Bergamo Film Meeting - Catalogo 2015

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RINGRAZIAMENTI Per la sezione “Mostra Concorso” ringraziamo: Ester Amrami, Murat Düzgünoğlu, Jon Garaño, José Mari Goenaga, Juris Kursietis, Franco Lolli, Nini Bull Robsahm, Virág Zomborácz. Cristina Marx (Filmuniversität Babelsberg Konrad Wolf, Potsdam-Babelsberg), Vuslat Saraçoğlu (Kuzgun Film, Istanbul), Carlota Caso (Film Factory, Barcellona), Vicky Miha (Boo Productions, Atene), Alexandre Moreau (Versatile Films, Parigi), Knut Skinnarmo (Norwegian Film Institute, Oslo), Marta Bényei (Magyar Filmunió, Budapest), Emanuela Martini, Mario Galasso (Torino Film Festival), Nicola Falcinella, Andrea Trovesi. Per la sezione “Visti da Vicino” ringraziamo: Giacomo Abbruzzese, Dieter Auner, Ruth Beckermann, Jana Bürgelin, Michele Cadei, Francesco Clerici, Teresa Czepiec, Benjamin d’Aoust, Amir Escandari, Pascal Flörks, Marcell Gerő, Teodora Ana Mihai, Pierre Liebaert, Angelo A. Lüdin, Manutrillo, Sarah Yona Zweig. Markus Kaatsch, Jenny Eitner (aug&ohr medien, Berlino), Barbara Heger (Campfilm Production, Budapest), Anja Dziersk (Rise and Shine World Sales UG, Berlino), Carolin Stern (EastWest Distribution, Vienna), Katarzyna Wilk (Polish Docs - Krakow Film Foundation, Cracovia), Gabriella Marchese (Centre de l’Audiovisuel, Bruxelles), Leslie, Maxime Beuginu (La Luna Production, Parigi), Frank Matter (Soap Factory GmbH, Basilea), Gerald Weber (Sixpackfilm, Vienna), Maarit Mononen (Helsinki Filmi, Helsinki). Per la sezione “Visti da Vicino – Films from the North” ringraziamo: Truls Krane Meby, Egil Pedersen, Are Pilskog, Sturla Pilskog, Miia Tervo. Martha Otte (Tromsø International Film Festival), Maria Leskinen (The Finnish Film Foundation, Helsinki), Cilla Werning (For Real Productions, Helsinki), Arna Marie Bersaas (Norwegian Film Institute, Oslo), Petronilla Frosio e Uta Wilmer. Per la sezione “Visti da Vicino – The Best of Cilect Prize in Doc” ringraziamo: Lucie Baudinaud, Chiara Campara, Davide Cipolat, Giovanni Dall’Avo Manfroni, Lorenzo Faggi, Martina Carlstedt, Aniela Gabryel, Katarina Rešek, Glen Travis, CILECT - Centre International de Liaison des Ecoles de Cinéma et de Télévision. Un ringraziamento particolare a Germana Bianco e Laura Zagordi (Milano Civica Scuola di Cinema - Fondazione FM). Per la sezione “Europa: femminile, singolare” ringraziamo in particolare: Andrea Arnold, Aida Begić, Ágnes Kocsis, Teresa Villaverde. Per la rassegna cinematografica ringraziamo Ginevra Fracassi (Duemilauno Distribuzione), Paola Peruccelli (One Movie, Milano), Hanway Films (Londra), Elodie Dupont (The Festival Agency, Parigi), Adis Djapo (SCCA/pro.ba, Sarajevo), Loredana Rigato (Fabrica, Treviso), Ilaria Gomarasca (Pyramide International), Davide Pagano (MIR Cinematografica, Milano), Marta Bényei (Magyar Filmunió, Budapest), Sémira Hedayati (Elle Driver, Parigi), Színház- és Filmművészeti Egyetem (Budapest), Consolato Generale d’Ungheria, Luísa Nora (Alce Filmes, Lisbona), Sara Moreira (Cinemateca Portuguesa-Museu do Cinema, Lisbona), Fernando Jorge Santos (NOS, Lisbona), Mikael Olsen (Zentropa, Hvidovre), Fondazione La Biennale di Venezia - ASAC (Archivio Storico delle Arti Contemporanee), Germana Bianco e Laura Zagordi (Milano Civica Scuola di Cinema - Fondazione FM), Fondazione della Comunità Bergamasca. Ringraziamo inoltre Massimo Causo, Nicola Falcinella, Veronica Maffizzoli, Lorenzo Rossi, Fabrizio Tassi. Per la personale dedicata a Pavel Koutský ringraziamo in particolare Pavel Koutský insieme a Ondrej Beck (Krátký Film Praha), Pavel Horáček (Anifilm), Tomáš Žůrek (Národní filmový archiv), Radka Neumannová e Simona Calboli (Centro Ceco), Enrico Nosei (Fondazione Cineteca Italiana), Eva Zaoralová (Karlovy Vary International Film Festival), Andrea Trovesi, Danica Bartosova, Massimo Tria, Lawrence Thomas Martinelli. Per la mostra “Frame by Frame” ringraziamo il Comune di Bergamo, Servizio Attività culturali e Promozione turistica, Matteo Caglioni, Giorgio Gagliano, Simone Boglioni. Per le anteprime di Una nuova amica, Walking with Red Rhino – A spasso con Alberto Signetto, Il figlio di Hamas – The Green Prince, ringraziamo François Ozon, Marilena Moretti, Nadav Schirman, e Sandra Capitanio e Franco Zuliani (Officine Ubu, Milano), Davide Ferrario (Rossofuoco, Torino), Anastasia Plazzotta (Feltrinelli Real Cinema, Wanted), Veronica Maffizzoli. La sezione “Bergamo Film Meeting inaugura Bergamo Jazz” è organizzata in collaborazione con Bergamo Jazz. In particolare ringraziamo Enrico Rava, Barbara Crotti, Roberto Valentino, Massimo Boffelli. Per la performance musicale dal vivo, ringraziamo Mosè Chiavoni e Luciano Biondini. Per la proiezione del film Eva ringraziamo Laurence Berbon (Tamasa Distribution, Parigi). Per la sezione “Riapre l’Accademia Carrara” ringraziamo Frederick Wiseman, Mauro Baronchelli, Maria Cristina Rodeschini, Paolo Plebani (Accademia Carrara, Bergamo), Comune di Bergamo, Laura Luzzana, Alessandra Tadini, Gianpietro Bonaldi (Cobe Direzionale), Nexo Digital, Dario Bonazelli (I Wonder Pictures), Isabella Malaguti, Andrea Ravagnan (Cineteca di Bologna). Per la sezione “Cult Movie – GAMeCinema” ringraziamo Lina Zucchelli Valsecchi, Maria Cristina Rodeschini Galati (GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo), Daniela Vincenzi (GAMeCinema), Sandro Avanzo. Per la retrospettiva “Il polar. Nascita e formazione di un genere” ringraziamo Fleur Buckley (bfi / National Film & Television Archive, Londra), Rod Ruhle (bfi / Film Distribution Library, Londra), Laurence Berbon (Tamasa Distribution, Parigi), Lola Gibaja, Olivia Colbeau-Justin (Gaumont, Parigi), Themba Bhebhe (Pathé, Parigi), Elodie Dupont (The Festival Agency, Parigi), Stefano Ricci (Minerva Pictures, Roma), Monica Giannotti (Surf Film, Roma), Emilie Cauquy (Cinémathèque française, Parigi), Luisa Comencini, Enrico Nosei (Fondazione Cineteca Italiana), Monica Corbani, Mauro Gervasini, Adriano Piccardi e Gloria Zerbinati. Per la rassegna “Il polar. Nascita e formazione di un genere” a Parma, ringraziamo Roberta Parizzi e Associazione Laboratorio 80. Per la rassegna “Dopo la prova: schermi e palcoscenico” ringraziamo Jack Bell (Park Circus, Glasgow), Julia Kelly (Hollywood

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Classics, Londra), Vincent Dupré (Théâtre du Temple, Parigi), Rod Ruhle (bfi / Film Distribution Library, Londra), Dario Catozzo (Lab 80 film, Bergamo), Max Patrone, Alba Gandofo (Cineteca Griffith, Genova). Per la “Fantamaratona” ringraziamo ancora Jack Bell (Park Circus, Glasgow) e Claudio Ceruti. Per la sezione “Kino Club” ringraziamo Jean-Loup Felicioli, Alain Gagnol, Céline Sciamma, Pier Francesco Aiello e Daria Pomponio (PFA Films, Roma), Cesare Petrillo e Gianluca Buttari (Teodora Film, Roma), Irene Tedeschi, Silvia Palermo, Vincenzo Beschi (Avisco – AudioVisivoScolastico, Brescia), Annarosa Valsecchi e Adriano Piccardi (Liceo Artistico Statale “Giacomo e Pio Manzù”, Bergamo), Luciana Mariano (Liceo Linguistico Europeo “S.B. Capitanio”, Bergamo). Un ringraziamento particolare a Guglielmo Benetti e Patrizia Graziani (Ufficio Scolastico per la Lombardia - Ambito territoriale di Bergamo). Ringraziamo ancora Irene Tedeschi, Silvia Palermo, Vincenzo Beschi (Avisco – AudioVisivoScolastico) per il laboratorio di animazione “Telepongo”, Tuono Pettinato per il workshop di disegno, lo Studio Bozzetto & Co. per la masterclass, Guido Bonvicini, Veronica Maffizzoli, Marianna Rizzo per la caccia al tesoro. Per l’iniziativa “BFM Daily Strip: il Festival a fumetti” ringraziamo Tuono Pettinato, Sarah Mazzetti, Daw e Dr. Pira, Francesco Portesi e Andrea Baldelli (Corpoc, Bergamo). Un ringraziamento particolare a Tiziana Sonia Spelta (Libreria Oblomov, Bergamo) per i libri e la partecipazione alle iniziative del bookshop del Festival. Per il workshop di serigrafia manuale ringraziamo ancora Francesco Portesi e Andrea Baldelli (Corpoc). Per gli allestimenti, gli impianti di proiezione, i computer e l’assistenza informatica delle sale e degli spazi del Festival ringraziamo Lab 80 film, Michele Nolli (Siec), Cristina Brembilla (Cinema San Marco), Marino Nessi (Cinema Capitol), Emanuele e Andrea Castelli (Sps), Fiori Bergamo. Per la disponibilità dell’atrio del Palazzo della Libertà ringraziamo Francesca Ferrandino (Prefetto di Bergamo), Monica Masserdotti (Prefettura di Bergamo). Per l’accoglienza e l’assistenza agli ospiti del Festival ringraziamo Petronilla Frosio (Hotel Petronilla), Montserrat Satorra Farre (Hotel Mercure). Per il match di improvvisazione cinematografica “Cinecittà vs Hollywood” ringraziamo Roberto Capo (Associazione Ardega) e l’associazione Laboratorio 80. Per l’iniziativa “The Blank Kitchen: a cena dal regista” ringraziamo Claudia Santeroni (Associazione The Blank), Giacomo Abbruzzese. Per l’iniziativa Dopofestival@Bloom ringraziamo Cecilia Castellazzi (cooperativa sociale Il Visconte di Mezzago). Un ringraziamento particolare a Sergio Arnoldi per aver messo a disposizione lo spazio #Pignolo31 e a Francesco Poli, Silvia Andreani, Patrizio Previtali e Alessandro Severgnini (Banca Popolare di Bergamo) per lo spazio #Crispi2/d. Per le convenzioni turistiche e sui trasporti ringraziamo Alessia Longhi (ATB Mobilità S.p.A.), Laura Landi (Turismo Bergamo), Roberto Dal Lago (Associazione Pedalopolis), Elisa Troiani (Bergamo Sostenibile). Per la realizzazione, gli allestimenti, l’organizzazione, l’ospitalità, gli spettacoli, le degustazioni e le proposte culturali del Meeting Point ringraziamo: Antonio Terzi, Pietro Reduzzi, Valentina Ardemagni, Maria Mazza e tutto lo staff del Birrificio Indipendente Elav di Comun Nuovo (BG), Nadia Bettinelli, Luciano Bettinelli (BigMat), Sabrina Dalla Grassa, Stefania Bettoni (Pedrali Dynamic Design), Lorenzo Bucci, Alessio Pini, Giorgio Gagliano (Suono 1981), Marco Zanetti (Zanetti Hi-Fi), Antonio Luzzio (Tecnodomes), Veronica Maffizzoli, Marianna Rizzo, Famiglia Pasini (Pasini Azienda Agricola San Giovanni), Barbara Turra e Luisa Pelizzari (Hotel Belvedere), Sara Latorre e Lino Latorre (Caffè Latorre), I Mondongo, Inis Fail, The Blues Against Youth, Awa Oyo, Collettivo Astratti, Pluie Toujours duo, Music Bleck. Per l’iniziativa After BFM ringraziamo Antonio Terzi e Valentina Ardemagni (Birrificio Indipendente Elav). Un sentito grazie a tutti i volontari, i tirocinanti e gli stagisti che hanno contribuito alla realizzazione della 33ª edizione di Bergamo Film Meeting: Carlo Alberto Aceti, Martina Adinolfi, Giacomo Alessandrini, Lorenzo Arrigoni, Sofia Bellegotti, Sonia Beretta, Maura Bertoli, Gloria Bettoni, Elena Bonzi, Patrizia Boschi, Andrea Briamo, Chiara Bronzieri, Pietro Giovanni Bronzino, Annalisa Bruno, Andrea Calini, Simone Capoferri, Enrica Cecala, Flavia Chinnì, Marco De Lucia, Nicola De Riggi, Giulia Esposito, Simona Facoetti, Sara Giletto, Giulia Gotti, Monica Gualandris, Paola Lanfranchi, Carlotta Maironi Da Ponte, Viviana Malanchini, Beatrice Malfa, Benedetta Mazzola, Gaia Meris, Andrea Miele, Giulia Panza, Greta Panza, Alice Pegorin, Alessia Perego, Eleonora Perico, Giulia Poma, Mariafrancesca Prestinicola, Sara Previtali, Luisa Radici, Maria Raspa, Federica Redaelli, Michele Rota, Ilaria Russo, Donatella Santarelli, Silvia Sasso, Paola Signorelli, Giulia Sozzi, Gianluca Suardi, Sara Tombini, Chiara Valli, Jenny Vassalli, Cristina Verga, Annalisa Volpe, Robin Whalley, Luca Zonca, Marco Zonca. Per la campagna #supportBFM2015 ringraziamo in particolare Bruno Bozzetto, Antonio Terzi, Valentina Ardemagni (Birrificio Indipendente Elav), Osteria della Birra (Bergamo), Elav Rugby Dalmine, Corpoc, Banche del Tempo di Bergamo e Provincia (Officina del Tempo), Cascina Belmonte di Enrico Di Martino, FilmFestival del Garda, Claudio Piazzalunga (Lito 85), Giulio e Thandar Lagetto (La Cornice di Lagetto), Debora e Max di Associazione Artemide, Associazione Aiuto Donna – Uscire dalla Violenza, e tutti i sostenitori di Bergamo Film Meeting Onlus. Un ringraziamento particolare a Tiziana Pirola, Auditorium Arts, Adriano Piccardi, Gigi Zucchetti, Maria Traldi, Pia Conti. Per l’insostituibile presenza Paola e Giulia, Fede, Paolo.

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Bergamo Film Meeting è organizzato dall’associazione Bergamo Film Meeting Onlus

La Mostra Concorso è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola, Angelo Signorelli

COMITATO D'ONORE

La sezione “Visti da Vicino” è organizza da Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli

Sindaco di Bergamo Giorgio Gori

“Films From the North” è organizzata in collaborazione con Tromsø International Film Festival

Assessore alla Cultura, Turismo, Tempo libero, Marketing territoriale, Expo del Comune di Bergamo Nadia Ghisalberti

“The Best of CILECT Prize in Doc” è organizzata in collaborazione con Milano Civica Scuola di Cinema - Fondazione FM

Direzione Cultura e Turismo del Comune di Bergamo Massimo Chizzolini

La sezione “Europa: femminile, singolare” è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola

Bergamo Film Meeting Onlus Alberto Castoldi Angelo Signorelli

La rassegna “Il polar” e “Dopo la prova” è organizzata da Angelo Signorelli, Arturo Invernici, Fiammetta Girola

BERGAMO FILM MEETING Presidente Alberto Castoldi Direzione artistica Angelo Signorelli Coordinamento generale e collaborazione alla direzione Fiammetta Girola e Chiara Boffelli Collaborazione alla programmazione Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli Ufficio Stampa Bergamo Film Meeting Onlus Ada Tullo Stagista Giulia Esposito Ufficio Stampa nazionale Studio Sottocorno – Lorena Borghi Comunicazione Chiara Boffelli (coordinamento), Simone Boglioni Stagisti Chiara Bronzieri, Andrea Miele Ufficio Accrediti e Ospitalità Fausta Bettoni Stagiste Chiara Valli, Flavia Chinnì

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La Fantamaratona è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola, Angelo Signorelli La personale e la mostra “Frame by Frame” dedicate a Pavel Koutský sono organizzate da Chiara Boffelli Allestimento mostra “Frame by Frame” Matteo Caglioni con la collaborazione di Giorgio Gagliano (luci), Simone Boglioni La sezione “Riapre l'Accademia Carrara” è organizzata in collaborazione con Accademia Carrara, Mauro Baronchelli La sezione “Bergamo Film Meeting inaugura Bergamo Jazz” è organizzata in collaborazione con Bergamo Jazz, Enrico Rava La sezione “Cult Movie – GAMeCinema” è organizzata in collaborazione con GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, Daniela Vincenzi La sezione “Kino Club” è organizzata da Enea Brigatti, Chiara Boffelli Coordinamento iniziative ed eventi collaterali Simone Boglioni, Veronica Maffizzoli Progetto BFM Daily Strip Simone Boglioni Progetto grafico Alberto Biffi - BSPKNStudio


Il catalogo generale è a cura di Daniela Vincenzi con la collaborazione di Chiara Boffelli, Enea Brigatti, Fiammetta Girola, Arturo Invernici, Angelo Signorelli, Alberto Valtellina Responsabile di redazione Daniela Vincenzi Il catalogo “Polar” è a cura di Angelo Signorelli e Arturo Invernici Ricerche bibliografiche e filmografiche Arturo Invernici, Daniela Vincenzi Stagisti Chiara Bronzieri, Andrea Miele Materiali di documentazione e iconografici Fondazione Alasca

Annalisa Bruno, Andrea Calini, Simone Capoferri, Enrica Cecala, Marco De Lucia, Nicola De Riggi, Simona Facoetti, Sara Giletto, Giulia Gotti, Monica Gualandris, Paola Lanfranchi, Carlotta Maironi Da Ponte, Viviana Malanchini, Beatrice Malfa, Benedetta Mazzola, Gaia Meris, Giulia Panza, Greta Panza, Alice Pegorin, Alessia Perego, Eleonora Perico, Giulia Poma, Mariafrancesca Prestinicola, Sara Previtali, Luisa Radici, Maria Raspa, Federica Redaelli, Michele Rota, Ilaria Russo, Donatella Santarelli, Silvia Sasso, Paola Signorelli, Giulia Sozzi, Gianluca Suardi, Sara Tombini, Jenny Vassalli, Cristina Verga, Annalisa Volpe, Robin Whalley, Luca Zonca, Marco Zonca Proiezionisti Alessandra Beltrame, Mauro Frugiuele, Andrea Pellicioli, Sergio Visinoni

Coordinamento tecnico e allestimenti Simone Boglioni, Andrea Zanoli

Proiezioni video e digitali Mauro Frugiuele, Alberto Valtellina, Sergio Visinoni, Andrea Zanoli, Giulia Castelletti

Fotografo Renato Liguori

Ospitalità e organizzazione eventi presso il Meeting Point Birrificio Indipendente ELAV

Riprese, sigle, elaborazioni grafiche e montaggi video Stefano Testa

Arredi Meeting Point Pedrali Spa

Sigla ufficiale di Bergamo Film Meeting 2015 Stefano Testa

Catering Veronica Maffizzoli (coordinamento), Marianna Rizzo, Hotel Belvedere

Web Application Developer Emanuele Castelli - S.P.S. Sistemi e Progetti Software sas Moderatori incontri con gli autori Lorenzo Rossi, Alessandro Uccelli Coordinamento stagisti e volontari, progetti con scuole e università Enea Brigatti Traduzioni Stefania Consonni, Monica Corbani, Andrea Trovesi, Daniela Vincenzi Sottotitoli Enea Brigatti (coordinamento), Maura Bertoli, Gloria Bettoni, Pietro Bronzino, Monica Corbani, Laura Di Mauro, Loretta Mazzucchetti, Paola Micalizzi, Maria Raspa, Lorenzo Rossi, Filippo Ruffilli, Roberta Sana, Gianluca Suardi, Daniela Vincenzi Traduzioni incontri con gli autori Gloria Bettoni, Andrea Briamo, Pietro Bronzino, Bianca Ramponi, Anna Ribotta, Roberta Sana, Gianluca Suardi, Andrea Trovesi Assistenza sale Enea Brigatti (coordinatore), Valentina Masper, Dario Catozzo (cassieri)

Birra ufficiale 33a edizione Noir Stout – Birrificio Indipendente Elav Vino ufficiale 33a edizione Ceppo 326 brut - Pasini Azienda Agricola San Giovanni Corriere internazionale DHL, TNT Stampa Gizeta srl, Tipolitografia Pagani, Flyeralarm Allestimenti LP Grafica & Pubblicità, Mirage, Print Evolution, Pippo Fiumana Computer e informatica S.P.S. - Sistemi e Progetti Software sas Ufficio stile Altomare, Jena, Vader, Muttley, Zukkee Make-Up Artist Jenny Jolly Assistenza psicologica Lucy van Pelt, Sally Brown, Baruch Spinoza, Linus Jones, Paolo P.

Pratiche SIAE Valentina Masper, Dario Catozzo Volontari Carlo Alberto Aceti, Martina Adinolfi, Giacomo Alessandrini, Lorenzo Arrigoni, Sofia Bellegotti, Sonia Beretta, Maura Bertoli, Gloria Bettoni, Elena Bonzi, Patrizia Boschi, Andrea Briamo, Pietro Giovanni Bronzino,

©Edizioni di Bergamo Film Meeting Via Pignolo, 123 - 24121 Bergamo (Italia) www.bergamofilmmeeting.it

ISBN 978-88-98271-10-8 9


BERGAMO FILM MEETING IS CO-FUNDED BY THE CREATIVE EUROPE PROGRAMME – MEDIA SUB-PROGRAMME OF THE EUROPEAN UNION A privileged place for meetings, exchanges and discovery, festivals provide a vibrant and accessible environment for the widest variety of talent, stories and emotions that constitute Europe’s cinematography. The European Union aims to promote European audiovisual heritage, to encourage the transnational circulation of films and to foster audiovisual industry competitiveness. The MEDIA sub-programme of the Creative Europe programme acknowledges the cultural, educational, social and economic role of festivals across Europe. These festivals stand out with their rich and diverse European programming, networking and meeting opportunities for professionals and the public alike, their activities in support of young professionals, their educational initiatives and the importance they give to strengthening inter-cultural dialogue. In 2014, the festivals supported by the European Union have programmed more than 20.000 screenings of European works to nearly 3 million cinema-lovers.

BERGAMO FILM MEETING È CO-FINANZIATO DAL PROGRAMMA EUROPA CREATIVA – SOTTO-PROGRAMMA MEDIA DELL’UNIONE EUROPEA Luogo privilegiato per gli incontri, gli scambi e le nuove scoperte, i festival offrono un ambiente accessibile e vivace a un’ampia varietà di talenti, storie ed emozioni, che costituiscono la cinematografia europea. L’Unione Europea mira a promuovere il patrimonio audiovisivo europeo, a incoraggiare la circolazione transnazionale di film e a favorire la competitività del settore audiovisivo. Il sotto-programma MEDIA del programma Europa Creativa riconosce l’importanza culturale, educativa, sociale ed economica dei festival, in tutta Europa. Sono festival che si distinguono per la loro ricca e diversificata programmazione europea, per la creazione di network e occasioni di incontro per i professionisti e il pubblico, per la loro attività a sostegno dei giovani professionisti, per le loro iniziative educative e per l’importanza che danno al rafforzamento del dialogo inter-culturale. Nel 2014, i festival sostenuti dall’Unione Europea hanno proposto più di 20.000 opere europee a più di 3 milioni di amanti del cinema.

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ASSOCIAZIONE FESTIVAL ITALIANI DI CINEMA Nel complesso del sistema audiovisivo italiano, i festival rappresentano un soggetto fondamentale per la promozione, la conoscenza e la diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva, con un’attenzione particolare alle opere normalmente poco rappresentate nei circuiti commerciali come ad esempio il documentario, il film di ricerca, il cortometraggio. E devono diventare un sistema coordinato e riconosciuto dalle istituzioni pubbliche, dagli spettatori e dagli sponsor. Per questo motivo e per un concreto spirito di servizio è nata nel novembre 2004 l’Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic). Gli associati fanno riferimento ai principi di mutualità e solidarietà che già hanno ispirato in Europa l’attività della Coordination Européenne des Festivals. Inoltre, accettando il regolamento, si impegnano a seguire una serie di indicazioni deontologiche tese a salvaguardare e rafforzare il loro ruolo. L’Afic nell’intento di promuovere il sistema festival nel suo insieme, rappresenta già oggi più di trenta manifestazioni cinematografiche e audiovisive italiane ed è concepita come strumento di coordinamento e reciproca informazione. Aderiscono all’Afic le manifestazioni culturali nel campo dell’audiovisivo caratterizzate dalle finalità di ricerca, originalità, promozione dei talenti e delle opere cinematografiche nazionali ed internazionali. L’Afic si impegna a tutelare e promuovere, presso tutte le sedi istituzionali, l’obiettivo primario dei festival associati.

THE ASSOCIATION OF ITALIAN FILM FESTIVALS Within the framework of the Italian audiovisual system, film festivals are fundamental in the promotion, awareness and diffusion of cinema and audiovisual culture, as they pay particular attention to work that is usually not represented by commercial circuits, such as, for example, documentaries, experimental films and short films. And they must become a system that is coordinated and recognized by public institutions, spectators and sponsors alike. For this reason, and in the explicit spirit of service, the Association of Italian Film Festivals (Afic) was founded in November, 2004. The members follow the ideals of mutual assistance and solidarity that are the guiding principles of the Coordination Européenne des Festivals and, upon accepting the Association’s regulations, furthermore strive to adhere to a series of ethical indications aimed at safeguarding and reinforcing their role. In its objective to promote the entire festival system, the Afic already represents over thirty Italian film and audiovisual events and was conceived as an instrument of coordination and the reciprocal exchange of information. The festivals that are part of the Afic are characterized by their search for the new, originality, and the promotion of talent and national and international films. The Afic is committed to protecting and promoting, through all of its institutional branches, the primary objective of the member festivals. Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic) Via Villafranca, 20 - 00185 Roma, Italia

COORDINAMENTO DEI FESTIVAL E DELLE INIZIATIVE CINEMATOGRAFICHE DELLA LOMBARDIA Questo coordinamento nasce dall’esigenza di costruire un progetto in comune tra le iniziative che da anni svolgono un ruolo determinante sul territorio lombardo, con specificità diverse ma con intenti comuni di approfondimento e diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva in genere. Il cinema continua ad essere un momento importante e necessario di partecipazione e aggregazione del pubblico e di riflessione sui grandi temi della contemporaneità. Il sistema dei Festival e di altre iniziative legate in particolare all’associazionismo, alla distribuzione e all’esercizio inteso come organizzazione di circuiti di sale, gioca un ruolo importante per la formazione degli spettatori e per la valorizzazione delle opere di qualità. Da un anno ormai il Coordinamento sta lavorando, tra l’altro, sull’organizzazione di iniziative in comune, la messa in rete delle proposte, la condivisione di strategie per la diffusione delle opere e degli autori, un più intenso scambio di idee e momenti di verifica sui lavori in corso, con la convinzione che il confronto è sempre la strada migliore. This coordinating group comes from the need to build up a common project by the initiatives which for several years have played a decisive role in Lombardy, with different specificities but with common intentions of studying and diffusing film and audiovisual culture in general. The cinema continues to be an important and essential occasion for participation and aggregation by the public and for reflection on the major issues of the contemporary period. The system of the Festivals and of other initiatives linked in particular to associations, distribution and exhibition understood as the organization of circuits of cinemas, plays an important role in forming audiences and promoting quality films. The Coordinating Group has now been at work for one year, organizing common initiatives, pooling proposals, sharing strategies for the distribution of films and directors and with a more intense exchange of ideas and opportunities to monitor works in progress, with the conviction that discussion is always the best path to take. 11


SOMMARIO pag. 13

UNA MODESTA UTOPIA

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MOSTRA CONCORSO | EXHIBITION COMPETITION Anderswo/Anywhere Else • Neden Tarkovski olamıyorum/Why Can’t I Be Tarkovsky? • Loreak/Flowers • Modris Gente de bien • Amnesia • Utóélet/Afterlife

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VISTI DA VICINO | CLOSE UP Gli schermi, il palcoscenico e l’ignoto di Alberto Valtellina This Is the Way • Dreams of a Clown • Those Who Go Those Who Stay • Schweben wie Schmetterlinge, stechen wie Bienen/Floating Like Butterflies, Stinging Like Bees • Oloimugi • Il gesto delle mani • Superjednostka/Super Unit • La nuit qu’on suppose/The Night We Suppose • Pixadores • Bär/Bear • Káin gyermekei/Cain’s Children • Libre maintenant/Free Now • Thomas Hirschhorn – Gramsci Monument • Quivir/Greats • Waiting for August The Backstage of Tradition FILMS FROM THE NORTH Verdensvevde Kropper/World Wide Woven Bodies • Várjjatvuotnalaččat/Portraits from Varangerfjord • Ishavshanda/Ice Handscape • Santra ja puhuvat puut/Santra and the Talking Trees THE BEST OF CILECT PRIZE IN DOC Corti documentari dalle scuole di cinema europee Það kemur í ljós/It Will Come to Light • Photofinish – Una stagione alle corse • Micke & Tommy • Lecieć, nie­ lecieć/To Fly or Not to Fly • Moje ime je Ogledalo/My Name Is Mirror • Below the Row EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE

pag. 62 pag. 66 pag. 68 pag. 75 pag. 80 pag. 81

pag. 87 pag. 91 pag. 92

pag. 98 pag. 105 pag. 106

ANDREA ARNOLD Periferie dell’anima. Andrea Arnold e il suo cinema di Fabrizio Tassi Biofilmografia di Andrea Arnold Milk • Dog • Wasp • Bed Bugs [ep. di Coming Up] • Red Road • Fish Tank • Wuthering Heights AIDA BEGIĆ I racconti intimi di un dopoguerra di Nicola Falcinella Biofilmografia di Aida Begić Prvo, smrtno iskustvo/First Death Experience • Sjever je poludio/North Went Mad • Snijeg/Snow • Otel(o) [ep. di Unutma beni Istanbul/Do Not Forget Me Istanbul] • Djeca/Buon anno Sarajevo• Album [ep. di Les ponts de Sarajevo/I ponti di Sarajevo] ÁGNES KOCSIS Viaggio in Ungheria. Il cinema di Ágnes Kocsis di Lorenzo Rossi Biofilmografia di Ágnes Kocsis Szortírozott levelek/Assorted Letters • 18 kép egy konzervgyári lány életéből/18 Pictures from the Life of a Conserve Factory Girl • A vírus/The Virus • Friss levegö/Fresh Air • Pál Adrienn/Adrienn Pál • Egy nap/A Day [ep. di Magyarország 2011/Hungary 2011] TERESA VILLAVERDE Mondi interrotti di Massimo Causo Biofilmografia di Teresa Villaverde A Idade Maior/Alex • Três Irmãos/Two Brothers, My Sister • Os Mutantes/The Mutants • Água e Sal/Acqua e sale • A Favor da Claridade/In Favour of Light • Cold Wa(te)r [ep. di Visions of Europe] • Transe/Trance Cisne/Swan • Amapola/Poppy [ep. di Venezia 70 – Future Reloaded] • Sara e a Sua Mãe/Sara and Her Mother [ep. di Les ponts de Sarajevo/I ponti di Sarajevo]


pag. 118 pag. 124 pag. 126

pag. 144

pag. 150 pag. 155 pag. 156 pag. 161 pag. 163

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PAVEL KOUTSKÝ Il sorriso dialettico di Pavel Koutský di Lawrence Thomas Martinelli Biofilmografia di Pavel Koutský Houslový koncert/A Violin Concert • Trojfórum/Triple Forum • Navštivte Prahu/Welcome to Prague • Dilema/ Dilemma • Katastrofy/Disasters • Laterna muzika/Laterna Musica • Curriculum vitae • Co oko neuvidí/Out of Sight • Láska na první pohled/Love at First Sight • Autoportrét/Animated Self-Portraits • Portrét/The Portrait • Ať žije myš/Long Live the Mouse• No comment • Svět 2000/World 2000 • Vivat Evropa!/Cheers Europe! • Duelo/ Duel • Kavárna/Café • Má Vlast/My Country • Koktejl/Cocktail • Média/Media • O bankách a lidech/Of Banks and People • Pygmalion • Čtyři lásky/Four Loves • Karlův most/Charles Bridge [ep. di Dopisy z Česka/Letters from Czech Republic] • Plastic People • Bilancování/Balancing • Od Praotce k Unii/Looking Back • Dobrá rada/ Good Advice • Romeo a Julie/Romeo and Juliet • Husiti/Hussites ANTEPRIME Une nouvelle amie/Una nuova amica • Walking with Red Rhino – A spasso con Alberto Signetto • The Green Prince/Il figlio di Hamas – The Green Prince BERGAMO FILM MEETING INAUGURA BERGAMO JAZZ Die Puppe/La bambola di carne • Eve/Eva RIAPRE L’ACCADEMIA CARRARA Guardare dentro un museo di Mauro Baronchelli Belphégor/Belfagor • National Gallery CULT MOVIE – GAMeCINEMA Quentin I (The First) di Sandro Avanzo The Naked Civil Servant/Il funzionario nudo Il POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE Que reste-t-il de nos amours... di Angelo Signorelli Le dernier des six/L’ultimo dei sei • L’assassin habite au 21/L’assassino abita al 21 • Un revenant/Lo spettro del passato • La fille du diable • Quai des Orfèvres/Legittima difesa • Non coupable/Condannatemi! • Entre onze heures et minuit/Tra le undici e mezzanotte • Du rififi chez les hommes/Rififi • Les salauds vont en enfer/ Gli assassini vanno all’inferno • Les amants du Tage/Gli amanti del Tago • Retour de manivelle/Delitto sulla Costa Azzurra • Échec au porteur/Scacco alla morte • Le desordre et la nuit/ll vizio e la notte • Le dos au mur/ Spalle al muro • Deux hommes dans Manhattan/Le jene del quarto potere • Le trou/Il buco • Classe tous risques/Asfalto che scotta • Pleins feux sur l’assassin/Piena luce sull’assassino • La mort de Belle/Chi ha ucciso Bella Sherman? • Le doulos/Lo spione DOPO LA PROVA: SCHERMI E PALCOSCENICO Giro, girotondo, casca il mondo... di Angelo Signorelli Applause • 20th Century/Ventesimo Secolo • Stage Door/Palcoscenico • Stage Fright/Paura in palcoscenico • La ronde • Les Girls • Deathtrap/Trappola mortale • Efter repetitionen/Dopo la prova • Noises Off/Rumori fuori scena • Vanya on 42nd Street/Vanya sulla 42esima strada • L’esquive/La schivata

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FANTAMARATONA Theatre of Death/Il teatro della morte • Theatre of Blood/Oscar insanguinato

pag. 213 pag. 214

KINO CLUB La banda del Kino Club Une vie de chat/Un gatto a Parigi • Bande de filles/Girlhood • Gawa Gawa Usedump!

pag. 218 pag. 223 pag. 224 pag. 227

CARTONI ANIMATI IN... CORSIA! Dove vai? • Filastrocca del mare • Filastrocca delle nuvole • Icaro James Bones – Il cangiante corpo vuoto • Il viaggio Indice dei registi | Index to directors Indice dei film | Index to films Indice generale | Contents


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LA CAMPAGNA DI SOSTEGNO DI BERGAMO FILM MEETING PER IL 2015

SUPPORTA IL CINEMA DI QUALITÀ INFO: WWW.BERGAMOFILMMEETING.IT/SUPPORTBFM-2015


UNA MODESTA UTOPIA Iniziamo la presentazione di questa edizione del Festival con il ricordo di Sandro Zambetti, scomparso nel giugno dello scorso anno. Sandro è stato l’ideatore, nel lontano 1981, di Bergamo Film Meeting, che inizierà poi il suo cammino nel settembre del 1983. Da una quindicina d’anni ormai aveva lasciato la barra del timone, ma insieme aveva lasciato anche un bagaglio di esperienza e di cultura che altri, dopo di lui, hanno saputo conservare e arricchire. Sandro odiava i necrologi, ma amava il cinema, la storia, i romanzi gialli, la fotografia, la scrittura, la conversazione, il sigaro, il fumetto e la tarte tatin. Siamo convinti che il programma di quest’anno gli sarebbe piaciuto. Scriveva Camus negli anni Quaranta, in Il pessimismo e il coraggio: «La Francia e l’Europa hanno oggi davanti a sé due prospettive: o creare una nuova cultura o perire». L’Europa è l’area geografica da cui Bergamo Film Meeting attinge per la quasi totalità delle sue proposte. La Francia agli inizi del nuovo anno ha vissuto uno dei suoi drammi più atroci, il massacro perpetrato nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Dopo pochi giorni milioni di francesi si sono riversati nelle piazze e nelle strade dell’intero Paese per dire no, pacificamente, alla violenza e riaffermare quel diritto alla libertà di pensiero, di critica, di espressione e di stampa che sta alla base della democrazia. La Francia è anche il Paese della retrospettiva di quest’anno. Le coincidenze servono per parlare di princípi, di intenzioni, di significati. L’Europa innanzitutto. Non parliamo quest’anno di crisi politica ed economica, con tutto ciò che ne consegue, ma di film e di autori. E di storia, di individui, di consapevolezze. Lo vediamo anche nei film che escono in sala: c’è come un bisogno di verità, di entrare nel vivo

Ventesimo Secolo

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Pixadores

delle cose, di mostrare per capire, facendo in modo di non lasciarsi condizionare da pregiudizi, preconcetti, idee onnicomprensive. Il mondo va raccontato, scegliendo tra le sue infinite espressioni, per osservarne le complessità, i conflitti, le asperità. Bisogna usare rispetto per il reale, rappresentarlo per ciò che contiene di difficile, di doloroso, di insopportabile, ma anche di stravagante, di dignitoso, di fiducioso. Rispetto vuol dire non cercare la conferma del proprio pensiero, ma avvicinarsi con cautela, affinché anche il mondo, per quello che è, per le persone e le cose che lo abitano, possa far sentire la sua voce, far pesare la propria presenza. Perciò, ogni film è una conversazione e un’interrogazione, un confronto, tramite uno sguardo che si incuriosisce, si sorprende, si arrabbia, si commuove e queste sensazioni le porta agli occhi dello spettatore. Si accennava prima alla consapevolezza: i film della Mostra Concorso e della sezione Visti da Vicino hanno in comune la cognizione del cinema come veicolo di prossimità, il che significa che il cinema non deve dimostrare nulla, ma stanare le pluralità del divenire. Una nuova cultura può formarsi da un nuovo modo di guardare, più libero, ma anche più coraggioso, più compromesso. L’uso del digitale sta cambiando il modo di vedere e quello di rappresentare, di narrare, di manipolare il visibile. L’autore, oggi, non può più essere l’intellettuale che “regala” la sua opera ai gusti e ai piaceri della comunità, ma è prima di tutto cittadino, abitatore, fabbricante, investigatore, delatore di realtà. Nuova cultura è dare alle persone occasioni critiche di conoscenza, affinché ognuno possa “misurare” i propri atteggiamenti e i propri pensieri. La singola vicenda, il singolo dramma, tanto di un individuo quanto di una collettività, ci educano a guardare oltre, a svestirci di tante rigidità, a lasciarci turbare dall’impensabile ma anche dalla creatività e dalla stranezza, a incontrare il dolore e la follia. Ci deve essere solidarietà e complicità con chi ci accompagna a fare nuovi incontri, che possono essere anche difficili e aspri, ma che insegnano l’apertura dell’essere dell’altro, con le tante diversità di cui è portatore. Chi ha visto Timbuctu di Abderrahmane 16


Sissako, uscito di recente nelle sale italiane, può avere un riferimento cinematografico per quanto stiamo dicendo. Noi vogliamo che Bergamo Film Meeting sia tutto questo, che proprio nella scelta dei film riesca a lanciare messaggi che contengono parole come disponibilità, comprensione, ascolto, accettazione, parità, impegno, per coltivare quella “modesta utopia”, di cui parlava ancora Albert Camus, un modo d’essere e di pensare che non hanno l’arroganza di mettere le brache al mondo per inseguire sogni dispotici e totalitari, ma possiedono – nel senso di risiedere, nella conoscenza e nel rispetto – la terra, perché si possa ancora immaginare il futuro, per gli esseri viventi e per le cose che la abitano. Insieme all’Europa, parlavamo di Francia. A questo Paese, di cui amiamo la laicità e la tradizione libertaria, è dedicata la prima retrospettiva di quest’anno, Il polar. Nascita e formazione di un genere, che consiste in una ricognizione del polar tra l’inizio degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta. Dire che questo genere pesca nel poliziesco e nel noir, non basta a descriverne le caratteristiche o a individuarne le variazioni. Ogni film è una storia a sé, pur avendo elementi in comune con altri e assorbendo suggestioni dal cinema d’Oltreoceano. In tutti c’è un po’ di comico, di bizzarro, di guascone: un motivo in più per addentrarsi in un mondo che riuscirà da affascinare non solo gli habitués del thriller nelle sue diverse coniugazioni. L’altra retrospettiva ha per titolo Dopo la prova: schermi e palcoscenico e riguarda film che mettono al centro della vicenda il lavoro della messa in scena, con tutte le implicazioni e gli effetti che ne derivano per quanto riguarda la struttura del film stesso, le relazioni tra i personaggi, le opportunità linguistiche e narrative, l’utilizzo dei testi letterari e delle risorse drammaturgiche. Non è teatro filmato, quello che proponiamo, ma cinema nel senso più vero del termine, gioco delle parti, dove la vita irrompe, l’ambiguità cresce, l’intrigo si

Spalle al muro

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complica, la scrittura cinematografica “contamina” l’interpretazione del testo teatrale. Il mondo esterno e quello interiore degli individui divengono a loro volta palcoscenico, dove “si provano” sentimenti, passioni, emozioni. Grandi registi e grandi attori ci porteranno in un territorio dove la realtà si confonde con la finzione, dove i ruoli si scambiano, dove il sipario si alza su scenari inattesi. Ben quattro sono quest’anno le registe che occupano la seconda parte della sezione Europa: femminile, singolare: l’inglese Andrea Arnold, la portoghese Teresa Villaverde, la bosniaca Aida Begić e l’ungherese Ágnes Kocsis. Sono autrici provenienti da Paesi disparati, ognuna con un proprio stile e modo di raccontare: già affermate in campo internazionale, da noi sono conosciute per qualche film isolato della loro filmografia, ma per il resto non sono note al pubblico italiano. Constatiamo, con grande soddisfazione, che la maestranza femminile – non solo registe, quindi, ma anche sceneggiatrici, produttrici, fotografe, agenti di vendita, tecnici vari – è in costante crescita nel nostro continente: nuova cultura è anche nuova sensibilità di sguardo e di attenzione, nuove modalità produttive. Il cinema d’animazione da diversi anni è tra gli interessi primari di Bergamo Film Meeting, che a esso dedica anche parte del programma rivolto ai ragazzi e la masterclass, curata per questa edizione dallo Studio Bozzetto. Il regista che proponiamo e di cui presentiamo l’opera completa è il ceco Pavel Koutský, del tutto sconosciuto nel nostro Paese e figura singolare nel panorama europeo. Inventore di una tecnica particolare, si distingue per lo spirito critico e caustico con cui mette a nudo i meccanismi del potere. Pavel ha messo a disposizione anche molti disegni originali che sono esposti per circa un mese nella sala alla Porta di S. Agostino. Con grande soddisfazione da parte nostra si ripropone la collaborazione con Bergamo Jazz, manifestazione di prestigio internazionale organizzata dal Comune di Bergamo, che vede l’anteprima in Auditorium con l’accompagnamento musicale dal vivo del film di Lubitsch La bambola di carne. A questa circostanza si aggiunge quella che prepara la prossima apertura della nuova Accademia Carrara e che coinvolge il Teatro Sociale con la proiezione del film National Gallery di Frederick Wiseman, una sinfonia cinematografica che mette in scena in maniera originale una delle istituzioni museali più importanti del mondo. L’omaggio all’Accademia Carrara prosegue durante il festival con la riscoperta di una serie televisiva di culto degli anni Sessanta: Belfagor di Claude Barma. Chiudiamo questa presentazione con un ringraziamento affettuoso a Bruno Bozzetto, che ci ha regalato un grazioso e simpatico disegno, che stiamo utilizzando per la raccolta fondi, oltre ad aver dato la disponibilità per l’organizzazione della serata di gennaio. La serigrafia con firma autentica è a disposizione anche nei giorni del festival per chi volesse aggiungersi agli amici sottoscrittori, che anche quest’anno ci hanno ricompensato con la loro fiducia. Solitamente parliamo anche di bilancio, ma, pur sottolineando il costante stato di precarietà di Bergamo Film Meeting e l’inadeguatezza delle risorse necessarie, abbiamo deciso di praticare l’epochè, traslitterazione del greco έποχή, che vuol dire “sospensione del giudizio”, nozione di origine scettica. Sulle orme di Sesto Empirico e di Montaigne, ci mettiamo in uno stato d’animo prossimo all’atarassia, dal greco antico άταραξία, che vuol dire “assenza di agitazione”. Guardiamo alla Grecia, anche se non se la sta passando tanto bene, ma forse è proprio questo il motivo. Lì c’è gran parte della nostra cultura, non dovremmo dimenticarcelo. In ogni caso, abbiamo bisogno di tranquillità per portare a compimento questa edizione. Poi, si vedrà. Bergamo Film Meeting

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MOSTRA CONCORSO EXHIBITION COMPETITION

Ester Amrami

ANDERSWO

ANYWHERE ELSE Germania/Germany, 2014, 87’, col.

Regia/Director Ester Amrami Sceneggiatura/Screenplay Momme Peters, Ester Amrami Fotografia/Cinematography Johannes Praus Montaggio/Editing Osnat Michaeli Scenografia/Set design Dina Kornveits, Ella Spector Costumi/Costume design Keren Eyal Melamed, Nadja Lienig Musica/Music Fabrizio Tentoni Suono/Sound Linus Nickl Interpreti/Cast Neta Riskin (Noa), Golo Euler (Jörg), Hana Laslo (Rachel), Hana Rieber (Henja), Kosta Kaplen (Dudi), Romi Abulafia (Netta), Dovaleh Reiser (Yossi), Alma Ferreras (Rose), Dedi Amrami (Yoav) Produttore/Producer Dirk Manthey Produzione/Production Dirk Manthey Film Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Hochschule für Film und Fernsehen (HFF) Konrad Wolf – University of Film and Television (Cristina Marx), Marlene-Dietrich-Allee 11, D-14482 Potsdam-Babelsberg, Germany, tel. +49 (0)331 6202564, fax +49 (0)331 6202568, distribution@hff-potsdam.de

Filmografia/Filmography Anderswo (Anywhere Else, 2014) Zwei Männer und ein Tisch (Two Men and a Table, short, 2012) Solamente mio – Nur meins (short, 2010) Ha’ joreh (short doc, 2009) At v’ani – You and Me (short doc, 2007) Berlin Diary (short doc, 2006)

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IN UN ALTRO LUOGO [t.l.] Noa vive a Berlino da otto anni, sta per laurearsi e ha un fidanzato tedesco, Jörg, con cui convive. Se pur all’apparenza tutto fila per il verso giusto, Noa improvvisamente va in crisi. Così, mentre la sua tesi sul dizionario di termini non-traducibili è giudicata inaccettabile dalla commissione e Jörg parte in tournée con la sua orchestra, Noa decide di prendersi una pausa e torna in Israele, il suo paese d’origine, per una breve vacanza. È certa che il sole, il cibo, la famiglia e la propria lingua sia tutto ciò di cui ha bisogno. Ma improvvisamente la nonna viene ricoverata, le sue condizioni si aggravano e il soggiorno di Noa si prolunga. E lei torna a sentirsi incompresa proprio come lo era a Berlino. Un giorno a sorpresa arriva Jörg, riportando in collisione i due mondi che Noa teneva accuratamente separati. Ester Amrami (Kfar Saba, Israele) vive a Berlino da dieci anni. Il suo primo cortometraggio documentario Berlin Diary (2006) ha vinto il concorso “Gestures of Reconciliation” assegnato dal Goethe Institute. Il premio le ha aperto le porte del corso di regia alla HFF Konrad Wolf a PotsdamBabelsberg. Qui ha diretto numerosi cortometraggi, presentati a festival cinematografici internazionali, tra cui il “Next Generation Short Tiger” a Cannes 2012. Anywhere Else è il suo primo lungometraggio. «Dopo dieci anni trascorsi a Berlino, posso dire che non è facile vivere in un Paese straniero. Ma del resto, la vita in generale non è materia facile. Indipendentemente da dove si vive. Anche i miei personaggi cercano il loro posto nel mondo, e non solo in senso geografico. Ciascuno di loro giunge con il proprio bagaglio, portandolo da qualche parte o cercando di scaricarlo altrove. Per ciascuno di loro nutro un grande affetto e capisco le loro bizzarrie, le loro paure e la loro unicità. Non li giudico, perché al di là di ogni argomentazione politica e morale, essi cercano di venire a patti con se stessi. E ciò è già abbastanza gravoso. Il film è mosso da questo affetto per i protagonisti e con leggerezza porta il pubblico a confrontarsi con temi quali la propria terra, l’amore, il linguaggio e il senso di appartenenza».


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ANYWHERE ELSE Noa has been living in Berlin for eight years, she is about to graduate and has a German boyfriend, Jörg, with whom she moved in. Although to all appearances everything seems to run smoothly, Noa suddenly goes into crisis. As her thesis, a dictionary for non-translatable words, is deemed inadequate by the committee and Jörg goes on tour with his orchestra, Noa decides to take a break and flies back to Israel, her homeland, for a short holiday. She is sure that sun, food, family and her own language it’s all that she needs. But suddenly her grandmother is hospitalized, her condition rapidly deteriorates and Noa’s stay is extended. And she feels again just misunderstood as she already felt in Berlin. One day unexpectedly Jörg shows up, thus bringing again Noa’s two carefully separated worlds into collision. Ester Amrami (Kfar Saba, Israel) has been living in Berlin for ten years. Her first short documentary Berlin Diary (2006) won the competition “Gestures of Reconciliation” donated by the Goethe Institute. The prize led her to her studies of film directing at the HFF Konrad Wolf in Potsdam-Babelsberg. There she directed several short films which have been screened at international film festivals, amongst them the “Next Generation Short Tiger” in Cannes 2012. Anywhere Else is her first feature length film. «After ten years in Berlin, I can say that it isn’t easy to live in a foreign country. But then again, living isn’t so easy in general. No matter where you live. My characters search for their place too, not only in a geographical sense. Each character comes with her or his own load, carries it somewhere or tries to unload it somewhere else. For every single one of them I feel great affection and I can understand their whims, their fears and their uniqueness. I don‘t judge them, because beyond all moral and political issues, they try to come to terms with themselves. And that is hard enough. The movie is driven by its devotion to the protagonists and it casually moves the audience to contemplate universal themes such as homeland, love, language and belonging».

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Murat Düzgünoğlu

NEDEN TARKOVSKI OLAMIYORUM...

WHY CAN’T I BE TARKOVSKY?

Turchia/Turkey, 2014, 87’, col.

Regia/Director Murat Düzgünoğlu Sceneggiatura/Screenplay Murat Düzgünoglu, Şebnem Vitrinel Fotografia/Cinematography Serdar Güz Montaggio/Editing Ali Aga, Murat Düzgünoglu Scenografia/Set design Osman Özcan Costumi/Costume design Damla Zavur Musica/Music Reşit Gözdamla Interpreti/Cast Tansu Biçer (Bahadir), Esra Kizildoğan (Yonca), Vuslat Saraçoğlu (Ceyda), Menderes Samancilar (Hasan, lo scrittore/the writer), Recep Yener (il padre/the father), Sacide Taşaner (la madre/the mother), Kadim Yaşar (Seyit), Antonio Stokes (Jim) Produttori/Producers Murat Düzgünoğlu, Osman Özcan Produzione/Production Kuzgun Film, Fikirtepe Film Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Kuzgun Film (Vuslat Saraçoğlu), vuslatsaracoglu@yahoo.com

Filmografia/Filmography Neden Tarkovski olamıyorum... (Why Can’t I Be Tarkovsky?, 2014) Bir yolun öyküsü: Aleviler (The Story of a Road: The Alevis, doc, 2010) Uygun adım aşk (Love in Synchronised Steps, tv series, 2009) Emret Komutanım (Yes Sir, tv series, 2008) Hayatın tuzu (The Salt of Life, 2008) Ümit milli (tv series, 2006) Şifaci (The Healer, tv series, 2006) Kabare kabare (Cabaret Cabaret, tv series, 2004) Tanrıları giydiren Anadolu (Anatolia Dresses the Gods, doc, 1997)

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PERCHÉ NON POSSO ESSERE TARKOVSKIJ [t.l.] Bahadir, un aspirate regista trentacinquenne, per campare realizza film televisivi da quattro soldi ispirati alle storie delle canzoni folk turche. Il suo sogno più grande, però, è poter fare almeno un film come il suo idolo: Andrej Tarkovskij. In mezzo ci sono le difficoltà di tutti i giorni: le bollette da pagare, i coinquilini un po’ rozzi e inaffidabili, una fidanzata che non si sente sufficientemente capita e apprezzata, i genitori e la casa di famiglia. La frustrazione è l’unica fedele compagna, soprattutto quando si trova sul set del suo film e deve fare i conti con risorse di produzione alquanto limitate e soluzioni sempre arrangiate. C’è solo un anziano scrittore con cui Bahadir ha un rapporto speciale, l’unico forse ad avere una relazione pura con la vita. Murat Düzgünoğlu (Istanbul, Turchia, 1969) ha studiato ai dipartimenti di Cinema e Televisione della Mimar Sinan Fine Arts University e alla Marmara University di Istanbul. Tra il 2003 e il 2006 ha diretto documentari e una decina di film televisivi. Nel 2008 il suo film di esordio The Salt of Life è stato presentato al Bursa International Silk Road Film Festival, dove ha vinto il Premio Speciale della Giuria. Why Can’t I Be Tarkovsky? è il suo secondo lungometraggio. «A volte, quando ci accorgiamo che i nostri sogni stanno per scivolare via, diventiamo molto sensibili e guardinghi rispetto a coloro che riescono a realizzare i propri desideri. Siamo presi dal sentimento che il resto del mondo avrà successo e solo noi falliremo. È un atteggiamento mentale depressivo che sa di autocommiserazione, ma che aiuta anche a nutrire un senso di indignazione e alimenta l’ambizione. Why Can’t I Be Tarkovsky? è nato così. L’idea di essere intrappolato tra il presente e il futuro, o comunque si vogliano chiamare i propri sogni, è uno dei temi fondamentali con cui un artista si confronta. Ed è un problema universale. Vedere che il tempo passa inesorabilmente, osservare i progressi compiuti dagli altri, artisti più giovani, e convivere con l’idea che sia troppo tardi... Queste erano le cose che allora mi ossessionavano. Prima avevo scritto due sceneggiature, ma non mettevo esattamente a fuoco che cosa non andava. Ero lontano dal capire che la necessità di soddisfare il mio ego stava nel bel mezzo di una storia semplice e genuina, ispirata alle mie esperienze, che guardasse a temi vicini al mio cuore».


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WHY CAN’T I BE TARKOVSKY? Bahadir, an aspiring 35-year-old director, manages his life making cheap television films inspired by the stories of Turkish folk songs. But his greatest dream is to make at least one movie like his idol: Andrey Tarkovsky. In between there are the difficulties of everyday life: bills to pay, housemates a bit rough and unreliable, a girlfriend who does not feel sufficiently understood and appreciated, the parents and the family home. Frustration is the only faithful companion, especially when he is on the set of his movie and has to deal with very limited production resources and always arranged solutions. There is only an old writer with whom Bahadir has a special feeling, maybe the only one able to have a pure relationship with life. Murat Düzgünoğlu (Istanbul, Turkey, 1969) studied at the Cinema and Television departments of the Mimar Sinan Fine Arts University and the Marmara University in Istanbul. Between 2003 and 2006 he directed documentaries and about ten television movies. In 2008, his debut feature film The Salt of Life was screened at the Bursa International Silk Road Film Festival, where it received the Special Jury Prize. Why Can’t I Be Tarkovsky? is his second feature film. «At times, when you realize that your dreams are slipping out of reach, you become extra sensitive and alert to people who do manage to actualize their wishes. You’re seized by the feeling that the rest of the world will be successful and only you will fail. It’s a depressive mindset that stinks of self-pity, but it also helps nurture a sense of indignation and fire your ambition. It was at this stage that Why Can’t I Be Tarkovksy? came about. The idea of being trapped between the present day and the future, or your dreams by any other name, is one of the most basic issues facing an artist. And it’s a universal problem. Watching time tick relentlessly by, seeing the progress made by other, younger artists, living with the sense of being too late... These were all things that haunted me at the time. I’d written two screenplays before, but I couldn’t figure out exactly what was wrong. I was a long way from understanding that the need to satisfy my own ego was standing in the way of a simple, genuine story inspired by my own experiences, one which revolved around matters close to my heart».

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Jon Garaño, José Mari Goenaga

LOREAK

FLOWERS

Spagna/Spain, 2014, 99’, col.

Regia/Director Jon Garaño, José Mari Goenaga Sceneggiatura/Screenplay Jon Garaño, José Mari Goenaga, Aitor Arregi Fotografia/Cinematography Javier Agirre Erauso Montaggio/Editing Raúl López Scenografia/Set design Mikel Serrano Costumi/Costume design Saioa Lara Musica/Music Pascal Gaigne Suono/Sound Iñaki Díez Interpreti/Cast Nagore Aranburu (Ane), Itziar Ituño (Lourdes), Itziar Aizpuru (Tere), Josean Bengoetxea (Beñat), Egoitz Lasa (Ander), Ane Gabarain (Jaione) Produttori/Producers Xabi Berzosa, Iñaki Gómez, Íñigo Obeso Produzione/Production Irusoin, Moriarti Produkzioak Distribuzione, Contatti/Distribution, Contacts Film Factory, C/Lincoln 11, 3º 3ª 08006 Barcelona, Spain, tel. +34 933 684608, info@filmfactory.es, www.filmfactoryentertainment.com

Filmografia essenziale/Selected filmography Jon Garaño Loreak [co-regia/co-director José Mari Goenaga] (Flowers, 2014) 80 egunean [co-regia/co-director José Mari Goenaga] (In 80 Days, 2010) Perurena (2010) Asämara [co-regia/co-director Raúl López] (short doc, 2009) FGM (short doc, 2008) Sahara Marathon [co-regia/co-director Aitor Arregi] (doc, 2004) José Mari Goenaga Loreak [co-regia/co-director Jon Garaño] (Flowers, 2014) 80 egunean [co-regia/co-director Jon Garaño] (In 80 Days, 2010) Compartiendo Glenda (short, 2000)

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FIORI [t.l.] Un giorno Ane, una donna non più giovanissima in un periodo delicato della sua vita, inizia a ricevere un mazzo di fiori all’indirizzo di casa: ogni giovedì alla stessa ora, e sempre in forma rigorosamente anonima. Ogni settimana un mazzo di fiori diversi. Al cantiere in cui Ane lavora c’è Beñat, un uomo che osserva il mondo dall’alto della cabina di una gru. E poi ci sono altre due donne, Lourdes e Tere, le cui vite sono in qualche modo condizionate da misteriosi fiori, che una sconosciuta lascia in memoria di qualcuno a loro caro. I fiori porteranno le donne a confrontarsi con sentimenti che da tempo credevano sopiti. Ma in fondo, non sono altro che fiori; e una persona muore solo quando se ne va dai nostri ricordi. Jon Garaño (San Sebastián, Spagna, 1974) è regista, produttore e sceneggiatore. Ha studiato giornalismo e pubblicità alla EHU-UPV (Euskal Herriko Unibertsitatea/Universidad del País Vasco) di Leioa e cinema al Sarobe Centro de Artés Escénicas di Urnieta (Paesi Baschi) e poi a San Diego (CA). I suoi cortometraggi – tra cui Despedida (2001), Miramar Street (2006), On the Line (2008), Urrezko eraztuna (2011) – hanno ottenuto numerosi premi internazionali e i suoi documentari sono stati presentati in più di quindici Paesi. José Mari Goenaga (Ordizia, Spagna, 1976) dopo gli studi in economia a San Sebastián, ha frequentato il corso di cinema al Sarobe Centro de Artés Escénicas di Urnieta (Paesi Baschi). Oltre ai cortometraggi da lui diretti, tra cui i pluripremiati Tercero B (2002), Sintonía (2005) e Lagun mina (2011), ha co-sceneggiato e co-diretto, con Iñigo Berasategui, il cortometraggio di animazione Supertramps e, con Aitor Arregi, il lungometraggio documentario Lucio, entrambi nominati ai Goya come miglior film rispettivamente nel 2005 e nel 2007. «Viviamo circondati dai fiori. Fiori ai matrimoni e ai funerali, fiori su un tavolo, fiori sulla carta da parati, in un giardino o lungo una strada. Diamo l’idea di ricorrere alla loro immagine costantemente, con l’intento di esprimere ciò che spesso non sappiamo dire a parole. Sono poche le immagini che riescono a rendere tante cose, così diverse tra loro. E in base al contesto in cui si trovano, il significato dei fiori può cambiare radicalmente. E ancor più il significato cambia in base alla persona che li guarda o a chi li riceve. A partire da questa ambiguità e possibilità di significati nasce l’idea di Loreak. Ci sembrava interessante esplorare come qualcosa all’inizio tanto spoglio di significato, come un mazzo di fiori, potesse infine trasformarsi nel più sincero dei messaggi. E insieme cambiare la realtà del suo destinatario. Loreak è un film pieno di fiori, nei contesti più diversi, che raccontano storie diverse. Ma che alla fine convergono in un unico discorso».


