è abilissima nell’evitare qualsiasi melensaggine, la regia di Crichton sa fare, tra le altre cose, un uso suggestivo dei paesaggi dell’Inghilterra del Nord e della Scozia, in un noir che è anche un road movie ante litteram e che ricorda un po’, per certe sue atmosfere, La morte corre sul fiume di Laughton. (Auguste-Bertrand Doinel, Les enfants à l’écran, «La Gazette de GenèveDimanche», 26 aprile 1998)

Regia Charles Crichton Soggetto Michael McCarthy Sceneggiatura Jack Whittingham Fotografia Eric Cross Montaggio Geoffrey Muller Scenografia Alex Vetchinsky Musica Hubert Clifford Suono Gordon K. McCallum, John W. Mitchell, Graeme Hamilton Interpreti Dirk Bogarde (Chris Lloyd), Jon Whiteley (Robbie), Elizabeth Sellars (Magda Lloyd), Kay Walsh (la signora Sykes), Frederck Piper (il signor Sykes), Julian Somers (Jack Lloyd), Geoffrey Keen (l’ispettore Deakin), Douglas Blackwell (il sergente Grayson) Produttore Julian Wintle Produzione Independent Artists, British Film Makers Distribuzione General Film Distributors

Filmografia essenziale A Fish Called Wanda (Un pesce di nome Wanda, 1988) The Battle of the Sexes (La battaglia dei sessi, 1959) Law and Disorder (Benvenuto a Scoltand Yard!, 1958) Man in the Sky (L’uomo nel cielo, 1957) The Love Lottery (L’idolo, 1954) The Titfield Thunderbolt (1953) Hunted (La colpa del marinaio, 1952) The Lavender Hill Mob (L’incredibile avventura di Mr. Holland, 1951) Dance Hall (Ragazze inquiete, 1950) Hue and Cry (Piccoli detectives, 1947)

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Basil Dearden

The Gentle Gunman Gran Bretagna, 1952, 86’, bn

Regia Basil Dearden Soggetto dalla commedia di Roger MacDougall Sceneggiatura Roger MacDougall Fotografia Gordon Dines Montaggio Peter Tanner Scenografia Jim Morahan Costumi Anthony Mendleson Musica John Greenwood Suono Arthur Bradburn, Stephen Dalby Interpreti John Mills (Terence Sullivan), Dirk Bogarde (Matt Sullivan), Robert Beatty (Shinto), Elizabeth Sellars (Maureen Fagan), Barbara Mullen (Molly Fagan), Eddie Bryne (Flynn), Joseph Tomelty (il dottor Brannigan), Liam Redmond (Connolly) Produttori Michael Relph, Basil Dean Produzione Michael Balcon Productions, Ealing Studios Distribuzione General Film Distributors

Filmografia essenziale [2] Victim (id., 1961) The Secret Partner (Il complice segreto, 1961) Man in the Moon (Il primo uomo sulla Luna, 1960) League of Gentlemen (Un colpo da otto, 1960) Sapphire (Zaffiro nero, 1959) Violent Playground (L’incendiario, 1958) Who Done It? (Occhio di lince, 1956) The Ship That Died of Shame (L’ultima vendetta, 1955) Out of the Clouds (1955)

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Il bandito gentile [t.l.] Terence e Matt Sullivan sono due fratelli irlandesi coinvolti nelle attività dell’IRA a Londra nel 1941. Vivere giorno dopo giorno in una situazione di quotidiano allarme porta Terence a rivedere le sue idee sull’uso della violenza come metodo per perseguire i propri obiettivi. Quando i suoi compagni vengono tratti in arresto, Terence si assicura che Matt faccia ritorno in Irlanda senza correre altri rischi. Quindi si appresta ad affrontare qualsiasi decisione l’IRA intenda prendere, su di lui come sull’eventualità di far evadere i compagni arrestati. Le produzioni Ealing, con l’eccezione di Lo scandalo del vestito bianco di Alexander Mackendrick, non si sono mai distinte particolarmente nel trattare contenuti esplicitamente politici. In alcuni casi, come His Excellency di Robert Hamer o Secret People di Thorold Dickinson, hanno affrontato l’argomento (il rapporto fra Madrepatria e colonie; la resistenza alla tirannia) in maniera alquanto riduttiva, senza che ciò tuttavia pregiudicasse una buona resa drammatica. Questo The Gentle Gunman non fa eccezione: un po’ appesantito dalla sua origine teatrale, contiene tuttavia alcuni aspetti interessanti. Il messaggio umanista (l’IRA potrebbe rinunciare alla violenza se solo il governo inglese si dimostrasse aperto ad ascoltare le ragioni degli irlandesi), è forse un po’ troppo semplicistico, ma il côté noir della regia di Dearden regge egregiamente, mentre il posato Mills e l’ambiguo Bogarde ci regalano un credibilissimo ritratto di fratelli in lotta. (Edward M. Connelly, Emerald Isle in Movies Part 2: 1940-59, «The Sunday Boston Chronicle», 3 settembre 1985)


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Compton Bennett

Desperate Moment Gran Bretagna, 1953, 88’, bn

I disperati Nella Germania del dopoguerra, l’olandese Simon van Halder è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di un soldato inglese. Simon in realtà è innocente, ma il suo socio Paul, facendo leva sulla sua disperazione per la morte dell’amatissima fidanzata Anna, lo ha convinto ad addossarsi la responsabilità del crimine. Dopo essere evaso, Simon si imbatte nella rediviva Anna, la cui morte era stata deliberatamente architettata da Paul allo scopo di procurarsi un capro espiatorio. Simon e Anna cominciano subito a darsi da fare per raccogliere le testimonianze necessarie alla riapertura del caso. Film come questo fanno venire il sospetto che chi li ha scritti si sia divertito un mondo a escogitare le idee più ingegnose con le quali tormentare i malcapitati protagonisti, costringendoli a cavarsi d’impaccio dalle più rocambolesche situazioni. Saremmo tuttavia ingiusti a voler pretendere maggior rigore da un film come I disperati. Anche perché, nonostante la comune ambientazione continentale e postbellica, Compton Bennett non intende assolutamente rivaleggiare con il Carol Reed di Il terzo uomo o del più recente Accadde a Berlino; semmai, siamo più dalle parti di un elegante divertissement di vaga ispirazione hitchcockiana. Non trascurabile il cast: se i comprimari se la cavano egregiamente con parti relativamente stereotipate, Mai Zetterling è dolce e tenace allo stesso tempo, mentre Bogarde sfrutta con grande maestria il suo miglior deadpan in questo ritratto di innocente in fuga. (Ivor MacTierney, Desperate Moments for Desperate Heroes, «The Aberdeen Mail», 26 aprile 1953)

Regia Compton Bennett Soggetto dal romanzo di Martha Albrand Sceneggiatura George H. Brown, Patrick Kirwan Fotografia C.M. Pennington-Richards Montaggio John D. Guthridge Scenografia Maurice Carter Costumi Julie Harris Musica Ronald Binge Suono John Dennis, Gordon K. McKallum Interpreti Dirk Bogarde (Simon van Halder), Mai Zetterling (Anna DeBurg), Philip Friend (il capitano Bob Sawyer), Albert Lieven (Paul Ravitch, alias Schleger), Fritz Wendhausen (il direttore Goeter), Carl Jaffe (il secondino Becker), Gerard Heinz (il medico della prigione), Harold Hayer (il capitano Trevor Wood) Produttore George H. Binge Produzione Fanfare Distribuzione General Film Distributors

Filmografia essenziale How to Undress in Public Without Undue Embarrassment (1965) Beyond the Curtain (Berlino Est passaporto falso, 1960) The Flying Scot (1957) Desperate Moment (I disperati, 1953) Gift Horse (Il cacciatorpediniere maledetto, 1952) So Little Time (Vittime dell’odio e dell’amore, 1952) King Solomon’s Mines (Le miniere di re Salomone, 1950) Daybreak (Il boia arriva all’alba, 1948) The Seventh Veil (Settimo velo, 1945)

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Joseph Losey

The Sleeping Tiger Gran Bretagna, 1954, 89’, bn

Regia Victor Hanbury [Joseph Losey] Soggetto dal romanzo di Maurice Moiseiwitsch Sceneggiatura Derek Frye [Harold Buchman, Carl Foreman] Fotografia Harry Waxman Montaggio Reginald Mills Scenografia John Stoll Costumi Evelyn Gibbs Musica Malcolm Arnold Suono Harry Booth, W.H. Lindop Interpreti Dirk Bogarde (Frank Clemmons), Alexis Smith (Glenda Esmond), Alexander Knox (il dottor Clive Esmond), Hugh Grifftih (l’ispettore), Patricia McCarron (Sally Foster), Maxine Audley (Carol), Glyn Houston (Bailey), Harry Towb (Harry) Produttori Victor Hanbury, Joseph Losey [non accr.] Produzione Insignia Distribuzione Anglo-Amalgamated Film Distributors

Filmografia essenziale [1] Steaming (Steaming – Al bagno turco, 1985) Don Giovanni (id., 1979) M. Klein (Mr. Klein, 1976) The Romantic Englishwoman (Una romantica donna inglese, 1975) Galileo (id., 1974) A Doll’s House (Casa di bambola, 1973) The Assassination of Trotsky (L’assassinio di Trotsky, 1972)

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La tigre nell’ombra Lo psicologo Clive Esmond ospita in casa sua il giovane Frank Clemmons, che ha già una bella carriera di rapinatore. Il suo scopo è studiarlo per dimostrare che le sue tendenze criminali altro non sono che il frutto di traumi subiti nell’infanzia. Inizialmente Frank non è per niente interessato al lato scientifico della situazione, accontentandosi di diventare l’amante di Glenda, la moglie del suo benefattore. Alla lunga, però, Frank pare trarre giovamento dalle cure di Esmond, tanto da meditare di rompere il suo rapporto con Glenda. Ma la donna è di ben altra idea. La tigre nell’ombra segna l’inizio della duratura amicizia con Dirk Bogarde il quale, in un primo tempo, non intende prender parte a un film diretto da un regista accusato di filocomunismo, ma poi, dopo che Losey l’ha convinto ad assistere alla proiezione di Sciacalli nell’ombra, accetta. […] Il film «non è realizzato male, è recitato molto bene, montato molto bene, la musica di Malcolm Arnold è eccellente. Non è un film straordinario, ma non è facile fare di meglio con trecentomila dollari» (Losey). La tigre nell’ombra accosta la struttura del “melodramma domestico” all’asciuttezza dello stile di Losey, soprattutto a scapito di quest’ultima. Ne esce un ibrido dominato dalla freddezza, nel quale non è difficile riconoscervi alcuni elementi tipicamente loseyani: la funzione dirompente dell’estraneo; quella del messaggero, usata più o meno consapevolmente per risolvere una situazione di latente squilibrio; il rapporto padre/figlio (Clive/Frank) con le sue difficoltà, ancora una volta risolte in chiave psicoanalitica. (Giorgio Cremonini, Gualtiero De Marinis, Joseph Losey, La Nuova Italia, Firenze 1981)


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Lewis Gilbert

Cast a Dark Shadow Gran Bretagna, 1955, 82’, bn

La poltrona vuota Crede di aver fatto bene i suoi calcoli, Edward Bare, decidendo di eliminare sua moglie Monica: la ragione per cui ha compiuto un tale passo è stata dettata dall’esigenza di impedirle di cambiare testamento, credendo che la donna volesse escluderlo. In realtà, Monica avrebbe voluto modificare le sue volontà per renderlo maggiormente beneficiario delle sue fortune, ma ormai è troppo tardi, e l’uomo si trova costretto a sposare un’altra ricca vedova, Freda Jeffries, per risolvere i suoi problemi di bilancio. Questa, però, molto meno disposta a mollare le redini del suo patrimonio, si rivela ben presto un osso assai duro. Nonostante le sue origini teatrali, La poltrona vuota riesce a essere un prodotto cinematograficamente assai dinamico, mantenendo sempre alta l’attenzione dello spettatore. Bogarde, nei panni di un elegante ladykiller, è un portento, con tutta la sua raffinata gamma di espressioni e di sottintesi: un assassino blasé, mai manierato, con un tocco di effeminatezza che lo rende ancora più inquietante. Kay Walsh aggiunge sapore al cast, ma la vera perla è Margaret Lockwood, con la sua Freda petulante, appiccicosa, decisamente lower-class ma anche molto sola, un ruolo piuttosto diverso da quelli ai quali l’attrice ci ha finora abituati. Una suggestiva fotografia e una struttura narrativa che rende credibile un finale altrimenti un po’ prevedibile rendono questo film un gioiello del thriller matrimoniale. (Freddie Montague Bates, Movie Review: “Cast a Dark Shadow”, «The Grantham Post», 23 settembre 1955)

Regia Lewis Gilbert Soggetto dalla commedia Murder Mistaken di Janet Green Sceneggiatura John Cresswell Fotografia Jack Asher Montaggio Gordon Pilkington Scenografia John Stoll Costumi Julie Harris Musica Antony Hopkins Suono Dave Howells Interpreti Dirk Bogarde (Edward Bare), Margaret Lockwood (Freda Jeffries), Kay Walsh (Charlotte Young), Kathleen Harrison (Emmie), Robert Flemyng (Phillip Mortimer), Mona Washbourne (Monica Bare), Philip Stainton (Charlie Mann), Walter Hudd (il coroner) Produttore Herbert Mason Produzione Angel Productions Distribuzione Eros Films

Filmografia essenziale [1] Before You Go (2002) Haunted (Fantasmi, 1995) Educating Rita (Rita Rita, 1983) Moonraker (Moonraker – Operazione spazio, 1979) The Spy Who Loved Me (La spia che mi amava, 1977) The Adventures (L’ultimo avventuriero, 1970) You Only Live Twice (Agente 007 – Si vive solo due volte, 1967) Alfie (id., 1966) The 7th Dawn (La settima alba, 1964)

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Ralph Thomas

Doctor at Sea Gran Bretagna, 1955, 102’, col.

Regia Ralph Thomas Soggetto Richard Gordon Sceneggiatura Nicholas Phipps, Jack Davies Fotografia Ernest Steward Montaggio Frederick Wilson Scenografia Carmen Dillon Costumi Joan Ellacott Musica Bruce Montgomery Suono Gordon K. McCallum, John W. Mitchell, Eric Boyd-Perkins, Roger Cherrill Interpreti Dirk Bogarde (il dottor Simon Sparrow), Brenda de Banzie (Muriel Mallet), Brigitte Bardot (Hélène Colbert), James Robertson Justice (il capitano Wentworth Hogg), Maurice Denham (Easter), Michael Medwin (il sottotenente Trail), Hubert Gregg (Archer), James Kenney (Fellowes) Produttore Betty E. Box Produzione Group Film Productions Limited Distribuzione J. Arthur Rank Film Distributors

Filmografia essenziale [1] A Nightingale Sang in Berkeley Square (1979) Quest for Love (Il caso Trafford, 1971) Some Girls Do (Alcune ragazze lo fanno, 1969) Nobody Runs Forever (Arrest!, 1968) Deadlier Than the Male (Più micidiale del maschio, 1967) The High Bright Sun (Il sole scotta a Cipro, 1964) Doctor in Distress (Dottore nei guai, 1963) Doctor in Love (Si spogli dottore!, 1960)

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Incontro a Rio Intenzionato a fuggire le mire romantiche della figlia del suo datore di lavoro, il giovane dottor Sparrow si imbarca come ufficiale medico sulla nave da crociera S.S. Lotus, il cui comandante, il capitano Wentworth Hogg, è un vecchio lupo di mare autoritario e di cattivo carattere. Sparrow si ambienta presto al nuovo lavoro e, quando la nave fa scalo in un porto sudamericano, conosce la bella cantante francese Hélène Colbert. Durante il viaggio di ritorno, fra i due sboccia l’amore. Alla fine della traversata, Hélène riceve una proposta di lavoro a Rio de Janeiro. Lei e Sparrow faranno questo nuovo viaggio insieme. La serie di commedie sui giovani dottori, ispirata a un libro comico molto popolare di Richard Gordon, fu il parto della mente della produttrice Betty Box, descritta da James Mason come «la più intelligente e instancabile imprenditrice dell’industria britannica». La sua fiducia nel potenziale del progetto si rivelò ben fondata: il primo film fu un successo di botteghino, e molti altri ne seguirono. […] In questi film Dirk Bogarde si produce in una recitazione controllata e al tempo stesso brillante nei panni dello studente, poi medico Simon Sparrow. Distanziandosi dai ruoli per i quali fino ad allora era conosciuto, ebbe qui l’occasione di lanciare la sua carriera come “idol of the odeons”. In seguito, l’attore commentò: «I produttori credevano che potessi fare solo gangster e personaggi cockney, ma Betty e Ralph [Thomas, il regista] mi permisero finalmente di vestirmi di tweed e di parlare con la mia voce. Il resto è storia». (Vic Pratt, BFI Screen on Line: “Doctor in the House”, www.screenonline.org.uk)


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Philip Leacock

The Spanish Gardener Gran Bretagna, 1956, 91’, col.

Il giardiniere spagnolo Nonostante abbia una discreta serie di titoli accademici e una certa esperienza nell’ambiente diplomatico, Harrington Brande, console inglese a Barcellona, continua a essere sopravanzato da altri nella distribuzione delle nomine di prestigio. A causa di ciò, e del fatto di essere stato lasciato dalla moglie, sublima la sua frustrazione con un eccessivo attaccamento al figlio Nicholas, non rendendosi conto che è proprio il suo atteggiamento iperprotettivo ad averne fatto un bambino troppo delicato. Il ragazzo comincia a stringere amicizia con José, il giardiniere del consolato dal carattere aperto e solare. Tanto basta per scatenare la gelosia di Harrington. Il romanzo di A.J. Cronin su di un diplomatico di secondo piano totalmente privo di compassione umana è stato trasposto in un avvincente spettacolo cinematografico, una storia piacevolmente narrata sullo sfondo dei variopinti paesaggi spagnoli. Michael Hordern è un console separato dalla moglie, continuamente superato dagli altri nelle promozioni, che si ostina a credere che suo figlio sia troppo delicato per essere mandato a scuola o per poter giocare con i suoi coetanei. L’amicizia che il bambino intreccia con un giardiniere spagnolo scatena la sua gelosia. Bogarde tratteggia un preciso, misurato profilo del giardiniere la cui amicizia per il ragazzo viene completamente fraintesa; Jon Whiteley ritrae il ragazzino con molta sensibilità, mentre Cyril Cusack (un sinistro maggiordomo) e Maureen Swanson (la ragazza del giardiniere) forniscono un ottimo cast di supporto. (- -, Review: “The Spanish Gardener”, «Variety», 31 dicembre 1956)

Regia Philip Leacock Soggetto dal romanzo di A.J. Cronin Sceneggiatura John Bryan, Lesley Storm Fotografia Christopher Challis Montaggio Reginald Mills Scenografia Maurice Carter Costumi Margaret Furse Musica John Veale Suono Gordon K. McCallum, John W. Mitchell, Harry Miller Interpreti Dirk Bogarde (José), Jon Whiteley (Nicholas Brande), Michael Hordern (Harrington Brande), Cyril Cusack (García), Maureen Swanson (María), Lyndon Brook (Robert Burton), Josephine Griffin (Carol Burton), Bernard Lee (Leighton Bailey) Produttore John Bryan Produzione The Rank Organisation Distribuzione J. Arthur Rank Film Distributors

Filmografia essenziale Adam’s Woman (La frusta e la forca, 1970) Tamahine (La vergine in collegio, 1963) The War Lover (Amante di guerra, 1962) Let No Man Write My Epitaph (Che nessuno scriva il mio epitaffio, 1960) The Rabbit Trap (La trappola del coniglio, 1959) High Tide at Noon (Alta marea a mezzogiorno, 1957) The Spanish Gardener (Il giardiniere spagnolo, 1956) Escapade (Delitto in blu, 1955) Riders of the New Forest (1940)

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Ralph Thomas

A Tale of Two Cities Gran Bretagna, 1958, 117’, bn

Regia Ralph Thomas Soggetto dal romanzo di Charles Dickens Sceneggiatura T.E.B. Clarke Fotografia Ernest Steward Montaggio Alfred Roome Scenografia Cameron Dillon Costumi Beatrice Dawson Musica Richard Addinsell Suono Bill Daniels, E.G. Daniels, Archie Ludski Interpreti Dirk Bogarde (Sidney Carton), Dorothy Tutin (Lucie Mariette), Paul Guers (Charles Darnay), Cecil Parker (Jarvis Lorry), Stephen Murray (il dottor Manette), Athene Seyler (la signorina Pross), Marie Versini (Marie Gabelle), Ian Bannen (Gabelle), Christopher Lee (il marchese di St. Evremonde) Produttore Betty E. Box Produzione The Rank Organisation Distribuzione Rank Film Distributors

Filmografia essenziale [2] Conspiracy of Hearts (La guerra segreta di suor Katryn, 1960) Upstairs and Downstairs (Su e giù per le scale, 1959) The Wind Cannot Read (Il vento non sa leggere, 1958) A Tale of Two Cities (Verso la città del terrore, 1958) Campbell’s Kingdom (La dinastia del petrolio, 1957) Doctor at Sea (Incontro a Rio, 1955) Doctor in the House (Quattro in medicina, 1954) Once Upon a Dream (1949)

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Verso la città del terrore Fine Settecento. Sydney Carton, un avvocato tanto brillante nella sua professione quanto dissoluto nella vita privata, si innamora senza successo della francese Lucie Manette, la quale gli preferisce l’aristocratico compatriota Charles Darnay. Recatosi a Parigi per aiutare un parente tratto in arresto – la Rivoluzione sta attraversando la fase più acuta del Terrore –, Darnay è a sua volta imprigionato e condannato alla ghigliottina. Carton mette quindi in atto uno spericolato quanto ingegnoso piano per farlo evadere. Si racconta che, nella fase di preproduzione di questo Racconto delle due città cinematografico, il regista Ralph Thomas sia riuscito a imporre la sua intenzione di voler usare il bianco e nero, al posto di un più commercialmente appetibile colore, sostenendo che anche Dickens aveva scritto il suo romanzo in bianco e nero. Al di là delle preferenze cromatiche del grande romanziere (Bogarde, da parte sua, in una intervista del 1960 avrebbe poi commentato che, fosse stato a colori, il film avrebbe avuto più successo), il lavoro di Thomas raggiunge un preciso equilibrio fra il dramma su piccola scala dei personaggi principali e quello su larga scala del turbolento sfondo storico. Trovandosi a competere con la già notevole, precedente prova di Ronald Colman del 1935, Bogarde conferisce sensibilità e credibilità a Sydney Carton e alle sue romantiche ed eroiche pulsioni autodistruttive. (Eleanor Kerry, Dickens and Movies, «The Innisfree Gazette», 14 maggio 1973)


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Anthony Asquith

Libel Gran Bretagna, 1959, 100’, bn

Il diavolo nello specchio Strana rimpatriata, quella del pilota canadese Jeffrey Buckenham, di passaggio per Londra, e il suo antico compagno di prigionia in Germania sir Mark Sebastian Loddon: Quest’ultimo si dimostra a disagio, e pare non ricordarsi di lui. Jeffrey, allora, si ricorda che nel loro campo c’era anche un tale Frank Welney, somigliantissimo a sir Mark, e comincia a ricamarci sopra: la sua conclusione è che, alla fine della guerra, Welney abbia soffiato il posto a sir Mark. I suoi sospetti arrivano alla stampa, che ça va sans dire ne approfitta per montare il caso. Sir Mark, che in effetti soffre di amnesie, è indeciso se denunciare Jeffrey per calunnia o no. Spinto dalla moglie, porta il caso in tribunale. L’ultimo buon film di Asquit racconta di un aristocratico accusato da un suo antico commilitone di essere un truffatore, cioè un altro compagno di guerra somigliantissimo al protagonista che, dopo un attento studio dei suo gesti, della sua dizione e dei suoi ricordi, lo avrebbe brutalmente sfigurato e menomato per prenderne il posto in famiglia e in società. Complicato intreccio di flashbacks, di interpretazioni e di sensazioni soggettive e di dramma processuale (metà del film si svolge in un tribunale dove si succedono i colpi di scena), Libel offre a Bogarde un personaggio chiave per il suo sviluppo futuro: l’arrivista maligno e di basso ceto, che davvero spia con rancore e arroganza il suo ricco sosia, ne imita la pettinatura e l’accento, è l’ascendente diretto del servo, in bilico tra insinuante umiltà e violenza furibonda, e intento anche lui a un gioco (meno sottile) di appropriazione. (Emanuela Martini, Storia del cinema inglese 1930-1990, Marsilio, Venezia 1991)

Regia Anthony Asquith Soggetto dalla commedia di Edward Wooll Sceneggiatura Anatole de Grunwald, Karl Tunberg Fotografia Robert Krasker Montaggio Frank Clarke Scenografia Paul Sheriff Costumi Felix Evans (vestiti per Olivia de Havilland di Christian Dior) Musica Benjamin Frankel Suono Jerry Turner, Robert Carrick Interpreti Dirk Bogarde (sir Mark Sebastian Loddon/Frank Welney), Olivia de Havilland (lady Margaret Loddon), Paul Massie (Jeffrey Buckenham), Robert Morley (sir Wilfred), Wilfrid Hyde-White (Hubert Foxley), Anthony Dawson (Gerald Loddon), Richard Wattis (il giudice) Produttore Anatole de Grunwald Produzione De Grunwald Productions Distribuzione Metro-Goldwyn-Mayer

Filmografia essenziale The Yellow Rolls-Royce (Una Rolls-Royce gialla, 1964) Libel (Il diavolo nello specchio, 1959) The Doctor’s Dilemma (Il dilemma del dottore, 1958) The Young Lovers (Giovani amanti, 1954) The Importance of Being Earnest (L’importanza di chiamarsi Ernesto, 1952) The Woman in Question (Donna nel fango, 1950) The Winslow Boy (Tutto mi accusa, 1948) Fanny by Gaslight (Il mio amore vivrà, 1945) Pygmalion (Pigmalione, 1938)

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Basil Dearden

Victim Gran Bretagna, 1961, 90’, bn

Regia Basil Dearden Soggetto dalla commedia di Edward Wooll Sceneggiatura Anatole de Grunwald, Karl Tunberg Fotografia Otto Heller Montaggio Fjohn D. Guthridge Scenografia Alex Vetchinsky Musica Philip Green Suono Gordon K. McCallum, C.C. Sgtevens, Leslie Wiggins Interpreti Dirk Bogarde (Melville Farr), Sylvia Sims (Laura), Dennis Price (Calloway), Anthony Nicholls (lord Fullbrook), Peter Copley (Paul Mandrake), Norman Bird (Harold Doe), Peter McEnery (Barrett), Donald Churchill (Eddy) Produttori Michael Relph, Basil Dearden Produzione Allied Film Makers Distribuzione J. Arthur Rank Film Distributors

Filmografia essenziale [3] The Rainbow Jacket (1954) The Square Ring (1953) The Gentle Gunman (1952) I Believe in You (1952) Pool of London (Città in agguato, 1951) The Blue Lamp (I giovani uccidono, 1950) Train of Events [ep. The Actor e The Prisoner-of-War] (1949) Saraband for Dead Lovers (Sarabanda tragica, 1948) Frieda (Frida l’amante straniera, 1947) The Captive Heart (Cuore prigioniero, 1946)

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Victim Il giovane Jack Barrett, arrestato per furto, si suicida in carcere. Prima dell’arresto, Barrett ha cercato di mettersi in contatto con Melville Farr, un brillante avvocato il quale, temendo di essere ricattato, ha rifiutato di ascoltarlo. In seguito, Farr si rende conto che Barrett, al contrario, intendeva metterlo in guardia da uno scandalo che potesse compromettere la sua carriera. L’avvocato, infatti, ha avuto in passato una relazione omosessuale, e i ricattatori che avevano preso di mira il giovane, ora potrebbero minacciare Farr di rivelare il suo segreto, Farr decide quindi di passare all’attacco: confessa in tribunale il suo passato e collabora con la polizia alla cattura dei ricattatori. Victim fa parte di quella serie di pellicole socialmente impegnate, a opera del duo registico-produttivo Dearden/Relph, che affrontano temi come la delinquenza (L’incendiario, 1958), il razzismo (Zaffiro nero, 1959) e gli slum dell’East End (A Place to Go, 1963). Primo film britannico a parlare esplicitamente di omosessualità, Victim arrivò nel bel mezzo del dibattito seguito alla pubblicazione nel 1957 del rapporto Wolfenden (nonostante le raccomandazioni di Wolfenden, l’omosessualità rimarrà un reato fino al 1967). Per Dirk Bogarde, che accettò la parte dopo il rifiuto di un altro attore, Victim fu una scelta coraggiosa ma anche ripagante, permettendogli di chiudere il periodo da “idol of the odeons” e aprendogli una fase molto più impegnata al servizio del cinema d’arte europeo. La recitazione di Bogarde, che porta dignità e autentico pathos al suo tormentato avvocato, eleva Victim al di sopra dell’impegno un po’ di maniera che aveva in parte appesantito film come Zaffiro nero. (Mark Duguid, BFI Screen on Line: “Victim”, www.screenonline.org.uk)


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Lewis Gilbert

H.M.S. Defiant Gran Bretagna, 1962, 101’, col.