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FLOWERS One day Ane, a no longer young woman in a delicate period of her life, begins to receive a bouquet of flowers to her house: every Thursday at the same time, and always strictly anonymous. Every week a bouquet of different flowers. At the construction site where Ane works there is Beñat, a man who looks down at the world from the cab of a crane. And then there are two other women, Lourdes and Tere, whose lives are in some way affected by mysterious flowers, which a stranger leaves every week in memory of someone dear to them. The flowers will lead women to cope with feelings that had seemed long forgotten. But in the end, they are nothing more than flowers; and people dies only when fades away from our memories. Jon Garaño (San Sebastián, Spain, 1974) is a director, producer and screenwriter. He studied journalism and advertisement at the EHU-UPV UPV (Euskal Herriko Unibertsitatea/Universidad del País Vasco) in Leoia and cinema at the Sarobe Centro de Artés Escénicas di Urnieta (Basque Country) and then in San Diego (CA). His shorts – such as Despedida (2001), Miramar Street (2006), On the Line (2008), Urrezko eraztuna (2011) – have gained numerous international prizes and his documentaries have been screened in over than fifteen countries. José Mari Goenaga (Ordizia, Spain, 1976) after the studies in business in San Sebastián, attended the course of cinema at the Sarobe Centro de Artés Escénicas di Urnieta (Basque Country). Besides the shorts he has directed, such as the pluri-award winning Tercero B (2002), Sintonía (2005) and Lagun mina (2011), he co-directed and co-screenplayed, with Iñigo Berasategui, the short animated movie Supertramps and, with Aitor Arregi, the documentary Lucio, which both got a nomination to the Goya as best movie respectively in 2005 and 2007. «We are surrounded by flowers. Flowers at weddings and funerals, flowers on a table, flowers on the wallpaper, in a garden or along a street. Let’s take the idea to go back to their image constantly, with the intent to convey what often we can not say by words. There are very few images that can manage to convey so many and so different things. And according to the context in which they are, the meaning of flowers can totally change. And even more the meaning changes according to the person who looks at them or to the one who receive them. Starting from this ambiguity and possibility of meanings, comes out the idea of Loreak. We found interesting to explore how something in the beginning so bare of meaning, like a bouquet of flowers, could eventually become the most sincere of the messages. And as far to change the reality of the recipient. Loreak is a film full of flowers, in very different contexts, which tell different stories. But that eventually converge in a single speech».

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Juris Kursietis

MODRIS Lettonia | Germania | Grecia/Latvia | Germany | Greece, 2014, 98’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Juris Kursietis Fotografia/Cinematography Bogumil Godfrejów Montaggio/Editing Yorgos Mavropsaridis Scenografia/Set design Aivars Žukovskis Costumi/Costume design Katrīna Liepa Musica/Music Līga Celma-Kursiete Suono/Sound Leandros Ntounis Interpreti/Cast Kristers Pikša (Modris), Rēzija Kalniņa (la madre/the mother), Sabīne Trumsiņa (Linda), Kaspar Zvīgulis (l’avvocato/the attorney), Lauris Dzelzītis (l’ispettore di polizia/the police inspector) Produttori/Producers Vicky Micha, Juris Kursietis, Ingmar Trost Produzione/Production Red Dot Media, Sutor Kolonko, Boo Productions Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Boo Productions, 26 Ierou Lohou St. 15124 Athens, Greece, tel. +30 210 6100730, fax +30 210 6106790, vicky@booproductions.gr, www.booproductions.gr

Filmografia/Filmography Modris (2014) Hackers (doc, 2010) January 13th (doc, 2009) The Escape From Cuba (doc, 2009)

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MODRIS Modris vive a Riga ed è un diciassettenne come tanti, con una ragazza e dei compagni di classe. Ma la sua dipendenza dal gioco d’azzardo accresce il conflitto con la madre, che non fa che ripetergli che suo padre, finito in carcere, è un irresponsabile buono a nulla e di certo anche la causa dei geni che hanno condotto il ragazzo sulla cattiva strada. La misura si colma quando Modris, nel pieno del rigido inverno baltico, vende il calorifero elettrico della madre per giocare alle slot machines. Lei lo denuncia alla polizia perché possa imparare la lezione, ma l’atteggiamento di Modris cambia in peggio. Condannato a due anni di libertà vigilata, ora ha un unico obiettivo: trovare quel padre assente che non ha mai conosciuto. Juris Kursietis (Lettonia) è scrittore e regista. Ha studiato regia e sceneggiatura alla Sheffield Hallam Northern Media School in Inghilterra. Ha iniziato la carriera all’età di vent’anni, lavorando per la televisione lettone come corrispondente dall’estero. Dopo sei anni è tornato al cinema conseguendo un master in regia, sempre a Sheffield. Nel 20072008 ha lavorato come primo assistente regista per diverse produzioni in Lettonia. Nel 2008 è entrato a far parte della Red Dot Media, dove da allora ha diretto numerosi spot pubblicitari e documentari e ha lavorato come sceneggiatore. Modris è il suo film di esordio. «Un amico avvocato mi parlò di un caso a cui aveva lavorato. Era accaduto diversi anni prima, ma non riusciva a dimenticarlo e si sentiva in colpa per non aver fatto abbastanza all’epoca dei fatti. Questa storia mi colpì moltissimo e rimase lì nella mia memoria per più di un anno. Un giorno, a febbraio del 2011, mi svegliai e decisi di scrivere un soggetto tratto da quegli eventi. Dopo accadde tutto molto rapidamente. La storia piacque subito a tutti coloro a cui la mostrai e farla diventare un film sembrò una cosa naturale. Ci vollero solo tre anni per arrivare alla première. La veridicità della storia era l’elemento chiave, e poiché la storia è ispirata a fatti realmente accaduti, volevo che il film avesse quella stessa autenticità. Indipendentemente dal fatto che uno viva in Lettonia, in Canada o in India, i rapporti umani sono gli stessi ovunque. Questo è un film sulle relazioni e il potere, tra genitori e figli, lo Stato e i cittadini, e mostra quanto spesso la compassione e l’umanità siano dimenticate. Magari non intenzionalmente, ma perché è difficile per tutti fare la cosa giusta».


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MODRIS Modris lives in Riga and he is a normal 17-year-old, with a girlfriend and some pals at school. But his addiction to gambling fuels an ongoing conflict with his mother, who can’t stop reminding Modris that his father is incarcerated, irresponsible, no good to anyone, and surely the source of the bad genes that have led the boy astray. Things come to a head when Modris, in the middle of the punishing Baltic winter, pawns his mother’s electric heater so he can play the slot machines. She betrays him to the police so that he can finally learn his lesson, but Modris’s attitude changes for the worse. Sentenced to two years of probation, he sets his mind on a single goal: finding that longabsent father he never knew. Juris Kursietis (Latvia) is a writer and a director. He studied film directing and screenwriting at the Sheffield Hallam Northern Media School in England. He started his career at the age of twenty, when he worked for the Latvian television as a foreign news correspondent. After six years he turned to cinema and got a master in film directing at the Sheffield. In 2007-2008 he worked as first assistant director on several feature films in Latvia. In 2008 he joined the Red Dot Media, where since then he has directed numerous tv commercials and documentaries and worked as a scriptwriter. Modris is his debut feature film. «A friend who’s a lawyer told me about a case he worked on. It happened several years ago, but he couldn’t forget it and he blamed himself for not having done enough at the time. This story made a very deep impression on me, and it was in the back of my mind for a year or so. One day in February 2011, I woke up and decided to write a treatment based on these events. After that, everything happened very fast. The story impressed everyone I showed it to, and making it into a film seemed natural. It took only three years till the première. The truthfulness of the story was the crucial factor: since the story is based on true events, I also wanted the film to have that authenticity. So it doesn’t matter whether you live in Latvia, Canada or India because the basic human relationships are the same everywhere. This film is about relationships and power, between parents and their children, the State and its citizens, and shows how compassion and humanity is often forgotten. Maybe not intentionally, but because it’s very hard for everyone to do the right thing».

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Franco Lolli

GENTE DE BIEN Colombia | Francia/Colombia | France, 2014, 87’, col.

Regia/Director Franco Lolli Sceneggiatura/Screenplay Franco Lolli, Catherine Paillé Fotografia/Cinematography Óscar Durán Montaggio/Editing Nicolas Desmaison, Julie Duclaux Scenografia/Set design Marcela Gómez Costumi/Costume design Marcela Gómez Montoya Suono/Sound Matthieu Perrot Interpreti/Cast Brayan Santamaria (Eric), Carlos Fernando Pérez (Gabriel), Alejandra Borrero (Maria Isabel), Santiago Martínez (Francisco), Sofía Rivas (Juana) Produttori/Producers Grégoire Debailly, Franco Lolli Produzione/Production Geko Films, Evidencia Films Distribuzione, Contatti/Distribution, Contacts Versatile (Alexandre Moreau), 135 boulevard de Sébastopol, 75002 Paris, France, tel. +33 1 76216168, amoreau@versatile-films.com, www.versatile-films.com

Filmografia/Filmography Gente de bien (2014) Rodri (short, 2012) Un juego de niños (short, 2010) Como todo el mundo (short, 2006)

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BRAVA GENTE [t.l.] Eric ha dieci anni e dall’oggi al domani si ritrova a vivere con Gabriel, il padre che conosce appena, in un miserabile quartiere della periferia di Bogotà. Maria Isabel, una donna benestante per cui Gabriel saltuariamente lavora come tuttofare, nel vedere che l’uomo ha delle difficoltà nel rapporto con il bambino e per venire incontro ai loro bisogni, li invita a trascorrere le vacanze di Natale nella lussuosa villa di famiglia. Ben presto, però, le tensioni che si innescano tra i facoltosi proprietari e gli umili ospiti rivelano il divario tra le buone intenzioni mosse dallo spirito natalizio e la ferrea realtà gerarchica della struttura di classe. Franco Lolli (Bogotà, Colombia, 1983) ha studiato regia a La Fémis di Parigi. Il suo film di diploma Como todo el mundo (2006) è stato selezionato in oltre cinquanta festival internazionali, ottenendo il Grand Prix du Jury al festival di Clermont-Ferrand. Il suo ultimo cortometraggio Rodri è stato presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2012. Gente de bien, scritto durante la residenza alla Cinéfondation e presentato alla Semaine de la Critique a Cannes 2014, è il suo primo lungometraggio. «In Francia, come in Colombia, l’espressione “gens bien” o “gente de bien” ha due diversi significati: si riferisce sia a chi fa delle buone azioni sia a chi, appartenente a un contesto sociale benestante, possiede beni materiali. Il mio film gioca sull’ambiguità tra i due significati. Da un lato, c’è una donna che crede di fare una buona azione allontanando un bambino dal padre, e dall’altro lato c’è un bambino che, per il tempo di un’estate, si ritrova integrato in un contesto sociale superiore al suo. Quest’ultimo tema è al centro di Gente de bien, poiché volevo ritrarre un conflitto sociale da un punto di vista intimo. Per me il film è innanzitutto e soprattutto un film sulla famiglia; anche se, nello scriverlo, mi sono accorto che stavo facendo un collegamento un po’ strano e inconsapevole tra le relazioni familiari e quelle economiche. In effetti per me il tema dell’abbandono è legato all’idea di spostamento da una classe sociale all’altra. Al cuore di Gente de bien c’è anche una sorta di racconto morale; in realtà credo che il film debba molto al tradizionale racconto di Natale».


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GENTE DE BIEN Eric is a 10-year-old boy who is sent to live almost overnight with Gabriel, the father who he barely knows, in a grungy quarter of downtown Bogota. Maria Isabel, a wealthy woman for whom Gabriel occasionally works as a handyman, sees that the man has difficulties in the relationship with the child and to meet their needs invites them to stay over the Christmas holiday at her family’s luxury villa. But soon, however, the tensions that trigger between the wealthy owners and the poor guests reveal the gap between good intentions moved by the Christmas spirit and the starker hierarchical reality of the class structure. Franco Lolli (Bogota, Colombia, 1983) studied directing at La Fémis in Paris. His graduation film Como todo el mundo (2006) has been selected from over fifty international film festival and got the Grand Prix du Jury at Clermont-Ferrand. His latest short film Rodri was presented at the Quinzaine des Réalisateurs in Cannes 2012. Gente de bien, written during the residency at the Cinéfondation and screened at the Semaine de la Critique in Cannes 2014, is his first feature film. «In France, like in Colombia, the expression “gens bien” or “gente de bien” has two different meanings: it refers either to people who do good deeds and or those who, coming from an affluent background, possess material goods. My film plays with the ambiguity between the two meanings. On one hand, there is a woman who believes she is doing good by taking a child away from his father, and on the other there is a child who, for one summer, find himself integrated into a higher social class. This latter theme is at the heart of Gente de bien, since I wanted to depict a social conflict from an intimate angle. To me the pic is first and foremost a film about family; even though I realised, as I was writing it, that I was making a somewhat odd and unconscious connection between family relationships and financial relationships. Indeed the issue of abandonment is to me linked to the idea of tipping over from one social class to another. At the heart of Gente de bien there is a kind of morality tale, as well; indeed I think the film owes a lot to the traditional Christmas tale».

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Nini Bull Robsahm

AMNESIA Norvegia/Norway, 2014, 74’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Nini Bull Robsahm Fotografia/Cinematography Axel Mustad, Håvard Byrkjeland Montaggio/Editing Erlend Mjømen Knudsen Scenografia/Set design Louise Andersson Costumi/Costume design Stine Nesset Hjelvik Musica/Music Henrik Skram Suono/Sound Johannes Dekko Interpreti/Cast Pia Tjelta (Kathrine Odegaard), Christian Rubeck (Thomas Winther) Produttori/Producers Kjetil Omberg, Terje Strømstad Produzione/Production Tappeluft Pictures Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Norwegian Film Institute (Knut Skinnarmo), P.O. Box 485 Sentrum, N-0105 Oslo, Norway, tel. +47 22474500, fax +47 22474599, int@nfi.no, www.nfi.no

Filmografia/Filmography Amnesia (2013) Hjelp, vi er i filmbransjen! [co-regia/co-director Patrik Syversen] (You Said What?, 2011)

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AMNESIA [t.l.] Thomas e Kathrine, entrambi scrittori, decidono di trascorrere un romantico weekend su una remota isola al largo della costa norvegese. Soli, in uno chalet, per due giorni. L’idea è quella di rilassarsi e, per Kathrine, è l’opportunità di finire il suo primo romanzo. Thomas invece, già affermato autore di bestseller, vorrebbe metter su famiglia e avere dei figli. Quando capisce che lei non condivide il suo desiderio, la tensione sale e, nel corso di una lite, Thomas cade, picchia la testa e perde la memoria. Quando l’indomani si risveglia non sapendo chi è, Kathrine vede l’opportunità per poter ricominciare una nuova vita con lui, l’uomo sensibile di cui si è innamorata. Ma se lui stesse solo fingendo o, peggio, improvvisamente ricordasse tutto? Nini Bull Robsahm (Arendal, Norvegia, 1981) è regista e sceneggiatrice, figlia di Oddvar Bull Tuhus (regista e produttore) e Margrete Robsahm (regista e attrice). Ha studiato al NISS (Nordic Institute of Stage and Studio) a Oslo e ha lavorato soprattutto come assistente alla regia finché non è passata davanti alla macchina da presa recitando in Manhunt (2008) di Patrik Syversen. Da allora ha lavorato allo sviluppo di diverse sceneggiature, fino al suo esordio alla regia con la commedia romantica You Said What? nel 2011, film co-sceneggiato e co-diretto con Patrik Syversen. Nel 2014 ha avviato, con Axel Mustad, una casa di produzione indipendente, la Canopyfilm. Amnesia è il suo film di esordio da solista. «Amnesia è il terzo film che ho scritto, e la mia seconda prova come regista. In molti sensi, però, è come se fosse il mio primo film, perché è interamente mio. È il tipo di film che voglio fare. Per un verso o per l’altro, le mie storie tendono sempre alla zona più scura della scala cromatica. L’idea per lo script mi è venuta durante uno dei miei attacchi di insonnia: due persone intrappolate in uno chalet e uno dei due soffre di amnesia. Le relazioni distruttive si basano spesso su manipolazioni e dinamiche di potere. Cosa succede allora se si innesca la miccia, e si dà a uno dei due un apparente vantaggio? [...] Amnesia è un piccolo film sulle eterne, universali dinamiche di relazione uomo/donna. Su come una situazione apparentemente sotto controllo possa rapidamente sfuggire di mano quando entra in gioco il fattore umano. Come può succedere che due persone che si amano finiscano per essere acerrimi nemici? Chi siamo, davvero – e possiamo cambiare? Amnesia tratta eventi altamente drammatici, ma in modo molto sfumato, così che sia il pubblico a trarre le proprie conclusioni».


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AMNESIA Thomas and Kathrine, both writers, decide to spend a romantic weekend on a remote island off the coast of Norway. Alone, in a chalet, for two days. The idea is to relax and for Kathrine it is the opportunity to finish her first novel. Thomas instead, who is already a stated bestsellers’ author, would like to start a family and have children. When he realizes that she doesn’t share his desire, the tension mounts and, during of a fight, Thomas falls, hits his head and loses his memory. When the following day he wakes up not knowing who he is, Kathrine sees the opportunity to start a new life with the sensitive man of whom she fell in love. But what if he was just pretending, or worse, suddenly remembered everything? Nini Bull Robsahm (Arendal, Norway, 1981) is a director and screenwriter, daughter of Oddvar Bull Tuhus (director and producer) and Margrete Robsahm (director and actress). She was educated at NISS (Nordic Institute of Stage and Studio) in Oslo and worked primarily as an assistant director until she jumped in front of the camera starring in Manhunt (2008) by Patrik Syversen. She has since then worked on the development of several screenplays, until her directorial debut with the romantic comedy You Said What? in 2011, a film co-written and co-directed with Patrik Syversen. In 2014 she started an indie production company with Axel Mustad called Canopyfilm. Amnesia is her solo debut film. «Amnesia is the third feature I’ve written, and my second directing effort. But in many ways, it is my first film, because it’s entirely my own. This is the kind of movie I want to make. For better or worse, my stories tend towards the darker end of the spectrum. The idea for the script came during one of my bouts with sleeplessness: two people trapped in a cabin, where one of them suffers from amnesia. Destructive relationships often are based in manipulations and power struggles. So what if you turned up the heat, and gave one of the two an apparent advantage? [...] Amnesia is a small film about the eternal, universal dynamic that occurs in relationships between men and women. About how a seemingly controlled situation can quickly spin out of control once the human factor is figured in. How do two people who love each other end up as bitter enemies? Who are we, really – and can we change? Are we doomed to repeat our mistakes over and over? Amnesia includes highly dramatic events, but it’s told in a subtle way, so that the audience may draw their own conclusions».

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Virág Zomborácz

UTÓÉLET

AFTERLIFE

Ungheria/Hungary, 2014, 95’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Virág Zomborácz Fotografia/Cinematography Gergely Pohárnok Montaggio/Editing Károly Szalai Scenografia/Set design Lilla Takács Costumi/Costume design Nóra Zelenka Musica/Music Ádám Balázs Suono/Sound Róbert Juhász Interpreti/Cast Márton Kristóf (Mózes), László Gálffi (il pastore/the pastor, il fantasma/ the ghost), Eszter Csákányi (zia/aunt Janka), Andrea Petrik (Angéla), Krisztina Kinczli (Teréz), Lili Rozina Hang (Ramóna), József Gyabronka (il decano/the dean), Zsolt Anger (il meccanico/ the car repair man) Produttore/Producer Ferenc Pusztai Produzione/Production KMH FILM, Magyar Filmunió – Hungarian National Film Fund Distribuzione, Contatti/Production, Distribution, Contacts Magyar Filmunió – Hungarian National Film Fund (Márta Bényei), Városligeti fasor 38, 1068 Budapest, Hungary, tel. +36 135 17760, fax +36 135 26734, androsovits.klaudia@filmalap.hu, www.filmfund.hu

Filmografia/Filmography Afterlife (2014) Dipendenza [co-regia/co-director] (short animation, 2012) Valami kék (Something Blue, short, 2011) Track Change [co-regia/co-director] (short, 2007) A macska szerepe a francia irodalomban (The Cat’s Role in French Literature, short, 2006)

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Dopo la vita [t.l.] Mózes è un giovanotto diffidente e insicuro cha ha terminato gli studi in teologia e vive con la famiglia in un villaggio ungherese. La relazione con il padre, un autoritario pastore protestante, è piuttosto complicata, contraddistinta da disprezzo e indifferenza. Un giorno il padre all’improvviso muore e il suo fantasma inizia ad apparire a Mózes, l’unico in grado di vederlo. Mózes tenta disperatamente di capire come fare perché lo spirito del padre possa trovare finalmente pace e sembra che, per la prima volta in vita sua, si trovi nella condizione di dover gestire con determinazione le cose da solo. Ma per Mózes è soprattutto l’opportunità di regolare (in modo molto bizzarro) i suoi problemi di relazione con il defunto. Virág Zomborácz (Budapest, Ungheria, 1985) ha terminato gli studi in sceneggiatura e drammaturgia alla Színház- és Filmművészeti Egyetem (Accademia di Teatro e Arti Filmiche) di Budapest nel 2009. Nel 2010 il suo romanzo breve Lonesome No More è stato pubblicato nell’antologia bestseller Jungle in the Heart. Come regista ha realizzato cortometraggi e video d’arte, tra cui The Cat’s Role in French Literature (2006), Something Blue (2011), Dipendenza (2012), che sono stati presentati in diversi festival cinematografici internazionali. Ha inoltre diretto spot pubblicitari e ha collaborato alla sceneggiatura di serie televisive per l’HBO ungherese. La sceneggiatura di Afterlife, il suo film di esordio, ha vinto il MEDIA European Talent Prize a Cannes 2011. «Afterlife è una commedia di formazione che, invece di affrontare i conflitti sociali, guarda principalmente all’individuo e alle istanze della pische umana. I temi centrali sono il rapporto padre-figlio e la famiglia, la mutazione dei valori tradizionali e la possibilità di comunicazione. Il protagonista è Mózes, un giovane ventenne che non desidera altro che una vita normale. Ma le persone intorno a lui e il (quasi letteralmente) ossessionante padre lo spingono di continuo in situazioni in cui non può far altro che reagire. Sebbene le sue azioni terminino in fiaschi, queste servono a forgiare Mózes in un eroe adulto, attivo e indipendente. Il fantasma del padre, che è reale agli occhi del ragazzo, può anche essere visto come un’allucinazione, una reazione al suo disagio o magari, più precisamente, come una proiezione del processo di elaborazione del lutto. E così il fantasma, all’inizio completamente disorientato, a poco a poco diventa sempre più a fuoco, fino ad arrivare ad accettare il figlio per quello che è».


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Afterlife Mózes is a diffident, insecure young man who has finished theology studies and lives with his family in a hungarian village. His relationship with his father, an authoritative Protestant pastor, is rather complicated, characterized by disdain and indifference. One day, the father unexpectedly dies and his ghost begins appearing to Mózes, the only one who can see him. Mózes struggles to figure out how his father’s spirit might find peace, and it seems that, for the first time in his life, he’s been put in a situation in which he must take things firmly into his own two hands. At the same time, this is an opportunity to fix (in a quite weird way) his problems in the relationship with the deceased. Virág Zomborácz (Budapest, Hungary, 1985) completed her studies in scriptwriting and dramaturgy at the Színház- és Filmművészeti Egyetem (Academy of Theatre and Film Arts) in Budapest in 2009. In 2010 her short story Lonesome No More was published in the bestseller anthology Jungle in the Heart. As a director she made short films and video art pieces, including The Cat’s Role in French Literature (2006), Something Blue (2011), Dipendenza (2012), which have been screened at several international film festivals. She has also directed a number of commercials and has collaborated on the screenplays for television series for the Hungarian HBO. The script for Afterlife, her feature debut film, brought her a MEDIA European Talent Prize at Cannes 2011. «Afterlife is a coming-of-age comedy that, rather than addressing social conflicts, it mainly focuses on the individual and the instances of the human psyche. Its central issues are the father-son relationship and the family, the changing of traditional values and the possibility of communication. The central figure is Mózes, a young man in his twenties who would like nothing more than a normal life. However, people around him and his (quite literally) haunting father continually push him into situations where he has no choice but to act. Although his actions usually end as fiascoes, they serve to shape Mózes into an independent, active, adult hero. The ghost of the father, which is real in the eyes of the boy, can just as well be regarded as a hallucination, a reaction to his anxiety or perhaps, more accurately, as a projection of the grieving process. And thus the ghost, who at first is completely disoriented, gradually becomes more and more focused, untill he is able to accept his son as he is».

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ALBERTO VALTELLINA

GLI SCHERMI, IL PALCOSCENICO E L’IGNOTO Jerzy Grotowski, il grande regista e teorico, così scrive nell’utilissimo libro Per un teatro povero: «Io non allestisco un dramma per insegnare agli altri ciò che già conosco. È soltanto dopo aver completato una produzione teatrale e non prima che sento di saperne di più. Un metodo che non penetri fino all’ignoto è un cattivo metodo». Tutti i film della sezione Visti da Vicino sposano inevitabilmente questa affermazione. La sposano per scelta e la sposano per necessità. Sarebbe interessante poter leggere il trattamento dei film prima della loro produzione, quando il regista deve convincere i finanziatori, i produttori, della potenzialità commerciale del suo lavoro. Quando si ha questa possibilità ci si rende conto di quanto la produzione di un film – chiamiamolo pure – documentario sia un viaggio nell’ignoto, un viaggio che il regista compie e che propone poi allo spettatore, viaggiatore comodo. Anche quella che con malcelato disprezzo viene definita “documentazione”, in contrasto con il non meglio precisato “documentario di creazione”, implica una complessa costruzione con i soggetti e i contesti indagati, un’attenzione estrema perché le relazioni siano equilibrate. I più sensibili vorranno comprendere, vorranno arrivare a saperne di più, i più cinici avranno come obiettivo quello che viene definito “portarsi a casa il film”. Per tutti il viaggio è verso l’ignoto. I viaggi di quest’anno nella sezione Visti da Vicino: in Pixadores, Amir Escandari segue quattro folli street artists brasiliani alla Biennale di Berlino. La documentazione di una elaborazione artistica nel Bronx, a New York, è Thomas Hischhorn – Gramsci Monument, in cui il regista svizzero Angelo Lüdin deve gestire al meglio la relazione con l’irruente artista Thomas Hischhorn. È solo in apparenza più semplice il lavoro di Francesco Clerici, Il gesto delle mani, in cui ci mostra la nascita di una statua bronzea, dalla cera alla lucidatura: un processo lavorativo che in realtà si trasforma in suspense, in trepida attesa. Marcell Gerő in Cain’s Children, ritrova tre ex carcerati: a quindici anni avevano commesso crimini efferati, oggi sono cinquantenni che hanno scontato una pena durissima nelle carceri dell’Ungheria comunista. In Waiting for August, Teodora Ana Mihai condivide le giornate di Georgiana, quindicenne rumena e dei suoi sei fratelli e sorelle, mentre la loro madre è a Torino, dove fa la badante. Benjamin d’Aoust cita Jorge Luis Borges: «Il mondo del cieco non è la notte che immaginiamo», e in The Night We Suppose dimostra quanto sia vero. Un viaggio nello spazio per associazioni di idee è invece quello proposto da Ruth Beckermann in Those Who Go Those Who Stay. The Backstage of Tradition di Sarah Yona Zweig è invece un viaggio in Kerala per raccontare un antichissimo teatro-danza tradizionale. Manutrillo, fotografo e documentarista, in Quivir, fa incontrare i lavoratori del sughero spagnoli con i colleghi marocchini. Jana Bürgerlin è una giovanissima regista tedesca e proprio grazie a ciò può essere accettata dalle sei ragazze quindicenni protagoniste di Floating Like Butterflies, Stinging Like Bees. Giacomo Abbruzzese gestisce dall’esterno le riprese che la giovane Joy effettua per This Is the Way, e la ragazza ci rende partecipi della sua vita libera e felice. Difficile invece la vita del clown del Circus Gerbola in Irlanda, come rappresentata in Dreams of a Clown di Dieter Auner. Quattro film corti di grande interesse sono Bear dove Pascal Flörks ci parla del nonno, che era un “orso”, forse letteralmente; Oloimugi di Michele Cadei girato fra i Masai; Free Now di Pierre Liebaert, fotografo belga alle prese con la trasgressione e Super Unit, in cui Teresa Czepiec apre alcune delle 762 porte di un enorme edificio in Polonia.

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Giacomo Abbruzzese

THIS IS THE WAY Francia/France, 2014, 27’, col.

QUESTO È IL MODO [t.l.] Due madri lesbiche, due padri gay, un fidanzato e una fidanzata: Joy è una ragazza olandese, ha diciotto anni, ed è stata concepita per mezzo di “un’ardita” inseminazione artificiale. Questa è la sua vita, mostrata attraverso le immagini di uno smartphone, raccontata da lei stessa e dal regista. Giacomo Abbruzzese (Grottaglie, Italia, 1983) dopo essersi laureato in scienze della comunicazione presso l’Università di Siena, nel 2008 si è specializzato in cinema, televisione e produzione multimediale al DAMS di Bologna. Nel biennio 2010-2011 è stato uno dei giovani artisti prodotti da Le Fresnoy – Studio National des Arts Contemporains. Nel 2012 è stato artista residente presso la Cité internationale des arts di Parigi e nel 2013 è stato selezionato dalla Cinéfondation Residence di Cannes per sviluppare il progetto del suo primo lungometraggio. THIS IS THE WAY Two lesbian mothers, two gay fathers, a boyfriend and a girlfriend: Joy, a 18-year-old Dutch girl, was conceived by a “non proper” artificial insemination. This is her life, showed through a smartphone, as told by herself and by the director.

Regia, Sceneggiatura, Fotografia, Suono/ Director, Screenplay, Cinematography, Sound Giacomo Abbruzzese Montaggio/Editing Marco Rizzo Musica/Music Vitalic, Hapsburg Braganza, Francesco Giannico Con/With Floor Oskam, Coen Van Den Bogaard, Mo Tiel, Frederieke Ubels, Rosa Vrij, Annabel Meulenveld, Sanne Jonkers, Timo Ayo Délé Busit Bakrin, Hanna “Bibi” Koppenaal, Sophie “Joy” Tiel Produttore/Producer Sébastien Hussenot Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts La Luna Production, 12 rue d’Enghien, 75010 Paris, France, tel. +33(0)1 48075600, info@lunaprod.fr

Giacomo Abbruzzese (Grottaglie, Italy, 1983) after graduating in communications from the University of Siena, in 2008 he specialized in film, television and multimedia production at the DAMS in Bologna. For the two-year period 2010-2011 he was one of the young artists produced by Le Fresnoy – Studio National des Arts Contemporains. In 2012 he was a resident artist at the Cité internationale des arts in Paris and in 2013 he has been selected by the Cinéfondation Residence in Cannes to develope the project of his first feature film.

Filmografia/Filmography This Is the Way (short, 2014) Stella Maris (short, 2014) This Is the Way (short, 2013) Fireworks (short, 2011) Archipel (short, 2010) Passing (short, 2007) Droga Party (short, 2006) Women, Fire and Other Dangerous Things (short, 2005) Esprit maternel (Maternal Spirit, short, 2004) Romeo sotto Giulietta (Romeo under Juliet, short, 2003)

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Dieter Auner

DREAMS OF A CLOWN Irlanda/Ireland, 2014, 84’, col.

Regia/Director Dieter Auner Fotografia/Cinematography Ed Gosell Montaggio/Editing Wolfgang Auer Con/With la famiglia Gerbola/the Gerbolas Produttore/Producer Siún Ní Raghallaigh Produzione/Production Ikandi Productions, The Irish Film Board Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts East-West Distribution (Carolin Stern), Schottenfeldgasse, 141070 Vienna, Austria, tel. +43 1 524931034, fax +43 1 524931020, carolin@eastwest-distribution.com

I SOGNI DI UN CLOWN [t.l.] Girando tra villaggi e cittadine nell’Irlanda rurale per nove mesi all’anno, il Circus Gerbola diventa un luogo lontano dal mondo ordinario. Dreams of a Clown è il ritratto universale e al tempo stesso intimo di una famiglia, vista attraverso gli occhi di Blake Gerbola, di otto anni, che sogna di seguire le orme paterne. Dieter Auner (Romania, 1970) è emigrato dalla Romania in Germania nel 1990 e dal 1994 vive a Galway, in Irlanda. Ha lavorato come fotografo in produzioni irlandesi e internazionali, e come operatore e montatore prima di debuttare come regista con Leaving Transylvania, ritratto intimo sulla minoranza etnica a cui appartiene, i Sassoni della Transilvania, e sul loro esodo dalla Romania. DREAMS OF A CLOWN Rolling between villages and towns in rural Ireland for nine months in the year, Circus Gerbola becomes a place outside the ordinary world. Dreams of a Clown is the universal yet intimate portrait of a family seen through the eyes of the 8-year-old Blake Gerbola, who is dreaming of following his father’s footsteps. Dieter Auner (Romania, 1970) emigrated from Romania to Germany in 1990 and since 1994 he lives in Galway, Ireland. He has worked as a photographer on Irish and international productions, and as a camera operator and editor before making his directorial debut with Leaving Transylvania, an intimate portrait about the minority group he belongs, the Transylvanian Saxons, and their exodus from Romania.

Filmografia/Filmography Dreams of a Clown (doc, 2013) Off the Beaten Track (2010) Leaving Transylvania (doc, 2006)

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Ruth Beckermann

THOSE WHO GO THOSE WHO STAY Austria/Austria, 2013, 75’, col.

QUELLI CHE VANNO E QUELLI CHE RESTANO [t.l.] La pioggia sul vetro di una finestra, un camion dei pompieri, un gatto maschio con innumerevole prole: è uno sguardo volutamente casuale che consente incontri imprevisti, storie e memorie, quello che guida la regista attraverso l’Europa e il Mediterraneo. Nigeriani richiedenti asilo in Sicilia, un musicista arabo in Galilea, dei nazionalisti ubriachi di birra a Vienna, la Lupa capitolina e tre giovani donne velate che cercano di attraversare le trafficate strade di Alessandria d’Egitto. Un racconto sull’essere in movimento, nel mondo e nella propria vita. Ruth Beckermann (Vienna, Austria) è scrittice e filmmaker. Dopo gli studi in giornalismo e storia dell’arte a Vienna, Tel Aviv e New York si è laurea all’Università di Vienna nel 1977, collaborando come giornalista con numerosi periodici svizzeri e austriaci. Nel 1978 ha co-fondato la società di distribuzione Filmladen, dove ha lavorato per sette anni. Da allora Ruth Beckermann ha iniziato a scrivere libri e a fare film.

Regia, Produttore/Director, Producer Ruth Beckermann Fotografia/Cinematography Johannes Hammel, Peter Roehsler, Ruth Beckermann Montaggio/Editing Ruth Beckermann, Dieter Pichler Suono/Sound Gerhard Daurer Musica/Music Eleni Karaindrou Produzione/Production Ruth Beckermann Filmproduktion Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Sixpackfilm (Gerald Weber), Neubaugasse 45/13, A-1070 Vienna, Austria, tel. +43 1 52609900, fax +43 1 5260992, office@sixpackfilm.com

THOSE WHO GO THOSE WHO STAY Rain on a window pane, a fire truck, a tomcat with innumerable offspring: it is an intentionally unintentional gaze allowing for chance encounters, for stories and memories, the one which leads the director across Europe and the Mediterranean. Nigerian asylum seekers in Sicily, an Arab musician in Galilee, drunk on beer nationalists in Vienna, the Capitoline Wolf, and three veiled young women trying for minutes to cross a busy road in Alexandria. A story of being on the move, in the world and one’s own life. Ruth Beckermann (Vienna, Austria) is a writer and a filmmaker. After her studies in journalism and history of art in Vienna, Tel Aviv and New York, she took her degree at the University of Vienna in 1977 and contributed as a journalist to several Austrian and Swiss magazines. In 1978 she co-founded the distribution company Filmladen, in which she was active for seven years. Sice then Ruth Beckermann started to write books and to make films. Filmografia essenziale/ Selected filmography Those Who Go Those Who Stay (doc, 2013) Jackson/Marker 4AM (doc, 2012) American Passages (doc, 2011) Zorro’s Bar Mitzva (doc, 2006) Mozart Enigma (doc, 2006) Homemad(e) (doc, 2001) Ein Fluchtiger Zug nach dem Orient (A Fleeting Passage to the Orient, doc, 1999) Jenseits des Krieges (East of War, doc, 1996)

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Jana Bürgelin

SCHWEBEN WIE SCHMETTERLINGE, STECHEN WIE BIENEN

FLOATING LIKE BUTTERFLIES, STINGING LIKE BEES Germania/Germany, 2013, 62’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Jana Bürgelin Fotografia/Cinematography Florian Mag Montaggio/Editing Stefan Binggeser Musica/Music Patrick Puszko, Nicolai Krepart, Marius Kirsten, Mona Eichner, Octavia Gloggengiesser, Antonio Lopes Suono/Sound Eric Gühring, Michael Wiehl, Daniel Fuchs, Tobias Scherer Produttore/Producer Sabrina Proske Produzione/Production Filmakademie Baden-Württemberg Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Markus Kaatsch Aug&ohr Medien (Markus Kaatsch), Platz der Vereinten Nationen 28, D-10249 Berlin, Germany, tel. +49 (0)176 62965299, markus@augohr.de, www.augohr.de/film

Filmografia/Filmography Helldunkel (doc, 2015) Something Changed in Me (doc, 2014) Schweben wie Schmetterlinge, stechen wie Bienen (Floating Like Butterflies, Stinging Like Bees, doc, 2013) Kuchen Essen (Eating Cake, doc, 2012) Kontaktruf (Contact Call, doc, 2011) Zwischen den Zeilen (short, 2011) Libido (short, 2011)

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VOLTEGGIANDO COME FARFALLE, PUNGENDO COME API [t.l.] Oggi tutto inizia prima. Amicizie, scaramucce, mestruazioni, primo amore, sesso e, soprattutto, sogni. Sei ragazze provenienti da contesti sociali differenti ci permettono di immergerci nei loro mondi per un’estate. Un film sul sincronismo della vita e la fine della fanciullezza. Jana Bürgelin (Germania, 1983) dopo il diploma nel 2003 ha studiato arte e graphic design per due semestri. Ha quindi studiato economia applicata ai media e si è laureata in arte. La sua tesi era uno studio delle influenze, caratteristiche, temi e particolarità della cinematografia senegalese. Da ottobre 2009 studia regia del film documentario alla Filmakademie BadenWürttemberg di Ludwigsburg. FLOATING LIKE BUTTERFLIES, STINGING LIKE BEES In our days, everything starts earlier. Friendships, fights, the period, first love, sex and, above all, dreams. Six girls from different backgrounds allow us to dive into their worlds for one summer. A film about the synchronicity of life and the end of childhood. Jana Bürgelin (Germany, 1983) after graduation in 2003 she studied art and graphic design for two semesters. Afterwards she studied applied media economics and graduated with a bachelor of arts degree. Her bachelor thesis was a study of the influences, characteristics, themes and features of Senegalese cinematography. Since October 2009 she has been studying directing for documentary film at the Filmakademie Baden-Württemberg in Ludwigsburg.


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Michele Cadei

OLOIMUGI Lituania | Gran Bretagna/Lithuania | UK, 2015, 18’, col.

OLOIMUGI “Oloimugi” è il nome di un albero, un vero tesoro per la comunità Masai. Il film ritrae un giorno nella vita di un piccolo villaggio tradizionale Masai nella contea Laipika-Isiolo, nel Kenya centrale. Michele Cadei (Bergamo, Italia, 1986) ha studiato scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino e si è diplomato in regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha sempre avuto una forte passione per il cinema, che lo ha portato a lavorare come regista e direttore della fotografia. Attualmente vive a Londra. Oloimugi è il suo primo film.

Regia, Fotografia, Montaggio/ Director, Cinematography, Editing Michele Cadei Produttori/Producers Michele Cadei, Christian Dymond Produzione/Production Everything is Okay, Tuzenbach Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Tuzenbach Film, 1e Madeira Grove, Woodford Green, IG8 7QH London, UK, tel. +44 (0) 752 8117778, michele.cadei@gmail.com

OLOIMUGI “Oloimugi” is the name of a tree, a real treasure for the Maasai community. The film portraits a day in the life of a small traditional Maasai village in the Laipika-Isiolo county, Central Kenya. Michele Cadei (Bergamo, Italy, 1986) studied creative writing at Holden School in Turin and graduated in film directing from the National Film School in Rome. He has always had a strong passiong for filmmaking, that lead him to work as a film director and director of photography. He is currently based in London. Oloimugi is his first film.

Filmografia/Filmography Oloimugi (2015)

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Francesco Clerici

IL GESTO DELLE MANI HAND GESTURES Italia/Italy, 2015, 77’, col./bn

Regia, Fotografia, Montaggio/ Director, Cinematography, Editing Francesco Clerici Musica/Music Claudio Gotti Con/With Velasco Vitali, Lino De Ponti, Elia Alunni Tullini, Caled Saad, Luigi Contino, Nicolae Ciortan, Tommaso Rossi Produttori/Producers Jon Barrenechea, Ena Dozo, Matteo Visconti di Modrone Produzione/Production Velasco Vitali, Fonderia Artistica Battaglia Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Francesco Clerici, tel. +39 349 6535031, ff.clerici@gmail.com, www.ilgestodellemani.com

IL GESTO DELLE MANI Lo scultore Giacomo Manzù diceva che «la scultura è il gesto della mano, un gesto d’amore». Il film segue il processo di creazione di una scultura di Velasco Vitali, dalla cera al bronzo smaltato, alla Fonderia Artistica Battaglia di Milano. La telecamera osserva il lavoro di un gruppo di abili artigiani in questa fonderia centenaria e rivela le antiche tradizioni della scultura in bronzo, immutate dal VI secolo a.C. Lo sguardo è discreto e attento, nessuna voce fuori campo disturba lo svolgersi del lavoro. Francesco Clerici (Milano, Italia, 1983) si è laureato in storia e critica dell’arte presso l’Università Statale di Milano; è assistente, scrittore, filmmaker e responsabile dei progetti artistici per l’artista italiano Velasco Vitali. Il cortometraggio Storie nel cemento (2011) ha vinto il premio del FAI – Fondo Ambiente Italiano al Milano Film Festival ed è stato selezionato in numerosi festival cinematografici. Nel 2012 ha pubblicato il suo primo libro, 24 Fotogrammi: storia aneddotica del cinema: ventiquattro racconti sul cinema, basati su aneddoti veri. Il gesto delle mani è il suo primo lungometraggio. HAND GESTURES Sculptor Giacomo Manzù used to say that «the sculpture is a hand gesture, a gesture of love». This film follows the creative process of a sculpture by Velasco Vitali, from wax to glazed bronze, at Fonderia Artistica Battaglia in Milan. The camera observes the work of a group of skilled artisans in this 100-yearold foundry and reveals the ancient traditions of bronze sculpture making, unchanged since the Sixth century B.C. The gaze is discreet and precise, no voice off disturbs the performing of the work. Francesco Clerici (Milan, Italy, 1983) graduated in art history and criticism from the University of Milan; he is the artistic assistant, writer, filmmaker and project manager for the Italian artist Velasco Vitali. The short film Storie nel cemento (2011) won the prize of FAI – Italian Artistic Foundation at Milano Film Festival and was selected for various film festivals. In 2012 he published his first book, 24 Fotogrammi: storia aneddotica del cinema (24 Frames: The Anecdotal History of Cinema): twentyfour short stories about cinema, based on true stories. Il gesto delle mani is his first feature documentary.

Filmografia/Filmography Il gesto delle mani (Hand Gestures, doc, 2015) Storie nel cemento (Cement Stories, short doc, 2010)

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Teresa Czepiec

SUPERJEDNOSTKA SUPER UNIT

Polonia/Poland, 2014, 20’, col.

SUPER UNITÀ [t.l.] La “Super Unità” è un enorme blocco di condomini pensati come “macchina abitativa”. I quindici piani della costruzione possono ospitare fino a tremila persone. Gli ascensori si fermano solo ogni tre piani, così i residenti devono attraversare un labirinto di corridoi e scale per arrivare ai loro appartamenti. 762 porte d’appartamento e 762 storie. Ne apriamo solo alcune. Teresa Czepiec (Varsavia, Polonia, 1980) è regista di cortometraggi e autrice di installazioni artistiche in spazi pubblici. Ha studiato architettura al Politecnico di Cracovia, arti visive a Le Fresnoy – Studio National des Arts Contemporains in Francia e regia alla Facoltà di radio e televisione dell’Università della Slesia a Katowice. Ha anche conseguito un diploma al “Dok Pro Documentary Programme” della Scuola Wajda di Varsavia.

Regia, Produttore/Director, Producer Teresa Czepiec Fotografia/Cinematography Paweł Dyllus Montaggio/Editing Jerzy Zawadzki Produzione/Production Wajda Studio Distribuzione/Distribution Polish Docs, Krakow Film Foundation Contatti/Contacts Krakow Film Foundation (Katarzyna Wilk), ul. Basztowa 15/8°,31-143 Cracow, Poland, tel. +48 12 2946945, katarzyna@kff.com.pl

SUPER UNIT The “Super Unit” is a huge block of flats designed as a “housing machine”. Up to three thousand people can live on this fifteen-floors building. The lifts stop only every three floors, so the residents must go through a maze of corridors and stairs in order to get to their flats. 762 flat doors and 762 stories. We only open a few of them. Teresa Czepiec (Warsaw, Poland, 1980) is a short film director and author of artistic installations in public spaces. She studied architecture at the Krakow University of Technology, visual arts at Le Fresnoy – Studio National des Arts Contemporains in France and directing at the Radio and Television Faculty of the University of Silesia in Katowice. She got also a degree from the Wajda School’s “Dok Pro Documentary Programme” in Warsaw.

Filmografia/Filmography Superjednostka (Super Unit, doc, 2014)

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Benjamin d’Aoust

LA NUIT QU’ON SUPPOSE

THE NIGHT WE SUPPOSE Belgio/Belgium, 2014, 73’, col.

Regia/Director Benjamin d’Aoust Fotografia/Cinematography Virginie Surdej, Benjamin d’Aoust Montaggio/Editing Cédric Zoenen, Aline Huber, Jean-François Levillain Suono/Sound Aline Huber, Benjamin d’Aoust Produttori/Producers Anthony Rey, Julie Esparbes Produzione/Production Helicotronc Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts CBA – Centre de l’Audiovisuel à Bruxelles, 19f avenue des Arts, 1000 Brussels, Belgium, tel. +32 2 2272230, fax +32 2 2272239, promo@cbadoc.be

LA NOTTE CHE IMMAGINIAMO [t.l.] «Il mondo del cieco non è la notte che immaginiamo» (Jorge Luis Borges). Come appare il mondo per chi non lo vede più? Cosa c’è in questa oscura e infinita notte che tutti immaginiamo? Brigitte, Danielle, Hedwige, Bertrand e Saïd, che hanno perso la vista, parlano di questi territori in cui l’immagine è diversa, dove l’immagine si ridefinisce costantemente, dando luogo ad altri modi di “vedere”. Benjamin d’Aoust (Bruxelles, Belgio, 1979) dopo gli studi in giornalismo e sceneggiatura all’Université Libre de Bruxelles, ha realizzato due cortometraggi di fiction (Mur, 2006 e Point de fuite, 2011) che sono stati presentati in numerosi festival internazionali. Attualmente lavora come critico cinematografico, sceneggiatore e montatore. La nuit qu’on suppose è il suo primo film documentario. THE NIGHT WE SUPPOSE «The world of the blind is not the night we suppose» (Jorge Luis Borges). How does the world look like for those who don’t see it anymore? What lies in this dark and endless night we all imagine? Brigitte, Danielle, Hedwige, Bertrand and Saïd, who have lost their sight, talk about these territories where image is different, where image redefines constantly itself, giving place to other ways of “seeing”. Benjamin d’Aoust (Brussels, Belgium, 1979) after studies in journalism and scriptwriting at the Université Libre de Bruxelles, he directed two short fiction films (Mur, 2006 and Point de fuite, 2011) that have been screened in several film festivals around the world. He currently works as a film critic, a scriptwriter and an editor. La nuit qu’on suppose is his first documentary film.

Filmografia/Filmography La nuit qu’on suppose (The Night We Suppose, doc, 2014) Point de fuite (Vanishing Point, short, 2011) Mur (Wall, short, 2006)

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Amir Escandari

PIXADORES Finlandia | Danimarca | Svezia/Finland | Denmark | Sweden, 2014, 93’, col./bn

PIXADORES Quattro giovani, dalle favelas di San Paolo in Brasile, hanno una sola missione nella vita. Senza alcuna misura di sicurezza, scalano edifici per disegnare con lo spray i loro nomi e slogan di critica per la società. Quando sono invitati alla Biennale di Berlino, si crea un memorabile scontro culturale, perché sembra che il curatore non riesca a capire cosa sta a cuore al pixaçao. Questi uomini sono artisti, anarchici o criminali? Amir Escandari (Teheran, Iran, 1979) all’età di sette anni, insieme alla sua famiglia, è stato costretto a lasciare l’Iran per approdare in un campo profughi in Yugoslavia. Nel 1990, all’inizio della guerra civile, la famiglia Escandari si è dovuta spostare in Finlandia, dove ha trovato asilo politico. Amir ha studiato regia alla University of Wales, Newport. Pixadores è il suo primo lungometraggio. PIXADORES Four young men, all from the slums of São Paulo, Brasil, have only one mission in their lives. Without any security measures, they climb buildings to spraypaint their names and slogans criticizing society. When they are invited to the Biennale in Berlin, a memorable culture clash ensues, as it appears that the curator fails to understand what is at the heart of pixaçao. Are these men artists, anarchists or criminals?

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Amir Escandari Fotografia/Cinematography Peter Flinckenberg Montaggio/Editing Søren Ebbe Musica/Music Michel Wenzer Suono/Sound Patrik Strömdahl Con/With Djan, William, Ricardo, Biscoito Produttori/Producers Aleksi Bardy, Annika Sucksdorff Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Helsinki Filmi (Maarit Mononen), Korkeavuorenkatu 25 A 1, 00130 Helsinki, Finland, tel. +358 40 3540540, maarit.mononen@helsinkifilmi.fi, www. helsinkifilmi.fi

Amir Escandari (Tehran, Iran, 1979) when he was seven, together with his family, had to leave Iran and ended up in a refugee camp in Yugoslavia. In 1990, at the beginning of civil war, the Escandaris had to move to Finland, where they found political asylum. Amir studied film directing at the University of Wales, Newport. Pixadores is his first feature film.

Filmografia/Filmography Pixadores (doc. 2014)

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Pascal Flörks

BÄR

BEAR Germania/Germany, 2014, 8’, col.

Regia, Sceneggiatura, Montaggio/ Director, Screenplay, Editing Pascal Flörks Musica, Suono/Music, Sound Christian Heck Produttore/Producer Julia Smola Produzione/Production Filmakademie Baden-Württemberg Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Markus Kaatsch Aug&ohr Medien (Markus Kaatsch), Platz der Vereinten Nationen 28, D-10249 Berlin, Germany, tel. +49 (0)176 62965299, markus@augohr.de, www.augohr.de/film

ORSO [t.l.] «Il passato di mio nonno è sempre stato molto presente. Rivisitando la sua vita e la sua personalità per come l’ho conosciuto, sento il peso della sua eredità». Pascal Flörks (Worms, Germania, 1982) dopo il diploma ha continuato gli studi alla Filmakademie Baden-Württemberg di Ludwigsburg. Ha accumulato una cospicua esperienza su numerosi progetti studenteschi e, professionalmente, presso i Blue Sky Studios negli Stati Uniti. Tornato in Germania, ha collaborato a progetti per alcuni studi, tra cui il Polynoid, il Woodblock e lo Studio Soi. Nel 2012 è stato direttore tecnico per il personaggio principale del cortometraggio di animazione Room on the Broom, diretto da Jan Lachauer e Max Lang, nominato per l’Oscar. BEAR «My grandpa’s past has always been very present. By revisiting his life and his personality as I knew him, I feel the weight of his inheritance». Pascal Flörks (Worms, Germany, 1982) after his degree he kept on his education at the Filmakademie Baden-Württemberg in Ludwigsburg. He gathered plentiful experience on numerous student projects and also professionally at the Blue Sky Studios in the USA. Back home in Germany, he has collaborated to projects for studios such as Polynoid, Woodblock and Studio Soi. In 2012 he was lead character technical director on the Oscar nominated film Room on the Broom directed by Jan Lachauer and Max Lang.

Filmografia/Filmography Bär (Bear, doc, 2014)

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Marcell Gerő

KÁIN GYERMEKEI CAIN’S CHILDREN Ungheria/Hungary, 2014, 104’, col.

FIGLI DI CAINO [t.l.] Tre uomini, tutti e tre colpevoli di un omicidio quando erano ragazzi. Hanno trascorso la loro intera giovinezza nella più brutale delle prigioni dell’Ungheria comunista, dove sono stati filmati per la prima volta nel 1984. L’inquietante materiale d’archivio li mostra mentre confessano dettagli del crimine commesso, condividendo i loro piani per il futuro. Trent’anni dopo il regista va a cercarli e scopre segreti mai rivelati. E un’Ungheria che non ha mai conosciuto. Marcell Gerő (Budapest, Ungheria, 1981) ha studiato regia con János Szász alla Színház- és Filmművészeti Egyetem (Accademia di Teatro e Arti Filmiche) di Budapest. Il suo film di tesi, Shock (2007), ha ricevuto numerosi premi in molti festival cinematografici internazionali. Nel 2009 ha co-fondato una casa di produzione, la Campfilm, e ha lavorato come regista e produttore in numerosi progetti documentari, i cui temi riguardano in genere persone ai margini della società e membri di gruppi minoritari. CAIN’S CHILDREN Three men, they all committed a murder as children. They passed their entire youth in communist Hungary’s most brutal prison, where they were first filmed in 1984. Disturbing archive footage shows them confessing details of their crime, and sharing their plans for the future. Thirty years on the filmmaker goes out to find them and discovers untold secrets, and a Hungary he has never known.

Regia/Director Marcell Gerő Sceneggiatura/ Screenplay Marcell Gerő, Sára László Fotografia/Cinematography Rudolf Péter Kiss, Zoltán Lovasi Montaggio/Editing Sylvie Gadmer, Péter Sass Musica/Music Dominique Gadmer Suono/Sound Rudolf Várhegyi, Tamás Székely, Tamás Dévényi Con/With Pál Pásztor, Gábor József Nagy, Zsolt Barcsai Produttori/Producers Sára László, Jacques Bidou, Marianne Dumoulin Produzione/Production Campfilm Production, JBA Production Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Campfilm Production (Barbara Heger), Károly krt. 3/c, H-1075 Budapest, Hungary, tel. +36 20 2602606, office@campfilm.eu

Marcell Gerő (Budapest, Hungary, 1981) studied film directing under János Szász at the Színház- és Filmművészeti Egyetem (Academy of Theatre and Film Arts) in Budapest. His thesis film, Shock (2007), got numerous awards at many international film festivals. In 2009 he co-founded a production company, the Campfilm, and he has worked as a director and producer on various documentary projects, whose themes are generally concerned with people on the edge of society and members of minority groups.

Filmografia/Filmography Káin gyermekei (Cain’s Children, doc, 2014) Kócos (Shock, short, 2007) Lux úr szabadalma (Mr. Lux Patents, short, 2005)

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Pierre Liebaert

LIBRE MAINTENANT FREE NOW

Belgio/Belgium, 2014, 12’, col.

Regia, Fotografia, Montaggio/ Director, Cinematography, Editing Pierre Liebaert Musica/Music Emilie Vergauwe Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Pierre Liebaert, 118 rue de Flandre, 1000 Brussels, Belgium, tel. +32 499 394139, pierre.liebaert@hotmail.com

ADESSO LIBERO [t.l.] Un set fotografico; il fotografo e il modello parlano tra loro. L’argomento è la trasgressione, una vita segreta, scoprire qualcosa di nuovo... Immagini fotografiche, video, parole e musica interagiscono con discrezione. Pierre Liebaert (Mons, Belgio, 1990) si è diplomato alla “Le 75” Art High School nel 2011 in fotografia; attualmente vive e lavora a Bruxelles. FREE NOW A photographic set; the photographer and the model talk to each other. The topic is transgression, to have a secret life, to discover something new... Photographic images, video, words and music interact with discretion. Pierre Liebaert (Mons, Belgium, 1990) graduated from “Le 75” Art High School in 2011 in photography; he currently lives and works in Brussels.

Filmografia/Filmography Libre maintenant (Free Now, doc, 2014)

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Angelo A. Lüdin

THOMAS HIRSCHHORN GRAMSCI MONUMENT Svizzera/Switzerland, 2015, 94’, col.

THOMAS HIRSCHHORN – IL MONUMENTO A GRAMSCI [t.l.] Nell’estate del 2013 l’artista svizzero Thomas Hirschhorn realizza il Gramsci Monument a Forest Houses, nel Bronx. Angelo L. Lüdin segue l’artista e i residenti di Forest Houses nelle varie fasi di questa entusiasmante avventura: che cosa accade al luogo, le storie e le vite degli abitanti. Un ritratto di diverse realtà, stili di vita e identità culturali. Angelo A. Lüdin (Basilea, Svizzera, 1950) è fotografo e filmmaker. Ha studiato fotografia alla Berufsschule für Gestaltung (Scuola Professionale di Design) di Zurigo e ha partecipato a numerose esposizioni fotografiche in Svizzera e all’estero. Insegna alla HGK – Hochschule für Gestaltung und Kunst (Accademia di Arte e Design) di Basilea. THOMAS HIRSCHHORN – GRAMSCI MONUMENT In summer 2013, Swiss artist Thomas Hirschhorn builds the Gramsci Monument at Forest Houses, Bronx. Angelo L. Lüdin follows both artist and residents of Forest Houses through the various stages of this exciting adventure: what happens at the site, the stories and the lives of the residents. A portrait of different realities, ways of life and cultural identities.

Regia/Director Angelo A. Lüdin Fotografia/Cinematography Pio Corradi, Reinhard Manz, Angelo A. Lüdin Montaggio/Editing Mirjam Krakenberger Suono/Sound Olivier JeanRichard Con/With Thomas Hirschhorn, Erik Farmer, Clyde Thompson, Reginald Boone, Robert Mack, Quasim Sweets Produttore/Producer Frank Matter Produzione, Distribuzione, Contatti/ Production, Distribution, Contacts Soap Factory (Frank Matter), Hafenstr. 25, Postfach, CH-4019 Basel, Switzerland, tel. +41 61 6320050, film@soapfactory.ch, www.soapfactory.ch

Angelo A. Lüdin (Basel, Switzerland, 1950) is a photographer and a filmmaker. He studied photography at the Berufsschule für Gestaltung (Professional School of Design) in Zürich and has joined numerous photo exhibition in Switzerland and abroad. He is a lecturer at the HGK – Hochschule für Gestaltung und Kunst (Academy of Art and Design) in Basel.

Filmografia essenziale/ Selected filmography Thomas Hirschhorn – Gramsci Monument (doc, 2015) Niklaus Troxler, ein Leben mit Jazz und Grafikdesign (Niklaus Troxler, a Life with Jazz and Graphic Design, doc, 2011) Trudi Gerster, die Märchenkönigin (Trudi Gerster, the Queen of Fairy Tales, doc, 2009) Trophäen der Zeit – Die Fotografendynastie Reinhard aus Sachseln (Trophies of Time – The Photographer Dynasty Reinhard aus Sachseln, doc, 2006) Footprints (doc, 2002) Aufbauer der Nation (Builders of the nation, doc, 1990)

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Manutrillo

QUIVIR GREATS

Spagna | Marocco/Spain | Morocco, 2014, 58’, col.

Regia, Soggetto, Fotografia, Produttore/Director, Story, Cinematography, Producer Manutrillo Sceneggiatura/Screenplay Manutrillo, Agustín Coca Montaggio/Editing Mercedes Cantero Suono/Sound Carlos Pérez Valero Produzione, Distribuzione, Contatti/Production, Distribution, Contacts Manutrillo, +34 691 600743, info@manutrillo.com, www.manutrillo.com

GRANDI [t.l.] Germán e Driss sono entrambi raccoglitori di sughero, vivono a centocinquanta chilometri di distanza e a separarli c’è il mare. L’uno è andaluso, l’altro è maghrebino: entrambi condividono un’identità che ha origine nel forte legame che li unisce alle fragili foreste a rischio. Manutrillo (Siviglia, Spagna, 1973) è fotografo e filmmaker. È laureato in biologia e ha un diploma come reporter fotografico. Ha vissuto in Venezuela, a Edimburgo e a Barcellona. I suoi articoli e i suoi reportage fotografici sono stati pubblicati su prestogiose riviste internazionali come «National Geographic», «Biológica», «XL Semanal» e «The Magazine». GREATS Germán and Driss work collecting cork, live one hundred and fifty kilometres far away, and between them there’s the sea. One is an Andalusian, the other is from Maghreb: they both share an identity which comes from the strong bond that connect them to endangered fragile forests. Manutrillo (Seville, Spain, 1973) is a photographer and filmmaker. He has a degree in biology and a diploma as press photographer. He lived in Venezuela, Edinburgh and Barcelona. His articles and photographic reports have been published on prestigious international magazines, such as the «National Geographic», «Biológica», «XL Semanal» e «The Magazine».

Filmografia/Filmography Quivir (Greats, doc, 2014) Nosotros, los hombres del corcho (We, the Men of Cork, doc, 2011) Victorias & Derrotas (Victories and Defeats, doc, 2008)

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Teodora Ana Mihai

WAITING FOR AUGUST Belgio/Belgium, 2014, 88’, col.

ASPETTANDO AGOSTO [t.l.] Mentre la madre lavora in Italia per provvedere alle loro necessità, Georgiana, quindici anni, si prende cura dei suoi sei fratelli e sorelle nella periferia di Bacau, in Romania. Questi ragazzi coraggiosi, ma inevitabilmente vulnerabili, convivono con questa situazione in attesa dell’estate; quando la loro mamma dovrebbe tornare a casa. Teodora Ana Mihai (Bucarest, Romania, 1981) ha lasciato la Romania nel 1989 per riunirsi con i genitori in Belgio, dove erano fuggiti l’anno prima. Successivamente ha avuto l’opportunità di studiare in California, dove era emigrata la famiglia della zia, e al Sarah Lawrence College, New York. Tornata in Belgio ha realizzato il suo primo film, Waiting for August. Attualmente lavora a una docu-fiction sugli orfani adolescenti a causa della guerra della droga in Messico, in collaborazione con lo scrittore messicano Habacuc Antonio de Rosario. WAITING FOR AUGUST While her mother works in Italy to provide for their needs, 15-year-old Georgiana looks after her six brothers and sisters in the suburbs of Bacau, Romania. These brave, yet inevitably vulnerable children, live with this situation while awaiting the summer; when their mother should return home.

Regia/Director Teodora Ana Mihai Fotografia/Cinematography Joachim Philippe, Mihnea Popescu Montaggio/Editing Michèle Hubinon, Frédéric Meert Musica/Music Karim Baggili Suono/Sound Felix Blume, Bruno Schweissgut Produttori/Producers Hanne Phlypo, Antoine Vermeesch Produzione/Production Clin d’Oeil films Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Rise and Shine (Anja Dziersk), Schlesische Str. 29/30, D-10997 Berlin, Germany, tel. +49 (030) 4737298-0, fax +49 (030) 4737298-20, info@riseandshine-berlin.de, www.riseandshine-berlin.de

Teodora Ana Mihai (Bucharest, Romania, 1981) left Romania in 1989 to join her parents in Belgium, where they fled the year before. Then she had the opportunity to study in California, where her aunt’s family emigrated, and at Sarah Lawrence College in New York. Back to Belgium, she realized her first film, Waiting for August. She currently works to a docu-fiction film about teenage orphans of the Mexican drug war, in collaboration with the Mexican writer Habacuc Antonio de Rosario.

Filmografia/Filmography Waiting for August (doc, 2014)

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Sarah Yona Zweig

THE BACKSTAGE OF TRADITION Germania/Germany, 2014, 47’, col.

Regia, Produzione/Director, Production Sarah Yona Zweig Sceneggiatura/Screenplay Rotem Elroy, Sarah Yona Zweig Fotografia/Cinematography Itamar Mendes-Flohr, Sarah Yona Zweig Montaggio/Editing Sandro Cannova Suono/Sound Christian Klotzbücher Con/With Nepathya Sreehari, Madhu Margi, il dottor/Dr. Indu G., Nepathya Yadukrishnan, Nepathya Vishnuprasad, Nepathya Rahul, Kalamandalam Ratheesh Bhas, Kalamandalam Manikandan, Kalanilayam Rajan, Nepathya Saneesh, Kalamandalam Satheesan Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Markus Kaatsch Aug&ohr Medien (Markus Kaatsch), Platz der Vereinten Nationen 28, D-10249 Berlin, Germany, tel. +49 (0)176 62965299, markus@augohr.de, www.augohr.de/film

Filmografia/Filmography The Backstage of Tradition (doc, 2014)

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IL DIETRO LE QUINTE DELLA TRADIZIONE [t.l.] Com’è crescere in un mondo che sta per scomparire? Sreerhary, un ragazzino di dieci anni, discende da una famiglia di attori di un’antica tradizione teatrale indiana ed è alla ricerca di un palcoscenico dove poter mettere in scena la sua arte: il Kutiyattam. Sarah Yona Zweig (Germania, 1984) è cresciuta come artista circense; immigrata in Israele, ha studiato il Talmud e religioni comparate. L’incontro con il teatro indiano e con il regista Nurith Aviv l’ha spinta a cercare il suo linguaggio espressivo nel cinema. Attualmente studia cinema alla DFFB – Deutsche Film- und Fernsehakademie (Accademia di Cinema e Televisione) di Berlino. THE BACKSTAGE OF TRADITION What is it like to grow up into a world, which is on the verge of disappearing? Ten-year-old Sreehari, descending from a long line of actors in an ancient Indian theatre tradition, searches for a stage on which to perform his art: Kutiyattam. Sarah Yona Zweig (Germany, 1984) grew up as a circus artist; immigrated to Israel, she studied Talmud and comparative religion. The encounter with ancient Indian theatre and with the filmmaker Nurith Aviv led her to search her expressive language in cinema. She currently studies cinematography at the DFFB – Deutsche Film- und Fernsehakademie (German Film and Television Academy) in Berlin.


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FILMS FROM THE NORTH La propensione a uscire dai propri confini nazionali è sempre stata una delle caratteristiche di Bergamo Film Meeting. Superare le frontiere, dirigersi in aree poco esplorate, scoprire e far conoscere nuovi luoghi, nuove realtà, nuovi autori, attraverso il mezzo cinematografico. Quest’anno, grazie alla preziosa collaborazione con Tromsø International Film Festival, Bergamo Film Meeting si è spinto all’estremo Nord, nella regione del Barents, con una selezione di cortometraggi documentari presentati, appunto, all’importante festival norvegese. Un vero e proprio viaggio, tra le tradizioni Sámi, i cacciatori dell’Oceano Artico e la cultura careliana. Il programma è stato definito in collaborazione con Tromsø International Film Festival.

Truls Krane Meby

VERDENSVEVDE KROPPER WORLD WIDE WOVEN BODIES Norvegia | Norway, 2015, 16’, col.

Regia, Sceneggiatura/Director, Screenplay Truls Krane Meby Interpreti/Cast Heine Dybvik, Anders T. Andersen, Nina Bendiksen Produttore/Producer Jannik Dam Kehlet Produzione/Production Mirage Film Contatti/Contacts Truls Krane Meby, tkmeby@gmail.com

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CORPI INTRECCIATI NEL WEB [t.l.] Alla fine degli anni Novanta, Internet arriva nella Norvegia del Nord e coincide con il risveglio sessuale del giovane Mads. L’introduzione di immagini pornografiche nella sua vita complica il suo rapporto con i genitori, e la loro casa diventa un campo minato pieno di interazioni che mettono a disagio. WORLD WIDE WOVEN BODIES At the end of the 1990s, the Internet comes to Northern Norway and coincides with the sexual awakening of young Mads. The introduction of pornographic images into his life complicates his relationship to his parents, and their house becomes a minefield filled with uncomfortable interactions.


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Egil Pedersen

VÁRJJATVUOTNALACCAT

PORTRAITS FROM VARANGERFJORD Norvegia/Norway, 2013, 13’, col.

RITRATTI DA VARANGERFJORD [t.l.] Un piacevole cortometraggio documentario girato a Nesseby, nella contea di Finnmark, nella Norvegia del Nord. Il film ritrae diverse persone che hanno un forte legame con la natura, con vecchie tradizioni Sámi e la piccola comunità in cui vivono. PORTRAITS FROM VARANGERFJORD Short feel-good documentary filmed in Nesseby, Finnmark, in Northern Norway. The film portraits several people with a strong connection to nature, old Sami traditions and the small community they live in.

Regia, Fotografia, Montaggio, Produttore, Produzione/ Director, Cinematography, Editing, Producer, Production Egil Pedersen Suono/Sound Miguel Salas Fernández Con/With Johan Andreas Andersen, Bård Kostamo Olsen, Ann Kristin Andersen, Jo Dikkanen, Marit Bongo Dikkanen, Roger Persson, Vigdis Siri Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Snöfokk Film (Egil Pedersen), Ole Reistads veg 5e, 2067 Jessheim, Norway, tel. +47 91581530, post@egilpedersen.com

Are Pilskog, Sturla Pilskog

ISHAVSHANDA ICE HANDSCAPE

Norvegia | Norway, 2014’, 11’, col./bn

GLACIALI PAESAGGI DELLE MANI [t.l.] «Clima rigido, acqua e ghiaccio danno forma al nostro paesaggio. Una lunga vita vissuta dà forma alle nostre mani. I cacciatori dell’Oceano Artico sanno cosa vuol dire il duro lavoro e un’aspra natura, in un modo difficile anche solo da immaginare per coloro che aspettano a casa. I paesaggi delle loro mani potrebbero dirci qualcosa del lavoro e della natura che li hanno forgiati?». ICE HANDSCAPE «Harsh weather, water and ice shape our landscape. A long, lived life shapes our hands. Hunters of the Arctic Ocean have experienced heavy work and harsh nature, in a way that people waiting at home hardly could imagine. Could their handscape tell us something about the work and the nature they were formed by?».

Regia, Sceneggiatura, Produttori/ Director, Screenplay, Producers Are Pilskog, Sturla Pilskog Fotografia/Cinematography Are Pilskog Montaggio/Editing Sturla Pilskog Musica/Music Gabriel Fliflet Suono/Sound Jan Terje Eidset Con/With Reidar Pilskog, Idar Kaldhol, Tore Nedrelid, Jetmund Voldnes Produzione/Production Blåst Film Distribuzione, Contatti/ Distribution, Contacts Norwegian Film Institute Shorts, P.O. Box 485 Sentrum, N-0105 Oslo, Norway, tel. +47 22474500, fax + 47 22474599, shorts@nfi.no

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Miia Tervo

SANTRA JA PUHUVAT PUUT

SANTRA AND THE TALKING TREES Finlandia/Finland, 2013, 27’, col./bn

Regia, Sceneggiatura/Director, Screenplay Miia Tervo Fotografia/Cinematography Miia Tervo, Sini Liimatainen, Saija Mäki-Nevala, Päivi Kettunen Montaggio/Editing Kristiina Karsten, Onerva Rankka, Okku Nuutilainen, Antti Reikko Suono/Sound Yrjö Saarinen Con/With Santra Remsujeva Produttore/Producer Cilla Werning Produzione/Production For Real Productions Distribuzione, Contatti/Distribution, Contacts The Finnish Film Foundation (Otto Suuronen), Kanavakatu 12, 2nd floor, FI-00160 Helsinki, Finland, tel. +358 9 62203019, otto.suuronen@ses.fi

SANTRA E GLI ALBERI PARLANTI [t.l.] Il destino porta una giovane donna nell’idilliaca regione della Carelia, in Russia, vicino al confine con la Finlandia. Qui incontra una donna anziana, Santra, la quale rappresenta l’unico legame rimanente con la cultura careliana dei suoi avi. SANTRA AND THE TALKING TREES Fate brings a young woman to idyllic Karelia, Russia, near the Finnish border. She meets an old woman, Santra, who represents the only remaining link to the Karelian culture of her ancestors.

THE BEST OF CILECT PRIZE IN DOC

CORTI DOCUMENTARI DALLE SCUOLE DI CINEMA EUROPEE L’ormai consueto appuntamento con i film di diploma prodotti dalle scuole di cinema europee che aderiscono al CILECT – l’associazione internazionale delle scuole di cinema e televisione – quest’anno è focalizzato sul documentario, con una selezione di cortometraggi che hanno partecipato a diversi festival internazionali e sono stati candidati per il CILECT Prize, attribuito dall’intera comunità di studenti e insegnanti delle oltre centocinquanta scuole che fanno parte del CILECT. Il programma è stato definito in collaborazione con Civica Scuola di Cinema di Milano – Fondazione FM, che partecipa alla rassegna con Photofinish – Una stagione alle corse, film saggio realizzato da alcuni studenti del corso di documentario 2012-2013. Il CILECT – Centre International de Liaison des Ecoles de Cinéma et de Télévision nasce a Cannes nel 1955, allo scopo di stimolare la collaborazione tra le scuole di cinema di tutto il mondo. Gli Stati fondatori sono Cecoslovacchia, Francia, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. Negli anni il CILECT si è allargato ad altri Paesi ed oggi riunisce oltre centocinquanta scuole di cinema e televisione di sessanta Paesi sparsi per i cinque continenti. Con l’obiettivo più ampio di sostenere la diffusione dell’alfabetizzazione audiovisiva e contribuire allo sviluppo della cultura e della comunicazione, in particolare il CILECT fornisce i mezzi per uno scambio di idee tra le scuole, sostiene la formazione delle professioni creative di cinema, televisione e mondi correlati, incoraggia e sostiene la cooperazione regionale e internazionale tra le scuole, e promuove la formazione cinematografica e televisiva nel mondo. Tra le azioni promosse ogni anno, vi sono le attività di ricerca intorno a svariati temi (l’insegnamento e la formazione, le nuove tecnologie, il cinema per l’infanzia, la produzione delle opere prime, eccetera; i progetti di formazione, cooperazione e approfondimento su base regionale; la partecipazione ai festival internazionali di cinema e televisione dedicati alle scuole; la realizzazione di forum per gli insegnanti e l’organizzazione di seminari internazionali per gli studenti. 58


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Lucie Baudinaud

ÞAÐ KEMUR Í LJÓS

IT WILL COME TO LIGHT Francia/France, 2013,17’, col.

VERRÀ ALLA LUCE [t.l.] Hofsós, Islanda, gennaio 2013, quando la luce del sole illumina la Terra solo per poche ore al giorno. IT WILL COME TO LIGHT Hofsós, Northern Iceland, January 2013. A documentary film through the sun and its absence, when the window light is reduced to a few sunny hours per day.

Regia, Sceneggiatura, Fotografia/ Director, Screenplay, Cinematography Lucie Baudinaud Montaggio/Editing Maël Coillard Suono/Sound Marc-Olivier Brullé Produttore/Producer Joséphine Mourlaque Produzione/Production La Fémis – École Nationale Supérieure des Métiers de l’Image et du Son

Chiara Campara, Davide Cipolat, Giovanni Dall’Avo Manfroni, Lorenzo Faggi

PHOTOFINISH UNA STAGIONE ALLE CORSE PHOTOFINISH Italia/Italy, 2014,30’, col.

PHOTOFINISH – UNA STAGIONE ALLE CORSE Nonostante lo status di sport decaduto, il mondo dell’ippica ha molto da raccontare. Non solo le corse, ma anche la tensione in sala fantini, gli allenamenti, il lavoro nelle scuderie, le aste dei cavalli. Un mondo di uomini e animali, passione per le corse e partenze senza la certezza di un ritorno.

Regia, Fotografia, Montaggio, Suono, Produttori/Directors, Cinematography, Editino, Sound, Producers Chiara Campara, Davide Cipolat, Giovanni Dall’Avo Manfroni, Lorenzo Faggi Produzione/Production Civica Scuola di Cinema di Milano

PHOTOFINISH Despite being an old-fashioned sport, horseracing still has a lot a stories to tell: of races and trainings, but also of conflicts among jockeys, of horse auctions, etc. This is a world of men and animals ruled by a racing passion that makes them start without even knowing for sure that there will be a finish line.

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Martina Carlstedt

MICKE & TOMMY Svezia/Sweden, 2013,15’, col.

Regia, Produttore/Director, Producer Martina Carlstedt Fotografia/Cinematography Erik Vallsten Montaggio/Editing Britta Norell Musica/Music Isabelle Engman-Bredvik, Anders Kampe, Mats Jönsson Suono/Sound Svante Biörnstad, Maja Lindén Interpreti/Cast Mikael Nyberg-Ag, Tommy Sandin Produzione/Production STDH – Stockholms Dramatiska Högskola

MICKE & TOMMY Micke e Tommy sono grandi amici. Insieme partono per una crociera in una notte di tempesta. Micke vorrebbe incontrare una ragazza e le sue aspettative sono piuttosto alte. Per fortuna, quando deve mettersi alla prova sulla pista da ballo, c’è Tommy accanto a lui. MICKE & TOMMY Micke and Tommy are best friends. Together they set off on a cruise in the stormy night. Micke wants to meet a girl and his expectations are high. But when things are put to the test on the dance floor it’s good to have Tommy by his side.

Aniela Gabryel

LECIEC, NIE­LECIEC TO FLY OR NOT TO FLY

Polonia/Poland, 2013, 18’, col.

Regia, Sceneggiatura/ Director, Screenplay Aniela Gabryel Fotografia/Cinematography Zuzanna Pyda Montaggio/Editing Katarzyna Boniecka Musica/Music Agata Chwoła Produzione/Production PWSFTviT – Państwowa Wyższa Szkoła Filmowa, Telewizyjna i Teatralna

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VOLARE O NON VOLARE [t.l.] È difficile capire la singolare bellezza della natura. Cercare almeno di descriverla è il lavoro di alcuni appassionati ornitologi, appostati tra i cespugli in una sottile striscia di terra tra il mare e il lago, incuranti delle difficoltà e delle condizioni atmosferiche. TO FLY OR NOT TO FLY The singular beauty of wild nature is hard to understand. Working in thickets on a thin strip of land between the sea and the lake, bird researchers try to at least describe it setting off on their expeditions regardless of bad weather and difficult conditions.t


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Katarina Rešek

MOJE IME JE OGLEDALO MY NAME IS MIRROR Slovenia/Slovenia, 2013,15’, col.

IL MIO NOME È SPECCHIO [t.l.] Ayna è una ragazza musulmana, nata in Australia da genitori bosniaci e ora residente in Slovenia. Nel suo quotidiano si mescolano e si confrontano la tradizione dell’Islam e lo stile di vita occidentale. Due mondi che spesso entrano in collisione, mettendola in difficoltà. MY NAME IS MIRROR Ayna is a young muslim girl, born in Australia to Bosnian parents, now living in Slovenia. In Ayna’s everyday life, two different worlds tangle – the traditional (Islam) and the modern lifestyles. She often stumbles upon barriers created by the collisions of the two worlds.

Regia, Sceneggiatura/ Director, screenplay Katarina Rešek Fotografia/Cinemaotgraphy Jan Perovšek Montaggio/Editing Tina Novak Musica/Music Marko Lavrin Suono/Sound Tristan Peloz Interpreti/Cast Ajna Djogic, Osman Djogic, Asija Djogic, Neža Franca, Katjuša Zore, Korina O. Trkov, Laura Grmek Produttore/Producer Jožica Blatnik Produzione/Production UL AGRFT – Akademija za gledališče, radio, film in televizijo

Glen Travis

BELOW THE ROW Gran Bretagna/UK, 2013,11’, col.

SOTTO LA RIGA [t.l.] Girato in pellicola, questo breve documentario esplora l’arte e la tradizione della sartoria attraverso il rapporto tra un apprendista e il suo maestro, nell’atelier di Henry Poole & Co. BELOW THE ROW The craft and traditions of bespoke tailoring, focusing in particular on the relationship between one master tailor and his apprentice who work at Henry Poole & Co.

Regia, Sceneggiatura, Montaggio/ Director, Screenplay, Editing Glen Travis Fotografia/Cinematography Jason Bourke-Velji Suono/Sound Joseph Russell Interpreti/Cast James Weir, Paul Frearson Produttore/Producer Rebecca Dale-Everett Produzione/Production UCA Farnham – University for the Creative Arts

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EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE ANDREA ARNOLD

FABRIZIO TASSI

PERIFERIE DELL’ANIMA ANDREA ARNOLD E IL SUO CINEMA Andare, camminare, correre, ballare. Non si sta mai fermi nel cinema di Andrea Arnold. Anche quando sembra che non ci sia nulla da fare. Anche quando la via è senza uscita o sei costretto a girare in tondo. Strade da percorrere, periferie da attraversare, paesaggi sterminati in cui perdersi per sempre. I suoi antieroi sono animati da un’energia febbrile, un’inquietudine che li fa muovere e vibrare e scontrarsi con gli altri, la società, il quartiere, la famiglia. Li muove la rabbia e il desiderio. Tutti e sempre ai confini del mondo (che conta). Alla periferia della vita (borghese). Ai margini. Cinema “sporco”, ruvido, crudo, ma anche lirico e a suo modo romantico. Cinema che aderisce alla realtà in modo istintivo e sfrontato, ma tutt’altro che ingenuo: non fa la predica o la morale, non propone “casi umani” o “problemi sociali”, ma incontri veri, storie, corpi, passioni. Cinema estremamente personale e diretto. Non è certo un caso che il successo di Andrea Arnold sia partito da un piccolo film ispirato al suo passato, lei che è nata nel 1961 da una madre teenager (sedici anni), lei che era la sorella più grande in una famiglia numerosa (quattro figli) rimasta senza padre, a Dartford, nel Kent. Ed è proprio in uno di quei quartieri proletari – altro aggettivo spesso associato al suo cinema – che è stato girato Wasp, cortometraggio del 2003 premiato con l’Oscar. Linguaggio sboccato, gesti sfacciati, tenerezza scorbutica e contagiosa. Un piccolo prodigio di autenticità. Uno spaccato di vita dedicato a una madre eccessiva, fragile e folle, inadatta al ruolo ma innamoratissima delle figlie, e soprattutto alle sue bambine randagie, che mostrano il dito medio in coro e si arrangiano a mangiare quel che trovano, mentre la mamma è intenta a coltivare un sogno d’amore. La sorella maggiore era destinata a diventare un’attrice. Andrea Arnold ha trascorso gli anni Ottanta in tv, in uno show per ragazzi intitolato No.73: un originale “Saturday morning concept”, molto rock e pop, tra sit-com, interviste, musica e cucina, nei panni della roller-skating Dawn Lodge. La si è vista anche in 7T3, On Safari, Get Fresh, e risultata autrice di tre episodi di A Beetle Called Derek. Già a quei tempi scriveva i dialoghi, creava storie e personaggi. Ma fare l’attrice e la co-autrice le andava stretto. Tanto da decidere di volare a Los Angeles (AFI Conservatory) per studiare regia. L’esordio nel cortometraggio risale al 1998: Milk. E il suo stile già ruvido e spiccio, ma per nulla trascurato, si fa notare fin dalla prima ellissi (la prima di una lunga serie), quella che separa lo sguardo di una donna che vuole essere madre, dallo sguardo allo specchio di una madre che ha perso un figlio mai nato. Il marito va al funerale, lei invece fugge in auto con un ragazzo indisponente incontrato per strada, uno che non sa chi è e dove sta andando. “Milk” è il latte che “non serve più”, è il segno di un vuoto, di un’assenza, riempito da un giovane perso, in un movimento all’indietro della mdp. Tre anni dopo, in Dog (2001), incontriamo la prima teenager del suo cinema, il primo palazzone popolare, la prima casa con madre urlante da cui fuggire, la prima periferia da attraversare per incontrare lui, una speranza di felicità, un senso da dare a quella vita insensata. Leah si imbatte per caso in un cane randagio, solo come lei, maltrattato come lei, che finisce per risvegliare il suo dolore e la sua rabbia, e la fa letteralmente abbaiare. Il realismo di Andrea Arnold non pratica il “realisticamente corretto”. Nel 2003 c’è anche Bed Bugs, episodio della serie tv Coming Up, a proposito di antieroi in cammino, di sentimenti contrastati e storie semplici che raccontano la verità delle emozioni. Un ragazzo in fuga dalla fidanzata incinta, che deve fare i conti con la propria omosessualità. Molto Seventies. Anche un po’ Eighties. Wasp la lancia nell’olimpo delle promesse, subito mantenute col primo lungometraggio, Red Road (2006), che finisce direttamente a Cannes. Un’esordiente in concorso. Onorata al primo colpo con il Premio della Giuria (poi trionferà anche ai BAFTA). Si trattava di un progetto a tema. Il primo capitolo di una trilogia intitolata The Advantage Party, in cui tre registi erano chiamati a raccontare la periferia scozzese, utilizzando lo stesso gruppo di attori negli stessi ruoli, e adottando la semplicità spartana del Dogma 95. Pane per i denti di Andrea Arnold, che lo trasforma in oro colato: un film che ha le movenze di un thriller, che svela un mondo (sociale) senza bisogno di denunce o indignazioni didascaliche, che parla di sentimenti scandagliati in profondità. Red Road diventa anche una sorta di meta-film in cui la Arnold riflette sul cinema che vorrebbe fare. Non quello che si fa semplicemente guardare, ma vita da vivere e persone (più che personaggi) da incontrare, con tutte le durezze del caso. Jackie dovrà scendere in strada per ritrovare il senso della sua vita, per capire 64


EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE ANDREA ARNOLD

Wasp

davvero quel mondo che all’inizio contempla da dietro uno schermo, come fosse un film. Dovrà scendere all’inferno, camminare per quelle strade, vivere in quei piccoli appartamenti freddi e sporchi, bere qualcosa in uno di quei locali frequentati da spacciatori, sbandati, disperati. La prima inquadratura è una parete di piccoli schermi. Il “grande fratello” che vigila sulla periferia di Glasgow. Jackie all’inizio è solo un occhio che osserva le strade, i palazzi, gli interni degli uffici. Una leva e dei bottoni per cambiare inquadratura. La realtà è una videoteca, una collezione di vhs, ognuno col suo pezzo di mondo registrato, documentato. «Non puoi vedere sempre tutto», gli dice il collega, quando le sfugge un’aggressione. Difficile vedere se stai guardando un’altra cosa, se il tuo sguardo non è più quello asettico del guardiano e del catalogatore, ma è partecipe, interessato, turbato dalla realtà. Più scopriamo chi è l’uomo che ha cominciato a spiare, come vive, cosa fa, più capiamo chi è Jackie, non più ridotta a uno sguardo, ma dotata di una vita, un passato, dei sentimenti, vittima di un dramma atroce che non riesce a superare. A quel punto lei è scesa per strada. Quei palazzoni-alveari altissimi, visti dal basso, sono un’altra delle cifre visive del cinema di Andrea Arnold. Così come la voglia di libertà che ti entra dentro quando sei lassù, in uno di quegli appartamenti, e hai tutto il mondo squadernato ai tuoi piedi, e il vento quasi ti porta via, anzi, ti risucchia fuori. Non staremo qui a ridire quanto è brava a girare Andrea Arnold e quanto sia efficace l’ambiguità dei suoi personaggi, la loro umana fragilità. Poi, certo, ci sono momenti che illuminano e altri fin troppo facili, ci sono dettagli che spiegano più del dovuto e altri che sono poesia. C’è una luce rossa riflessa sul panorama notturno di Glasgow, che alla fine invade lo schermo, dopo l’orgasmo più tremendo e macabro, dopo che hai visto il viso dell’uomo che ha distrutto la tua vita tra le tue gambe aperte. Piace la libertà con cui gira Andrea Arnold, capace di stare a lungo su un’inquadratura, ma anche di scappare via, di scivolare fuori in fretta quando serve. Non ha la brutta abitudine di innamorarsi delle proprie idee, anche se alcuni momenti sono di pura contemplazione (dei luoghi e delle emozioni) e certi campi lunghi, con quei cieli sconfinati e lontani, appartengono alla categoria del sublime. Poi c’è quell’ultima inquadratura fissa, Jackie al di là dello schermo, dentro il mondo: finalmente ricomincia a vivere, dopo aver capito cosa c’è dentro il film, oltre la visione, nella realtà. Ha capito che quei luoghi, quelle persone, non sono astrazioni, non sono lì per essere giudicate, condannate o salvate, sono vita, mondo, contraddizioni. 65


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Fish Tank

Ed è al di là dello schermo che troviamo Mia. Fish Tank, del 2009, altro Premio della Giuria a Cannes (altra vittoria ai BAFTA), riparte in qualche modo da Dog. A proposito di periferie, storie ai margini, corpi e anime in perenne movimento. Mia vive in un acquario, sbatte di continuo contro le pareti (il degrado, la vita segnata, i rapporti feroci), ma continua ad andare, a rimbalzare, il corpo irrigidito, le braccia e la testa buttate in avanti. Mia che si chiude nella sua stanza blu e balla da sola, davanti a una finestra lunga e stretta che sembra una feritoia. Fuori c’è l’Essex, il campo di battaglia. La incontriamo lì dentro, col fiatone, nel mezzo dell’azione, come accade sempre nel cinema di Andrea Arnold. Camera in spalla senza frenesie: qui un movimento gentile che sembra quasi una carezza, là una contrazione nervosa, come un sentimento compresso, un fuoco pronto a divampare. Tutto ciò che ti potresti aspettare da un film di Ken Loach, come hanno scritto in tanti (quasi tutti, così come in tanti hanno citato i Dardenne), se non fosse per la cura del dettaglio, e l’attitudine per nulla didattica (al massimo metaforica: il cavallo bianco incatenato...), soprattutto per quei momenti di sospensione magica in cui sembra di passare in un’altra dimensione (un altro livello) della realtà, più intima, incorporea, ma anche paradossalmente più fisica, materica. Non solo l’epidermide delle cose e delle storie. Come quando Mia viene presa in braccio dal nuovo amante di mamma (la solita madre sola, eccessiva, inadeguata, da amare sempre e comunque) e il tempo sembra fermarsi, il dettaglio e il rallenti esaltano la consistenza (im)materiale del momento, e sembra quasi di sentire l’odore della pelle di lui o vedere i sentimenti di lei attraverso una fessura del braccio. La storia è ovvia, l’ambiente è scontato, i personaggi abbastanza prevedibili, eppure il film non dà mai l’impressione di essere l’illustrazione di una tesi. C’è sempre qualcosa che sposta lo sguardo e gioca con l’allusione, come quello stacco in piano medio di Connor e Mia immersi nel fiume, uno davanti all’altra, trasformati in acqua e cielo, davanti a un orizzonte che finalmente scavalca le pareti dell’acquario, spezzando la monotonia delle carrellate in camera a mano, dei campi e controcampi. Oppure la notte del sesso proibito, con quel primo piano di lei che sembra sciogliersi dentro un’inquadratura giallo-arancione, il viso scentrato, trasognato, nell’angolo a destra in basso, bellissimo. Istanti che fanno la differenza, che ci fanno immergere nell’interiorità delle cose. La mdp cammina e corre insieme a Mia, la abbraccia e si allontana, sorride insieme a lei quando scopre California Dreamin’, simbolo di quella generazione che sognava la rivoluzione (sessuale, politica, esistenziale) e oggi si ritrova a vivere in un quartiere borghese con una libertà che è diventata squallida trasgressione. 66


EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE ANDREA ARNOLD

Meglio allora la vitalità maldestra di Mia, sua madre e sua sorella, meglio quel ballo a tre nella cucina proletaria davanti a un poster caraibico. Film diseguale, Fish Tank, in cui il meglio sta tra le righe, fosse anche solo uno stormo di uccelli in volo, il buio sopra la città durante un temporale notturno, la camminata magica in mezzo alla natura aggrappata alle spalle di lui... La vita così com’è, sotto la superficie del racconto che ne facciamo per provare a spiegarcela. Fassbender accettò il ruolo senza leggere il copione, perché la Arnold voleva girare il film in ordine cronologico, assegnando i dialoghi poco prima delle riprese. Come dice lei: «Non conoscere il futuro della storia significava che ogni momento doveva essere esplorato solo per quel che era in quel momento e niente di più. Un po’ come la vita, immagino. Non sappiamo mai quello che ci succederà nell’ora successiva o il giorno dopo. Volevo che ogni sequenza avesse quel tipo di innocenza». È tipico dello stile di Andrea Arnold, e della forza del suo cinema, anche il modo in cui ha scelto la protagonista, Katie Jarvis, scovata in una stazione, mentre litigava col suo fidanzato. Istinto, energia, cinema senza fronzoli. Lei lavora con ogni condizione, usando ciò che capita per nutrire il film. «Adoro proprio questo del girare un film, parti con un’idea particolare, ma poi questa cambia, si evolve e si ridefinisce su base quotidiana. E bisogna accettarlo. Se senti la storia nel profondo, e la tieni stretta, le cose a cui tieni possono rimanere anche se tutto il resto cambia, anche quando perdi gli elementi che credevi più importanti, anche quando inizi a disperare di poter ancora trovare una via». Infine, nel 2011, è arrivato Wuthering Heights, in concorso a Venezia, che ha lasciato stupiti sia i cultori di Cime Tempestose che gli ammiratori della Arnold “proletaria”. Eppure è in tutto e per tutto un film di Andrea Arnold (così come è un modo tra i tanti possibili di leggere Emily Brontë, insieme rarefatto e brutale). Qui la periferia urbana è diventata periferia del mondo. Qui gli antieroi vanno, corrono, fuggono in un luogo che non sembra avere confini, provando a sfuggire a un destino deciso da altri (dalla natura, dalla tradizione, dai costumi e i pregiudizi). L’acquario è più vasto, ma le pareti ci sono, eccome. Heathcliff ci entra in una notte di pioggia, nel buio più totale, con la mdp che prima cammina a pelo d’erba e poi insegue gli uccelli che volano nel cielo buio: un’ombra che cammina verso una finestra illuminata. Là dentro vive gente timorata di Dio, pronta ad aiutare (malvolentieri) il trovatello di colore. Ma quando durante il battesimo gli chiedono di rinunciare a Satana, il “selvaggio” fugge via spaventato, inseguito da Catherine, selvaggia quanto lui, e che come lui vorrebbe sprofondare nella terra, confondersi con gli elementi, godere della natura (degli istinti).

Wuthering Heights

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EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE ANDREA ARNOLD

L’erotismo è un rallenti e un’immagine in dettaglio – il segno di Andrea Arnold – la sua bocca vicina ai capelli di lei (sentiamo l’odore, percepiamo il calore del suo corpo), mentre la mano accarezza il cavallo che stanno cavalcando insieme. Invece del vento che entra all’improvviso da una finestra di un palazzone periferico, c’è il vento sulla cima della collina, che vorrebbe portarli via. È la storia di una passione sconvolgente, che alla fine diventa ossessione. Lei gli lecca le ferite provocate dalle frustate, lui piange per la felicità, il piacere, il dolore che deve sopportare per quel piacere e quella felicità proibita. Bellissimi i luoghi (Yorkshire) e misterioso lo sguardo di Andrea Arnold quando indugia sui rami, l’erba, gli animali, i paesaggi radi, le colline inquietanti. Tutto in 4:3. Non le interessava il pittoresco, la visione panoramica mozzafiato, ma i volti, le emozioni, le sensazioni che il paesaggio ispira, concentrato dentro quel formato. Un concentrato di bellezza e crudeltà, di libertà (negata) e vendetta, perfino di necrofilia. Amore insaziabile e contagioso, che penetra nella casa, nei corpi, e li fa vibrare, passione che scuote i sensi come i rami agitati dal vento che sbattono sui vetri. Ieri e oggi sono separati da un’ellissi potente, con la mdp fissa. Lui se ne va nella notte. Lui torna dalla nebbia del tempo. E lei, che era natura, terra, istinti, trasformata in una raffinata signora, la cui bellezza brilla insieme ai riflessi di un lampadario. «Io non voglio essere in pace», gli dice. Ma lui riesce a baciarla solo quando è già morta. E anche qui piume e uccelli in volo, simboli e metafore, ma soprattutto la potente realtà della passione e la dura verità delle leggi insensate che governano il mondo. «Emily Brontë ha scritto questo romanzo per se stessa, non perché fosse letto. Io non volevo violare questa intimità, ma piuttosto crearne una nuova». Certo è che guardando un film del genere si capisce perché il suo preferito sia Stalker di Tarkovskij (in passato ha citato anche Mary Poppins, perché la sconvolse quando era bambina, facendole odiare il mondo, così privo di magia). E visto qual è il preferito, si capisce anche perché non sia mai soddisfatta dei suoi film. «Sono sempre stata gelosa di quei registi che dicono di essere felici dei propri film. Vorrei sapere come fanno a sentirsi così, che cosa li fa sentire così. Io non ho mai provato nulla del genere. Non mi sono mai sentita soddisfatta. Tu cerchi sempre di realizzare ciò che nella tua mente sembra chiaro, ma la visione è così fragile che finisce per perdersi lungo il cammino. Quando hai finito, hai una qualche versione di quella visione, ma non quella che avevi in mente in origine. È nella natura delle cose. [...] Apprezzo i complimenti che mi fanno e sono contenta che alla gente piacciano i miei film, ma non sono mai soddisfatta. Vorrei sempre di più, qualcosa che assomigli davvero alla chiara immagine che avevo nella mia mente». Non osiamo immaginare come potrebbe essere un film di Andrea Arnold “riuscito” fino in fondo, qualcosa che assomigli davvero alla sua idea di cinema, all’immagine che ha in mente. Sappiamo però che il prossimo tentativo si intitola American Honey, ed è la sua prima escursione produttiva in terra americana. La curiosità è tanta.

ANDREA ARNOLD

(Dartford, Gran Bretagna, 1961) è attrice, regista e sceneggiatrice. Dopo un’esperienza televisiva come attrice e presentatrice, ha studiato regia all’AFI Conservatory (Center for Advanced Film and Television Studies) di Los Angeles e scrittura cinematografia al PAL Labs di Londra. Il suo debutto alla regia è nel 1998 con il cortometraggio Milk, presentato a Cannes alla Semaine de la Critique. Nel 2001 dirige Dog, con cui vince l’Empire Award. Il successo internazionale arriva nel 2003 con Wasp, vincitore di trentotto premi, tra cui l’Oscar come miglior cortometraggio. Il suo primo lungometraggio Red Road (2006) ottiene il Premio della Giuria al festival di Cannes e numerosi altri riconoscimenti tra cui cinque premi BAFTA. Fish Tank, presentato a Cannes nel 2009, si aggiudica nuovamente il Premio della Giuria, conquistando poi due British Independent Film Awards e il BAFTA come miglior film inglese. Nel 2011 dirige Wuthering Heights, l’adattamento del romanzo di Emily Brontë Cime Tempestose, presentato in concorso al festival di Venezia, con cui vince l’Osella d’Oro per la migliore sceneggiatura. Attualmente lavora alla pre-produzione del suo prossimo lungometraggio, American Honey, di cui è anche sceneggiatrice. Nel 2011 Andrea Arnold è stata nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per i servizi resi all’industria cinematografica. Filmografia American Honey (2015) [annunciato] Wuthering Heights (2011) Fish Tank (id., 2009) Red Road (id., 2006) 68

Coming Up [ep. Bed Bugs] (tv series, 2003) Wasp (short, 2003) Dog (short, 2001) Milk (short, 1998)


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Andrea Arnold

MILK Gran Bretagna, 1998, 10’, col.

Regia, Sceneggiatura Andrea Arnold Fotografia Adrian Wild Montaggio Fiona Colbeck Costumi Emma Fryer Musica Sacha Puttnam Interpreti Stephen McGann (Ralph), Lee Oakes (Martin), Lynda Steadman (Hetty) Produttori Andrew Dodds, Sonia Leal Produzione Anglia Television, Fox Films

LATTE [t.l.] Il figlio di Hetty è nato morto. Incapace di piangere per questa terribile perdita, la donna si mette in viaggio nel vano tentativo di evadere dalla realtà grazie ad alcol, sesso e avventure estreme. Debutto fiduciosissimo, realizzato in location diverse, fra interni d’automobile e scene notturne. Non si coglie immediatamente l’identità della regista, fino a che non emerge l’oscurità del film. I corti, se fatti bene, sono una visione gratificante, una buona palestra per avvicinarsi ai lungometraggi. Il fatto di dover raccontare tutta una storia in dieci minuti lascia poco spazio per quelle trame secondarie o quei movimenti avanti e indietro nel tempo, entro le due ore del film, che sono una tendenza dei film attuali. Il regista deve usare le immagini per dire tutto quello che vuole dire. Da qui l’importanza dell’ambientazione e dei costumi. Nei primi minuti di questo film, una coppia concepisce e perde un figlio. Mentre il padre va al funerale del figlio non ancora nato, la madre cerca di dimenticarlo con un adolescente sbandato che incontra per strada. Non accade molto altro, ma il film indica come le persone reagiscano al lutto in maniera diversa. Il che porterà a un finale bizzarro. Nel complesso un piccolo film riuscito, che apre la strada alla grandezza dei futuri film di Arnold. (Gary Fowles, blog “My Life at the Movies”)

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Andrea Arnold

DOG Gran Bretagna, 2001, 10’, col.

CANE [t.l.] Sembra una giornata tranquilla quella in cui Leah, quindicenne di Thamesmead, incontra il fidanzato John. Ma un innocuo incidente fa perdere le staffe a John, e la giornata avrà una conclusione inaspettata e violenta... In genere i corti narrativi sono una dimostrazione di competenza, una fusione di seduttività visiva, senso dello humour o della sorpresa. Di solito c’è un finale, se non felice, almeno divertente o frizzante. Questo film fa l’esatto contrario. In un lampo prende forma un universo depresso, suburbano, disfunzionale. Una storia di non-amore fra una ragazza, sua madre, un ragazzo e un cane. In pratica, L’umanità di Bruno Dumont rivisitata. (Catalogo generale, International Film Festival Rotterdam, Rotterdam 2002)

Regia, Sceneggiautra Andrea Arnold Fotografia Sean Bobbitt Montaggio Nicolas Chaudeurge Scenografia Helen Scott Costumi Jacqueline Durran Musica Dan Berridge Suono Simon Farmer Interpreti Joanne Hill (Leah), Freddie Cunliffe (John), Veronica Valentine (la madre) Produttore Nick Laws Produzione Zephyr Films

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Andrea Arnold

WASP Gran Bretagna, 2003, 26’, col.

Regia, Sceneggiatura Andrea Arnold Fotografia Robbie Ryan Montaggio Nicolas Chaudeurge Scenografia Helen Scott Costumi Merryn Conaway Suono Neil Leigh Interpreti Natalie Press (Zoë), Danny Dyer (Dave), Jodie Mitchell (Kelly), Molly Griffiths (Sinead), Kaitlyn Raynor (Leanne), Danny Daley (Kai) Produttore Natasha Marsh Produzione Film4, UK Film Council, Cowboy Films

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WASP Zoë è una giovane madre single, talmente povera da non avere abbastanza soldi per comprare da mangiare alle sue quattro figlie. Una mattina, per strada, ritrova un ex fidanzato che le chiede di uscire. Per paura che lui possa rifiutarla, Zoë mente riguardo alle bambine, dicendo che è solo la loro babysitter. La finzione, però, non potrà durare a lungo... Una giovane madre e le sue bambine, con l’accento cockney e ossessionate dalle Spice Girls; lei desidera solo amore e romanticismo, e bersi qualche birra con i ragazzi che stanno giocando a biliardo nel pub della zona. Questi sono alcuni degli ingredienti del cinema di Andrea Arnold, molto molto british. [...] Con la camera a mano, la Arnold racconta la storia tragicomica della giovane mamma single Zoë, a cui un giorno un vecchio fidanzato le chiede di uscire, e come lei affronta la situazione non riuscendo a trovare una babysitter. Una rude e graffiante attitudine alla ‘up yours! mescolata alla compassione, in questo accattivante dramma che fa parte del progetto “Scottish Cinema Extreme”. (Per Nyström, www.stockholmfilmfestival.se)


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Andrea Arnold

BED BUGS ep. di COMING UP Gran Bretagna, 2003, 25’, col.

CIMICI DA LETTO [t.l.] ep. di IN ARRIVO [t.l.] Ian si trasferisce a Londra per sfuggire alle sue responsabilità: sta scappando dalla fidanzata incinta. Incontra Max e se ne innamora. Lo rivelerà alla sua fidanzata; ma lui riuscirà ad accettare la propria omosessualità? Fra i primi lavori di Andrea Arnold, il corto Bed Bugs fa parte della serie tv Coming Up, prodotta e trasmessa dall’emittente televisiva britannica Channel 4 come palestra e antologia di giovani talenti. Mandato in onda nell’edizione 2004 del programma, caratterizzata quell’anno da eccentriche storie d’amore e commedie dark, da drammi carichi di emozioni e horror moderni, è forse l’episodio più interessante dell’intera stagione. È la storia di un’educazione sentimentale, trattata con la psicologia, la sensibilità e il rispetto che la regista inglese metterà in tutti i suoi lavori successivi. Visto all’epoca, dava già l’impressione di trovarsi di fronte al lavoro di una sicura promessa; visto oggi, dimostra che Andrea Arnold aveva già le idee ben chiare, e sapeva benissimo dove volesse andare.

Regia Andrea Arnold Sceneggiatura Jane Pugh Interpreti Amber Sealey (Kate), Dominic Carter (Jamie), Ben Homewood (Max), Tim Smith (Ian) Produttore Paolo Proto Produzione Ideal World Productions, Touchpaper Television

(George A. McGilligan, A Short View on British TV, «The Vermont Morning Herald», 25 febbraio 2012)

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Andrea Arnold

RED ROAD Gran Bretagna | Danimarca, 2006, 113’, col.

Regia, Sceneggiatura Andrea Arnold Soggetto Anders Thomas Jensen, Lone Scherfig Fotografia Robbie Ryan Montaggio Nicolas Chaudeurge Scenografia Helen Scott Costumi Carole K. Millar Musica Roz Colls at Music Matters Suono Martin Belshaw Interpreti Kate Dickie (Jackie), Tony Curran (Clyde), Martin Compston (Stevie), Natalie Press (April) Produttore Carrie Comerford Produzione Sigma Films, Zentropa Entertainments Distribuzione Fandango

RED ROAD Jackie ha un segreto che da tempo le impedisce di vivere compiutamente. Impiegata come operatrice in un centro di sorveglianza nella periferia di Glasgow, osserva scorrere la vita anonima degli altri attraverso le telecamere a circuito chiuso. Strade, vie, negozi, cortili, finestre: il suo occhio arriva dappertutto. Un giorno tra i volti anonimi riconosce Clyde, un uomo che risveglia in lei un doloroso rimosso. Ossessionata da lui, comincia a indagare e a osservare la sua misera vita, spesa tra un appartamento fatiscente e un pub fumoso. Lo pedinerà fino a provocare un incontro, alla ricerca disperata di una spiegazione che la liberi dai sensi di colpa e dal passato. «Normalmente scrivo di persone e luoghi che conosco. La mia sfida con il progetto Advance Party è stata quella di utilizzare i personaggi e le limitazioni che avevo come un punto di partenza, ma di cercare di sfruttare anche le cose che avevano importanza per me e scrivere una storia che sentissi veramente mia. Red Road è ciò che ne è uscito». Esordio della scozzese [sic] Andrea Arnold, Red Road scopre le carte poco a poco. Solo in sottofinale capiremo chi è quell’ex galeotto. Ma intanto questo film in digitale, stretto ossessivamente intorno a un pugno di luoghi e di personaggi, avrà portato alla luce il lato oscuro di Jackie. Mescolando immagini sgranate, strade malfamate, richiami notturni. Fino a far coincidere la fine di un lungo lutto con quella discesa agli inferi. Una discesa che in termini fisici è un’ascensione, perché il misterioso Clyde vive al ventiquattresimo piano; ma a volte bisogna spingersi lontano per riuscire a guardarsi dentro. E l’esordio della Arnold, primo capitolo di un bizzarro work in progress a più mani, teso, incalzante, emotivamente violento, visivamente notevole, è una gran bella sorpresa. (Fabio Ferzetti, «Il Messaggero», 30 marzo 2007)

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Andrea Arnold

FISH TANK Gran Bretagna | Paesi Bassi, 2009, 124’, col.

FISH TANK Mia è una quindicenne ribelle e problematica. È stata espulsa dalla scuola, allontanata dagli amici ed è in eterno conflitto con la madre. Connor, il nuovo compagno della madre, sembra essere l’unico a cogliere le potenzialità di Mia e a spronarla a credere in se stessa. Un’ennesima delusione, però, interromperà i suoi sogni di adolescente e segnerà il suo passaggio verso l’età adulta. «Quando scrivo, mi baso su una prima immagine che non vi svelerò. Ciò che è interessante nella scrittura è l’aspetto incosciente, ciò che emerge senza neanche capire il perché. Cerco successivamente di far vivere i personaggi senza pensare ad altri film, senza riferimenti. Ho diretto qualche documentario e ho una passione per il reale e la maniera di filmarlo. Cercavo una giovane donna a metà tra l’infanzia e l’età adulta. È stato difficile: molte ragazze di diciassette o diciott’anni sono già adulte. Guardando il film, Katie Jarvis ha l’aria più giovane, più fragile di quanto non sembri nella realtà. Ho preso coscienza di questa giovinezza che scaturiva dall’immagine durante il primo montaggio ed è emersa ancor meglio di quanto immaginassi. [...] Adoro il lato selvaggio di questo paesaggio. Andavo nell’Essex durante l’infanzia, sulla M13 che parte da Londra e va verso il Mare del Nord. Tutte questi agglomerati urbani sembravano delle isole in mezzo alla natura selvaggia. Ci sono le fabbriche, i parcheggi deserti, un’atmosfera di grande tristezza».

Regia, Sceneggiatura Andrea Arnold Fotografia Robbie Ryan Montaggio Nicolas Chaudeurge Scenografia Helen Scott Costumi Jane Petrie Musica Liz Gallacher Suono Joakim Sundström Interpreti Katie Jarvis (Mia), Michael Fassbender (Connor), Kierston Wareing (Joanne), Rebecca Griffiths (Tyler), Harry Treadaway (Billy), Sydney Mary Nash (Keira) Produttori Kees Kasander, Nick Laws Produzione BBC Films, UK Film Council, Limelight Distribuzione One Movie

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Andrea Arnold

WUTHERING HEIGHTS Gran Bretagna, 2011, 128’, col.

Regia Andrea Arnold Sceneggiatura Andrea Arnold, Olivia Hetreed Soggetto dal romanzo Cime tempestose di Emily Brontë Fotografia Robbie Ryan Montaggio Nicolas Chaudeurge Scenografia Helen Scott Costumi Steven Noble Musica/Music Becca Gattrel, Matt Lawrence Suono Nicolas Becker Interpreti Kaya Scodelario (Catherine Earnshaw), James Howson (Heathcliff ), Lee Shaw (Hindley), Nichola Burley (Isabella Linton), Oliver Milburn (Mr. Linton), Steve Evets (Joseph), Paul Hilton (Mr. Earnshaw) Produttori Robert Bernstein, Kevin Loader, Douglas Rae Produzione Ecosse Films Productions, Film4, UK Film Council, Goldcrest Film Production, Screen Yorkshire

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CIME TEMPESTOSE [t.l.] Un ragazzo nero viene soccorso in una notte di pioggia da Mr. Earnshaw, un contadino che vive coi suoi figli in una tenuta nello Yorkshire. Battezzato Heathcliff, l’orfano è vessato da Hindley, il figlio maggiore e attaccabrighe di Mr. Earnshaw, ma amato da Cathy, la figlia minore che ne incoraggia e asseconda lo spirito selvaggio. L’affinità elettiva tra i due ragazzi viene tuttavia interrotta dall’improvvisa morte del padre e dal rancore di Hindley che “declassa” la vita di Heathcliff e induce la sorella a sposare il più sofisticato Edgar Linton. Ma il ricordo di quell’amore battuto dal vento della brughiera cova nei loro cuori, fino a divampare più forte qualche anno più tardi, quando Heathcliff, ingentilito ed educato, torna da Cathy. «Non avevo un grande piano precostituito nella mia mente quando ho iniziato il film, ma mi sono lasciata guidare, un po’ come durante un viaggio. I miei pensieri sul libro non sono mai gli stessi, ma hanno sempre qualcosa di nuovo; perciò continuo a scoprire la storia man mano che la conosco meglio. Volevo certamente onorare questo romanzo, così cupo e privato, cercando di rispettarne l’essenza. Ho voluto rendere la natura parte integrante del film. La realizzazione è stata terribilmente difficile per via di un rapporto molto fisico con l’ambiente, tanto che talvolta mi è sembrato di lavorare ad un film “maledetto”, ma sono andata avanti. Wuthering Heights è un libro che da sempre ossessiona le donne, che rimangono inevitabilmente colpite dalla vicenda di Heatchcliff e dal suo amore primordiale per Cathy. Quello che le attrae dipende anche probabilmente dal suo essere un personaggio maschile non fallico, ma bensì androgino, secondo molti quasi un alter ego dell’autrice».


EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE AIDA BEGIĆ

Snijeg/Snow

NICOLA FALCINELLA

I RACCONTI INTIMI DI UN DOPOGUERRA Con due lungometraggi e quattro corti realizzati nell’arco di quasi quindici anni, la bosniaca Aida Begić si è affermata come una delle più importanti registe dell’Europa orientale e non solo. Diplomata alla Sarajevo Academy of Performing Arts, dove ora insegna regia, Begić ha iniziato giovanissima con due brevi documentari, Autobiography (Autobiografija, 1995) e Triumph of the Will (Trijumf volje, 1997). Si può dire che tutta la sua carriera sia passata dalla Croisette. I primi due cortometraggi importanti, il film di diploma First Death Experience (Prvo, smrtno iskustvo, 2001) e North Went Mad (Sjever je poludio, 2004), e i due lungometraggi, Snow (Snijeg, 2008) e Buon anno Sarajevo (Djeca, 2012), sono stati tutti presentati e premiati a Cannes. E anche il collettivo I ponti di Sarajevo (Les ponts de Sarajevo, 2014), per il quale ha realizzato l’episodio Album, ha avuto la sua prima al festival francese. La sua filmografia comprende anche l’episodio Otel(o) del collettivo Do Not Forget Me Istanbul (Unutma beni Istanbul, 2011). Con la collega Jasmila Zbanić, Begić è una delle autrici più importanti del nuovo cinema bosniaco emerso negli anni Duemila e che ha come capofila il premio Oscar Danis Tanović. L’emergere di un cinema delle donne è uno dei segnali più visibili delle trasformazioni delle cinematografie dell’area, avvenute nell’ultimo periodo. Zbanić e Begić, entrambe molto premiate ai festival internazionali, sono, pur con approcci assai diversi, interpreti delicate e severe della società in cui vivono, della Bosnia del dopoguerra, periodo durante il quale hanno iniziato a lavorare. Le due autrici sono anche tra le voci più forti, chiare, coraggiose e riconoscibili dell’area della ex Jugoslavia. I loro film sono tra i pochi del loro Paese a essere stati distribuiti nelle nostre sale, sebbene non tutti, e hanno segnato una svolta importante: non solo storie di guerra o tragicommedie che riflettono quel che per gli occidentali è lo spirito balcanico, ma vicende del dopoguerra, e più intime e personali. Entrambe esplorano il terreno delle conseguenze degli stupri, del vuoto, della perdita delle persone care, dell’ingiustizia, della prepotenza dei potenti, dell’estremismo religioso e delle trasformazioni sociali a seguito di una guerra civile e di una pace non del tutto raggiunta. 77


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Snijeg/Snow

Le opere di Begić sono distanti dall’immaginario balcanico solito: lontane dal folklore e dall’esotico, prive di luoghi comuni, con poche spiegazioni (molto poche nel caso di Buon anno Sarajevo), sfuggenti alle generalizzazioni. Non sono fatte per indignare o per prendere una parte, anche se lo spettatore parteggia per i protagonisti. Sono però film che non si dimenticano facilmente, che lasciano dentro una sensazione, un particolare, un volto, un suono, un colore. Ragioni che ne fanno una regista singolare, preziosa, da tenere d’occhio. Al di là dell’argomento affrontato, è il modo in cui lo tratta a caratterizzarla, i segni che lascia con il suo atto di filmare, le piccole cose che sa cogliere o collocare dentro le immagini. In aggiunta, possiede la capacità di rendere universali storie in apparenza lontane e locali, oppure al contrario individuare questioni universali dentro vicende particolari. I suoi personaggi si distanziano completamente da quelli stereotipati e non possono essere scambiati per macchiette, ma sono persone vere, complesse, magari non troppo in evidenza o esposte, ma da scoprire per lo spettatore. Il tema principale dei suoi lavori è la Bosnia del dopoguerra, le ferite rimaste aperte o non rimarginate, le persone che devono fare i conti con le tante assenze di familiari, morti o scomparsi nel conflitto, i traumi post bellici, le divisioni, un passato troppo ingombrante, un futuro che non arriva, la corruzione dei politici e la mancanza di prospettive. Ma è presente anche la voglia di non arrendersi delle giovani, di ricominciare da quello che c’è, di ripartire dal proprio passato e dalla propria identità. Persino di sacrificare i propri sogni e la propria giovinezza per qualcuno di cui ci si è assunti la responsabilità, come fa la protagonista di Buon anno Sarajevo: in questo modo risaltano l’irresponsabilità dei più adulti e di quanti dovrebbero tenere conto dell’interesse generale. La regista di Sarajevo non affronta direttamente dei temi, ma mostra situazioni che pongono i suoi personaggi davanti a delle scelte, dei dilemmi. E spesso la scelta è tra ciò che altri vorrebbero per loro e ciò che risponde alle loro più intime esigenze. In questo è una regista intima, che scava nella profondità dei suoi personaggi e li fa esprimere non solo con le parole. Importanti almeno quanto i dialoghi sono i gesti, i silenzi, il movimento, la loro attenzione al mondo che li circonda. Una regista attenta alle periferie, alla gente comune, pur distante da un approccio sociologico. Il dopoguerra è trattato uscendo dai modi consueti, sia negli argomenti sia nello stile, differenziandosi con originalità. In più è capace di lavorare su vari registri, che vanno dalla cupezza alla leggerezza, dalla tragedia alla filastrocca. Il saper stare tra il crudo realismo e il simbolismo è una capacità subito evidente in First Death Experience. Il titolo proviene dal fumetto che il ragazzino Zagor sta sfogliando, scritto dal suo amico 78


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Dado Bratović: potrebbe trattarsi di una storia autobiografica, dal momento che Dado risulta essere caduto in guerra nel 1992 e questa “prima esperienza di morte” l’ha vissuta. Il fumettista parla e gioca con il suo giovanissimo amico per strada, ma quando va a farsi fare la carta d’identità gli viene rifiutata se non porta attestazioni della sua esistenza in vita. Per questo si rivolge a una trasmissione tv e si fa intervistare proprio davanti alla sua tomba. Cerca poi vecchi amici, commilitoni della guerra, conoscenti per testimoniare la sua identità, ma inutilmente. La svolta sta nell’incontro con la commessa del negozio di alimentari Alisa, sola anche lei. È Zagor a sposarli in un appartamento diroccato, e poi partono in luna di miele. Una svolta assurda e romantica, di fatto sarà l’unica relazione che finisce bene nel cinema di Begić, anche se il dubbio resta: Dado era morto e tutto può anche essere immaginato dal bambino. Il successivo North Went Mad si svolge in una sera, durante la partita di calcio Sarajevo-Partizan. La giovane Selma si prepara, aiutata dalla madre, a uscire per un appuntamento. Miki la aspetta in strada con un amico che vuole andare allo stadio. Selma è in ritardo, quando arriva all’appuntamento Miki spazientito la spinge e Selma cade a terra e picchia la testa. I due ragazzi non sanno che fare, la trasportano nell’appartamento di un amico tossico e la lasciano lì. Il tossico dopo un po’ la porta giù, e la lascia davanti alla porta di una coppia anziana: l’uomo sente i rumori, esce a controllare, calpesta la ragazza senza vederla e poi la percuote spaventato. Crede si tratti di una disturbatrice, per liberarsene chiama un tassista per farla portare alla residenza per gli studenti. Una ragazza vestita di bianco appare al tassista: Selma muore e lui la lascia in un cassonetto dei rifiuti. Intanto la madre la aspetta inutilmente e resta alla finestra a guardare un tifoso solitario che festeggia con una bandiera. Un film notturno, forse il suo più pessimista, nel quale il gioco dei contrasti non sembra lasciare nulla di buono. Il titolo si riferisce alla Curva Nord dello stadio esultante dopo che il Sarajevo si è qualificato per andare in Europa. Uno degli interpreti è Miralem Zubčević, montatore di tutti i film della regista e con il direttore della fotografia Erol Zubčević (che ha lavorato con Tanović negli ultimi film) parte del piccolo gruppo di collaboratori che si è creata. Regista che cambia quasi a ogni lavoro, Begić ha definito la sua poetica principalmente con i due lungometraggi, pur uno diversissimo dall’altro per l’ambientazione e per lo stile, entrambi candidati all’Oscar per la Bosnia. Quanto Snow è colorato, estivo, ambientato in campagna, pur nella durezza e nel dolore di fondo, tanto Buon anno Sarajevo è invernale, dai colori lividi, quasi sempre in notturna e ambientato nella periferia della città. In entrambi i casi le donne stanno al centro di storie dove però sono gli uomini, troppo ingombranti anche nell’assenza, a tirare le fila. Il primo, scritto con la sceneggiatrice Elma Tataragić come anche i primi corti, si svolge nel 1997 a Slavno, nei pressi di Zvornik, un minuscolo villaggio dell’Est del Paese. In quelle case isolate sulle colline sono rimaste quattro donne, due anziane, quattro ragazzine, un vecchio (Emir Hadžihafizbegović, l’unico attore affermato in un cast affiatato) e un bambino muto. Gli uomini sono morti o dispersi in guerra, ma le mogli o le figlie sperano che ritornino. La vita procede stancamente tra la raccolta di prugne, la preparazione della confettura di frutta, la tessitura e gli animali. Su tutto alita l’assenza degli scomparsi, come se il villaggio non avesse più speranze senza la presenza dei mariti e padri. Solo la poco più che ventenne Alma (Zana Marjanović, poi scelta da Angelina Jolie come protagonista di Nella terra del sangue e del miele, In the Land of Blood and Honey, 2011), l’unica con il capo sempre velato, non si rassegna e si dà da fare: suo marito non c’è, ma lei resta fedele alla convinzione di lui, che con i prodotti di Slavno si possa «dar da mangiare a mezza Bosnia». Il villaggio è troppo lontano da un mercato dove vendere i prodotti e gli sforzi quotidiani della giovane di allestire un banchetto di prodotti lungo la strada quasi deserta risultano vani. L’incontro casuale con un giovane camionista molto intraprendente e propositivo sembra dare uno spiraglio di luce al villaggio: Hamza si propone per consegnare in giro le merci. Ma l’uomo non dà più notizie; mentre si presenta il serbo Miro, intermediario per una società straniera, che vorrebbe acquistare tutti i terreni in cambio di denaro contante. Metà delle donne sono pronte a cedere tutto e lasciare il villaggio, ma Alma resiste e cerca di convincere le altre a restare. La produzione di prugne secondo lei può garantire un futuro evitando di vendere le terre e andarsene, mentre altre preferiscono una via meno faticosa. Il rapporto con la terra degli avi, da non vendere in modo sbrigativo in cambio di un’illusione di benessere, è uno dei discorsi di portata universale in Snow. C’è una riflessione sulla memoria e sul futuro non necessariamente alternativi e le protagoniste devono confrontarsi con questi aspetti in maniera seria. Una conseguenza della scelta di lasciare sarebbe anche la dissoluzione di quella piccola comunità, unita da un filo solidale, dove sono rappresentate tutte le generazioni e dove tutte sono importanti, dalle piccole alle anziane. Intanto si avvicina l’inverno e con esso la neve: se il finale resta aperto, permane una sensazione positiva, lasciata anche dai piccoli elementi di poesia e delicatezza disseminati qua e là. Un lavoro carico di umanità dove l’isolamento geografico è metafora della solitudine percepita dalle protagoniste, lontane da tutto e sole ad affrontare le difficoltà. Un film anche sulla libertà, su cosa significhi, sulle possibilità di scelta e di ricominciare. Lo stesso Miro, che rappresenta per le donne i 79


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colpevoli della scomparsa dei loro cari e che incarna la tentazione di rinunciare a quel che si era e si è, porta una svolta positiva nell’indicare dove si trova una fossa comune. Nella pellicola, prodotta con i sostegni tedeschi e francesi, si fanno apprezzare momenti spontanei e solo in superficie secondari come i giochi o le filastrocche delle ragazze. Snow ha vinto la Semaine de la Critique al festival di Cannes nel 2008 e poi diversi premi nei festival, tra cui, in Italia, le menzioni speciali al Trieste Film Festival e a Sguardi Altrove di Milano. In apparenza completamente diverso è il successivo Buon anno Sarajevo, menzione speciale della sezione Un Certain Regard a Cannes, vincitore della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e dell’Heart of Sarajevo per la migliore attrice protagonista (Marija Pikić) al Sarajevo Film Festival. Protagonista è la coppia di fratelli composta da Rahima (Marija Pikić), ventitrè anni, e Nedim (Ismir Gagula), quattordici anni, che hanno perso i genitori nel conflitto. La prima lavora come aiuto cuoca in un ristorante alla moda, frequentato da persone d’alto rango, ed è completamente dedita al fratello studente, diabetico e vicino a cadere nella piccola delinquenza. I due, dopo essere rimasti orfani, hanno vissuto a lungo in orfanotrofio e la maggiore vuole in ogni modo evitare che Nedim venga di nuovo affidato a un istituto. Il ricordo della madre uccisa da un cecchino è peraltro ancora molto vivo, e reso da spezzoni di immagini video del tempo dell’assedio. Dopo aver attraversato un periodo turbolento, la giovane sembra aver trovato nell’Islam e nell’indossare il velo un suo equilibrio. Una scelta che sembra portarle delle discriminazioni, ma che non le impedisce di condurre una vita simile alle sue coetanee: lavora, fuma, ascolta musica occidentale e fa valere i propri diritti in tutte le situazioni. I giorni relativamente tranquilli si complicano quando Nedim danneggia, durante un litigio, l’iPhone di un compagno di scuola. Questi è però figlio di un potente ministro e la scuola ingiunge alla sorella di rifondere il danno. Rahima chiede in prestito al proprietario del locale la cifra di cui ha bisogno, ma la sua richiesta è respinta. La disperazione la porta a danneggiare l’auto del ministro in un posteggio, in un crescendo di rabbia. Intanto la città si prepara al Natale e al Capodanno, da cui il titolo italiano piuttosto diverso dall’originale (che significa semplicemente “bambini”) e più ottimista: in origine Rahima e Nedim stanno a rappresentare due dei tanti ragazzi di Sarajevo che vivono questa condizione di disagio e solitudine. Un film che resta dentro, che aiuta a rendersi conto – se non proprio a capire – la situazione della città. Una storia che lascia una scia d’ansia, che non offre soluzioni o vie d’uscita facili, che traccia un quadro cupo di un Paese dove la memoria della guerra resta presente nella quotidianità delle persone, ma che nel coraggio e nella tenacia della protagonista non nega una speranza. Vite pedinate, quasi alla Dardenne, nella loro quotidianità difficile, una lotta per la sopravvivenza e l’affermazione di se stessi, due concetti in questo caso non troppo distanti uno dall’altro. La camera a mano e sempre in movimento, usata in modo diverso dall’altro film, enfatizza la sensazione di precarietà. E insieme permette di seguire il peregrinare instancabile della protagonista. È il ritratto di una generazione lasciata a se stessa, senza punti di riferimento, e anche della complessità della Sarajevo attuale, non più la complessità ricca antecedente al 1991, ma articolata in posizioni, stili di vita e contrasti diversi: Davor, il padrone del ristorante, è croato e omosessuale, la collega della protagonista, Vedrana, ha problemi con il marito fondamentalista wahabita (una questione al centro di Sul sentiero, Na putu, 2010, di Zbanić) che le ha portato via i figli. E la denuncia della corruzione e della protervia dei potenti da parte della regista è molto netta. La rinuncia di Rahima a vivere la storia d’amore con l’amico che la corteggia non è una chiusura ma una conseguenza della scelta di essere madre per il fratello. Come già nel film precedente, emerge la capacità della cineasta di scegliere e valorizzare attori poco noti o esordienti. A sé stante rispetto agli altri è Otel(o), realizzato nel 2011, quando la regista partecipa al collettivo Do Not Forget Me Istanbul, una serie di cortometraggi legati a Istanbul: gli altri realizzatori sono Hany Abu-Assad, Stefan Arsenijević, Josefina Markarian, Eric Nazarian, Stergios Niziris e Omar Shargawi. Un’attrice bosniaca, interpretata da Alma Terzić che era in Snow nella parte di Lejla, va nella metropoli turca per un casting per il ruolo di Desdemona in Otello. Arriva in città, si sistema in un hotel molto trendy, riceve le continue telefonate del suo amante, si siede da sola al bancone del bar a pensare. Nel locale deserto inizia una conversazione con la cameriera, Ayça. Le due sembrano distanti, ma l’attrice convince l’altra a provare la parte con lei e, ripetendo le battute di Desdemona e Otello e discutendo dei personaggi, esce qualcosa di loro, del loro rapporto con amanti e mariti, del loro essere donna. L’unico film dove vita e arte si mescolano, e appare persino una fotografia di Hitchcock. Il lavoro più recente è Album, uno dei pochi episodi di I ponti di Sarajevo a trattare il conflitto 1992’95. Begić torna a utilizzare un approccio documentaristico e affronta direttamente le memorie della guerra, utilizzando immagini in bianco e nero accompagnate da voci. Come dice il titolo, si tratta di album di ricordi, di immagini, impressioni del tempo della guerra. Una donna che legge una lettera scrittale il 6 gennaio 1994, in pieno assedio. Il ricordo dell’esplosione di una granata che uccise una ragazzina che camminava per strada portando delle arance. La testimonianza di chi mangiò riso per sei mesi e festeggiò quando arrivarono i fagioli, o dell’uomo che ricorda la tristezza della moglie nel dover


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Buon anno Sarajevo

usare le scarpe rosse come legna per il fuoco. Chi paragona la Sarajevo di allora a un vulcano esploso diffondendo intorno energia creativa. I ricordi della lotta per la sopravvivenza («È incredibile come le persone si abituino alla morte») o di un medico che racconta di sognare le persone morte sulla sua ambulanza. Tutto montato anche per contrasto, su immagini di strade, luna park, gente che esce dalla moschea, case, un pianista, skater, un uomo che fa arti marziali in piazza. Un corto per associazioni e contrapposizioni che, con la sequenza finale montata molto rapidamente sulle note di un pianoforte, vorrebbe quasi lasciarsi tutto alle spalle. Invece è ancora tutto presente, come dimostrano gli altri film della regista. Le protagoniste dei due lungometraggi sono giovani decise, tenaci, ostinate, consapevoli e convinte, soprattutto del loro ruolo e dei loro sentimenti. Vivono situazioni di isolamento e solitudine ma non si arrendono. Entrambe poco più che ventenni, indossano il velo, come del resto lo indossa la regista stessa, che nei suoi film sembra sostenere un Islam identitario ma non fondamentalista. Le due protagoniste si identificano nella scelta del velo e trovano nella religione una forza, una spinta in più per lottare e affermarsi. Il velo per loro non è un limite, è un completamento. In questo Begić mette qualcosa di sé in loro: «Tutto questo riguarda anche me. Nel 2003 ho deciso di indossarlo e ho attraversato un’esperienza di trasformazione. In modo quasi inconscio ho deciso di metterlo. Alma ha delle cose di me, ma non è un mio alter ego. Ho messo parti di me anche in altri personaggi», ha detto in un’intervista. Una scelta che le mette in contrasto con l’ancora abbastanza laica Bosnia (anche nel paesino isolato in cui è ambientato Snow) e che non è marcatamente religiosa come quella compiuta dalla protagonista di Il sentiero di Zbanić, ma è più articolata, di ricerca e affermazione di una propria identità distinta. Sia Alma nel primo film, sia Rahima nel secondo, sono giovani che in fondo vivono all’occidentale, sono intraprendenti, vogliono scegliere, essere attive, non sono chiuse o in balia degli altri. Il cinema di Begić non è un cinema femminile come per alcune sue colleghe occidentali, ma le donne sono sempre più protagoniste: da strumento nel suo primo corto, a vittima nel secondo, a motore e sempre più consapevoli delle storie nei lungometraggi. Alma di Snow e Rahima di Buon anno Sarajevo sono delle vere eroine, non alter ego dell’autrice, ma esempi di testardaggine, di dedizione alla memoria e di sguardo verso il futuro. Due giovani donne molto calate nella loro realtà, ma anche universali nei loro sentimenti.