Ponte di comando Nel corso delle guerre napoleoniche, il capitano Crawford, che comanda la nave da guerra inglese H.M.S. Defiant, è benvoluto dal suo equipaggio per l’atteggiamento umano che è solito dimostrare. Molto meno umano è il comportamento del primo ufficiale, il tenente ScottPadget, che ha un piglio talmente autoritario da rasentare il sadismo, abile nello sfruttare conoscenze che gli hanno sempre permesso di dare del filo da torcere ai comandanti sotto i quali ha finora servito. Nel corso di una missione al largo della Corsica, il rapporto fra i due rischia di arrivare allo scontro, anche a causa del malumore sempre più crescente fra i marinai. Ponte di comando è un robusto dramma navale ambientato ai tempi delle guerre napoleoniche e arricchito dal forte appeal di Alec Guinness, Dirk Bogarde e Anthony Quayle. […] Guinness, comandante di una nave inglese sul punto di affrontare la flotta napoleonica, è un brav’uomo, nonostante faccia rispettare una certa disciplina; Bogarde, suo primo ufficiale, è un sadico che non vede l’ora di fargli le scarpe. Sotto il ponte la ciurma guidata da Quayle, che si batte contro il rancio immangiabile, le proibitive condizioni di vita e le continue vessazioni di Bogarde. Il ruolo di Guinness non dà all’attore l’occasione di sfruttare al meglio le sue doti; quello di Bogarde, al contrario, è il più spettacolare. Quayle fornisce una presenza autorevole nei panni del capo dei ribelli, un uomo duro e determinato, il quale tuttavia si rende conto che c’è una via giusta e una sbagliata anche nella gestione di un ammutinamento. (- -, Review: “H.M.S. Defiant”, «Variety», 31 dicembre 1962)

Regia Lewis Gilbert Soggetto dal romanzo Mutiny di Frank Tilsley Sceneggiatura Nigel Kneale, Edmund H. North Fotografia Christopher Challis Montaggio Peter R. Hunt Scenografia Arthur Lawson Costumi Jean Fairlie, Duncan McPhee Musica Clifton Parker Suono H.L. Bird, Red Law Interpreti Alec Guinness (il capitano Crawford), Dirk Bogarde (il tenente Scott-Padget), Anthony Quayle (il marinaio semplice Vizard), Maurice Denham (il dottor Goss), Nigel Stock (il cadetto anziano Kilpatrick), Richard Carpenter (il tenente Ponsonby), Peter Gill (il tenente D’Arblay), David Robinson (il cadetto Harvey Crawford) Produttore John Brabourne Produzione Columbia Pictures/G.W. Films Limited Distribuzione Columbia Pictures Corporation

Filmografia essenziale [2] H.M.S. Defiant (Ponte di comando, 1962) Sink the Bismark! (Affondate la Bismark!, 1960) Ferry to Hong Kong (Passaggio a Hong Kong, 1959) Carve Her Name with Pride (Scuola di spie, 1958) The Admirable Crichton (L’incomparabile Crichton, 1957) Reach for the Sky (Bader il pilota, 1956) Cast a Dark Shadow (La poltrona vuota, 1955) The Little Ballerina (1948)

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Basil Dearden

The Mind Benders Gran Bretagna, 1963, 109’, bn

Regia Basil Dearden Soggetto, Sceneggiatura James Kennaway Fotografia Denys N. Coop Montaggio John D. Guthridge Scenografia James Morahan Costumi Anthony Mendleson Musica Georges Auric Suono Gordon K. McCallum, Vivian TempleSmith Interpreti Dirk Bogarde (il dottor Henry Laidlaw Longman), Mary Ure (Oonagh Longman), John Clements (il maggiore Hall), Michael Bryant (il dottor Danny Tate), Wendy Craig (Annabella), Harold Goldblatt (il professor Sharpey), Geoffrey Keen (Calder), Edward Fox (Stewart) Produttore Michael Relph Produzione Novus Distribuzione Anglo-Amalgamated Film Distributors

Filmografia essenziale [4] Dead of Night [ep. Hearse Driver e storia di collegamento] (Incubi notturni, 1945) The Came to a City (1944) The Halfway House (1944) My Learned Friend (1943) The Bells Go Down (1943) Did You Ever See a Dream Talking? (short, 1943) The Goose Steps Out (1942) The Black Sheep of Whitehall (La pecora nera del signor Ministro, 1942) Under Suspicion (tv, 1939)

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Il cranio e il corvo Lo psicologo dottor Longman, dopo che un suo collega, il professor Sharpey, s’è suicidato a seguito di alcuni esperimenti di deprivazione sensoriale, si offre volontario per essere sottoposto agli stessi test, allo scopo di scoprire cosa può essere andato storto. Inoltre, Longman intende riabilitare lo stesso Sharpey, sulla cui reputazione grava il sospetto da parte dell’MI5 di essere stato un traditore al servizio dei sovietici. Ciò che Longman intende provare è che le procedure alle quali si era sottoposto Sharpey possono essere utilizzate per scopi illeciti, come il lavaggio del cervello o la suggestione ipnotica. Si appresta quindi a essere inserito in una vasca di deprivazione sensoriale… È uno strano film, Il cranio e il corvo, che lascia un’impressione molto profonda grazie all’originalità della trama e alla tesissima regia; un antesignano di quello Stati di allucinazione dal quale lo scrittore Paddy Chayefsky tolse il proprio nome dopo aver visto gli eccessi del regista Ken Russell. […] Dirk Bogarde, qui, è eccellente, e le sue scene con un inquisitivo John Clemens (che ricopre il ruolo del segugio di Stato) sono un perfetto esempio di gioco del gatto col topo. Gli ambienti oxfordiani sono un po’ artefatti, come gran parte dei dialoghi, ma la fotografia e la spontaneità degli interpreti ne fanno un film di gran lunga migliore rispetto a Stati di allucinazione, come opera sul lavaggio del cervello. In un piccolo ruolo, si può notare Edward Fox prima di diventare famoso; Harold Goldblatt, un attore purtroppo poco usato dal cinema, viene dai celeberrimi Abbey Players of Ireland. La sequenza della nascita del bambino, che compare verso la fine del film, è talmente esplicita che è meglio esservi preparati. (- -, “The Mind Benders”. Review, www.movies.tvguide.com)


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Ronald Neame

I Could Go On Singing Gran Bretagna • USA, 1963, 100’, col.

Ombre sul palcoscenico Jenny Bowman, cantante americana di successo che si trova a Londra per uno spettacolo al Palladium, approfitta del suo soggiorno nella Capitale inglese per andare a trovare l’ex marito, il medico David Donne, e poter così incontrare anche il loro figlio Matt, che non vede da tempo. David si deve assentare per un viaggio a Roma per cui, in quei giorni, la donna ne approfitta per passare delle meravigliose giornate con il ragazzo. Al ritorno di David, Matt si trova diviso fra la lealtà verso il padre e l’affetto che ha cominciato a nutrire per la madre. Che siate dei fan di Judy Garland o che non lo siate, le cose stanno così. E se non lo siete, è meglio che lasciate perdere questo suo nuovo film, e lo riserviate a noi suoi devoti. In Ombre sul palcoscenico la potrete vedere in primissimo piano in un bellissimo, sgargiante Technicolor, e ammirarla calcare la scena in una vibrante, vitale interpretazione che la porta all’essenza della sua natura di superba entertainer. (Judith Crist, Review: “I Could Go On Singing”, «The New York Herald Tribune», 15 maggio 1963)

Judy Garland è tornata sullo schermo in un ruolo che sembra cucito su misura per lei. Una nuova canzone, che dà il titolo al film, le permette di fare un po’ la spiritosa e le fornisce un pretesto per essere allegra e per versare pure una lacrima. Lei e Dirk Bogarde recitano insieme meravigliosamente, quantunque la sceneggiatura insista nel volerli una coppia pessimamente assortita. (Dorothy Masters, Review: “I Could Go On Singing”, «The New York Daily News», 15 maggio 1963)

Regia Lewis Gilbert Soggetto Robert Dozier Sceneggiatura Mayo Simon, Dirk Bogarde [non accr.] Fotografia Arthur Ibbetson Montaggio John Shirley Scenografia Wilfred Shingleton Costumi Beatrice Dawson Musica Mort Lindsey Suono Buster Ambler, Red Law Interpreti Judy Garland (Jenny Bowman), Dirk Bogarde (David Donne), Jack Klugman (George), Aline MacMahon (Ida), Gregory Phillips (Matt), Russell Waters (Reynolds), Pauline Jameson (la signorina Plimpton), Jeremy Burnham (il giovane medico) Produttori Stuart Millar, Lawrence Turman, Saul Chaplin Produzione Barbican Films Distribuzione United Artists Corporation (Gran Bretagna), United Artists (USA)

Filmografia essenziale Foreign Body (Medico per forza, 1986) Hopscotch (Due sotto il divano, 1980) The Prime of Miss Jean Brodie (La strana voglia di Jean, 1969) The Chalk Garden (Il giardino di gesso, 1964) I Could Go On Singing (Ombre sul palcoscenico, 1963) Tunes of Glory (Whisky e gloria, 1960) The Horse’s Mouth (La bocca della verità, 1958) The Man Who Never Was (L’uomo che non è mai esistito, 1956) The Card (Asso pigliatutto, 1952) Take My Life (Prendi la mia vita, 1947)

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Joseph Losey

The Servant Gran Bretagna, 1963, 116’, bn

Regia Joseph Losey Soggetto dal romanzo di Robin Maugham Sceneggiatura Harold Pinter Fotografia Douglas Slocombe Montaggio Reginald Mills Scenografia Richard Macdonald Costumi Beatrice Dawson Musica John Dankworth Suono Buster ambler, Gerry Hambling, John Cox Interpreti Dirk Bogarde (Barrett), James Fox (Tony), Sarah Miles (Vera), Wendy Craig (Susan), Catherine Lacey (lady Mounset), Richard Vernon (lord Mounset), Ann Firbank, Harold Pinter (la coppia di società) Produttori Joseph Losey, Norman Priggen Produzione Springbok Productions Distribuzione Associated British-Pathè

Filmografia essenziale [2] The Go-Between (Messaggero d’amore, 1970) Secret Ceremony (Cerimonia segreta, 1968) Boom! (La scogliera dei desideri, 1968) Accident (L’incidente, 1967) Modesty Blaise (Modesty Blaise, la bellissima che uccide, 1966) King & Country (Per il re e per la patria, 1964) The Servant (Il servo, 1963) The Damned (Hallucination, 1963) Eve (Eva, 1962)

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Il servo Vivendo da solo in una grande casa in un bel quartiere di Londra, il giovane e benestante Tony ha bisogno di qualcuno che se ne occupi. Per questo assume Barrett, un maggiordomo che fin dall’inizio appare zelante ed efficiente. A Susan, la fidanzata di Tony, il nuovo servitore non va a genio, ma al padrone va bene così, e la presenza di Barrett si radica sempre di più nella casa. Un giorno, Barrett presenta a Tony una ragazza di nome Vera e, dichiarandola sua sorella, gli chiede di assumerla come cameriera. In realtà, le cose non stanno esattamente come Barrett vorrebbe far credere a Tony, e il rapporto servo-padrone comincia un po’ alla volta a rovesciarsi… Nel film la parola “vampiro” viene effettivamente pronunciata da Tony, una volta e per scherzo, per esorcizzare i timori di Susan. Ma Barrett, in apparenza, non ha niente di demoniaco: la maschera che gli presta il formidabile Dirk Bogarde è infatti quella di una modulata e torbida usualità; la faccia della menzogna e del raggiro o, anche, della simulazione drammatica intesa come tecnica e verifica in corso d’opera. Con la profondità del personaggio e delle sue sfumature, infatti, Bogarde entra in un ruolo assegnato e, al tempo stesso, racconta angosciosamente il proprio: attore di mestiere nella storia (cos’è un maggiordomo, la cui regola di comportamento si fonda sulla disciplina, il controllo e l’intonazione?) e attore al servizio del regista, che lo stringe in un rinvio soffocante di contrari – l’esercizio di uno stile levigato e la volgarità. (Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Giochi al massacro: la trilogia inglese, in Emanuela Martini, a cura di, Joseph Losey, Il Castoro/Torino Film Festival, Milano; Torino 2012)


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Joseph Losey

King & Country Gran Bretagna, 1964, 89’, bn

Per il re e per la patria Belgio, 1917. Alla vigilia di un’imponente offensiva inglese contro le postazioni tedesche, il soldato semplice Hamp, volontario e da tre anni in prima linea, a seguito dello choc causatogli da un’esplosione, comincia a marciare verso casa. Arrestato per diserzione, è condotto davanti alla corte marziale. Le autorità militari hanno già deciso di farlo fucilare come esempio di disciplina ma, per dare una parvenza legale alla cosa, istruiscono un processo. Della sua difesa viene incaricato il capitano Hargreaves, il quale inizialmente affronta il compito di malavoglia, salvo poi capire che il giovane è in buona fede e fa di tutto per difenderlo con convinzione e competenza. Ma ciò, purtroppo, non basta. Il film mostra il rapporto personale tra l’ufficiale e il povero soldato semplice che ha disertato, e allo stesso tempo è anche una conversazione fra due classi, nel corso della quale l’ufficiale impara qualcosa dalla semplicità del giovane. Nel momento in cui gli tocca tirare il colpo di grazia, Hargreaves mette fine anche alla propria vita, oltre a quella di Hamp, dimostrando di essere incapace di fuggire dal suo sistema, esattamente come l’autore della pièce teatrale dalla quale il film è tratto (che non era uno scrittore, ma un avvocato difensore presso una corte militare, tormentato per tutta la vita dal fatto di non aver potuto difendere un imputato). […] La morte del giovane fa di lui un’anima persa. Credo che Dirk Bogarde abbia dato una prestazione incredibilmente generosa e, quantunque Tom Courtenay abbia ottenuto a Venezia il premio come miglior attore, avrebbero dovuto dividerlo; Tom, che è un buon attore, sarebbe il primo a riconoscere che senza la generosità di Dirk non avrebbe potuto sostenere il suo ruolo. (Joseph Losey in Michel Ciment, Le livre del Losey, Éditions Stock, Parigi 1979)

Regia Joseph Losey Soggetto James Lansdale Hodson, dal suo romanzo Return to the Wood, dalla commedia Hamp e dalla poesia Here Dead Lie We Because We Did Not Choose di A.E. Houseman Sceneggiatura Evan Jones Fotografia Denys N. Coop Montaggio Reginald Mills Scenografia Richard Macdonald Costumi Roy Ponting Musica Larry Alder Suono Buster Ambler, Gerry Hambling, John Cox Interpreti Dirk Bogarde (il capitano Hargreaves), Tom Courtenay (il soldato Hamp), Leo McKern (il capitano O’Sullivan), Barry Foster (il tenente Webb), Peter Copley (il colonnello) Produttori Joseph Losey, Norman Priggen Produzione BHE Films, Landau/Unger Distribuzione Warner-Pathé Distributors Filmografia essenziale [3] The Criminal (Giungla di cemento, 1960) Blind Date (L’inchiesta dell’ispettore Morgan, 1959) The Gypsy and the Gentleman (La zingara rossa, 1958) The Intimate Stranger (L’amante msteriosa, 1956) The Sleeping Tiger (La tigre nell’ombra, 1954) Imbarco a mezzanotte (Stranger on the Prowl, 1952)

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John Schlesinger

Darling Gran Bretagna, 1965, 128’, bn

Regia John Schlesinger Soggetto Frederic Raphael, John Schlesinger, Joseph Janni Sceneggiatura Frederic Raphael Fotografia Ken Higgins Montaggio James Clark Scenografia Ray Simm Costumi Julie Harris Musica John Dankworth Suono John Aldred, Peter Handford, Malcolm Cooke Interpreti Julie Christie (Diana Scott), Laurence Harvey (Miles Brand), Dirk Bogarde (Robert Gold), José Luis De Villalonga (il principe Cesare della Romita), Carlo Palmucci (Curzio della Romita), John Schlesinger (il direttore del teatro) Produttore Joseph Janni Produzione Joseph Janni Production, Vic Films Distribuzione Anglo-Amalgamated Film Distributors Filmografia The Next Best Thing (Sai che c’è di nuovo?, 2000) Marathon Man (Il maratoneta, 1976) Sunday Bloody Sunday (Domenica maledetta domenica, 1971) Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, 1969) Far from the Madding Crowd (Via dalla pazza folla, 1967) Billy Liar (Billy il bugiardo, 1963) A Kind of Loving (Una maniera d’amare, 1962)

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Darling Viziata e coccolata fin da piccola, Diana Scott ora è una modella sulla cresta dell’onda, sposata a un coetaneo che lei trova un monumento alla noia. Per questo, quando viene intervistata dal giornalista Robert Gold, scatta il colpo di fulmine. I due diventano amanti e, dopo breve tempo, lasciano i rispettivi partner per mettersi insieme. Ma il felice ménage non dura a lungo. Diana intreccia una relazione con Miles Brand, un pubblicitario che le procura una parte in un film; poi se ne va poi in Italia, dove si lascia corteggiare dal principe Cesare della Romita, che poi sposa. Di nuovo stanca, se ne torna a Londra da Robert; ma fra i due qualcosa s’è rotto. In qualche modo, Darling stigmatizza un’epoca, una società, un sistema di vita, e anticipa il clima, le atmosfere di Domenica, maledetta domenica: la protagonista è un’inquieta – restless, in inglese – un’irresponsabile come il Billy di Billy il bugiardo o come lo sarà Bob, lo scultore cinetico che abbandona tutti per andarsene in America. Anche qui, inoltre, si affronta – e per la prima volta nel cinema schlesingeriano – il tema dell’omosessualità (rintracciabile poi nelle future opere del regista) e, ancor più, del “triangolo” amoroso fra due uomini e una donna (che ritroveremo, appunto, maturato e sviluppato in Domenica, maledetta domenica). Anche qui, infine, qualcuno (sarà Robert) decide di partire per l’America. Sono solo sfumature, umori, sensazioni, ma la struttura di Schlesinger si va facendo sempre più compatta, decisa, cosciente di sé. Forse Diana è un personaggio datato, che non regge al tempo, ma da un certo punto di vista è proprio questa la sua forza: essere l’immagine dei suoi anni, di quella Londra, di quell’“inglesità”. (Claver Salizzato, John Schlesinger, La Nuova Italia, Firenze 1987)


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Jack Clayton

Our Mother’s House Gran Bretagna, 1967, 104’, col.

Tutte le sere alle nove Alla morte della madre, sette ragazzini di diversa età rimangono orfani. Intenzionati a non finire in orfanotrofio, la seppelliscono nel giardinetto dietro casa e continuano la routine quotidiana come se niente fosse. Elsa, la più grande, assume la direzione della casa, tutti trovano diverse scuse da snocciolare a vicini e insegnanti, uno dei ragazzi impara a falsificare la firma della madre sugli assegni e insieme, periodicamente, organizzano sedute per cercare di comunicare con lei. Uno dei ragazzi, però, ha l’idea di scrivere al lontano marito della defunta, un individuo ben poco raccomandabile che non di meno è il loro padre legale. L’arrivo dell’uomo nella casa fa precipitare le cose. L’uso dei bambini al cinema è rischioso, se non altro perché i piccoli mostri tendono a mangiarsi l’intera impresa: il plot, l’atmosfera, tutto. Sono così nauseantemente bravi e ben diretti che finché sono in scena nulla di grave può accadere loro, e nessun attore adulto può nulla contro i loro innocenti occhi azzurri (cosa che W.C. Fields deve aver ben capito il giorno che ha versato della Smirnoff nel succo d’arancia di Baby Leroy). A volte, tuttavia, un regista riesce a battere i piccoli prodigi, obbligandoli a una recitazione più discreta: allora succede il miracolo. […] In Tutte le sere alle nove le parti dei ragazzi sono sviluppate con molta credibilità, specialmente la maggiore (Maggie Brooks) e la seconda (Pamela Franklin). Ce n’è anche uno piccolo e riccioluto (Gustav Henry) che riesce a essere bravo senza strafare. Il loro padre (Dirk Bogarde) sembra un buon diavolo, e i bambini lo apprezzano finché non lo conoscono meglio. Una recitazione molto competente, quella di Bogarde; forse ha fatto di meglio, ma del resto il film è tutto dei ragazzi. (Roger Ebert, Reviews. “Our Mother’s House”, «The Chicago Sun Times», 13 novembre 1967)

Regia, Produttore Jack Clayton Soggetto dal romanzo di Julian Gloag Sceneggiatura Jeremy Brooks, Haya Harareet Fotografia Larry Pizer Montaggio Tom Priestley Scenografia Reece Pemberton Costumi Sue Yelland Musica Georges Delerue Suono Ken Ritchies, Terry Rawlings Interpreti Dirk Bogarde (Charlie Hook), Maggie Brooks (Elsa), Pamela Franklin (Diana), Louis Sheldon Williams (Hubert), John Gugolka (Dunstan), Mark Lester (Jiminee), Sarah Nicholls (Gerty), Gustav Henry (Willy), Parnum Wallace (Louis) Produzione Filmways, Heron Film Productions, Metro-Goldwyn-Mayer British Studios Distribuzione Metro-Goldwyn-Mayer

Filmografia Memento Mori (1992) Something Wicked This Way Comes (Qualcosa di sinistro sta per accadere, 1983) The Great Gatsby (Il grande Gatsby, 1974) Our Mother’s House (Tutte le sere alle nove, 1967) The Pumpkin Eater (Frenesia del piacere, 1964) The Innocents (Suspense, 1961) Room at the Top (La strada dei quartieri alti, 1959) Naples Is a Battlefiled (doc, 1944)

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Joseph Losey

Accident Gran Bretagna, 1967, 105’, col.

Regia Joseph Losey Soggetto dal romanzo di Nicholas Mosley Sceneggiatura Harold Pinter Fotografia Gerry Fisher Montaggio Reginald Beck Scenografia Carmen Dillon Costumi Beatrice Dawson Musica John Dankworth Suono Gerry Humphreys, Simon Kaye Interpreti Dirk Bogarde (Stephen), Stanley Baker (Charley), Jacqueline Sassard (Anna), Michael York (William), Vivien Merchant (Rosalind), Delphine Seyrig (Francesca), Alexander Knox (il rettore), Ann Firbank (Laura), Harold Pinter (Bell), Nicholas Mosley (un professore) Produttori Joseph Losey, Norman Priggen Produzione Royal Avenue Chelsea Distribuzione London Independent Producers

Filmografia essenziale [4] The Big Night (La grande notte, 1951) The Prowler (Sciacalli nell’ombra, 1951) M (id., 1951) The Lawless (Linciaggio, 1950) The Boy with Green Hair (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948) Leben des Galilei (short, 1947) A Gun in His Hand (short, 1945) Youth Gets a Break (short, 1941) A Child Went Forth (short, 1941) Pete Roleum and His Cousins (short, 1939)

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L’incidente Una casa, di notte, nei dintorni di Oxford. Nelle vicinanze, una Bentley esce di strada, ribaltandosi. Stephen, che abita nella casa, si precipita sul luogo dell’incidente e presta soccorso alla ragazza al posto di guida; per l’altro passeggero non c’è più niente da fare. L’incidente è l’epilogo di alcuni fatti occorsi nelle settimane precedenti. Stephen, professore di filosofia sposato con figli, si innamora di Anna, una studentessa austriaca. Il suo sentimento diventa livore quando viene a sapere che Anna è l’amante del suo collega Charley. Anna intende sposare William, un allievo di Stephen. La situazione precipita; poi, dopo l’incidente, tutto all’apparenza sembra tornare alla normalità. Rispetto a Il servo, L’incidente perfeziona, se possibile, il meccanismo drammaturgico: dove quello agiva corrosivamente sulla forza dei contrasti per giungere a un chiarificatore e tuttavia futile rovesciamento dei ruoli (cioè alla scoperta delle essenziali dinamiche di potere), questo si affida a una scrittura ancor più fredda e a più calibrate mimesi. La fenomenologia psicologica e sociale che distingue i personaggi e sancisce il peso di ciascuno nello svolgersi dei rapporti, ossia le “eventualità” concrete o potenziali della sopraffazione, agisce sulla superficie piatta, proprio come nella mirabile sequenza della gita in barca: ogni personaggio tende alla difesa di sé ed è pronto ad attaccare, si aggrappa al proprio ruolo per calcolare le possibilità di conquista e dominio. Una convulsione plurima ma fatalmente vigilata dalle regole di un sistema per cui tutto si muove e niente deve cambiare. (Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Giochi al massacro: la trilogia inglese, in Emanuela Martini, a cura di, Joseph Losey, Il Castoro/Torino Film Festival, Milano; Torino 2012)


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Luchino Visconti

Götterdämmerung Italia • Germania, 1969, 160’, col.