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AIDA BEGIĆ (Sarajevo, Bosnia-Erzegovina, 1976) si è diplomata all’Akademija scenskih umjetnosti (Accademia di Arti Performative) di Sarajevo, presso il dipartimento di regia. First Death Experience, il suo primo cortometraggio nonché film di diploma, è stato presentato alla selezione ufficiale della Cinéfondation al festival di Cannes nel 2001 e ha vinto numerosi premi in tutto il mondo. Nel 2003 dirige il suo secondo cortometraggio, North Went Mad, e nel 2004 fonda la casa di produzione Mamafilm con Elma Tataragic, la sua co-sceneggiatrice. Il suo primo lungometraggio, Snow (2008), si aggiudica il Grand Prix alla Semaine de la Critique a Cannes nel 2008 e viene nominato per gli European Academy Award come scoperta europea. Nel 2009, insieme al marito, avvia la casa di produzione indipendente Filmhouse. L’anno successivo scrive e dirige il cortometraggio Otel(o), episodio inserito nel film collettivo Do Not Forget Me Istanbul. Nel 2012, con Buon anno Sarajevo, ottiene la menzione speciale della giuria nella sezione Un certain Regard al festival di Cannes. Nel 2014 partecipa al film collettivo I ponti di Sarajevo, il progetto artistico di Jean-Michel Frodon su Sarajevo a cent’anni dall’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, presentato Fuori Concorso a Cannes e firmato da tredici cineasti europei. Attualmente Aida Begić insegna regia all’Akademija scenskih umjetnosti di Sarajevo, ha girato numerosi documentari, spot e videoclip; è stata inclusa nella prestigiosa guida Take 100: The Future of Film: 100 New Directors (ed. Phaidon) ed è membro della SACD (Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques), la prestigiosa società francese degli autori. Filmografia Les ponts de Sarajevo [film collettivo, ep. Album] (I ponti di Sarajevo, short doc, 2014) Djeca (Buon anno Sarajevo, 2012) Unutma beni Istanbul [ep. Otel(o)] (Do Not Forget Me Istanbul, short, 2011) Snijeg (Snow, 2008) Sjever je poludio (North Went Mad, short, 2003) Prvo, smrtno iskustvo (First Death Experience, short, 2001) Trijumf volje (Triumph of the Will, short doc, 1997) Autobiografija (Autobiography, short doc, 1995)

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Aida Begić

PRVO, SMRTNO ISKUSTVO FIRST DEATH EXPERIENCE Bosnia-Erzegovina | Italia, 2001, 26’, col.

PRIMA ESPERIENZA DI MORTE [t.l.] Dado Bratović, disegnatore di fumetti, è nato a Sarajevo nel 1975. La madre muore durante il parto e con lei nella tomba viene sepolta anche l’identità del padre. Respinto dalla famiglia della madre, Dado cresce in un istituto per bambini ritardati, da cui fugge quando compie quattordici anni. Con l’inizio della guerra Dado si arruola volontario nell’esercito e, ancora minorenne, partecipa agli scontri più feroci, ma dopo la cruenta battaglia di Otes, diserta. Dopo la guerra, nel 1996, cercando di ottenere la carta d’identità scopre che per l’anagrafe risulta già morto dal 1992. E qui inizia il film. «Vivere a Sarajevo è come vivere in una fiaba: può accadere di tutto, persino che le autorità ti dicano che non esisti. Questo film è una tipica storia di Sarajevo».

Regia, Sceneggiatura Aida Begić Fotografia Erol Zubčević Montaggio Miralem Zubčević, Francesca Calvelli Scenografia Ajna Zlatar Costumi Amra Džinalija Musica Enes Zlatar, Igor Čamo Suono Marco Giacomelli Interpreti Senad Alihodžić (Dado Bratović), Ana Vilenica (Alisa Dedović), Nedim Panjeta (Zagor) Produttori Amra Bakšić, Marco Műller Produzione Academy of The Performing Arts in Sarajevo, The Television of Bosnia and Erzegovina, Sarajevo Center for Contemporary Arts, Fabrica Cinema

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Aida Begić

SJEVER JE POLUDIO

NORTH WENT MAD Bosnia-Erzegovina, 2003, 19’, col.

Regia Aida Begić Sceneggiatura Aida Begić, Elma Tataragić Fotografia Erol Zubčević Montaggio Miralem Zubčević Scenografia Ajna Zlatar Musica Igor Čamo Interpreti Alma Somun (Selma), Miralem Zupčević (Stevo), Emina Muftić (Ruzica), Admir Glamočak (Taksista) Produttori Amra Baksic Camo, Elma Tataragic Produzione SCCA/PRO.BA – Sarajevo Center for Contemporary Art

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IL NORD È IMPAZZITO [t.l.] Selma, una ragazza diciottenne, muore accidentalmente durante una partita di calcio. Diverse persone, dagli amici di famiglia ai vicini di casa, nel corso della notte cercano di disporre del suo corpo in segreto. Ciascuno di loro pensa di essere stato l’assassino. Nel frattempo, a casa, la madre di Selma sta finendo di cucirle il vestito per l’esame di maturità. Sjever je poludio è una storia oscura e abbastanza surreale riguardante il senso di colpa represso e la paura. Con mezzi minimali, la regista riesce a generare un clima di suspense e di profondità, che emana da ogni immagine. (International Film Festival Rotterdam, www.iffr.com)


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Aida Begić

SNIJEG SNOW

Bosnia-Erzegovina | Germania | Francia | Iran, 2008, 99’, col.

NEVE [t.l.] Bosnia, 1997. Sei donne, un anziano, quattro ragazze e un bambino vivono a Slavno, un piccolo villaggio isolato devastato dalla guerra. Le donne hanno creato un mondo speciale in cui sono sempre presenti sogni e ricordi dei cari uccisi. Con l’arrivo della prima neve, la giovane e determinata Alma trova una via per uscire dalla povertà vendendo ortaggi e marmellate. Un giorno due uomini d’affari arrivano a Slavno e propongono agli abitanti di andarsene in cambio di danaro. È giusto accettare un’offerta che potrebbe salvar loro la vita ma, al tempo stesso, distruggere l’anima? «Snijeg, il mio primo lungometraggio, racconta la storia di un gruppo di donne che avevano perso i loro uomini durante i massacri nella Bosnia orientale. La storia segue la loro lotta per la sopravvivenza dopo la guerra, nel 1997. Durante lo sviluppo di Snijeg abbiamo parlato molto di ciò che noi chiamiamo “il sogno bosniaco”. In quel momento credevamo nella ricostruzione della nostra società. [...] La guerra è una delle situazioni in cui più si è costantemente minacciati dalla morte, ma spesso il tempo di pace è più complicato: il materialismo prende subito il sopravvento, e si dimenticano facilmente le cose essenziali imparate durante la guerra. Gli abitanti di Slavno trovano la forza di resistere e coltivare i propri sogni, anche se spesso sono più simili a incubi. Se si immagina un villaggio devastato circondato da bellissimi fiori, frutta e acqua pulita, allora si capisce che la costruzione ha più forza della distruzione».

Regia Aida Begić Sceneggiatura Aida Begić, Elma Tataragić Soggetto Aida Begić, Faruk Šabanović Fotografia Erol Zubčević Montaggio Miralem S. Zubčević Scenografia Vedran Hrustanović Costumi Sanja Džeba Musica Igor Čamo Suono Frank Bubenzer, Branko Neškov Interpreti Zana Marjanović (Alma), Jasna Ornela Bery (Nadija), Sadžida Šetić (Jasmina), Vesna Masić (Safija), Emir Hadžihafizbegović (il nonno) Produttori Elma Tataragić, Benny Drechsel, Karsten Stöter, François d’Artemare Produzione Mamafilm, Rohfilm, Les Film de L’Après-midi

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Aida Begić

OTEL(O)

ep. di UNUTMA BENI ISTANBUL DO NOT FORGET ME ISTANBUL Turchia | Grecia, 2011, 15’, col.

Regia, Sceneggiatura Aida Begić Fotografia Erol Zubčević Montaggio Miralem Zubčević Scenografia Nadide Argu Costumi Nadide Argu Interpreti Alma Terzić, Ayça Damgacı, Cem Özeren Produttore Lucinda Englehart Produzione Argonauts Productions

OTEL(O) ep. di NON DIMENTICARMI ISTANBUL [t.l.] Alma, giovane attrice bosniaca, si reca a Istanbul per un’audizione per l’Otello di Shakespeare. Arrivata in hotel tenta in tutti i modi di prepararsi alla parte, ma si ritrova a gestire le incessanti chiamate del fidanzato geloso. Durante il pomeriggio Alma convince Ayça, una cameriera dell’hotel, ad aiutarla nelle prove. Le prove, tuttavia, prendono una piega inaspettata: l’approccio realista di Ayça nei confronti di Shakespeare trasforma la recitazione in uno specchio della vita di Alma stessa. Senza uguali per il suo cosmopolitismo, la capitale turca Istanbul è l’ispirazione per questa collaborazione tra sei registi di fama internazionale, dai Balcani al Medio Oriente. Lavorando con attori e maestranze turche, tutti i registi e gli sceneggiatori del progetto hanno dovuto vivere per un breve periodo a Istanbul, oppure hanno forti radici ancorate alla città. In questi sei brevi film da quindici minuti l’uno, intense emozioni umane giocano con narrazioni basate sulla multietnicità, che rendono Istanbul romantica, misteriosa e semplicemente indimenticabile. (Mike Goodridge, www.screendaily.com)

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Aida Begić

DJECA

CHILDREN OF SARAJEVO Bosnia-Erzegovina | Germania | Francia | Turchia, 2012, 90’, col.

BUON ANNO SARAJEVO I fratelli Rahima e Nedim sono orfani della guerra di Bosnia. Vivono a Sarajevo, un luogo in cui la società ha perso ogni compassione, persino per i figli delle vittime del conflitto. Dopo un’adolescenza inquieta, Rashima ha trovato conforto nell’Islam e spera che il fratello segua il suo esempio. La sopravvivenza dei due diventa ancora più difficile dopo che Nedim viene coinvolto in una rissa con il figlio di un potente locale. L’incidente scatena una serie di eventi, portando Rahima a scoprire la doppia vita di Nadim e a fronteggiare scelte radicali. «Quello che ho voluto fare, utilizzando gli archivi del tempo di guerra per illustrare i ricordi di Rahima, è quello di condividere, capire quali possono essere i ricordi di chi ha vissuto una situazione così complessa. La storia del film lo giustifica, ma si tratta anche di un desiderio personale e del bisogno di parlare della mia esperienza, della memoria della guerra. Qualcuno che ha un passato così difficile come quello di Rahima può essere in grado di ritrovare dentro di sé un’umanità, e come? Sceglierà di costruirsi o di distruggersi? [...] Il contrasto per me è la chiave per l’identità di un film. Il contrasto tra ricchi e poveri, tra la vita e la morte, tra passato e presente, realtà e illusione, la libertà e la prigionia. Paradossalmente tutto questo coesiste in Djeca. Il personaggio principale, di cui il film segue il punto di vista, mette insieme tutti questi contrasti. Rahima è il paradigma della complessa realtà del dopoguerra. Seguendo il personaggio principale, camera a mano, spero che lo spettatore accompagni la ragazza nel suo viaggio attraverso le proprie emozioni».

Regia, Sceneggiatura Aida Begić Fotografia Erol Zubčević Montaggio Miralem Zubčević Scenografia Sanda Popovac Costumi Sanja Džeba Suono Igor Čamo Interpreti Marija Pikić (Rahima), Ismir Gagula (Nedim), Nikola Đuričko (Tarik), Staša Dukić (Selma), Velibor Topić (Melić) Produttori Aida Begić, Benny Drechsel, Karsten Stöter, François d’Artemare, Semih Kaplanoglu Produzione Film House Sarajevo, Rohfilm, Les Film de L’Après-midi, Kaplan Film Distribuzione Kitchenfilm

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Aida Begić

ALBUM

ep. di LES PONTS DE SARAJEVO BRIDGES OF SARAJEVO Bosnia-Erzegovina, 2014, 8’, col.

Regia, Sceneggiatura Aida Begić Fotografia Erol Zubčević Montaggio Redžinald Šimek Suono Nirvan Imamović Produttori Mirsad Purivatra, Izeta Gradević, Jovan Marjanović Distribuzione MIR Cinematografica

ALBUM ep. di I PONTI DI SARAJEVO I posti sono le persone. Il passato è un’interpretazione, il ricreare da parte di coloro che sono sopravvissuti. Dall’incontro dei due (persone e interpretazioni), Album vuole raccontare la Sarajevo di oggi attraverso il ricordo dei suoi cittadini. «Decisi di fare un film su quel luogo [Sarajevo]. Per la prima volta come artista mi scontrai con quella parte della mia vita. Aprire quella ferita non fu affatto semplice, poiché fu come rivivere un trauma. Alla fine, la lavorazione del mio film fu la più lunga di quella degli altri colleghi. [...] Finalmente decisi di fare un documentario corto; è come un saggio che mostra la Sarajevo di oggi, però partendo da testimonianze reali di persone che sopravvissero all’assedio. La presentazione a Cannes fu molto emozionante, perché mi sentii come se fossi la portavoce di tutte quelle persone che stavano parlando della mia città. Questo film è molto più che Sarajevo, però le strade sono quelle di Sarajevo e così anche i soggetti».

I PONTI DI SARAJEVO

Titolo originale: Les ponts de Sarajevo. Regia: Leonardo Di Costanzo (L’avamposto); Jean-Luc Godard (Les ponts des soupirs); Karmen Kalev (Ma chère nuit); Isild Le Besco (Little Boy); Sergei Loznitsa (Reflections); Vincenzo Marra (Il ponte); Ursula Meier (Silence Mujo); Vladimir Perišić (Our Shadows Will); Cristi Puiu (Reveillon); Marc Recha (Zan’s Journey); Angela Schanelec (Princip, Texte); Aida Begic (Album); Teresa Villaverde (Sara e a Sua Mãe). Produzione: Cinétévé, Obala Art Center. Distribuzione: MIR Cinematografica. Durata: 114’. Origine: Francia, Bosnia-Erzegovina, Svizzera, Italia, Portogallo, Bulgaria, 2014. Tredici registi vedono Sarajevo, come è stata nella Storia e come è adesso in rapporto all’Europa. L’avamposto: Durante la Prima guerra mondiale, in una tricea sul Monte pasubio, un piccolo plotone italiano deve riconquistare un avamposto. Les ponts des soupirs: Saluto malinconico a una Sarajevo cristallizzata in un secolo di violenza reale e simbolica. Ma chère nuit: Un uomo in piscina, un attentato imminente e una conversazione su Dio e libertà. Little Boy: Un bambino, solo con la nonna, fra lezioni di pianoforte, karate e cani randagi. Reflections: La Sarajevo di oggi riflessa nei vetri delle fotografie scattate da Milomir Kovacevic nel 1992. Il ponte: Due esuli a Roma, lei cristana, lui musulmano; la notizia della morte del padre di lui li pone di fronte ai fantasmi del loro passato. Silence Mujo: Durante una partita di calcio, il pallone finisce in un cimitero; il piccolo Mujo indugia fra le tombe. Our Shadows Will: Un gruppo di giovani, in una biblioteca, recita e medita sulle frasi di Gavrilo Princip e degli altri cospiratori. Reveillon: Il signor Poepscu, la sua signora, la Storia e un puzzle. Zan’s Journey: Zan, esule in Catalogna, viene aiutato dal fratello Haris a comprendere il suo passato e la sua terra d’origine. Princip, Texte: Una giovane coppia legge brani di un’intervista a Gavrilo Princip. Album: La Sarajevo di oggi raccontata attraverso i ricordi dei suoi abitanti. Sara e a Sua Mãe: È il 2014, Sara ha sei anni e vive con sua madre a Sarajevo; aiutate da un amico, disfano gli scatoloni pieni di ricordi.

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Pál Adrienn

LORENZO ROSSI

VIAGGIO IN UNGHERIA IL CINEMA DI ÁGNES KOCSIS «In Ungheria non ce li abbiamo i tartufi!», esclama uno degli spasimanti di Viola, la protagonista di Fresh Air (Friss levegő, 2006), subito dopo aver esaltato le qualità olfattive del proprio cane, capace di fiutare i tartufi a diverse decine di metri di distanza. Si potrebbe partire da qui per parlare del cinema di Ágnes Kocsis. Si potrebbe partire da qui perché la pungente ironia sottesa a questo breve dialogo è per certi versi un segno rivelatore dell’idea cinematografica, e del mondo, della regista ungherese. Un’idea che riflette un senso d’inadeguatezza in una rappresentazione del reale e dei personaggi che lo abitano come quella di un microcosmo nel quale rapporti e passioni umane restano sospese nel limbo dell’inespresso, dell’incompiuto e, appunto, dell’incompreso. Ma andiamo con ordine. Ágnes Kocsis, ungherese di Budapest, quarantaquattro anni, studia estetica in Polonia e cinema in Italia – un anno al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma – prima di rientrare in Ungheria, nel 2003, per frequentare i corsi della prestigiosa Színház- és Filmművészeti Egyetem (Accademia di Teatro e Arti Filmiche) della capitale, la scuola che ha avuto fra i suoi studenti registi del calibro di István Szabó, Miklós Jancsó e Béla Tarr. Dopo il diploma si segnala per una serie di lavori che, come vedremo, marcano un percorso di maturazione molto rigoroso: corti e mediometraggi che segnano uno dopo l’altro una crescita artistica coerente e, soprattutto se confrontata con le opere più importanti della sua filmografia, per nulla distratta o dispersiva. Un percorso, oltretutto, che porta la regista sino alla produzione di due opere che fino ad ora sono i lavori più interessanti e importanti della sua carriera: i lungometraggi Fresh Air e Adrienn Pál (Pál Adrienn, 2010). Ed è proprio l’organicità di questo cammino artistico la caratteristica che più di tutte le altre salta all’occhio osservando il cinema di Ágnes Kocsis. Perché quando si parla di stile e di abilità di racconto, capita spesso di confondere la riconoscibilità (di un tratto espressivo) con la coerenza (a un registro narrativo) e la personalizzazione con la personalità. Ma nel caso della regista ungherese, gli anni passati 89


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Friss levegő /Fresh Air

a costruire attraverso il cortometraggio la propria idea di racconto e di lì a rintracciarvi la propria esigenza enunciativa, hanno fatto sì che venisse a galla la sua personalità autoriale. Un’attitudine cioè a trattare la materia cinematografica alla stregua di quella letteraria e laddove ciò che si vede e si osserva diviene parte del proprio sentire e del proprio esprimere. Nella fattispecie tutto ciò ha portato a un modo di intendere e fare cinema che abbraccia questioni e problemi relativi agli aspetti sociali, ma anche politici, in seno alla rappresentazione. Segnatamente, la forte prossimità che nel cinema di Kocsis si avverte fra gli elementi della messinscena e i temi trattati all’interno delle pellicole (comprese quelle più leggere) riflette l’intenzione di fondere la necessità del racconto con la volontà di operare liberamente all’interno di un linguaggio che è forma e struttura ancora prima che narrazione. Gli elementi di maggior spicco all’interno delle immagini filmiche delle pellicole della regista sono infatti quelli materici, tattili e più immediatamente percettibili. Soprattutto corpi ai quali una macchina particolarmente prossima e invadente dà un fortissimo risalto visivo. E in un cinema che è per lo più cinema di personaggi (quasi sempre donne, non per caso) che vivono, respirano e si muovono in tutte le direzioni, il corpo assume un ruolo centrale, fondamentale. Con una macchina che li segue negli spostamenti e che li centra sempre in maniera simmetrica e quasi geometrica nelle inquadrature, i corpi dei protagonisti dirigono, come in una danza, l’incedere di tutti i film della regista. Come se per lei la riconoscibilità dei personaggi fosse la condicio sine qua non per affermarli come donne, come uomini e come esseri umani. Basti pensare in questo senso a Piroska, la protagonista di Adrienn Pál, una donna obesa la cui corpulenta immagine riempie lo spazio ancor prima che lo schermo e che Kocsis, non a caso, inserisce in ognuna delle inquadrature del film. Della donna viene data in questo modo una rappresentazione che è insieme fisica e psicologica, senza che vi siano ulteriori indugi descrittivi. La mdp, dunque, è prima di tutto un medium che funge da strumento di indagine nelle mani della regista, un dispositivo di rilevamento che segue, scruta e pedina e che quasi mai tergiversa nel fuori campo o nell’altrove visivo. Perché ciò a cui tende dare risalto sono le coscienze dei personaggi e la loro essenza interiore – personaggi dei quali non si perde mai nemmeno un respiro, uno sguardo, un segno di vita. Da tutto questo risulta una costruzione compositiva minuziosa e attenta, fatta di movimenti di macchina codificati e precisi e un uso pressoché sistematico del piano sequenza (elemento da tenere in considerazione quando si parla di cinema ungherese, dato che tale pratica enunciativa è stata portata alla sua estrema significazione da un regista sul cui lavoro Ágnes 90


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Kocsis si è formata e con il quale si trova a venire costantemente in contatto: Béla Tarr). Ma quella della composizione del profilmico è una pratica che comprende, nel cinema della regista, anche la scelta e la precisa definizione, con conseguente tematizzazione, degli spazi e delle location. I luoghi nei quali i film sono girati restituiscono infatti, in maniera evidente e immediata, il senso stesso delle storie che in quei luoghi si svolgono. E il fatto che la stragrande maggioranza dei posti nei quali Kocsis sceglie di far abitare i propri protagonisti siano luoghi all’interno dei quali risulta evidente il disorientamento e lo spaesamento dei personaggi stessi, testimonia in maniera ulteriore quale sia la concezione della realtà che permea il suo universo cinematografico. Sono i cosiddetti non-luoghi, per l’appunto, ad attestarsi quali ambienti prediletti nei quali dar vita alle storie. Ospedali, grandi fabbriche, bagni pubblici, cantieri e, ancora, vecchi istituti scolastici, grandi magazzini e stazioni: sono solo alcuni dei luoghi che osserviamo e impariamo a scrutare, di film in film, in tutte le opere della regista. L’intento è quello di far leva sulle connotazioni metaforiche che tali ambienti destano nell’immaginario collettivo. E specialmente di quello del popolo ungherese, certamente più abituato ad assegnare significati sociali e culturali ai paesaggi desolati e ai giganteschi edifici in rovina che punteggiano visivamente questo cinema tanto evocativo. Un cinema che è, esplicitamente, anche un occhio, un punto di osservazione e una testimonianza – dall’interno e in diretta – della vita, dei cambiamenti e del faticoso processo di sviluppo dell’Ungheria. Esemplare in tal senso è la storia del protagonista di Assorted Letters (Szortirozott levelek, 2000), il primo cortometraggio della regista. La vicenda di Lajos – che di professione fa lo smistatore della corrispondenza in una grande e rumorosa sala macchine delle Poste centrali di Budapest – è quella di un uomo senza qualità e senza ambizioni, solitario e misantropo che sottrae sistematicamente le lettere dal lavoro per leggerle nella riservatezza del proprio appartamento. Uno che non vive la propria vita, per vivere le vite degli altri. Quando il suo capo reparto decide di destinarlo, dopo tanti anni di servizio, a un lavoro d’ufficio, il mondo di Lajos va in frantumi così come la sua rassicurante abitudinarietà. In un istante non perde solo la possibilità di procurarsi le lettere di cui in tanti anni ha imparato a conoscere mittenti e destinatari, ma perde anche il contatto con l’ambiente spersonalizzante e alienato della sala macchine, del rumore delle apparecchiature e del movimento ripetitivo dei bracci meccanizzati. Come se il mondo gli chiedesse di guardare fuori dal suo nido, dall’isolamento che si è ostinatamente creato e di vivere la propria vita. In questo film, che nonostante il metraggio di poco superiore ai trenta minuti mette in campo numerose tematiche, si intravedono molte caratteristiche del futuro cinema di Kocsis. Già detto dell’importanza che rivestono gli spazi (e il non-luogo della sala macchine è un personaggio del film a tutti gli effetti), qui assistiamo per la prima volta alla messa in atto di un espediente drammaturgico che si ripeterà spesso nel cinema della regista. Come in molte opere successive, anche in questo primo lavoro, vediamo infatti un personaggio che da un attimo all’altro si trova a cambiare prospettiva e prendere coscienza dello stato della propria vita in virtù di un colpo di scena. Esattamente come succede al protagonista di The Virus (A vírus, 2005). Un virologo di un laboratorio chimico che dopo aver contratto un misterioso virus – che non gli causa alcun disturbo fisico eccettuato un repentino cambio di pigmentazione della pelle – finisce per trovarsi abbandonato e isolato da amici, colleghi e fidanzata. Quando le cose tornano alla normalità, tutti quanti riprendono a trattarlo come se nulla fosse accaduto. Per lui però fare finta di niente è impossibile. Ma a volte capita anche che a forza di cercarli i cambiamenti, o a inseguire i sogni impossibili le cose non mutino proprio per niente e che tutto resti invariato, inerme e uguale a se stesso. Come succede alla giovane Krisztina in 18 Pictures From the Life of a Conserve Factory Girl (18 kép egy konzervgyári lány életéböl, 2003) che con la coinquilina Évi partecipa e si impegna a collezionare ogni tipo di tagliando, coupon, scontrino e ricevuta per partecipare ai più svariati concorsi a premi e alle più bizzarre lotterie. Sperando che una vincita improvvisa rivoluzioni la sua vita di inscatolatrice di cetrioli alla catena di montaggio di una grande fabbrica alimentare. Il fatto che l’unico premio che le due si aggiudicano sia un ingombrante lettino solare che fatica persino ad entrare dalla porta di casa, e che occupa e ruba gli spazi vitali dell’abitazione, dà un giudizio acuto e lapidario sulle fantasie frivole e ingenue del tipo umano ordinario e privo di ambizioni che la ragazza impersona. Ma ordinaria è anche la Budapest di Fresh Air, il film che ha rivelato Kocsis ai pubblici internazionali e che nel 2010 arrivò proprio qui a Bergamo Film Meeting nella sezione “Aria fresca: il nuovo cinema ungherese”. Un film duro e potente che racconta la storia conflittuale tra una madre – Viola, che di mestiere fa l’addetta ai bagni pubblici di una stazione della metropolitana – e sua figlia, Angéla, che frequenta una scuola professionale ma sogna di diventare stilista e di fuggire in Italia. Costruito su una messinscena geometrica, sul continuo ripetersi dei medesimi spazi (il bagno pubblico, la casa, la scuola, il parco) e su un universo cromatico codificato (Viola veste sempre di rosso, Angéla sempre di verde), la pellicola gira intorno alla solitudine e all’abitudinarietà connotandole come limitazioni alle quali le protagoniste si costringono volontariamente e alle quali ognuna delle due esce scontrandosi con se 91


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Pál Adrienn

stessa ancora prima che con l’altra. Se il finale sia un’ulteriore caduta nell’abisso o il principio di un processo di liberazione sta allo spettatore deciderlo. L’opera con la quale Kocsis ha riscosso i maggiori successi internazionali e suo ultimo (fino ad ora) lungometraggio è il già citato Adrienn Pál. Presentato nel 2010 nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes, il film si regge su una trama esilissima e, come si diceva, gira interamente intorno alla figura della protagonista Piroska. Infermiera nel reparto geriatrico di un grande ospedale Piroska è fredda, insensibile, non prova alcuna emozione; sembra che la vita – come la morte da cui è circondata – le scorra addosso e che gli altri non contino nulla: non i colleghi, non i pazienti di cui si prende cura, non il compagno con cui vive. Quando un giorno nel suo reparto viene ricoverata un’anziana che, del tutto casualmente, ha lo stesso nome dell’amica d’infanzia con la quale ha perso i contatti da diversi anni, per Piroska tutto cambia all’improvviso. Ritrovare l’amica – l’Adrienn del titolo – diviene una missione, e un’ossessione, che la risveglia dal torpore e dal sonno dell’apatia nella quale vive. Ancora una volta un colpo di scena, sottile e per certi versi addirittura banale, causa il completo sconvolgimento dell’esistenza del personaggio principale. La ricerca che la protagonista intraprende, anche se la conduce verso una serie di ripetute frustrazioni e si rivela ben presto completamente vana, la sospinge, forse per la prima volta, ad essere l’interprete della propria vita e non una semplice comparsa e ad avventurarsi in una battaglia che vale la pena di essere combattuta. A uscire dalla condizione di perenne inadeguatezza nella quale ha vissuto sino a quel momento. E allo stesso modo di Piroska, è come se ognuno dei personaggi dei film di Kocsis, incompiuto e dominato dagli eventi, assomigliasse alle cose e ai luoghi ma anche agli oggetti, alle forme e ai colori che stanno in questo cinema delle analogie, dei rimandi e delle connessioni metaforiche. Motivo per il quale, in ognuno di questi film, cose, luoghi, oggetti, forme e colori ci parlano come osservatori della realtà, come spettatori delle esistenze marginali, dei microcosmi periferici, e delle vite accessorie che contribuiscono a descrivere. Per dare testimonianza anche di quello che, mentre il mondo gira vorticoso e il tempo scorre incessante, esiste di impercettibile e (quasi) di immobile. Perché, sembra dirci la regista, è lì che vanno cercati i significati e le risposte. E perché in fondo non è che non esista un posto nel mondo per ognuno di loro, ma semplicemente è il posto in cui stanno a non essere quello giusto. Un po’ come dei cani da tartufo che vivono dove i tartufi non ci sono.

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ÁGNES KOCSIS (Budapest, Ungheria, 1971) si laurea in lingua e letteratura polacca, estetica e teoria del film e in seguito si diploma in regia alla Színház- és Filmművészeti Egyetem (Accademia di Teatro e Arti Filmiche) di Budapest. Nel 2003 è a Roma per studiare regia e sceneggiatura alla Scuola Nazionale di Cinema. Nel 2005 finisce i suoi studi di regia. I suoi primi tre cortometraggi hanno partecipato a numerosi festival; con A vírus, nel 2006, ha vinto il terzo premio al festival di Cannes nella sezione Cinéfondation. Lo stesso anno, il suo primo lungometraggio Friss levegő è stato presentato alla Semaine de la Critique e in oltre ottanta festival nel mondo, aggiudicandosi quattordici premi. Nel 2010 il suo secondo film, Pál Adrienn, ha vinto il premio FIPRESCI al festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Nel 2011, Ágnes Kocsis ha ricevuto il premio “Béla Balázs” per il suo contributo al cinema ungherese. Attualmente sta preparando il suo terzo lungometraggio, Eden, ancora in fase di pre-produzione. Filmografia Egy nap [ep. di Magyarország 2011] (A Day, ep. di Hungary 2011, short, 2011) Pál Adrienn (Adrienn Pál, 2010) Friss levegő (Fresh Air, 2006) A vírus (The Virus, short, 2005) 18 kép egy konzervgyári lány életábol (18 Pictures From the Life of a Conserve Factory Girl, short, 2003) Ugyanúgy volna, mint Sandokan... (It Would Be Like Sandokan, doc, 2001) Szortírozott levelek (Assorted Letters, short, 2000)

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Ágnes Kocsis

SZORTÍROZOTT LEVELEK

ASSORTED LETTERS Ungheria, 2000, 30’, col.

Regia, Sceneggiatura Ágnes Kocsis Fotografia Gergely Pohárnok Montaggio Noemi Mehrli Scenografia Gábor Patagi, Erzsébet Túri Costumi Erzsébet Túri Musica Gábor Gadó Suono Zoltán Vadon, Tamás Zányi Interpreti József Tóth (Lajos), Kati Lázár (Gizike), Virág Szemerédy (Klárika), Attila Miksi (Főnök), Szabolcs Thuróczy (Jóska) Produttori Zsuzsanna Hollósi G., Sebestyén Kodolányi, Gábor Varga Produzione Filmplus, Balázs Béla Stúdió

LETTERE ASSORTITE [t.l.] Lajos è un uomo di mezza età che conduce una vita monotona e ripetitiva. Vive solo, non ha relazioni e lavora all’ufficio postale, dove non deve far altro che smistare le lettere attraverso una macchina. Ma per Lajos il suo lavoro è una vera passione: spiando la corrispondenza altrui, ha modo di conoscere e osservare le vite degli altri e attraverso le loro storie può animare la sua esistenza solitaria. Finché un giorno, il direttore decide di spostarlo in un altro reparto. «Mi era stato dato un tema, la città, per realizzare un cortometraggio. Concentrandomi su questo obiettivo, ho pensato a una persona sola che osserva gli altri e vaga per la città per cercarli. Per riuscire a entrare nelle vite altrui legge la loro corrispondenza, grazie al suo lavoro all’ufficio postale (all’epoca le e-mail erano ancora una novità e quasi nessuno ne faceva uso). [...] In generale, credo che qualsiasi tema ti venga proposto, puoi riuscire comunque a raccontare la storia che ti interessa. C’è un elemento presente in ogni film che ho girato, sin dal primo corto: la solitudine. Credo che la solitudine sia uno dei più grandi problemi della nostra società. L’uomo è fatto per avere una vita sociale, ma la maggior parte delle persone è sola, anche quando ha tanta gente intorno. La solitudine è ciò che ci tormenta di più, per brevi o lunghi periodi della vita. Ci sono persone che passano la loro esistenza da recluse e più rimangono sole e meno sono in grado di costruire delle relazioni. Alla lunga non riescono più a uscire da questa situazione, se non con un aiuto esterno. Qualcuno cerca di costruirsi un mondo tutto suo, e questo impiegato delle Poste – grazie alle opportunità che gli offre la sua professione – crea le storie della sua vita passando anni ad osservare gli altri e le loro famiglie. Conoscendo quasi ogni particolare delle loro vite si sente come se ne facesse parte, come se gli appartenessero. È un po’ come quelli che guardano alla tv una serie senza fine». (www.cameralucida.net)

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Ágnes Kocsis

18 KÉP EGY KONZERVGYÁRI LÁNY ÉLETÉBOL 18 PICTURES FROM THE LIFE OF A CONSERVE FACTORY GIRL Ungheria, 2003, 22’, col.

18 QUADRI DELLA VITA DI UNA RAGAZZA DELLA FABBRICA DI CONSERVE [t.l.] Krisztina Szabó ha ventisette anni e lavora in una fabbrica di conserve. Desidera una vita diversa. O che, almeno una volta, potesse accaderle qualcosa di veramente grande. Per questo fa tutto il possibile: partecipa alla lotteria, colleziona punti-premio e tutto ciò che le permette di vincere qualcosa. Spesso canticchia la sua canzone preferita. «Krisztina ha molti sogni, le piace cantare e ripete sempre il suo pezzo preferito, probabilmente sogna anche di diventare una cantante, ma più che altro vorrebbe avere un’altra vita. Per questo si crea una serie di obiettivi, ma, secondo il suo ragionamento, è collezionando le etichette dello yogurt o i calici da birra e partecipando a ogni tipo di concorso, che potrà avere davvero una possibilità di cambiare la sua vita monotona. Lavora in una fabbrica e non è in grado di dare una svolta alla sua esistenza perché non ha mai imparato a gestire se stessa. Per questo crede nei miracoli. Penso che un sacco di gente viva in questo modo».

Regia, Sceneggiatura Ágnes Kocsis Fotografia Ádám Fillenz Montaggio Lili Fodor Scenografia, Costumi Erzsébet Túri, Gábor Suono Róbert Juhász Interpreti Annie Szabó (Krisztina), Júlia Nagy (Évi), Szabolcs Thuróczy (Laci), Béla Stubnya, Jenő Nyika, Gábor Kocsmáros Produttore András Böhm Produzione Színház- és Filmművészeti Egyetem

(www.cameralucida.net)

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Ágnes Kocsis

A VÍRUS

THE VIRUS

Ungheria, 2004, 27’, col.

Regia Ágnes Kocsis Sceneggiatura Ágnes Kocsis, Andrea Roberti Fotografia Máté Herbai Montaggio Noémi Mehrli Scenografia János Szabolcs Costumi János Breckl Suono György Lakatos Interpreti Gergely Bánki (il virologo), Annamária Láng (la ragazza del virologo), Szabolcs Thuróczy (un amico), József Tóth (il capo reparto), Anikó Varga (un’infermiera) Produttori Iván Kapitány, János Kende Produzione Színház- és Filmművészeti Egyetem

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IL VIRUS [t.l.] Nella vita di un giovane virologo appare una nuova forma di virus. Del tipo che nessuno si aspettava... «Il protagonista è un virologo che prende una misteriosa infezione. Gradualmente tutto il suo corpo diventa rosso e nessuno sa cosa abbia. Mentre giace in ospedale si rende conto di quanto le sue relazioni siano vuote. Nel film c’è anche la paura di quello che non si conosce, della diversità. Per questo i suoi amici e compagni lo abbandonano immediatamente appena si manifesta la sua malattia. La domanda è: quanto possono essere forti i legami della nostra vita, l’affetto per le persone che amiamo, e quanto forte possono essere la voglia di vivere, l’istinto di sopravvivenza e il pensiero razionale? Può il nostro protagonista continuare la sua vita accettando il lato più oscuro degli esseri umani come un aspetto del tutto normale delle persone?». (www.cameralucida.net)


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Ágnes Kocsis

FRISS LEVEGŐ FRESH AIR

Ungheria, 2006, 109’, col.

ARIA FRESCA [t.l.] Viola è una bella donna che lavora come custode di una toilette pubblica. È sola, e cerca un uomo tra gli annunci per cuori solitari. Angéla, sua figlia, ha diciassette anni e vuole diventare stilista. Non sopporta la madre (odia l’odore del bagno pubblico e dei deodoranti che si porta addosso, odia la sola presenza di lei) e si chiude in camera per evitarla. Le due si incontrano soltanto sul divano, per guardare la loro serie tv preferita, La Piovra (Michele Placido è il sogno proibito di entrambe). Un giorno Angéla scopre che la madre cerca uomini sugli annunci dei giornali. Ágnes Kocsis non ha scelto la strada più facile per esplorare il difficile rapporto di una madre con la figlia in crisi adolescenziale, nella Budapest austera delle classi sociali svantaggiate. Con qualità cinematografiche eccezionali sul piano dell’immagine, il film rivela una regista che sa giocare con la profondità di campo attraverso uno stile basato su immagini fisse, una composizione dell’inquadratura molto ispirata alla pittura e il rifiuto del campo lungo, dove il lavoro con la luce del direttore della fotografia Ádám Fillenz si inscrive nella migliore tradizione della Settima Arte dell’Europa orientale. A questo si aggiunge l’associazione dei colori alle due protagoniste, la madre (rosso) e la figlia (verde). Ma su questa messa in scena s’innesta un racconto brusco, semplice e relativamente laconico, ancorato al grigiore della vita quotidiana, senza orizzonti e futuro, in cui le vite parallele di madre e figlia si incrociano solo davanti alla tv, per la loro serie preferita. Radiografia della non-comunicazione, aggravata dalla vergogna dell’adolescente per una madre maniaca dei deodoranti e in cerca dell’anima gemella attraverso gli annunci del giornale, Fresh Air trascrive con finezza la transizione all’età adulta della ragazza. Allieva di una scuola di cucito, dove insegue il sogno di diventare stilista, Angéla, descritta attraverso i dettagli più tipici della sua età (la vivacità, il diario, i poster appesi al muro, l’amica del cuore, l’amore platonico... ) finirà il film indossando la tanto aborrita divisa da custode per bagni pubblici di sua madre. Un determinismo sociale implacabile, trattato da Kocsis con un rigore privo di sbavature.

Regia Ágnes Kocsis Sceneggiatura Ágnes Kocsis, Andrea Roberti Fotografia Ádám Fillenz Montaggio Tamás Kollányi Costumi Fanni Halmi Musica Bálint Kovács Suono Attila Madaras Interpreti Izabella Hegyi (Angéla), Júlia Nyakó (Viola), Anita Turóczi (Marina), Zoltán Kiss (Emil), Béla Stubnya (Zoltán) Produttore Ferenc Pusztai Produzione KMH Film, Színház- és Filmművészeti Egyetem Distribuzione Mokép

(Fabien Lemercier, Fresh Air ou l’esthétique du désespoir, www.cineuropa.org, 24 maggio 2006)

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Ágnes Kocsis

PÁL ADRIENN ADRIENN PÁL

Ungheria | Olanda | Austria | Francia, 2010, 136’, col.

Regia Ágnes Kocsis Sceneggiatura Ágnes Kocsis, Andrea Roberti Fotografia Ádám Fillenz Montaggio Tamás Kollányi Scenografia Adrien Asztalos, Alexandra Maringer Costumi Mónika Matyi, Julia Patos Musica Mark van den Oever Suono Herman Pieëte Interpreti Éva Gábor (Piroska), István Znamenák (Kálmán), Ákos Horváth (Endre), Izabella Hegyi (Zizi), Lia Pokorny (Marta) Produttore Ferenc Pusztai Produzione KMH Film Distribuzione Elle Driver

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PÁL ADRIENN Piroska è un’infermiera obesa che non sa resistere ai pasticcini ripieni di crema. Convive con un uomo interessato solo alla carriera e a farle perdere peso, e lavora nel reparto malattie terminali di un ospedale. La sua vita è circondata dalla morte. Un giorno decide di rintracciare la sua vecchia amica del cuore e per questo incomincia a contattare i suoi compagni d’infanzia. Scoprirà che i suoi ricordi non coincidono esattamente con quelli degli altri... «Ci sono tre livelli nel mio film. Il primo è l’indagine personale. Nei film, mi piace concentrarmi sulla vita interiore delle persone. I protagonisti sono in ogni inquadratura e io cerco di mostrare le loro emozioni attraverso la composizione dell’immagine. Così, mentre la storia progredisce, il lavoro della mdp diventa sempre più complesso e colorato. Il secondo livello riguarda il modo con cui lavora la memoria, che è relativo e soggettivo. La gente ha spesso ricordi diversi dello stesso momento. Infine, il terzo livello è uno sguardo sull’obesità. La protagonista è un’infermiera obesa che offre cure palliative in un ospedale. Per me, l’obesità rappresenta la tristezza. Questo si è visto anche durante il casting: la maggior parte delle donne che abbiamo incontrato avevano disturbi alimentari causati dalla depressione. Le persone obese sono spesso vittime di discriminazione e sono più sensibili verso i problemi degli altri. Infatti, molte delle donne che si sono presentate al casting lavoravano nel sociale. Credo che se arrivassimo a comprendere la molteplice natura della realtà, potremmo riuscire a dare meno importanza all’aspetto esteriore degli altri e allo stesso tempo accettare noi stessi con più facilità. Questo è quello che accade alla protagonista del film».


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Ágnes Kocsis

EGY NAP

A DAY ep. di MAGYARORSZÁG 2011 HUNGARY 2011 Ungheria, 2012, 11’, col.

UN GIORNO ep. di UNGHERIA 2011 [t.l.] Erdős è una senzatetto. Gira per le strade di Budapest col suo cane e due grosse borse che contengono i suoi effetti personali. Di giorno rimedia un pasto caldo alla mensa dei poveri, ma la sera non sempre riesce a trovare un letto nei centri d’accoglienza. Quando va male, si arrangia a dormire nel parco. Finché una notte la polizia la scorge tra i cespugli e la arresta.

Regia, Sceneggiatura Ágnes Kocsis Produttore Béla Tarr Produzione, Distribuzione T.T. Filmmühely

«Questa storia è il prodotto dell’immaginazione ma potrebbe accadere in ogni momento. L’attuale legislazione ungherese stabilisce che risiedere abitualmente e conservare i propri effetti personali in luoghi pubblici è una pubblica offesa sanzionabile dalla legge. Chiunque sia colto a reiterare questo reato nel giro di sei mesi è suscettibile di incarcerazione». Il film collettivo Magyarország 2011, prodotto da Béla Tarr, è una raccolta di undici episodi realizzati da altrettanti registi ungheresi. È un atto di protesta verso un governo di destra che ostacola con ogni mezzo la produzione culturale e cinematografica. A proposito di Magyarország 2011 Béla Tarr ha dichiarato: «Nella situazione che si è venuta a creare per il cinema ungherese, non vediamo altra possibilità di dimostrare la nostra esistenza che realizzare dei prodotti audiovisivi per richiamare l’attenzione del pubblico sul fatto che siamo ancora in grado di lavorare ed esprimere i nostri pensieri, riflessioni e sentimenti. Questi film sono stati prodotti con soldi virtuali. I creatori hanno accettato di lavorare senza ricevere alcun tipo di pagamento e di utilizzare la tecnica più economica possibile». (Catalogo generale, Berlinale 2012)

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EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE TERESA VILLAVERDE

MASSIMO CAUSO

MONDI INTERROTTI C’è la luce e c’è l’ombra, e di mezzo c’è ovviamente anche il chiaroscuro, che è quella zona in cui le cose si confondono, assumono il colore e il dolore delle emozioni fluide, spesso inconciliabili, di certo irrazionali. È qui che si colloca il cinema di Teresa Villaverde, nello scalare di grigi tra l’oscurità delle pulsioni e la chiarezza delle ragioni, a diretto confronto con personaggi che abitano i loro mondi tenendosi in bilico sulla confusiva verità del loro incerto divenire. Mondi interrotti, per lo più, siano essi scampoli di un’infanzia residua schiantata su destini disgraziati, siano essi macerie ancora fumanti di un’età adulta, sospesa su stati sentimentali interlocutori che si traducono in stasi esistenziali perenni. Sia che si cristallizzino nell’infanzia, sia che sprofondino nell’età adulta, i personaggi di questa regista sono espressione di uno sguardo sul mondo che osserva prevalentemente il panico di un’oscurità incombente, o al meglio l’abbacinante verità di una luce che acceca e non lascia vedere.

LA FINE DELL’INFANZIA

Sin dal suo esordio, il cinema di Teresa Villaverde si anima di queste incertezze, di una relazione interlocutoria con personaggi che nutrono la frattura delle loro coscienze, calati in universi magmatici da cui emergono madidi di pulsioni oscure, ma anche di una incontaminata purezza. A Idade Maior (Alex, 1991) è già un film che aggredisce la sostanza di quel chiaroscuro che la regista intende esplorare: sta tra il doppio “no” fieramente opposto nell’incipit da Alex, il piccolo protagonista, a chi gli chiede se ricorda il padre e la madre, e la distanza che la voce narrante dello stesso protagonista, ormai adulto, pone tra se stesso e quell’Alex bambino, di cui sta per raccontarci la dolorosa crescita. L’esplosione d’identità con cui il film si apre (la netta nominazione del protagonista, la sua esposizione in una veemente posa plastica) è un atto che del resto è coerente con l’intenzione stilistica della regista, che sembra nutrirsi dello stridore generato dal costante confronto tra la dimensione magica con cui il piccolo protagonista, Alex, metabolizza gli eventi, e la connotazione astratta del dramma sentimentale che si svolge davanti ai suoi occhi. Se è evidente che A Idade Maior è un’opera colta nel chiaroscuro tra l’infanzia e l’età adulta, è altrettanto evidente che alla regista interessa più osservare le dinamiche di quel chiaroscuro che entrarci a contatto: la regista, infatti, dà corpo al fuori campo cristallizzandolo nel non detto di un altrove (il Mozambico coloniale, raffigurato solo in una cartina geografica), che diviene una sorta di antro mostruoso in cui Alex vede risucchiato il padre soldato, e da cui vedrà riemergere quello stesso padre ormai differente. Ciò che interessa evidentemente alla Villaverde è l’esposizione di un universo in cui la percezione della realtà è gestita dalla separazione: il mondo di Alex si struttura attorno a una scansione tra gli opposti (uomo/donna, notte/giorno, prima/dopo, qui/altrove, amore/odio), che non corrisponde a una frattura da risanare, ma a una metamorfosi da affrontare. Il dramma sta tutto nella morfologia mutante degli eventi e delle figure, che tendono a trasformarsi nel loro opposto: l’assenza del padre è più sensibile e drammatica al suo ritorno, così come la sua presenza era più tangibile nelle lettere che inviava dal fronte; l’unità e unicità della coppia genitoriale in realtà si intreccia con quelle figure parentali chiaramente surroganti, incarnate da Barbara e Mário (rispettivamente Maria de Medeiros e Vincent Gallo). Il vissuto cui Teresa Villaverde dà corpo è quello di un Alex che metabolizza la realtà e la traduce in una narrazione adulta, ma anche quello di una dimensione infantile esposta come identità plasticamente in fieri: A Idade Maior è tutto un susseguirsi di pose plastiche, di scene madri, di atti esposti alla performance, alla veemenza dei gesti. E questo non certo per naïveté da esordiente, quanto per pulsione identitaria radicata. Anche perché non va certo dimenticato che poi questo è anche un film in cui si mette in metafora melodrammatica la storia del Portogallo: siamo negli anni finali del grande impero coloniale portoghese, sul crinale della dittatura di Salazar, a un passo dalla Rivoluzione dei garofani... Implode nella disperazione più cupa, invece, la solitudine della protagonista di Três Irmãos (Two Brothers, My Sister, 1994), Maria. La presenza scenica – fondamentale! – è di nuovo quella della Medeiros, che qui attraversa il film come una sorta di farfalla in nero, capace di invertire la sua leggerezza in un atto di dolore. Maria è vergine sacrificale e vertice della disperazione di quel triangolo affettivo perfetto, composto assieme ai due fratelli, João e Mário. Il cerchio magico della loro unione, celebrato nelle risonanze fuori campo delle formule infantili su cui si apre e si chiude il film, è basato, ancora una volta, sul chiaroscuro di un confronto con la doppia faccia della realtà, sul dissidio ricomposto tra luce e ombra, da cui scaturisce la concretezza della realtà. La famiglia è anche qui una sorta di specchio scuro in cui si riflette l’immagine deformata di una vita adulta che annienta. E infatti lo stacco da essa è netto, 100


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Três Irmãos/Two Brothers, My Sister

violento, un salto da un eden abbrutito governato da un padre cieco e violento e una madre inerme e annichilita. La vertigine della libertà è gioiosa per il tempo di una notte, trascorsa con João e Mário in discoteca. Poi quella stessa vertigine diviene salto nel vuoto, fine della verginità per Maria e inizio di una fiaba nera dalle cadenze parossistiche, sempre più giù sino al tragico finale di morte, dove la sua caduta non sarà più frenata dalle larghe spalle di João, ma sarà accolta, sul selciato, dalla mano tremante di Mário... Teresa Villaverde compone il film come un mosaico tagliente che celebra l’oscurità della vita: la pulsione tragica assoluta incarnata nel fragile corpo di Maria, che si fa carico di ogni dolore senza saper chiedere aiuto, è la configurazione di una condizione edenica ribaltata, che appartiene a tutta la fase iniziale del suo cinema: come è stato in A Idade Maior prima, e come sarà in Os Mutantes, anche in Três Irmãos la regista elabora un universo che sembra custodire in un antro oscuro l’incompiutezza dei suoi protagonisti, immergendoli in un mondo in fieri, fatto di attese e delusioni, di altezze e cadute. La composizione delle figure resta anche qui fortemente emblematica, tarata su una dimensione simbolica assoluta. Come l’incipit e l’excipit raccontano perfettamente, João e Mário non sono che gli opposti di un’unica pulsione esistenziale di Maria: verso la strutturazione, la resistenza, la vita il primo; verso il vuoto, il cedimento, la morte il secondo. Che Maria appartenga più alla seconda sfera che alla prima, lo dice il finale e, del resto, lo annuncia anche il suo nome. Ma alla regista chiaramente interessa il transito della sua eroina attraverso un universo che intride di oscurità la luce innata dell’esistenza: lo stile resta nutrito di pose formulate in contraddittorio drammatico con la realtà, anche se, rispetto al film d’esordio, la mancanza della distanza mnemonica da un lato, e l’insistenza sulle sinuosità metropolitane di Lisbona dall’altro, contribuiscono a rendere meno plastiche le pose. L’intrusione drammatica, violenta, della realtà nella sfera fragile eppure solida dell’infanzia è, del resto, la chiave di volta del film successivo di Teresa Villavedre: come dice la stessa regista, Os Mutantes (The Mutants, 1998) nasce infatti dal desiderio di fare un film sulle «differenze di sviluppo generate dall’ambiente in cui le persone nascono e vivono i loro primi anni», come dire sulla frattura che interrompe la continuità tra l’universo in sé compiuto dell’infanzia e la sua idealistica realizzazione nel mondo degli adulti. Sicché, se i primi due film di Teresa Villaverde cercavano quanto meno di rappresentare quella idealistica continuità nella performance simbolica dei protagonisti, in Os Mutantes la sfera della rappresentazione è occupata per intero proprio dallo schianto tra l’identità sofferente dei giovanissimi eroi, in perenne fuga dagli istituti che li ospitano, e la violenza del mondo, in cui si immergono come 101


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in un battesimo imposto dalla realtà alla fine della loro infanzia. Il film si rivela dunque una sorta di piano inclinato su cui scorrono e si confondono il bisogno di libertà dei ragazzi e il chiaroscuro di un mondo fatto di opposti universi (famiglia/società, bisogno/sfruttamento, accoglienza/prigionia...), tutti ugualmente repulsivi agli occhi sempre arrossati e gonfi (di lacrime, rabbia, alterazioni emotive) dei protagonisti. La mutazione in atto sui corpi di questi ragazzi è, ovviamente, quella dell’adolescenza, ma è soprattutto quella operata dal continuo confronto con le prospettive disequilibrate delle loro esistenze. E se la Villaverde adotta una cifra stilistica straordinaria nel tenere ferma la barra di un approccio realistico alla messa in scena, tuttavia non perde mai di vista la tensione espressiva del suo cinema, configurando il film come una spugna intrisa di dolore liquido, sfuggente, come un sudario che avvolge di notturni rancori ogni sforzo di vita diurna, sociale, dei protagonisti e delle figure che li attorniano. Basti pensare allo scherzo ottico (da cinema muto) del doppio corpo di Andreina dormiente e fantasma che deambula in ospedale; oppure alla scena, allusiva e inquietante, del set porno/arty su cui si ritrovano Pedro e Ricardo, a definire un rapporto magmatico – collusivo e confusivo – tra le dinamiche costruttive e distruttive in cui i protagonisti si immergono. O ancora basti considerare il continuo defluire dei corpi sulla linea di un baricentro spiazzato, con figure colte in disequilibrio sul mondo (da finestrini, treni in corsa) o sguardi capovolti sulla realtà (la sequenza alle giostre). È evidente che ciò che interessa alla regista in Os Mutantes è proprio la linea di fuga di questi ragazzi da un mondo che le appare minaccioso, ingiusto e violento: è il loro disequilibrio a condannarli e a salvarli, il chiaroscuro del loro destino a realizzarsi in una triangolazione che vede il più fragile, Ricardo, sacrificato alla notte, Pedro dannato nel suo rifuggire la regola e la struttura, e Andreina genitrice nella pena e nel dolore, in fuga dalla vita che genera, non per disamore ma per incapacità.