La caduta degli dei Germania, primi anni Trenta. Il giorno del suo compleanno Joachim Essenbeck, magnate dell’acciaio, annuncia alla famiglia riunita la sua intenzione di togliere la direzione delle acciaierie al figlio Herbert, di idee democratiche, in favore dell’altro figlio Kostantin, filonazista e iscritto alle SA. Aschenbach, loro cugino e ufficiale delle SS, si allea con Friedrich, direttore delle acciaierie. Quest’ultimo, che è anche amante di Sophie, vedova di un altro figlio di Joachim e madre del dissoluto Martin, uccide il vecchio patriarca, facendo cadere la colpa del delitto su Herbert, che è costretto a riparare all’estero. È l’inizio di una serie di eventi che porteranno alla rovina della famiglia. La caduta degli dei di Luchino Visconti è forse il capolavoro del grande regista italiano: uno spettacolo dalle passioni così rapaci, dalle sensazioni così scatenate e dall’impatto così osceno che vi fa realizzare quanto siano piccoli, consolatori e ordinari quasi tutti gli altri film. L’esperienza della sua visione è come farsi una sniffata di ammoniaca, che non è il massimo del piacere, ma vi permette di focalizzare tutto quanto sta attorno a voi con un pizzico di nitidezza In più. Il film si apre come I Buddenbrook, ma si sposta ben presto dalle parti di Amleto, Macbeth, la leggenda dei Nibelunghi e la storia più recente, declinando il tutto secondo l’amore di Visconti per le grandi pennellate cinematografiche. […] Se, con tutti suoi personaggi, il film ha un protagonista, suppongo possa essere Dirk Bogarde che, dopo aver assassinato il vecchio barone nel suo letto, si trova alla fine distrutto da una bizzarra serie di eventi dalle classiche conseguenze. La caduta degli dei è un film di grande perversione, così intransigente che sarebbe piaciuto a Von Stroheim. (Vincent Canby, Movie Review: “The Damned”, «The New York Times», 19 dicembre 1969)

Regia Luchino Visconti Soggetto, Sceneggiatura Nicola Badalucco, Enrico Medioli, Luchino Visconti Fotografia Pasqualino De Santis, Armando Nannuzzi Montaggio Ruggero Mastroianni Scenografia Vincenzo Del Prato Costumi Piero Tosi Musica Maurice Jarre Suono Vittorio Trentino Interpreti Dirk Bogarde (Frederich Bruckmann), Ingrid Thulin (la baronessa Sophie von Essenbeck), Helmut Griem (Aschenbach), Helmut Berger (Martin von Essenbeck), Renaud Verley (Günther von Essenbeck), Umberto Orsini (Herbert Thallman), Florinda Bolkan (Olga) Produttori Jever Haggag, Alfred Levy Produzione Italnoleggio Cinematografico, Praesidens, Pegaso Cinematografica, Eichberg-Film Distribuzione Italnoleggio Cinematografico (Italia), Warner Bros.-Seven Arts (Germania) Filmografia essenziale L’innocente (1976) Morte a Venezia (1971) Vaghe stelle dell’Orsa… (1965) Il gattopardo (1963) Rocco e i suoi fratelli (1960) Le notti bianche (1957) Senso (1954) La terra trema (1948) Ossessione (1943)

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Alain Resnais

Providence Francia • Svizzera • Gran Bretagna, 1977, 110’, col.

Regia Alain Resnais Soggetto, Sceneggiatura David Mercer Fotografia Ricardo Aronovich Montaggio Albert Jurgenson Scenografia Jacques Saulnier Costumi Catherine Leterrier Musica Miklós Rózsa Suono René Magnol, Jacques Maumont, Claude Plouganou Interpreti Dirk Bogarde (Claude Langham), Ellen Burstyn (Sonia Langham), John Gielgud (Clive Langham), David Warner (Kevin Langham/Kevin Woodford), Elaine Stritch (Helen Wiener), Cyril Luckham (il dottor Mark Eddington) Produttori Yves Gasser, Klaus Hellwig, Yves Peyrot Produzione Action Films/Sociétè Française de Production, France 3 Paris, Citel Films Genève Distribuzione G.E.F. (Francia)

Filmografia Vous n’avez encore rien vu (2012) Les herbes folles (Gli amori folli, 2009) Smoking/No Smoking (id., 1993) Mélo (id., 1986) Mon oncle d’Amérique (Mio zio d’America, 1980) Providence (id., 1977) Stavisky (Stavisky, il grande truffatore, 1974) Muriel (Muriel, il tempo di un ritorno, 1963) L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1961) Hiroshima mon amour (id., 1959)

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Providence Clive Langham, anziano scrittore tormentato dai ricordi e dall’inesorabile passare del tempo, vive una notte sospesa fra realtà e immaginazione nella quale, con la compagnia delle bottiglie di vino che si scola una dietro l’altra, ordina le persone che hanno popolato il suo passato in una sorta di romanzo. Ricorda la moglie suicida, il figlio Claude avvocato di successo, la nuora Sonia, l’altro figlio Kevin. Più che le persone reali, i veri protagonisti di questo suo “romanzo” sono le sue ossessioni, i suoi sensi di colpa. L’indomani, i figli e la nuora giungono a casa sua per festeggiarne il compleanno. Vedendoli nella loro reale natura, Clive ha modo di rincuorarsi. Providence è qui, in questa visuale piuttosto incerta, ma non priva di una sua nobiltà. Non è una fatica che ti atterra con la sua originalità, non è Resnais al suo meglio, nonostante gli entusiasmi spampanati di alcuni critici (ma forse sono al meglio Dirk Bogarde e la musica di Miklós Rózsa) e c’è indubbiamente del manierismo (men che meno mi persuadono, personalmente, le squisitezze ormai un po’ inflazionate come la definizione, da parte di Resnais, dei suoi interpreti come componenti di un quintetto schubertiano, dove Dirk Bogarde sarebbe il piano, Ellen Burstyn il violino, John Gielgud il violoncello, David Warner l’alto e Elaine Stritch il basso). Ma ancora una volta il regista francese sa «avvicinarsi alla complessità del pensiero, al suo meccanismo» (com’egli stesso si era espresso a suo tempo a proposito di Marienbad) e, in un’epoca di cinema rozzo e tagliato con l’accetta, è sempre un sollievo imbattersi in un esercizio di intelligenza. (Ermanno Comuzio, Scheda “Providence”, «Cineforum» n. 165/166, maggiogiugno 1977)


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Rainer Werner Fassbinder

Despair Germania • Francia, 1978, 119’, col.

Despair In piena crisi economica, e con l’ascesa del nazismo alle porte, Hermann Hermann vive la sua grottesca parabola. Direttore di una fabbrica di cioccolato, sposato con la tenera ma sciocca Lydia, sta imboccando una sorta di crisi di mezz’età. Il lavoro non lo gratifica più, la vita di coppia gli sembra insulsa, una strana angoscia s’impadronisce di lui. Per uscire da questo vicolo cieco, Hermann crede di aver trovato l’idea giusta: scova un uomo, Felix Weber, che gli pare a lui somigliantissimo, lo veste con i suoi abiti e lo uccide, assumendone poi ‘identità. Inscenata così la sua stessa morte, crede di avere davanti a sé l’opportunità di una nuova vita. Ma non è così semplice… Nella prefazione all’edizione riveduta del 1965, Vladimir Nabokov descrisse il titolo originale russo Otchayanie come un «ululato più sonoro» rispetto alla sua traduzione in inglese. Eppure, Despair a noi sembra efficace, come titolo sia del libro che del film di Fassbinder: un’opera elegante, umoristica, preziosa, grazie anche alla lunatica sceneggiatura di Tom Stoppard e alla recitazione di Dirk Bogarde in uno dei suoi migliori lavori. […] I movimenti barocchi della macchina da presa di Fassbinder traducono in termini visivi la comica agitazione del narratore in prima persona nabokoviano. I gesti eleganti di Bogarde, mescolati a espressioni di sempre consapevole allarme o concupiscenza, illuminano magnificamente l’archetipico eroe del romanzo; Andréa Ferréol è bovina e volgare e allo stesso tempo tenera; Volker Spengler rende bene quello che è una montagna di mediocrità senza speranza. La sceneggiatura di Stoppard, efficace nel trasporre l’originale letterario, è una gioia per chiunque ami la lingua inglese. (Vincent Canby, Movie Review: “Despair”, «The New York Times», 18 febbraio 1979)

Regia Rainer Werner Fassbinder Soggetto dal romanzo Otchayaniye di Vladimir Nabokov Sceneggiatura Tom Stoppard Fotografia Michael Ballhaus Montaggio Juliane Lorenz, Franz Walsch [Rainer Werner Fassbinder] Scenografia Rolf Zehetbauer Costumi Dagmar Schauberger Musica Peer Raben Suono James Willis, Milan Bor Interpreti Dirk Bogarde (Hermann Hermann), Andréa Ferréol (Lydia), Klaus Löwitsch (Felix), Volker Spengler (Ardalion), Armin Meier (Silverman/il sergente Brown/il caposquadra) Produttore Peter Märthesheimer Produzione Bavaria Atelier, Bavaria Film, Filmverlag der Autoren, NF Geria Filmgesellshaft GmbH, Socété Française de Production Distribuzione Filmverlag der Autoren (Germania) Filmografia essenziale Querelle (Querelle de Brest, 1982) Veronika Voss (id., 1982) Berlin Alexanderplatz (id., tv, 1980) Fontane Effi Briest (Fontane Effi Briest, 1974) Angst essen Seele auf (La paura mangia l’anima, 1974) Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant, 1972) Warnung vor einer heilingen Nutte (Attenzione alla puttana santa, 1971) Liebe ist kälter als der Tod (L’amore è più freddo della morte, 1969)

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Quelle brave ragazze! Angelo Signorelli

Si potrebbe prendere il film di Bogdanovich Ma papà ti manda sola? (What’s Up, Doc?, 1972) come un saggio, un trattato sullo screwball, da cui attinge a piene mani; un piccolo trattato “scritto” con intelligenza e competenza da parte di uno che vuole rendere omaggio a un genere che ha le sue radici nel cinema delle origini e insieme usarne gli ingredienti per approntare un meccanismo di sicuro attualizzato, ma nondimeno efficace, secondo copione, nella costruzione di un esilarante effetto comico. Il film è del 1972, realizzato quindi nel pieno periodo della dissoluzione dei generi e della produzione di un cinema che non punta più sull’evasione consolatoria, almeno nel significato classico del termine. È il cinema, tanto per restare in tema Bogdanovich, di L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971), di un anno precedente, che mette in scena, in due ore di film, la chiusura definitiva con il passato, con il cinema classico, perché è finita l’epoca degli studios, delle feste e dei balli luccicanti, dei fondali dipinti, dei trasparenti un po’ sfuocati, dei contrasti troppo manichei, dei mélo pastellati, degli eroi che elargiscono sogni. Ma se in quest’ultimo lavoro scorre anche tanta nostalgia, in Ma papà ti manda sola? c’è il gusto di costruire una commedia a tutti gli effetti, esilarante e paradossale, turbolenta e amabilmente spietata, rumorosa e catastrofica. Il modello di riferimento – ma sarebbe meglio dire il giacimento petrolifero –, come altri commentatori hanno fatto notare, è Susanna (Bringing Up Baby, 1938) di Howard Hawks, una delle screwball comedy più riuscite del cinema hollywoodiano classico: una carambola di situazioni spassose, un’opera che pesca nella tradizione della commedia antica e negli “sfaceli” del cinema muto. Le citazioni dal film di Hawks sono molteplici: la giacca strappata, la presenza dell’elemento archeologico/preistorico (la clavicola intercostale del brontosauro e la pietra sonora), l’esistenza del mecenate che dovrebbe finanziare la parte più scientifica della vicenda, la fidanzata bambinaia rigida e bacchettona. Ma è soprattutto la struttura del racconto che permette a Bogdanovich di rimanere nel solco della tradizione e allo stesso tempo di costruire un meccanismo infallibile nel rendere l’effetto comico, che si basa essenzialmente su un ritmo che non conosce momenti morti e su dialoghi tanto serrati quanto perfetti nel generare equivoci e nell’accumulare provocazioni. Una volta che il congegno è avviato, non c’è nulla che lo può fermare, come quei giocattoli di una volta caricati a molla che erano in grado di aggirare gli ostacoli sul loro cammino. L’inizio è sempre lo scontro di genere, uomo versus donna: due mondi diversissimi, per indole e modo d’agire. In ogni caso, dopo che l’incontro è avvenuto, i due rimangono indivisibili, nonostante che tutto, uomini e cose, cerchi di separarli e di ricostituire l’ordine iniziale. Questo dispositivo c’è già nel film che si può considerare uno dei capostipiti del genere, Accadde una notte (It Happened One Night, 1934), di Frank Capra, dove però è la donna – una nevrotica e impertinente Claudette Colbert – ad avere già un legame sentimentale, che la costringe alla fuga per evitare le resistenze del padre, peraltro amatissimo, anche se l’uscita dal mondo protetto degli agi e delle frivolezze la porterà a misurarsi con sentimenti e attrazioni più profondi. Nelle commedie, un elemento spesso presente è l’irruenza femminile, che a volte si mischia con il capriccio, a volte con la spregiudicatezza, a volte con un pizzico di follia. Di contro, c’è la componente maschile, che si esprime in soggetti goffi e impacciati, strampalati e fuori dal mondo, assopiti e dominati. Non è un caso che alcuni di loro rivestono i panni dello scienziato o del ricercatore un po’ rimbambiti, immersi nelle loro manie e accuditi da fidanzate materne e poco attraenti. Il dottor Bannister, interpretato da Ryan O’Neal in Ma papà ti manda sola? è evidentemente la reincarnazione del dottor Huxley (Cary Grant) in Susanna, con quell’aria sempre assente, bisognoso di essere 148


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La ragazza della Quinta Strada

riportato continuamente alla realtà, trascinato in un vortice affettivo di cui fa fatica a capire anche i segnali più macroscopici. Qualche somiglianza, in termini di ottusità, ce l’ha pure l’erpetologo Pike di Lady Eva (The Lady Eve, 1941); nel film di Preston Sturges, il personaggio di Henry Fonda, un figlio di papà ricco da far paura, capace di attrarre le ragazze come mosche, con la passione per i serpentelli, si lascia prima accalappiare e poi ammagliare da un’avventuriera scaltra e senza scrupoli, impersonata da una Barbara Stanwyck irrefrenabile e ambiguamente seduttiva, che, come faceva giustamente notare l’indimenticabile Franco La Polla, porta nella commedia alcuni tratti tipici della dark lady. Una situazione simile c’è anche in Colpo di fulmine (Ball of Fire, 1941), dello stesso Hawks, dove sempre la Stanwyck, nei panni della pupa di un gangster, rapisce le attenzioni del professor Potts (Gary Cooper), impegnato, con altri sette vecchietti diventati repentinamente arzilli per l’arrivo della dissoluta fanciulla, alla stesura di una ponderosa enciclopedia. Non va dimenticato che la sceneggiatura di questo film porta la firma di due campioni della commedia, Charles Brackett e Billy Wilder, abili nel giocare con il risveglio sessuale e le imprese dell’allegra brigata. Le protagoniste femminili, sovente, sono gettate, un po’ per caso un po’ per necessità, in un mondo a loro estraneo, dove creano scompiglio, dove mal si adattano alle regole della società, ma dove, alla fine, riescono a scombussolare e a ribaltare le situazioni date, anche quando non sono loro a invadere territori stranieri, ma in qualche modo ne sono tirate dentro. In La ragazza della Quinta Strada (5th Avenue Girl, 1939), di Gregory La Cava, una Ginger Rogers giovane e attraente recita il ruolo di una ragazza usata da un ricco personaggio per provocare una piccola, ma nei suoi intenti salutare, rivoluzione in famiglia, mentre in Nulla sul serio (Nothing Sacred, 1937), di William A. Wellman, Hazel Flagg, interpretata da Carole Lombard, si trova imbrigliata in uno sporco affare giornalistico, furbescamente condotto da un ambizioso giornalista (Fredric March). In 149


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Colpo di fulmine

entrambi i film, le donne troveranno una onorevole sistemazione, nell’alveo di quel flusso narrativo in cui era d’obbligo condurre il racconto verso il lieto fine della favola, cioè il matrimonio, che in ogni caso non è un atto riparatore; piuttosto, la conclusione che sancisce l’amore, ma non cancella il tortuoso e affannoso cammino per arrivarci. Un percorso a ostacoli, a volte disseminato di equivoci, come capita alla giovane donna in I milioni della manicure (Hands Across the Table, 1935) di Mitchell Leisen, che ha ancora il volto della Lombard: tenace e cocciuta oltre ogni limite, cerca l’uomo ricco da sposare e crede di trovarlo in un bel giovanotto (Fred MacMurray) che, però, non ha il becco di un quattrino. Gli uomini intercettati dai personaggi femminili sono, a volte, fidanzati, destinati a una tranquilla e monotona esistenza borghese; alcuni di loro sono degli squattrinati, che vivono di espedienti. Tutti, sembrano non coltivare particolari aspettative riguardo al futuro, se non quella di continuare a fare quello che hanno sempre fatto. Shep (James Stewart), che sta per sposarsi con Merle in Una strega in paradiso (Bell, Book and Candle, 1958) di Richard Quine, è preso tra le maglie della rete gettatagli addosso da Gil, un’incantevole Kim Novak dai poteri magici, ma che ha un “piccolo” problema di natura sentimentale. Il ricordo non può non andare al film di René Clair, Ho sposato una strega (I Married a Witch, 1942), con una stuzzicante e irresistibile Veronica Lake, presentato in occasione dell’edizione 2008 di Bergamo Film Meeting, nella retrospettiva dedicata al grande regista francese. Amore e denaro, sentimento ed economia: combinazioni che innervano l’intreccio delle commedie, che definiscono le vicende e i caratteri dei personaggi. La protagonista di Accadde una notte è molto ricca e capricciosa; in fuga dal padre che non vede di buon occhio il futuro genero, è trascinata nella polvere di strade che non è solita frequentare, dentro stanze modeste poco consone al suo stato sociale, dove deve subire la compagnia di uno squattrinato dai toni bruschi e alquanto sbrigativi. Questo tuffo nella “povertà” la costringe a misurarsi con la propria arroganza e la propria fragilità. In Lady Eva, un baro di lungo corso e la figlia Jean cercano di circuire il giovane milionario dall’aria ingenua, ma 150


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la ragazza si trova a fare i conti con i propri sentimenti, un ingombro poco adeguato alla filosofia di famiglia. Nel curioso La ragazza della Quinta Strada, il confronto tra le classi è in primo piano, sottolineato sul piano spaziale dalla separazione tra la cucina, dove lavora e discute la servitù, e gli appartamenti nobili, dove dominano il lusso, lo spreco e la messa in scena sociale. Basterebbe citare questo scambio di battute tra il padrone e l’autista Mirko: «C’è nell’aria un po’ d’aprile. Vero, Mirko?» - «Sì. Qualcosa che anche i poveri possono godere»; la sceneggiatura contiene considerazioni marxiane, anche se poi le differenze di rango non impediscono l’attrazione tra uomini e donne. In Nulla sul serio per fare soldi non si guarda in faccia a nessuno, ma niente riesce a fermare la macchina dell’innamoramento, che piega a propri fini scelte “riprovevoli” come la menzogna e la finzione fatta passare per verità. Cosa dire, poi, della fissazione della protagonista di I milioni della manicure, che, decisa a circuire l’uomo ricco, fraintende la realtà che le sta davanti? Il sogno si trasforma in farsa, il desiderio in un’inutile quanto ridicola pantomima. La dark lady di Colpo di fulmine sarà in grado di rinunciare a una vita di godimenti, di sperpero, di lustrini, tra night club e traffici illegali ma remunerativi, per sistemarsi nelle sicurezze e nei risparmi di una tranquilla esistenza borghese? La Gil di Una strega in paradiso è la sola che non è economicamente determinata; mentre sta perdendo i suoi poteri, vive in un mondo che la fa sentire terribilmente sola e, quando cerca di venirne fuori, si tira la zappa sui piedi: diventare umani significa salire sulla giostra della passione amorosa, un investimento poco remunerativo e generatore di grandi complicazioni. La Susan di Susanna, impersonata da una Katharine Hepburn instancabile e completamente in aria, è parte di quella aristocrazia borghese che garantisce ai suoi figli una vita spensierata e piena di agi; il denaro, loro, non hanno bisogno neppure di toccarlo, trovano sempre la tavola apparecchiata, condividono con i famigliari una certa dose di eccentricità e fanno terra bruciata attorno a sé semplicemente assecondando i propri impulsi. Sta di fatto che con gente povera è arduo fare le commedie. Nulla sarebbe credibile; la guerra tra i sessi ha bisogno di sfarzo, di rendite sicure e non trascurabili, di un tempo non regolato dagli impegni della gente “normale”, di dissipazione, di spensieratezza, di capricci, di fughe senza il rischio di rimetterci il posto, insomma di quella libertà d’azione che appartiene alle classi agiate e che lo spettatore può vivere come un sogno ad occhi aperti. Judy, l’audace e scatenata furia di Ma papà ti manda sola?, a cui dà corpo una carnale e incontenibile Barbra Streisand, è un po’ l’erede di tanti personaggi femminili che hanno animato e agitato l’età dell’oro di questo genere, che matura con rapidità dopo l’avvento del cinema sonoro, fino a raggiungere in breve livelli di rara perfezione nel lavoro di sceneggiatura e di messa in scena. Certo, i tempi sono cambiati, la morale si è alquanto sfilacciata, i gusti del pubblico sono diversi: Bogdanovich gioca la carta della classicità, ma la cala su un tavolo dove si mischiano lo spionaggio, il furto di gioielli, lo screwball, l’inseguimento a più veicoli, la truffa, lo smascheramento, la sorpresa finale, la presa in giro della tradizione mélo. In più, ci sono quattro valige assolutamente identiche che a conclusione della vicenda, insieme a tutti i protagonisti, finiranno nello stesso posto, davanti a un giudice acciaccato e poco amante dell’umanità, che vorrebbe, tutta, torturata e in galera. Judy non vuole che Howard sposi Eunice e ne invade tutti i campi d’azione possibili, pur di demolire – la demolizione, di sicurezze oggetti ambienti, è il leitmotiv del film – la sua rispettabilità di promesso sposo. L’innocenza di tutte queste eroine – tutte brave ragazze, in fondo – sta nel fatto o che riescono a impedire che avvengano matrimoni sbagliati o che risvegliano l’antagonista da un torpore tanto fisico quanto mentale; è inevitabile che il maschio, provocato dalle loro invadenze e dalle loro insistenze, finisca per produrre atteggiamenti che smantellano la maschera di perbenismo e di onorabilità che, fino a prima dell’incontro, li inchiodavano al rispetto forzato dei riti e delle convenienze sociali. Perché si può affermare che Bogdanovich, come si diceva all’inizio, fa un film-saggio? Perché la storia man mano perde ogni tratto realistico, ma regge alla prova dei fatti dell’impianto narrativo; perché la citazione, i riferimenti continui al genere, sono parte della messa in scena e, soprattutto, 151


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Susanna

costituiscono il filtro che dà coerenza al racconto; perché la regia gioca a carte scoperte, padroneggiando gli intrecci e le risorse narrative, che organizza e monta con arguzia e secondo lo schema classico dell’anticipazione e dell’incastro; perché lo spettatore è tenuto sotto sforzo, condotto da un ritmo che non concede respiro; perché, alla fine, tutti gli elementi si collocano nel posto a loro “destinato” per dare origine a nuovi equilibri o per rinnovare movimenti che continuano fuori campo, in un tempo che non appartiene più alla storia vista; perché il film si chiude con il sarcasmo che marca la consapevolezza e strizza l’occhio all’intelligenza dello spettatore. Altra domanda: «Perché», nella sezione che intitoliamo come la versione italiana del film di Bogdanovich, abbiamo messo Mica scema la ragazza! (Une belle fille comme moi, 1972) di François Truffaut? Lo confessiamo: non ci eravamo ricordati che quest’anno ricorrono i trenta anni dalla morte del compianto regista francese. Siamo alquanto restii agli anniversari, preferendo la frequentazione di autori e film per motivi legati a scelte culturali nella elaborazione delle proposte. Tornando al film di Truffaut, c’è qualcosa che unisce il personaggio di Camille, interpretato da un’impetuosa, intemperante e sfacciatamente sensuale Bernadette Lafont, alle figure femminili delle commedie che abbiamo passato in rassegna, come c’è qualcosa nel modo di rappresentare di François Truffaut, che ricorda le screwball, miscelato, come spesso capita nel suo cinema, con torbidi complotti che ricordano l’amato Hitchcock. In Mica scema la ragazza! si assiste a una carrellata di personaggi maschili, dal sociologo che intende scrivere un saggio sulla criminalità femminile al derattizzatore bigotto, uniti da una comune predisposizione a essere circuiti e usati come strumenti dall’incontenibile e spietata Camille, che riuscirà a mettere le mani su un bel gruzzolo di quattrini facendo girare il mondo a suo favore e sacrificando senza pietà i suoi amanti. Anche qui, quindi, ci imbattiamo in una versione dark del personaggio. Camille se li mangia tutti, gli uomini che trova sulla sua strada, rivelando uno spirito imprenditoriale fuori del comune: come dire che i tempi dei grandi amori romantici, dei sogni avverabili – quelli delle favole e di tante canzoni –, degli occhi umidi, delle magie e delle seduzioni, degli sguardi innamorati, sono finiti per sempre. 152


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Frank Capra

It Happened One Night USA, 1934, 108’, bn

Accadde una notte Miami. La giovane e ricca Ellie Andrews ha un temperamento sufficientemente caparbio e viziato da scappare di casa per raggiungere a New York il suo innamorato, nonostante il divieto di suo padre, ma non abbastanza viziato dal disdegnare come mezzo di trasporto un popolare pullman della Greyhound. Anche perché la ragazza sa che, su tale mezzo, agli uomini inviati da suo padre per riportarla a casa non verrà mai in mente di andarla a cercare. Il viaggio, in effetti, è abbastanza scomodo, e gli imprevisti non mancano. Ma fra i compagni di viaggio c’è un tal giornalista di nome Peter Warne, con il quale la ragazza comincia un po’ per volta a entrare in confidenza. L’equilibrio di ritmo è valorizzato dalla preoccupazione costante da parte di Capra per il realismo: che si trova, evidente, nel suo rifiuto di utilizzare la musica là dove il più comune dei mortali hollywoodiani l’avrebbe impiegata (quando Claudette Colbert confessa il suo amore a Clark Gable), nella funzionale semplicità dei movimenti di macchina, nel découpage (la precisione dei raccordi nell’asse resa possibile dall’utilizzo di due macchine da presa), nell’evidente libertà d’azione lasciata agli interpreti e nell’improvvisazione attorno a certi dettagli (come nella scena dell’attraversamento del fiume, aggiunta da Capra per approfittare di un riflesso del sole sull’acqua, o come in quella dell’autostop, scritta la sera prima delle riprese). Questa naturalezza è costante (si veda pure la qualità dei personaggi di contorno) ma non sistematica, in modo da risparmiare al film la monotonia. (Michel Cieutat, Frank Capra, Editions Payot & Rivages, Parigi 1994)