A FAVOR DI LUCE

Che sia un mondo al quale sottrarsi lo pensa, del resto, anche Ana, la protagonista del film successivo della Villaverde, Água e Sal (Acqua e sale, 2001). Ana è donna e moglie e madre, ma dietro la sicurezza con cui percorre il suo cammino (la fine di un matrimonio, un vero amore del passato tenuto a distanza, una nuova passione negata categoricamente, uno studio finalmente da completare) nasconde in realtà l’incedere inconsapevole verso quell’ombra che grava su tutti i personaggi della Villaverde. Lo

Os Mutantes/The Mutants

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Transe/Trance

scenario costiero dell’Algarve, con la sua spaziosa solarità marina, non è che il controcampo luminoso dell’universo concluso, convesso, astratto dei protagonisti della regista: la dimensione magmatica e confusiva delle opere precedenti si dissolve qui nei suoi singoli elementi, in una rappresentazione che sembra quasi voler risolvere ciò che nasce irrisolto, separare ciò che è confuso, sì insomma tirare fuori il sale dall’acqua del mare, come suggerirebbe il titolo... E infatti questo è il film della separazione, della scansione tra gli elementi che in principio sono confusi: Ana sta dirimendo il suo amore e cerca di collocare il sentimento materno da una parte, quello di moglie dall’altra, quello di donna dall’altra ancora, un po’ come cerca di porre ordine nel magma di foto in cui gli sguardi della gente, i loro corpi, le pose, elaborano il dolore del mondo reale. In quello che di sicuro è il film più personale e intimo della regista, sembra quasi che Teresa Villaverde elabori il dramma della confusione da cui nasce il suo universo poetico, distanziandolo da un lato sul tavolo da lavoro della sua protagonista, dall’altro nel melodramma “popolare” che scaturisce dalle case e dalle strade dell’Algarve: la storia d’amore con figlio abbandonato che lega Alexandre ed Emilia sembra un frammento apocrifo di Os Mutantes (non a caso a interpretare i due ragazzi sono Alexandre Pinto e Ana Moreira). Ma è in questo stesso specchio opaco che, del resto, la regista riflette la confusione personale di Ana, il suo smarrimento in una forma di coscienza che anestetizza i sentimenti e sottrae la realtà stessa alla sua percezione. Perché poi, infatti, nel dramma di Emilia, alla quale è stato sottratto il bambino, si riflette la sua angoscia di vedersi togliere la figlioletta dal marito, così come nelle fotografie su cui passa le sue ore di studio in cerca della verità del dolore, finirà col non rinvenire più la ragione del suo interesse, un tempo così chiara ed evidente. E allora, Água e Sal si configura come l’opera in cui Teresa Villaverde finalmente pone davvero il dramma nella realtà, al centro esatto tra gli opposti chiaroscurali del suo cinema, separando le acque dalle terre (o dal sale, appunto...), solo per definire un mondo davvero reale, adulto, in cui confrontarsi adeguatamente con le cose e i sentimenti, e per sospingere la protagonista verso un finale di azzeramento e di autoesclusione, che lascia attoniti, quasi straziati. Il passaggio successivo è in effetti un faccia a faccia non con il mondo, ma con una visione del mondo: quella dell’artista portoghese Pedro Cabrata Reis, che – su invito dell’Instituto das Artes e in vista della 50a Biennale di Venezia – chiama Teresa Villaverde a fare un film (non un documentario, lo dice esplicitamente all’inizio) sulla sua opera. Il titolo, A Favor da Claridade (In Favour of Light, 2004), sembra quasi una dichiarazione poetica della regista, un rimarcare quel dissidio tra luce e ombra su cui 103


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Acqua e sale

ha costruito i suoi universi. E la struttura è una sorta di dialogo sul buio che maneggia la luce, in una prospettiva che la Villaverde, sulle tracce di Cabrata Reis, spinge per la prima volta in una dimensione storica e persino anche storicistica. L’artista portoghese parla di un’Arte che nasce dalla continua rottura col passato, che cerca di rigenerare la vita dalle macerie, e la regista crea un contraltare di immagini (fotografie, filmati d’archivio e riprese dinamiche delle opere) che descrivono empaticamente lo stato di confusione tra vivibile e visibile, il magmatico e rapsodico lavorio di un mondo in cui lo sguardo ha perso il baricentro. Il tutto col controcanto continuo offerto dai testi semanticamente liminari (tra saggio e poesia) di due scrittrici portoghesi come Maria Gabriela Llansol e Luiza Neto Jorge, letti dalla stessa regista e, soprattutto, da Ana Moreira. Quella che risulta, in effetti, è una sorta di incursione nell’opera di un’artista attraverso lo sguardo atterrito della regista sulla realtà, in un percorso che sembra stare esattamente nella testa e negli occhi della Ana di Água e Sal alle prese con il suo portfolio fotografico sul dolore. Un’incursione nel dolore della Storia e dell’Umanità che, del resto, è il punctum esplicito anche di Cold Wa(te)r (2004), il frammento di cinque minuti realizzato da Teresa Villaverde per la serie Visions of Europe: uno sguardo in sospensione, come in asfittica apnea, sulla notte di un gruppo di immigrati clandestini sbarcati da qualche parte sulle coste italiane, raccolti dalle guardie come un gregge maledetto, contati, enumerati, classificati per passaporto, recuperati cadaveri la mattina successiva, ricomposti malamente in bare di alluminio, portati via... La pietas con cui la regista elabora questo materiale sta tutta nella fermezza, attonita sino allo sfinimento, con cui osserva al rallentatore quelle immagini e ce le consegna come testimonianza dell’ombra in cui ci muoviamo nostro malgrado.

IN TRANSITO

Del resto, ciò a cui Teresa Villaverde si sta preparando è esattamente un bagno nell’oscurità più cupa e disperata della Storia: Transe (Trance, 2006) è infatti un’immersione raggelante nella notte della ragione, la stessa dalla quale riemergeva il padre soldato di Alex in A Idade Maior e da cui sono riaffiorati, madidi, i profughi di Cold Wa(te)r. Il tutto è chiaramente astratto in una dimensione onirica e surreale, che si offre come raffigurazione della fine della Storia (europea) in transito sull’imperialismo dell’anima, un ritorno della regista portoghese a un cinema introflesso, che divora la stessa ragione della protagonista. 104


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E infatti, come a seguire lo scarto subitaneo, concretamente astratto, tra il giorno e la notte su cui si risolveva il finale di Água e Sal, con la conseguente fuga di Ana in direzione di un nulla in cui perdersi, così anche Sonia, la protagonista di Transe, risolve il suo destino di separazione dal figlioletto negatole, dalla famiglia che la rifiuta e da una San Pietroburgo cui non appartiene, disperdendosi volontariamente nel nulla di una partenza verso la notte d’Europa: la Germania, l’Italia, infine il Portogallo... Non la si può neanche definire una scelta, quella di immergersi in questo incubo profondissimo, perché Sonia non sembra neanche un corpo reale, quanto piuttosto una funzione ideale decaduta: il film, infatti, inizia e finisce aprendo e chiudendo come delle parentesi astratte e antirealistiche, che semmai introducono e sigillano quella sorta di vortice di orrore, violenza e disumanità drammaticamente reali in cui Sonia – il suo corpo, la sua anima – si cala. L’intenzione della regista è chiaramente quella di marchiarla arroventando la metafora storica di un’Europa marcita nelle sue radici e arcaica nelle sue ragioni, sospesa tra scenari cortigiani fuori tempo massimo e cascami post-industriali già obsoleti. La determinazione sacrificale di Sonia è perseguita dalla regista con una lucidità che rasenta la crudeltà e produce un evidente senso di disagio al film stesso e allo spettatore: una sorta di processo ipnotico repulsivo, in cui agiscono la ritmica estraniante di una narrazione sganciata dalla sequenzialità, la reiterazione della soggiacenza della protagonista e, non da ultimo, un approccio figurativo magmatico, che impasta colori e suoni, interni ed esterni, luoghi e tempi per produrre un quadro astratto di realistica veemenza. Corrisponde invece a una opposta necessità di ricollocare le cose in una pulsione esistenziale realistica, in cui gli elementi emotivi e quelli psicologici dei personaggi coincidano con una certa limpidezza delle coordinate esistenziali, quello che al momento è l’ultimo lungometraggio della Villaverde: Cisne (Swan, 2011). Il film sembra aver metabolizzato lo schianto espresso in Transe, trasformandolo in un impianto espressivo luminoso ma non solare, piuttosto acceso da cromatismi abbaglianti e caldi, nei quali i personaggi sembrano galleggiare come in apnea. Ancora una volta, i personaggi nascono al film in una condizione di rottura esistenziale che si rifrange dalla protagonista – Vera, una cantante di successo – al contesto che la circonda. La sua impossibilità di mantenere l’unione con l’uomo che ama, Sam, si traduce in una separazione fisica ma non sentimentale, che come sempre determina una condizione di irresolutezza dolorosa: la distanza cercata e trovata nella lunga tournée a Lisbona, vede Vera in ascolto di se stessa, mentre Sam occupa la sua casa in un’inedia quasi fatale. Ma ciò che evidentemente interessa alla regista raccontare in questa storia è, come sempre, da trovare nella matrice drammatica offerta dai personaggi di contorno: il suo giovane autista, Pablo, esattamente come l’omonimo personaggio di Água e Sal, è una presenza maschile ancillare destinata a mettere la protagonista nella condizione di risolvere, in un modo o nell’altro, la sua condizione nella realtà. Sarà infatti lui a riconfigurare per Vera e Sam la scena primaria familiare, spingendo sul loro cammino il piccolo orfano (il “cigno” del titolo) che ha avuto il coraggio di eliminare l’uomo che abusava di lui e dei suoi sfortunati amici. Sicché Cisne definisce un cammino di ricomposizione che però ha le stimmate di un idealismo un po’ magico e irreale perfettamente coincidente, anche se in chiave adulta, con l’universo desiderato da Alex nell’esordio di A Idade Maior. Quanto il tutto sia in verità fugace e illusorio, e come l’orrore abbia tuttavia il suo posto nel mondo, lo dicono, ovviamente in chiaroscuro, le fiamme che bruciano le pagine del diario della madre nell’episodio Sara e a Sua Mãe (per Les ponts de Sarajevo, I ponti di Sarajevo, 2014), sia lo squarcio d’inferno composto dalla regista per i settant’anni della Biennale Cinema, Amapola (Poppy, ep. di Venice 70: Future Reloaded, 2013), in cui, mentre riprende da un monitor il volto fiammeggiante di Alexandre Pinto (il Pedro di Os Mutantes) ci lascia ascoltare il salmodiare ipnotico di Pablo Neruda contro la follia della guerra, nei versi di Explico algunas cosas.

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TERESA VILLAVERDE (Lisbona, Portogallo, 1966) è regista, attrice, scenografa e sceneggiatrice. Il suo è uno dei nomi più importanti della generazione di cineasti portoghesi degli anni Novanta formatisi presso la ESTC – Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona, insieme a Pedro Costa, Joaquim Sapinho, Manuel Mozos, João Pedro Rodrigues, Marco Martins. All’età di ventiquattro anni scrive e dirige il suo primo film A Idade Maior (1991), presentato in anteprima mondiale alla Berlinale, con cui vince il premio per la migliore attrice al FestivalFilmDunkerque e il Premio Speciale della Giuria al Festival Internacional de Cine di Valencia. Tre anni dopo, con Três Irmãos (1994), la protagonista Maria de Medeiros si aggiudica la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile al festival di Venezia, confermando poi il premio anche ai festival di Cancun e di Valencia. Os Mutantes, presentato a Cannes (Un Certain Regard) nel 1998, è l’opera che consacra la regista a livello internazionale e con cui riceve il Premio delle Nazioni Unite a Roma e il premio come miglior attrice (Ana Moreira) al festival di Taormina e Buenos Aires; il riconoscimento da parte della critica e del pubblico è unanime. Nel 2001 Teresa Villaverde torna al festival di Venezia (Cinema del Presente) con Acqua e sale, interpretato da Galatea Ranzi; nel 2004 firma l’episodio Cold Wa(te)r nel film collettivo Visions of Europe, e nel 2006 Transe, presentato a Cannes e a Toronto, con cui vince il Premio Speciale della Giuria al Festival del Cinema Europeo di Lecce. Nel 2009 fonda la sua casa di produzione, la Alce Filmes, e inizia a produrre autonomamente le proprie opere. Nel 2011 torna a Venezia (Orizzonti) con Cisne (2011); nel 20132014 partecipa a due film collettivi: Venice 70: Future Reloaded (2013), in occasione del settantesimo anniversario del festival di Venezia, e I ponti di Sarajevo (2014), il progetto artistico di Jean-Michel Frodon su Sarajevo a cent’anni dall’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, presentato Fuori Concorso a Cannes e firmato da tredici cineasti europei. Filmografia Les ponts de Sarajevo [film collettivo, ep. Sara e a Sua Mãe] (I ponti di Sarajevo, ep. Sara and Her Mother, short doc, 2014) Venezia 70 – Future Reloaded [film collettivo, ep. Amapola] (ep. Poppy, short doc, 2013) Cisne (Swan, 2011) Transe (Trance, 2006) Visions of Europe [film collettivo, ep. Cold Wa(te)r] (short, 2004) A Favor da Claridade (In Favour of Light, doc, 2004) Água e Sal (Acqua e sale, 2001) Os Mutantes (The Mutants, 1998) Três Irmãos (Two Brothers, My Sister, 1994) A Idade Maior (Alex, 1991)

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A IDADE MAIOR ALEX

Portogallo | Germania, 1991, 118’, col.

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Elfi Mikesch Montaggio Vasco Pimentel, Manuela Viegas Scenografia Miguel Mendes, Jeanne Waltz Costumi Cristina Reis, Maria Gonzaga Musica Franz Schubert, Wolfgang Amadeus Mozart Suono Vasco Pimentel Interpreti Ricardo Colares (Alex), Teresa Roby (Manuela), Joaquim de Almeida (Pedro), Vincent Gallo (Mario), Maria de Medeiros (Barbara) Produttori Mônica Noronha, Ângela Cerveira Produzione G.E.R., Invicta Filmes, RTP – Radiotelevisão Portuguesa, ZDF – Zweites Deutches Fernsehen Distribuzione Coralie Films

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LA MAGGIORE ETÀ [t.l.] All’inizio degli anni Settanta, in un periodo in cui il Portogallo vive gli ultimi anni della dittatura di Salazar e le fasi decisive delle guerre di liberazione delle colonie africane, il piccolo Alex, che a malapena ha conosciuto il padre, un soldato mandato a combattere in Africa, abita solo con la madre. Un giorno la donna viene a sapere che il marito è tornato in patria, ma che non ha cercato di contattare la sua famiglia. Esce allora di casa per andare a cercarlo; ma nel frattempo l’uomo ritorna. Nell’abitazione c’è solo Alex: padre e figlio finalmente si incontrano. «La prima volta che sono stata su un set dal principio alla fine e con una funzione precisa, è stato con A Idade Maior. Non avevo la più pallida idea di come si facesse un film. Visto che non avevo praticamente esperienza, non sentivo il bisogno di isolare i problemi. Mi ricordo che arrivavo sul luogo delle riprese senza aver preparato nulla. Sapevo cosa volevo vedere sullo schermo e non mi importava se fosse semplice o complicato realizzarlo. Non ci pensavo neanche. Il mio rapporto col cinema era lo schermo, erano i film che avevo visto già fatti».


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TRÊS IRMÃOS

TWO BROTHERS, MY SISTER Portogallo | Francia | Germania, 1994, 108’, col.

TRE FRATELLI [t.l.] Maria ha vent’anni, vive una vita difficile nella Lisbona degli anni Novanta e non può comportarsi come la maggior parte dei suoi coetanei. Non dice quasi mai quello che pensa, o chiede quello che vuole. Soffre ma non dice che ha sofferto. Non vuole restare sola, ma non cerca compagnia. Maria vuole sopportare tutto da sola, essere forte, prendersi cura di tutti. Suo padre è un uomo violento che picchia la moglie; i suoi due fratelli spesso si mettono nei guai. E lei, infine, subisce una violenza da parte del figlio del suo datore di lavoro. Maria sopporta tutto con rassegnazione, fino a quando decide di prendere una decisione brutale e definitiva. «Tutti hanno il diritto di avere ciò di cui hanno bisogno. Tutti hanno il diritto di scegliere ciò che vogliono. Tutti hanno il diritto di essere amati. Tutti hanno il diritto di stare vicino alle persone che amano. Tutti hanno il diritto di far sapere alle persone amate quando hanno bisogno di loro. Tutti hanno il diritto di poter saltare da un muro e sapere che sotto ci sarà qualcuno a prenderli. Tutti hanno il diritto di avere per sempre fratelli e sorelle. Nessuno ha il diritto di togliere questi diritti ad alcuno. Ma il film non parla di questo».

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Ulrich Jänchen, Joaquim Pinto, Antoine Roch, Volker Tittel Montaggio Vasco Pimentel, Teresa Villaverde Scenografia João Calvario Costumi Rosa Almeida, Miguel Mendes Musica, Suono Vasco Pimentel Interpreti Maria de Medeiros (Maria), Marcello Urgeghe (Mário), Yevgeni Sidikhin (João), Laura del Sol (Teresa) Produttore Joaquim Pinto Produzione Arion Productions, G.E.R.

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OS MUTANTES

THE MUTANTS

Portogallo | Francia, 1998, 113’, col.

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Acácio de Almeida Montaggio Andrée Davanture Scenografia Sérgio Costa Costumi Joana Villaverde Suono Vasco Pimentel, Joël Rangon Interpreti Ana Moreira (Andreia), Alexandre Pinto (Pedro), Nelson Varela (Ricardo), Paulo Pereira (Zezito), Helder Tavares (Franklin) Produttore Jacques Bidou Produzione Arte, FMB Films, JBA Production, Mutante Filmes, La Sept Cinéma, Pandora Filmproduktion, IPACA – Instituto Português da Arte Cinematográfica e Audiovisual, RTP – Radiotelevisão Portuguesa, ZDF – Zweites Deutsches Frensehen

I MUTANTI [t.l.] Due ragazzi e una ragazza entrano ed escono di continuo da una “casa speciale”, uno dei tanti istituti di Lisbona che accolgono minori provenienti da ogni parte del Portogallo. I ragazzi rifiutano il poco che viene loro offerto (un tetto, dei pasti, la comprensione e la solidarietà degli istitutori), senza sapere che cosa cercare e dove cercarlo. La loro rivolta, per quanto inevitabile, è condannata all’autodistruzione, perché senza scampo e senza prospettive. Sono dei mutanti, individui che non accettano il posto loro destinato prima di aver potuto scegliere alcunché. «Penso che non sia possibile sapere dove comincia in noi un film, ma era da tantissimo tempo che volevo farne uno che parlasse in un modo o nell’altro delle differenze di sviluppo generate dall’ambiente in cui le persone nascono e vivono i loro primi anni. Le disgrazie che si portano dietro o le fortune, quello che si eredita e ci si attacca addosso per sempre. Le cose da cui vogliamo fuggire ma che ci seguono senza sosta come degli incubi». I mutanti sono identificati qui attraverso degli adolescenti in fuga. La loro marginalità li porta alla deriva, senza una meta nei sobborghi dell’attuale Lisbona. L’inquietante singolarità di questo film proviene da una scelta di messa in scena che non esita a colpire, da un realismo sociale diffuso e dalla sua quota di fantastico. Os Mutantes naviga tra l’indicibile disagio della prostituzione culturale e tra un crescente fantasticare sull’autolesionismo. Questa evocazione di un impressionante dolore addirittura risuona nel profondo di noi stessi. (Pierre Eisenreich, Os Mutantes, «Positif» n. 459, maggio 1999)

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ÁGUA E SAL

WATER AND SALT Portogallo | Italia, 2001, 117’, col.

ACQUA E SALE Ana vive in un paesino vicino al mare, nell’Algarve, con il marito e la figlia. Il suo matrimonio è in crisi, e quando suo marito decide di partire per qualche giorno, lei trova la soluzione ideale per terminare un lavoro a cui si dedica da tempo. Ma qualcosa distoglie la sua attenzione durante le passeggiate nel paese e sulla spiaggia: incontra un suo vecchio amante, salva uno sconosciuto da un incidente in mare, conosce una giovane coppia del posto, e la sua amica Vera viene a trovarla all’improvviso. Da quel momento tutto cambia. «Tutti sanno che il mare è salato. Tutti sanno che il mare brilla di giorno come di notte. Tutti sanno quanto è necessario essere esigenti quando parliamo degli altri. E tutti sanno che proviamo dolore nel parlare di noi stessi. Tutti sanno che dobbiamo essere grandi e brillanti per essere trasparenti. Questo film è su qualcuno che ha avuto bisogno che il tempo si fermasse. La poesia sa fermare il tempo, il cinema ci prova. [...] Con Água e Sal ho riscoperto la libertà perduta che avevo durante il mio primo film che ho diretto, A Idade Maior. Mi sono fidata del mio istinto e della mia esperienza. Sento di essere più cosciente ed esigente riguardo al mio lavoro e a me stessa. Sono cresciuta, ho imparato, e credo che Água e Sal rifletta tutto questo». Teresa Villaverde non esita a mettersi in gioco completamente in Água e Sal. Dietro c’è una storia personale, una come tante. Ma chi ha vissuto le lacerazioni della “fine di una storia” sa che si può essere crudeli e meschini e che gli uomini e le donne possono diventare dei mostri. Resta solo il dolore. La Villaverde non si nasconde dietro il suo dolore e lo rigenera cinematograficamente, non lasciando scampo a nessuno, soprattutto a se stessa. Ma, al di là della possibile autobiografia, Água e Sal è il film dell’attualità sentimentale, storie di come gli umani si sono trasformati, nei loro disappunti, nelle loro incapacità ad adattarsi ai cambiamenti, alle libertà. È cinema consapevole di come i desideri sono impazziti, di come ormai ogni tipo di certezza e punto di riferimento possibile sembrano andati perduti. E le persone così si trovano, per un attimo, e poi scompaiono nel nulla, nel vuoto dei sentimenti che vivono solo una nostalgia perenne.

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Emmanuel Machuel Montaggio Andrée Davanture Scenografia Ana Louro Costumi Rita Lopes Alves Suono Vasco Pimentel, Joël Rangon, Nuno Carvalho Interpreti Galatea Ranzi (Ana), Joaquim de Almeida (il marito), Alexandre Pinto (Alexandre), Miguel Borges (lo straniero), Maria de Medeiros (Vera) Produttori Paulo Branco, Fabrizio Mosca Produzione Madragoa Filmes, Titti Film, Instituto do Cinema, Audiovisual e Multimédia, RTP – Radiotelevisão Portuguesa

(Federico Chiacchiari, www.sentieriselvaggi.it)

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Teresa Villaverde

A FAVOR DA CLARIDADE

IN FAVOUR OF LIGHT Portogallo, 2004, 54’, col.

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Inês Gonçalves, Teresa Villaverde Montaggio Andrée Davanture Suono Vasco Pimentel Con Pedro Cabrita Reis Produttori Maria João Mayer, François d’Artemare Produzione Filmes do Tejo

A FAVOR DI LUCE [t.l.] Un artista plastico invita una regista a realizzare un film. Facendo questo accetta che il suo lavoro e lui stesso diventino parte di un lavoro altrui. Da ciò nasce A Favor da Claridade, un film di Teresa Villaverde per e su Pedro Cabrita Reis. Cosa può vedere un artista? Cosa possono vedere due? «Non chiamerei A Favor da Claridade un documentario. Quello che ho cercato di fare è realizzare un film sul lavoro di Pedro Cabrita Reis. Mostrarlo e lasciare che il film andasse in qualsiasi direzione lo portasse l’opera di Pedro. È il mio sguardo sul suo lavoro e, in certi momenti, anche un conflitto tra due sguardi: quello che io riesco a vedere e quello che lui vede. Nessuno ha mai visto la stessa cosa in un’opera d’arte. Il lavoro di Pedro ha un lato poetico davvero forte. Vorrei che anche il film lo possedesse». L’artista portoghese Pedro Cabrita Reis, su invito dell’Instituto das Artes, ha chiamato Teresa Villaverde per realizzare un film sulla sua opera. Per quella che è la sua prima opera cinematografica “documentaria”, la regista ha seguito l’artista per un anno in giro per il mondo, immergendosi nella sua opera. Il risultato sono cinquanta minuti di libertà assoluta, guidati dall’emozione e dalla ricerca; un film avventuroso e originale nel quale un’artista guarda l’opera di un altro artista e lo segue fin dove questa lo porta, filmando il suo universo e cercandone risonanze nel proprio. (Massimo Causo, Catalogo generale, Alba Infinity Film Festival, Alba 2004)

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COLD WA(TE)R

ep. di VISIONS OF EUROPE Portogallo, 2004, 5’17’’, col.

COLD WA(TE)R ep. di VISIONS OF EUROPE Non c’è nessuno al mondo che ha scelto il proprio posto dove nascere? Ci sono frontiere, dove è sufficiente per una persona allungare un braccio per attraversarle. A che serve una frontiera? L’Unione Europea è in crescita, ma può un insieme di Paesi crescere basandosi sulla chiusura rispetto ad altri Paesi geograficamente vicini ad essi? Questo breve film è fatto di immagini che vediamo tutti i giorni in televisione e che passano attraverso i nostri occhi come se non fossero altro che una gara di Formula 1. Sono state rielaborate, riformulate e regolate a una velocità inferiore.

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Ali Asad Montaggio Andrée Davanture Produttore Maria João Mayer Produzione Filmes do Tejo Distribuzione Zentropa

«Indipendentemente dalle diverse posizioni, l’UE è ormai un dato di fatto. Le differenze sono lì da vedere. Le somiglianze potrebbero anche essere trovate. L’Europa è piena di differenze, nazionali e regionali, urbane e agricole, gastronomiche e culturali, sociali e politiche. Tradizioni di poteri, usi e abusi, amministrazione e politica, imposizione fiscale, valori militari, educazione, sanità, criminalità e prevenzione, affari esteri, immigrazione, eredità coloniali, sistemi salariali, indennità di disoccupazione, e così via, tutti questi aspetti si riversano in un melting pot multilingue. Un semplice sguardo ai precedenti trecento anni di Storia europea mostra la continua evoluzione della mappa di un’Europa fluttuante. Gli elementi di comprensione delle nostre vite personali, catturati in parole come identità, radici, orgoglio nazionale, patrimonio, e così via, sono stati messi in gioco. Un piccolo pezzo del puzzle potrebbe riflettere il puzzle intero. Questo progetto si augura che ogni regista singolarmente sappia cogliere qualunque pezzo del puzzle che l’attrae e possa fornirci una personale visione artistica del fenomeno chiamato “Europa”. È importante sottolineare che questo non è un progetto europeo in sé. L’obiettivo non è né di promuovere l’Unione Europea, né quello di negarla». (Mikael Olsen, produttore, Zentropa)

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TRANSE

TRANCE

Italia | Russia | Francia | Portogallo, 2006, 126’, col.

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia João Ribeiro Montaggio Andrée Davanture Scenografia Zé Branco Costumi Silvia Grabowski Suono Vasco Pimentel, Joël Rangon, Murielle Damain Interpreti Ana Moreira (Sónia), Viktor Rakov, Robinson Stévenin, Andrey Chadov, Filippo Timi Produttore Paulo Branco Produzione Gémini Films, Mandragoa Filmes, Revolver Film

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TRANCE [t.l.] Sónia, una giovane donna di San Pietroburgo, decide di lasciare la sua famiglia e il suo uomo per andare a cercare fortuna altrove, senza guardarsi indietro. Sónia crede di andare incontro a una nuova vita, ma non sa che si troverà davanti solo l’inferno che tocca a tutti quelli cui la vita non ha nulla da offrire. Nel suo viaggio attraverso l’Europa, dalla Russia fino al Portogallo, Sónia conoscerà la miseria e la degradazione legate al traffico e allo sfruttamento degli esseri umani. C’è un’Europa parallela... «“L’inferno è un cane che abbaia all’esterno”, ha scritto Santa Teresa d’Ávila. Questo è l’inizio del XXI secolo e il cane abbaia in lungo e in largo. Non abbiamo ancora liberato noi stessi dalla tortura, dalla schiavitù o dal genocidio. La protagonista di questo film vede dritto davanti a sé quell’inferno e lo vive da molto vicino, ma non entra perché devi esserne parte per esserci dentro. Lei non è parte di esso, ma non ha via d’uscita. A proposito della sua conoscenza personale di un campo nazista, Jorge Semprún ha scritto che uno dei motori di sopravvivenza è la curiosità. Se non vogliamo guardare, le fiamme divamperanno. Viviamo in tempi in cui nulla può esser dato più per scontato, in cui tutto può cadere a pezzi. Questo film parla di un pezzo che è crollato».


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Teresa Villaverde

CISNE SWAN

Portogallo, 2011, 103’, col.

CIGNO [t.l.] Vera è una cantante sulla trentina; è tornata a Lisbona per l’ultima tappa del suo tour. Non ha legami; ha lasciato Sam, l’uomo che ama. Lui le ha chiesto di andarsene e di lasciarlo da solo; vicino alle cose di lei, ma senza di lei. Un bambino sotto la custodia di Pablo, il nuovo partner di Vera, compie un’azione irrimediabile: uccide un uomo. Bisogna fare qualcosa; bisogna salvare il bambino. Vera viene coinvolta e prende il piccolo sotto la sua ala. Salvando il bambino, salva se stessa. E salva anche Sam. Il bambino rappresenta il presagio di una serena incertezza. «“Così canta il cigno con le sue ali“, scriveva nel VII secolo a.C. il poeta greco Alcmane. Dell’intero poema è giunto fino a noi solo quel verso, non rimane nient’altro. Non sapremo mai cosa cantava il cigno, ma sappiamo che cantava. Mi piacciono l’elusività e l’incertezza delle cose. Sono sempre più convinta che tutto accada negli intervalli. È triste infatti che il cinema oggi sia quasi del tutto digitale e che le pause nere tra una scena e l’altra siano andate perdute. Io prediligo la libertà, sia nel cinema che nella vita. Volevo girare un film i cui protagonisti fossero liberi e non avessero paura di lanciarsi dalla cima di una montagna».

Regia, Sceneggiatura, Produttore Teresa Villaverde Fotografia Acácio de Almeida Montaggio Andrée Davanture Scenografia Zé Branco Costumi Silvia Grabowski Suono Vasco Pimentel Interpreti Beatriz Batarda (Vera), Miguel Nunes (Pablo), Israel Pimenta (Sam), Sérgio Fernandes (Alce), Rita Loureiro (Bela), Marcello Urgeghe (Santis) Produzione, Distribuzione Alce Filmes

Muovendosi tra splendidi paesaggi rurali, girato con luce naturale e colori saturi, e la dura oscurità della notte di Lisbona, Teresa Villaverde contrasta opposti visivi e tematici mentre forgia collegamenti sotterranei tra storie di solitudine e affetto. (Boyd Van Hoeij, Swan, «Variety», 26 settembre 2011)

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AMAPOLA

POPPY ep. di VENEZIA 70 FUTURE RELOADED Portogallo, 2013, 1’45’’, col.

Regia, Sceneggiatura, Produttore Teresa Villaverde Con Alexandre Pinto Produzione Alce Filmes

PAPAVERO [t.l.] ep. di VENEZIA 70 – FUTURE RELOADED La Spagna della Guerra civile cantata da Pablo Neruda. Il segmento diretto da Teresa Villaverde vede la partecipazione dell’attore Alexandre Pinto, e la voce del poeta Pablo Neruda. Venezia 70 – Future Reloaded nasce come un collettivo omaggio d’autore al primo festival che ha raggiunto il traguardo delle settanta edizioni, e si sviluppa come una riflessione sul futuro del cinema. Ma, come si sa, cinema e vita si fondono di continuo, e così il progetto si risolve in un mezzo talvolta autoironico, più spesso autoreferenziale, per interrogarsi sul senso della vita. Sessanta secondi, novanta al massimo, si rivelano una chiave interessante per condensare la Weltanschauung di un regista. Non mancano frecciate sarcastiche rivolte alla pretenziosità di certa arte contemporanea –­quasi un simpatico prendersi in giro – mentre abbondano riflessioni su come la nuova tecnologia abbia ampliato il concetto di “cinema”. Stili e punti di vista eterogenei generano un prodotto nelle stesse intenzioni composito: una lunga panoramica del cinema contemporaneo, con una riconoscente strizzata d’occhio al cinema del passato e uno sguardo incerto ma ottimista su quello del futuro. (Chiara Apicella, www.sentieriselvaggi.it)

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SARA E A SUA MÃE

SARA AND HER MOTHER ep. di LE PONTS DE SARAJEVO BRIDGES OF SARAJEVO Portogallo, 2014, 8’, col.

SARA E SUA MADRE ep. di I PONTI DI SARAJEVO È il 2014, Sara ha sei anni e vive con sua madre a Sarajevo. Le due stanno traslocando. Madre e figlia, aiutate da un amico, disfano gli scatoloni pieni di ricordi. Alcuni di questi vanno condivisi, altri no. «Sarajevo, dal 1914 al 2014, rappresentata in un’affascinante serie di cortometraggi realizzati da registi europei, ognuno con uno stile personale e un punto di vista unico sulla città e sulla sua storia. [...] Sarajevo è una città incredibilmente vera, un’idea, una speranza e una tragedia. Solo dei veri registi, ciascuno con la propria sensibilità, potevano rappresentare fedelmente tutte queste anime sul grande schermo». (Jean-Michel Frodon, direttore artistico del progetto)

Regia, Sceneggiatura Teresa Villaverde Fotografia Rui Poças Montaggio Andrée Davanture Suono Vasco Pimentel Con Sabina Šabić Zlatar, Sara Šabić Zlatar, Senaida K., Mak Hubjer Produttori Pandora da Cunha Telles, Pablo Iraola Produzione Ukbar filmes Distribuzione MIR Cinematografica

I PONTI DI SARAJEVO

Titolo originale: Les ponts de Sarajevo. Regia: Leonardo Di Costanzo (L’avamposto); Jean-Luc Godard (Les ponts des soupirs); Karmen Kalev (Ma chère nuit); Isild Le Besco (Little Boy); Sergei Loznitsa (Reflections); Vincenzo Marra (Il ponte); Ursula Meier (Silence Mujo); Vladimir Perišić (Our Shadows Will); Cristi Puiu (Reveillon); Marc Recha (Zan’s Journey); Angela Schanelec (Princip, Texte); Aida Begic (Album); Teresa Villaverde (Sara e a Sua Mãe). Produzione: Cinétévé, Obala Art Center. Distribuzione: MIR Cinematografica. Durata: 114’. Origine: Francia, Bosnia-Erzegovina, Svizzera, Italia, Portogallo, Bulgaria, 2014. Tredici registi vedono Sarajevo, come è stata nella Storia e come è adesso in rapporto all’Europa. L’avamposto: Durante la Prima guerra mondiale, in una tricea sul Monte pasubio, un piccolo plotone italiano deve riconquistare un avamposto. Les ponts des soupirs: Saluto malinconico a una Sarajevo cristallizzata in un secolo di violenza reale e simbolica. Ma chère nuit: Un uomo in piscina, un attentato imminente e una conversazione su Dio e libertà. Little Boy: Un bambino, solo con la nonna, fra lezioni di pianoforte, karate e cani randagi. Reflections: La Sarajevo di oggi riflessa nei vetri delle fotografie scattate da Milomir Kovacevic nel 1992. Il ponte: Due esuli a Roma, lei cristana, lui musulmano; la notizia della morte del padre di lui li pone di fronte ai fantasmi del loro passato. Silence Mujo: Durante una partita di calcio, il pallone finisce in un cimitero; il piccolo Mujo indugia fra le tombe. Our Shadows Will: Un gruppo di giovani, in una biblioteca, recita e medita sulle frasi di Gavrilo Princip e degli altri cospiratori. Reveillon: Il signor Poepscu, la sua signora, la Storia e un puzzle. Zan’s Journey: Zan, esule in Catalogna, viene aiutato dal fratello Haris a comprendere il suo passato e la sua terra d’origine. Princip, Texte: Una giovane coppia legge brani di un’intervista a Gavrilo Princip. Album: La Sarajevo di oggi raccontata attraverso i ricordi dei suoi abitanti. Sara e a Sua Mãe: È il 2014, Sara ha sei anni e vive con sua madre a Sarajevo; aiutate da un amico, disfano gli scatoloni pieni di ricordi.

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PAVEL KOUTSKÝ

LAWRENCE THOMAS MARTINELLI

IL SORRISO DIALETTICO DI PAVEL KOUTSKÝ La linea del tempo di Pavel Koutský comprende il segmento che passa per due punti storici particolarmente significativi della sua Cecoslovacchia: il 1968 e il 1989. Bambino undicenne in grado di percepire almeno emozionalmente il vento nuovo della Primavera di Praga e la sua traumatica stroncatura con l’invasione dei carri armati russi nel 1968, e adulto consapevole della fine di un regime grigio che aveva sfregiato il volto umano del comunismo di Dubček per crollare, infine, al seguito della caduta del Muro di Berlino nel 1989. È un segmento storico che ha indubbiamente inciso nella sua vita personale e artistica, come lo ha fatto in quella sociale e culturale dell’ambiente e del mondo che lo hanno finora circondato, ma che non ha impedito a tutto il resto di svilupparsi con la sua specificità personale. Forse ovvietà, ma è una considerazione che può permetterci di comprendere meglio la dimensione completa di Koutský fatta di diverse complementarietà. Questo può spiegare uno stile semplice e complesso a un tempo, immediato ma anche spiazzante. In molta della produzione dell’animatore ceco traspira una base umoristica immediata, a causa ed effetto ravvicinati, a reazione istantanea. C’è spesso la genuinità delle comiche del cinema muto, dello slapstick a colpi incrociati, delle dinamiche dualistiche e duellanti fra gatto e topo, fra uomo e donna, fra individuo e individuo per le questioni più banali, ma riconoscibili perché annidate in ognuno di noi. È la logica elementare delle bastonate o delle torte in faccia incrociate dei teatrini e degli schermi di una volta, che da sempre funzionano per strappare una risata a grandi e piccoli. In questo possiamo richiamare la nota di genuinità e “innocenza”, che però si distacca da un’infantile ingenuità, per misurarsi anche con uno sguardo adulto e smaliziato, ironico e talvolta garbatamente cattivo. Ecco che dissemina qua e là, fra lazzi e fughe, diverse citazioni colte di provenienza artistica e politica, esposizioni erotiche esplicite, accessi di follia pura destabilizzanti ogni equilibrio eccessivo, sia esso narrativo, governativo o di maniera. È una vena giocosamente critica e metodicamente sconquassante che conserva anche nell’ultima fase quando il regime di nome comunista abdica in favore di uno consumista e il cittadino rimane oppresso da un sistema forse più impalpabile, ma non per questo meno asfissiante ed alienante. Alla fine resta una coscienza amara della condizione dell’individuo, seppur presentata con la leggerezza della barzelletta. In Curriculum vitae (1986) la comicità conflittuale si esercita addirittura fra le lettere dell’alfabeto, dove la “y” e la “i” si contendono lo spazio vocalico a colpi martellanti, sparati, esplosivi ognuna secondo le prerogative della propria forma. Koutský esplicita una visione dialettica della Storia e della storia, intesa come sviluppo narrativo che si dipana fra tesi e antitesi. Più semplicemente però i contrasti sempre presenti sembrano scaturire dalla stessa natura delle cose e delle persone, esasperati quando inseriti in situazioni di compressione e stress. Così dal modulo omologato (e omologante) per curriculum, compilato a suon di scarabocchi nervosi da una mano dal vero accelerata, parte un crescendo caotico che passa per la scuola fino ai maggiori capisaldi della cultura e delle arti di ogni tipo. Bersaglio caro alla satira sociale dell’Est europeo, ma alquanto universale, la pesante e inutile burocrazia è rappresentata qui dall’ennesimo formulario da riempire. La mano nervosa rende tutta l’insofferenza di chi la guida e si ha l’impressione che potrebbe mollare la penna in qualsiasi momento per dedicarsi ad azioni più aggressive. Vengono sublimate invece con una sarabanda di immagini, disegni, suoni deliziosamente disordinati e liberi. Carrellate di parole, numeri, date, nozioni ed episodi fluiscono con siparietti che mescolano i saperi con le deviazioni immaginative: ad esempio Cristo viene pugnalato alle spalle nel 929. Dalla mela in testa su Isacco Newton alla famigerata formula di Einstein, scienza e arti sono consacrati a monumento da una musica d’organo ecclesiastica. Il ratto, leggera degenerazione del topo disneyano, che compare funge da alter ego dell’autore e deve scappare da una surreale bocca spalancata che lo insegue per divorarlo, ma nella fuga s’imbatte in formule e date solidificate. La scuola come incubo quindi. Dürer, Leonardo, Goya, Rodin: finalmente la porta dell’accademia si spalanca per introdurci – noi spettatori, in soggettiva, con gli occhi dell’autore – alla Gioconda e a tutta la serie di citazioni grafiche e pittoriche che seguono, ma anche nel mare di tette generose in cui nuota allegramente il nostro topastro. Piramidi, colonne di ogni tipo, chiese che si susseguono e si rimpiazzano rovinosamente, eppoi anatomie scheletriche, carnose, enumerate in dettaglio, mentre il roditore – cattiva coscienza del narratore-studente – inverte il procedimento dello studio anatomico sulle forme femminili di passaggio, letteralmente spogliandole con gli occhi fino a trasformarsi in vere Veneri da dipingere e concupire. 120


PAVEL KOUTSKÝ

Dobrá rada/Good Advice

Koutský ammette apertamente il suo interesse per l’erotismo crasso ed esplicito – come vedremo in diverse altre sue opere – e qui il nostro topo, dopo avere dato i numeri alle artistiche modelle, chiama alla festa i sette nani con tanto di Biancaneve languidamente allungata sulle spalle, uno starnazzante papero in marcia, un baldanzoso Braccio di Ferro e il beatlesiano sottomarino giallo, ognuno con leitmotiv denotante. Il guazzabuglio cultural-erotico-dissacrante e goliardico è la montagnola curricolare su cui si erge il topo trionfante. La vena dissacrante e anche autoironica di Koutský abbraccia in simpatica sintesi tutto il suo percorso formativo, formale e sessuale, senza escludere il cinema d’animazione, da Disney a Dunning. Infine il suo curriculum appare risultare da una sovrastruttura di montagnole di saperi e di istituzioni accatastate, imponenti ma visibilmente instabili. Il roditore sgraziato assurge a protagonista assoluto in Long Live the Mouse (Ať žije myš, 1993) dove Koutský apertamente si rifà alle diatribe demenziali delle comiche di cartone nella storia dell’animazione popolare, da Krazy Kat a Tom and Jerry. Il cortometraggio apre con riprese dal vero in cui arriva l’animatore stanco che si siede in poltrona e, dopo un ostentato sbadiglio, accende il televisore con evidente desiderio di svago leggero. Sullo schermo appare in animazione il topo sdraiato e dormiente. L’identificazione fra l’autore e il suo personaggio è di nuovo stabilita. Il montaggio alternato fra disegno animato e riprese dal vero, oltre a confermare la complicità fra il regista e la sua creatura, ci restituisce il ruolo di Koutský anche in posizione di spettatore, e noi con lui. Si instaura così un raccordo triangolare di complicità fra spettatore, regista e personaggio, sia in funzione di identificazione che in quella di spettatore. Il topo sogna formaggio – cos’altro, se non questo stereotipo di bisogno primario? – anche in forma di automobile e di casa. Su questa impressione si risveglia con il desiderio di formaggio che si fa urgenza fisica. Fra il soggetto desiderante e l’oggetto del desiderio, come vuole tutta una tradizione dell’immaginario a cartoni animati, c’è un ostacolo: il gatto. Anch’esso è dormiente e nel pieno di un sogno erotico: una gatta sensuale, popputa, in lingerie, in piena esposizione seducente, su cui spalanca gli occhi aggiustandosi gli occhiali anche lo spettatore umano, seguito dal topo che però è piuttosto sedotto dal formaggio. La gatta onirica prosegue il suo striptease mentre il topo si avvicina al gatto assonnato per raggiungere il formaggio: i bisogni primari declinati in sesso e cibo si confondono fino al big bang della sequenza culminante con il brusco risveglio del gatto, che si ritrova davanti il tutt’altro che seducente topo. Il ruggito a fauci spalancate del felino dà il via alla situazione slapstick attesa e quello 121


PAVEL KOUTSKÝ

Ať žije myš/Long Live the Mouse

che segue rientra brillantemente nei canoni consolidati della comicità di genere. Una carta in più che il topo Pavel gioca è quella dei media, usati in funzione ammaliatrice e distraente. Così il fuggitivo s’infila in un televisore, lasciando sullo schermo la sua immagine, oppure lancia una videocassetta nel lettore, probabilmente a carattere erotico a giudicare dalla colonna sonora, che assorbe tutta l’attenzione del gatto. Il topo ne approfitta per escogitare un elaborato piano diabolico. Con tutta la leggerezza voluta, è legittimo intravvedere anche un’analisi critica sull’uso dei media come forma di potere, vera arma di distrazione di massa. Koutský confessa di fatto anche la sua contraddizione in quanto contemporaneamente artefice e manipolatore di immagini mediatiche (il cineasta è anche il topo) e fruitore passivo e incantato dal potere seduttivo della televisione (lo spettatore Pavel è anche il gatto). Quest’ultimo si pone evidentemente in posizione di vittima potenziale del potere in qualsiasi momento dato. Per il gioco triangolare di complicità e identificazioni visto, lo spettatore è avvisato e può continuare a godersi il dinamico divertissement. L’autore-spettatore se la ride di gusto mentre il topo dà il lungo e articolato colpo di grazia al gatto. Il topo ha vinto per la sadica felicità di tutti, ma il film si chiude con un topino in live action preso in trappola. Nulla è davvero scontato fra immaginario e realtà. La mescolanza e perfetta contiguità fra animazione e live action è costante nell’opera di Koutský, che interviene spesso di persona nel film. Il ruolo che manifesta è sapientemente offuscato e ambiguo, come nel film appena descritto, o già in Out of Sight (Co oko neuvidí, 1987). La situazione del piccolo ometto tartassato e strigliato da grandi uomini arroganti con potere viene infine rovesciata con un atto di ribellione liberatoria. L’episodio a pupazzi animati è inframezzato dalla presenza in live action dell’artefice del film a passo uno, le cui mani intervengono nell’atto di manipolare il pupazzo, movimento per movimento. Quello che non si vede di solito, appunto, è il trucco manuale dietro e davanti la mdp. In questa rivelazione di meta-animazione, Koutský ci mostra l’artista nell’atto di creare e dare forma e movimento al suo protagonista, ma ancora anche il momento di identificazione con esso, che passa dall’essere l’animatore stesso trasformato in pupazzo fotografico, manipolato da altre mani alla stessa stregua. Con questo passaggio dall’animatore all’essere animato si può riprendere la vicenda animata, con l’ulteriore conferma di identificazione nel più debole che infine si ribella.

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PAVEL KOUTSKÝ

Con Café (Kavárna, 1998) la conflittualità come molla soggiacente alle dinamiche di relazione raggiunge l’apice, senza tralasciare le componenti di erotismo, avidità, scatenata follia liberatoria. Il film apre con un interno di caffè (kavárna, in ceco) ripreso dal vero con diverse conversazioni in corso, ad ogni tavolino la sua. Chi parla di affari, chi spettegola, chi corteggia con garbo, ma le parole non esprimono tutti i pensieri. Così la situazione si articola in tre episodi animati in cui Koutský ci svela i retro-pensieri e desideri inconfessabili e repressi che si celano dietro ai sorrisi di ciascun tavolo. I due uomini d’affari disegnati non esitano a farsi le scarpe l’un l’altro in un crescendo esasperato di fughe, inseguimenti, agguati distruttivi atti ad impossessarsi della reciproca valigetta colma di banconote. Il denaro abbonda e svolazza in un’orgia dell’avidità oltre i limiti. Nemmeno l’amore latente fra la giovane coppia di avventori del secondo tavolo osservato ne esce bene: lui pensa unicamente a farci sesso e lei ci gioca come una gatta col topo, ricorrendo a tutte le sue generose armi di seduzione. Il quadretto “romantico” mette in scena con giocosità esasperata fino alla follia pura l’eterna guerra fra i sessi, dove ad avere la meglio è sempre lei. Così nell’inconscio animato lui si trasforma in orco assatanato che le strappa i vestiti di dosso e lei in formosa bambolona sexy: e l’inseguimento irrazionale può partire. Anche stavolta si sussegue un numero di metamorfosi matte, dove lei si trasforma in lepre fuggitiva e lui in cane segugio, lei in capriolo e lui in cacciatore, e avanti con le accoppiate antagoniste fiore-insetto, dado-bullone, lucchetto-chiave fino alla mutazione finale della femmina in muro contro cui sbatte irrimediabilmente il maschio. La provocante preda è protetta da mura invalicabili che solo lei abbatte con le sue gigantesche e prorompenti protuberanze mammarie, al momento in cui lui abbandona il campo scornato e frustrato. Infine troppo sdegnato per farsi convincere dalle lussuriose lusinghe di lei, il predatore diventa preda quando lo accalappia definitivamente solo per rimettere in moto il tappeto rullante dell’inseguimento classico senza soluzione di continuità. Alla fine si torna in live action al caffè per passare al prossimo tavolino, dove ognuna delle tre signore in chiacchiera non vede l’ora di sparlare con una per malignare su una terza del trio. A rotazione emergono la casalinga cornuta, la zitella allupata e la zoccola ultra-accogliente (persino con l’elefante) e per tutte la superficiale ipocrisia mascherata da amicizia che le accomuna. Nel gran finale della parte animata trionfa il caos completo con un bestiario umano degno di Hieronymus Bosch a rincorrersi, accoltellarsi, cavalcarsi, pescarsi, spararsi, mangiarsi senza alcun ordine logico. Comunque tornando alla “realtà” filmata in bianco e nero, nulla di tutto ciò si esprime e il tranche de vie conviviale si dissolve nella normalità quotidiana.

Plastic People

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PAVEL KOUTSKÝ

Pavel Koutský al lavoro

Se conflittualità ed erotismo si confermano quindi come ingredienti essenziali anche in questo lavoro, è la pazzia esasperata ad attraversare e unificare tutte le situazioni. Dietro alla parvenza di normalità che si manifesta col bon ton e con una cordialità sottovoce, si nascondono invece istinti e cattivi pensieri che si liberano totalmente nella follia scatenata dell’immaginazione e dell’inconscio. Al disegno animato incalzante e dinamico Koutský affida questa dimensione liberatoria, facendone la pagina bianca su cui proiettare la sua osservazione caustica con cinica allegria. Qui l’artista non si pone alcun limite, né di opportunità né di coerenza realistica delle forme e delle azioni. Le metafore visive si susseguono a mitraglia nell’inseguimento erotico fra uomo e donna in una concatenazione di metamorfosi ilari. Lo stesso avviene fra i due businessmen quando si trasformano a ruota in carro armato, elefante strombazzante, spremiagrumi gigante, mega-siringa, guanto da boxeur e ogni altra insensatezza materializzata a fini bellicosi. In Media (Média, 1999) Koutský si addentra a sviscerare il sistema dei mezzi di comunicazione di massa. Questione da sempre all’attenzione dell’autore, come abbiamo visto anche in Long Live the Mouse, qui la sua riflessione sul potere dei media si collega strettamente alla condizione dell’individuo nella società contemporanea, fra libertà e oppressione. Lo sintetizza bene quando il protagonista si trova intralciato in mezzo ai mouse dei computer o quando è letteralmente inseguito dalla stampa, ovvero dai giornali. Dall’oppressione mediatica l’individuo si libera semplicemente salutando il sistema con il classico gesto dell’ombrello. Inizia apparentemente con il consueto stile disegnato immediato, per poi aggiungere altre tecniche miste di animazione fino a prodursi in una sequenza stilistica di forme ottenute con la carta da giornale appallottolata e modellata. Realizzato dieci anni dopo la caduta del Muro di Berlino, la visione che Koutský esprime sulla libertà d’informazione e dell’individuo qui non è certo ottimista. Dapprima attratto dai giornali che entrano in scena svolazzando leggiadri uno alla volta, l’omino protagonista ne segue il percorso ammaliato. Lanciati e librati da mani riprese in stop motion (dell’animatore, come già in Lontano dagli occhi, ma volendo anche del potere che controlla la stampa), i giornali assumono la forma degli argomenti trattati: l’Europa, l’Africa, il mondo intero, la guerra, i comizi, il calcio, polemiche e battibecchi. Poi in forma di freccia, il giornale gli indica la via da seguire e lo sospinge da dietro, prima di mutarsi in cavatappi che perfora e scoperchia il cranio del personaggio prima in cammino, poi sempre più di corsa, al fine di riempirgliela di giornali. A questo punto l’animatore 124


PAVEL KOUTSKÝ

cambia stile e tecnica (pixilation), nonché oggetto d’osservazione per concentrarsi su chi fabbrica il giornale. Due mani cucinano la carne cruda estratta da un mappamondo fino a trasformarla in carta stampata da sforbiciare, spianare col mattarello e lanciare nella testa del malcapitato protagonista. E poi via a tagliuzzare e battere altra carne rossa tolta dal cuore della Terra, condita, cotta e trasformata in giornale da lanciare contro l’individuo sempre più di corsa. La situazione si ripete in modo ancor più truculento e violento fino a plasmare l’omino a portare una bandiera, mentre corre a vuoto su se stesso. La ruota in cui gira, come un criceto in gabbia, fa parte di un complesso sistema di ingranaggi collegato alle due braccia senza corpo che fabbricano i giornali. Il paradosso chiude quindi il cerchio, dove il sistema condiziona e manipola a sua volta chi lo alimenta. Come già in Out of Sight, Koutský evidenzia l’assenza di vera libertà dell’individuo, anche quando in apparenza esso è artefice del sistema che la produce. L’omino però si ribella saltando giù dalla ruota e salutando la stampa con il solito colpo all’avambraccio, salvo ritrovarsi dalla padella nella brace, ovvero attorniato da minacciosi monitor e mouse semoventi. La libertà dell’individuo, in questo epilogo pessimistico, appare ridursi a pia illusione destinata a rimanere tale. L’unica libertà possibile nei film analizzati sembra essere la follia sguinzagliata, svincolata da qualsiasi ordine razionale. Altrimenti non resta che sbattere la testa nei muri (come anche in Pygmalion, 2001) o continuare a restare negli ingranaggi sociali e nelle catene di montaggio (come, ad esempio, in Plastic People, 2007, satira sulla chirurgia plastica facile e mercificata). Non si tratta nemmeno solo di una condizione politica, tant’è che l’aria opprimente si respira anche dopo il 1989, quando oltre il Muro ci s’imbatte in altri muri, come quelli bancari (Of Banks and People, O bankách a lidech, 2000) o quelli della burocrazia comunitaria europea. In Balancing (Bilancování, 2009) la testa dell’omino viene prima imbottita per imbuto di iconografie comuniste – bandiere rosse con falce e martello, ritratti di Lenin e Stalin, libretti rossi – che ne rappresentano anche l’angusto recinto. Poi arriva il 17 novembre 1989 quando a Praga parte la Rivoluzione di velluto che spazzerà via il vecchio regime. Mazzi di chiavi sventolati in segno di liberazione, ma ben presto un altro imbuto introduce nella testa lattine, hamburger, riviste porno, cellulari, prodotti di ogni tipo, in breve i segni tangibili del consumismo. Apparentemente libero di mangiare quello che vuole in grande quantità, con i soldi che girano facilmente, l’omino si ritrova infine in un recinto appena allargato rispetto al primo, dove all’iconografia del comunismo si è sostituita quella del consumismo. Nell’ultimo scorcio di Looking Back (Od Praotce k Unii, 2009), in cui Koustky ripercorre tappe significative della Storia ceca, si vede il passaggio dalla stella rossa recante falce e martello che incatena (1948) a quella sorridente e liberante (1968) seguita da carro armato russo, schiacciato dal 1989, fino all’adesione della Repubblica Ceca alla Comunità Europea (2004), con però le sue norme e burocrazia, raffigurate come parole in blocchi pesanti. Meglio di prima senz’altro, sembra dirci il regista, ma non proprio quel paradiso a cui si sperava le chiavi sventolate avrebbero dato accesso. Il tutto espresso, come per tutta la sua opera, con il sorriso sulle labbra, per quanto di retrogusto amaro possa talvolta avere.

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PAVEL KOUTSKÝ

PAVEL KOUTSKÝ (Praga, Repubblica Ceca, 1957) dimostra di possedere doti artistiche fin dalla tenera età; il suo interesse per l’animazione inizia a manifestarsi già a tredici anni, quando diventa membro del Cineclub ceco e realizza il suo primo esperimento, per poi continuare durante gli anni del liceo. Nel 1977 intraprende gli studi presso la VŠUP – Vysoká škola uměleckoprůmyslová v Praze, l’Accademia delle Arti Applicate di Praga, indirizzo grafica cinematografica e televisiva, dove si diploma brillantemente. In seguito entra a far parte della celebre casa di produzione Krátký Film, dove si dedica a tempo pieno alla produzione di film d’animazione. Diviene uno dei principali esponenti della cosiddetta “animazione totale”, una tecnica ove ogni singola inquadratura è realizzata a sé, che Koutský applica nei suoi film in maniera altamente espressiva. Le sue opere, già molto personali, si contraddistinguono per il senso per la brevità dinamica e una spiccata simbolicità. Nel 1986 firma uno dei suoi lavori più celebri, Curriculum vitae, un film d’autore di genere grottesco in cui il regista svela allo spettatore quanti anni di fatica e di studio stanno dietro a una carriera da professionista. Koutský lavora personalmente a tutte le fasi del processo produttivo: soggetto, sceneggiatura, progettazione artistica e animazione sono infatti tutti firmati da lui. Il film, premiato alla Berlinale con l’Orso d’Oro, ottiene un vasto consenso da parte della critica. Nel 1999 dirige Media, un altro grande successo, con cui vince l’Orso d’Argento a Berlino e il premio FIPRESCI al Festival International du Film d’Animation di Annecy. Con più di venti film all’attivo, Koutský è considerato – insieme a Jan Švankmajer e Jiří Barta – uno dei più importanti maestri del cinema d’animazione cecoslovacco. Inoltre, Koutský collabora alla realizzazione di sigle televisive e spot pubblicitari. Dal 1993 insegna alla cattedra di animazione presso la Facoltà di Arte Moderna dell’Università di Praga, succedendo a Miroslav Jágr – il suo maestro universitario – nel 1997. Il nome di Pavel Koutský è strettamente legato anche all’Anifest, il festival internazionale del film di animazione di Třeboň, per cui ha creato il logo ed è stato uno degli autori principali nel corso delle prime edizioni. Per quanto riguarda la sua vita privata, Koutský è sposato e ha un figlio; ama gli animali, gli aerei e il vino rosso.

Filmografia Husiti (Hussites, 2013) Romeo a Julie (Romeo and Juliet, short, 2011) Dobrá rada (Good Advice, short, 2011) O penězích a lidech (Of Money and Men, short, 2011) Od Praotce k Unii (Looking Back, short, 2009) Bilancování (Balancing, short, 2009) Dějiny udatného českého národa (The History of the Brave Czech Nation, tv series, 111 ep., 2008) Plastic People (short, 2007) Doktor Animo (Doctor Animo, tv series, 26 ep., 2006) Dopisy z Česka [ep. Karlův most] (Letters from Czech Republic, ep. The Charles Bridge, short, 2005) Čtyři lásky (Four Loves, short, 2003) No comment (tv series, 23 ep., 2013) Pygmalion (short, 2001) Do pohádky (Fairy Tales, tv series, 26 ep., 2000) O bankách a lidech (Of Banks and People, short, 2000) Koktejl (Cocktail, short, 1999) Média (Media, short, 1999) Kavárna (Café, short, 1998) Má Vlast (My Country, short, 1998) Duelo (Duel, short, 1997) 126

Vivat Evropa! (Cheers Europe!, short, 1996) Čechy krásné, Čechy mé (Czech is Beautiful, Czech is Mine, short, 1995) Halali (tv series, 13 ep., 1995) Svět 2000 (World 2000, short, 1995) No comment (tv series, 95 ep., 1994) Ať žije myš (Long Live the Mouse, short, 1993) Portrét (The Portrait, short, 1990) Posledních 100 let Marxismu-Leninismu v Čechách (Last 100 Years of Marx-Leninismus in Bohemia, short, 1990) Autoportrét (Animated Self-Portraits, short, 1989) Co oko neuvidí (Out of Sight, short, 1987) Láska na první pohled (Love at First Sight, short, 1987) Od kroku k pokroku (From Step to Progress, short, 1987) Curriculum vitae (short, 1986) Tichý svět Jana Nápravníka (Jan Napravnik’s Quiet World, short, 1985) Dilema (Dilemma, short, 1984) Katastrofy (Disasters, short, 1984) Laterna muzika (Laterna Musica, short, 1984) Navštivte Prahu (Welcome to Prague, short, 1983) Houslový koncert (A Violin Concert, short, 1981) Trojfórum (Triple Forum, short, 1981)


PAVEL KOUTSKÝ

FRAME BY FRAME IL CINEMA DI PAVEL KOUTSKÝ

IN MOSTRA I DISEGNI ORIGINALI DELL’ARTISTA CECO Bergamo, Sala alla Porta di S. Agostino | 6 - 31 marzo 2014 Orari: martedì - venerdì 15.30 - 19.30 | sabato - domenica 11.00 - 19.30 Ingresso libero In mostra, fino al 31 marzo, i disegni originali e gli storyboard con i quali Pavel Koutský ha realizzato i suoi capolavori: per scoprire il dietro le quinte del lavoro dell’animatore e per lasciarsi travolgere dall’irriverente fantasia ed esuberanza dei suoi film. Per tutta la durata della mostra, in proiezione continua, sarà presentata una selezione di cortometraggi di Pavel Koutský. La mostra Frame by Frame – Il cinema di Pavel Koutský è promossa da Bergamo Film Meeting Onlus, in collaborazione con il Comune di Bergamo, Servizio Attività culturali e Promozione turistica e il Centro Ceco di Milano.

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PAVEL KOUTSKÝ

Pavel Koutský

HOUSLOVÝ KONCERT

A VIOLIN CONCERT

Cecoslovacchia, 1981, 4‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Camera Dagmar Ferklová Musica Jiří Kolafa Produzione Krátký Film, Jiří Trnka Studio

CONCERTO PER VIOLINO [t.l.] Il film è un‘animazione di un concerto per violino. I violinisti sono rappresentati in stili artistici diversi (cubismo, puntinismo, astrattismo e realismo). Gli studenti hanno disegnato per un mese intero violinisti e ballerine del conservatorio, e dai loro studi è nato Houslový koncert. In questo film La Campanella di Paganini è stata eseguita in collaborazione con il musicista Jiří Kolafa. Lavoro realizzato usando le prove conclusive degli studenti dell’Accademia delle Arti Applicate di Praga.

Pavel Koutský

TROJFÓRUM TRIPLE FORUM

Cecoslovacchia, 1981, 4’, col., senza dialoghi

Regia, Sceneggiatura Pavel Koutský Camera Dagmar Ferklová Sceneggiatura Jindřich Vodička Montaggio Jiřina Pěčová, Zdenka Navrátilová Musica Petr Skoumal Suono Benjamin Astrug Collaborazione artistica Miloslav Jágr Produzione Krátký Film, Jiří Trnka Studio

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TRIPLO FORUM [t.l.] Tre brevi sketch animati che ci parlano dello sforzo umano. Animazione di lettere, di forme e di altri oggetti, composti in un gioco visivo e ritmico. Secondo le parole dell’autore, si tratta di un‘evoluzione più sofisticata di precedenti prove e lavori.


PAVEL KOUTSKÝ

Pavel Koutský

NAVŠTIVTE PRAHU WELCOME TO PRAGUE Cecoslovacchia, 1983, 6‘, col., senza dialoghi

VISITATE PRAGA [t.l.] Opera di Pavel Koutský realizzata come film di diploma all’Accademia delle Arti Applicate di Praga. Come alcuni lavori precedenti, anche in questo film sono stati usati studi e disegni nati nelle vie della città. I gruppi di turisti, che compaiono spesso in questi disegni, hanno fornito l’ispirazione per il film. I turisti scorrazzano per Praga in una sorta di assurda gara per chi vede più luoghi e più monumenti. Quello che rimane loro nella memoria è un imbroglio surreale di contemporaneità e storia. Realizzato nello stile tipico di Koutský – l’animazione totale – che, con tale dinamismo, riesce a trascinare lo spettatore in una turbinosa visita alla città. Da Navštivte Prahu in poi, l’autore userà e svilupperà a pieno questo suo stile peculiare.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Camera Dagmar Ferklová Musica Jiří Kolafa Produzione Krátký Film, Jiří Trnka Studio

Pavel Koutský

DILEMA DILEMMA

Cecoslovacchia, 1985, 2‘, col., senza dialoghi

DILEMMA [t.l.] Un uomo da solo brancola disperato nell’indecisione: da quale porta abbandonare una stanza mentre la casa in cui si trova sta andando a fuoco? Racconto artistico e simbolico di grande effetto sulle possibili conseguenze catastrofiche dell’incapacità di prendere decisioni. Realizzato ricorrendo a una forte stilizzazione, non comune a Pavel Koutský. In questo film di soli due minuti è stata utilizzata una scena di una battaglia inizialmente pensata per Katastrofy, che però non è stata approvata dalla direzione. L’unica volta che un film di Koutský ha subito una censura.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Camera Eva Kargerová Musica Petr Skoumal Suono Ivo Špajl Produzione Krátký Film, Studio Bratři v triku

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PAVEL KOUTSKÝ

Pavel Koutský

KATASTROFY

DISASTERS

Cecoslovacchia, 1984, 7‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Camera Zuzana Bukovinská Musica Vladimír Merta Produzione Krátký Film, Studio Bratři v triku

CATASTROFI [t.l.] In questo film di soli sette minuti, allo spettatore vengono presentati vari problemi dell’umanità: le questioni legate all’ambiente, la guerra, problemi grandi e piccoli che affliggono il mondo. Alla fine si scopre che sull’umanità pende un’altra minaccia: l’uomo inizia a percepire le catastrofi come problemi banali della vita quotidiana.

Pavel Koutský

LATERNA MUZIKA

LATERNA MUSICA

Cecoslovacchia, 1984, 8‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Camera Jiří Ševčík, Zdeněk Pospíšil Montaggio Magda Sandersová Musica Petr Skoumal Suono Ivo Špajl Disegno Zuzana Vorlíčková Produzione Krátký Film, Jiří Trnka Studio

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LATERNA MUSICA [t.l.] Si tratta di un film marcatamente artistico e pittorico, che mostra come la musica viene assorbita da coloro che la ascoltano. Si svolge su due piani: la vita quotidiana è in bianco e nero, mentre a colori è il mondo della musica suonata dal vivo. Durante un concerto per pianoforte i due piani si fondono in un geyser colorato. Realizzato in collaborazione con Zuzana Vorlíčková, laureata all‘Accademia delle Arti Applicate di Praga nel 1983, oggi docente di disegno della Facoltà di Cinema e Televisione dell’Accademia di Musica e Spettacolo. Suoi sono la sceneggiatura e il progetto artistico iniziali, mentre la realizzazione è avvenuta poi in collaborazione con Koutský, che ne firma la regia.


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Pavel Koutský

CURRICULUM VITAE Cecoslovacchia, 1986, 10‘, col., senza dialoghi

CURRICULUM VITAE Un uomo, intento a stendere il suo curriculum vitae, ricorda gli anni della scuola elementare, del liceo e dell’accademia; una vera e propria introspezione autobiografica dell‘autore. Nel film vengono raccolte le conoscenze acquisite nei vari gradi di istruzione; un topolino che viene fuori da un ovetto accompagna lo spettatore per tutto il film e finisce sulla cima di una piramide (simbolo delle conoscenze acquisite), mentre un uomo intento a compilare un modulo sta decidendo se scegliere come professione quella del regista di cartoni animati. Il film è apprezzato per l’originalità dell’idea e per l’animazione, ed è considerato un capolavoro della scuola ceca di cartoni animati. Realizzato da Koutský all’età di vent’anni, lui stesso dice ora: «Sarebbe il momento di farne una prosecuzione, che riassuma la mia vita fino ai cinquant’anni». Il progetto di aggiornamento, però, pare che sarà da rimandare ai sessant‘anni.

Regia, Animazione Pavel Koutský Camera Zuzana Bukovická, Jiří Ševčík, Zdeněk Pospíšil Sceneggiatura Jindřich Vodička Montaggio Magda Sandersová Musica Petr Skoumal Suono Ivo Špajl Produzione Krátký Film, Jiří Trnka Studio

Pavel Koutský

CO OKO NEUVIDÍ OUT OF SIGHT

Cecoslovacchia, 1987, 4‘, col., senza dialoghi

L‘OCCHIO NON VEDE [t.l.] Una rarità nell’opera di Koutský: un‘animazione di pupazzi. Si tratta di un’allegoria della manipolazione delle persone, di cui queste non ne sono consapevoli. Un pupazzo è manipolato dall‘animatore, che non si vede quando il ritmo del film è regolare; ma, quando il ritmo del film diminuisce, non si scorge solo l‘animatore, bensì si vede che anch’egli è a sua volta manipolato da un‘altra persona.

Regia, Sceneggiatura Pavel Koutský Camera Ivan Vít, Zdeněk Pospíšil Animazione Boris Masník Musica Petr Skoumal Suono Ivo Špajl Produzione Krátký Film, Jiří Trnka Studio

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Pavel Koutský

LÁSKA NA PRVNÍ POHLED LOVE AT FIRST SIGHT

Cecoslovacchia, 1987, 5‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Montaggio Gaia Vítková Camera Jaroslava Zímová Musica Petr Skoumal Produttori Jiří Šebestík, Helena Kilianová Produzione Krátký Film, Studio Bratři v triku

AMORE A PRIMA VISTA [t.l.] Un uomo cerca di conquistare una donna che non prova alcun interesse per lui. Tenta, quindi, qualunque gesto per ottenere il suo amore, per quanto i suoi sforzi potrebbero non essere mai coronati dal successo. Come gli altri lavori di Koutský, anche questo film di cinque minuti è una cascata di idee, umorismo e associazioni fantasiose.

Pavel Koutský

AUTOPORTRÉT

ANIMATED SELF-PORTRAITS

Canada | Cecoslovacchia | Giappone | USA, 1989, 30’’, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Produzione ASIFA – Association Internationale du Film d’Animation

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AUTORITRATTO [t.l.] Nel 1988, l’ASIFA, Association Internationale du Film d’Animation, si fa promotrice di un grande progetto, in cui animatori provenienti da quasi trenta Paesi avevano il compito di portare sullo schermo i loro autoritratti. Koutský punta tutto sul dinamismo, la vivacità e l‘ironia che da sempre contraddistinguono i suoi lavori.


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Pavel Koutský

PORTRÉT

THE PORTRAIT Cecoslovacchia, 1990, 8‘, col., senza dialoghi

RITRATTO [t.l.] Racconto umoristico sugli aspetti contrastanti del carattere delle persone. Tratti contraddittori come l’avarizia e la generosità, il coraggio e la codardia, la sincerità e la falsità sono gli argomenti di questo film. Tutti insieme compongono un’allegoria colorata e vivace della vita grigia dell’uomo comune.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Camera Eva Kargerová Musica Petr Skoumal Produzione Krátký Film, Studio Bratři v triku

Pavel Koutský

AT ŽIJE MYŠ

LONG LIVE THE MOUSE Repubblica Ceca, 1993, 6‘, col., senza dialoghi

EVVIVA IL TOPO [t.l.] Esempio di animazione particolarmente avvincente. All’inizio potrebbe sembrare che si tratti di un film d‘animazione grottesco e banale, come quelli statunitensi del topo che combatte col gatto feroce e sul quale alla fine ha la meglio. Lo spettatore fa il tifo per il topo, e può così rallegrarsi del suo trionfo sul nemico più forte. Ma poi, vedendo un altro topo preso in una trappola, ci si rende conto dell’ambiguità della natura umana: si parteggia per il topolino, ma al tempo stesso si mettono delle trappole per acchiapparlo.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Camera Jaroslava Zimová Montaggio Jiřina Pečová Musica Petr Skoumal Suono Ivo Špalj Produttore Dagmar Juráková Produzione Krátký Film, Studio Bratři v triku

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Pavel Koutský

NO COMMENT Repubblica Ceca, 1994, 5 ep. da 30‘‘, col., senza dialoghi

Regia, Animazione Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, J. Kutálek Fotografia M. Rychecký Produzione Anifilm Rychecky, Česká televize

NO COMMENT Una serie di brevissimi spot aneddotici per narrare la vita nel mondo contemporaneo. Brevi sequenze per dimostrare l’assurdità e il grottesco che caratterizza le nostre vite, nostro malgrado. Di nuovo l’uso dell’”antipubblicità” estremamente sintetica, per una riflessione sull’oggi.

Pavel Koutský

SVET 2000

WORLD 2000

Repubblica Ceca, 1995, 13 ep. da 30‘‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, Jan Kutálek Animazione Martin Škarda Musica Petr Skoumal Suono Jan Kacian Produttore Viktor Mayer Produzione Anifilm Rychecky, Česká televize

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MONDO 2000 [t.l.] I temi di questi brevissimi sketch riguardano la modernità, il consumismo, la società capitalista attuale, il ruolo dei media e in particolare quello della televisione, l‘inquinamento, e ovviamente la politica. Un‘altra serie della cosiddetta “antipubblicità”, per sperimentare un formato convenzionale (lo spot pubblicitario), ma ribaltarne la funzione. Come solo Koutský sa fare.


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Pavel Koutský

VIVAT EVROPA! CHEERS EUROPE!

Repubblica Ceca, 1996, 14 ep. da 30‘‘, col., senza dialoghi

SALUTE EUROPA! [t.l.] I brevissimi sketch di Koutský stavolta riguardano l’Unione Europea: il concetto di democrazia, la caduta del muro di Berlino, la nascita del modello “europeo”, con i suoi fondamenti e le sue contraddizioni, il razzismo, l’intolleranza, la guerra in Jugoslavia, l’avanzata del capitalismo, la compravendita delle armi... Brevi spot per far riflettere lo spettatore e (di)mostrare che c’è sempre un’altra faccia della stessa medaglia.

Regia Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, Jan Kutálek Animazione Martin Škarda Musica Petr Skoumal Produttore Viktor Mayer Produzione Anifilm Rychecky, Česká televize

Pavel Koutský

DUELO DUEL

Repubblica Ceca | Canada, 1997, 6‘, col., senza dialoghi

DUELLO [t.l.] Critica di Koutský contro una società che opprime l’unicità della natura umana e al tempo stesso un film sui diritti dei bambini. Con un imbuto vengono riversate nozioni nella testa di un bambino e due mani, che ritagliano e strappano fogli dai libri, stabiliscono ciò che lui deve sapere e conoscere. Consapevole del fatto che in questo modo crescerà come migliaia di altri prima di lui, il bambino insieme ad altri si ribella al sistema, sconfigge il manipolatore e suoi metodi, e infine si mette a studiare da solo attraverso il gioco. Combinazione di animazione totale e animazione di oggetti.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Camera Zuzana Bukovinska Musica Petr Skoumal Suono Ivo Špalj Montaggio Vera Benesova Produttore Milan Rychecky, Thérèse Descary Produzione Anifilm, National Film Board of Canada

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Pavel Koutský

KAVÁRNA

CAFÉ

Repubblica Ceca, 1998, 8‘, col., senza dialoghi

Regia, Animazione Pavel Koutský Fotografia Jan Chvojka, Martin Procházka Musica Petr Skoumal Suono Jan Kacian Voce Jiří Lábus Produttore Dagmar Juráková Produzione Krátký Film, Studio Bratři v triku

CAFFÈ [t.l.] In un caffè si incontrano degli uomini d’affari, due amanti e un paio di signore anziane. Tutti chiacchierano gli uni con gli altri amabilmente, mentre nelle loro menti si agitano pensieri selvaggi e distruttivi.

Pavel Koutský

MÁ VLAST

MY COUNTRY

Repubblica Ceca, 1998, 14 ep. da 30‘‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, Jan Kutálek Animazione Martin Škarda Musica Petr Skoumal Produttore Viktor Mayer Produzione Anifilm Rychecky, Česká televize

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LA MIA PATRIA [t.l.] L‘antipubblicità, i brevissimi spot di Koutský, si concentrano qui sulla sua nazione, la Repubblica Ceca, con le sue peculiarità e contraddizioni, raccontandone a suo modo l‘evoluzione e la storia. Il passaggio dallo stato sovietico all‘apertura al capitalismo, il ruolo Stato/Chiesa, l‘avanzata dell‘estrema destra, l‘appesantimento burocratico immutabile, lo sfruttamento delle risorse, il ruolo dei politici corrotti, la giustizia lenta e corruttibile. Piccoli ma efficaci sketch per raccontarsi.


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Pavel Koutský

KOKTEJL COCKTAIL

Repubblica Ceca, 1999, 11 ep. da 25‘‘, col.

COCKTAIL [t.l.] Parodia grottesca delle pubblicità televisive. Utilizzando gli stessi strumenti del mezzo televisivo, Koutský ne ribalta il senso e l‘obiettivo: una serie di esilaranti spot su detersivi, prodotti di bellezza, caffè, medicine, alimenti, per lanciare un grido contro il consumismo sfrenato, attraverso il disegno animato e l‘animazione di oggetti.

Regia Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, Jan Kutálek Camera Milan Rychecký Musica Petr Skoumal Voce Jiří Lábus

Pavel Koutský

MÉDIA MEDIA

Repubblica Ceca, 1999, 5‘, col., senza dialoghi

MEDIA [t.l.] Un film-critica sulla tendenza di certi media a dare notizie senza alcuna obiettività. Con lo scopo di dominare le persone i mezzi di comunicazione spingono l’essere umano in cerca di informazioni all‘interno di un meccanismo di giornalismo ormai deteriorato. L’uomo comune può ribellarsi a questa pressione, ma non può sfuggirle né vincerla. Combinazione di animazione totale e di animazione di oggetti.

Regia Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, Jan Kutálek Camera Martina Procházka Disegno Milan Svatoš Musica Petr Skoumal Produzione, Distribuzione Krátký Film, Studio Bratří v triku

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Pavel Koutský

O BANKÁCH A LIDECH OF BANKS AND PEOPLE

Repubblica Ceca, 2000, 8‘, col., senza dialoghi

Regia, Sceneggiatura, Animazione, Produttore Pavel Koutský Produzione Createam, Banca Nazionale Ceca

SULLE BANCHE E LE PERSONE [t.l.] Spot pubblicitario sulla Banca Nazionale Ceca e sulla storia del sistema bancario della Repubblica Ceca, senza omettere la solita graffiante critica al sistema, caratteristica dell‘autore ceco.

Pavel Koutský

PYGMALION Repubblica Ceca, 2001, 5‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský Musica Petr Skoumal Camera Martin Prochazka Montaggio Jirina Pecová Suono Viktor Ekrt, Jan Kacian Cast Svetlana Frolíková, Meridian Produttore Dagmar Juráková

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PIGMALIONE [t.l.] Per la tradizione antica, Pigmalione era una figura che si era innamorata della statua che lui stesso aveva scolpito. Combinazione di animazione totale e animazione di oggetti reali con esseri umani. Un ometto crea dalla sua stessa carne e dalle sue stesse ossa la donna ideale, che poi però alla fine lo abbandona.


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Pavel Koutský

CTYRI LÁSKY FOUR LOVES

Repubblica Ceca, 2003, 6‘, col., senza dialoghi

QUATTRO AMORI [t.l.] Le quattro stagioni della vita dell’uomo al centro del film, e come, con il trascorrere del tempo, cambino anche i suoi interessi e le cose che ama. Il bambino è circondato da giocattoli, poi crescendo li abbandona a favore delle donne, mentre l’uomo adulto è circondato da cibo in gran quantità, che lascerà poi il posto ai farmaci. Combinazione di animazione totale e di animazione di oggetti reali.

Regia, Sceneggiatura Pavel Koutský Camera Martin Procházka Montaggio Jiří Pěčová Animazione Bedřich Glazer Musica Petr Skoumal Suono Vladimír Helebrant, Jan Kacian Produttore Dagmar Juráková

Pavel Koutský

KARLUV MOST

CHARLES BRIDGE ep. di DOPISY Z CESKA LETTERS FROM CZECH REPUBLIC Repubblica Ceca, 2005, 3‘, col., senza dialoghi

IL PONTE CARLO ep. di LETTERE DALLA CECHIA [t.l.] Film realizzato per il padiglione ceco all’EXPO del 2005 ad Aichi in Giappone. Si tratta di un’opera composta da Karlův most di Pavel Koutský, V’kend di Michaela Pavlátová e Český rok di Jiří Bárta. In Karlův most, film di promozione turistica, Koutský mostra non solo il ponte, ma anche luoghi e monumenti nelle sue vicinanze, personaggi famosi a livello mondiale che hanno vissuto a Praga, così come dati e avvenimenti storici che riguardano il ponte, presentati nella maniera tipica del regista. Con il numero degli anni che si trasforma nel fatto storico.

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Camera Martin Procházka Musica Petr Skoumal

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Pavel Koutský

PLASTIC PEOPLE Repubblica Ceca, 2007, 6‘, col., senza dialoghi

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Fotografia Martin Procházka Drammaturgia Jiří Kubíček Musica Petr Skoumal Suono Jan Kacian Produttore Dagmar Juráková

PERSONE DI PLASTICA [t.l.] Cartone animato sul contrasto tra l’unicità del singolo essere umano e la bellezza artificiale della chirurgia estetica, che ormai viene percepita dalle persone come irrinunciabile necessità, smettendo di essere un supporto medico. Tre donne si fanno operare per diventare una “bionda ideale”; ma mentre il carattere rimane distinto, per aspetto sono una uguale all’altra.

Pavel Koutský

BILANCOVÁNÍ BALANCING

Repubblica Ceca, 2009, 8’, col., senza dialoghi

Regia, Sceneggiatura, Animazione Pavel Koutský Musica Petr Skoumal Produzione Filmové Ateliéry, Česká televize

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BILANCIAMENTO [t.l.] Il film, composto per il ventesimo anniversario della Rivoluzione di Velluto del 1989, si basa sulla commistione di disegno animato e animazione di oggetti. Utilizzando simboli e prodotti caratteristici del periodo precedente il 1989 (bandiere rosse, fotografie, spille, giornali sovietici...) Koutský li contrappone agli oggetti della contemporaneità e del capitalismo (Coca-Cola, cellulari, hamburger, riviste pornografiche, snack...) dimostrandoci ancora una volta che l‘individuo è sempre una pedina di un sistema che guarda solo al profitto e al controllo.


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Pavel Koutský

OD PRAOTCE K UNII LOOKING BACK

Repubblica Ceca, 2009, 10‘, col.

DAL MITICO PADRE FONDATORE ALL’UNIONE [t.l.] Spot pubblicitario sulla Presidenza ceca dell’Unione Europea. Il breve film inizia con l’arrivo dei cechi sul monte Říp e passa in rassegna i principali episodi della storia ceca, le guerre hussite, Giorgio di Poděbrady, i conflitti mondiali.

Regia, Animazione Pavel Koutský Sceneggiatura Pavel Koutský, Ladislav Kopecký Animazione Martin Procházka Musica Petr Skoumal Suono Jan Kacian Voce Jiří Lábus

Pavel Koutský

DOBRÁ RADA GOOD ADVICE

Repubblica Ceca, 2011, 4‘, col., senza dialoghi

UN BUON AMMONIMENTO [t.l.] Cosa succede quando gli animali schiavizzati dall‘uomo decidono di ribellarsi? Conigli da laboratorio, lepri in fuga dai cacciatori e maiali che di punto in bianco decidono di armarsi e attaccare il nemico. Una breve e pungente satira sul rispetto verso gli animali. Non sarebbe meglio comportarsi nei loro confronti, così come vorremmo essere trattati noi? Un messaggio chiaro e diretto a tutti gli spettatori.

Regia Pavel Koutský Musica Petr Skoumal Suono Jan Kacian Produttore Jakub Hora, Lenka Jiroutová Produzione Anifilm

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Pavel Koutský

ROMEO A JULIE ROMEO AND JULIET

Repubblica Ceca, 2011, 1‘15‘‘, col., senza dialoghi

Regia Pavel Koutský

ROMEO E GIULIETTA [t.l.] La famosa tragedia di William Shakespeare, dal punto di vista di Pavel Koutský: come si comporterebbero ai giorni nostri i due protagonisti? Ironia e sarcasmo, in un pungente e brevissimo disegno animato.

Pavel Koutský

HUSITI

HUSSITES

Repubblica Ceca, 2013, 85‘, col.

Regia Pavel Koutský Sceneggiatura Martin Cáp, Martin Jaros, Pavel Koutský Animazione Frantisek Krejci Voci Oldrich Kaiser, Jirí Lábus, Viktor Preiss Suono Jan Kacian Musica Miroslav Korínek Produttore Milan Rychecký Produzione Anifilm

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HUSSITI [t.l.] La coppia di eroi, Záboj e Mlhoš, ci trasporta nell‘epoca delle lotte hussite, che hanno influenzato gli eventi più importanti dell‘epoca. Gli hussiti erano i seguaci del riformatore sociale e religioso Jan Hus, che nel 1415, convocato a comparire dinanzi al Concilio di Costanza, fu condannato per eresia e bruciato sul rogo. Ciò ne fece un eroe nazionale e accese la rivoluzione, che scoppiò nel giro di pochi anni. Contro gli hussiti Roma bandì ben cinque crociate, senza successo. Uno dei passaggi chiave della storia della Boemia, riletto in modo completamente diverso rispetto a ciò che è raccontato nei libri di Storia. Commedia animata che segna il debutto di Koutský nel lungometraggio.


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ANTEPRIME

François Ozon

UNE NOUVELLE AMIE THE NEW GIRLFRIEND Francia, 2014, 105’, col.

Regia, Sceneggiatura François Ozon Soggetto liberamente tratto da The New Girlfriend di Ruth Rendell Fotografia Pascal Marti Montaggio Laure Gardette Scenografia Michel Barthelemy Costumi Pascaline Chavanne Musica Philippe Rombi Suono Benoît Hillebrant Interpreti Romain Duris (David/Virginia), Anaïs Demoustier (Claire), Raphaël Personnaz (Gilles), Isild Le Besco (Laura), Aurore Clément (Liz), Jean-Claude Bolle-Reddat (Robert), Bruno Pérard (Eva Carlton), Claudine Chatel (la tata), Anita Gillier (l’infermiera) Produttori Eric Altmayer, Nicolas Altmayer Produzione Mandarin Cinéma Distribuzione Officine Ubu

Filmografia essenziale Une nouvelle amie (Una nuova amica, 2014) Jeune & jolie (Giovane e bella, 2013) Dans la maison (Nella casa, 2012) Potiche (Potiche – La bella statuina, 2010) Ricky (Ricky – Una storia d’amore e libertà, 2009) Swimming Pool (id., 2003) 8 femmes (8 donne e un mistero, 2002) Sous le sable (Sotto la sabbia, 2001) Gouttes d’eau sur pierres brûlantes (Gocce d’acqua su pietre roventi, 2000) Les amants criminels (Amanti criminali, 1999) Sitcom (id., 1998)

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UNA NUOVA AMICA Laura e Claire sono amiche per la pelle fin dall’infanzia: crescono insieme, si fidanzano, si sposano a distanza di poco. Laura diventa mamma e quando, pochi mesi dopo, scopre di essere gravemente malata, fa promettere a Claire di prendersi cura del marito e della bambina. Dopo la morte di Laura, Claire diventa amica del giovane vedovo David, e scopre l’intimo segreto che l’uomo condivideva solo con la defunta moglie: la passione di travestirsi da donna, fino a crearsi un alter ego femminile, Virginia. Ben presto Virginia diventa per Claire l’elemento indispensabile per supplire alla mancanza di Laura e garantirle un equilibrio esistenziale ormai sempre più vacillante. François Ozon (Parigi, 1967), dopo un esordio come modello, si laurea in regia alla Fémis di Parigi nel 1993. Nei primi anni della sua carriera realizza numerosi cortometraggi selezionati ai principali festival internazionali. Nel 1998 esordisce nel lungometraggio con Sitcom, un film dai toni grotteschi che lo pone all’attenzione della critica e del pubblico come uno dei più interessanti tra i nuovi autori del cinema francese. La sua fama si consolida grazie ai film successivi, Amanti criminali (1999) e Gocce d’acqua su pietre roventi (2000). Il successo internazionale arriva nel 2002 con 8 donne e un mistero, film in cui dirige diverse generazioni di attrici francesi (Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Virginie Ledoyen) e grazie a una miscela di generi diversi, che vanno dalla commedia al giallo, passando dal musical fino al melodramma, Ozon confeziona uno dei suoi film più noti al grande pubblico. Nel 2010 torna a dirigere Catherine Deneuve in Potiche – La bella statuina. I suoi film hanno ottenuto numerose candidature ai festival cinematografici di tutto il mondo. «Il film è liberamente ispirato al romanzo breve di Ruth Rendell, The New Girlfriend, una storia di quindici pagine nello spirito della serie televisiva Hitchcock presenta: una donna scopre che il marito dell’amica si traveste di nascosto da donna. Lui diventa la sua nuova amica; ma quando le dichiara la propria passione e cerca di far l’amore con lei, lei lo uccide. Avevo letto il romanzo un’estate di vent’anni fa e avevo scritto un adattamento molto fedele per un cortometraggio, ma non avendo trovato i finanziamenti né il cast ideale avevo abbandonato il progetto. Mi capitava di ripensare spesso a questa storia e ho capito che nei grandi ruoli en travesti che mi erano piaciuti, il protagonista non è mai mosso da un desiderio personale bensì da una costrizione esterna: i musicisti inseguiti dalla mafia costretti a travestirsi da donna in A qualcuno piace caldo; l’attore disoccupato che si finge attrice per ottenere un ruolo in Tootsie; Julie Andrews in Victor Victoria... Queste circostanze esterne permettono allo spettatore di identificarsi facilmente con il personaggio, senza imbarazzi o sensi di colpa. Nel mio film, invece, il desiderio di travestirsi esiste prima ancora del passaggio all’atto».


ANTEPRIME

Marilena Moretti

WALKING WITH RED RHINO A SPASSO CON ALBERTO SIGNETTO Italia, 2014, 109’, col.

WALKING WITH RED RHINO – A SPASSO CON ALBERTO SIGNETTO È difficile trovare a Torino qualcuno che non abbia conosciuto Alberto Signetto. Amava la vita, gli è sempre piaciuto far tardi la notte, mangiare e bere bene, tifare Toro. Grande e grosso, una massa di capelli legati sulla nuca, un borsone appeso al collo, con dentro libri, giornali, taccuini. A volte il computer o una telecamera per prendere appunti, Alberto Signetto era un filmmaker appassionato. Battuta pronta, intelligenza sottile, straordinaria cultura, irresistibile humour. Artista rigoroso, poco incline ai compromessi, era il “Red Rhino” – da pronunciare tassativamente “Rino”, alla piemontese –, «un animale cocciuto, grosso, ingombrante e poco addomesticabile». Marilena Moretti (Torino, Italia), dopo la laurea in storia contemporanea, a partire dagli anni Ottanta, lavora come giornalista per «La Stampa» e copywriter in pubblicità. Come autrice e regista, per la Rai, ha realizzato documentari e programmi di informazione culturale; per la radio ha scritto racconti e sceneggiati. Ha frequentato i seminari di sceneggiatura di Tonino Guerra e la scuola “Ipotesi Cinema” di Ermanno Olmi ed è stata autrice televisiva a Mediaset di programmi di intrattenimento. Parallelamente ha diretto documentari e cortometraggi, partecipando a vari festival, tra cui Torino (Cinema Giovani, 1991), Edimburgo (1991), Bellaria (2006), Firenze (Festival dei Popoli, 2007), Piemonte Movie (2009), Roma Fiction Fest (2009). Tra i suoi lavori: il documentario La rivoluzione non è una cosa seria (2006) sugli anni Settanta e il libro Dal basso dei cieli, scritto con Peppo Parolini (ed. Baldini Castoldi Dalai, 2007), da cui ha tratto il documentario Dal basso dei cieli (2009), omaggio a Torino e all’artista Peppo Parolini. Walking with Red Rhino – A spasso con Alberto Signetto è il suo ultimo film. «Ho conosciuto Alberto Signetto nei primi anni Ottanta. Lavoravamo insieme come registi in RAI a Torino, eravamo tutti e due agli inizi. Lui irruente, creativo, debordante. Un affabulatore. Simpatico, ironico. Un cinefilo accanito, un appassionato di Godard, della Nouvelle vague francese e del cinema underground americano. Un esperto di musica rock e un lettore onnivoro. Mentre io mi occupavo di programmi di intrattenimento, lui esordiva filmando i Rolling Stones. Ma prima era già stato assistente di Anghelopoulos e di Jean-Marie Straub. E in seguito avrebbe lavorato con Robert Kramer, Jean Rouch, Raoul Ruiz. [...] Nei suoi lavori c’è il segno dell’originalità e della genialità. In tutti gli anni in cui ho lavorato in televisione, lui ha sempre continuato con ostinazione a “fare il suo cinema”, ottenendo apprezzamenti nei festival internazionali. Eppure in Italia era pressoché uno sconosciuto. Un “cineasta marginale”, come aveva scritto provocatoriamente su un cartello appeso al collo durante una manifestazione».

Regia Marilena Moretti Fotografia Massimo Arvat, Alessandro Castelletto, Niccolò Bruna, Luca Pastore Montaggio Paolo Favaro, Danilo Pettinati Musica Giorgio Li Calzi, Fluxus, Guido Scategni Suono Vito Martinelli, Paolo Armao Produzione, Distribuzione Rossofuoco

Filmografia Walking with Red Rhino – A spasso con Alberto Signetto (doc, 2014) Dal basso dei cieli (doc, 2009) La rivoluzione non è una cosa seria (doc, 2006) Ritratto di Leo (short doc, 1991) Vivere una favola (tv doc, 1991) Torino in musica (tv doc, 1985) Asti Teatro (tv doc, 1981) Carpe diem (tv doc, 1981) Maschio/Femmina (tv doc, 1980) Belli di notte (tv doc, 1980)

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ANTEPRIME

Nadav Schirman

THE GREEN PRINCE Germania | Israele | Gran Bretagna, 2014, 101’, col.

Regia, Sceneggiatura Nadav Schirman Soggetto dal bestseller Son of Hamas di Mosab Hassan Yousef Fotografia Hans Fromm, Giora Bejach, Raz Dagan Montaggio Joelle Alexis, Sanjeev Hathiramani Scenografia Yoel Herzberg Costumi Chen Gilad Musica Max Richter Suono Alex Claude Con Mosab Hassan Yousef, Gonen Ben Yitzhak, Sheikh Hassan Yousef Produttori Nadav Schirman, John Battsek, Simon Chinn Produzione A-List, Passion Pictures, Red Box Films Distribuzione Feltrinelli Real Cinema, Wanted

Filmografia The Green Prince (Il figlio di Hamas – The Green Prince, 2014) In the Dark Room (2013) Meragel ha-shampaniya (The Champagne Spy, doc, 2007)

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LL FIGLIO DI HAMAS – THE GREEN PRINCE Mosab Hassan Yousef, figlio maggiore dello sceicco Hassan Yousef, uno dei membri fondatori di Hamas, viene reclutato dallo Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele. Con il nome in codice di “Green Prince”, il prezioso informatore spia l’élite di Hamas per oltre un decennio, mettendo la sua vita costantemente in pericolo, e con la convinzione di aver tradito la sua famiglia e la sua gente. Tratto da Son of Hamas, il bestseller autobiografico di Mosab Hassan Yousef, il film ci trasporta in un complesso mondo di terrore, manipolazioni, tradimenti e scelte impossibili. Nadav Schirman è regista, sceneggiatore e produttore. Il suo primo film, The Champagne Spy (2007), un elegante spy movie dal sapore anni Settanta su un agente segreto del Mossad, ha vinto l’Oscar israeliano come miglior documentario e numerosi altri premi e candidature internazionali. Per il suo secondo film, In the Dark Room (2013), girato in 16mm, adotta elementi stilistici del nuovo cinema tedesco anni Ottanta e prosegue la sua personale indagine su rapporti famigliari sotto pressione addentrandosi in mondi spesso oscuri e pericolosi – in questo caso la nascita del terrorismo internazionale. Nel 2012 fonda la A-List Films, una casa di produzione con sede a Monaco e Francoforte. Con il suo ultimo lavoro, The Green Prince, ridefinisce i confini del genere documentario facendone quasi un thriller altamente drammatico. Attualmente lavora a un nuovo progetto ambientato nel brutale mondo dell’immigrazione clandestina nell’Europa meridionale. «Quando ho sentito la storia di Mosab, sono stato immediatamente colpito dalla descrizione che faceva di Hamas come insider. Essendo un’organizzazione praticamente sconosciuta al mondo intero, i suoi meccanismi non erano mai stati rivelati fino ad allora, e ciò mi colpì molto. Quando ho conosciuto Gonen, il suo referente israeliano, e ho capito la natura esclusiva del loro rapporto, mi sono commosso al punto di voler convogliare quel sentimento in un film. Entrambi i protagonisti hanno messo a serio repentaglio le loro vite per fare la cosa giusta. Ciascuno di loro ha un forte senso morale e non hanno avuto timore di andare contro corrente. E questa è una cosa davvero rara nell’ambito dell’attuale conflitto israelo-palestinese, dove è più facile eseguire che fare delle scelte. Ho pensato che fosse una storia piena di speranza, qualcosa tipo “vedi cosa succede quando ci si fida gli uni degli altri, andando contro le idee preconcette”. E naturalmente la loro storia aveva tutti gli elementi per un thriller adrenalinico, che io ho scelto di svolgere nella forma di un documentario».


ANTEPRIME




BFM INAUGURA BERGAMO JAZZ

Ernst Lubitsch

DIE PUPPE Germania, 1919, 48’, bn

Regia Ernst Lubitsch Soggetto dal racconto di E.T.A. Hoffmann e dall’operetta di A.E. Willner Sceneggiatura Hanns Kräly, Ernst Lubitsch Fotografia Theodor Sparkuhl, Kurt Waschneck Scenografia, Costumi Kurt Richter Interpreti Max Kronert (il barone von Chanterelle), Hermann Thimig (Lancelot), Victor Janson (Hilarius), Marga Köhler (la moglie di Hilarius), Ossi Oswalda (Ossi Hilarius), Gerhard Ritterband (l’apprendista di Hilarius), Paul Morgan (Hippolyt), Ernst Lubitsch (se stesso nel prologo) Produttore Paul Davidson Produzione Projektions-AG Union Distribuzione UFA

LA BAMBOLA DI CARNE Lancelot è un ragazzo timido: di volersi sposare non ne ha proprio l’intenzione, anche se suo zio, il barone von Chanterelle, continua a proporgli candidate. Un giorno, Lancelot decide di ritirarsi in un convento. Per porre un termine alle insistenze dello zio, i monaci propongono a Lancelot uno stratagemma: fingere di sposarsi con uno degli automi costruiti dall’abile artigiano Hilarius. Lancelot sceglie quindi una ragazza meccanica. Questa, però, si rompe e Ossi, la figlia di Hilarius, ne prende il posto. L’ignaro Lancelot si trova così sposato con una ragazza vera, ma ormai, essendosi nel frattempo innamorato di lei, accetta di buon grado la cosa. Ridurre l’“espressionismo” di Lubitsch, come spesso si è fatto, a un semplice accostamento, e per di più parodistico, per quanto riguarda costumi e scenografie di quest’ultimo film è atteggiamento veramente riduttivo: anche nei confronti della corrente espressionista, di cui s’insiste a ignorare la componente ludica. «Sebbene la visione espressionista sia estranea al suo genio», nota invece, e giustamente, Michael Henry «Lubitsch ha ben risentito dei principi fondamentali della scuola, di cui in La bambola di carne definisce sul piano parodistico la nuova estetica» (Michael Henry, Le cinéma expressioniste allemand: un langage métaphorique, Friburgo 1971). Henry elenca gli elementi principale che ricollegano La bambola di carne al contemporaneo Il gabinetto del dottor Caligari (1919): décor dipinto, a due dimensioni; stilizzazione irrealistica dei personaggi o “marionette”; astrazione, spesso prossima al balletto, del gioco recitativo; umanizzazione dell’oggetto e meccanizzazione dell’individuo; autodistruzione della finzione, che svela i suoi trucchi; metafore letterarie prese sul piano letterale. (Guido Fink, Ernst Lubitsch, La Nuova Italia, Firenze 1977)

Filmografia essenziale Cluny Brown (Fra le tue braccia, 1946) Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943) To Be or Not to Be (Vogliamo vivere!, 1942) Ninotchka (id., 1939) Angel (Angelo, 1937) Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932) The Man I Killed/Broken Lullaby (L’uomo che ho ucciso, 1932) Monte Carlo (Montecarlo, 1930) So This Is Paris (La vita è un charleston, 1926) Die Puppe (La bambola di carne, 1919)

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BFM INAUGURA BERGAMO JAZZ

Joseph Losey

EVE Francia | Italia, 1962, 116’, bn

EVA Lo scrittore gallese Tyvian Jones è al Festival del Cinema di Venezia in occasione della presentazione del film tratto da un suo romanzo di successo. Nella città lagunare Tyvian conosce Eva, una donna enigmatica che lo seduce all’istante. Lei è chiara fin da subito: vieta a se stessa di innamorarsi, e allo stesso tempo esige che nessuno si innamori di lei. Dopo una fugace relazione, Eva abbandona Tyvian per tornare a Roma. Lui, completamente soggiogato dal suo fascino, la segue, accettando ogni sorta di umiliazione. Quando capisce che è il caso di liberarsi da questa ossessione, Tyvian sposa la bella e giovane Francesca. Ma non è finita. Eva è un film erotico. C’è in esso una violenza di stimolazioni che stordisce. La regia di Losey le sottolinea con una moltiplicazione di piani di ripresa che hanno fatto gridare al barocchismo fine a se stesso. È un racconto per immagini che contiene le medesime (ri)doppiate da superfici riflettenti: specchi e acqua. Tutta la pellicola presenta un prisma di visioni che distrugge ogni certezza di ciò che veramente vediamo, sfilacciandone la realtà e rovinandola. Cioè: quello che si vede, apparentemente la storia più semplice di tutte le storie, lui lei l’altra, non è per niente così come si vede. Anzi, per dirla meglio, il bombardamento delle immagini ripetute distrugge quello che lo spettatore pensa essere la semplicità più convenzionale. Che è come dire: non esiste la semplicità, non esiste la perfezione, non c’è niente di sicuro. Banale, ma Losey lo mette in scena con un’ambiguità di rappresentazione che stimola lo stomaco, oltre che il cervello. (Pier Maria Bocchi, All About Eve, in Emanuela Martini, a cura di, Joseph Losey, Il Castoro/Torino Film Festival, Milano/Torino 2012)

Regia Joseph Losey Soggetto dal romanzo di James Hadley Chase Sceneggiatura Hugo Butler, Evan Jones Fotografia Gianni Di Venanzo, Henri Decaë [non accr.] Montaggio Reginald Beck, Franca Silvi Scenografia Rchard Macdonald, Luigi Scaccianoce Musica Michel Legrand Suono Paul Boistelle, Renato Cadueri, Claudio Maielli, Federico Savina, Amelio Verona Interpreti Jeanne Moreau (Eva Olivier), Stanley Baker (Tyvian Jones), Virna Lisi (Francesca Ferrara), James Villiers (Alan McCormick), Giorgio Albertazzi (Sergio Branco Malloni), Riccardo Garrone (Michele), Enzo Fiermonte (Enzo), Lisa Gastoni (la russa con i capelli rossi), Joseph Losey (l’anfitrione all’Harry’s Bar) Produttori Rymond Hakim, Robert Hakim Produzione Paris Film Productions/Interopa Film Distribuzione Rank

Filmografia essenziale Steaming (Steaming – Al bagno turco, 1985) M. Klein (Mr. Klein, 1976) The Go-Between (Messaggero d’amore, 1970) Accident (L’incidente, 1967) King & Country (Per il re e per la patria, 1964) The Servant (Il servo, 1963) The Damned (Hallucination, 1963) Eve (Eva, 1962) Blind Date L’inchiesta dell’ispettore Morgan, 1959) The Boy with the Green Hair (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948)

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RIAPRE L’ACCADEMIA CARRARA

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RIAPRE L’ACCADEMIA CARRARA

MAURO BARONCHELLI

GUARDARE DENTRO UN MUSEO L’occasione è speciale: la riapertura di uno dei più importanti musei d’arte italiani dopo anni di chiusura per i lavori di restauro. Attorno a questo appuntamento, previsto per il prossimo 23 aprile 2015 e atteso non solo dai bergamaschi, ma dai tanti appassionati italiani e stranieri che in questi anni hanno avvertito la mancanza di un’istituzione museale con caratteristiche molto peculiari, si raccolgono tante e legittime aspettative. Molto si è fatto, durante i sette anni di chiusura del museo, per cercare di valorizzare al meglio il patrimonio e le potenzialità dell’Accademia Carrara. Dalle mostre all’estero, che hanno raccolto un successo clamoroso, all’eccezionale campagna di restauri delle opere, che riconsegna oggi al pubblico un museo con standard di conservazione del patrimonio tra i più lusinghieri nel panorama italiano. Con l’avvicinarsi della data di riapertura, parallelamente alle pressanti problematiche edili, impiantistiche, conservative, logistiche a cui è stato necessario far fronte, e che sono connaturate alla delicatezza di un intervento di ristrutturazione su un contenitore culturale che raccoglie un patrimonio così prezioso, il museo ha dovuto ragionare concretamente in termini di rapporto con il proprio pubblico – passato o potenziale che fosse –, con l’immagine che intende dare di sé e della propria disponibilità alle collaborazioni, con il ventaglio di prospettive e di progetti con cui è disposto a mettersi in gioco. In buona sostanza, con il ruolo che un’istituzione museale può efficacemente svolgere in un’ottica contemporanea. Nasce all’interno di questa riflessione la collaborazione con Bergamo Film Meeting, che si concretizza felicemente, all’interno del programma della trentatreesima edizione, con due appuntamenti significativi. Che esista affinità di approccio tra il pubblico che frequenta appassionatamente i musei – in particolare quelli d’arte antica e moderna come la Carrara – e il pubblico che ama il bel cinema è tutto da dimostrare. Certamente i punti di connessione sono molti. Il più immediato risiede forse nel rapporto tra l’opera cinematografica e alcune immagini straordinariamente fissate nella nostra memoria collettiva dalla grande pittura del passato. A solo titolo di esempio vale la pena citare due film usciti nell’ultimo anno: da un lato Amour fou (2014) di Jessica Hausner, una regista che Bergamo Film Meeting conosce benissimo, caratterizzato da un estremo rigore e controllo formale, che si riscontra nella minuziosa ricostruzione dei costumi e degli interni che si rifà evidentemente ad un immaginario pittorico ben definito e ad alcune opere di Vermeer in particolare; dall’altro il Turner (2014) di Mike Leigh che, lontano dall’enfasi del biopic, ricostruisce un personaggio artisticamente geniale, a tratti dolce ma più spesso repellente, con grande attenzione alla fotografia, allo studio della luce e del colore, ai rimandi tra l’opera dell’artista e l’ambientazione in cui si svolge l’azione. Un altro punto di connessione, quello su cui ci si è concentrati nel definire la collaborazione con Bergamo Film Meeting, è invece quello che considera il museo come un ambiente con sue leggi e peculiarità speciali, che valgono specificatamente all’interno delle sue mura e che vale la pena di scoprire. Ciò vale per National Gallery (2014) di Frederick Wiseman: un piccolo ecosistema da indagare nel profondo, da dentro, nello specifico con l’occhio da documentarista straordinariamente acuto che, nel raccontare la vita dall’interno della National Gallery di Londra, racconta la delicatezza e la complessità delle questioni a cui deve fare fronte un’istituzione museale contemporanea. Oppure, forse più immediatamente, il museo è un ambiente scenografico eccezionale. Non ne esistono altri con le stesse caratteristiche. Aperti, ma vigilati di giorno, chiusi e controllati a vista la notte. All’interno sale ampie e passaggi spesso poco illuminati, volti che guardano da ogni lato. Cose da vedere, che non si possono toccare, un po’ sacre un po’ profane. Un ambiente perfetto per fantasmi, assassini, segreti e delitti. E per questa ragione la trentatreesima edizione di Bergamo Film Meeting è l’occasione perfetta per riproporre una serie televisiva cult come il Belfagor (Belphégor, 1965) di Claude Barma.

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RIAPRE L’ACCADEMIA CARRARA

Claude Barma

BELPHÉGOR

ep. 1 LE FANTÔME DU LOUVRE ep. 2 LE SÉCRET DU LOUVRE ep. 3 LES ROSE-CROIX ep. 4 LE RENDEZ-VOUS DU FANTÔME

Francia, 1965, 280’ [4 ep. da 70’], bn

Regia Claude Barma Soggetto dal romanzo di Arthur Bernède Sceneggiatura Jacques Armand, Claude Barma Fotografia Jacques Lemare Scenografia Maurice Valay Costumi Christine Coste, Françoise Tournafond Musica Antoine Duhamel Suono Charles Rabeuf, Jacques Decerf Interpreti Juliette Gréco (Laurence Borel/Stéphanie Hiquet), Yves Rénier (André Bellegarde), Christine Delaroche (Colette Ménardier) René Dary (il commissario Ménardier), François Chaumette (Boris Williams), Sylvie (lady Hodwin), Paul Crauchet (Gautrais), René Alone (Doublet) Produttore Robert Paillardon Produzione ORTF, Société Nouvelle Pathé Cinéma Prima diffusione televisiva ORTF

BELFAGOR ep. 1 IL LOUVRE | ep. 2 IL SEGRETO DEL LOUVRE ep. 3 ROSA CROCE | ep. 4 L’INCONTRO COL FANTASMA Nella Sezione egizia del Museo del Louvre di Parigi, da qualche notte, stanno accadendo cose strane. In particolare, pare aggirarsi una figura spettrale. Il primo avvistamento, da parte di un custode che aveva già avuto problemi con l’alcol, viene archiviato come allucinazione. Ma, di lì a poco, il capo dei custodi è trovato morto in una sala adiacente. Per tutta Parigi si diffonde presto la voce che il museo è infestato. Il commissario Ménardier è incaricato dell’indagine. A lui si aggiungono la curiosa figlia Colette e lo studente André Bellegarde. La madame Mado dei Tonton flingueurs (In famiglia si spara, 1964) aveva ragione a considerare la televisione responsabile del cattivo andamento dei suoi affari, dal momento che ai bei vecchi tempi della ORTF, una volta spediti a letto i bambini, la Francia intera tremava con diletto di fronte al fantasma del Louvre. Belphégor divenne l’equivalente di quello che era stato Fantomas nel 1914. La nascente televisione prendeva ispirazione dalle stesse fonti come il cinema di mezzo secolo prima. Juliette Gréco nel doppio ruolo di Stéphanie e Laurence divenne popolarissima. Oggi, la Parigi del 1965 ci sembra come quella del film di Feuillade del 1914: la suora che, sulla Rolls Royce carro funebre, conduce Christine Delaroche ai piedi della Tour Eiffel, è la stessa che c’è sulla copertina di Fantomas che tanto affascinò i surrealisti. Ce n’era di ogni tipo: misteriosi sotterranei sotto luoghi pubblici, omicidi in depositi di luminarie, strani negozietti al mercato delle pulci, catapecchie minacciose, sedute spiritiche... Il telefilm di Barma restituisce il fascino discreto dei luoghi che ci capita ancora di visitare solo nei sogni. (Cine Phil, Fantomes du passe, http://henrylucienmerle.over-blog.com, 11 marzo 2013)

Filmografia essenziale Renseigmements généraux (serie tv, 1989-1990) Le clan (tv, 1988) Les liaisons dangereuses (tv, 1980) Les rois maudits (tv, 1972) Belphégor (Belfagor, 1965) Cyrano de Bergerac (tv, 1960) Croquemitoufle (1959) Le dindon (1951) Agence Nostradamus (tv, 1950) Chambre 34 (short, 1945)

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Frederick Wiseman

NATIONAL GALLERY Gran Bretagna | Francia | USA, 2014, 180’, col.

NATIONAL GALLERY La più grande galleria d’arte del Regno Unito, una delle maggiori al mondo, contenente una collezione di capolavori che vanno dal Medioevo al XIX secolo, la National Gallery di Londra è visitata e descritta da Frederick Wiseman in tutti i suoi aspetti, dall’organizzazione del lavoro ai contatti con il mondo esterno, dai rapporti fra gli impiegati a quelli con il pubblico, dalle opere esposte agli ambienti che le custodiscono. In National Gallery lo sguardo di Wiseman si sposta continuamente dall’uomo all’opera d’arte mettendo in relazione oggetto storico e soggetto contemporaneo, osservando ogni quadro come corpo vivo che continuamente si rinnova perché impegnato in un rapporto – quasi un corpo a corpo – con il pubblico e con gli addetti ai lavori. Wiseman rifugge ogni approccio didascalico proprio perché è interessato al valore concreto ed epistemologico dell’arte, tratta la conservazione come ricerca di una relazione fisica e contingente più che come semplice omaggio riverente alla creatività umana. Insomma, riesce a costruire un film su un museo rifiutando la musealità, scandagliando la contemporaneità dell’opera d’arte attraverso l’impegno quotidiano di chi se ne occupa. [...] Lo sguardo di Wiseman è orizzontale e profondo e affronta il rapporto tra arte e collettività aiutandoci a capire l’esperienza individuale del godimento artistico e la struttura sociale che quell’esperienza permette: due valori legati in maniera indissolubile che miracolosamente si trasformano in narrazione, in analisi, in comprensione del testo. Un quadro che, come nelle opere degli impressionisti, nasconde nell’insieme un’infinita concentrazione di dettagli, colori, colpi di pennello.

Regia, Montaggio Frederick Wiseman Fotografia John Davey Suono Emmanuel Croset, Frederick Wiseman Produttori Pierre-Oliver Bardet, Frederick Wiseman Produzione Gallery Film LLC, Idéal Audience Distribuzione Nexo, I Wonder Pictures

(Federico Pedroni, Speciale Cannes – “National Gallery”, «Cineforum» n. 535, giugno 2014)

Filmografia essenziale National Gallery (2014) At Berkeley (2013) Crazy Horse (2011) La danse (2009) Domestic Violence (2001) Central Park (1990) The Store (1983) Welfare (1975) High School (1968) Titicut Follies (1967)

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CULT MOVIE – GAMeCINEMA

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CULT MOVIE – GAMeCINEMA

SANDRO AVANZO

QUENTIN I (THE FIRST) In una tarda notte del 1977 si udirono in tv queste esatte parole: «Nel presentarlo riteniamo opportuno informare che il film narra la storia di un omosessuale, ambientata nell’Inghilterra degli anni Trenta, ripresa da un libro autobiografico». Fulmini e saette: nella Rai dell’era ancora democristiana era stata pronunciata la parola tabù “omosessuale”! Era toccato a Maria Giovanna Elmi l’imbarazzante compito di presentare Il funzionario nudo di Jack Gold, pellicola dello scandalo prodotta dalla britannica Thames Television e fresca della vittoria al Prix Italia. Del resto si trattava di una trasmissione semiclandestina di cui non era stata data alcuna comunicazione ai giornali di guida ai programmi, e per di più veniva proposta con una decina di minuti di tagli sui 77’ originali. La nostra emittente pubblica era stata costretta a inserirla nel proprio palinsesto in quanto lo Statuto del concorso internazionale prevedeva l’obbligo del passaggio dell’opera vincitrice sugli schermi televisivi di tutti i Paesi partecipanti. Però qualcuno... non si sa chi... sembra a Torino... riuscì fortunosamente a registrare in vhs una copia della messa in onda italiana e in quella forma ha continuato per anni a circolare nei circoli attivi nel movimento gay. Ufficialmente “missing” da allora, il film è rimasto fino ad oggi senza altre proiezioni pubbliche nel nostro Paese. Diventa dunque ancor più interessante rivederlo ora, a distanza di decenni, in un’ottica socio-culturale in cui è mutata radicalmente la percezione della questione omosessuale. Significa mettere a confronto tre differenti momenti storici: la realtà degli anni Trenta/Quaranta descritta nel film, la spinta innovativa messa in atto dalle istanze e dalle elaborazioni ideologiche del movimento gay degli anni Settanta che hanno influenzato il punto di vista registico della narrazione e in ultimo la mutata realtà contemporanea. A vincere in tutte e tre le epoche rimangono lo spirito e l’acume di Quentin Crisp, protagonista e insieme spettatore e narratore della propria vita; vincono le vicende e le battute stilate di suo pugno nel volume che dà anche il titolo al film. Aveva scritto quelle pagine nel 1968, appena a un anno dopo la depenalizzazione dal codice penale inglese del reato di omosessualità, il capo d’accusa che a fine Ottocento aveva portato in carcere Oscar Wilde. E proprio allo stile di Oscar Wilde si vanno a ricollegare lo humour, il gusto per i paradossi, le bizzarrie e le provocazioni, nonché il ricorso ai modi del camp da parte di Crisp. Forma mentis di autodifesa in una società maschilista omofoba e violenta, e nel contempo una sorta di manuale didattico di sopravvivenza per gli altri omosessuali a lui contemporanei. La sceneggiatura di Philip Mackie e la regia di Jack Gold ne rendono bene l’idea restando in gran parte fedeli alla pagina letteraria, da cui talora trascrivono – parola per parola – interi passaggi inseriti in particolare nei momenti del commento off («Il mio dentista, un vecchio e caro amico, mi aveva detto “Non sono i tuoi denti che si vanno deteriorando. Sei tu!”»), ma si avvalgono anche della presenza fisica del vero Quentin Crisp ripreso come testimone di autenticità di quanto avvenuto e mostrato. Il risultato è un film che rispecchia pienamente la personalità e la visione del mondo di Crisp, così come lui le esprime sulla pagina, il suo determinato rifiuto di prendere totalmente sul serio sia i lati comici che quelli cupi della vita («Il giorno in cui fu dichiarata la guerra io uscii a comprare due libbre di henné. Prevedevo che saremmo andati incontro a tempi duri»), allo stesso modo del complesso mix di disprezzo per il sentimentalismo e di cognizione di dimensione di un ego che sempre gli impedì di crogiolarsi e di indulgere nell’autocommiserazione (emblematico in tal senso è l’atteggiamento durante la scena del processo). Va dato merito ai cineasti di aver resistito alla tentazione di canonizzare Crisp quale martire o bandiera di coraggio e altruismo a favore della causa dell’Orgoglio Gay. Ne restituiscono e sottolineano la dimensione di anomalo unicum in un panorama storico e sociale assolutamente conformista e pavidamente ipocrita. L’omosessualità di Crisp viene mostrata nelle sue poliedriche ed evidenti contraddizioni. Quando lui si declina spudoratamente al femminile sbattendo la propria inclinazione sessuale in faccia a un ambiente ostile lo fa in parte per autentica indignazione contro una situazione repressiva che non gli permette di esprimersi come gli sarebbe naturale, ma anche per l’intimo piacere di dare scandalo e soprattutto, come apertamente lui stesso palesa più di una volta, per un’irrefrenabile necessità di soddisfare uno smisurato narcisismo («L’esibizionismo è in effetti una droga. Iniziato da adolescente ero arrivato a dosi che avrebbero ucciso un principiante»). John Hurt nel ruolo di Quentin Crisp, offre qui una delle sue performance più intense e riuscite, di tal livello da portarlo a vincere nel 1976 l’ambitissimo premio BAFTA quale miglior attore protagonista. La storia tramanda che il film fece di Quentin Crisp un’autentica icona del Movimento Gay nei Paesi anglosassoni (anche se nell’era dell’AIDS entrò in polemica con molti attivisti e associazioni omosessuali), che negli USA divenne una vera e propria star nello showbiz, e non solo nel mondo gay, con personali one-man-show teatrali e partecipazioni in veste di opinion leader a numerosi programmi televisivi. Fu 163


CULT MOVIE – GAMeCINEMA

anche protagonista di importanti progetti cinematografici come il celebre Orlando di Sally Potter, dove interpretò in vesti femminili il ruolo della Regina Elisabetta I d’Inghilterra. In campo letterario continuò a raccontare la propria vita in tre successivi libri autobiografici How to Become a Virgin Again (1981), How to Go to the Movies (1988) e Resident Alien: The New York Diaries (1996) che servirono d’argomento per il biopic Englishman in New York girato nel 2009 da Richard Laxton, ancora una volta interpretato da John Hurt (reperibile attualmente su YouTube). Nell’ultimo dei volumi aveva scritto di aver «fatto un patto con l’attrice Penny Arcade per vivere fino a cent’anni, con dieci anni di sconto per buona condotta». E in effetti la morte lo colse a un solo mese dal novantunesimo compleanno nel 1999, sull’odiato suolo inglese. Secondo il suo desiderio venne cremato e le sue ceneri furono disperse nel cielo di Manhattan. «Ormai non solo sono un orologio fermo... sono un vecchio orologio fermo! I simboli che avevo adottato quarant’anni fa per esprimere il mio tipo sessuale sono diventati ora l’uniforme di tutti i giovani. Sono un sopravvissuto e ho avuto qualche lieto momento».

Dal 2005, e continuativamente fino al 2011, Bergamo Film Meeting ha collaborato alla valorizzazione del Fondo Cinematografico Nino Zucchelli all’interno del progetto GAMeCinema (GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo), presentando percorsi e retrospettive che hanno contribuito a consolidare l’esistente legame tra cinema e arte. I film del Fondo Zucchelli, entrati ufficialmente a far parte delle collezioni permanenti del museo nel 1999, donati dalla signora Lina Zucchelli Valsecchi (nipote di Nino Zucchelli), rappresentano una felice eccezione nel panorama museale italiano e possono essere a buon diritto considerati un patrimonio unico e raro. Nel corso delle precedenti edizioni sono stati protagonisti il cinema d’animazione anni Sessanta, la Nová vlna cecoslovacca, i maestri della cinematografia polacca (Jerzy Skolimoski e Krysztof Zanussi), Boris Barnet, le avanguardie della sperimentazione statunitense e tedesca (O.K. End Here di Robert Frank e Nicht versöhnt di Straub-Huillet), i “finlandesi ribelli” degli anni Settanta (Erkko Kivikoski e Sakari Rimminen) e, infine, il documentario d’arte con A Sculpture’s Landscape – Henry Moore di John Read e Jeu d’echecs avec Marcel Duchamp di Jean-Marie Drot. Quest’anno Bergamo Film Meeting e GAMeCinema riprendono la collaborazione con un cult movie “dimenticato”, The Naked Civil Servant: una copia “da festival”, in pellicola in bianco e nero, che vinse il Gran Premio alla XXI Mostra Internazionale del Film d’Autore, Sanremo 1978 (ex aequo con La vocation suspendue di Raoul Ruiz) – festival ideato e diretto dallo stesso Nino Zucchelli.

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Jack Gold

THE NAKED CIVIL SERVANT Gran Bretagna, 1975, 77’, bn

IL FUNZIONARIO NUDO A vent’anni, Denis Charles Pratt lascia la casa di famiglia nel Surrey, cambia il nome in Quentin Crisp e si trasferisce a Londra. Da sempre consapevole della sua omosessualità, comincia a frequentare i caffè di Soho e a sperimentare trucco e vestiti da donna. Il suo aspetto insolito, con i capelli tinti di cremisi, le unghie laccate, le sciarpe vezzose, desta l’ammirazione e la curiosità di certi ambienti, ma al tempo stesso l’ostilità (e talvolta la violenza) di chi lo incontra per strada. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Crisp tenta di arruolarsi nell’esercito, ma viene respinto dalla commissione medica sulla base di “perversioni sessuali”. Quando iniziò a posare come modello dal vivo in alcune scuole d’arte londinesi, scrisse nella sua autobiografia: «Era come essere un maggiordomo; solo che ero nudo». Il regista Jack Gold tratta la materia con gusto, discrezione e un generoso supplemento di umorismo. Agli occhi di un osservatore contemporaneo potrebbe oggi sembrare bizzarro che la cosa fosse ritenuta offensiva per la morale pubblica; ma ricordiamo che il mondo era un posto diverso nel 1975. Non pochi abbonati del Public Broadcasting Service (network televisivo statunitense, ndr) minacciarono di ritrattare il proprio abbonamento quando questo film tv britannico fu presentato ai telespettatori americani nella primavera di quell’anno. Fortunatamente, molti altri erano disposti a vedere oltre la controversa natura del film, godendosi l’eccellenza della produzione e del cast tecnico e artistico. E non a caso uno dei più grandi e influenti fan del film fu proprio Milton Berle. Carl Davis, conosciuto per le sue partiture sinfoniche su film muti, è l’autore delle musiche. John Hurt, di lì a poco, avrebbe avuto altre controversie per la sua partecipazione in un altro film drammatico inglese poi trasmesso dalla PBS, nei panni dello psicotico Caligola nella miniserie tv di Herbert Wise I, Claudius.