Regia, Produttore Frank Capra Soggetto dal racconto di Samuel Hopkins Adams Sceneggiatura Robert Riskin Fotografia Joseph Walker Montaggio Gene Havlick Scenografia Stephen Goosson Costumi Robert Kalloch Musica Howard Jackson Suono Edward Bernds Interpreti Clark Gable (Peter Warne), Claudette Colbert (Ellie Andrews), Walter Connolly (Alexander Andrews), Roscoe Karns (Oscar Shapeley), Jameson Thomas (King Westley), Alan Hale (Danker), Charles C. Wilson (Gordon), Ward Bond (l’autista d’autobus) Produzione Columbia Production, Frank Capra Production Distribuzione Columbia Pictures Filmografia essenziale Pocketful of Miracles (Angeli con la pistola, 1961) It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946) Arsenic and Old Lace (Arsenico e vecchi merletti, 1944) Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941) You Can’t Take It with You Lost Horizon (Orizzonte perduto, 1937) It Happend One Night (Accadde una notte, 1934) Platinum Blonde (La donna di platino, 1931) The Strong Man (La grande sparata, 1926)

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Mitchell Leisen

Hands Across the Table USA, 1935, 80’, bn

Regia Mitchell Leisen Soggetto dal racconto di Viña Delmar Sceneggiatura Norman Krasna, Vincent Lawrence, Herbert Fields [non accr., Alan Campbell, Jack Kirkland, Dorothy Parker, Frank Partos] Fotografia Ted Tetzlaff Montaggio William Shea Scenografia Roland Anderson, Hans Dreier Costumi Travis Banton Musica Friederich Hollaender, John Leipold, Heinz Roemheld Suono Harry Lindgren, Walter Oberst Interpreti Carole Lombard (Regi Allen), Fred McMurray (Theodore Drew III), Ralph Bellamy (Allen Macklyn), Astrid Allwyn (Vivian Snowden), Ruth Donnelly (Laura), Marie Prevost (Nona), William Demarest (Natty), Marcelle Corday (Celeste), Whitey the Cat (il gatto) Produttore E. Lloyd Sheldon Produzione, Distribuzione Paramount Pictures

Filmografia essenziale The Girl Most Likely (Siete tutte adorabili, 1958) Captain Carey, U.S.A. (La spia del lago, 1950) Golden Earrings (Amore di zingara, 1947) Hold Back the Dawn (La porta d’oro, 1941) Arise, My Love (Arrivederci in Francia, 1940) Midnight (La signora di mezzanotte, 1939) Cradle Song (Il canto della culla, 1933)

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I milioni della manicure Regi Allen ha alle spalle una famiglia di scarsi mezzi ma nutre tanta ambizione. Impiegata come manicure presso un hotel di lusso, da qualche tempo si sta guardando attorno alla ricerca di un danaroso partito da accalappiare. Theodore Drew III si sta guardando attorno per il medesimo motivo, ma la sua storia è diversa: famiglia un tempo danarosa, crollo del mercato azionario, necessità di un ricco matrimonio di salvataggio. Lei da qualche tempo è in confidenza con Allen Macklyn, un ex aviatore paraplegico con il quale tuttavia non è andata oltre una solida amicizia; lui ha messo gli occhi su Vivian Snowden, figlia di un magnate dell’ananas. Il destino provvede a farli incontrare. Donne che s’accontentano e donne che combattono; e, soprattutto, donne da uomo e donne che gli uomini li usano, e magari un po’ li maltrattano. Con amore, però. La prima “vera” donna della filmografia di Leisen a muoversi lungo queste due sponde è la Regi Allen di I milioni della manicure. Donna nuova post Depressione in cerca di tutto in uno, è la prima collaborazione tra Leisen e Carole Lombard. […] La Lombard dà forma a un personaggio complesso e tormentato, semplificato dalla commedia e appesantito dal mélo: per la prima volta in I milioni della manicure Leisen esplora il rovesciamento dei ruoli sessuali, staccandosi dall’uso hollywoodiano proprio grazie a un elaborato mélange passionale. Una manciata di gag esilaranti, il lusso déco e la logica del riscatto fanno di I milioni della manicure una specie di prototipo: Regi Allen, umili origini e umile impiego, anticipa le centinaia di impiegatucce determinate, in cerca di soldi e amore, che negli anni successivi faranno girare la vita e la testa di uomini generalmente meno furbi e resistenti. (Luca Malavasi, Book Leisen: Le donne di Leisen, «Cineforum» n. 490, dicembre 2009)


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William A. Wellman

Nothing Sacred USA, 1937, 75’, col.

Nulla sul serio Reduce da un clamoroso “granchio” – ha imposto alla notorietà cittadina un ricchissimo maharaja che poi si è rivelato un truffatore – il giornalista newyorkese Wally Cook ha bisogno di un nuovo caso che possa farlo risalire nella stima del suo direttore. A Warsaw, Vermont, risiede Hazel Flagg, una giovane donna affetta da una grave malattia che le lascia poco tempo da vivere. C’è di che montare un lacrimevole caso. Detto e fatto, Wally la porta a New York, facendone in brevissimo tempo una beniamina dell’opinione pubblica. La bella notizia (ma anche il guaio) è che, come si scopre, il referto medico che l’aveva condannata è errato. Ora si tratta di salvare la situazione. Spinto dal finanziere John Hay “Jock” Whitney, che si era innamorato della commedia screwball L’impareggiabile Godfrey, il leggendario produttore David O. Selznick ingaggiò Ben Hecht, il quale scrisse la maggior parte di Nulla sul serio in quattro giorni, mentre viaggiava in treno da New York a Los Angeles. Quest’esigenza di velocità è evidente nella frenetica frivolezza del film: pur mancando dell’eleganza tonale e strutturale delle più famose screwball degli anni Trenta, Nulla sul serio è un’opera deliziosamente ruvida che si impone per il suo animato cinismo e l’assenza di ogni falso moralismo. […] Sotto molti aspetti, Nulla sul serio è una curiosa anomalia nel mondo dello screwball. Filmato in Technicolor (dietro richiesta di Whitney), sostituisce la composizione tecnicamente accurata di Hawks o Lubitsch con una qualità apparentemente più rozza, che passa drasticamente da piani più elaborati all’intimità più ristretta. Sicuramente, uno dei pochi film americani dell’epoca a fare uso sia dello slapstick esplicito che del realismo poetico. (Craig Williams, BFI Screwball! Season. “Nothing Sacred”, www.cine-vue.com)

Regia William A. Wellman Soggetto dal racconto di James H. Street Sceneggiatura Ben Hecht, Budd Shculberg [non accr.] Fotografia W. Howard Greene Montaggio James E. Newcom Scenografia Lyle R. Wheeler Costumi Walter Plunkett Musica Oscar Levant Suono Fred J. Lau Interpreti Carole Lombard (Hazel Flagg), Frederic March (Wally Cook), Charles Winninger (il dottor Enoch Downer), Walter Connolly (Oliver Stone), Sig Ruman (il dottor Emil Eggelhoffer), Frank Fay (il maestro di cerimonie), Max “Slapsie Maxie” Rosenbloom (Mac Levinsky), Raymond Scott and His Quintet (loro stessi) Produttore David O. Selznick Produzione Selznick International Pictures Distribuzione United Artists Filmografia essenziale Lafayette Esquadrille (La Squadriglia Lafayette, 1958) Yellow Sky (Cielo giallo, 1948) Magic Town (La città magica, 1947) The Ox-Bow Incident (Alba fatale, 1943) Thunder Birds (Sparvieri di fuoco, 1942) Nothing Sacred (Nulla sul serio, 1937) A Star is Born (È nata una stella, 1937) The President Vanishes (1934) Public Enemy (Nemico pubblico, 1931) Cupid’s Fireman (1923)

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Howard Hawks

Bringing Up Baby USA, 1938, 102’, bn

Regia, Produttore Howard Hawks Soggetto dal racconto di Hagar Wilde Sceneggiatura Dudley Nichols, Hagar Wilde Fotografia Russell Metty Montaggio George Hively Scenografia Van Nest Polglase Costumi Howard Greer Musica Roy Webb Suono John L. Cass Interpreti Katharine Hepburn (Susan Vance), Cary Grant (David Huxley), May Robson (la zia Elizabeth), Charlie Ruggles (il maggiore Applegate), Barry Fitzgerald (Gogarty), Fritz Feld (il dottor Lehman), Nissa (Baby), Asta (George) Produzione, Distribuzione RKO Radio Pictures

Susanna David Huxley, paleontologo di fama, sta per portare a termine tre imprese: completare la ricostruzione dello scheletro di un grosso dinosauro, trovare i fondi per aprire un nuovo museo e sposarsi con la sua pedante segretaria. L’incontro con Susan Vance, ragazza della buona società a dir poco eccentrica, manda in fumo i suoi piani. Susan coinvolge David nel trasporto di Baby, il leopardo di una sua ricca zia, e gli fa perdere l’ultimo, prezioso pezzo che manca per completare il dinosauro (sottratto da George, il suo vivace fox terrier, che avendolo scambiato per un osso più “fresco”, l’ha ritenuto degno di essere sepolto chissà dove). Per David, è l’inizio di un’infinita serie di guai. Introdotto da disegni infantili, il film è una piccola antologia di giochi («It’s only a game») attraverso cui da un lato si allude continuamente all’istituzione della società e dall’altro si è respinti nel buio dell’animalità. Ma è la donna a tenere le fila del gioco: è lei a poter mostrare il carattere di gioco, di convenzione, della vita comune e dei suoi vincoli, perché (come il western ci insegna) è lei che li ha creati ed è lei che ne esce con più facilità. L’infantilismo della Hepburn è un gioco, una scelta, è fecondo. L’infantilismo di Grant è da redimere, superare, inglobare; è un handicap. […] Contro chi vorrebbe il finale delle commedie votato alla ricomposizione dell’ordine sociale, Susanna propone piuttosto un’unità del caos permanente, un ultimo e definitivo crollo. Ma il finale di Susanna è davvero un lieto fine, e il film è tutto una vitale sarabanda che continuamente propone la possibilità della felicità e di un creativo gioco di ruoli. (Emiliano Morreale, Il bacio del leopardo, in Michele Fadda, a cura di, Screwball & Romantic, Edizioni di Bergamo Film Meeting, Bergamo 2002)

Filmografia essenziale [1] Rio Lobo (id., 1970) El Dorado (id., 1966) Red Line 7000 (Linea rossa 7000, 1965) Man’s Favorite Sport? (Lo sport preferito dall’uomo, 1964) Rio Bravo (Uno dollaro d’onore, 1959) Gentlemen Prefer Blondes (Gli uomini preferiscono le bionde, 1953) Monkey Business (Il magnifico scherzo, 1952) The Big Sky (Il grande cielo, 1952) I Was a Male War Bride (Ero uno sposo di guerra, 1949) A Song Is Born (Venere e il professore, 1948)

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Gregory La Cava

5th Avenue Girl USA, 1939, 83’, bn

La ragazza della Quinta Strada È un compleanno ben triste per l’industriale newyorchese Alfred Borden. A causa dell’incompetenza dei suoi collaboratori (soprattutto del figlio Tim, che pare preferire di gran lunga il gioco del polo al lavoro in azienda), la sua impresa rischia di fallire; la moglie lo tradisce; e per giunta, arrivato a casa, si accorge che nessuno si è ricordato (o ha voluto ricordarsi) del suo compleanno. Sconsolato, va a fare una passeggiata a Central Park, dove attacca bottone con Mary Grey, una giovane disoccupata. La porta a cena, si ubriacano, e le offre ospitalità per la notte. La mattina dopo, vedendo che i suoi credono Mary la sua amante, Alfred coglie al volo l’occasione… Il pessimismo di La Cava, già presente in L’impareggiabile Godfrey, si acuisce in La ragazza della Quinta Strada al punto che il regista concede ben poche risate allo spettatore. Ogni sequenza viene chiusa prima dell’arrivo di una gag o aperta dopo; il dramma contenuto in queste storie di ricchezza sfrenata diventa più urgente del potenziale comico. La mancanza di situazioni comiche è raramente una decisione presa a freddo ma La Cava, specialista nel genere, preferisce in quest’occasione che le risate siano a denti stretti. Una scelta narrativa quanto meno anomala, che però unisce il regista a un altro grande suo contemporaneo, William Wellman. Ambedue raccontano per sottrazione, riducendo l’elemento romantico all’osso ed eliminando ogni tentativo di ingentilire le storie. Entrambi spesso tagliano le sequenze in maniera brusca, cosa che non succede mai nelle commedie di Lubitsch, Capra o Stevens. Questi ultimi sfruttano fino alla fine le possibilità comiche di una situazione, mentre La Cava e Wellman rinunciano a delle gag, sia visive che verbali, pur di arrivare prima allo scopo. (Cesare Petrillo, Introduzione a Gregory La Cava, in Emanuela Martini, a cura di, Gregory La Cava, Bergamo Film Meeting, Bergamo 1995)

Regia, Produttore Gregory La Cava Soggetto Morrie Ryskind Sceneggiatura Allan Scott, Gregory La Cava [non accr.] Fotografia Robert De Grasse Montaggio William Hamilton, Robert Wise Scenografia Van Nest Polglase Costumi Howard Greer, Irene Greer [non accr.] Musica Robert Russell Bennett Suono John L. Cass Interpreti Ginger Rogers (Mary Grey), Walter Connolly (Alfred Borden), Verree Teasdale (Martha Borden), Tim Holt (Tim Borden), Kathryn Adams (Katherine Borden), James Ellison (Mike), Franklin Pangborn (Higgins), Ferike Boros (Olga) Produzione, Distribuzione RKO Radio Pictures Filmografia essenziale Lady in a Jam (Le stranezze di Jane Palmer, 1942) 5th Avenue Girl (La ragazza della Quinta Strada, 1939) Stage Door (Palcoscenico, 1937) My Man Godfrey (L’impareggiabile Godfrey, 1936) She Married Her Boss (Voglio essere amata, 1935) What Every Woman Knows (1934) Gabriel over the White House (1933) The Half Naked Truth (La verità seminuda, 1932) Smart Woman (Una donna intraprendente, 1931) Beware the Dog (1923)

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Howard Hawks

Ball of Fire USA, 1941, 111’, bn

Regia Howard Hawks Soggetto Billy Wilder, Thomas Monroe Sceneggiatura Charles Brackett, Billy Wilder Fotografia Gregg Toland Montaggio David Mandell Scenografia Perry Ferguson Costumi Edith Head Musica Alfred Newman Suono Frank Maher, Thomas T. Moulton Interpreti Gary Cooper (il professor Bertram Potts), Barbara Stanwyck (Sugarpuss O’Shea), Oskar Homolka (il professor Gurkakoff), Henry Travers (il professor Jerome), S.Z. Sakall (il professor Magenbruch), Tully Marshall (il professor Robinson), Leonid Kinskey (il professor Quintana), Richard Haydn (il professor Oddly), Aubrey Mather (il professor Peagram), Dana Andrews (Joe Lilac) Produttore Samuel Goldwyn Produzione The Samuel Goldwyn Company Distribuzione RKO Radio Pictures

Filmografia essenziale Red River (Fiume rosso, 1948) The Big Sleep (Il grande sonno, 1946) Air Force (Arcipelago in fiamme, 1943) Sergeant York (Il sergente York, 1941) Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria, 1939) Bringing Up Baby (Susanna, 1938) Scarface (Scarface – Lo sfregiato, 1932) The Road to Glory (1926)

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Colpo di fulmine Come i sette nani nella loro miniera, un gruppo di studiosi vive isolato in una grande magione per portare a termine una nuova enciclopedia. Il più giovane di loro, il professor Bertram Potts, è un linguista che sta approfondendo il moderno slang americano. Uscito dall’isolamento e inoltratosi lungo le strade cittadine alla ricerca di informazioni, trova una miniera di idiomi nella cantante di nightclub Sugarpuss O’Shea. Questa, all’inizio riluttante, accetta l’interessamento di Potts quando si trova ad aver bisogno di una via di fuga dalla polizia: niente di meglio della casa degli enciclopedisti. Potts in breve si innamora di lei. Il guaio è che Sugarpuss è la pupa del noto gangster Joe Lilac… Todd McCarthy, il biografo di Hawks, sostiene che Colpo di fulmine «non è all’altezza delle migliori commedie del periodo come Susanna e La signora del venerdì, sebbene rimanga senz’altro godibile per la brillantezza dei dialoghi, la simpatica genialità dei professori e l’esperta vis comica di Cooper e Stanwyck». Hawks difende l’andamento atipico del film affermando che «quando i professori parlano, non possono certo esprimersi come cronisti di nera», e aggiunge «era un tipo di commedia diverso, e non potevamo utilizzare lo stesso ritmo». […] Hawks non è mai stato un regista apertamente anti intellettuale (sebbene, come Ford, si divertisse a prendere in giro gli intervistatori che cercavano di leggere troppo in profondità i suoi lavori), ma la maggior parte dei suoi film tratta di uomini d’azione come aviatori, piloti d’auto e cowboy, opposti a uomini di scienza e di studio. Ci sono però eccezioni, come La cosa da un altro mondo e Il magnifico scherzo. Colpo di fulmine è fra i pochi film di Hawks nei quali l’intellettuale, sebbene sia descritto come una figura assurda, arriva a meritarsi un livello di eroismo. (Brian Wilson, Cinémathèque Annotations on Film: “Ball of Fire”, www. senseofcinema.com)


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Preston Sturges

The Lady Eve USA, 1941, 95’, bn

Lady Eva Charles Pike, figlio di un magnate della birra con il pallino della zoologia, ha appena concluso una spedizione scientifica in Amazzonia. Sul piroscafo che lo sta portando a casa fa la conoscenza del colonnello Harrington e della figlia Jean, distinti nei modi quanto poco onesti nelle intenzioni, dato che i due, in realtà, sono bari di professione dediti allo spennamento al tavolo da gioco dei facoltosi passeggeri. La ragazza si innamora, ricambiata, di Charles. Il quale tuttavia, quando viene a sapere della sua reale attività, la respinge in malo modo. Umiliata, Jean giura vendetta e, alcuni mesi dopo, si presenta in casa Pike facendosi passare per l’aristocratica inglese lady Eve Sidwich. La vendetta inizia il suo corso. Lady Eva è un capolavoro perché Henry Fonda si dichiara alla donna che ama una prima volta e poi torna a dichiararsi con le stesse identiche parole, alla stessa donna, mentre un cavallo lo deride alitandogli sulla testa e rifiutandosi di cedergli l’inquadratura. Perché in novanta minuti il fast talk di Preston Sturges riesce a condensare centocinquantasei fittissime pagine di dialoghi brillanti e geniali invenzioni linguistiche che molto devono alla lezione dei Marx. […] Perché un’intera sequenza di seduzioni mancate è diretta e doppiata attraverso uno specchio da un’eroina femminile che costituisce uno degli emblemi della creazione di una nuova Donna, avvenuta proprio in quegli anni: e non è un caso che sia poi lei a far cadere e portarsi via l’uomo che tutte quante vogliono. Perché la citata importanza dei dialoghi non impedisce alla screwball di inchinarsi di fronte alle umili origini dello slapstick, costringendo Henry Fonda a una serie spudoratamente lunga di cadute. (Giacomo Manzoli, Contro Eva?, in Michele Fadda, a cura di, Screwball & Romantic, Edizioni di Bergamo Film Meeting, Bergamo 2002)

Regia, Sceneggiatura Preston Sturges Soggetto dal racconto di Monkton Hoffe Fotografia Victor Milner Montaggio Stuart Gilmore Scenografia Hans Dreier, Ernst Fegté Costumi Edith Head Musica Charles Bradshaw, Leo Shuken Suono Don Johnson, Harry Lindgren, Harry Katherman Interpreti Barbara Stanwyck (Jean Harrington/lady Eve Sidwich), Henry Fonda (Charles Pike), Charles Coburn (il colonnello Harrington), Eugene Pallette (il signor Pike), William Demarest (Muggsy), Eric Blore (sir Alfred McGlennan Keith), Melville Cooper (Gerald), Martha O’Driscoll (Martha) Produttori Paul Jones, Buddy G. DeSylva Produzione, Distribuzione Paramount Pictures

Filmografia essenziale Les carnets du Major Thompson (ll carnet del maggiore Thompson, 1955) The Beautiful Blonde from Bashful Bend (L’indiavolata pistolera, 1949) Unfaithfully Yours (Infedelmente tua, 1948) The Sin of Harold Diddlebock (Meglio un mercoledì da leone, 1947) Hail the Conquering Hero (1944) The Miracle of Morgan’s Creek (Il miracolo del villaggio, 1944) The Palm Beach Story (Ritrovarsi, 1942) The Great McGinty (1940)

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Richard Quine

Bell, Book and Candle USA, 1958, 106’, col.

Regia Richard Quine Soggetto dalla commedia di John Van Druten Sceneggiatura Daniel Taradash Fotografia James Wong Howe Montaggio Charles Nelson Scenografia Cary Odell Costumi Jean Louis Musica George Duning Suono Franklin Hansen jr., Win Hancock, John P. Livadary Interpreti James Stewart (Shepherd “Shep” Henderson), Kim Novak (Gillian “Gil” Holroyd), Jack Lemmon (Nicky Holroyd), Ernie Kovacs (Sidney Redlitch), Elsa Lancheser (la zia Queenie Holroyd), Produttore Julian Blaustein Produzione Phoenix Productions Inc. Distribuzione Columbia Pictures

Filmografia essenziale The Prisoner of Zenda (ll prigioniero di Zenda, 1979) Paris When It Sizzles (Insieme a Parigi, 1964) The Notorious Landlady (L’affittacamere, 1962) Strangers When We Met (Noi due sconosciuti, 1960) The Solid Gold Cadillac (Una Cadillac tutta d’oro, 1956) So This Is Paris (Tre americani a Parigi, 1955) Leather Gloves (1948)

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Una strega in paradiso In una metropoli come New York, a volte si possono fare interessanti conoscenze fra il vicinato. È quanto capita a Shep Henderson, un editore a un passo dal matrimonio il cui appartamento si trova nello stesso stabile della casa-negozio di Gil Holroyd. La bionda e sensuale vicina in realtà è una strega, dedita all’uso delle arti magiche assieme al suo gatto Cagliostro. Questa si innamora di Shep e, quando scopre che la promessa sposa di lui è una sua antica, odiatissima compagna di college, passa all’azione, conquistandolo con i suoi incanti. I due si mettono insieme, formando una coppia perfetta. A complicare le cose arrivano Nicky, il fratello di Gil, e Sidney Redlitch, uno studioso che sta compiendo un’indagine sulla stregoneria a New York. Si racconta che nel bel mezzo di una riunione del Consiglio dei Ministri Charles de Gaulle abbia detto ad André Malraux, volendo eludere una sua domanda: «Les chatons jouent, les chats méditent» [i gattini giocano, i gatti meditano]. Cagliostro, il magnifico siamese di Una strega in paradiso, è un gatto che guarda, medita e poi agisce. Quasi un alter ego della sua padrona (gli occhi di lui e quelli di Kim Novak sono della stessa, medesima nuance) è motore e punto di vista privilegiato della storia. Con la sua aura magica, è lo strumento del quale si serve la strega per conquistare il suo uomo (una strega che in realtà non avrebbe granché bisogno di fare ricorso alle arti occulte, essendo lei Kim Novak ed essendo la sua rivale così antipatica), e di tanto in tanto è con il suo punto di vista che vediamo il mondo (non a caso, il film si chiude con lui, appollaiato sul lampione fulminato da un Jack Lemmon in vena di scherzi, che con le sue sonore fusa mostra di approvare l’happy end). Girato con la stessa coppia protagonista e uscito a pochissimi mesi di distanza, Una strega in paradiso è un film che fa da brillante pendant all’hitchcockiano La donna che visse due volte. (Aristide de Balmalon, Le chat et sa sorcière: “L’adorable voisine”, «Le Journal de Vilmorin», 2 settembre 1967)


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François Truffaut

Une belle fille comme moi Francia, 1972, 98’, col.

Mica scema la ragazza! Il sociologo Stanilas Prévine intervista in carcere Camille, una ragazza accusata di omicidio. Dai colloqui con Camille emerge un passato per niente sereno: padre alcolizzato e violento; detenzione in un centro per giovani delinquenti; matrimonio infelice con Clovis, un inetto la cui madre è un’avida taccagna; vocazione frustrata per la canzone. Non è che la ragazza se ne sia stata con le mani in mano: la morte del padre è stata da lei in qualche modo “aiutata”, la suocera derubata e così via, in quella che, tutto sommato, non è stata altro che una mera lotta per la sopravvivenza. Adesso, Camille non intende affatto restarsene in carcere e, a farne le spese, sarà il povero Stanislas. In termini grotteschi e ironici, Mica scema la ragazza! ripropone l’impossibilità del rapporto uomo/donna che caratterizza il cinema di Truffaut: non solo Stanislas non riesce a possedere Camille, ma perde anche, a causa di questa “perversa” attrazione, la possibilità di un rapporto “normale” con l’innamorata segretaria. Si riconosce, riflesso nella situazione, il rapporto donna/madre/mantide (depositaria e dispensatrice del piacere sessuale) e figlio/vittima, fragile e impotente, destinato a essere divorato ancor prima di poter conoscere le delizie dell’amore, che si ritrova, variamente articolato, in tutte le commedie di Billy Wilder. Questi e altri elementi (la funzione del denaro, che presiede a tutti gli scambi di natura sessuale messi in scena dal film; l’esibizione del sesso, che diviene denuncia della sua assenza, surrogato di un impossibile erotismo) suggeriscono la necessità di una più attenta e approfondita analisi delle corrispondenze esistenti tra il film di Truffaut e l’universo wilderiano. (Alberto Barbera, François Truffaut, La Nuova Italia, Firenze 1976)

Regia François Truffaut Soggetto dal romanzo di Henry Farrell Sceneggiatura François Truffaut, Jean-Loup Dabadie Fotografia Pierre-William Glenn Montaggio Martine Barraqué, Yann Dedet Scenografia Jean-Pierre Kohut-Svelko Costumi Monique Dury Musica Georges Delerue Suono René Levert Interpreti Bernadette Laffont (Camille Bliss), André Dussolier (Stanislas Prévine), Claude Brasseur (l’avvocato Murene), Charles Denner (Arthur), Guy Marchand (Roger, noto anche come Sam Golden), Anne Kreis (Hélène), Philippe Léotard (Clovis Bliss), Gilberte Géniat (Isobel Bliss) Produttore Marcel Berbert Produzione Les Films du Carrosse, Columbia Films Distribuzione Columbia Films

Filmografia essenziale Vivement dimanche! (Finalmente domenica!, 1983) L’ultimo metrò (Le dernier métro, 1980) La chambre vert (La camera verde, 1978) L’histoire d’Adèle H. (Adele H. – Una storia d’amore, 1975) La nuit américaine (Effetto notte, 1973) Baisers volées (Baci rubati, 1968) Jules et Jim (Jules e Jim, 1961) Les quatre-cents coups (I quattrocento colpi, 1959)

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ma papà ti manda sola?

Peter Bogdanovich

What’s Up, Doc? USA, 1972, 94’, col.