Regia Jack Gold Soggetto dall’autobiografia The Naked Civil Servant di Quentin Crisp Sceneggiatura Philip Mackie Fotografia Mike Fash Montaggio Mike Taylor Scenografia Allan Cameron Costumi Martin Baugh Musica Carl Davis Interpreti John Hurt (Quentin Crisp), Stanley Lebor (Mr. Pole), Katherine Schofield (Mrs. Pole), Colin Higgins (Thumbnails), John Rhys-Davies (Barndoor), Stephen Johnstone (Quentin Crisp da giovane), Antonia Pemberton (Mrs. Longhurst), Patricia Hodge (l’insegnante di ballo) Produttore Barry Hanson Produzione Thames Television Prima diffusione televisiva Independent Television

(Hal Erickson, www.nytimes.com) Filmografia essenziale The Brief (tv series, 2004) Der Fall Lucona (Intrigo in alto mare, 1993) Escape from Sobibor (Fuga da Sobibor, tv, 1987) Little Lord Fauntleroy (Il piccolo lord, tv, 1980) The Medusa Touch (Il tocco della medusa, 1978) Aces High (La battaglia delle aquile, 1976) The Naked Civil Servant (Il funzionario nudo, tv, 1975) Who? (Who? L’uomo dai due volti, 1973) The Reckoning (1970) My Father Knew Lloyd George (tv, 1965)

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IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

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IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

ANGELO SIGNORELLI

QUE RESTE-T-IL DE NOS AMOURS... La retrospettiva dedicata al polar francese si compone di una ventina di film, prodotti tra l’inizio degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta: un periodo in cui questo genere, che pesca nel poliziesco e nel noir, nasce e si forma, prendendo strade proprie rispetto al cinema americano, sua fonte primaria di ispirazione. Il polar è una palestra per autori come Clouzot, Decoin, Melville, Sautet: ognuno ci mette la sua personalità, il suo stile, la sua visione del mondo. Le fonti letterarie sono molteplici, i riferimenti tra i più vari: nessun film, in particolare, si chiude entro schemi predefiniti. C’è molta autonomia espressiva: le atmosfere cambiano, così come le ambientazioni, i personaggi, le storie. Il polar non traduce, come è il caso del noir d’Oltreoceano, lo stato d’animo di una nazione in un periodo difficile, le paure collettive, i traumi sociali. Forse non si può neanche parlare di un genere vero e proprio, perché elementi tipici, fortemente caratterizzanti, non sono così presenti da costituire una cornice espressiva obbligata. Parigi, la metropoli, la si vede a volte, ma è sempre la ville lumière, con i suoi monumenti riconoscibili, le fila di tetti dai comignoli inconfondibili, le portinerie, gli androni, le piazzette, i bistrot, i taxi, i café-chantant; è difficile che tutto ciò riesca a disegnare itinerari da incubo. Parigi non sarà mai una “città nuda”, opprimente, criminale, desolata, alienante. Piuttosto, sono le periferie, i terrain vague, la provincia, che incutono qualche paura, ma anche qui c’è sempre qualcosa che ci parla della Francia, qualche personaggio che allenta la tensione, un po’ di vita quotidiana, qualche segno noto – un pastis, una zuppa di cipolle, la baguette, una canzonetta, una giarrettiera; e il bavardage, perché i francesi non stanno mai zitti. Non ci sono figure femminili che possono essere definite delle dark lady, quelle con l’abito provocante e kitch, lo sguardo seducente e penetrante, il primo piano avvolto da una luce artificiale, i gioielli che luccicano, le labbra volitive, il trucco esagerato: nel polar l’abbigliamento è sobrio, il tailleur e il soprabito sono quelli che indossano le persone comuni, come comuni sono le pettinature, le leggere tracce di rossetto, i ritocchi agli occhi. Poche sono le donne di mondo, ma siamo nel Paese dell’alta moda, quella che veste con raffinatezza, che valorizza il portamento, che ammalia con discrezione. E c’è la cocotte, esuberante, disinvolta, che è un po’ soubrette, ma quando si mette a cantare, tra i tavoli e in mezzo agli avventori, ti strappa i sentimenti, ti racconta la tristezza, il languore, l’orgoglio, la dignità: ti racconta un’intera nazione. I personaggi maschili non sono mai tutti d’un pezzo, a parte la feccia e la bassa manovalanza, o gli arrivati, chiusi nella loro durezza e spietati, che temono di ritornare nelle fogne e ricadere nella povertà: un passato che rinnegano e un presente che difendono a qualsiasi costo. Sono già condannati dall’aspetto, dalla banalità, dall’idiozia. Gli altri no, sono vulnerabili, malati, incoscienti, delusi, feriti, leali, impacciati, paterni, dubbiosi; sono anche intelligenti, metodici, risoluti a portare a termine il piano. Restano fuori della legge, un po’ romantici, un po’ disincantati, ma, il più delle volte, si rivelano superiori ai poliziotti che indagano su di loro o che gli girano attorno, nella speranza di un passo falso. La commedia: ci passano quasi tutti, perché la vita è fatta così, è un misto di tragedia, di dramma, di comico, di assurdo. La strada, il quartiere, i bambini, i baristi, le portinaie, i pensionati, le mogli che brontolano, i mariti che sbuffano: si intrufolano ovunque nelle trame che narrano di omicidi, fughe, violenze, furti, ricatti, commerci illegali. Sono un baluardo al male e una nota di colore, proprio perché portatori di una simpatica e innocua trasgressività e di una moralità elastica, che sa captare la generosità e percepisce il sentimento oltre le apparenze. Sono loro i veri salvatori della patria, le peuple, uomini e donne inossidabili, comparse essenziali perché senza di loro la storia non ha sapore, è insipida: individui tra lo scanzonato e l’arguto, che sanno prendere la vita per quello che è. I film della rassegna sono costruiti su sceneggiature robuste, su dialoghi di consumata maestria, sono commistioni feconde di cinema e letteratura; hanno valorizzato attori del calibro di Serge Reggiani, Jean-Paul Belmondo, Louis Jouvet, Bernard Blier, Jean Desailly, Lino Ventura, Pierre Fresnay. Il polar continua a sfornare storie anche nei decenni successivi, durante i quali non sfugge, però, a una certa ripetitività, e tracce evidenti rimangono nel cinema contemporaneo. Nell’estesa filmografia del volume monografico, pubblicato a parte, ci sono le tracce per ricostruire una storia che va dalle origini del cinema fino ai nostri giorni.

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Georges Lacombe

LE DERNIER DES SIX Francia, 1941, 90’, bn

Regia Georges Lacombe Soggetto dal romanzo Six hommes morts di Stanislas-André Steeman Sceneggiatura Henri-Georges Clouzot Fotografia Robert Lefebvre Scenografia Andrej Andrejew Musica Jean Alfaro Suono William-Robert Sivel Interpreti Pierre Fresnay (il commissario Wenceslas Voroboetchik, detto Wens), Michèle Alfa (Lolita), Suzy Delaire (Mila Malou), Jean Tissier (Tignol), André Luguet (Senterre) Produttore Alfred Greven Produzione Continental Films

L’ULTIMO DEI SEI Sei amici decidono di dividere una forte somma vinta al gioco, andarsene ciascuno per proprio conto a far rendere la propria parte e, di lì a cinque anni, ritrovarsi per spartire il ricavato. Adesso che la scadenza si sta avvicinando, uno di loro viene assassinato, poi un altro, e un altro ancora. Al commissario Wenceslas Voroboetchik, detto Wens, viene affidato il caso. Wens deve scontrarsi con le reticenze dei quattro sopravvissuti, che però vengono meno quando al terzo omicidio. Non molti ricordano che prima del grande classico L’assassino abita al 21 c’era stato, a precederlo di appena un anno, L’ultimo dei sei. I due film condividono molte cose, dallo scherzoso gioco fra il lato umoristico e l’intreccio poliziesco, alle due vedette Pierre Fresnay (nei panni dell’insolito commissario dal chilometrico cognome e dal fare paziente ma determinato) e Suzy Delair (in quelli della capricciosa cantante sua compagna di avventure). La storia, adattata da un romanzo dello scrittore belga Steeman che a sua volta propone una trama alla Rex Stout, più che alla Agatha Christie, è sviluppata senza troppe sorprese a livello di regia. Georges Lacombe dirige con mano piuttosto classica, Ma è un classicismo nel miglior senso del termine, dal momento che la sceneggiatura di HenriGeorges Clouzot, che poi scriverà e dirigerà personalmente L’assassino abita al 21, è elegante, ben calibrata, piena di gustose situazioni, con una capacità particolare, fra l’altro, nell’aggirare i divieti della censura cinematografica di Vichy. (Honorine Vendroux, Pierre Fresnay, un grand acteur en noir et blanc, «La Gazette de Bayeux», 28 gennaio 2003)

Filmografia essenziale Mon coquin de père (A Parigi in vacanza, 1958) La lunière d’en face (I tuoi occhi bruciano, 1955) Leur dernière nuit (L’ultima notte, 1953) La nuit est mon royaume (La notte è il mio regno, 1951) Martin Roumagnac (Turbine d’amore, 1946) Le dernier des six (L’ultimo dei sei, 1941) Les musiciens du ciel (Melodie celesti, 1940) Derrière la façade (Dietro la facciata, 1939) Un coup de téléphone (Cercasi amante, 1932) Boule de gomme (1931)

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Henri-Georges Clouzot

L’ASSASSIN HABITE AU 21 Francia, 1942, 84’, bn

L’ASSASSINO ABITA AL 21 Un misterioso assassino terrorizza Parigi. È inafferrabile, e sulle sue vittime lascia sempre un biglietto da visita firmato Monsieur Durand. Il commissario Wenceslas Voroboetchik, detto Wens, incaricato delle indagini, segue delle tracce che lo portano alla pensione “La Mimose”. Qui la rosa dei sospettati si riduce, ma sembrano avere tutti degli alibi di ferro. Con l’aiuto della fidanzata Mila Malou, che sta cercando di sfondare nel mondo dello spettacolo, Wens scopre chi è l’assassino, e come ha fatto a costruirsi degli alibi così inattaccabili. Più che per l’enigma, Clouzot si interessò al soggetto tratto dal romanzo di Steeman per la definizione di ciascuno dei suoi personaggi, per la constatazione che, in determinate circostanze, siamo colpevoli o potremmo esserlo, al di là del fatto che gli atti classificabili come delitto siano commessi da “altri”. Questa, che sarà l’idea sottintesa in maggiore o minore misura in tutti i suoi film, è già la predominante che segna il suo debutto alla regia di lungometraggi e che, all’interno dei limiti imposti da un film “su commissione”, preannuncia non solo i suoi temi principali, ma anche la sua concezione personale dello stile, attraverso un chiaroscuro a volte estremamente ad effetto, a volte rimandante all’espressionismo tedesco. Una scuola dalla quale rimase influenzato durante i suoi anni di soggiorno a Berlino, anni in cui la formula stava già passando un po’ di moda in campo cinematografico, ma rimaneva in auge nelle arti plastiche, da sempre al centro dell’interesse di Clouzot. (Cesar Santos Pontenla, El misterio Clouzot o El salario del miedo ajeno, XXIII Festival Internacional de Cine de San Sebastián, San Sebastián 1975)

Regia Henri-Georges Clouzot Soggetto dal romanzo di Stanislas-André Steeman Sceneggiatura Henri-Georges Clouzot, Stanislas-André Steeman Fotografia Armand Thirard Montaggio Christian Gaudin Scenografia Andrej Andrejew Musica Maurice Yvain Suono William-Robert Sivel Interpreti Pierre Fresnay (il commissario Wenceslas Voroboetchik, detto Wens), Suzy Delaire (Mila Malou), Jean Tissier (Lalah-Poor), Pierre Larquey (Collin), Noël Roquevert (il dottor Théodore Linz), Odette Talazac (Mme Point), Marc Natol (Armand), Louis Florencie (il commissario Monet) Produttore Alfred Greven Produzione Continental Films

Filmografia [1] Manon (id., 1948) Quai des Orfèvres (Legittima difesa, 1947) Le corbeau (Il corvo, 1943) L’assassin habite au 21 (L’assassino abita al 21, 1942) Caprice de princesse [co-regia Karl Hartl] (1934) Tout pour l’amour [co-regia Joe May] (1933) La terreur des Batignolles (short, 1931)

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Christian-Jaque [Christian Maudet]

UN REVENANT Francia, 1946, 100’, bn

Regia Christian-Jaque [Christian Maudet] Soggetto Henri Jeanson Sceneggiatura Henri Jeanson, Christian-Jaque, Louis Chavance Fotografia Louis Page Montaggio Jacques Desagneaux, Raymonde Lejeune Scenografia Pierre Marquet Costumi Germaine Lecomte, Karinsky Musica Arthur Honegger Suono Jean Rieul Interpreti Louis Jouvet (Jean-Jacques Sauvage), Gaby Morlay (Geneviève Gonin), François Périer (François Nisard), Jean Brochard (Jérôme Nisard), Ludmilla Tchérina (Karina), Marguerite Moreno (zia Jeanne), Armand Lurville (il commissario), Arthur Honegger (se stesso) Produttore Edouard Carles Produzione Compagnie Franco-Coloniale Cinématographique

Filmografia essenziale La vie parisienne (1977) La Tulipe Noire (Il Tulipano Nero, 1964) La loi, c’est la loi (La legge è legge, 1968) Madame du Barry (Madame du Barry, 1954) Fanfan la Tulipe (Fanfan la Tulipe, 1952) Barbe-Bleue (Barbablù, 1951) La Chartreuse de Parme (La Certosa di Parma, 1947) Un revenant (Lo spettro del passato, 1946) La symphonie fantastique (Delirio d’amore, 1942) Le bidon d’or (1932)

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LO SPETTRO DEL PASSATO Jean-Jacques Sauvage, direttore di una celebre compagnia di balletto, torna a Lione, sua città natale, per mettere in prova il suo nuovo spettacolo prima del debutto a Parigi. La sua presenza in città gli offre l’occasione per vendicarsi di un torto subito in gioventù, quando il suo amore per Geneviève fu bruscamente interrotto dal geloso fratello di lei, Jérôme. Prima seduce la donna, per poi abbandonarla, poi spinge quasi al suicidio François, il figlio di Jérôme. Colpito dalla sincerità di François, tuttavia, Jean-Jacques ferma la sua vendetta. Ritrovare l’immenso Jouvet è sempre un grande piacere, tanto sa veicolare a sé un intero universo di sentimenti ed emozioni. Tutti gli attori provenienti dalla Comédie Française sanno essere sempre eccellenti, e Jouvet non fa eccezione; ma anche Marguerite Moreno non è male, come pure è notevole il giovane François Périer nella parte del babbeo. Lo spettro del passato è un buon dramma con venature polar. Merito della suggestiva fotografia di Louis Page, ma anche e soprattutto dei dialoghi spirituali e allo stesso tempo feroci di Henri Jeanson, che da par suo sa rendere senza eccessive sbavature né sovratoni i tormenti di un uomo ferito nei sentimenti e allo stesso tempo assetato di vendetta. Se come costruzione la prima parte pare un po’ lenta, la seconda decolla notevolmente, grazie anche al mélange fra la storia narrata e il balletto in allestimento (da notare che il compositore svizzero Arthur Honegger, autore anche della colonna sonora del film, appare qui nella parte di se stesso). (Bertrand Bloch, Le revenant qui danse, «L’Écho Lyonnais», 20 ottobre 1946)


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Henri Decoin

LA FILLE DU DIABLE Francia, 1946, 105’, bn

LA FIGLIA DEL DIAVOLO [t.l.] In fuga dalla polizia, il gangster Saget trova rifugio in un paesino, dove si fa passare per Mercier, un uomo che ha fatto fortuna negli Stati Uniti. Sotto queste spoglie, riesce a ingannare tutti tranne il medico del posto e Isabelle, una ragazza dal temperamento selvaggio. Ben presto, Saget si accorge di essere l’oggetto dell’ammirazione di Isabelle. Credutasi respinta, Isabelle lo denuncia; Saget si arrende senza opporre resistenza. Per la ragazza, sarà ancora più forte la delusione di vedere il suo idolo arrendersi senza combattere. Un film piuttosto interessante, quest’ultimo con Fresnay. Prima di tutto per l’ambientazione: una vicenda criminale calata nell’insolita cornice di un piccolo villaggio; gli spostamenti a cavallo, anziché in automobile, sono piuttosto atipici per un film che abbia un gangster come protagonista. È gestito benissimo anche l’equilibrio fra i due tipi di destini che sembrano porsi di fronte ai protagonisti, uno positivo e l’altro tragico: sembrerà di no, ma in questi casi è difficile non cadere nel didascalico. In un certo senso Saget, il personaggio interpretato da Fresnay, va incontro a entrambi questi due destini, anche se si può capire già fin dall’inizio quale sarà la sua sorte. Decoin, che come sempre dirige e scrive anche la sceneggiatura, ha portato brillantemente sullo schermo in precedenza due libri di Simenon, Gli intrusi e L’uomo di Londra. Pure qui dimostra di aver fatto tesoro dell’insegnamento del papà di Maigret, anche se La fille du diable non è tratto da Simenon.

Regia Henri Decoin Sceneggiatura Henri Decoin, Alex Joffé, Marc-Gilbert Sauvajon Fotografia Armand Thirard Montaggio Annick, Charles Bretoneiche Scenografia Raymond Négre, Henri Sonois Musica Henri Dutilleux Interpreti Pierre Fresnay (Ludovic Mercier/Saget), Andrée Clément (Isabelle), Fernand Ledoux (il dottore), Thérèse Dorny (zia Hortense), Albert Rémy (Clément), Paul Frankeur (l’albergatore) Produzione Pathé Consortium Cinéma, Safia, Société Nouvelle Pathé Cinéma

(Anselme Le Goff, Ciné critique: La fille du diable, «Le Nouvel Fécampois», 19 aprile 1946)

Filmografia essenziale [1] La fille du diable (1946) Je suis avec toi (Io sono con te, 1943) L’homme de Londres (1943) Le bienfaiteur (Amore proibito, 1942) Les inconnus dans la maison (Gioventù traviata, 1942) Battements de cœur (Piccola ladra, 1940) Retour à l’aube (Ritorno all’alba, 1938) Abus de confiance (L’intrusa, 1937) Mademoiselle ma mére (La signorina mia madre, 1937) Je vous aimerai toujours (1933)

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Henri-Georges Clouzot

QUAI DES ORFÈVRES Francia, 1947, 106’, bn

Regia Henri-Georges Clouzot Soggetto dal romanzo Légitime défense di StanislasAndré Steeman Sceneggiatura Henri-Georges Clouzot, Jean Ferry Fotografia Armand Thirard Montaggio Charles Bretoneiche Scenografia Max Douy Costumi Jacques Fath Musica Francis Lopez Suono William-Robert Sivel Interpreti Louis Jouvet (l’ispettore aggiunto Antoine), Bernard Blier (Maurice Martineau), Suzy Delair (Margueritre Chauffornier Martineau, detta Jenny Lamour), Simone Renant (Dora Minier), Charlie Dullin (Georges Brignon), René Blancard (il commissario capo della Polizia Giudiziara) Produttori Roger De Vanloo, Louis Wipf Produzione Majestic Films

Filmografia [2] La prisonnière (La prigioniera, 1968) La vérité (La verità, 1960) Les espions (Le spie, 1957) Le mystère Picasso (Il mistero Picasso, 1955) Les diaboliques (I diabolici, 1954) Le salaire de la peur (Vite vendute, 1953) Miquette et sa mère (Un marito per mia madre, short 1949) Retour à la vie (Ritorna la vita, 1949)

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LEGITTIMA DIFESA La giovane cantante Jenny Lamour ultimamente ha preso a servirsi del suo fascino per ottenere favori da un certo Brignon, un anziano signore tanto libidinoso quanto influente. Maurice, il marito della donna, in un attacco di gelosia pronuncia delle minacce a Brignon. In effetti, di lì a poco Maurice decide di mettere in atto le sue parole: si crea un alibi, e si reca dall’odiato rivale, trovandolo però già ucciso. Quello che Maurice non sa è che sua moglie, stanca delle avances di Brignon, l’ha tramortito con una bottiglia di champagne, e adesso è convinta di avere una qualche responsabilità nella sua morte. Per l’ispettore Antoine, incaricato dell’indagine, si prospetta una bella matassa da dipanare. Già in Il corvo la scoperta del colpevole era poca cosa in confronto alla profondità e alla ricchezza dell’opera. Questa volta Clouzot tira fuori dalla manica l’assassino nel momento più conveniente. In realtà quello che gli interessa veramente è realizzare una specie di documentario sulla Polizia Giudiziaria e tratteggiare una serie di ritratti. [...] Legittima difesa è sicuramente un film noir, il mondo rappresentato non è certo più luminoso che negli altri film di Clouzot, eppure è pervaso da una grande umanità, c’è persino un’autentica tenerezza. Tenerezza tra gli sposi Martineau, tra Antoine e il bambino adottivo al quale ha già comprato il Meccano promesso in caso di successo all’esame, tra Antoine e la fotografa Dora, forse il personaggio più commovente. Magistralmente interpretata da Simone Renant, Dora è segretamente innamorata di Jenny, ma nessuno lo capisce, tantomeno Jenny. «Lei è un tipo che potrebbe andar bene a me... non avrà mai fortuna con le donne», le dice in tono scherzoso Antoine, che ha capito tutto di lei. (Pascal Mérigeau, Clouzot, le vertigini della paura, Catalogo di France Cinéma, Il Castoro, Firenze 1998)


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Henri Decoin

NON COUPABLE Francia, 1947, 95’, bn

CONDANNATEMI! Sentendo addosso il peso della scarsa stima che nutre per lui la comunità in cui vive, il dottor Ancelin ha un serio problema con la bottiglia. I colleghi lo disprezzano, la compagna lo tradisce, ma lui non sembra voler reagire: più sente lo sguardo di disapprovazione di chi gli sta intorno, più si abbandona all’alcol. Una notte, ubriaco, investe accidentalmente un uomo, uccidendolo. L’incidente rimane impunito, e Ancelin comincia a nutrire progetti di rivalsa. [contiene spoiler]

Decoin descrive efficacemente, in Condannatemi!, il determinismo sociale che vuole che un poveraccio abbia più chances rispetto agli altri d’essere accusato a torto di un crimine. Nel 1975 Elio Petri riprenderà esattamente la stessa tematica, portandola a un ulteriore livello, con Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Michel Simon, grandioso, conferisce tutta la sua umanità a questo ubriacone che, passando attraverso tutti gli stati d’animo possibili nel corso del film, finisce come un dottor Jekyll completamente orrorificato da quello che ha scoperto della propria personalità. L’allusione al romanzo di Stevenson è nettamente marcata da Decoin, che mostra bene le due facce contrapposte del dottor Ancelin, capace di muovere cielo e terra per curare la figlioletta di una cliente senza soldi, e al tempo stesso di uccidere in preda alla follia un collega che ritiene colpevole della sua decadenza.

Regia Henri Decoin Sceneggiatura Marc-Gilbert Sauvajon Fotografia Jacques Lemare Montaggio Annick Millet Scenografia Emile Alex Musica Marcel Stern Suono Robert Teisseire Interpreti Michel Simon (il dottor Michel Ancelin), Jany Holt (Madeleine Bodin), Jean Debucourt (l’ispettore Chambon), Ariane Muratore (la madre), Jean Wall (il dottor Dumont), François Joux (il tenente Louvet) Produttori Georges Dancingers, Alexandre Mnouchkine Produzione Les Films Ariane

(soniadidierkmurgia, www.allocine.fr, 24 marzo 2012)

Filmografia essenziale [2] L’affaire des poisons (Il processo dei veleni, 1955) Razzia sur la Chnouf (La grande razzia, 1955) Quattro donne nella notte (Bonnes à tuer, 1954) Dortoir des grandes (Il dormitorio delle adolescenti, 1953) Les amants de Tolède (Gli amanti di Toledo, 1952) La vérité su Bébé Donge (La follia di Roberta Donge, 1952) Le désir et l’amour (Desiderio e amore, 1951) Trois télégrammes (Nulla è dovuto al fattorino, 1950) Entre onze heures et minuit (Tra le undici e mezzanotte, 1949) Non coupable (Condannatemi!, 1947)

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Henri Decoin

ENTRE ONZE HEURES ET MINUIT Francia, 1949, 92’, bn

Regia Henri Decoin Soggetto dal romanzo Le sosie de la morgue di Claude Luxel Sceneggiatura Marcel Rivet, Henri Decoin, Henri Jeanson Fotografia Nicolas Hayer Montaggio Annick Millet Scenografia Émile Alex Costumi Jacques Fath Musica Henri Sauguet Suono William-Robert Sivel Interpreti Louis Jouvet (il commissario Carrel), Madeleine Robinson (Lucienne Lusigny), Robert Arnoux (Fred Rossignol), Léo Lapara (l’ispettore Perpignan), Monique Mélinand (Irma), Gisèle Casadesus (Florence), Robert Vattier (Charlie) Produttore Jacques Roitfeld Produzione Francinex Filmografia essenziale [3] Les parias de la gloire (I disperati della gloria, 1964) Casablanca nid d’espions (Spionaggio a Casablanca, 1963) Le masque de fer (L’uomo dalla maschera di ferro, 1961) La chatte sort ses griffes (La gatta graffia, 1960) Nathalie, agent secret (Pelo di spia, 1959) Pourquoi viens-tu si tard? (Perché sei arrivato così tardi?, 1958) La chatte (La gatta, 1958) Tous peuvent me tuer (Tutti possono uccidermi, 1957) Le feu aux poudres (X3 operazione dinamite, 1957) Folies-Bergères (Un americano alle Folies-Bergères, 1957)

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TRA LE UNDICI E MEZZANOTTE Il commissario Carrel si trova alle prese, nel corso della stessa giornata, con due casi di omicidio: la prima vittima è un avvocato radiato dall’albo, ucciso a casa sua nel tardo pomeriggio; la seconda è invece un trafficante, colpito da tre proiettili fra le undici e mezzanotte. In quest’ultimo caso, Carrel è facilitato dal fatto che lui e la vittima si assomigliano come due gocce d’acqua. Il commissario ne assume quindi l’identità, contattando in successione malavitosi e informatori, nonché i complici e le varie amanti della vittima. A un certo punto, Carrel comincia a sospettare che fra i due omicidi possa esserci un legame. I primissimi minuti di Tra le undici e mezzanotte danno il via a un film irresistibile. Si vede una coppietta appena uscita da un cinema, scettica sull’esistenza dei sosia, che si ritrova faccia a faccia con i propri doppi. Con una citazione a veri film e veri attori: Edward G. Robinson in Tutta la città ne parla e proprio Louis Jouvet in Il signor Alibi! Quando si dice osare. [...] Più che un semplice polar, grazie all’inventiva regia di Decoin e ai sapidi dialoghi di Jeanson, Tra le undici e mezzanotte offre, cosa rara, un eccellente lavoro sul suono: ascoltate con quale cura sono mixate la maggior parte delle scene, soprattutto quelle in cui c’è una finestra aperta. Oltre a Jouvet, un po’ invecchiato ma sempre imperiale, ritroviamo l’efficace Madeleine Robinson, la graziosa Gisèle Casadesus al suo esordio, Robert Vattier nel ruolo del cattivo ragazzo e Léo Lapara, che il suo amico-padrone Jouvet chiama di tanto in tanto “imbecille”. Una vendetta di sceneggiatura di Henri Jeanson, probabilmente. (Julien Morvan, Entre onze heures et minuit, lagedorducinemafrancais.blogspot.fr, 27 ottobre 2012)


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Jules Dassin

DU RIFIFI CHEZ LES HOMMES Francia, 1955, 122’, bn

RIFIFI Debilitato dalla tubercolosi e da cinque anni di galera, e convinto che la sua donna lo abbia tradito, Tony per rifarsi organizza un colpo a una gioielleria assieme agli amici Jo e Mario. Al piano originario, che prevede solo la ripulitura delle vetrine, Tony aggiunge un bersaglio più ambizioso, ovvero la cassaforte. Per questo chiede aiuto a un esperto del settore, l’italiano Cesare. Il colpo riesce oltre ogni aspettativa, ma i quattro devono vedersela con una banda rivale, che intende mettere le mani sul grisbì. I personaggi più intimamente presenti alla fantasia e all’intelligenza del regista (i detenuti di Forza bruta con il loro rabbioso ribellismo, il gangster solitario e disperato di La città nuda, l’altero e sdegnoso Gregorius di I trafficanti della notte) ritornano in Rififi ma in chiave diversa, più dolente e crepuscolare, che si addice alla natura della loro singolare comunità, isolata e declinante. L’intuizione centrale e suggestiva di Rififi è appunto la scoperta, alla luce di una affettuosa e malinconica esaltazione, di una piccola comunità unitaria (unitaria nelle consuetudini e nelle inclinazioni, negli impulsi morali e negli atteggiamenti di solidarietà) che vive ai margini della società e della legge. La forza espressiva del film, non incrina da squilibri e incertezze come avveniva già in Forza bruta ma soprattutto nelle opere successive, scaturisce da una tensione nervosa del racconto, lontana da ogni forma meccanica di suspense, che diviene tensione di stile. (Adelio Ferrero, Jules Dassin, Guanda, Parma 1961)

Regia Jules Dassin Soggetto dal romanzo di Auguste Le Breton Sceneggiatura Jules Dassin, René Wheeler, Auguste Le Breton Fotografia Philippe Agostini Montaggio Roger Dwyre Scenografia Auguste Capelier, Alexandre Trauner, Robert André, Gabriel Paris Costumi Rosine Delamare Musica Georges Auric, Philippe-Gérard Suono Jacques Lebreton Interpreti Jean Servais (Tony, detto “le Stéphanois”), Carl Möhner (Jo, detto “le Suédois”), Robert Manuel (Mario Ferrati), Jules Dassin (Cesare, detto “le Milanais”), Marie Sabouret (Mado), Magali Noël (Viviane), Robert Hossein (Rémy), Claude Sylvain (Ida Ferrati), Marcel Lupovici (Pierre Grutter) Produttori René Bezard, Henri Bérard, Pierre Cabaud Produzione Indus Films, Société Nouvelle Pathé Cinéma, Prima Films

Filmografia essenziale Promise at Dawn (Promessa all’alba, 1970) Topkapi (id., 1964) Phaedra (Fedra, 1961) Pote tin kyriaki (Mai di domenica, 1960) Du rififi ches les hommes (Rififi, 1955) Night and the City (I trafficanti della notte, 1950) Naked City (La città nuda, 1948) Brute Force (Forza bruta, 1947) The Canterville Ghost (Lo spettro di Canterville, 1944) The Tell-Tale Heart (Il cuore rivelatore, 1941)

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Robert Hossein

LES SALAUDS VONT EN ENFER Francia, 1955, 91’, bn

Regia Robert Hossein Soggetto dalla pièce di Frédéric Dard Sceneggiatura Robert Hossein, René Wheeler Fotografia Michel Kelber Montaggio Charles Bretoneiche Scenografia Serge Piménoff Musica André Hossein Suono Lucien Lacharmoise Interpreti Marina Vlady (Éva), Henri Vidal (Pierre Macquart), Serge Reggiani (Lucien Rudel), Jacques Duby (Georges Bagot), Robert Dalban (Jérôme), Robert Hossein (Fred), Marthe Mercadier (Germaine), Guy Kerner (il pittore), Lucien Raimbourg (il capo guardiano) Produttore Jules Borkon Produzione Champs-Élysées Productions

Filmografia essenziale Le caviar rouge (1986) Les misérables (I miserabili, 1982) Une corde, un Colt... (Cimitero senza croci, 1969) J’ai tué Raspoutine (Addio Lara, 1967) Le vampire de Düsseldorf (La belva di Düsseldorf, 1965) La mort d’un tueur (Concerto per un assassino, 1964) Le jeu de la vérité (Il gioco della verità, 1961) La nuit des espions (La notte delle spie, 1959) Toi, le venin (Nella notte cade il velo, 1958) Les salauds vont en enfer (Gli assassini vanno all’inferno, 1955)

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GLI ASSASSINI VANNO ALL’INFERNO Stufi della vita carceraria, e temendo un regolamento di conti, Pierre Macquart e Lucien Rudel evadono uccidendo due guardie. Trovano rifugio in un angolo isolato della Camargue, dove scoprono una baracca frequentata da una giovane coppia di amanti. Uccidono senza alcuno scrupolo l’uomo mentre Éva, la sua compagna, usa tutte le sue arti seduttive per far credere ai due assassini di essere dalla loro parte. In realtà lo scopo della donna è di fomentare la gelosia fra di loro, per metterli l’uno contro l’altro e vendicare così la morte dell’amato. Per il suo primo film da regista Robert Hossein sceglie il noir e decide di “giocare in famiglia”. Infatti, il soggetto è tratto da una pièce del suo amico Frédéric Dard, il futuro autore della serie Sanantonio, che a sua volta da questo soggetto ricaverà l’anno dopo anche un romanzo dallo stesso titolo. [...] Gli assassini vanno all’inferno fu un film alquanto audace per i suoi tempi, e gran parte del suo successo fu con tutta evidenza da attribuire a Marina Vlady in versione selvaggia. Nel bel mezzo della natura, bella ma aspra, della Camargue, il suo personaggio sembra emergere dal mare come una nuova Afrodite. La regia di Hossein, supervisionata dal purtroppo bistrattato Georges Lampin, rivela molte buone trovate, come i toni di luce scuri sulla spiaggia o l’uso degli ambienti principali (la prigione, la baracca), mentre la parte carceraria ha un debito con i film noir americani come Forza bruta di Dassin, soprattutto per quanto riguarda l’uso della violenza. (Alexandre Clément, Les salauds vont en enfer, alexandre.clement.over-blog.com, 22 maggio 2014)


IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

Henri Verneuil

LES AMANTS DU TAGE Francia, 1955, 123’, bn

GLI AMANTI DEL TAGO In fuga dalla Francia, dove è stato processato per l’assassinio della moglie, Pierre Roubier si ricicla come tassista a Lisbona. Qui conosce Kathleen Dinver, vedova di un nobile inglese, e se ne innamora. Pierre scopre che la donna è sospettata di non essere estranea alla morte del marito, rimasto apparentemente vittima di un incidente stradale. I due vorrebbero andarsene via per rifarsi una nuova vita altrove, ma sulle tracce della donna c’è Lewis, un ispettore di Scotland Yard, che non intende arrendersi tanto facilmente. Distribuito in Francia nel marzo del 1955, il mélo psicologico Gli amanti del Tago è basato su un romanzo del giornalista, scrittore, editore e futuro accademico di Francia Joseph Kessel, che firma anche la sceneggiatura. Lirica, ma al tempo stesso molto dura e concreta, è una storia d’amore cupa e apparentemente senza speranza, come nella migliore tradizione francese a partire da Il porto delle nebbie. Una storia che nella filmografia di Henri Verneuil, autore tuttora da riscoprire, può sembrare tanto atipica quanto poco conosciuta. Verneuil, regista di solidissimo mestiere e con una certa sua innegabile poetica, restituisce il testo kesseliano con sequenze di struggente bellezza, utilizzando le autentiche ambientazioni portoghesi in modo da farle diventare a tutti gli effetti coprotagoniste, e senza mai cadere nell’effetto cartolina. Daniel Gélin e Françoise Arnoul, nella parte degli amanti dannati, sono efficacissimi, ma la vera sorpresa, il vero valore aggiunto, è Trevor Howard, segugio di profonda, discreta e britannica determinazione. (William H. Branson, Damned Lovers in French Cinema, Part 2: The 40s and the 50s, «The Winnipeg Litterary Monthly», 10 febbraio 1979)

Regia Henri Verneuil Soggetto dal romanzo di Joseph Kessel Sceneggiatura Marcel Rivet, Joseph Kessel Fotografia Roger Hubert Montaggio Christian Gaudin Scenografia Jean d’Eaubonne Musica Michel Legrand Suono Antoine Archimbaud Interpreti Daniel Gélin (Pierre Roubier), Françoise Arnoul (Kathleen Dinver), Trevor Howard (l’ispettore Lewis), Amália Rodrigues (Amália), Marcel Dalio (Porfirio), Ginette Leclerc (Maria), Georges Chamarat (l’avvocato), Reggie Nalder (il direttore dell’albergo), Jean Ozenne (lord Dicson) Produttori Ray Ventura, Jacques Gauthier, Walter Rupp Produzione Entreprise Générale Cinématographique, Hoche Productions

Filmografia essenziale Peur sur la ville (Il poliziotto della brigata criminale, 1975) Le serpent (Il serpente, 1970) Le clan des Siciliens (Il clan dei Siciliani, 1969) Colpo grosso al casinò (Mélodie en sous-sol, 1963) Un singe en hiver (Quando torna l’inverno, 1962) Le président (Il presidente, 1961) La vache et le prisonnier (La vacca e il prigioniero, 1959) Les amants du Tage (Gli amanti del Tago, 1955) Le fruit défendu (Il frutto proibito, 1952) La table aux crevés (1951)

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IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

Denys de La Patellière

RETOUR DE MANIVELLE Francia | Italia, 1957, 118’, bn

Regia Denys de La Patellière Soggetto dal romanzo Ogni cosa ha un prezzo di James Hadley Chase Sceneggiatura Denys de la Patellière, Michel Audiard Fotografia Pierre Montazel Montaggio Georges Alépée Scenografia Paul-Louis Boutié Costumi Tanine Autre Musica Maurice Thiriet Suono Raymond Gaugier Interpreti Michèle Morgan (Hélène Fréminger), Daniel Gélin (Robert Montillon), Bernard Blier (il commissario Plantavin), Peter van Eyck (Éric Fréminger), Michèle Mercier (Jeanne), François Chaumette (Charles Babin), Pierre Leproux (Mr. Boost) Produttore Jean-Paul Guibert Produzione Intermondia Films, Cinematografica Associati

Filmografia essenziale Prêtres interdits (1973) Le tueur (Il commissario Le Guen e il caso Gassot, 1972) Le tatoué (Nemici... per la pelle – Il tatuato, 1968) Du rififi à Paname (Rififi internazionale, 1966) Le tonnerre de Dieu (Matrimonio alla francese, 1965) Le bateau d’Émile (Letto fortuna e femmine, 1962) Un taxi pour Tobruk (Un taxi per Tobruk, 1961) Les grandes familles (Le grandi famiglie, 1958) Retour de manivelle (Delitto sulla Costa Azzurra, 1957) Les aristocrates (1955)

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DELITTO SULLA COSTA AZZURRA Pittore senza un soldo, Robert Montillon una sera soccorre un uomo che ha tentato il suicidio e lo riaccompagna alla sua lussuosa villa di Saint-Jean CapFerrat. L’uomo è Éric Fréminger, un ricchissimo finanziere che, per sdebitarsi, gli offre un posto da autista. Quella stessa notte, Montillon è testimone di una violenta lite fra il suo nuovo capo e la moglie Hélène. Qualche tempo dopo, la donna ordina a Robert di lasciare al più presto la villa. Un gruppo di cineasti francesi, con un gusto evidentemente realistico per il prezzo del peccato e per il fatto che non tutti i matrimoni sono fatti in paradiso, ha trasposto questi due concetti in un’intrigante, sinistra avventura intitolata Delitto sulla Costa Azzurra. Questo film, sebbene sia in qualche maniera parco di misteri, si evolve tuttavia in un melodramma accuratamente costruito e pieno di suspense. Vagamente reminiscente dell’altro recente, superbo thriller francese I diabolici, in quanto a inventiva e tensione non ne ha le stesse ambizioni, ma offre comunque un preciso ritratto d’insieme che rende giustizia a una sceneggiatura abbastanza adulta e le permette di arrivare bene al suo ironico scioglimento. [...] Michèle Morgan, nel ruolo della bionda bella e glaciale, è abbastanza intrigante da incantare anche un misogino, il suo complice Daniel Gélin è stranamente trattenuto. Peter Van Eyck trae il meglio dal ruolo simpatetico del marito votato all’alcolismo e al suicidio da un matrimonio senza amore e dalle macchinazioni dei suoi soci. (A.H. Weiler, Screen: Gallic Thriller; “There’s Always a Price Tag” Bows, «The New York Times», 26 maggio 1958)


IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

Gilles Grangier

ÉCHEC AU PORTEUR Francia, 1958, 86’, bn

SCACCO ALLA MORTE Bastien Sassey si è stancato di fare il corriere della droga, ma un tentativo di uscirne gli si è rivoltato contro: una gang di trafficanti lo costringe ora a consegnare a una banda rivale un apparentemente innocuo pallone. L’oggetto dovrebbe contenere una partita di droga, che però è stata sostituita con dell’esplosivo per fare piazza pulita della concorrenza. Rifiutatosi di farlo, viene ferito a morte. Prima di morire, riesce ad avvertire la polizia che il pallonebomba è finito nelle mani di un ragazzino. Ha così inizio una corsa contro il tempo. Quintessenza del thriller alla francese, Scacco alla morte è tratto da un romanzo del grande autore polar Noël Calef e gode di un MacGuffin (il pallone da calcio che dovrebbe contenere della droga e invece contiene una bomba) degno di un film di Alfred Hitchcock. Se la storia non è per niente nuova, la sua realizzazione al contrario è molto brillante, grazie a una bella fotografia, a degli esterni realistici (interessantissime le strade di Parigi e della sua banlieu com’erano nel 1958) e a una efficace regia. Eccellenti gli attori: Reggiani con la sua perenne aria da cane bastonato, la Moreau ahimé non troppo utilizzata, e soprattutto Paul Meurisse come pacato, inesorabile segugio e Gert Fröbe come impagabile cattivo (e in più c’è Reggie Nalder, qui nel ruolo di Dédé, che due anni prima era già stato l’inquietante cecchino nell’hitchcockiano L’uomo che sapeva troppo). Non mancano i cliché (i genitori divorziati del ragazzino), ma nel complesso l’azione non perde mai di ritmo e il tutto rimane molto godibile.

Regia Gilles Grangier Soggetto dal romanzo di Noël Calef Sceneggiatura Pierre Véry, Noël Calef, Gilles Grangier Fotografia Jacques Lemare, Philippe Brun Montaggio Jacqueline Douarinou Scenografia Robert Gys Musica Jean Yatove Suono René Sarzin Interpreti Paul Meurisse (il commissario Varzeilles), Jeanne Moreau (Jacqueline Tourieu), Serge Reggiani (Bastien Sassey), Simone Renant (Denise Giraucourt), Gert Fröbe (Hans), Louis Arbessier (Bailleul), Albert Dinan (Aldo Varecchi), Reggie Nalder (Dédé) Produttore Lucien Viard Produzione Orex Films

(Albert Hall, The French Connection to Thriller, «The Henley Movie Digest», Vol. XII, No. 10, ottobre 2004)

Filmografia essenziale [1] Le désordre et la nuit (Il vizio e la notte, 1958) Échec au porteur (Scacco alla morte, 1958) Le rouge est mis (Il dado è tratto, 1957) Le sang à la tête (Sangue alla testa, 1956) Gas-oil (I giganti, 1955) La vierge du Rhin (La vergine del Reno, 1953) Le plus joli péché du monde (Il più bel peccato del mondo, 1951) Jo la romance (Sciopero in famiglia, 1949) Le cavalier noir (Il conte nero, 1945) Adémaï bandi d’honneur (1962)

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IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

Gilles Grangier

LE DÉSORDRE ET LA NUIT Francia, 1958, 93’, bn

Regia Gilles Grangier Soggetto dal romanzo di Jacques Robert Sceneggiatura Jacques Robert, Gilles Grangier, Michel Audiard Fotografia Louis Page Montaggio Jacqueline Sadoul Scenografia Robert Bouladoux Costumi Paulette Coquatrix, Marcelle Desvignes Musica Henri Contet, Jean Yatove Suono Jean Rieul Interpreti Jean Gabin (l’ispettore Georges Valois), Nadja Tiller (Lucky Friedel), Danielle Darrieux (Thérèse Marken), Roger Hanin (Albert Simoni), Paul Frankeur (l’ispettore Chaville), Hazel Scott (Valentine Horse), Robert Manuel (Blasco), Robert Berri (Marquis), François Chaumette (il commissario capo Janin) Produttore Lucien Viard Produzione Orx Films

Filmografia essenziale [2] Un cave (1972) Sous le signe du taureau (1969) L’homme à la Buick (1968) L’âge ingrat (Colpo segreto, 1964) La cuisine au beurre (Cucina al burro, 1963) Maigret voit rouge (Maigret e i gangstgers, 1963) Le gentleman d’Epsom (Il re delle corse, 1962) Le cave se rebiffe (Il re dei falsari, 1961) Les vieux de la vieille (Gli allegri veterani, 1960) Archimède, le clochard (1959)

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IL VIZIO E LA NOTTE Simoni, un losco individuo proprietario del locale notturno “L’Œuf”, è stato ucciso. Gli ispettori Valois e Chaville indagano. Nel corso dell’inchiesta, Valois conosce Lucky, figlia di un industriale tedesco, ex amica della vittima e tossicomane, ne prende a cuore la sorte e se ne innamora. Ciò gli procura un biasimo ufficiale, ma Valois non si dà per vinto, identificando la persona insospettabile che forniva la droga sia a Simoni che a Lucky. Il vizio e la notte, quinto film diretto da Grangier con Gabin protagonista dopo La vergine del Reno, I giganti, Sangue alla testa e Il dado è tratto, è un polar che vale sicuramente una visione, prima di tutto perché Gabin qui, come sempre, è grande, e perché tecnicamente è molto ben realizzato, anche se risulta uno dei più spiazzanti, confusi e apertamente complicati film polizieschi mai fatti, soprattutto nell’ultima mezz’ora. Il che di per sé non è necessariamente un difetto, basti pensare al classico di dieci anni prima Il grande sonno di Hawks. [...] Una curiosità. Nel pressbook americano del film (uscito negli USA con il doppio titolo Night Affair e Disorder and the Night), è riportata la seguente frase di Max Ophuls, che aveva già diretto le due vedettes nel suo Il piacere: «Nel mondo del cinema ci sono solo due persone per le quali la macchina da presa non esiste, Jean Gabin e Danielle Darrieux. Non recitano i loro ruoli di fronte alla camera. Semplicemente, entrano nei loro personaggi e li vivono con sconcertante facilità». (Charles Zigman, World’s Coolest Movie Star. The Complete 95 Films (and Legend) of Jean Gabin, Vol. 2, Allenwood Press, Los Angeles 2008)


IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

Édouard Molinaro

LE DOS AU MUR Francia, 1958, 93’, bn

SPALLE AL MURO Sconvolto dal tradimento dell’amatissima moglie Gloria, l’industriale Jacques Decrey elabora un piano per vendicarsi: la ricatta utilizzando un falso nome, poi le fa credere che il mandante del ricatto sia il suo stesso amante, Yves Normand. Gloria tenta il suicidio ma è Yves, che ha cercato di fermarla, a rimanere accidentalmente ucciso. Per evitare problemi, Jacques mura il cadavere nella sua fabbrica. Sembrerebbe tutto a posto, se non fosse che Gloria scopre il complotto del marito... C’è dell’Hitchcock, della Patricia Highsmith e persino, se si vuole, un pizzico di Boileau e Narcejac in questo Spalle al muro dell’esordiente Édouard Molinaro. Certo, se si è reduci come il sottoscritto da lavori di ristrutturazione della propria casa, forse non è la storia più indicata per passare una serata di tutto relax (i lavori, si sa quando iniziano...). Ma se volete un polar di classe, con personaggi abbastanza malati, atmosfere abbastanza torbide, uno svolgimento abbastanza teso, ecco il film che fa per voi. Efficace a livello di scrittura (tratto da un romanzo di Frédéric Dard, gode degli ineffabili dialoghi di Michel Audiard), con un bianco e nero calmo, freddo e avvolgente, Spalle al muro ha un avvio lento, quasi da film muto che, di colpo di scena in colpo di scena, conduce lo spettatore verso strade totalmente inattese. Ambigua quanto radiosa Jeanne Moreau, in un ruolo più da vittima che da femme fatale. (Jean-Jacques Charpentier, Cette semaine, à l’écran: “Le dos au mur”, «Le Renard Desanchaîné», 9 marzo 1958)

Regia Édouard Molinaro Soggetto dal romanzo Délivrez-nous du mal di Frédéric Dard Sceneggiatura Frédéric Dard, Michel Audiard, Édouard Molinaro, Jean Redon, François Chavane, Jean-Louis Roncoroni Fotografia Robert Lefebvre Montaggio Monique Isnardon, Robert Isnardon Scenografia Georges Lévy Costumi Lucienne Magot, Renée Pellemoine Musica Richard Cornu Suono Jacques Thibault, Pierre-André Bertrand Interpreti Gérard Oury (Jacques Decrey), Jeanne Moreau (Gloria Decrey), Philippe Nicaud (Yves Normand), Jean Lefebvre (Mauvin), Claire Maurier (Ghislaine), Colette Renard (Josiane Mauvin), Robert Le Béal (l’avvocato Lombard), Pascal Mazzotti (Jérôme) Produttore Alain Poiré Produzione Société Nouvelle des Établissements Gaumont

Filmografia essenziale [1] Hibernatus (Louis de Funès e il nonno surgelato, 1969) Mon oncle Benjamin (Mio zio Beniamino, 1968) Oscar (Io due figlie e tre valigie, 1967) Peau d’espion (Congiura di spie, 1967) La chasse à l’homme (Caccia al maschio, 1964) Une ravissante idiote (Un’adorabile idiota, 1964) Les ennemis (Codice segreto, 1962) La mort de Belle (Chi ha ucciso Bella Sherman!, 1961) Un témoin dans la ville (Appuntamento con il delitto, 1959) Le dos au mur (Spalle al muro, 1958)

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Jean-Pierre Melville

DEUX HOMMES DANS MANHATTAN Francia, 1959, 84’, bn

Regia, sceneggiatura Jean-Pierre Melville Fotografia Nicolas Hayer Montaggio Monique Bonnot Scenografia Daniel Guéret Costumi Beatrice Dawson Musica Christian Chevalier, Martial Solal Suono Jacques Gallois Interpreti Jean-Pierre Melville (Moreau), Pierre Grasset (Delmas), Christiane Eudes (Anne), Ginger Hall (Judith Nelson), Jean Darcante (Rouvier), Colette Fleury (Françoise Bonnot), Monique Hennessy (Gloria), Jean Lara (Aubert) Produttori Florence Melville, Alain Térouanne Produzione Belfort Films, Alter Films

LE JENE DEL QUARTO POTERE New York. Fèvre-Berthier, delegato francese alle Nazioni Unite ed eroe della Resistenza, è scomparso. Due giornalisti, Moreau e Delmas, si mettono sulle sue tracce, facendo il giro delle amanti frequentate dall’uomo. Infatti lo ritrovano, morto d’infarto, presso una di loro, Judith Nelson. La loro agenzia di stampa, su richiesta del governo francese, ordina l’insabbiamento. I due spostano quindi il cadavere in un luogo meno compromettente. Delmas, però, trova molto più conveniente per le sue tasche cercare di rivendere alla stampa delle foto rubate a Judith dal suo letto d’ospedale, dove è ricoverata per aver tentato il suicidio. [contiene spoiler]

Rui Nogueira – La sequenza dell’ospedale nella quale Delmas strappa di forza all’amante di Fèvre-Berthier il suo segreto le è valsa l’accusa di mostrare della violenza gratuita. Eppure è un metodo molto diffuso per ottenere quella che si chiama “l’informazione” o “la fotografia”. Jean-Pierre Melville – Ammetto che era un po’ dura, ma occorre comunque scuotere la gente dalle loro poltrone. La crudeltà di Delmas nei confronti di quella povera ragazza che ha tentato di suicidarsi, oh, mio Dio, la conosciamo bene. [...] Un fotoreporter è un cacciatore. Ha tutto il diritto di stanare la preda. R.N. – Perchè Delmas, alla fine, rinuncia a guadagnare tutto quel denaro, gettando i rullini in un tombino? J.-P.M. – Perché nel suo stato di ubriachezza, dopo aver ricevuto il pugno di Moreau, vede, di colpo, gli occhi della figlia di Févre-Berthier. L’unica ragione che può indurre un uomo come Delmas a una rinuncia del genere è la bellezza dello sguardo di una donna. (Rui Nogueira, Il cinema secondo Melville, Le Mani, Recco-Genova 1994)

Filmografia [1] Léon Morin, prêtre (Léon Morin prete, 1961) Deux hommes dans Manhattan (Le jene del quarto potere, 1959) Bob le flambeur (Bob il giocatore, 1955) Quand tu liras cette lettre (Labbra proibite, 1953) Les enfants terribles (I ragazzi terribili, 1950) Le silence de la mer (Il silenzio del mare, 1947) Vingt-quatre heures de la vie d’un clown (short, 1945)

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Jacques Becker

LE TROU Francia | Italia, 1960, 132’, bn

IL BUCO Il giovane Gaspard, da poco trasferito nella prigione della Santé, viene a sapere che alcuni detenuti hanno deciso di mettere a punto un’evasione scavando un tunnel. Si fa loro amico e partecipa ai preparativi. L’impresa, ovviamente, non è per nulla facile: i lavori dureranno diverse notti, bisognerà trovare il modo di non dare nell’occhio e, una volta raggiunte le fogne, andare incontro a dei grossi imprevisti. L’impresa sembra condurre a un buon fine. Però, quando il gruppo riesce a raggiungere un tombino che dà sulla strada, le cose cominciano ad andare a rotoli. È forse il film più sottilmente elaborato di Becker: maestria, ispirazione, precisione, rigore, gusto del dettaglio vero, assenza di compiacimento. Becker rinuncia anche alla classica “molla” della suspense. La domanda «Ci riusciranno?» in definitiva lo intriga meno dello studio analitico dei comportamenti dei protagonisti di questa avventura lineare e senza fioriture. Di questi cinque detenuti, Becker non ci dice niente: ce li mostra. Non scava nel loro passato per riportare alla luce dei fatti che gli permetterebbero di costruire dei caratteri; gli bastano i volti in primo piano, così come li vediamo nelle foto segnaletiche. Tutto il resto si esprime attraverso una situazione, un gesto, una parola, uno sguardo. Il silenzio è eloquente, la musica di accompagnamento è bandita dalla colonna sonora. (Freddy Buache, Jacques Becker, Festival del Film di Locarno, Locarno 1981)

Per i cinque personaggi di Il buco esiste un solo scopo da raggiungere e un solo modo per raggiungerlo. Avanzano verso la libertà, e Becker va verso la poesia, cioè verso l’apparenza del documentario puro.

Regia Jacques Becker Soggetto dal romanzo di José Giovanni Sceneggiatura Jean Aurel, Jacques Becker, José Giovanni Fotografia Ghislain Cloquet Montaggio Marguerite Renoir Scenografia Rino Mondelini Musica Philippe Arthuys Suono Pierre Calvet Interpreti Philippe Leroy (Manu Borelli), Marc Michel (Claude Gaspard), Jean Keraudy (Roland Darbant), Michel Constantin (Geo Cassine), Raymond Meunier (Vossellin, detto “Monseigneur”), Catherine Spaak (Nicole), Eddy Rasimi (Bouboule), André Bervil (il direttore della prigione) Produttore Serge Silberman Produzione Play Art, Filmsonor, Titanus

(François Truffaut, Le trou, «Arts», 30 marzo 1960)

Filmografia essenziale Le trou (Il buco, 1960) Montparnasse 19 (Montparnasse, 1958) Les aventures d’Arsène Lupin (Le avventure di Arsenio Lupin, 1957) Touchez pas au grisbi (Grisbì, 1953) Casque d’or (Casco d’oro, 1952) Rendez-vous de juillet (Le sedicenni, 1949) Antoine et Antoinette (Amore e fortuna, 1947) Goupi mains rouges (La casa degli incubi, 1943) La vie est à nous (La vita è nostra, 1936) Tête de turc (1935)

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Claude Sautet

CLASSE TOUS RISQUES Francia | Italia, 1960, 110’, bn

Regia Claude Sautet Soggetto dal romanzo di José Giovanni Sceneggiatura José Giovanni, Claude Sautet, Pascal Jardin Fotografia Ghislain Cloquet Montaggio Albert Jungerson Scenografia Rino Mondelini Musica Georges Delerue Suono Jacques Lebreton Interpreti Lino Ventura (Abel Davos), Jean-Paul Belmondo (Éric Stark), Sandra Milo (Liliane), Marcel Dalio (Arthur Gibelin), Jacques Dacqmine (il commissario Blot), Simone France (Thérèse Davos), Claude Cerval (Raoul Fargier), Bernard Dhéran (Blastone) Produttore Jean Darvey Produzione Filmsonor, Mondex, Odéon, Zébra

ASFALTO CHE SCOTTA Con una condanna a morte in contumacia che pende sulla sua testa, il gangster Abel Davos si è rifugiato in Italia con la moglie Thérèse e i due figli. Dopo aver commesso un colpo a Milano, si trova costretto a tornare in Francia. Varcato il confine, i Davos sono sorpresi dalle guardie e, nello scontro a fuoco che ne segue, la moglie rimane uccisa. Solo con i due figli, Davis si rifugia a Nizza. Chiede quindi aiuto ad alcune sue vecchie conoscenze di Parigi, che gli inviano il giovane Éric Stark. Abel ed Éric diventano amici. Procurata un’ambulanza, i due, con i bambini, partono alla volta di Parigi. Per la trasposizione di un successo della Série Noire, Sautet non si sottrae al ricorso agli stereotipi. Se però ci liberiamo delle sovrastrutture di genere, e dai rimandi al romanzo, avremo la storia dolente di una cosmica solitudine, quella di un uomo che ha scelto il crimine e che a poco a poco viene lasciato solo da tutti. [...] Albert Davos non è il caïd di José Giovanni, ma il primo ritratto compiuto di un uomo colpito dalla deriva degli affetti e dei sentimenti. Spogliati del côté criminale e di genere, saranno molto simili a lui il liutaio di Un cuore in inverno e il vecchio giudice di Nelly e Monsieur Arnaud. A Sautet interessano le storie di solitudine, perché è nel vuoto e nello smarrimento che le psicologie dei singoli diventano più interessanti e complesse. [...] Abel è un truand sui generis perché ha molto da perdere (una famiglia) e non è questione di imborghesimento quanto di umanizzazione di una maschera (che ancora una volta aderisce con commovente perfezione a Lino Ventura). (Mauro Gervasini, Cinema poliziesco francese, Le Mani, Recco-Genova 2003)

Filmografia essenziale Nelly et Monsieur Arnaud (Nelly e Monsieur Arnaud, 1995) Un cœur en hiver (Un cuore in inverno, 1992) Un mauvais fils (Una brutta storia, 1980) Vincent, François, Paul... et les autres (Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre, 1974) César et Rosalie (È simpatico, ma gli romperei il muso, 1972) Max et les ferrailleurs (Il commissario Pelissier, 1971) Les choses de la vie (L’amante, 1970) L’arme à gauche (Corpo a corpo, 1964) Classe tous risques (Asfalto che scotta, 1960) Bonjour sourire! (1956)

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Georges Franju

PLEINS FEUX SUR L’ASSASSIN Francia, 1961, 95’, bn

PIENA LUCE SULL’ASSASSINO Il conte Hervé de Kéraudren, presumibilmente, è morto; ma il suo corpo non si trova. Con la prospettiva di dover aspettare cinque anni prima di ottenere la dichiarazione di morte presunta, e quindi poter mettere le mani sull’eredità, la maggior parte dei suoi eredi si ritrovano al castello avito per decidere il da farsi. Organizzano uno spettacolo son et lumière per raccogliere soldi, quindi cominciano a passare al pettine il maniero. A un certo punto, però, gli eredi cominciano ad andare, uno per uno, incontro a morti violente. Incidenti oppure omicidi? Jean-Marie, la fidanzata Micheline e la cugina Edwige indagano. Che ruolo hanno le famose colombe, preferibilmente bianche, che ci sono in quasi tutti i film di Franju? Sono simbolo di vita e di speranza? È per questo che sono sostituite da corvi e da un gufo reale in Piena luce sull’assassino, film nel quale nessun personaggio di quel nido di vipere lascia adito a speranza? Un po’ troppo semplice! Quando il Judex di L’uomo in nero affida le colombe a Jacqueline perché lo avvertano se lei si trova in pericolo, il telefono sarebbe senza dubbio un mezzo più efficace. Ma le colombe rappresentano la traccia visibile, la conseguenza del legame, della comunicazione, della radiazione invisibile che Jacqueline esercita sul giustiziere, come del potere misterioso di quest’ultimo. Sono quel legame invisibile tra gli esseri palesato dalla forma, così come gli odi accumulati nella famiglia del conte Hervé de Kéraudren prendono letteralmente corpo nei corvi e negli uccelli predatori. (Joël Magny, Pleins feux sur Franju, «Cahiers du Cinéma» n. 460, ottobre 1992)

Regia, Soggetto Georges Franju Sceneggiatura Pierre Boileau, Thomas Narcejac, Robert Thomas Fotografia Marcel Fradetal Montaggio Gilbert Natot Scenografia Roger Briaucourt Costumi Lorène Musica Maurice Jarre Suono Robert Biart Interpreti Pierre Brasseur (il conte Hervé de Kéraudren), Jean-Louis Trintignant (Jean-Marie), Dany Saval (Micheline), Marianne Koch (Edwige), Pascale Audret (Jeanne), Jean Babilée (Christian), Philippe Leroy (André), Jean Ozenne (Guillaume) Produttore Jules Borkon Produzione Champs-Élysées Productions

Filmografia essenziale Nuits rouges (Notti rosse, 1973) La faute de l’abbé Mouret (L’amante del prete, 1970) Thomas l’imposteur (1965) Judex (L’uomo in nero, 1963) Thérèse Desqueyroux (Il delitto di Thérèse Desqueyroux, 1962) Pleins feux sur l’asssassin (Piena luce sull’assassino, 1961) Les yeux sans visage (Occhi senza volto, 1959) La tête contre les murs (La fossa dei disperati, 1959) Le grand Méliès (short, 1952) Le métro (short, 1934)

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Édouard Molinaro

LA MORT DE BELLE Francia, 1961, 91’, bn

Regia Édouard Molinaro Soggetto dal romanzo La morte di Belle di Georges Simenon Sceneggiatura Jean Anouilh Fotografia Jean-Louis Picavet Montaggio Robert Isnardon, Monique Isnardon Scenografia Robert Clavel Musica Georges Delerue Suono Antoine Petitjean Interpreti Jean Desailly (Stéphane Blanchon), Alexandra Stewart (Belle Sherman), Jacques Monod (il giudice Beckmann), Monique Mélinand (Christine Blanchon), Gabriel Gobin (il sergente Ruchet), Yves Robert (il barista), Yvette Etiévant (Nina Graff ) Produttore François Chavane Produzione Cinéphonic, Odeon

CHI HA UCCISO BELLA SHERMAN? Stéphane Blanchon è un insegnante di Ginevra che conduce una vita tranquilla al fianco della moglie Christine. Una sera, mentre Christine è fuori e Stéphane si trova al pianterreno dedito ai suoi hobbies, Belle Sherman, una studentessa americana alla quale hanno dato ospitalità, viene uccisa nella sua stanza di sopra. Nel corso dell’inchiesta, condotta dal giudice istruttore Beckmann e dal giovane sergente di polizia Ruchet, gli indizi contro Stéphane sembrano accumularsi sempre più. La stessa Christine comincia a sospettare del marito, che continua a dichiararsi innocente. Tutta la città lo ha ormai segnato a dito, ma Ruchet dubita della sua colpevolezza. Questo nuovo adattamento da Simenon fa piombare lo spettatore in un’atmosfera pesante, carica di sospetti su di un povero disgraziato, efficacemente interpretato da Jean Desailly. Il quale sa fare un grandissimo lavoro d’attore a partire dalla fragilità, l’ambiguità e l’incertezza del suo ruolo, prigioniero in un labirinto psicologico le cui principali figure deuteragoniste sono una moglie sospettosa, un giudice forcaiolo e un commissario molto più clemente. Questo brutale faccia a faccia con la giustizia gode anche della fotografia in bianco e nero del bravissimo Jean-Louis Picavet, che in alcuni punti raggiunge sfumature tetre, e della solidissima sceneggiatura, scritta dal grande commediografo Jean Anouilh, che sa sfruttare al meglio le suggestioni kafkiane del testo simenoniano, con la trovata per noi geniale di trasporre l’azione dall’America del romanzo a una Svizzera tranquilla solo in apparenza. Un’ultima cosa: Jean Desailly, quando ha la pipa in bocca, non assomiglia un po’ a Simenon? (Mathieu Birkigt, Le cinéphile vous salue bien: “La mort de Belle”, «Le Courrier du Léman», 2 settembre 1961)

Filmografia essenziale [2] Beaumarchais l’insolent (L’insolente, 1996) Le souper (A cena con il diavolo, 1992) La cage aux folles II (Il vizietto II, 1980) La cage aux folles (Il vizietto, 1978) Dracula père et fils (Dracula padre e figlio, 1975) Le téléphone rose (La ragazza di madame Claude, 1975) L’ironie du sort (L’ironia della sorte, 1974) L’emmerdeur (Il rompiballe, 1973) La mandarine (La mandarina, 1972) Les aveux les plus doux (Ricatto di un commissario di polizia a un giovane indiziato di reato, 1971)

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IL POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE

Jean-Pierre Melville

LE DOULOS Francia | Italia, 1962, 108’, bn

LO SPIONE Uscito di prigione dopo quattro anni, Faugel ha i suoi motivi per essere arrabbiato, non fosse altro che per l’uccisione di sua moglie mentre lui era dentro. Per questo, uccide il ricettatore Varnove, portandosi poi via dei diamanti grezzi che dovrebbero essere consegnati al boss Nuttheccio. Quindi si fa aiutare da Silien, un amico malvisto nell’ambiente perché sospettato di essere un informatore della polizia. Successivamente, organizza un colpo a una villa isolata, che viene però sventato a causa di una soffiata. Sarà stato Silien? Intanto, il commissario Clain indaga. Con Lo spione Melville cercò di fare più di un buon noir. Non si limitò a rendere ambiguo il comportamento dei personaggi, ma cercò di rinverdire alcuni canoni del genere. Lo spione in effetti – questo è il suo pregio maggiore – non assomiglia ai tanti gangster film di svolgimento schematico e di itinerario obbligato che allineano in successione l’incontro-scontro tra le pedine del racconto, la definizione delle strategie criminose e la corrispondente risposta della polizia, eccetera. Segue, invece, un percorso alternativo. Certo, l’azione non manca, e basta citare il colpo della villa, la brutale aggressione a Thérèse, l’uccisione di Nuttheccio e di Armand, lo splendido finale. In queste scene Melville fa lievitare ritmicamente la suspense con un montaggio preciso e ottiene effetti di sorpresa giocando sul sadismo con cui sono trattate alcune situazioni. Ma nulla è fine a se stesso, e tutto si realizza attraverso una costruzione a strati del racconto, che diversifica i percorsi dell’intreccio e altera la logica interna del noir.