Regia, Soggetto, Produttore Peter Bogdanovich Sceneggiatura Buck Henry, David Newman, Robert Benton Fotografia László Kovács Montaggio Verna Fields Scenografia Polly Platt Costumi Nancy McArdle, Ray Phelps Musica Artie Butler Suono Les Fresholtz Interpreti Barbra Streisand (Judy Maxwell), Ryan O’Neal (Howard Bannister), Madeline Kahn (Eunice Burns), Kenneth Mars (Hugh Simon), Austin Pendleton (Frederick Larrabee), Michael Murphy (il signor Smith), Philip Roth (il signor Jones), Liam Dunn (il giudice Maxwell) Produzione Saticoy Productions Distribuzione Warner Bros.

Filmografia essenziale The Cat’s Meow (Hollywood Confidential, 2001) Texasville (id., 1990) Mask (Dietro la maschera, 1985) They All Laughed (… e tutti risero, 1981) Nickelodeon (Vecchia America, 1976) Daisy Miller (id., 1974) Paper Moon (id., 1973) What’s Up, Doc? (Ma papà ti manda sola?, 1972) The Last Picture Show (L’ultimo spettacolo, 1971) Targets (Bersagli, 1968)

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Ma papà ti manda sola? Una borsa in tessuto scozzese contiene la preziosa raccolta di pietre ignee (ovvero: sassi) del professor Howard Bannister, uno studioso che sta facendo ricerche sulla musica primitiva. A San Francisco con la petulante fidanzata per ottenere finanziamenti, in albergo Howard s’imbatte in Judy, una stravagante ragazza che si innamora di lui. Da questo momento, la vita del povero Howard viene completamente stravolta: Judy mette in atto quello che a chiamarlo serrato corteggiamento è usare un eufemismo e, come se non bastasse, una banda di ladri di gioielli non ha avuto idea migliore che rubare una borsa piena di preziosi uguale e identica a quella delle pietre ignee. All’ultimo Oscar [1973] tutti mi dissero che avrebbe vinto L’esorcista. Io dissi che avrebbe vinto La stangata, e me lo dettero cinque a uno, dieci a uno e perfino venti a uno. Guadagnai parecchi soldi. Poi vennero a chiedermi: «Perché hai detto così?». Risposi: «In quattro anni sono state fatte solo due belle commedie. Una è Ma papà ti manda sola? e l’altra è La stangata. Nessun’altra è degna di essere chiamata commedia». Pensavo che la gente fosse così ansiosa di vere commedie, di ridere, che ero sicuro che avrebbe vinto La stangata. Ma papà ti manda sola? fu un trionfo per Bogdanovich, perché Barbra Sreisand non è divertente, come non lo è Ryan O’Neal. Eppure il film è divertente. Erano tutte gag visive, ed erano tutte incredibilmente belle. Vidi il film in Spagna. Quando ridono per tutto il film pur non capendone una parola, allora sai che è un film divertente. (Howard Hawks in Jim McBride, Il cinema secondo Howard Hawks, Pratiche Editrice, Parma 1992)


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Roman Polanski

The Fearless Vampire Killers USA • Gran Bretagna, 1967, 107’, col.

Regia Roman Polanski Soggetto, Sceneggiatura Gérard Brach, Roman Polanski Fotografia Douglas Slocombe Montaggio Alastair McIntyre Scenografia Wilfred Shingleton Costumi Sophie Devine Musica Krzysztof Komeda Suono George Stephenson, Lionel Selwyn Interpreti Jack MacGowran (il professor Abronsius), Roman Polanski (Alfred), Alfie Bass (Shagal), Jessie Robins (Rebecca Shagal), Sharon Tate (Sarah Shagal), Ferdy Mayne (il conte von Krolock), Iain Quarrier (Herbert von Krolock), Terry Downes (Koukol), Fiona Lewis (Magda) Produttore Gene Gutowski Produzione Cadre Film, Filmways Pictures Distribuzione Metro-Goldwyn-Mayer

Filmografia essenziale La Vénus à la fourrure (Venere in pelliccia, 2013) The Ghost Writer (L’uomo nelll’ombra, 2010) The Pianist (Il pianista, 2002) Pirates (Pirati, 1986) Le locataire (L’inquilino del terzo piano, 1976) Macbeth (Macbeth, 1971) Repulsion (id., 1965) Nóz w wodzie (Il coltello nell’acqua, 1962)

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Per favore, non mordermi sul collo Rinomato studioso di fenomeni vampirici, il professor Abronsius giunge assieme al suo fidato assistente Alfred in una remota località della Transilvania. Lì i due intendono verificare la veridicità di alcune voci che vorrebbero un castello dei paraggi abitato da un gruppo di vampiri capeggiati da tale conte von Krolock. Così, in effetti è, e i due spericolati cacciatori di vampiri si trovano costretti a effettuare una sortita all’interno del castello allo scopo di portare in salvo Sarah, la giovane e bella figlia del locandiere Shagal rapita dal conte. Il piano, pur con qualche rocambolesco imprevisto, riesce. Ma Abronsius e Alfred non sanno che Sarah, nel frattempo… Credo che occorra ricordare l’esperienza fatta dal giovane Polanski al teatro di marionette Groteska, in Polonia. È vero che i “normali” sono rossastri e rubizzi, ma sia il professore che Shagal, per esempio, sono soggetti, per ragioni diverse, a diventare marionette: il professore perché tende a congelare e quindi a trasformarsi in un pupazzo di ghiaccio a ogni prolungata esposizione alle intemperie, Shagal perché vampirizzato, dissanguato, ridotto a una specie di stoccafisso dall’ingordigia dei mostri vampirici. È un mondo, quello di Per favore, non mordermi sul collo, che un nonnulla basta a far passare dalla vita alla rigidità inorganica: il paesaggio stesso, benché sia quello “vero” delle Alpi, mostra un suo versante “falso”, sul quale splende una luna forse vera, forse da teatro. (Alessandro Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Recco-Genova 1997)


fantamaratona

Brian De Palma

Carrie USA, 1976, 97’, col.

Carrie – Lo sguardo di Satana Vittima dell’educazione di una madre rigida e bacchettona, l’adolescente Carrie White è talmente timida e complessata da essere lo zimbello delle crudeli compagne di classe. Le cose non migliorano il giorno in cui, sotto la doccia della palestra, le vengono le prime mestruazioni. Resasi conto che il segno è stato passato, Sue, la più sensibile delle compagne, convince il suo ragazzo Tommy a farle da cavaliere al ballo di fine anno. Purtroppo Chris, la più perfida delle sue persecutrici, e per questo punita da una professoressa, escogita per vendetta un piano per umiliarla. Non sa, la sventurata, che Carrie possiede potenti facoltà telecinetiche. Carrie di Brian De Palma è un horror assolutamente coinvolgente, con una scioccante trovata finale che è la miglior cosa vista al cinema dal salto a bordo dello squalo di Spielberg. È anche – ed è ciò che ne fa un film così riuscito – un interessante ritratto umano. Questa ragazza, Carrie, non è l’ennesimo prodotto della stereotipica catena di montaggio della produzione horror; lei è timida, carina, complicata, una compagna delle superiori come molti di noi da ragazzi abbiamo conosciuto. […] Carrie non è della fantascienza con colpo di scena posticcio, ma lo studio di un carattere che impariamo a capire. Quando Carrie usa al massimo (o è usata da) i suoi strani poteri, sappiamo il perché. Questa sorta di sviluppo narrativo non è mai stato il forte di De Palma, ma qui il regista esibisce un dono particolare nel ritrarre personalità. Non ci saremmo mai aspettati da lui, di solito superficialmente pirotecnico, che potesse andare così in profondità. (Roger Ebert, Reviews: “Carrie”, «The Chicago Sun-Times», 1 gennaio 1976)

Regia Brian De Palma Soggetto dal romanzo di Stephen King Sceneggiatura Lawrence D. Cohen Fotografia Mario Tosi Montaggio Paul Hirsch Scenografia Jack Fisk, William Kenney Costumi Rosanna Norton Musica Pino Donaggio Suono Dan Sable, Lois Freeman Interpreti Sissy Spacek (Carrie White), Piper Laurie (Margaret White), Amy Irving (Sue Snell), William Katt (Tommy Ross), John Travolta (Billy Nolan), Nancy Allen (Chris Hargensen), Betty Buckley (la signorina Collins), P.J. Soles (Norma) Produttori Paul Monash, Brian De Palma Produzione, Distribuzione United Artists

Filmografia essenziale Passion (2012) Redacted (id., 2007) Mission to Mars (id., 2000) Carlito’s Way (id., 1993) The Untouchables (The Untouchables – Gli intoccabili, 1987) Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980) Carrie (Carrie – Lo sguardo di Satana, 1976) Obsession (Complesso di colpa, 1976) Sisters (Le due sorelle, 1973) Greetings (Ciao America, 1968)

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Pierre-Luc Granjon Carta bianca a Pierre-Luc Granjon

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Pierre-Luc Granjon

Pierre-Luc Granjon Xavier Kawa-Topor

(Festival International du Film de la Rochelle) Pierre-Luc Granjon è un cineasta discreto. Dopo il diploma della Scuola di arti applicate di Lione, inizia la sua attività professionale alla fine degli anni Novanta lavorando come scenografo, scultore e modellista per diversi cortometraggi. Il suo desiderio di misurarsi con la regia è tale che già nel 2001 realizza il suo primo cortometraggio, Petite escapade: sotto l’apparenza di un film per bambini con una trama quasi insignificante, Petite escapade si può considerare come la prima tappa di una maieutica attraverso cui l’autore inventa il proprio progetto cinematografico. Il film può essere visto innanzitutto come l’itinerario di un bambino solitario, animato da una bella immaginazione, grazie alla quale la quotidianità più banale – il semplice sfilare dei passanti su un marciapiede – assume i contorni di una fiaba. Sul quaderno di scuola il bambino ridisegna la realtà a immagine e somiglianza del suo mondo interiore, e questa realtà si anima e prende vita nel movimento, sul filo del commento della voce fuori campo – la sua voce interiore. Questo “racconto nel racconto” che funge da epilogo ci dice contemporaneamente due cose: che è col disegno che il taciturno protagonista si esprime, e che è tramite lo “spostamento” della realtà che l’arte – e quindi il cinema – agisce. E del resto, nella “piccola fuga” del titolo non dovremmo vedere una prima incursione, quasi clandestina, del giovane artista Pierre-Luc Granjon nel territorio della regia? Messa così in scena, l’identificazione del personaggio con il regista-narratore prosegue nei due cortometraggi seguenti, Le château des autres e L’enfant sans bouche (entrambi del 2004), annunciando un’opera scritta in prima persona, sebbene il progetto non sia autobiografico: è il cinema stesso a esser visto da Pierre-Luc Granjon attraverso il prisma dell’infanzia, non il contrario. Le château des autres appartiene ancora al periodo “muto” di Pierre-Luc Granjon. Questa volta, la “fuga” è collettiva e regolamentare: un gruppo di bambini, durante una gita scolastica, visita un castello e giocando si sparpaglia per le scale e nei labirintici corridoi dell’edificio. Il piccolo eroe di Pierre-Luc Granjon è rimasto isolato, rapito dalla sua immaginazione che ben presto ridisegna i luoghi commisurandoli alla sua crescente paura. In questo processo ha un ruolo essenziale la parola, la cui acquisizione è oggetto del terzo cortometraggio di Pierre-Luc Granjon, L’enfant sans bouche. Come sempre, il nucleo narrativo del film corrisponde al suo nucleo estetico. Per rompere con il mutismo del suo personaggio, il regista ricorre alla voce della fiaba. Fuori campo, questa voce è quella di un bambino che racconta al passato una storia che è accaduta. Questa volta, il piccolo personaggio di Pierre-Luc Granjon è inserito in un contesto familiare: padre/ madre, gatto/cane. In questo sistema duale il bambino si trova solo, prigioniero del suo mutismo. Dovrà decidersi a parlare e, per farlo, a disegnarsi una bocca commisurata alle orecchie del coniglio, un perfetto alter ego che lo ascolti. Le loup blanc (2006) segna la fine di un ciclo. Nel momento in cui nell’opera di PierreLuc Granjon compare la forma dialogata, la figura del protagonista si attenua dando luogo a una coppia, due fratelli complici nel gioco e nell’immaginario. Lo spazio che ormai occupa tutta la scena è proprio quello di una fiaba: una casa, una famiglia, un bosco e, come è d’obbligo, un lupo, gigantesco. In seguito, Pierre-Luc Granjon si è orientato verso la produzione televisiva. La casa di produzione Folimage gli ha affidato una serie di quattro episodi di 26’ ambientati in un’atmosfera medievale e con personaggi ricorrenti, costituita da L’hiver de Léon (2007, co-regia con Pascal Le Nôtre), Le printemps de Mélie (2009), L’été de Boniface e L’automne de Pougne (rispettivamente del 2011 e del 2012, con Antoine Lanciaux). La qualità della serie ha fatto sì che gli episodi fossero anche programmati nelle sale cinematografiche francesi. L’ultimo cortometraggio, La grosse bête, riprende le cose dove Le loup blanc le aveva lasciate. «La grosse bête è il mio primo film un po’ politico. Parla della paura. Di un 168


Pierre-Luc Granjon

Le loup blanc

reame in cui gira la voce che ci sia una belva enorme che può saltar fuori e mangiare la gente nel momento in cui meno se lo aspetta. Allora tutti si mettono a pensare alla belva, perché si immaginano: “Se ci pensiamo continuamente, non verrà a mangiarci”. Questo è l’inizio del film, il postulato di partenza. Dico che è un film politico proprio perché è nato da questa sensazione che ciò che pensiamo non venga da noi, ma da quello che ci dicono, da tutte quelle informazioni che ci arrivano addosso continuamente nella vita, tutte le brutte notizie che ci raggiungono, e che fanno sì che ci comportiamo diversamente. Anche se in realtà quelle cose non sono mai successe». Pierre-Luc Granjon (Francia, 1973), dopo aver studiato storia dell’arte a Ginevra, si iscrive alla Scuola di arti applicate di Lione. Alternando i ruoli di modellista, animatore e scenografo realizza nel 2001 il suo primo cortometraggio, Petite escapade, in plastilina e disegno animato, che vince il Gran Premio del Festival di Seul. Nel 2004 firma Le château des autres e si lancia nel découpage con L’enfant sans bouche. Creativo artigiano di immagini animate, si impegna poi in una tetralogia (L’hiver de Léon, Le printemps de Mélie, L’été de Boniface e L’automne de Pougne), popolato di personaggi fortemente caratterizzati immersi in un inverno medievale la cui estetica richiama quella delle miniature. Attraverso diverse tecniche di animazione (plastilina, disegno animato, découpage), Pierre-Luc Granjon racconta storie a un tempo semplici e forti, che penetrano nel profondo delle emozioni nell’infanzia. Il suo universo assolutamente personale è popolato di piccoli sognatori. Il suo ultimo film, La grosse bête, è stato presentato in anteprima al Festival di Annecy nel 2013. 169


Pierre-Luc Granjon

Nel regno di Pierre-Luc Granjon Disegni, sculture, bozzetti, scenografie dell’animatore francese Un viaggio nel magico mondo dell’animazione del regista francese: dai disegni realizzati per i film animati con la tecnica del découpage, ai fondali della serie televisiva dedicata alle quattro stagioni, passando per le sue preziose sculture fino alle fotografie dei backstage dei suoi lavori, che ci raccontano tutti i segreti del lavoro dell’animatore. I materiali presentati alla mostra sono dei seguenti film: Petite escapade (2001) L’enfant sans bouche (2004) Le loup blanc (2006) L’hiver de Léon [co-regia Pascal Le Nôtre] (2007) Le printemps de Mélie (2009) L’été de Boniface [co-regia Antoine Lanciaux] (2011) L’automne de Pougne [co-regia Antoine Lanciaux] (2012) La grosse bête (2013) Bergamo, Sala alla Porta di S. Agostino 7 – 30 marzo 2014 Orari: martedì - venerdì 15.30 - 19.30 | sabato - domenica 11.00 – 19.30 Ingresso libero La mostra Nel regno di Pierre-Luc Granjon è promossa da Bergamo Film Meeting, realizzata in collaborazione con il Comune di Bergamo, Divisione Attività Culturali, Turismo, Giovani, Sport e Tempo Libero e con il sostegno di Fondazione Cariplo. 170


Pierre-Luc Granjon

Pierre-Luc Granjon

Petite escapade A Little Adventure

Francia, 2001, 5’ 30’’, bn, animazione − disegno, pupazzi

Piccola fuga [t.l.] Un bambino, invece di andare a scuola, si addentra in un fitto bosco. Dalla cima di un muro osserva le persone che passano sul marciapiede. Al temine della giornata, sorridente, torna a casa. Sul suo taccuino il racconto della giornata, da un punto di vista molto personale.

Pierre-Luc Granjon

Le château des autres The Other Kids’ Castle

Francia, 2004, 5’ 55’’, col., animazione – pupazzi in cartapesta

Il castello degli altri [t.l.] Una gruppo di alunni va in gita scolastica, in un grande castello. Uno dei bambini si attarda qualche minuto a contemplare una statua, e perde il gruppo dei suoi compagni di classe.

Regia, Sceneggiatura Pierre-Luc Granjon Montaggio Estelle Dehame Fotografia Cyril Maddalena Animazione Juliette Marchand Musica La petite bande (Thimotée Jolly, Denis Mignard) Suono Mathias Rifkiss Voce Adeline Mélo Produzione, Distribuzione Folimage

Regia, Sceneggiatura Pierre-Luc Granjon Fotografia Sara Sponga Montaggio Hervé Guichard Scenografia Pierre-Luc Granjon, Samuel Ribeyron, Cécile Storino Animazione Pierre-Luc Granjon, François Lignier, Juliette Marchand Musica Le comptoir musical des lucioles Suono Loïc Burkhardt Voce gli alunni della classe di Sandrine Dechamps, Ecole Rigaud (Valence, France) Produzione Folimage, Procirep, Angoa, CG 26, CNC Distribuzione Folimage

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Pierre-Luc Granjon

Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Animazione, Scenografia Pierre-Luc Granjon Montaggio, Suono, Produttore François Cadot Musica Delphine Daumas Voce Sarah Cadot Produzione Studio Corridor Distribuzione Les Éditions Corridor

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pierre-Luc Granjon Fotografia Sara Sponga Montaggio Nathalie Pat Musica Thimothée Jolly Suono Loïc Burkhardt Voci Oriane Zani, Louis Sommermeyer, Hélène Ventoura, Sylvain Granjon Produzione, Distribuzione Sacrebleu Productions

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Pierre-Luc Granjon

L’enfant sans bouche Francia, 2004, 4’, col., animazione – découpage

Il bambino senza bocca [t.l.] C’era una volta un bambino che non aveva la bocca. Il cane, il gatto e i suoi genitori avevano delle bocche, e le usavano molto. Quando qualcuno parlava con lui, il bambino non rispondeva, ovviamente. Ma un giorno il cane trovò un coniglio e lo portò al bambino. All’inizio, il coniglio sorrideva, ma col passare dei giorni diventava sempre più triste e le sue orecchie cominciarono a stringersi. Allora, il bambino ebbe un’idea: prese una matita e si disegnò una bocca…

Pierre-Luc Granjon

Le loup blanc The White Wolf

Francia, 2006, 8’ 30’’, col., animazione – découpage

Il lupo bianco [t.l.] Un bambino riesce ad addomesticare un grosso lupo bianco per cavalcarlo. Insieme al fratellino, è felicissimo, ma un giorno, per dar da mangiare alla famiglia, il padre tornando dalla caccia porta a casa una preda più grossa del solito: il lupo bianco.


Pierre-Luc Granjon

Pierre-Luc Granjon, Pascal Le Nôtre

L’hiver de Léon Léon in Wintertime

Francia • Canada, 2007, 26’, col., animazione – pupazzi L’inverno di Léon [t.l.] L’inverno si abbatte sul reame e l’orco delle montagne rapisce la bella principessa Mélie Pain d’Epice. Léon, un giovane orso adottato da una coppia di apicoltori, vive una preadolescenza tormentata: scappa di casa e casca nelle grinfie di Boniface, il cantastorie. Con l’aiuto dei suoi amici, l’elefante fifone e il porcospino brontolone, Léon si lancerà in una serie di avventure rischiose quanto inattese. Affrontando ogni pericolo, libererà la principessa e ritroverà la strada di casa.

Regia Pierre-Luc Granjon, Pascal Le Nôtre Sceneggiatura Antoine Lanciaux Fotografia Sara Sponga Montaggio Hervé Guichard Scenografia Samuel Ribeyron Musica Normand Roger, Denis Chartrand Suono Judith Gruber-Stitzer Animazione Marjolaine Parot, Chaïtane Conversat, François Lignier, Lorelei Paliès, PierreLuc Granjon Voci Sarah Bazri, Albert Payne, Bernard Bouillon, Jean-Pierre Yvars, Christian Taponard Produzione Folimage, TPS Teletoon, Subséquence, ONF-NFB Canada, France 3, Région Rhône-Alpes, Procirep/Angoa Distribuzione Folimage

Pierre-Luc Granjon

Le printemps de Mélie Molly in Springtime

Francia, 2009, 26’, col., animazione – pupazzi

La primavera di Mélie [t.l.] È Carnevale nel regno del re Balthazar e il malvagio Boniface ambisce a prendere il posto di Léon sul trono del re, per gioco. Ma scommettiamo che Mélie Pain d’Épice e la sua complice riusciranno a buttare all’aria i piani del fellone e a salvare la popolazione?

Regia Pierre-Luc Granjon Sceneggiatura Antoine Lanciaux Fotografia Sara Sponga Montaggio Hervé Guichard Animazione Marjolaine Parot, Chaïtane Conversat, François Lignier, Lorelei Paliès, PierreLuc Granjon Scenografia Samuel Ribeyron Musica Normand Roger, Denis Chartrand, Pierre Yves Drapeau Suono Normand Roger, Pierre Yves Drapeau Voci Sarah Bazri, Albert Payne, Bernard Bouillon, Jean-Pierre Yvars, Produzione Folimage, Piwi, Subséquence, ONF-NFB Canada, France 3, Région Rhône-Alpes, Procirep/Angoa Distribuzione Folimage

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Pierre-Luc Granjon

Regia, Sceneggiatura Pierre-Luc Granjon, Antoine Lanciaux Fotografia Sara Sponga Montaggio Hervé Guichard Animazione Marjolaine Parot, Chaïtane Conversat, Laëtitia Dupont, François Lignier, Pierre-Luc Granjon Scenografia Samuel Ribeyron Musica, Suono Normand Roger, Denis Chartrand, Pierre Yves Drapeau Voci Sarah Bazri, Albert Payne, Bernard Bouillon, Jean-Pierre Yvars, Christian Taponard, Marylise Chanteloup, Sandrine Héritier Produzione Folimage, Piwi, Subséquence, ONF-NFB Canada, France 3, Région Rhône-Alpes, Procirep/Angoa Distribuzione Folimage

Regia Pierre-Luc Granjon, Antoine Lanciaux Sceneggiatura Antoine Lanciaux Fotografia Sara Sponga Montaggio Hervé Guichard, Pauline Coudurier Animazione Pierre-Luc Granjon, Chaïtane Conversat, Laetitia Dupont, Antoine Lanciaux, Marjolaine Parrot Scenografia Samuel Ribeyron Musica Normand Roger, Pierre Yves Drapeau, Denis Chartrand Suono Normand Roger, Pierre Yves Drapeau, Loïc Burkhardt Voci Christian Taponard, Nathalie Fort, Bernard Bouillon, Albert Payne, Pierre-Luc Granjon Produzione Folimage Studio, Subséquence, ONFNFB Canada, Piwi, France Télévisions Distribuzione Folimage

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Pierre-Luc Granjon, Antoine Lanciaux

L’été de Boniface

Boniface in Summertime

Francia, 2011, 28’, col., animazione – pupazzi

L’estate di Boniface [t.l.] Nel piccolo reame di Abracadabra, il cantastorie Boniface vive una storia d’amore con la regina Héloïse. Ha appena chiesto la sua mano quando arriva sua figlia per le vacanze estive: la principessa Mélie, insieme ai suoi migliori amici. E nonostante le raccomandazioni della regina, questi ultimi decidono con grande ingenuità di andare a piantare la tenda in riva al lago, ai piedi del Monte Sacro…

Pierre-Luc Granjon, Antoine Lanciaux

L’automne de Pougne Poppety in the Fall

Francia, 2012, 26’, col., animazione – pupazzi

L’autunno di Pougne [t.l.] Tutti i libri del reame, stranamente, si svuotano delle loro storie. Il buon re Balthazar incomincia subito ad annoiarsi e trascina con sé il suo popolo in una profonda depressione. «Anche questa volta è colpa di Boniface il cantastorie!», esclama Pougne, il porcospino brontolone. Ma come fa a esserene così sicuro? Riusciranno Pougne e i suoi amici a far tornare le storie nel reame?


Pierre-Luc Granjon

Pierre-Luc Granjon

La grosse bête Francia, 2013, 7’, bn, animazione – découpage

La grande belva [t.l.] Si narra che una grossa belva arrivi per mangiare la popolazione della città, quando meno ce lo si aspetti. Qualcuno suggerisce che per non essere mangiati, sia sufficiente continuare a pensare all’arrivo della feroce belva.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pierre-Luc Granjon Fotografia Sara Sponga Montaggio François Cadot, Pierre-Luc Granjon Musica Timothée Jolly Suono Loïc Burckhardt, Christophe Héral, Loïc Moniotte Voci Bruno Lochet, Noé Varin, Wanda Pendrie, François Lignier, Sandrine Héritier, Pierre-Luc Granjon, Jean Granjon, Gaby Granjon, Mélie Duyats, Felix Duyats, Sarah Cadot, François Cadot, Jacob Cabannes, Loïc Burckhardt, Esther Blanchard. Produzione Les Décadrés Production, CiCliC, La Région Rhône-Alpes, Canal+, CNC Distribuzione Les Éditions Corridor

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carta bianca a Pierre-Luc Granjon

Regia, Sceneggiatura Bernard Palacios Fotografia Jean-Paul Rossard Montaggio Christine Pansu Scenografia Bernard Palacios Musica Joël Nauroy Suono Bernard Loublier, Christine Pansu Voci Catherine Palvadeau, Christophe Garcia Produzione, Distribuzione La Fabrique Production

Bernard Palacios

Haut pays des neiges

Land of the Snowy Mountains Francia, 1989, 10’ 30’’, col., animazione

L’alto paese delle nevi [t.l.] In Tibet una spedizione si prepara per catturare la strana creatura delle nevi, che vive isolata tra le montagne, mezza selvaggia, mezza addomesticata… insieme a un geometra. «Tutto è bello e semplice, in questo film che ha la freschezza dell’infanzia, opera di un grande». Pierre-Luc Granjon

Regia Jonathan Hodgson Soggetto dalla poesia The Man with the Beautiful Eyes di Charles Bukowski Sceneggiatura Jonathan Hodgson, Jonny Hannah Scenografia Jonny Hannah Animazione Lucy Hudson, Martin Oliver, Bunny Schlender, Kitty Taylor Suono Jonathan Hodgson Voci Peter Blegvad, Louis Schlender Produzione Sherbet Distribuzione Artificial Eye

Jonathan Hodgson

The Man with the Beautiful Eyes Gran Bretagna, 2000, 5’ 38’’, col., animazione – acquerello su carta

L’uomo dagli occhi bellissimi [t.l.] A dispetto delle raccomandazioni dei genitori, quattro ragazzini si spingono a giocare in una casa abbandonata. Un giorno dalla casa esce un uomo trasandato con una sigaretta e una bottiglia di whisky in mano, che abbaglia i bambini per l’intensità del suo sguardo. Egli diviene per loro un simbolo di tutto ciò che è forte, naturale e bello, un personaggio romantico in netto contrasto con la mentalità chiusa dei genitori e il mondo grigio degli adulti. «Dei bambini giocano vicino a una casa a cui è loro proibito avvicinarsi. Eppure è bello qui. Vorrà dire che gli adulti sono ciechi, o abbagliati? Un film di una poesia violenta, su un testo di Bukowski». Pierre-Luc Granjon

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carta bianca a Pierre-Luc Granjon

Roberto Catani

La funambola Italia • Francia, 2002, 6’, col., senza dialoghi, animazione

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio, Animazione, Scenografia, Fotografia Roberto Catani Musica Norman Roger, Denis Chartrand Suono Pierre Yves Drapeau Produzione Roberto Catani, Arte France Contatti roberto.catani@libero.it

La funambola Lettere impregnate di parole, la narrazione silenziosa della vita di una giovane donna. Amore, matrimonio e maternità, un sogno e un rifugio. Un flusso di memorie passa attraverso la mente della donna, un bisogno di chiarezza, mentre è ferma di fronte al mare con gli occhi chiusi. «Basta diventare funamboli anche noi, e lasciarci portare dal filo, in questo viaggio musicale in cui ogni cosa è in movimento e in trasformazione». Pierre-Luc Granjon

Suzie Templeton

Peter & The Wolf Gran Bretagna • Polonia • Norvegia • Messico, 2006, 32’, col., senza dialoghi, animazione – pupazzi, stop-motion

Pierino e il Lupo [t.l.] Pierino vive in un universo dominato dal Male. La lotta contro il Lupo è all’origine della sua trasformazione: da ragazzino piccolo e fragile, Pierino scopre la sua forza e diventa, con l’aiuto di alcuni amici, un vero e proprio eroe. Versione animata dell’opera per ragazzi composta da Sergej Prokofiev nel 1936. «Un Pierino e il Lupo senza narratore, perché l’immagine dice tutto e molto di più. Suzie Templeton ha saputo creare un’atmosfera fredda e ostile, eppure piena di vita. Duro ed entusiasmante insieme». Pierre-Luc Granjon

Regia Suzie Templeton Soggetto dal libretto di Sergej Prokofiev Sceneggiatura Suzie Templeton, Marianela Maldonado Fotografia Mikolaj Jaroszewicz Montaggio Tony Fish, Suzie Templeton Storyboard Dino Athanassiou Scenografia Wojciech Jaworski, Paulina Majda, Katarzyna Wasiela Musica Sergei Prokofiev Produzione Breakthru Films, Storm Films, See-ma-for Studios, Channel 4 Television, Storm Studios, TV Unam, Polish Film Institute Distribuzione BreakThru Films

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carta bianca a Pierre-Luc Granjon

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Animazione, Montaggio, Produttore Koji Yamamura Musica Sergej Prokofiev [arrangiamento di Hitomi Shimizu, come Syzygys] Suono Koji Kasamatsu Produzione Yamamura Animation Distribuzione Shochiku

Koji Yamamura

Kodomo no keijijougaku A Child’s Metaphysics

Giappone, 2007, 5’, col., senza dialoghi, animazione – disegno

La metafisica di un bambino [t.l.] Un’opera surreale che mostra con umorismo e un velo di tristezza come i bambini possano vedere il mondo e loro stessi. Protagonista è un bambino la cui testa è fatta di numeri; un bambino che gonfia la sua stessa testa e la prende sottobraccio; un bambino i cui occhi sono pesci; un bambino che non può parlare perché la sua bocca è una cerniera. «Al centro di questa serie di scenette, bambini a cui capitano molte cose, dalle più divertenti alle più inquietanti». Pierre-Luc Granjon

Regia Adrien Merigeau, Alan Holly Sceneggiatura Adrien Merigeau Montaggio Ross Murray, Alan Slattery Animazione Robbie Byrne, Rory Byrne, Fabian Erlinghauser, Joe Gamble, Sean McCarron, Tomm Moore Scenografia Jonas Till Hoffmann, Alan Holly, Adrien Merigeau Musica Martine Altenburger Suono Laurent Sassi Voci Rhob Cunningham, Alan Holly, John Morton, Paul Young Produzione Cartoon Saloon, Irish Film Board Distribuzione Network Ireland Television

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Adrien Merigeau, Alan Holly

Old Fangs Irlanda, 2009, 12’, col., animazione – inchiostro colorato su carta

Vecchie zanne [t.l.] La storia di un giovane lupo in viaggio con due amici nel cuore di una foresta, per provare a reinstaurare un rapporto con l’intimidatorio padre Old Fangs, che vive isolato in una capanna. Attraverso brevi flashback, il giovane lupo rievoca momenti della sua infanzia. «Una foresta (bella e stregata dai ricordi) attraversata per affrontare il padre, rimasto solo da molti anni. Un film calibratissimo, dai dialoghi sottilmente elaborati, graficamente magnifico». Pierre-Luc Granjon


carta bianca a Pierre-Luc Granjon

Atsushi Wada

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio, Animazione, Voce, Produttore Atsushi Wada Musica Luiz Kruszielski, Kyohei Takahashi Suono Kyohei Takahashi, Atsushi Wada Produzione Tokyo University of the Arts

Wakaranai Buta In a Pig’s Eye

Giappone, 2010, 10’ 10’’, col., senza dialoghi, animazione – disegno su carta

Nell’occhio di un maiale [t.l.] La bizzarra relazione tra un maiale, un cane e alcuni esseri umani. è possibile cancellare l’esistenza di un divario? «Atsushi Wada ha il dono di stupirci, con nostra delizia, portandoci nel suo mondo sonoro e visivo estremamente bislacco». Pierre-Luc Granjon

Jérémy Clapin

Palmipedarium Francia, 2012, 12’, col., senza dialoghi, animazione – computer grafica

Palmipedarium Simon conosce abbastanza bene le anatre. Fanno rumore, volano, nuotano e qualche volta rotolano anche. A volte però tutto diventa così confuso che Simon si perde...

Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Montaggio, Scenografia Jérémy Clapin Animazione Alexis Artaud, Jérémy Clapin Effetti visivi Jean-François Sarazin 3D Modeling, Texturing, Riggin, 3D Rendering Jean-François Sarazin, Alexandre Louvenaz, Hélène Emain, Floriane Hétru, Fabien Weibel, François Carrobourg, Quentin Piq Musica François-Eudes Chanfrault Suono Eric Lonni Produzione, Distribuzione Papy3d Productions

«Un bambino sospeso tra due mondi, e un’inquadratura finale che fa precipitare il film in uno dei due, in una 3D sobria e con una regia a perfetta misura del suo piccolo, cupo eroe». Pierre-Luc Granjon

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carta bianca a Pierre-Luc Granjon

Regia Bjørn-Erik Aschim, Sam Taylor Animazione Sam Taylor, Bjørn-Erik Aschim, Adam Hodgson, Alexander Petreski, Dante Zaballa, Geoff King, Hozen Britto, James Duveen, Jim Round, Kristian Antonelli, Tim McCourt, Wesley Louis Animazione 3D Max James van der Merwe Scenografia Bjørn-Erik Aschim Musica Box of Toys Audio Produzione, Distribuzione The Line Studi

Bjørn-Erik Aschim, Sam Taylor

Everything I Can See from Here Gran Bretagna, 2013, 7’, col., senza dialoghi, animazione – computer grafica

Tutto quello che posso vedere da qui [t.l.] Due amici giocherellano con un pallone da calcio insieme a un cane, quando improvvisamente un ospite inatteso si unisce al loro gioco con fatali risvolti. «L’atmosfera di periferia industriale che si sprigiona da questo film è semplicemente unica». Pierre-Luc Granjon

Regia, Sceneggiatura, Animazione Gianluigi Toccafondo Montaggio, Scenografia Massimo Salvucci Fotografia Massimo Salvucci, Sara Sponga Musica, Suono Stefano Pilia Interpreti Bruna Brunori, Luca Casali, Romina Giannotti, Aldo Palmetti, Gianfranco Rosini, Sara Rossini Produzione Les Films de l’Arlequin, Arte France, Archimede Films Distribuzione Les Films de l’Arlequin

Gianluigi Toccafondo

Briganti senza leggenda

Thugs with No Legend Francia • Italia, 2013, 14’ 39’’, col., animazione – pittura, live action

Briganti senza leggenda Nella campagna dei dintorni di Rimini, due briganti cercano di derubare una coppia di contadini. Ma questi, stanchi di essere sempre raggirati, decidono di vendicarsi architettando un piano diabolico. «Questa fiaba tradizionale, rivisitata dal talentuoso Gianluigi Toccafondo, che con tanta malizia altera la realtà, acquista le tonalità di un noir». Pierre-Luc Granjon

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Yossi Aviram

La dune The Dune

Francia • Israele/France • Israel, 2013, 87’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Yossi Aviram Fotografia/Cinematography Antoine Héberlé Montaggio/Editing Anne Weil, Francois Gedigier Scenografia/Set design Manu de Chauvigny, Boaz Katzenelson Costumi/Costume design Alexia Crisp-Jones, Li Alembic Musica/Music Avi Belleli Suono/Sound Antoine-Basile Mercier, Ashi Milo Interpreti/Cast Niels Arestrup (Reuven Vardi), Lior Ashkenazi (Hanoch), Guy Marchand (Paolo), Emma de Caunes (Fabienne), Moni Moshonov (Fogel), Jean-Quentin Chatelain (Jacques Audiberti), Mathieu Amalric (Moreau), Santo Lorenzon (Reggiani) Produttori/Producers Yaël Fogiel, Laetitia Gonzalez, Ayelet Kait, Amir Harel Produzione/Production Les Films du Poisson, Lama Films Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Le Pacte (Arnaud Aubelle), 5 rue Darcet, 75010 Paris, France, sales@le-pacte.com

Filmografia/Filmography La dune (The Dune, 2013) Paris Return (doc, 2009) Anna (short, 1999)

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La duna [t.l.] Hanoch ha un’officina dove ripara biciclette in una città in Israele e passa il tempo giocando a scacchi con il vecchio amico Fogel. Quando la moglie gli dice di essere incinta, capisce di non essere pronto per fare il padre. Nel frattempo, in Francia, l’ispettore Reuven Vardi è ormai al termine della carriera. Dopo un caso finito male, si sente depresso e pensa sia tempo di andare in pensione. Un giorno Hanoch compare in Francia, pedina discretamente Reuven, per poi dirigersi sulla costa mediterranea delle Lande. Lì viene ritrovato una mattina, muto e senza documenti. Reuven è chiamato sul posto per indagare. Ma il mistero dell’uomo che non parla è difficile da decifrare. Yossi Aviram (Gerusalemme, Israele, 1971), diplomato alla Sam Spiegel Film & Television di Gerusalemme, divide la sua carriera come direttore della fotografia e regista. Nel 1998, anno di Israele in Francia, partecipa a un progetto di scambio culturale con la FÉMIS (École nationale supérieure des métiers de l’image et du son) di Parigi. Nel corso delle quattro settimane trascorse in Francia, firma la regia del cortometraggio Anna (1999). Dopo molti documentari, tra cui Paris Return (2009), trasmesso da Arte nel marzo del 2010, The Dune è il suo primo lungometraggio. Nel 2013 il film ha vinto il premio come miglior debutto al festival internazionale di Haifa ed è stato presentato nella sezione New Directors al festival di San Sebastián. «Il film non è né un dramma né un poliziesco. Segue i movimenti di due uomini, Hanoch e Reuven, apparentemente sconosciuti tra loro, che di nascosto si studiano cercando di capire chi siano. Alla fine di un percorso fatto di diversi incontri e di silenzi, metteranno il punto a una pagina dolorosa delle loro vite. Ho voluto che la connessione tra la prima parte della storia in Israele e quella in Francia non fosse immediatamente chiara. Ciascuno dei personaggi svela un’interiorità complessa e altrettanto affascinante. Da un lato, il solido rapporto affettivo tra Reuven e Paolo, che pur nelle loro occasionali discussioni garantisce a Reuven la stabilità emotiva di cui ha bisogno. Dall’altro lato Hanoch, solitario e silenzioso. Reuven è un uomo stanco, ormai avanti negli anni, depresso e tormentato da un passato su cui non ha controllo. Il ruolo di Hanoch prevede, per la maggior parte del film, assenza di dialoghi. Eppure il suo sguardo silenzioso esprime tutta la tristezza e la nostalgia che solo ora tenta confusamente di indirizzare. The Dune è dedicato a Pierluigi e Reuven, già protagonisti del mio documentario del 2009, Paris Return, che è stato più di un motivo di ispirazione per il mio debutto nel lungometraggio di finzione».


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the dune Hanoch owns a bike repair shop in a town in Israel, filling his time playing chess with his old friend Fogel. When his wife tells him she’s pregnant, he realizes he’s not prepared to be a father. Meanwhile, in France, missing-persons investigator Reuven Vardi is about to put an end to his career. After a case ended up bad, he feels depressed and thinks it’s time to retire. One day Hanoch appears in France, discreetly trailing Reuven and then heading to the coast in the southwest Landes region. There, one morning, he’s found on the beach, mute and without ID. Reuven is called down to investigate. But the silent man’s mystery is difficult to crack. Yossi Aviram (Jerusalem, Israel, 1971), graduated from the Sam Spiegel Film & Television School of Jerusalem, splits his career between his work as a director of photography and his own films. In 1998, Year of Israel in France, he took part in a cultural exchange project with the FÉMIS (École nationale supérieure des métiers de l’image et du son) in Paris. During the four weeks he spent in France, he directed the short film Anna (1999). After several documentaries, including Paris Return (2009), broadcasted on Arte in March 2010, The Dune is his first feature film. In 2013, it won the Best Debut Award at Haifa IFF and was screened at San Sebastián IFF in the section New Directors. «The film is neither a drama nor a detective story. It follows the movements of two men, Hanoch and Reuven, apparently unknown to each other, who are secretly trying to figure out who they are. At the end of a path made up of several meetings and silences, they would put the point in a painful chapter of their lives. I wanted that the connection between the first part of the story in Israel and the one in France was not immediately clear. Every character exudes a complex interiority as well as fascinating. On one hand, the solidity of Reuven and Paolo’s relationship, though their occasional disagreements, which provides Reuven with the emotional solidity he needs. On the other hand Hanoch, lonely and silent. Reuven is a tired old man, advanced in years, depressed and haunted by a past over which he has no control. Most of Henoch’s role requires absence of dialogues. Yet his silent gaze calmly expresses the sadness and yearning that he is only just now confusedly addressing. The Dune is dedicated to Pierluigi and Reuven, former protagonists of my documentary of 2009, Paris Return, which was more than an inspiration for my helmer’s fiction debut». 19


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Jan Forsström

Silmäterä

The Princess of Egypt Finlandia/Finland, 2013, 89’, col.

Regia, Sceneggiatura, Montaggio/ Director, Screenplay, Editing Jan Forsström Fotografia/Cinematography Päivi Kettunen Scenografia/Set design Vilja Katramo, Okku Rahikainen Costumi/Costume design Kirsi Gum Musica/Music Lau Nau, Ornella Vanoni (Una ragione di più) Suono/Sound Micke Nyström Interpreti/Cast Emmi Parviainen (Marja), Luna Leinonen Botero (Julia), Mazdak Nassir (Kamaran), Ylva Ekblad (Karin), Miika Soini (Seppo), Bahram Peivastegan (Ali), Terhi Suorlahti (Leena) Produttori/Producers Kaarle Aho, Kai Nordberg Produzione, Distribuzione/ Production, Distribution Making Movies Oy Contatti/Contacts The Finnish Film Foundation (Jenni Domingo), Kanavakatu 12, FIN-00160 Helsinki, Finland, tel. +358 (9) 6220300, fax +358 (9) 62203060, ses@ses.fi, jenni.domingo@ses.fi

Filmografia/Filmography Silmäterä (The Princess of Egypt, 2013) Vaktmästaren (The Doorman, short, 2010) Painajaiset (Nightmares, short, 2006)

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La principessa d’Egitto [t.l.] Marja è una giovane madre single. Lavora di notte consegnando giornali e trascorre la giornata prendendosi cura della piccola Julia, la sua bambina. Questo è tutto il suo mondo, a cui si affaccia ora Karin, la nuova vicina di casa appena divorziata che cerca di fare amicizia con Marja. Un giorno la loro armonia è turbata dall’incontro con Kamaran, un immigrato curdo, brillante uomo d’affari, con cui Marja ha avuto una breve relazione anni prima. Kamaran intuisce di poter essere il padre di Julia e comincia a fare pressioni sulla donna. Mentre Julia capisce chi può essere quello strano signore, Marja diventa sempre più possessiva, sopraffatta dalla paura di perdere Julia e disposta a tutto pur di impedire che possano portarle via la bambina. Jan Forsström (Finlandia, 1975) è regista, sceneggiatore e montatore. Come sceneggiatore ha lavorato a diversi film che hanno ottenuto importanti riconoscimenti a livello internazionale: The Visitor di J.-P. Valkeapää (anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2008, Dragon Award come miglior film nordico al festival di Gothenburg nel 2009), Last Cowboy Standing di Zaida Bergroth (Flash Forward Award al festival di Busan e Finnish Jussi Award come miglior sceneggiatura nel 2009) e The Good Son, sempre di Zaida Bergroth (anteprima al festival di Toronto e Gold Hugo Award al festival di Chicago nel 2011), oltre a numerosi cortometraggi. The Princess of Egypt è il suo primo lungometraggio come regista. «Il film è ispirato a fatti realmente accaduti ed è una storia di amore materno e di xenofobia derivante dall’insicurezza, che gioca con i nostri pregiudizi. Ma fornisce anche una riflessione più ampia sulla precarietà dei tempi in cui viviamo. The Princess of Egypt ruota attorno ai temi della mancanza di opportunità lavorative all’alba della crisi economica mondiale e si sofferma ad analizzare una crisi individuale. La protagonista, Marja, cerca di far quadrare i conti, ma come madre single e senza uno stipendio fisso, per lei la vita è una difficoltà continua. L’innesco della spirale autodistruttiva nasce da un incontro casuale ed esplode in un insano ed eccessivo atto di autodifesa. Come la protagonista, anche il film opera su due piani: quello sociale, costruito sullo studio del personaggio e sul percorso di maturazione che racconta il dopo-crisi nello spirito del tempo, e quello psicologico, che ritrae invece un crollo personale, un disperato atto paranoico, quasi nello stile di un thriller o di un gangster movie».


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The Princess of Egypt Marja is a young single mother. She works at nights delivering newspapers and spends days taking care of her little daughter Julia. This is her whole world, which now faces Karin, a new neighbour freshly divorced who is attempting to get closer with Marja. One day the harmony of the pair is disturbed when they come across Kamaran, a Kurdish immigrant, successful businessman, and Marja’s old flame. Kamaran finds out that he can be Julia’s father and starts to pressure the woman. As Julia realizes who this strange man can be, Marja turns more and more possessive, overwhelmed by the fear of losing Julia and ready for anything, just to make sure that her daughter will not be taken away from her. Jan Forsström (Finland, 1975) is a screenwriter, director and editor. His works as a screenwriter include various films which received important international awards, such as: The Visitor by J.-P. Valkeapää (international premiere in Venice IFF 2008, Dragon Award for the Best Nordic Film in Gothenburg IFF 2009), Last Cowboy Standing by Zaida Bergroth (Flash Forward Award in Busan IFF and Finnish Jussi Award for best screenplay in 2009) and The Good Son, again by Zaida Bergroth (international premiere in Toronto IFF and Gold Hugo Award at Chicago IFF 2011), as well as numerous short films. The Princess of Egypt is his first feature film as a director. «The film is inspired by true events and it’s a story of a mother’s love and xenophobia stemming from in security, which plays with our own prejudices. But it also provides a broader reflection on the precariousness of the times in which we live. The Princess of Egypt focuses on the themes of lack of employment opportunities at the dawn of the global economic crisis and lingers on the analyzes an individual crisis. The protagonist, Marja, tryes to make ends meet, but as a single mother without a fixed salary, to cope with daily life is a question hard to solve. The trigger of the self-destructive spiral stems from a chance encounter and explodes into an insane and excessive act of self-defense. As the leading character, the film works on two levels: the social level, built on the study of the character and the maturation process that tells the post-crisis period in the spirit of the time, and the psychological level, which portrays a personal collapse, a desperate paranoid act, almost in the style of a thriller or a gangster movie». 21


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Vivian Goffette

Yam dam Belgio • Burkina Faso/Belgium • Burkina Faso, 2013, 77’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Vivian Goffette Fotografia/Cinematography Olivier Servais Montaggio/Editing Thierry Douley, Frédéric-Pierre Saget Scenografia/Set design Perrine Rullens, Gérard Feilleux Costumi/Costume design Nathalie Leborgne, Marine Stevens Musica/Music Gaspard Glaus Suono/Sound Alain Sironval, Pascal Jasmes Interpreti/Cast Fabio Zenoni (Christian), Clarisse Tabsoba (Faustine), Valérie Lemaître (Dominique), Christophe Serment (Michaël), Delphine Cheverry (Jackie), Pierre Dherte (Jean-Pierre), Vincent Grass (Freddy), Nicole Shirer (la signora/Mrs. Dethise), Robert Blanchet (Philippe), Isabelle Defossé (Manu) Produttori/Producers Karine De Villers, Stéphane Lhoest Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Cinéastes Associés, rue du Prince Royal 87, 1050 Brussels, Belgium, tel. +32 495 26870, karine.devillers@skynet.be, kdevroe@sacd_scam.be, www.facebook.com/yamdam2013

Filmografia/Filmography Le droit chemin [annunciato/announced] Yam dam (2013) Ceci n’est pas la Gaume (short doc, 2007) Le centre du monde (short, 2000) La carte postale (short, 1998) Bruder Martin (short, 1993)

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Yam dam Christian, veterinario di campagna, vive un’esistenza borghese piatta e monotona. Sposato e senza figli, coordina insieme alla moglie una piccola organizzazione di aiuti per l’Africa, di cui è anche presidente. Come via di fuga dal tran-tran quotidiano, la sera, passa le ore a navigare sul web, dove comincia a flirtare con giovani donne africane in cerca di una vita migliore. Un giorno, senza preavviso, si presenta alla porta del suo ambulatorio Faustine, una ventiseienne del Burkina Faso che pare aspettarsi qualcosa da lui. La circostanza impone a Christian non poco spirito di improvvisazione e un radicale ripensamento del suo stile di vita. Vivian Goffette (Belgio), laureato all’INSAS (Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et des Techniques de Diffusion) di Bruxelles nel 1994, lavora come sceneggiatore, operatore e assistente di regia per il cinema e la televisione. Parallelamente intraprende la carriera registica, firmando spot pubblicitari. Dopo il suo film di diploma, Bruder Martin (1993), nel 1998 dirige La carte postale, cortometraggio con cui ottiene numerosi riconoscimenti ai festival internazionali e una nomination all’Oscar nel 1999. Seguono Le centre du monde (2000) e Ceci n’est pas la Gaume (2007), breve documentario sulla sua città natale. Yam dam è il suo primo lungometraggio. Attualmente lavora alla sceneggiatura del suo secondo film, Le droit chemin. «Yam dam è la storia di un uomo che, senza rendersene conto, passa accanto alla vita, fino a quando l’incontro con Faustine non gli farà aprire gli occhi. Christian conduce una vita agiata, ha un lavoro che gli garantisce un reddito sicuro, ma che non ha mai davvero scelto. Su internet, ha la possibilità di vivere una «seconda vita», la vita che sogna. L’arrivo di Faustine è come l’invasione di un alieno. Per lui, Faustine, è come se non fosse mai realmente esistita, come fosse stata solo un’illusione, una fantasia. Un po’ come l’Africa che soffre, che conosciamo attraverso le immagini in tv, senza dovercene occupare nei fatti. Faustine riporta Christian violentemente alla realtà e tira fuori la sua vera natura. Il piccolo mondo di Christian non sarà più lo stesso dopo Faustine. Yam dam tratta quindi, in un certo senso, il tema della solidarietà, quanto siamo capaci di aiutare l’altro. Chi davvero, dopo un viaggio in Africa, è tornato a casa con la voglia di fare qualcosa di concreto? Magari ha anche chiesto, ingenuamente, ad amici e conoscenti, matite colorate e libri da dare ai bambini nei villaggi o agli angoli delle strade. Ma qui a casa, che cosa saremmo disposti a fare davvero? A cosa rinunceremmo?».


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Yam dam Christian, a provincial vet, lives a boring, dull middle-class life. Married and childless, he and his wife have set up a small charity to Africa association, which he presides. To break up the monotony of his life, Christian, at night, spends his idle hours surfing the web, where he starts flirting with young African women looking for a better life. One day, out of the blue, Faustine, a 26-year-old girl from Burkina Faso, turns up at his consulting room apparently waiting for something from him. This fact forces Christian to arrange himself up with a certain spirit of improvisation and to a radical rethinking of his lifestyle. Vivian Goffette (Belgium), after an education at the INSAS (Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et des Techniques de Diffusion) in Brussels, he works as a scriptwriter and director’s assistant on various movies and television films. At the same time, he started his directing career with commercials. After his diploma’s short film Bruder Martin (1993), in 1998 he directs La carte postale, which won numerous prizes in international festivals and was nominated in Oscars in 1999. Follow Le centre du monde (2000) and Ceci n’est pas la Gaume (2007), short documentary on his native region. Yam dam is his first feature film. Currently, he is writing the script of his second feature film, Le droit chemin. «Yam dam is the story of a man who pass nearby his life, almost without realizing it, until the encounter with Faustine will not make him open his eyes. Christian lives a comfortable life, has a job that guarantees him a comfortable income, but that he has never really chosen. On the web, he has the chance to live a «second life», the life he dreams about. The arrival of Faustine is like the invasion of an alien. For him, Faustine has never really existed, as if she was only an illusion, a fantasy. As the suffering Africa, which we know through the tv images, without having really to cope with it. Faustine gets Christian violently back to the reality and pulls out his true nature. Christian’s small world will never be the same after Faustine. Yam dam deals, in a certain way, with the question of solidarity, how able we are to help each other. Who really, after a trip to Africa, has returned back home with the desire to do something concrete? Maybe he has even asked, naively, to friends and acquaintances colored pencils and books to distribute to children in the villages or on the corners of the streets. But here at home, what would we be really willing to do? What would we sacrifice?». 23


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Bruce Goodison

Leave to Remain Gran Bretagna/Great Britain, 2013, 89’, col.

Regia/Director Bruce Goodison Sceneggiatura/Screenplay Bruce Goodison, Charlotte Colbert Fotografia/Cinematography Felix Wiedemann Montaggio/Editing Andrew Hulme Scenografia/Set design Chris Richmond Costumi/Costume design Emma Fryer Musica/Music Alt-J Suono/Sound Rowan Jennings, Callum Brewer Interpreti/Cast Toby Jones (Nigel), Noof Ousellam (Omar), Masieh Zarrien (Abdul), Yasmin Mwanza (Zizidi), Simon Meacock (l’assistente sociale/ the social worker), Tressy Nzau (Umi), Ebrahim Ismail Qorbat (Rafi), Melanie Wilder (Chloe), Jake Davies (Toby) Produttori/Producers Kate Cook, James Levison Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Indefinite Films, admin@leave2remain.org, www.leave2remain.org

Filmografia/Filmography Leave to Remain (2013) My Murder (tv, 2012) Bin Laden: Shoot to Kill (tv doc, 2011) Targeting Bin Laden (tv doc, 2011) 10 Days to War (tv series, 2008) Silent Witness (tv series, 2007) The Flight That Fought Back (tv doc, 2005) Sex, Footballers and Videotape (tv, 2004) Eminem’s Mum (tv, 2002) SAS: Iranian Embassy Siege (tv, 2002) Puff Daddy: Keeping It Real (tv doc, 2001) Tottenham 2 (tv series, 1998)

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Permesso di soggiorno [t.l.] Ogni anno centinaia di ragazzi approdano nel Regno Unito, da soli. Sono richiedenti asilo politico, reietti dai loro Paesi, costretti a imparare a sopravvivere a ogni costo. Nigel, un mentore profondamente impegnato, è l’insegnante e il patrocinatore di questi minori. Nella casa famiglia, tra gli altri, Zizidi, Omar e Abdul, un ragazzo afgano appena arrivato, cercano di rifarsi una vita. Proprio l’arrivo di Abdul è destinato a innescare una catena di eventi che rischia di mettere a repentaglio il futuro di quelli a lui più vicini. La speranza di ottenere un permesso di soggiorno per rimanere nel Regno Unito molto spesso è appesa al filo della storia che si sa raccontare. Bruce Goodison (Newcastle, Regno Unito, 1964), filmmaker e documentarista, dopo la laurea all’Università della Northumbria a Newcastle inizia la carriera registica. Tra i suoi film: Sex, Footballers and Videotape (2004) realizzato per Channel 4, Silent Witness (2007) e 10 Days to War (2008). The Flight That Fought Back (2005) ha ricevuto una nomination agli Emmy nel 2006. Dal 2005 al 2010 ha lavorato come direttore creativo per la società da lui stesso fondata, la Be Good Films. Nel 2009 ha creato la Indefinite Films per realizzare Leave to Remain. «Nel sentire raccontare le esperienze di questi adolescenti per la prima volta, ho fatto fatica a capire come dopo essere stati allontanati da tutto ciò che è a loro familiare, catapultati in una società del tutto aliena, abbiano ancora la fiducia di potersi rifare una vita. Mi sentivo in dovere di raccontare le loro storie. Nel riflettere come in uno specchio le vite di questi ragazzi, la mia speranza è che tutti noi possiamo imparare qualcosa sul paese che chiamiamo casa. Le loro storie possono dirci qualcosa di importante su noi stessi e il modo in cui trattiamo gli altri. Non sono subito riuscito a trovare il cast che volevo, e di certo non volevo mettermi in una caccia al talento in stile X Factor. Così ho iniziato a tenere dei corsi e ho individuato circa una dozzina o una ventina di giovani con le caratteristiche che cercavo. Abbiamo formato dei veri e propri attori, utilizzando una tecnica che si basava unicamente nell’aiutarli a capire la temperatura emotiva del film. Poi, con l’approssimarsi della fase produttiva, li abbiamo inseriti in una squadra di attori professionisti perché lavorassero insieme. Gli attori professionisti hanno dovuto “disimparare” alcuni dei loro vezzi attoriali e sono stati profondamente colpiti dal livello di disciplina da parte degli attori non professionisti nel cast».


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Leave to Remain Every year thousands of teenagers land in UK, alone. They are asylum seekers, cast away from their homes who have now learn to survive, at any cost. Nigel, a deeply committed mentor, is the teacher and personal supporter of these minors. At the shelter for homeless teens, amongst the others, there are Zizidi, Omar and Abdul, an Afghan boy newly arrived. His arrival sets off a chain of events that jeopardises the future of those closest to him. The hope to get a “leave to remain” to stay in the UK, often hinges on just how good a story you can tell. Bruce Goodison (Newcastle, United Kingdom, 1964), filmmaker of documentaries and drama’s, after an education at University of Northumbria at Newcastle starts his directing career. His works include Sex, Footballers and Videotape (2004) produced for Channel 4, Silent Witness (2007) and 10 Days to War (2008). His film The Flight That Fought Back (2005) was nominated for an Emmy in 2006. From 2005 up till 2010 he worked as creative director of a company founded by himself, Be Good Films. In 2009 he set up the Indefinite Films to make the movie Leave to Remain. «Learning about these teenagers’ experiences for the first time, I struggled to contemplate how they could be cast away from everything familiar to them, plunged into an alien society and jet expected to build a new life. I felt moved to tell their stories. By holding a mirror to the lives of these young people, I hope we can learn something about the country we call home. Their stories can tell us something important about ourselves, and the way we treat others. I couldn’t immediately find the cast I wanted, and certainly I didn’t want to get involved in an X Factor style hunt. So I started running courses and found somewhere between a dozen and twenty young people with the ability I was looking for. We trained the actors ourselves, using a technique that was all about helping them understand the emotional temperature of the film. Then, as production drew nearer, we feathered in a team of professional actors to work with them. The professionals had to “unlearn” some of their more actorly tics and they were profoundly impressed by the level of discipline from the “non-actors” in the cast». 25


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Valentin Hotea

Roxanne Romania • Ungheria/Romania • Hungary, 2013, 97’, col.

Regia/Director Valentin Hotea Sceneggiatura/Screenplay Valentin Hotea, Ileana Muntean Fotografia/Cinematography Alexandru Sterian Montaggio/Editing Eugen Kelemen Scenografia/Set design Mălina Ionescu Costumi/Costume design Cireşica Cuciuc Suono/Sound Tamás Zányi Interpreti/Cast Şerban Pavlu (Tavi), Diana Dumbravă (Roxana), Anghel Damian (Victor), Mihai Călin (Sandu), Adrian Văncică (Cretu), Corina Moise (Oana) Produttori/Producers Ada Solomon, Ioana Drăghici Produzione/Production Hi Film Productions, Cor Leonis Films, Abis Studio Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Films Boutique (Valeska Neu), Köpenicker Strasse 184, 10997 Berlin, Germany, tel. +49 (30) 69537850, fax +49 (30) 69537851, info@filmsboutique.com, www. filmsboutique.com Filmografia/Filmography Roxanne (2013) Fetele marinarului (Sailor’s Daughters, tv series, 2008) Serviciul omoruri (Homicide Squad, tv series, 2008) Călătorie de vis (Dream Trip, 2004) Roberta (tv series, 2000) Lucy Castle-Hotea (doc, 1996) D’ale Bucurestilor (doc, 1995) Meditaţia (short, 1994) Şi ce dacă? (short, 1992) Unde mergi tu, mielule? (short, 1990)

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Roxanne Bucarest, 2009. Venticinque anni dopo la rivoluzione rumena, Tavi Ionescu, trentacinquenne affabile ma ancora piuttosto immaturo per la sua età, chiede l’accesso al dossier redatto a suo carico dalla Polizia Segreta rumena, la Securitate, ai tempi del regime di Ceauşescu. Dalle carte, scopre che potrebbe essere il padre di un figlio che non sapeva di avere. Tavi inizia così una sua indagine privata, vittima di un passato complicato che si ripresenta ora con spiacevoli verità nascoste, rischiando di mettere a repentaglio la sua vita e quella delle persone a lui care. Forse per la prima volta, Tavi è costretto a una prova di maturità. Valentin Hotea (Bucarest, Romania, 1967), laureato in regia all’UNATC (National University of Theatre and Film I.L. Caragiale) di Bucarest nel 1995, ha diretto diversi cortometraggi, tra cui Unde mergi tu, mielule? (1990), Şi ce dacă? (1992), Meditaţia (1994) e due documentari − D’ale Bucurestilor (1995), Lucy Castle-Hotea (1996) −, oltre a numerosi videoclip e spot commerciali. Dal 2000 ha diretto alcune serie tv per la televisione nazionale (TVR), tra cui Serviciul omoruri (Homicide Squad, 2008) ed è stato direttore artistico per i primi episodi di Fetele marinarului (Sailor’s Daughters, 2008) prodotto da Antena 1. Roxanne è il suo esordio nel lungometraggio, presentato al festival di Locarno nel 2013 (Concorso Cineasti del presente). «Il film è ispirato a una storia realmente accaduta quando ero al liceo, nel 1985. Un giorno, cominciarono a sparire alcuni miei compagni di classe e un brivido freddo attraversò la scuola. La Polizia Segreta nazionale, la Securitate, conduceva così le sue verifiche: con prelevamenti forzati, perquisizioni e minacce. Un giorno toccò a me. Mi fecero salire in macchina e mi condussero alla stazione di polizia. Ciononostante, Roxanne non è un film teso, cupo, con il fumo della sigaretta e la luce della lampada puntata durante l’interrogatorio. La questione politica rimane in secondo piano. Gli anni Novanta in Romania, con la caduta del regime comunista, la deposizione di Ceauşescu e i movimenti di protesta di Piaţa Universităţii [Piazza dell’Univerità], sono stati anni in cui si dormiva molto poco. C’era un’energia incredibile, data dalla libertà appena conquistata. Nel film il passato si scopre poco a poco, seguendo il filo della verità, in modo semplice e onesto, senza rifuggire le emozioni o l’umorismo. Perché perdonare non significa dimenticare. Il titolo del film si ispira alla canzone dei Police: una canzone che per me era il segno di una possibilità di cambiamento. C’è molto della mia generazione in questo film».


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Roxanne Bucharest, 2009. Twenty years after Romanian Revolution, Tavi Ionescu, a 35-year-old nice but quite immature guy for his age, requests access to the file drawn up against him by the Romanian Secret Police (Securitate) during Ceauşescu’ regime. From the papers, he finds out that he could be the father of a son he didn’t know about. Then Tavi starts his own secret investigation, caught by a complicated past that now comes to reveal ugly hidden truths, messing up his life and the life’s of the ones close to him. For the first time in his life, Tavi is forced to take really mature decisions. Valentin Hotea (Bucharest, Romania, 1967), after graduating from the UNATC (National University of Theater and Film) in Bucharest in 1995, directed several short films, such as Unde mergi tu, mielule? (1990), Şi ce dacă? (1992), Meditaţia (1994) and two documentaries − D’ale Bucurestilor (1995), Lucy Castle-Hotea (1996) −, besides several music videos and commercials. From 2000 he started working for the national television (TVR), where he directed some tv series such as Serviciul omoruri (Homicide Squad, 2008) and was artistic director for the first episodes of Fetele marinarului (Sailor’s Daughters, 2008) produced by Antena 1. Roxanne is his feature film debut, screened at Locarno IFF 2013 (Concorso Cineasti del presente). «The film is inspired by a true story when I attended the high school, in 1985. One day, some classmates of mine began to disappear and a cold shiver went through the school. That was the way in which the national Secret Police, the Securitate, led his checks: with forced withdrawals, searches and threats. One day it was my turn. They made me get in the car and took me to the police station. Nevertheless, Roxanne is not a tense, gloomy film, with the cigarette’s smoke and the light of the lamp pointed at you during the interrogatory. The political question remains in the background. The Nineties in Romania, with the fall of the communist regime, the deposition of Ceauşescu and movements of protest of Piaţa Universităţii [University Square], were years in which we slept very little. There was an incredible energy, given by the newly-won freedom. In the film, the past is discovered gradually, following the thread of the truth, in a way very simple and honest, without shrinking from the emotions nor the humor. Forgiving doesn’t mean forgetting. The film’s title is inspired by the song by the Police: a song that for me was the sign of a possibility of change. There is a lot of my generation in this film». 27


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Marko Šantić

Zapelji me Seduce Me

Slovenia, 2013, 83’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Marko Šantić Fotografia/Cinematography Marko Kočevar Montaggio/Editing Jurij Moškon Scenografia/Set design Marco Juratovec Costumi/Costume design Marko Jenko Musica/Music Davor Herceg Suono/Sound Marjan Drobnič Interpreti/Cast Janko Mandić (Luka), Nina Rakovec (Ajda), Nataša Barbara Gračner (la madre di Luka/Luka’s mother), Dario Varga (Milan), Primož Pirnat (Blaz), Grega Zorc (Stane), Ljerka Belak (Milena) Produttore/Producer Mateja Smisl Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts RTV Slovenja – Drama Department (Barbara Daljavec), Kolodvorska 2, 1550 Ljubljana, Slovenia, tel. +386 (1) 4753184, fax +386 (1) 4753183, mateja.smisl@rtvslo.si, www.rtvslo.si

Filmografia/Filmography Zapelji me (Seduce Me, 2013) Očetova želja (Father’s Wish, short, 2010) Ništa osobno (Nothing Personal, short, 2009) Od električarja z ljubeznijo (From the Electrician with Love, short,​​ 2008) Rupa (The Hole, short, ​​2006) Sretan put Nedime (Good Luck Nedim, short, ​​2005)

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Seducimi [t.l.] Abbandonato dalla madre all’età di dieci anni, Luka finisce in un centro di assistenza giovanile. Nove anni dopo, ormai maggiorenne, se ne va intenzionato a scoprire dove sia sepolto il padre, morto quando lui era molto piccolo. Mentre cerca di avere risposte sul suo passato, Luka scopre uno scioccante segreto di famiglia: si sente tradito e trova nel rapporto con Ajda, una coetanea che ha conosciuto al lavoro, il suo unico conforto. Luka vorrebbe fare dei progetti con lei, ma la ragazza non vuole che la loro storia diventi qualcosa di più serio. Ajda, ferita in passato, non si fida più di nessuno e Luka presto scopre che anche lei, a sua volta, nasconde un segreto. Marko Šantić (Split, Croazia, 1983), diplomato all’Accademia di Teatro, Radio, Cinema e Televisione (AGRFT – Akademija za Gledališče, Radio, Film in Televizijo) di Ljubljana, è un giovane regista e sceneggiatore. Durante gli studi ha diretto due cortometraggi di finzione, entrambi presentati e premiati in numerosi festival internazionali. Dopo gli studi ha diretto altri cortometraggi e documentari. Seduce Me è il suo primo lungometraggio. Nel 2013 il film si è aggiudicato il premio come miglior regia allo Slovene Film Festival e una menzione speciale al festival internazionale di Varsavia. «Un giorno mi sono ritrovato tra le mani un romanzo che parlava di un ragazzo che lasciava un centro di assistenza giovanile per tentare di cavarsela da solo. L’ho letteralmente divorato. La storia mi aveva profondamente colpito e volevo sapere qualcosa di più sui ragazzi che vivono in queste strutture. Così ho incontrato diversi ragazzi e ragazze che mi hanno raccontato le loro storie, di come sono cresciuti senza i genitori e dei loro sforzi per conquistarsi una vita indipendente. Non avevo mai incontrato tanta sincerità e vulnerabilità prima di allora. Nel corso dei nostri incontri, mi sono accorto che le persone che avevo appena conosciuto avevano in mente solo una cosa: trovare qualcuno che li amasse davvero. La società li aveva stigmatizzati fin da subito, guardandoli dall’alto in basso. Per quanto il loro obiettivo, all’inizio, mi sembrasse banale, in seguito ne ho apprezzato l’importanza. La loro dedizione e il desiderio di conoscere qualcuno da amare, trovare una casa accogliente e sicura, mi aveva affascinato. Così ho capito di voler fare un film che parlasse di loro».


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Seduce Me Abandoned by his mother when he was ten, Luka ended up in a youth care centre. Nine years later, all grown up now, he decides to leave and find out where his father – dead when he was very little – is buried. While searching for answers from his past, Luka discovers a shocking family secret: he feels betrayed and finds his only solace in his relationship with Ajda, a girl he met at work. Luka would make plans with her, but she doesn’t want nothing more serious. Ajda, who has been hurt in the past, doesn’t trust people anymore and Luka soon finds out that she holds a secret as well.​​​​ Marko Šantić (Split, Croatia, 1983), graduated from the Ljubljana Academy of Theatre, Radio, Film and Television (AGRFT – Akademija za Gledališče, Radio, Film in Televizijo) is a young film director and screenwriter. During his studies he made two short features, both of them screened and awarded at numerous international film festivals. After finishing his studies he made others short features and documentaries. Seduce Me is his first full-length feature film. In 2013, it got the Best Director Award at the Slovene Film Festival and a Special Mention at Warsaw IFF. «One day a novel about a young man who leaves a youth care centre, and starts to fend for himself, came into my hands. I devoured it. The story touched me immensely and I wanted to know more about the young people from these centres. Thus I met several young men and women, who told me their stories about growing up without parents and about their efforts to lead independent lives. I never encountered so much sincerity and vulnerability before. During our meetings, I noticed that my new acquaintances have only one goal in mind: to find someone who will truly love them. Society stigmatised them from the very beginning by looking down on them. Although their goal seemed banal to me at first, I later realised its greatness. Their devotion and desire to meet a loving person and find a warm and safe home fascinated me. So I realized that I wanted to make a movie about them». 29


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Jim Taihuttu

Wolf Olanda/The Netherlands, 2013, 122’, bn/b&w

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Jim Taihuttu Fotografia/Cinematography Lennart Verstegen Montaggio/Editing Wouter van Luijn Scenografia/Set design Lieke Scholman Costumi/Costume design Minke Lunter Musica/Music Gino Taihuttu Interpreti/Cast Marwan Kenzari (Majid), Nasrdin Dchar (Hamza), Raymond Thiry (Ben), Chemseddine Amar (Adil), Cahit Ölmez (Hakan), Bo Maerten (Tessa), Steef Cuijpers (Voorman), Slimane Dazi (il contrabbandiere d’armi/ the weapon trader), Jacob Derwig (l’assistente sociale/ the social worker) Produttore/Producer Julius Ponten Produzione Habbekrats Distribuzione, Contatti Movies Inspired (Stefano Jacono), stefano.jacono@moviesinspired.com, www.moviesinspired.com

Filmografia/Filmography Wolf (2013) Rabat [co-regia/co-director Victor Ponten] (2010) Dominique (short, 2010) Wolken #2 (short, 2009) Caresse (short, 2009) Wladimir (short, 2007)

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Lupo [t.l.] Majid è un talentuoso kickboxer cresciuto in un anonimo sobborgo olandese. Dopo un periodo trascorso in carcere, cerca di rimettere in sesto la sua vita quando il proprietario di una palestra, Ben, decide di prenderlo sotto la sua custodia. Majid detesta il lavoro onesto ma sottopagato che ha e sul ring si trasforma in modo ferocemente brutale, determinato a guadagnare denaro extra per pagare le cure mediche al fratello maggiore, Hamza. Mentre la sua abilità nel combattimento lo porta a una crescente notorietà, dentro e fuori dal ring, il mondo della kickboxing e quello della criminalità organizzata iniziano a confondersi. Quando il boss della mafia turca Hakan dimostra interesse nelle sue doti, Majid comincia a perdere di vista ciò che davvero vuole. Jim Taihuttu (Venlo, Olanda, 1981) è co-fondatore e titolare di una casa di produzione indipendente, la Habbekrats, che si pone all’intersezione tra cinema, pubblicità e cultura contemporanea. Con il suo primo lungometraggio, Rabat (2010), co-diretto con Victor Ponten, oltre ai numerosi cortometraggi di successo e video musicali, Jim Taihuttu appartiene a un’avanguardia di giovani registi che guardano oltre i confini nazionali per attrarre l’attenzione di nuovo pubblico. Wolf è il primo debutto da solista, presentato in competizione al Netherlands Film Festival e al Fantastic Fest di Austin (USA). Il film ha vinto il premio della giuria giovani al festival di San Sebastián. «Majid è un ragazzo come tanti, figlio di immigrati marocchini, cresciuto con il mito della ricchezza a tutti i costi, pur di dimostare di essere qualcuno, di potercela fare. Ma sotto i muscoli, è vulnerabile e sensibile. Nella storia di Majid vedo una connessione con il processo di isolamento e disparità innescato dalla nostra società. Abbiamo lasciato che i rapporti umani andassero alla deriva, abbandonando i giovani al loro destino, disillusi e tagliati fuori dalle convenzioni sociali. Ragazzi che pensano “Chissenefrega, tanto quello che faccio non importa a nessuno. Se sbaglio sono solo affari miei”. Ho conosciuto ragazzi che appena usciti di prigione non avevano nessuna alternativa se non tornare a delinquere, sapendo di non poter mai avere un lavoro né la possibilità di migliorare la propria vita. Uno di loro mi ha detto che mentre era in carcere pensava solo a come non farsi beccare di nuovo la prossima volta. Chi tenta di redimersi, per lo più fallisce. Come in Carlito’s Way, quando Al Pacino uscito di prigione vuole rigare dritto ma invece ci ricasca. Ci sarà sicuramente chi dirà che il film inneggia al crimine o quantomeno fornisca l’esempio sbagliato. Certo il film non fornisce risposte o soluzioni, ma di sicuro aiuta a riflettere e a capire».


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Wolf Majid is a talented kickboxer from an anonymous suburb in The Netherlands. After a stint in prison, he is looking to put his life back on the right track when gym owner Ben takes him under his wing. Majid loathes the honest but low-paying work he does and in the ring turns brutal, wanting to earn extra money to help pay medical care for his eldest brother Hamza. As his fighting prowess brings him increasing notoriety in and outside the ring, the worlds of kickboxing and organized crime begin to blur into each another. When the Turkish mafia boss Hakan shows interest in his skills, Majid begins to lose sight of what he really wants. Jim Taihuttu (Venlo, The Netherlands, 1981) is co­founder and owner of the independent production company Habbekrats, which flourishes at the intersection of cinema, advertising and contemporary culture. With his first feature, Rabat (2010), co-directed with Victor Ponten, and many successful short films and music videos behind him, Jim Taihuttu is part of an avanguard of young directors who look outside their national boundaries to attract new audiences to their work. Wolf is his first solo feature debut, screened in competition at the Netherlands Film Festival and at the Fantastic Fest in Austin (USA). The film won the Youth Award at San Sebastián IFF. «Majid is a common young, son of Moroccan immigrants, grew up with the myth of wealth at all costs to demonstrate to be somebody, to make it up. But underneath the muscles, he is vulnerable and sensitive. In the story of Majid I find a connection with the process of isolation and inequality triggered by our society. We have let human relationships go adrift, abandoning young people to their fate, disillusioned and cut off from social conventions. Guys who think “Who cares. What I do does not matter to anyone. If I fail, I’m the one who cares”. I met guys who have just come out of prison with no alternative but to return to crime, knowing that they could never have a job or the opportunity to improve their lives. One of them told me that while he was in prison he couldn’t stop thinking about how not to get caught again the next time. Who tries to redeem himself mostly fails. As it happens in Carlito’s Way, when just released from prison Al Pacino wants to go straight but instead falls back. For sure, someone will say that the film praises the crime or at least provide the wrong example. Of course, the film does not provide answers or solutions, but it really helps to reflect and understand». 31


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Kalté

1, 2, 3... Kino Club Kino Club terza edizione: la sezione dedicata a bambini e ragazzi di Bergamo Film Meeting cresce insieme ai suoi piccoli, grandi spettatori. Un percorso iniziato tre anni fa, per permettere anche ai giovanissimi di partecipare al festival, vivere un’esperienza fuori dall’ordinario, condividere una passione, quella per il cinema, che non può essere solo un privilegio riservato agli adulti. La proposta di Bergamo Film Meeting si fa, di anno in anno, sempre più vivace e articolata, ricca di spunti di coinvolgimento e approfondimento, di percorsi di visione e di esperienze pratiche, e la risposta da parte delle scuole, dei bambini e dei ragazzi, cresce di conseguenza. Non possiamo che dirci soddisfatti nel vedere la sala gremita di giovanissimi spettatori che si divertono e fanno domande, curiosi di scoprire il mondo immaginario del cinema attraverso film “d’autore”, che difficilmente passano in televisione o in sala, o di constatare la partecipazione a laboratori e workshop, dove anche i più piccoli possono sperimentare e capire le tecniche e i segreti grazie ai quali si realizza un film. Per questa trentaduesima edizione, Bergamo Film Meeting propone una rassegna cinematografica, dedicata alle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, con alcuni cortometraggi dell’animatore francese Pierre-Luc Granjon, a cui il Festival dedica la personale completa, una selezione di corti d’animazione da tutta Europa – piccoli capolavori che hanno partecipato e/o sono stati premiati a festival internazionali – un breve film d’animazione, realizzato dai bambini grazie alla collaborazione tra l’associazione Avisco e gli Spedali Civili di Brescia e un lungometraggio, destinato agli adolescenti, che racconta attraverso immagini d’archivio come è nato il concetto di “teenager”, nel secolo scorso. E ancora, si conferma anche quest’anno l’iniziativa “Una giornata particolare”, riservata agli studenti delle scuole superiori, a cui viene offerta l’opportunità di partecipare alle proiezioni mattutine del festival, per vedere i grandi classici e le rarità delle retrospettive storiche, Dirk Bogarde e “Ma papà ti manda sola?”. Sempre l’associazione Avisco di Brescia – che da oltre venticinque anni si occupa di audiovisivi in ambito socio-educativo – propone un laboratorio tecnico di approccio al cartone animato, “Telepongo”, riservato a ragazzi tra i dieci e i quattordici anni, che realizzeranno brevi film d’animazione in stop-motion, utilizzando la plastilina. Infine, Vincenzo Gioanola, figura tra le più rappresentative nel panorama del cinema d’animazione italiano, terrà un workshop di disegno diretto su pellicola 35mm, rivolto a tutti gli appassionati di cinema dai diciassette anni in su, agli studenti degli Istituti d’Arte, delle Accademie di Belle Arti e delle Scuole di Cinema. Il cinema è un linguaggio universale, a cui tutti possono accedere, bambini, ragazzi e adulti, sperimentandone le tecniche e i meccanismi o, semplicemente, gustandosi un bel film. 182


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Matt Wolf

Teenage USA • Germania, 2013, 78’, bn • col.

Adolescente [t.l.] Gli adolescenti non sono sempre esistiti, sono stati inventati. Se prima un individuo passava direttamente dall’essere bambino all’essere adulto, con il passaggio culturale della rivoluzione industriale, che ha modificato il corso della storia di tutto il mondo, il concetto di una nuova generazione ha preso forma. Il film è una riflessione sulla genesi della cultura giovanile, attraverso anni di lotte tra il primo decennio e la metà del Novecento, in un collage di raro materiale d’archivio, filmati storici e pagine di diario lette da Jena Malone, Ben Whishaw, Julia Hummer e Jessie Usher. Matt Wolf (San José, California, 1982) è uno dei venticinque volti nuovi del cinema indipendente americano secondo «Filmmaker Magazine», insignito del prestigioso Guggenheim Fellow nel 2010. Il suo acclamato documentario Wild Combination (2008) sul violoncellista d’avanguardia Arthur Russell, presentato in anteprima alla Berlinale, è stato incluso nella Top 10 dei migliori film del 2008. Ha inoltre prodotto e diretto documentari brevi per il «New York Times», tra cui la recente collaborazione Op-Doc (un forum per cortometraggi e “opinionated documentaries” realizzati da artisiti e registi indipendenti) con Jon Savage dal titolo The Role of Youth, parte della serie tv High Line Stories per Sundance Channel. «Quando ho letto Teenage, il libro di Jon Savage, sono stato catturato dall’intensità delle sue biografie mescolate con le storie nascoste riguardanti una delle mie ossessioni: la cultura giovanile. La scrittura di Jon è ispirata al punk e io volevo che anche il mio film lo fosse. Il collage vivente diventa una sorta di filosofia creativa per la realizzazione di Teenage. Abbiamo assemblato frammenti di cultura giovanile del passato per farne un’opera contemporanea documentaria creativa. Materiale d’archivio, filmati amatoriali, lungometraggi e fotografie sono uniti con altri ritratti, recentemente realizzati. Queste scene, dallo stile home movie, portano a un’interpretazione emotiva della storia. Jon e io, abbiamo scelto di esprimere le idee dal punto di vista dei giovani, invece di spiegare questa storia culturale. Abbiamo messo insieme citazioni di centinaia di diari e fonti per creare una narrazione soggettiva che contrastasse le voci autoritarie di adulti in cinegiornali e titoli. Questo stile narrativo rispecchia la tensione generazionale che guida la storia, e spero che aiuti gli spettatori a ricordare i sentimenti turbolenti della propria ribellione adolescenziale. […] Teenage è dedicato ai giovani di ogni generazione che continuano a reimmaginare il futuro».

Regia Matt Wolf Soggetto dal libro Teenage: The Creation of Youth 1845–1945 di Jon Savage Sceneggiatura Matt Wolf, Jon Savage Fotografia Nick Bentgen Montaggio Joe Beshenkovsky Musica Bradford Cox Scenografia Inbal Weinberg Costumi Tere Duncan Con Brenda Dean Paul, Leah Hennessey Melita Maschmann, Ivy Blackshire, Daniela Leder, Tommie Scheel, Ben Rosenfield, Warren Wall, Malik Peters Voci Jena Malone, Ben Whishaw, Julia Hummer, Jessie Usher Produttori Ben Howe, Kyle Martin Produzione Cinereach Distribuzione The Works Film Group Contatti Fairgate House, 78 New Oxford Street, WC1A 1HB London, UK, tel. +44 207 6121080 Filmografia Teenage (doc, 2013) I Remember: A Film About Joe Brainard (short doc, 2012) The Role of Youth [ep. di High Line Stories] (tv series doc, 2011) Wild Combination: A Portrait of Arthur Russell (doc, 2008) Smalltown Boys (short, 2003) Golden Gums (short, 2002)

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Regia, Animazione, Montaggio, Suono Simonetta Paris, Marco Spini, Giuseppina Zizzo, Loredana Poli, Valeria Nervi, Stefano Arzuffi, Laura Enriello, Maria Immacolta Piccolo, Lara Bogataj, Meri Valenti, Matteo Ninni, Silvia Dolci, Miriam Eise, Astrid Serughetti, Elena Valsecchi, Paola Cortinovis Supervisione Vincenzo Beschi, Silvia Palermo, Irene Tedeschi (Associazione Avisco – AudioVisivoScolastico) Produzione, Distribuzione Bergamo Film Meeting Onlus, Associazione Avisco – AudioVisivoScolastico

Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Montaggio Reda Bartkute Animazione Reda Bartkute, Darija Ciuzelyte Musica Jonas Jurkunas Suono Andrius Kauklys Produttore Rasa Jonikaite Produzione, Distribuzione JoniArt Contatti reda.tomingas@gmail.com

AA.VV.

Variazioni sul quadrato Italia, 2014, 3’ 25’’, col., animazione – tecnica mista

Variazioni sul quadrato Quattro animazioni che prendono spunto dalla forma del quadrato per esplorare diverse tecniche in stop motion: carta ritagliata, disegno in fase, silhouette, materiali vari. Animazioni realizzate durante il Corso di cinema d’animazione in contesto socio-educativo “Eppur si muove”, a Bergamo, da ottobre a dicembre 2013.

Reda Bartkute

Kalté Lituania, 2013, 5’ 22”, col., animazione – grafica 2D

Colpa [t.l.] Una volpe solitaria si isola dal mondo per godere dei piaceri dell’essere tormentati dal senso di colpa. Ma, con il passare dei giorni, anche il suo spazio personale viene invaso e la determinazione inizia a vacillare. La volpe deve scegliere tra la follia e la riconciliazione. Kalté racconta la storia di una volpe solitaria che vuole isolarsi dal resto del mondo. Nel suo isolamento, è torturata da una presenza: la personificazione del suo senso di colpa. Ma non è facile per lei trovare la solitudine e rinunciare a se stessa per i suoi fantasmi interiori, quando il mondo esterno continua a bussare alla sua porta con rumori e immagini. La giovane volpe deve quindi decidere se perdersi per la sua follia solipsistica, o accettare il suo percorso di riconciliazione. È un lavoro ermetico, fatto di associazioni e riferimenti intrecciati. In stile deliberatamente antinarrativo e rigorosamente basato su un cambiamento di prospettive (interno/esterno). Kalté è un’animazione fatta di accattivanti sequenze oniriche. (Andrea Lavagnini)

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Martin Georgiev

7596 Frames

Regia, Sceneggiatura, Produttore Martin Georgiev Musica Pistamashina

Bulgaria, 2012, 4’ 55’’, bn, animazione – grafica 3D

7596 fotogrammi [t.l.] Nel mondo geometrico in bianco e nero qualcosa nasce da una particella e inizia la sua esistenza nell’indefinito. Le scelte modelleranno la sua forma, e la sua forma modellerà le scelte. Un paesaggio bizzarro, fatto solo di forme a blocchi neri, imposta uno sfondo con strisce e oscillazioni e si trascina verso una direzione. Anche se non umanoide, la forma dà agli spettatori una perfetta lezione di movimento, come i suoi cambiamenti contro il torrente magnetico di cubi che si attaccano a esso alternandone la sagoma.

Andres Tenusaar

Kolmnurga afäär The Triangle Affair

Estonia, 2012, 10’, col., animazione − pupazzi

L’affare del triangolo [t.l.] Un triangolo senza angoli, questa cosa non esiste. Non più di una direzione senza triangolo, o di un movimento senza direzione.

Regia, Sceneggiatura, Montaggio, Scenografia Andres Tenusaar Fotografia Robert Linna Animazione Andres Tenusaar, Marili Toome Musica Taavi Kerikmäe Suono Tiina Andreas Produttore Andrus Raudsalu Produzione Nukufilm Oü Distribuzione Kerdi Oengo Contatti Nukufilm, Niine 11, 10414, Tallinn, Estonia, tel. (0) 6414 307, nukufilm@nukufilm.ee

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Carlo Vogele

Una furtiva lagrima Lussemburgo, 2011, 3’, col., animazione − pixilation

Regia, Produttore Carlo Vogele Musica Gaetano Donizetti (voce di Enrico Caruso) Riprese subacquee Mark Primo Miller Produzione Carlo Vogele Production Distribuzione, Contatti Autour de Minuit, 21 rue Henry Monnier, 75009 Paris, France, tel. +33 1428117 28

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Una furtiva lacrima [t.l.] Requiem per un pesce che canta il suo ultimo viaggio, dalla vendita alle fiamme inesorabili della cucina. «Ho girato il film nel mio appartamento di San Francisco, nel 2011. Utilizzare la propria cucina come un set cinematografico ha certamente i suoi lati negativi, come ad esempio quello di lavorare con pesci morti, lo immaginerete. E no, non ho finito di mangiare il pesce. Dopo diversi viaggi dentro e fuori dal freezer ero felice di gettare quel figlio di puttana puzzolente nella spazzatura. Questo è stato, fino a quando, la settimana seguente, sono stato estremamente odioso ed esigente nella scelta di un altro persico trota, per recitare la scena successiva».


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Cartoni animati in... corsia! Coordinatore del progetto Vincenzo Beschi Operatori dei laboratori di cinema d’animazione Vincenzo Beschi, Sandra Cimaschi, Silvia Palermo, Irene Tedeschi Montaggio, Suono Silvia Palermo, Irene Tedeschi Produzione Associazione Avisco – AudioVisivoScolastico, in collaborazione con l’Ospedale dei Bambini – Spedali Civili di Brescia

Il progetto ha visto la partecipazione di un centinaio di bambini e bambine, ragazze e ragazzi dai quattro ai diciassette anni – dei reparti di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Oncoematologia pediatrica, Chirurgia pediatrica, Ortopedia e Traumatologia pediatrica, Otorinolaringoiatria pediatrica e Pediatria – che hanno ideato, costruito con la carta strappata e animato tante storie: alcune brevissime, inventate e subito trasformate in cartone animato, altre ispirate da alcune filastrocche che i giovani autori hanno fatto proprie realizzando i personaggi, ideando le animazioni e registrando il testo. Produrre un film d’animazione è un’attività molto coinvolgente, che favorisce la socializzazione e il benessere, aiuta a dare corpo e voce al proprio mondo interiore, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Il laboratorio, caratterizzato da un approccio ludico, stimola la creatività e la consapevolezza di sé e crea uno spazio in cui incontrare gli altri, aiutando il bambino ospedalizzato e la sua famiglia a vivere l’ambiente e il tempo della degenza come occasioni di divertimento e apprendimento, oltre che di cura. 187


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Pezzetti Italia, 2014, 9’ , col., animazione della carta [realizzato dai giovani pazienti animatori dei sei reparti coinvolti nel progetto] Un cartone animato fatto di tanti pezzetti… di cartoncino colorato, di storie, di stanze, di vite.

Conta delle case Italia, 2014, 2’5”, col., animazione della carta [animazioni di Haider, Giulia, Antonia, Valentina, Giordano, Shyfu, Noura] Ispirato dall’omonima conta di Sabrina Giarratana, il breve film racconta delle case: quelle nascoste in ogni dove.

L’elefante Italia, 2014, 1’49”, col., animazione della carta [animazioni di Amra, Gloria, Asia, Tomas, Morgana, Nicola, Gianpaolo, Benedetta, Annalisa, Oumayma, Mohamed, Jacopo] Credete di sapere come è fatto e di che colore è un elefante? Guardando questo cartone animato ispirato alla filastrocca di François David scoprirete che non è affatto così!

Se fossi… Italia, 2014, 1’, col., animazione della carta [animazioni di Anna, Leonardo, Angelo, Samuel, Giada, Nicole, Ali Sadman, Ali Sadjida, Alessandro] Da una poesia in rima della tradizione popolare nasce un film d’animazione brulicante di animaletti.

Domande Italia, 2014, 30”, col., animazione della carta [animazioni di Andrea #1, Alice, Andrea #2] Un giorno un tale fece una strana domanda a Gianni Rodari, che gentilmente gli rispose per le rime.

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L’omino della gru Italia, 2014, 1’47”, col., animazione della carta [animazioni di Vitali, Tommaso, Giacomo, Alice, George, Nikola, Annalisa, Valentina, Federico, Axel, Rita, Aurora, Aicha] Il fascino dei mestieri dei grandi che, coraggiosi, affrontano ogni tipo d’avventura. A ciascuno il suo preferito… dipende dai punti di vista.

Facce, facce e facce Italia, 2014, 3’, col., animazione della carta

[animazioni di Asia, Chiara, Micol, Brigitte, Maria Sara, Chiara, Antonia, Silvia, Andrea, Vincenzo, Daniel] Variazioni sul tema della faccia. Forme, colori e dimensioni sempre diversi si scompongono e ricompongono in tanti volti quanti sono gli autori.

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indici Indices

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indici Indices

INDICE DEI REGISTI INDEX TO DIRECTORS A AA.VV., 184, 188-189 Anspach, Sólveig, 56-68 Aschim, Bjorn-Erik, 180 Asquith, Anthony, 133 Aviad, Michal, 34 Aviram, Yossi, 18 B Bakhtari, Taj Mohammad, 45 Bartkute, Reda, 184 Bennett, Compton, 127 Bogdanovich, Peter, 162 Borges, Sylvia, 101 Browning, Tod, 108 C Capra, Frank, 153 Catani, Roberto, 177 Clapin, Jérémy, 179 Clayton, Jack, 141 Covelli, Alfredo, 35 Crichton, Charles, 125 Cukor, George, 110 D Dearden, Basil, 124, 126, 134, 136 De Lillo Antonietta, 74-88 De Palma, Brian, 165 Devigne, Floriane, 36 E Egoyan, Atom, 106 F Fassbinder, Rainer Werner, 145 Ferrario, Davide, 107 Forsström, Jan, 20 G Georgiev, Martin, 185 Gilbert, Lewis, 129, 135 Goffette, Vivian, 22 Goodison, Bruce, 24 Granjon, Pierre-Luc, 171175

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H Haley, Thomas, 37 Hamzavi, Talkhon, 101 Hausner, Jessica, 94-99 Hawks, Howard, 156, 158 Hodgson, Jonathan, 176 Holly, Alan, 178 Hotea, Valentin, 26 I Isaacs, Marc, 38 J Javorac, Dajan, 39 K Karwowska, Marta, 102 Kern, Sara, 102 L La Cava, Gregory, 157 Lanciaux, Antoine, 174 Layton, Bart, 40 Leacock, Philip, 131 Leisen, Mitchell, 154 Le Nôtre, Pascal, 173 Lindgren, Ida, 103 López Carrasco, Luis, 42 Losey, Joseph, 128, 138, 139, 142 M Magliulo, Giorgio, 74, 75, 76 Marre, Emmanuel, 41 Merigeau, Adrien, 178 Molinaro, Édouard, 109 N Neame, Ronald, 137 Nikolić, Dragan, 44 P Pakalnina, Laila, 43 Palacios, Bernard, 176 Pedersen, Jens, 45 Polanski, Roman, 164 Q Quine, Richard, 160 R Resnais, Alain, 144 Rindelaub, Britta, 47

S Šantić, Marko, 28 Schlesinger, John, 140 Slijepčević, Nebojša, 46 Sortino, Gianmaria, 100 Sturges, Preston, 159 Sutti, Valentina, 103 T Taihuttu, Jim, 30 Taylor, Sam, 180 Templeton, Suzie, 177 Tenusaar, Andres, 185 Thomas, Ralph, 130, 132 Toccafondo, Gianluigi, 180 Truffaut, François, 161 Tully, Montgomery, 123 V Visconti, Luchino, 143 Vogele, Carlo, 186 W Wada, Atsushi, 179 Wellman, William A., 155 Wolf, Matt, 183 Y Yamamura, Koji, 178 Z Zoratti, Carlo, 48


indici indices

INDICE DEI FILM INDEX TO FILMS 5th Avenue Girl/Ragazza della Quinta Strada (La), 157 7596 Frames, 185 A Accident/L’incidente, 142 Adam’s Rib/Costola di Adamo (La), 110 American Dreamer, 37 Angelo Novi fotografo di scena, 76 Anne et les tremblements, 66 Automne de Pougne (L’), 174 B Ball of Fire/Colpo di fulmine, 158 Barbara, tu n’es pas coupable, 57 Bell, Book and Candle/Strega in paradiso (Una), 160 Belle fille comme moi (Une)/ Mica scema la ragazza!, 161 Boys in Brown, 123 Blue Lamp (The)/Giovani uccidono (I), 124 Briganti senza leggenda, 180 Bringing Up Baby/Susanna, 156 C Carrie/Carrie – Lo sguardo di Satana, 165 Casa in bilico (Una), 74 Cast a Dark Shadow/Poltrona vuota (La), 129 Četrdesmit divi/Forty Two, 43 Château des autres (Le), 171 Chaumière/Rooms Without a View, 41 Civica Educazione, 100 Clownmedicin, 103 Conta delle case, 188 D Darling, 140 Dayana Mini Market, 36 Despair, 145 Desperate Moment/Disperati (I), 127 Devil’s Knot/Devil’s Knot – Fino a prova contraria, 106 Doctor at Sea/ Incontro a Rio, 130 Domande, 189 Dune (La)/Dune (The), 18

E Elefante (L’), 188 Enfant sans bouche (L’), 172 Été de Boniface (L’), 174 Everything I Can See from Here, 180 F Facce, facce e facce, 189 Faux tableaux dans vrais paysages islandais, 63 Fearless Vampire Killers (The)/Per favore, non mordermi sul collo, 164 Flora, 94 Funambola (La), 177 Furtiva lagrima (Una), 186 Futuro (El)/Future (The), 42 G Gangster te voli/Gangster of Love, 46 Gentle Gunman (The), 126 Götterdämmerung/Caduta degli dei (La), 143 Grosse bête (La), 175 H Hands Across the Table/ Milioni della manicure (I), 154 Haut les coeurs!, 59 Haut pays des neiges, 176 Hiver de Léon (L’), 173 H.M.S. Defiant/Ponte di comando, 135 Hotel, 97 Hunted/Colpa del marinaio (La), 125 I I Could Go On Singing/Ombre sul palcoscenico, 137 Imposter (The)/Imposter – L’impostore (The), 40 Inter-View, 95 It Happened One Night/ Accadde una notte, 153 K Kalté, 184 King & Country/Per il re e per la patria, 139 Kodomo no keijijougaku/ Child’s Metaphysics (A), 178 Kolmnurga afäär/Triangle Affair (The), 185

L Lady Eve (The)/Lady Eva, 159 Layla’s Melody, 45 Leave to Remain, 24 Libel/Diavolo nello specchio (Il), 133 Loin des yeux/Out of Sight, 47 Louise Michel, la rebelle, 65 Loup blanc (Le), 172 Lourdes, 99 Lovely Rita, 96 Lulu femme nue, 68 Luna su Torino (La), 107 M Made in the USA, 60 Maks, 102 Man with the Beautiful Eyes (The), 176 Maruzzella [ep. di I vesuviani], 81 Matilda, 75 Mind Benders (The)/Cranio e il corvo (Il), 136 N Non è giusto, 84 Nothing Sacred/Nulla sul serio, 155 Notte americana del dr. Lucio Fulci (La), 78 O O’ cinema, 82 Old Fangs, 178 Omino della gru (L’), 189 Our Mother’s House/Tutte le sere alle nove, 141 ’Osolemio, 83 P Palmipedarium, 179 Parvaneh, 101 Pazza della porta accanto – Conversazione con Alda Merini (La), 88 Peter & The Wolf, 177 Petite escapade, 171 Pezzetti, 188 Pianeta Tonino, 85 Pranzo di Natale (Il), 87 Praznovanje/Celebration, 39 Printemps de Mélie (Le), 173 Providence, 144 Promessi Sposi, 77

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indici indices

Q Que personne ne bouge!, 58 Queen of Montreuil, 67 R Racconti di Vittoria, 79 Resto di niente (Il), 86 Reykjavik, des elfes dans la ville, 61 Ring People, 35 Road: A Story of Life and Death (The), 38 Roxanne, 26 S Sandrine à Paris, 56 Se fossi…, 188 Servant (The)/Servo (Il), 138 Silmäterä/Princess of Egypt (The), 20 Skrapp út/Back Soon, 64 Sleeping Tiger (The)/Tigre nell’ombra (La), 128 Sowa, 102 Spanish Gardener (The)/ Giardiniere spagnolo (Il), 131 Special Need (The), 48 Stormy Weather, 62 T Tale of Two Cities (A)/Verso la città del terrore, 132 Témoin dans la ville (Un)/ Appuntamento con il delitto, 109 Teenage, 183 Thinking About, 103 Toast, 98 U Undertaker (The), 44 Unknown (The)/Sconosciuto (Lo), 108 V Variazioni sul quadrato, 184 Victim, 134 Viento ’e terra, 80 W Wakaranai buta/In a Pig’s Eye, 179 What’s Up, Doc?/Ma papà ti manda sola?, 162 Wolf, 30 Women Pioneers (The), 34

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Y Yam dam, 22

INDICE GENERALE CONTENTS

Z Zapelji me/Seduce Me, 28 Zu dir?, 101

MOSTRA CONCORSO EXHIBITION COMPETITION Dune (La)/Dune (The), 18 Silmäterä/ Princess of Egypt (The), 20 Yam dam, 22 Leave to Remain, 24 Roxanne, 26 Zapelji me/Seduce Me, 28 Wolf, 30 VISTI DA VICINO CLOSE UP Women Pioneers (The), 34 Ring People, 35 Dayana Mini Market, 36 American Dreamer, 37 Road: A Story of Life and Death (The), 38 Praznovanje/Celebration, 39 Imposter (The)/ Imposter – L’impostore (The), 40 Futuro (El)/Future (The), 41 Chaumière/ Rooms Without a View, 42 Undertaker (The), 43 Četrdesmit divi/Forty Two, 44 Layla’s Melody, 45 Loin des yeux/Out of Sight, 45 Gangster te voli/Gangster of Love, 47 Special Need (The), 48 EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE Sólveig Anspach Sandrine à Paris, 56 Barbara, tu n’es pas coupable, 57 Que personne ne bouge!, 58 Haut les coeurs!, 59 Made in the USA, 60 Reykjavik, des elfes dans la ville, 61 Stormy Weather, 62 Faux tableaux dans vrais paysages islandais, 63 Skrapp út/Back Soon, 64 Louise Michel, la rebelle, 65 Anne et les tremblements, 66 Queen of Montreuil, 67 Lulu femme nue, 68 Antonietta De Lillo Casa in bilico (Una), 74 Matilda, 75


indici indices

Angelo Novi fotografo di scena, 76 Promessi Sposi, 77 Notte americana del dr. Lucio Fulci (La), 78 Racconti di Vittoria, 79 Viento ’e terra, 80 Maruzzella [ep. di I vesuviani], 81 O’ cinema, 82 ’Osolemio, 83 Non è giusto, 84 Pianeta Tonino, 85 Resto di niente (Il), 86 Pranzo di Natale (Il), 87 Pazza della porta accanto – Conversazione con Alda Merini (La), 88 Jessica Hausner Flora, 94 Inter-View, 95 Lovely Rita, 96 Hotel, 97 Toast, 98 Lourdes, 99 WOMEN’S BEST OF CILECT PRIZE Civica Educazione, 100 Zu dir?, 101 Parvaneh, 101 Sowa, 102 Maks, 102 Clownmedicin, 103 Thinking About, 103 ANTEPRIME Devil’s Knot/Devil’s Knot – Fino a prova contraria, 106 Luna su Torino (La), 107 BERGAMO FILM MEETING INAUGURA BERGAMO JAZZ Unknown (The)/Sconosciuto (Lo), 108 Témoin dans la ville (Un)/ Appuntamento con il delitto, 109 CULT MOVIE Adam’s Rib/Costola di Adamo (La), 110

DIRK BOGARDE Boys in Brown, 123 Blue Lamp (The)/ Giovani uccidono (I), 124 Hunted/ Colpa del marinaio (La), 125 Gentle Gunman (The), 126 Desperate Moment/ Disperati (I), 127 Sleeping Tiger (The)/ Tigre nell’ombra (La), 128 Cast a Dark Shadow/ Poltrona vuota (La), 129 Doctor at Sea/ Incontro a Rio, 130 Spanish Gardener (The)/ Giardiniere spagnolo (Il), 131 Tale of Two Cities (A)/ Verso la città del terrore, 132 Libel/Diavolo nello specchio (Il), 133 Victim, 134 H.M.S. Defiant/ Ponte di comando, 135 Mind Benders (The)/ Cranio e il corvo (Il), 136 I Could Go On Singing/ Ombre sul palcoscenico, 137 Servant (The)/Servo (Il), 138 King & Country/ Per il re e per la patria, 139 Darling, 140 Our Mother’s House/ Tutte le sere alle nove, 141 Accident/L’incidente, 142 Götterdämmerung/ Caduta degli dei (La), 143 Providence, 144 Despair, 145 MA PAPÀ TI MANDA SOLA It Happened One Night/ Accadde una notte, 153 Hands Across the Table/ Milioni della manicure (I), 154 Nothing Sacred/ Nulla sul serio, 155 Bringing Up Baby/Susanna, 156 5th Avenue Girl/Ragazza della Quinta Strada (La), 157 Ball of Fire/ Colpo di fulmine, 158 Lady Eve (The)/Lady Eva, 159 Bell, Book and Candle/ Strega in paradiso (Una), 160 What’s Up, Doc?/ Ma papà ti manda sola?, 161 Belle fille comme moi (Une)/ Mica scema la ragazza!, 162

FANTAMARATONA Fearless Vampire Killers (The)/Per favore, non mordermi sul collo, 164 Carrie/Carrie – Lo sguardo di Satana, 165 PIERRE-LUC GRANJON Petite escapade, 171 Enfant sans bouche (L’), 171 Château des autres (Le), 172 Loup blanc (Le), 172 Hiver de Léon (L’), 173 Printemps de Mélie (Le), 173 Été de Boniface(L’), 174 Automne de Pougne (L’), 174 Grosse bête (La), 175 CARTA BIANCA A PIERRE-LUC GRANJON Haut pays des neiges, 176 Man with the Beautiful Eyes (The), 176 Funambola (La), 177 Peter & The Wolf, 177 Kodomo no keijijougaku/ Child’s Metaphysics (A), 178 Old Fangs, 178 Wakaranai buta/ In a Pig’s Eye, 179 Palmipedarium, 179 Everything I Can See from Here, 180 Briganti senza leggenda, 180 KINO CLUB Teenage, 183 Variazioni sul quadrato, 184 Kalté, 184 7596 Frames, 185 Kolmnurga afäär/Triangle Affair (The), 185 Furtiva lagrima (Una), 186 Cartoni animati in... corsia! Pezzetti, 188 Conta delle case, 188 Elefante (L’), 188 Se fossi…, 188 Domande, 189 Omino della gru (L’), 189 Facce, facce e facce, 189

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BFM UPGRADE 1.0 Parole di cinema

La collana editoriale di Bergamo Film Meeting

in formato digitale

Da questa edizione la produzione editoriale di Bergamo Film Meeting entra nell’era digitale: i volumi della 32ª edizione saranno pubblicati contemporaneamente in formato cartaceo e in formato .PdF, .ePUB e .MOBi, ottimizzato per i diversi dispositivi e-reader e smartphone. E sarà solo l’inizio: piano piano, tutti i volumi monografici, editi durante le precedenti edizioni e oggi purtroppo esauriti, saranno riproposti in formato digitale, dopo un accurato lavoro di redazione, riqualificazione e valorizzazione. Saranno così di nuovo disponibili le monografie dedicate ai Monty Python (1989), Aki Kaurismäki (1990), Roger Corman (1991-92), Mike Leigh (1993), Jan Švankmajer (1997), Andrej Tarkovskij (2004) e molti altri. Con il contributo di



via Autieri d’Italia, 268 Comun Nuovo(Bergamo) www.elavbrewery.com Birrificio Indipendente Elav Elav Brewery


Progetto grafico: PiEFFE Grafica* Stampa: Tipolitografia Pagani - Lumezzane (BS) Finito di stampare il 3 marzo 2014


Euro 12,00


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