Regia, sceneggiatura Jean-Pierre Melville Soggetto dal romanzo di Pierre Lesou Fotografia Nicolas Hayer Montaggio Monique Bonnot Scenografia Daniel Guéret Musica Paul Misraki Suono Julien Coutelier Interpreti Jean-Paul Belmondo (Silien), Serge Reggiani (Maurice Faugel), Jean Desailly (il commissario Clain), Michel Piccoli (Nuttheccio), Fabienne Dali (Fabienne), Monique Hennessy (Thérèse Dalmain), René Lefèvre (Gilbert Varnove), Philippe Nahon (Rémy), Volker Schlöndorff (un uomo al bar) Produttori Georges de Beauregard, Carlo Ponti Produzione Rome-Paris Films, C.C. Champion Films

(Pino Gaeta, Jean-Pierre Melville, La Nuova Italia, Firenze 1990)

Filmografia [2] Un flic (Notte sulla città, 1972) Le cercle rouge (I senza nome, 1970) L’armée des ombres (L’armata degli eroi, 1969) Le samouraï (Frank Costello faccia d’angelo, 1964) Le deuxième souffle (Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide!, 1966) L’aîné des Ferchaux (Lo sciacallo, 1963) Le doulos (Lo spione, 1962)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

ANGELO SIGNORELLI

GIRO, GIROTONDO, CASCA IL MONDO... Perché questa sezione, che mette insieme film di epoche diverse e di autori molto differenti tra loro? La risposta la potremmo trovare seguendo la camminata del personaggio che ci introduce alla storia raccontata dal film di Max Ophuls La ronde (id., 1950), tratto dalla commedia Girotondo di Arthur Schnitzler. Un signore passeggia, sale una scala, si avvicina a un teatrino e comincia a parlare. Si rivolge allo spettatore e dice: «Sono l’incarnazione del vostro desiderio, il vostro desiderio di conoscere ogni cosa. L’uomo conosce solo una parte della realtà. Perché? Perché egli vede solo un aspetto delle cose». Poi riprende a camminare e intanto si chiede: «Dove siamo? Sul palcoscenico? In un teatro di posa? Su una strada? Ah! Siamo a Vienna... 1900», e così sembra passare dalla rappresentazione al mondo reale, sebbene il suo sia un tornare indietro nel tempo. Intanto, siamo ancora sul set: si cambia d’abito perché quello che ha indosso è moderno, ce n’è uno appeso a un attaccapanni provvidenziale, proprio sulla via. Dopodiché, inizia il racconto, che gira attorno all’amore, che è come una giostra, dove a turno si sale e si scende. Teatro filmato? Niente affatto! Cinema, che passa da un quadro all’altro con leggerezza illusionistica, che nella rappresentazione gioca con il reale, lo piega a sé e a volte se ne lascia prendere, scombinando le carte e confondendo i riflessi. È un po’ l’idea di questa ricognizione, vedere come il lavoro della messa in scena è parte sostanziale del racconto, è una sorta di MacGuffin, per dirla con Hitchcock: la molla che fa muovere i personaggi, l’azione che in alcuni casi li perseguita, in altri li mette a nudo. Il palcoscenico è un mondo, il mondo è un palcoscenico. Come recita Shakespeare, in Come vi piace: «Tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono soltanto attori. Hanno le loro uscite come le loro entrate in scena, e nella vita ognuno recita molte parti». Ma cosa succede quando il palcoscenico non è solo quello che mette l’attore di fronte al pubblico, ma è anche l’altrove che coinvolge sentimenti, emozioni, conflitti e passioni? La ronde è un divertissement, sensuale e disincantato. C’è una scena che la dice lunga. Un signore taglia con le forbici pezzi di pellicola e censura brani di film: una scena troppo audace tra un uomo e una donna, vista poco prima, è ridotta alla conversazione durante la quale si parla della promessa di un incontro, più formale e discreta. Lo spettatore, che conosce entrambe le versioni dell’incontro amoroso, impara le arti dell’allusione, della malizia, del doppio senso, che duettano con l’ipocrisia, la menzogna, il tradimento: l’abilità della messa in scena, appunto; come districarsi negli impacci della vita, in pratica. Il film di Ophuls è come un giocattolo caricato a molla; le scene cambiano mentre i personaggi si passano il testimone su una piattaforma rotante, che alla fine torna al punto di partenza, alla simpatica prostituta che attende in strada l’eventuale cliente. Ventesimo Secolo (20th Century, 1934) di Howard Hawks, si svolge su un doppio palcoscenico, quello di un teatro vero e quello “inventato” sul treno in corsa. Oscar Jaffe, un domatore di attricette, come aveva dimostrato di saper fare con la ex moglie Mildred Plotka/Lilly Garland, dopo il divorzio la incontra di nuovo sul treno, mentre, assillato dai creditori, è in fuga da Chicago. Durante il viaggio, sfodera tutte le arti persuasive di cui è capace per incastrare la donna, ormai diventata un’attrice famosa. Con la menzogna e con l’imbroglio la mette al tappeto: tutto ricomincia da capo, lui ossessivo nel tracciare segni col gesso come di fronte a una principiante, lei piena d’odio ma impotente, in una commedia esilarante e a tratti funambolica, interpretata da due mostri sacri come John Barrymore e Carole Lombard. La scena iniziale di Paura in palcoscenico (Stage Fright, 1950) di Alfred Hitchcock, è un sipario dipinto che si alza lentamente, ma dietro non c’è il palcoscenico che uno si aspetta, bensì un’immagine di Londra. Entrano in scena un innocente accusato di omicidio, l’amica aspirante attrice che vuole scagionarlo e si finge un’altra persona, una femme fatale che sembra l’indiziata numero uno. Tutti mentono, nel bene e nel male: tutti recitano, chi per far cadere la responsabilità su altri, chi per salvare se stessi. Il sipario che, alla resa finale, cala in maniera perentoria e chiude la vicenda, con taglio drammatico ma liberatorio, affida al sentimento, quello vero, il ritorno alla vita per la giovane donna che, nel pericolo, ha saputo fare buon uso delle tecniche apprese in teatro. Trappola mortale (Deathtrap, 1982) di Sidney Lumet inizia e si conclude a teatro: per il resto del film i due personaggi principali si trasferiscono nella casa di campagna di uno di loro, il drammaturgo Sidney Bruhl, a corto di ispirazione. Qui, lo spettatore assiste a un sovrapporsi di rappresentazioni, dove ci scappa pure il morto, e appare un’anziana eccentrica che si fa passare per una veggente e sensitiva. L’allievo scrive la nuova commedia che andrà in scena con il titolo, appunto, di Trappola mortale, ma la 192


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Paura in palcoscenico

storia della pièce potrebbe incastrare Sidney, che sta mettendo le mani sul cospicuo patrimonio della moglie, morta per un attacco di cuore “pilotato”. In una notte in cui infuria un violento temporale, la resa dei conti tra i due uomini porterà al trionfo, sul palcoscenico, del terzo incomodo: insomma, tra i due litiganti il terzo se la gode. Tratto dal testo teatrale di Ira Levin, il film mescola recitazione, scrittura, horror, commedia e, elemento che non c’è nell’opera teatrale, omosessualità. Ritroviamo Michael Caine, che nel film di Lumet interpreta Sidney, in Rumori fuori scena (Noises Off, 1992) di Peter Bogdanovich che, come già in Ma papà ti manda sola? (What’s Up, Doc?, 1972) si mette nella scia della screwball comedy. Una compagnia teatrale sta facendo le prove per mettere in scena la commedia Nothing on. Tra gli attori si scatenano tensioni e gelosie, che continuano per tutta la tourné in America, anche e impudicamente durante gli spettacoli: man mano il testo diventa senza senso e caotico, con dialoghi improvvisati e aggressioni ripetute che suscitano l’ilarità del pubblico presente. Ancora peggio è quello che succede dietro la scena, una baraonda del tutto fuori controllo che di tanto in tanto straripa sulla scena. È, questo, un film dai toni farseschi, isterico e rocambolesco, in cui il mondo, come in una vecchia comica, sembra sfaldarsi sotto i colpi della sconsideratezza e dell’irrazionale. Quella di Bogdanovich è una dichiarazione d’amore per il cinema americano classico, costruito su solide sceneggiature, ritmi incalzanti, meccanismi a orologeria in cui gesti e oggetti si incastrano alla perfezione; il piacere della messa in scena che cresce nel confronto e nello scambio tra rappresentazione teatrale e movimento cinematografico. Un lavoro che non esclude lo studio dei sentimenti e delle passioni: anzi, nel sovrapporsi continuo di arte e vita, nelle interferenze tra le apparenze e un’incontenibile, quanto disordinata, umanità, la finzione allestisce nuovi e più felici equilibri, come succede nel finale del film, quasi un tradizionale happy end. Nella tradizione del burlesque si inserisce Applause (1929) di Rouben Mamoulian: il film getta uno sguardo disincantato su un mondo che, dietro le quinte, rivela tutta la sua grettezza e la logica spietata che lo muove. Kitty, ormai appassita e alcolizzata, si fa sfruttare dal suo compagno Hitch, ma è riuscita per dieci anni a tenere lontana la figlia April, pagandole l’istruzione in un convento. La ragazza ritorna e, dopo un litigio con il fidanzato che le ha offeso la madre, decide di affrontare anche lei la scena, ma il tentativo ha effetti devastanti, con un finale che anticipa, seppure con toni diversi, Luci della ribalta (Limelight, 1952) di Charlie Chaplin. Uno dei primi film sonori di forte respiro narrativo, Applause si fa apprezzare perché si allontana decisamente dalla staticità dei film dell’epoca e affronta con coraggio 193


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temi scottanti come l’alcolismo, tant’è che la proiezione fu proibita in diversi Stati dell’Unione. Un altro film che scava nel mondo dello spettacolo, svelando intrighi e ipocrisie, è Les Girls (id., 1957) di George Cukor, che inizia in un tribunale di Londra, dove si ritrovano, dopo molti anni, tre attrici e un capocomico, interpreti dell’omonima commedia musicale che ha fatto il giro dell’Europa. Un libro di memorie è la causa di un processo per diffamazione. I protagonisti, chiamati a testimoniare, sono due delle tre donne e l’uomo: ognuno dà la sua versione dei fatti, più o meno arrivando alla stessa “drammatica” conclusione. Ma, dove sta la verità? Non la sapremo neppure alla fine: anzi, le parole della donna che non ha parlato e che aspetta in macchina rimettono tutto in discussione. Se le cose si sistemano e la pace ritorna tra le amiche presenti in aula e i rispettivi mariti, ciò non è dovuto a un chiarimento definitivo, ma al fatto che tutti hanno trovato convincente, e tranquillizzante, l’ultima versione. Rashomon e musical, una miscela intrigante per un film condotto in maniera impeccabile dalla mano di Cukor, che, come un bravo direttore d’orchestra, riesce a combinare i brani cantati e danzati con la ricostruzione a più voci degli eventi. La storia è tratta da un soggetto di Vera Caspary. Un ambiente alquanto agitato è anche quello di Palcoscenico (Stage Door, 1937) di Gregory La Cava: ci troviamo in una pensione per aspiranti attrici in cerca di scrittura, dove un giorno arriva la figlia di un miliardario, decisa a calcare le scene. Odi, gelosie, battute salaci, frustrazioni, illusioni, sofferenze: la casa è affollata non solo di pensionanti, ma di tutto quello che si portano dentro e che di tanto in tanto erompe sulla scena sempre affollata. Il palcoscenico teatrale rimane fuoricampo, salvo che nell’ultima parte del film, ma il debutto dell’attrice prescelta diventa più il debito morale pagato a chi non ha retto alla propria vulnerabilità, che la dimostrazione di essere diventata finalmente un’attrice. E, per una che lascia quel luogo, a volte anche solo per mettere su famiglia, ce n’è sempre un’altra che suona alla porta cercando un posto dove dormire. La tenutaria l’accoglie dicendole che lì è come stare in una grande famiglia: poi, l’accompagna nella sua camera. La storia si ripete. Finite le prove, il regista anziano e la giovane attrice si attardano in teatro. Dopo la prova (Efter repetitionen, 1984) di Ingmar Bergman racconta la loro conversazione, l’affiorare dei sentimenti e dei ricordi, le loro idee: sul teatro, sulla sincerità, sulla natura dell’attore, sul dispotismo del regista. Tutto si svolge su un palcoscenico dove Henrik si è quasi addormentato, appoggiato a un tavolino, e Anna è arrivata per cercare un braccialetto che ha smarrito. La bellissima fotografia di Sven Nykvist restituisce la magia del luogo, l’usura dovuta ai tanti interpreti che lo hanno calpestato, agli oggetti serviti per

La ronde

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tante scenografie, alle infinite parole che sembrano ancora risuonare, alle emozioni vissute, alle passioni consumate. In questa atmosfera, popolata di spettri, la coppia mette in scena confessioni e aspettative, bugie e desideri. A un certo punto appare il fantasma della madre di Anna, con cui, forse, Henrik aveva avuto una relazione. La donna lo tenta, gli mostra le intimità di un corpo ancora giovane, versa lacrime di tristezza e di frustrazione. Anche Anna è bella, seducente, aggressiva. I due duellano, si provocano: poi, presi dalla parte, si divertono a raccontare la loro storia come potrebbe essere, sulla quale, come in ogni rappresentazione, possono mettere la parola fine. Il dramma che è oggetto delle prove è Il sogno di Strindberg, riguardo al quale così si esprimeva l’autore: «Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono; su una base minima di realtà, l’immaginazione disegna motivi nuovi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni». Un lavoro che, in seguito, avrebbe riconosciuto essere «il mio dramma prediletto, la creatura del mio maggior dolore». Non c’è migliore commento al film di Bergman. Un altro testo classico disegna la struttura del film Vanya sulla 42esima strada (Vanya on 42nd Street, 1994) di Louis Malle. Un gruppo di attori si riunisce per provare e mettere in scena, in un teatro sulla 42ª strada, destinato alla demolizione, il dramma Zio Vanya di Čechov. In realtà, è una prova su un palcoscenico poco riconoscibile, dato l’estremo disordine che vi regna, con un ridottissimo pubblico di conoscenti seduti vicino alla scena, dove i personaggi arrivano e si sistemano ai loro posti. La scenografia è scarna: una panca, alcune sedie, un tavolo; lo sfondo, un’architettura in rovina, impalcature, drappi impolverati, ornamenti scrostati. Dopo un preambolo dove c’è uno scambio di battute sul cibo e altre banalità, si entra nell’interpretazione del testo in maniera impercettibile: praticamente, si scivola nella pièce, come se niente fosse, aiutati dalla confusione e fatiscenza del luogo e dalla situazione colloquiale. In realtà, la sceneggiatura è un adattamento teatrale di David Mamet, un’elaborazione libera del testo dello scrittore russo. Ciò che conta, comunque, è il coinvolgimento dello spettatore che il film via via produce, sebbene l’azione sia limitata all’entrata o all’uscita dei personaggi. La forza della rappresentazione materializza la storia, la dipinge allo sguardo, nonostante che gli attori siano vestiti come tutti giorni e il gioco scenico, nel senso letterale del termine, sia ridotto al minimo. Questo succede perché Malle lavora sull’inquadratura mettendovi uno o più personaggi a seconda dell’efficacia della loro presenza, indaga i volti, li accosta in base all’intensità della relazione, li fissa per leggervi i moti dell’animo, scivola da un gesto a un altro per cogliere il turbamento, la paura, il disagio, se ne distanzia per segnare le pause, i silenzi della stanchezza, gli intervalli tra le emozioni. Chiudiamo questa presentazione e usciamo all’aperto, in un quartiere moderno, abitato perlopiù da extracomunitari, solo in apparenza uno spazio non adatto per farci teatro. La schivata (L’esquive, 2003) di Abdellatif Kechiche è ambientato nella banlieu parigina: gli studenti di un liceo mettono in scena Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux. Quando Lydia, scelta per il ruolo della protagonista, inizia a farsi vedere in giro con l’abito settecentesco, attira su di sé le attenzioni di Krimo, il duro che non regge l’urto dell’innamoramento, finisce per calare le braghe e, per conquistare la bella, cerca di recitare nella pièce. Il suo comportamento scatena le ostilità dei ragazzi e delle ragazze del quartiere. Il film si sviluppa tra la scuola e la strada: Kechiche sta addosso ai personaggi, ai volti, ai gesti, trascrivendo esitazioni, scatti d’ira, rancori, imboscate. Tra le prove dello spettacolo, affiorano i sentimenti, covano le gelosie, i ricatti, le complicità, le rivalse: al testo si sostituisce la vita, lo scontro, la violenza, il pregiudizio, l’invadenza. La parola, nella declamazione, porta nel presente il testo seicentesco e un’attualità di riflesso: la parola – nello sfogo, nell’urlo, nell’accusa, nel pianto – racconta l’esistenza, le richieste dell’altro, le insistenze del cuore, le reticenze e le negazioni. Paradossalmente, è il silenzio, o piuttosto il rifiuto di rispondere, che nel film mette fine alla storia; fingendo l’assenza, Krimo testimonia la viltà di chi non riesce ad affrontare le sfide del mondo reale. La recita è finita.

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Rouben Mamoulian

APPLAUSE USA, 1929, 80’, bn

Regia Rouben Mamoulian Soggetto dal romanzo di Beth Brown Sceneggiatura Garrett Forth Fotografia George J. Folsey Montaggio John Bassler Suono Ernest Zatorsky Interpreti Helen Morgan (Kitty Darling), Joan Peers (April Darling), Fuller Mellish jr. (Hitch Nelson), Henry Wadsworth (Tony), Jack Cameron (Joe King), Roy Hargrave (Slim Lamont), Dorothy Cumming (la madre superiora), Mack Gray (il fratello di Slim), Jack Singer (Dave Holt) Produttori Monta Bell, Jesse L. Lasky, Walter Wanger Produzione Paramount Pictures

APPLAUSO [t.l.] Kitty Darling, stella del burlesque, ha spedito la figlia April in un collegio di monache per tenerla lontana dall’ambiente. Passati diversi anni, Kitty vive immersa nella malinconia e nell’alcol, sfruttata dal nullafacente Hitch che di lei si preoccupa solo nella misura dei pochi soldi che riesce a spremerle. Quando questo scopre dell’esistenza di April, convince Kitty a ritirarla dal collegio e a farla tornare. Quindi, allettato dall’idea di ulteriori guadagni, cerca di convincerla a seguire le orme materne. April in effetti prende il posto della madre sulle scene, ma le sarà di aiuto e conforto l’amore con il coetaneo Tony. Questo capolavoro degli albori del cinema sonoro fu il primo film sia per il regista teatrale e cinematografico Rouben Mamoulian, che per la star dei cabaret e degli schermi Helen Morgan. Molti hanno paragonato il debutto di Mamoulian a quello di Orson Welles, Quarto potere, per via del fiammeggiante utilizzo delle innovazioni cinematografiche, usate per testare e superare i vincoli tecnologici. La lacrimevole trama permette di far raggiungere il massimo livello alle interpretazioni di Helen Morgan nei panni della sbiadita ex regina del burlesque, Fuller Mellish jr. in quelli del suo viscido amante e Joan Peers in quelli della sua educata figlia. Comunque, il film è oggi ricordato soprattutto per l’audace stile di Mamoulian. Mentre la maggior parte dei film dell’epoca erano statici e legati a un impianto di tipo teatrale, la macchina da presa di Mamoulian trovò la maniera di rinvigorire la storia infilandosi senza indugi nella squallida vita del dietro-le-quinte. (Sheryl Cannady, Matt Raymond, Library of Congress Adds Home Movie, Silent Films and Hollywood Classics to Film Preservation List, «News from the Library of Congress», www.loc.gov, 27 dicembre 2006)

Filmografia essenziale Silk Stockings (La bella di Mosca, 1957) Rings on Her Fingers (Ragazze che sognano, 1942) Blood and Sand (Sangue e arena, 1941) The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, 1940) Becky Sharp (1935) Queen Christina (La regina Cristina, 1933) Love Me Tonight (Amami stanotte, 1932) Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Il dottor Jekyll, 1931) City Streets (Le vie della città, 1931) Applause (1929)

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In collaborazione con Cineteca Griffith, in occasione dei quarant’anni dell’Archivio di Genova.


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Howard Hawks

20th CENTURY USA, 1934, 91’, bn

VENTESIMO SECOLO In fuga dai creditori, l’impresario di Broadway Oscar Jaffe sale sul treno “Ventesimo Secolo” che da Chicago va a New York. Sullo stesso treno c’è anche Mildred Plotka, la sua ex moglie da lui fatta diventare una star di prima grandezza e che ora, con il nome di Lily Garland, sta intraprendendo la scalata a Hollywood. I due riprendono i vecchi battibecchi: Oscar tenta di circuirla per farla tornare a recitare per lui e risolvere così i propri problemi finanziari; Mildred, da parte sua, non vuole più avere a che fare con l’ex marito e impresario. Durante quel viaggio, su quel treno, ne succedono di tutti i colori; finché Oscar ha la pensata di farsi passare per moribondo. Fino a Ventesimo Secolo, Hawks ha sempre lavorato su un’architettura di spoliazione. Dialoghi concisi ed ellittici si limitavano a incidere sia pure con astuzia la colonna sonora. Questa volta, è il dialogo stesso a imporre la struttura del film. Onde perfezionare questo esperimento, Hawks ha qui invece domandato agli attori di non aspettare la fine d’una battuta per pronunciare quella successiva, permettendo loro di interrompere il partner e di sovrapporre i testi. Ciò rinforza lo stile di questa commedia, ricca di incroci, accelerazioni e arresti. I personaggi si servono della parola per mettere meglio in scena ciò che vogliono dominare. Le loro prede devono lottare per evitare questa dominazione, rispondendo con la valanga di una risata o la brutalità di un moto di ribellione. Queste reazioni annullano la messa in scena nel suo stesso corso e la trasformano in un’altra dinamica. Tale sistema richiede una disinvoltura eccezionale, preservando allo stesso tempo l’isteria dell’interprete. Il paradosso di questo sistema ha soddisfatto Hawks, che ha sempre amato alternare momenti di liberazione di energia a istanti di fissità teatrale.

Regia, Produttore Howard Hawks Soggetto dalla commedia di Ben Hecht e Charles MacArthur, ispirata alla commedia Napoleon of Broadway di Charles Bruce Millholland Sceneggiatura Ben Hecht, Charles MacArthur, Gene Fowler [non accr.], Preston Sturges [non accr.] Fotografia Joseph H. August Montaggio Gene Havlick Costumi Robert Kalloch Musica Howard Jackson, Louis Silvers, Harry M. Woods Suono Edward Bernds Interpreti John Barrymore (Oscar “O.J.” Jaffe), Carole Lombard (Mildred Plotka/Lily Garland), Walter Connolly (Oliver Webb), Roscoe Karns (Owen O’Malley), Ralph Forbes (George Smith), Charles Lane (Max Jacobs), Etienne Girardot (Mathew J. Clark), Dale Fuller (Sadie) Produzione Columbia Pictures Corporation

(Noël Simsolo, Howard Hawks, Edilig, Parigi 1984)

Filmografia essenziale Rio Lobo (id., 1970) Man’s Favorite Sport? (Lo sport preferito dall’uomo, 1964) Rio Bravo (Uno dollaro d’onore, 1959) Red River (Fiume rosso, 1948) The Big Sleep (Il grande sonno, 1946) Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria, 1939) Bringing Up Baby (Susanna, 1938) 20th Century (Ventesimo Secolo, 1934) Scarface (Scarface – Lo sfregiato, 1932) The Road to Glory (1926)

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Gregory La Cava

STAGE DOOR USA, 1937, 92’, bn

Regia Gregory La Cava Soggetto dalla commedia di Edna Ferber e George S. Kaufman Sceneggiatura Morrie Ryskind, Anthony Veiller Fotografia Robert De Grasse Montaggio William Hamilton Scenografia Van Nest Polglase Costumi Muriel King Musica Roy Webb Suono John L. Cass Interpreti Katharine Hepburn (Terry Randall), Ginger Rogers (Jean Maitland), Andrea Leeds (Kay Hamilton), Gail Patrick (Linda Shaw), Adolphe Menjou (Anthony Powell), Constance Collier (Miss Luther), Samuel S. Hinds (Henry Sims), Lucille Ball (Judith) Produttore Pandro S. Berman Produzione RKO Radio Pictures

Filmografia essenziale Lady in a Jam (Le stranezze di Jane Palmer, 1942) 5th Avenue Girl (La ragazza della Quinta Strada, 1939) Stage Door (Palcoscenico, 1937) My Man Godfrey (L’impareggiabile Godfrey, 1936) She Married Her Boss (Voglio essere amata, 1935) What Every Woman Knows (1934) Gabriel over the White House (1933) The Half Naked Truth (La verità seminuda, 1932) Smart Woman (Una donna intraprendente, 1931) Beware the Dog (1923)

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PALCOSCENICO In un pensionato femminile si intrecciano i destini di alcune aspiranti attrici, mentre si sta curando l’allestimento di un nuovo spettacolo. Jean è una danzatrice un po’ cinica; Linda diventa l’amante del produttore; Terry pare non avere alcun talento, ma in compenso è determinata e suo padre, che non vede di buon occhio la sua vocazione, è disposto a fare pressioni perché ottenga la parte al solo scopo di farle sbattere il naso contro un insuccesso. Kay è la più dotata ma, non ottenendo la parte, si suicida. Prima di morire, però, dà a Terry un prezioso consiglio che permetterà a quest’ultima di avere successo. La Cava gestisce il racconto come una partitura, in modo che a ogni coro corrisponda un duetto o un assolo. In uno studio molto interessante su La Cava, Bertrand Tavernier paragona i dialoghi del film a una polifonia la cui libertà di andamento e complessità anticipano l’opera di Robert Altman. L’armonia stilistica ci fa quasi dimenticare il dramma nella vita di queste donne, che procedono tutte per fissazioni. Dal desiderio di uscire dall’anonimato alla mancanza di uomini, a meno che non siano dei produttori, dal gesto estremo del suicidio alla vita di gruppo come risorsa esistenziale, le varie Jean, Terry, Linda, Kaye sono tutte delle disadattate. Palcoscenico è difficilmente classificabile per genere. Il regista alterna momenti di pura commedia ad altri decisamente drammatici. A differenza di molti suoi contemporanei, La Cava non girò mai un western o un poliziesco, ma restò sempre nei confini della commedia o del dramma, oppure si limitò a fondere i due generi. (Cesare Petrillo, Introduzione a Gregory La Cava, in Emanuela Martini, a cura di, Gregory La Cava/Musical MGM, Bergamo Film Meeting, Bergamo 1995)


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Alfred Hitchcock

STAGE FRIGHT Gran Bretagna, 1950, 110’, bn

PAURA IN PALCOSCENICO La giovane Eve Gill, aspirante attrice e studentessa alla Royal Academy of Dramatic Arts di Londra, viene interrotta nel bel mezzo di una prova dal suo amico Jonathan Cooper, che è l’amante segreto della famosa cantante Charlotte Inwood. Jonathan racconta a Eve di essere nei guai: Charlotte è venuta a trovarlo subito dopo aver ucciso il marito, con il vestito sporco di sangue; lui è andato a casa sua per procurarle un altro vestito ma, visto dall’assistente di scena di Charlotte, è stato immediatamente sospettato dalla polizia di essere l’assassino, e adesso è in fuga. Eve, con l’aiuto del padre, trova un rifugio sicuro per Jonathan, dopo di che avvia subito un’indagine. Scoprirà delle verità totalmente inattese. Paura in palcoscenico non è un’opera ambiziosa, ma una sorta di divertimento superiore, assai intelligente: una serie di variazioni tra il serio e il faceto, su un tema che in sé è soltanto un pretesto. Possiamo immaginarcelo come la passeggiata di un regista particolarmente attento alla dolce poesia dei gesti graziosi, alla freschezza d’animo di una ragazza, all’incantesimo di certi istanti privilegiati. Ma anche sensibile al dettaglio inquietante, al fascino della lussuria, alla violenza ovattata, al male incipriato e patinato. Galleria di ritratti insieme delicati e feroci, divertiti e lucidi; successione di sequenze gustose o stranamente morbose. (Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Marsilio Editori, Venezia 1986)

A proposito di Paura in palcoscenico, mi è stato detto che la mia apparizione è stata molto succulenta. Mi è stato detto con una certa aria di condiscendenza, come a sottintendere che non sono riuscito a raggiungere i massimi vertici di prosciutto registico all’interno del sandwich filmico. Non è vero. Potrà esserci un macguffin nella mia apparizione, ma non del prosciutto. (Alfred Hitchcock, Master of Suspense: A Self-Analysis, «The New York Times», 4 giugno 1950)

Regia, Produttore Alfred Hitchcock Soggetto Selwyn Jepson, Alma Reville, dal romanzo Man Running di Selwyn Jepson Sceneggiatura Whitfield Cook, Ranald MacDougall, James Bridie Fotografia Wilkie Cooper Montaggio Edward B. Jarvis Scenografia Terence Verity Costumi Milo Anderson, Christian Dior [vestiti di Marlene Dietrich] Musica Leighton Lucas Suono Harold V. King Interpreti Jane Wyman (Eve Gill), Marlene Dietrich (Charlotte Inwood), Michael Wilding (il detective Smith), Richard Todd (Jonathan Cooper), Alastair Sim (il commodoro Gill), Sybil Thorndike (la signora Gill), André Morell (l’ispettore Byard), Patricia Hitchcock (Chubby Bannister), Alfred Hitchcock (il passante che si volta a guardare Eve) Produzione Warner Bros. Entertainment

Filmografia essenziale Family Plot (Complotto di famiglia, 1976) The Birds (Gli uccelli, 1963) Psycho (Psyco, 1960) North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955) Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) Stage Fright (Paura in palcoscenico, 1950) Notorious (Notorius, 1946) The 39 Steps (Il club dei 39, 1935) The Lodger (Il pensionante, 1926)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

Max Ophuls

LA RONDE Francia, 1950, 110’, bn

Regia Max Ophuls Soggetto dalla commedia di Arthur Schnitzler Sceneggiatura Jacques Natanson, Max Ophuls Fotografia Christian Matras Montaggio Léonide Azar Scenografia Jean d’Eaubonne Costumi Georgs Annenkov Musica Oscar Straus Suono Pierre Calvet Interpreti Gérard Philippe (il conte), Simone Signoret (Léocadie), Simone Simon (Marie), Danielle Darrieux (Emma), Serge Reggiani (Franz), Daniel Gélin (Alfred), Fernand Gravey (Charles), Jean-Louis Barrault (Robert), Odette Joyeux (Anna), Isa Miranda (Charlotte), Anton Walbrook (il manovratore della giostra) Produttore Serge Gordine Produzione Les Films Sacha Gordine

LA RONDE Una giostra, in una piazzetta della Vienna di fine Ottocento. Il manovratore, che è pure un abile e distinto narratore, ci introduce in una serie di racconti, tutti legati alle cose dell’amore, alle avventure galanti e ai turbamenti sentimentali, tutti legati l’uno con l’altro dai personaggi che li vivono. Si va dalla prostituta al soldato, dal soldato alla cameriera, dalla cameriera alla ragazza di buona famiglia, dalla ragazza di buona famiglia alla donna sposata, dalla donna sposata a suo marito, dal marito alla modista, dalla modista al poeta, dal poeta all’attrice, dall’attrice al conte, dal conte alla prostituta, che richiude così il giro. Parlando della pièce di Schnitzler, qualcuno l’ha definita una sardonica “danza macabra”, un saggio clinico e quasi cinico sul libertinaggio, sulle bugie e gli aspetti risibili del desiderio amoroso. Senza tradire il pessimismo dell’originale, Max Ophuls – che ha quasi il doppio dell’età di Schnitzler quando scrisse la pièce – smorza i toni più cupi; nel film la crudezza e l’apparente cinismo dello scrittore vengono stemperati da una sorridente, tenera ironia. Quel défilé degli amori triviali e vuoti offre a Ophuls lo spunto per un’affascinante, pacata, tonica meditazione sul tema, a lui così congeniale, dell’effimero amoroso. La leggerezza del tocco ophulsiano non toglie nulla alla profondità dell’assunto: sotto l’apparenza della frivolezza e della comicità il film comunica un’inquietudine non meno profonda. Per esorcizzare il pericolo della monotonia, il regista ha avuto un’idea sensazionale: la giostra, azionata da un gioviale e ironico meneur de jeu, un animatore a mezza strada tra il direttore di un circo e un Mefistofele da fiera. «Incarno il vostro desiderio di conoscere tutto», dice il simpatico “conduttore”, «Gli uomini conoscono solo una parte della realtà, mentre io conosco tutto, perché vedo tutto en rond». (Aldo Tassone, Max Ophuls. L’enchanteur, Lindau, Torino 1994)

Filmografia essenziale Lola Montès (Lola Montès, 1955) Madame de... (I gioielli di madame de..., 1953) Le plaisir (Il piacere, 1952) La ronde (id., 1950) The Reckless Moment (Sgomento, 1949) Letter from an Unknown Woman (Lettera da una sconosciuta, 1948) De Mayerling à Sarajevo (Da Majerling a Sarajevo, 1940) La tendre ennemie (La nostra compagna, 1936) La signora di tutti (1934) Die verkaufte Braut (La sposa venduta, 1933)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

George Cukor

LES GIRLS USA, 1957, 114’, col.

LES GIRLS Lady Sybil Wren, moglie di sir Gerald Wren, pubblica le sue memorie. In esse, ci dev’essere qualcosa che non garba ad Angèle Ducros, una vecchia collega dell’autrice, dal momento che questa la porta in tribunale per diffamazione. Prima delle nozze con sir Gerald, le due, assieme a Joy Henderson, avevano fatto parte di una compagnia di danza chiamata “Les Girls”, il cui coreografo era Barry Nichols. Il motivo del contendere è l’accusa che lady Sybil muove ad Angèle di aver avuto una storia con Barry; mentre Angèle accusa lady Sybil del contrario. Con l’inizio del dibattimento, il passato torna alla memoria, secondo le diverse versioni di chi è chiamato a testimoniare. Cosa importa l’argomento, si dirà! Non sono affatto persuaso da questa opinione; al contrario, sono del tutto convinto che il libretto valga quanto la musica, qui come nelle opere di Mozart. In un film che si propone di farci gustare la quintessenza del musical, il tema della sincerità è nettamente privilegiato, essendo lo spirito stesso del genere nella mescolanza tra verità e artificio. Così Cukor (d’istinto, direi, più che di proposito) ha colto in pieno il nocciolo della questione. Dove si trova la verità? Una domanda che abbiamo già incontrato altrove, e non solo dalle parti di Pirandello: ricordiamo almeno la mirabile variazione che si trova nella domanda di Camille, «Dove comincia la commedia, dove finisce la vita?». Sul tema del gioco tra essere e apparire, tema squisitamente cinematografico, Cukor tesse un ricamo i cui disegni rammentano l’arabesco dell’ultimo Renoir, quello di French Cancan e di Elena e gli uomini, che si dichiarano anch’essi commedie o fantasie musicali. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte al medesimo lavoro di sintesi, di reinvenzione, di fronte al medesimo rifiuto della psicologia e della suspense comica.

Regia George Cukor Soggetto Vera Caspary Sceneggiatura John Patrick Fotografia Robert Surtees Montaggio Ferris Webster Scenografia Edwin B. Willis, Richard Pefferle Costumi Orry Kelly Musica Cole Porter Suono Wesley C. Miller, Conrad Kahn Interpreti Gene Kelly (Barry Nichols), Mitzi Gaynor (Joanne “Joy” Henderson), Kay Kendall (lady Sybil Wren), Taina Elg (Angèle Ducros), Jacques Bergerac (Pierre Ducros), Leslie Phillips (sir Gerald Wren), Henry Daniell (il giudice), Patrick Macnee (sir Percy) Produttori Sol C. Siegel, Saul Chaplin Produzione Sol C. Siegel Productions, Metro-Goldwyn-Mayer

(Eric Rohmer, La quintessence du genre (“Les Girls”), «Cahiers du Cinéma» n. 83, maggio 1958)

Filmografia essenziale Rich and Famous (Ricche e famose, 1981) My Fair Lady (id., 1964) A Star Is Born (È nata una stella, 1954) Born Yesterday (Nata ieri, 1950) Adam’s Rib (La costola di Adamo, 1949) Gaslight (Angoscia, 1944) The Philadelphia Story (Scandalo a Filadelfia, 1940) Holiday (Incantesimo, 1938) Sylvia Scarlett (Il diavolo è femmina, 1935) Dinner at Eight (Pranzo alle otto, 1933)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

Sidney Lumet

DEATHTRAP USA, 1982, 116’, col.

Regia Sidney Lumet Soggetto dalla commedia di Ira Levin Sceneggiatura Jay Presson Allen Fotografia Andrzej Bartkowiak Montaggio Jack Fitzstephens Scenografia, Costumi Tony Walton Musica Johnny Mandel Suono James Sabat Interpreti Michael Caine (Sidney Bruhl), Christopher Reeve (Clifford Anderson), Dyan Cannon (Myra Bruhl), Irene Worth (Helga ten Dorp), Henry Jones (Porter Milgrim), Joe Silver (Seymour Starger), Tony DiBenedetto (Burt) Produttori Burtt Harris, Jay Presson Allen Produzione Warner Bros. Pictures

TRAPPOLA MORTALE Sidney Bruhl, commediografo di successo, sta passando un periodaccio: in piena crisi creativa, da tempo non riesce più a mettere insieme un lavoro decente. Per questa ragione, è molto felice quando un suo allievo, Clifford Anderson, gli invia un copione da lui scritto, intitolato Trappola mortale, perfettamente strutturato e finemente dialogato. Bruhl lo invita nella sua casa di campagna, con l’intenzione di ucciderlo e appropriarsi del manoscritto. Nonostante le resistenze di sua moglie Myra, porta a termine il suo piano, seppellendone il cadavere in giardino. Dopo poco tempo, i Bruhl ricevono la visita di Helga, una vicina di casa sensitiva, che li mette in guardia sull’imminenza di fatti violenti. È l’inizio di una serie di sconvolgenti sorprese. Finale di Murder! di Alfred Hitchcock, realizzato nel 1930: «Non piangere, Diana, le lacrime ti serviranno quando reciterai un mio dramma». Lei, Diana Baring, continua a strofinarsi il naso ma poi riesce a sorridere. Imprevedibilmente, ci si allarga a un totale: il dettaglio si ricompone nella logica di una commedia, stavolta ambientata adeguatamente sulle tavole del palcoscenico, con la donna che ripete la battuta conclusiva della sua avventura. La verità della vita sfuma nella verità dell’artifizio, in un rilancio di specchialità abbacinante e inattesa, anche per il gioco serrato sia dei piani sia dei livelli di congiunzione delle immagini. In Trappola mortale avviene esattamente l’opposto. È la commedia che rivela la verità: l’artifizio non vale se non in quanto strumento d’analisi e di messa a nudo della realtà. Si torna al giallo nella sua qualità di puzzle da sciogliere, interpretare o quantomeno accostare: la detective story sentita – e svolta – in termini morali (ed estensivamente sociopolitici). Ma c’è anche un richiamo al testo che, quando indagato e letto a fondo (come è nella tradizione ebraica), libera dal suo interno la verità, la parola primaria. (Gualtiero De Santi, Sidney Lumet, La Nuova Italia, Firenze 1987)

Filmografia essenziale Before the Devil Knows You’re Dead (Onora il padre e la madre, 2007) Night Falls on Manhattan (Prove apparenti, 1996) Deathtrap (Trappola mortale, 1982) Network (Quinto potere, 1976) Murder on the Orient-Express (Assassinio sull’Orient-Express, 1974) Serpico (id., 1973) Fail Safe (A prova di errore, 1964) A View from the Bridge (Uno sguardo dal ponte, 1962) The Fugitive Kind (Pelle di seprente, 1960) Twelve Angry Men (La parola ai giurati, 1957)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

Ingmar Bergman

EFTER REPETITIONEN Svezia, 1984, 70’, col.

DOPO LA PROVA Il regista teatrale Henrik Vogler ha l’abitudine di attardarsi in teatro per ricapitolare e riflettere sul lavoro della giornata. Una sera, al termine delle prove per Il sogno di Strindberg, rientra sul palco Anna, una giovane attrice che dice di aver smarrito il suo braccialetto. I due avviano una conversazione, lasciandosi andare all’affiorare dei sentimenti e dei ricordi, alle loro idee sul teatro, sulla sincerità, sulla natura dell’attore, sul dispotismo del regista. Emerge così, poco a poco, un complesso intrico di passioni e pulsioni che riguardano anche Rakel, la madre di Anna, con cui forse Henrik aveva avuto una relazione. La bravura di Bergman, quella che un Philippon ha definito il suo classicismo, risulta appieno da quei primi piani in cui vengono scrutati i volti e le paure dei personaggi; nei movimenti appena rilevati (vedi il traveling discendente dall’alto su Henrik addormentato) che avviano e concludono le singole partizioni; nella fluenza di una ripresa che fa scivolare nel piano del racconto, in apparenza lineare, le insorgenze del passato e del presente, della morte e dell’ansia, modificando impercettibilmente la disposizione degli arredi senza cadere in nessun cerebralismo e sconnessione. Ma se sul palcoscenico la pienezza dell’arte riesce a fari succedanea dell’esistenza, magari filtrandone il dolore con l’opposta tensione di gesti e parole (il brano delle Baccanti detto veementemente da Rakel) che trascendono il vuoto con un carico persino eccessivo di espressività, è dopo le prove che la maschera adottata non ha più poteri contro le ossessioni e l’inevitabile solitudine. Ad Anna che ricerca un confronto, Henrik replica: «Io ti offro identificazione, sollecitudine e tenerezza, ma solo dalle 10 alle 15».

Regia, Sceneggiatura Ingmar Bergman Fotografia Sven Nykvist Montaggio Sylvia Ingermarsson Scenografia Anna Asp Costumi Inger Pehrsson Suono Bo Persson Interpreti Erland Josephson (Henrik Vogler), Ingrid Thulin (Rakel Egerman), Lena Olin (Anna Egerman), Nadja Palmsjerna-Weiss (Anna Egerman da giovane), Bertil Guve (Henrik Egerman da giovane) Produttore Jörn Donner Produzione Cinematograph AB, Personafilm

(Gualtiero De Santi, “Dopo la prova”, «Cineforum» n. 256, agosto 1986)

Filmografia essenziale Larmar och gör sig till (Vanità e affanni, 1997) Efter repetitionen (Dopo la prova, 1984) Fanny och Alexander (Fanny e Alexander, 1982) Viskningar och rop (Sussurri e grida, 1972) Persona (id., 1966) Jungfrukällan (La fontana della vergine, 1960) Ansiktet (Il volto, 1958) Smultronstället (Il posto delle fragole, 1957) Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1957) Det regnar på vår kärlek (Piove sul nostro amore, 1946)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

Peter Bogdanovich

NOISES OFF USA, 1992, 101’, col.

Regia Peter Bogdanovich Soggetto dalla commedia di Michael Frayn Sceneggiatura Marty Kaplan Fotografia Tim Suhrstedt Montaggio Lisa Day Scenografia Norman Newberry Costumi Betsy Cox Musica Roy Budd Suono Mike Chock, James Christopher, Charles Ewing Smith Interpreti Michael Caine (Lloyd Fellowes), Carol Burnett (Dotty Otley), Denholm Elliott (Selsdon Mowbray), John Ritter (Garry Lejeun), Christopher Reeve (Frederick Dallas), Nicolette Sheridan (Brooke Ashton), Marilu Henner (Belinda Blair), Julie Hagerty (Poppy Taylor), Mark Linn-Baker (Tim Algood) Produttori Frank Marshall, Steve Starkey Produzione Touchstone Pictures, Amblin Entertainment

Filmografia essenziale She’s Funny That Way (Tutto può accadere a Broadway, 2014) Noises Off (Rumori fuori scena, 1992) Texasville (id., 1990) They All Laughed (... e tutti risero, 1981) Nickelodeon (Vecchia America, 1976) Daisy Miller (id., 1974) Paper Moon (id., 1973) What’s Up, Doc? (Ma papà ti manda sola?, 1972) The Last Picture Show (L’ultimo spettacolo, 1971) Targets (Bersagli, 1968)

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RUMORI FUORI SCENA A Des Moines, Iowa, stanno avendo luogo le prove generali della commedia Nothing On. È un lavoro molto impegnativo, dato che a un certo punto c’è tutto un andirivieni di personaggi, una serie di porte aperte e chiuse e un florilegio di equivoci. Alle complicate entrate e uscite di scena si sommano i problemi del dietro le quinte, in parte accidentali, in parte causati da invidie e attriti fra gli attori; problemi che, man mano passa il tempo, aumentano fino al punto di mettere a repentaglio la comprensibilità della trama. A dirigere la baraonda, il tirannico e perfezionista Lloyd Fellowes. Noises Off, l’originale commedia teatrale dell’inglese Michael Frayn, è una pièce pressoché perfetta, ideata e sviluppata in maniera tale che qualsiasi sia pur minima modifica rischierebbe di distruggere l’incanto. Per cui, era con una certa trepidazione (per non dire: robusta prevenzione) che ci siamo apprestati ad assistere a questa versione cinematografica, adattata da Martin Kaplan e diretta da Peter Bogdanovich. E invece, siamo rimasti favorevolmente sorpresi. Kaplan ha saputo tradurre il testo di Frayn senza troppi meccanicismi teatrali né arzigogoli cinematografici (il che non era facile); ma, soprattutto, è stata la macchina da presa di Bogdanovich a saper fare buon uso della storia, azzeccando con successo sia l’azione, che i dialoghi, che i tempi (e questo, era ancor meno facile). Il tutto, senza perdere neanche una risata della pièce originale. Un regista che ci aveva abituati a scatenate screwball comedies (Ma papà ti manda sola?) o a musical vecchio stile (Finalmente arrivò l’amore), non ci saremmo mai aspettati di vederlo a suo agio anche nel limitato spazio di un palcoscenico di teatro. E invece... chapeau! (Hildy Panofski, Bogdanovich’s Tongue-in-Cheek Matinée: “Noises Off”, «The Chicago Examiner», 23 marzo 1990)


DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

Louis Malle

VANYA ON 42nd STREET USA, 1994, 119’, col.

VANYA SULLA 42ESIMA STRADA Una compagnia di attori sta provando lo Zio Vanya di Cechov in un teatro prossimo alla demolizione sulla 42esima strada di New York. Il testo cechoviano, man mano procede la recita, rivela sempre più la propria modernità. Il professor Serybryakov si è ritirato nella sua casa di campagna per scrivere con calma un saggio sulla cultura russa. Amorevolmente seguiti dai domestici Tata e Waffles, sono suoi ospiti la seconda moglie Yelena, il medico di famiglia dottor Astrov, e poi Vanya, Sonya e Maman, rispettivamente fratello, figlia e madre della prima moglie, defunta, del professore. Attorno al professore, velleitario e lamentoso, si intrecciano le relazioni e le segrete passioni dei vari personaggi. Louis Malle era il regista ideale per questo progetto, che prende la tardo ottocentesca storia cechoviana e la riconcepisce come testo per attori americani addestrati alle tecniche stanislavskiane (l’adattamento di David Mamet, basato su una libera traduzione di Vlada Chernomordik, parte dai dialoghi di Cechov per arrivare il più vicino possibile ai ritmi americani, senza nulla sacrificare dell’originaria poeticità). Non solo Malle è stato un superbo direttore di attori, ma si è sempre diviso, nella sua vita professionale, tra film di finzione e documentari, ed è sempre stato affascinato dall’idea di assottigliare la linea di demarcazione fra i due generi. [...] Cechov non fu il solo, fra i grandi drammaturghi modernisti, a mettere in questione i presupposti del realismo teatrale: un paio di decenni dopo lo Zio Vanya, anche Luigi Pirandello si sarebbe confrontato con l’argomento in Sei personaggi in cerca d’autore. André Gregory e Louis Malle raccolgono questa sfida al realismo, mostrandoci quanto un gruppo di attori, che si sono calati così profondamente nei loro ruoli, non ci facciano percepire la loro trasformazione finché noi stessi non ne siamo a nostra volta completamente coinvolti. Questo è il principio stanislavskiano.

Regia Louis Malle Soggetto David Mamet, dalla commedia Zio Vanya di Anton Pavlovic Cechov Sceneggiatura André Gregory Fotografia Declan Quinn Montaggio Nancy Baker Scenografia Eugene Lee Costumi Gary Jones Musica Joshua Redman Suono Tod A. Maitland, Joel Holland, Steven Visscher Interpreti Wallace Shawn (Vanya), Brooke Smith (Sonya), Julianne Moore (Yelena), Larry Pine (il dottor Astrov), George Gaynes (il professor Serybryakov), Phoebe Brand (Tata), Jerry Mayer (Waffles), Lynn Cohen (la madre di Vanja), Madhur Jaffrey (la signora Chao), André Gregory (se stesso) Produttore Fred Berner Produzione The Vanya Company, Channel Four Films, Mayfair Entertainment

(Steven Vineberg, “Vanya on 42nd Street”: An American Vanya, www.criterion.com, 28 febbraio 2012) Filmografia essenziale Vanya on 42nd Street (Vanya sulla 42esima strada, 1994) Damage (Il danno, 1992) Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi, 1987) Atlantic City (Atlantic City, U.S.A., 1980) Lacombe Lucien (Cognome e nome: Lacombe Lucien, 1974) Le souffle au cœur (Il soffio al cuore, 1971) Le voleur (Il ladro di Parigi, 1966) Le feu follet (Fuoco fatuo, 1963) Zazie dans le métro (Zazie nel métro, 1960) Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per il patibolo, 1958)

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DOPO LA PROVA SCHERMI E PALCOSCENICO

Abdellatif Kechiche

L’ESQUIVE Francia, 2004, 117’, col.

Regia, Soggetto Abdellatif Kechiche Sceneggiatura Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix Fotografia Lubomir Bakchev Montaggio Ghalia Lacroix Scenografia Michel-Ange Gionti Costumi Maria Beloso-Hall Suono Nicolas Waschkowski, Sophie BousquetFoures Interpreti Osman Elkharraz (Krimo), Sara Forestier (Lydia), Sabrina Ouazani (Frida), Nanou Benhamou (Nanou), Hafet Ben-Ahmed (Fathi), Aurélie Ganito (Magalie), Carole Franck (l’insegnante di Francese), Hajar Hamlili (Zina), Rachid Hami (Rachid) Produttore Jacques Quaniche Produzione Lola Films, Noë Productions

LA SCHIVATA La sognatrice Lydia vive in una piccola cittadina nei dintorni di Parigi, dove frequenta il liceo locale. Scelta per interpretare il ruolo di Sylvie nella recita di fine anno, un adattamento del Gioco del caso e dell’amore di Marivaux, Lydia compra un bellissimo costume da dama del Settecento. Al momento di provarlo, incontra il compagno di scuola Krimo, un ragazzo con il padre in galera che passa il tempo in compagnia di altri bulli del quartiere. Krimo se ne innamora ma, taciturno com’è, non riesce a dichiararsi. Per avere l’occasione di frequentarla, trova la maniera di unirsi al cast della commedia. Intorno a Krimo, tutti parlano, urlano, si aggrediscono verbalmente e fisicamente: Kechiche evidenzia l’aggressività come colore dominante della comunicazione, l’insulto come appellativo ricorrente, la minaccia di percosse come la conseguenza immediata delle parole. Di fronte a una comunicazione che rimanda sempre al possibile scoppio dell’azione violenta, quel silenzio di Krimo, proprio perché così opaco e inespressivo, diviene un’immagine vivente (e priva di retorica) di un’infelicità che non è soltanto quella di un marginale delle banlieu, ma di un’adolescenza, ancora lontana da un’identità, ancora soffocata dalle sue acerbità. Il mistero del sentimento per Lydia, che lo possiede improvvisamente e intensamente, sembra ispirato dalla vitalità di quella donna, che già traspare dalla vivace irruenza, dalla malizia di Lydia. La ragazza, infatti, a differenza di Krimo, ha imparato le chiavi del linguaggio ed è entrata non solo nella parte della Sylvie di Marivaux, ma anche nelle regole interne della finzione. [...] L’entusiasmo per l’abito che potrà sfoggiare in scena tradisce anche la passione per l’assunzione di un linguaggio che sta possedendo, e da cui l’immaturità di Krimo, invece, lo esclude. (Roberto Chiesi, I terrains-vagues dell’adolescenza, «Cineforum» n. 442, marzo 2005)

Filmografia La vie d’Adèle (La vita di Adele, 2013) Vénus noire (Venere nera, 2010) La graine et le mulet (Cous cous, 2007) L’esquive (La schivata, 2004) La faute à Voltaire (Tutta colpa di Voltaire, 2000)

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FANTAMARATONA

Samuel Gallu

THEATRE OF DEATH Gran Bretagna, 1967, 91’, col.

Regia Samuel Gallu Sceneggiatura Ellis Kadison, Roger Marshall Fotografia Gilbert Taylor Montaggio Barrie Vince Scenografia Peter Proud Costumi Vi Murray Musica Elisabeth Lutyens Suono Peter Davies, Len Shilton Interpreti Christopher Lee (Philippe Darvas), Lelia Goldoni (Danielle Gireaux), Julian Glover (Charles Marquis), Jenny Till (Nicole Chapelle), Ivor Dean (l’ispettore Georges Micheaud), Joseph Furst (Karl Schiller), Evelyn Laye (madame Angélique), Betty Woolfe (Colette), Leslie Handford (Joseph) Produttore E.M. Smedmley-Aston Produzione Pennea Productions Ltd.

Filmografia Arthur! Arthur! (1969) The Limbo Line (1968) The Man Outside (L’uomo che viene da lontano, 1967) Theatre of Death (Il teatro della morte, 1967)

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IL TEATRO DELLA MORTE Da qualche tempo la città di Parigi è terrorizzata dai crimini di un misterioso assassino, che lascia le sue vittime, colpite con una pugnalata al collo, completamente dissanguate. I sospetti cadono presto su Philippe Darvas, direttore di un teatro che offre spettacoli grandguignoleschi: sospettato di essere un vampiro, viene ucciso. Danielle Gireaux, una delle sue attrici, scopre però che il vero autore dei delitti non era il suo capo, bensì qualcuno comunque all’interno del teatro. Il quale, o meglio la quale, sentitasi scoperta, cerca di eliminare la ragazza. Horror film molto intrigante, benché non troppo spettacolare, Il teatro della morte è interpretato da un Christoper Lee in grandissima forma nel ruolo di un regista di teatro dall’atteggiamento arrogante e dittatoriale. Forse, di storie del genere se ne sono già viste in abbondanza, ma a vantaggio di questo film sta il fatto di discostarsi un po’ dalle produzioni Hammer di questi ultimi tempi, nonostante con esse condivida gran parte degli attori nonché una certa cura nell’utilizzo del colore e del formato panoramico. Ambientato non nella solita epoca vittoriana, ma ai nostri giorni, Il teatro della morte sa catturare efficacemente l’atmosfera teatrale. Christopher Lee, dicevamo, ha qui un ruolo degno del suo talento, nel quale ha modo da par suo di essere inquietante ed elegante al tempo stesso; ma è un vero piacere vedere anche Julian Glover, che meriterebbe maggior attenzione sia da parte dei produttori che da parte della critica (era il colonnello Breen di Quatermass and the Pit), finalmente un po’ più in primo piano. (Jeannine B. Hare, Weekend at the Movies: Hammer Without Hammer – Samuel Gallu’s “Theatre of Blood”, «The Toronto Morning Herald», 24 novembre 1967)


FANTAMARATONA

Douglas Hickox

THEATRE OF BLOOD Gran Bretagna, 1973, 104’, col.

OSCAR INSANGUINATO La sua recitazione, basata su di uno stile vecchia scuola, molto impostato, con qualche punta di gigioneria, non ha giovato al successo critico dell’attore shakespeariano Edward Kendal Sheridan Lionheart che, vistosi negare un importante premio, adesso sta meditando tremenda vendetta. Con l’aiuto della figlia Edwina, si finge morto, quindi procede all’eliminazione dei critici che l’hanno stroncato. Per compiere la sua vendetta, truculenta ma molto letteraria, si servirà dei supplizi ideati dal Bardo per le tragedie Giulio Cesare, Troilo e Cressida, Cimbelino, Il mercante di Venezia, Riccardo III, Otello, Enrico VI, Tito Andronico, Romeo e Giuletta e, buon ultimo, Re Lear. Vincent Price fu un uomo rinascimentale. Attore di teatro e di cinema, autore, collezionista d’arte, conferenziere, cuoco, accattivante declamatore pubblico di prosa e poesia, oggi è meno ricordato per i ruoli seri interpretati nei film di serie A durante gli anni Quaranta che per quelli da esteta maledetto da lui impersonati in horror per lo più a basso budget, e spesso dal tono scherzoso, girati tra la metà dei Cinquanta e i Settanta. Quella che probabilmente è la sua migliore interpretazione, e certamente quella che mise meglio in luce i suoi variegati talenti di attore, esteta, mellifluo declamatore di versi, oratore vecchio stile ed esponente si spicco del genere horror, si trova nella classica commedia nera di Douglas Hickox Oscar insanguinato, il migliore di una serie di horror girati da Price in Gran Bretagna. [...] Il film – incubo dei critici e delizia degli attori – è scritto da Anthony Greville-Bell, già eroe delle SAS durante la guerra, che riesce a essere estremamente divertente nell’esplorazione del lato oscuro di Shakespeare, e a rendere allo stesso tempo giustizia alla tradizione del grand guignol.

Regia Douglas Hickox Soggetto Stanley Mann, John Kohn, dalle tragedie di William Shakespeare Sceneggiatura Anthony Greville-Bell Fotografia Wolfgang Suschitzky Montaggio Malcolm Cooke Scenografia Michael Seymour Costumi Michael Baldwin Musica Michael J. Lewis Suono Les Wiggins Interpreti Vincent Price (Edward Kendal Sheridan Lionheart), Diana Rigg (Edwina Lionheart), Ian Hendry (Peregrine Devlin), Harry Andrews (Trevor Dickman), Coral Browne (Chloe Moon), Robert Coote (Oliver Larding), Jack Hawkins (Solomon Psaltery) Produttori Stanley Mann, John Kohn Produzione Harbour Productions Limited

(Philip French, Theatre of Blood – Philip French on Douglas Hickox’s 70s Horror Classic, «The Guardian», 1 giugno 2014)

Filmografia essenziale Zulu Dawn (id., 1979) Sky Riders (Gli uomini falco, 1976) Brannigan (Ispettore Brannigan, la morte segue la tua ombra, 1975) Theatre of Blood (Oscar insanguinato, 1973) Sitting Target (Il sanguinario, 1973) Entertaining Mr. Sloane (1970) Les bicyclettes de Belsize (1969) Just for You (1966) It’s All Over Town (1963) Behemoth the Sea Monster (Il drago degli abissi, 1959)

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KINO CLUB

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KINO CLUB

LA BANDA DEL KINO CLUB «We accept you, one of us! Gooble Gobble!» (Tod Browning, Freaks, 1932) Kino Club, la sezione di Bergamo Film Meeting dedicata ai giovani e ai giovanissimi, festeggia con la trentatreesima edizione del Festival quattro anni di attività. Da esperimento, tentativo, progetto di coinvolgimento degli spettatori più piccoli è diventata una certezza irrinunciabile, trovando linfa nella curiosità dei ragazzi e nella volontà di partecipazione degli insegnanti. Grazie alla disponibilità delle scuole primarie e secondarie di Bergamo e provincia, anno dopo anno il Festival è riuscito ad instaurare un dialogo vivo con bambini, preadolescenti e adolescenti, coinvolgendoli attraverso una proposta ragionata in base alle esigenze a cui rispondono le diverse fasi della crescita. Se generalmente al termine “club” viene associato un concetto di esclusività e di elitarismo, l’idea alla base del progetto Kino Club è invece di essere il più possibile inclusivo, aperto a tutti: offrire ai ragazzi un programma di produzioni filmiche d’autore altrimenti destinate a un pubblico di soli appassionati, allargando allo stesso tempo il perimetro della sala fino a comprendere workshop, laboratori e, per gli amanti dell’avventura, anche una caccia al tesoro a tema cinematografico. Attività adatte ai piccoli come ai grandi, senza distinzioni. Se è dunque fondamentale «imparare a vedere», come sosteneva Leo Lionni, è altrettanto vero d’altra parte che «se vedo ricordo» ma «se faccio capisco», come ci ricorda Bruno Munari citando un antico proverbio cinese: per questo motivo Bergamo Film Meeting ha incrementato per l’edizione 2015 l’offerta riguardante le attività laboratoriali, in modo tale che i ragazzi possano apprendere creando e mettersi alla prova in prima persona. Si rinnova così l’appuntamento con “Telepongo”, workshop di approccio all’animazione a cura dell’associazione Avisco di Brescia, durante il quale si potrà realizzare il proprio cortometraggio in stop-motion partendo dalla creazione di figure in plastilina, mentre con lo Studio Bozzetto ci si potrà addentrare nei meccanismi che regolano la produzione di un filmato di animazione, dal primo schizzo alla messa in onda finale. Tuono Pettinato, fumettista e autore abile nel tratteggiare il mondo dell’infanzia in modo tenero ma mai condiscendente – capace di narrare le prime palpitazioni del cuore in La vera storia d’amore di Giacomo Candulli (ed. Campanila), quanto le prime ombre esistenziali del Kurt Cobain bambino in Nevermind (ed. Rizzoli Lizard) – avrà il compito di introdurre i ragazzi al mondo del disegno, tramite un laboratorio interattivo dedicato alla scoperta dei trucchi del mestiere. Nel buio della sala troveranno posto due pellicole molto diverse per tematiche, pubblico e tecniche. Da una parte Un gatto a Parigi di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, raffinato lungometraggio di animazione realizzato interamente a mano, dove una trama a tinte gialle si mescola al ritratto delicato di una bambina alle prese con l’elaborazione del lutto per la perdita del padre; dall’altra Bande de filles di Céline Sciamma, romanzo di formazione che restituisce un’immagine delle bande di giovani delle banlieu parigine priva di retorica e falsi moralismi. Le proiezioni comprenderanno anche la visione di brevi film realizzati dai giovani pazienti degli Spedali Civili di Brescia, grazie a un progetto a cura dell’associazione Avisco. Il rischio maggiore per i ragazzi oggi non è la mancanza di sollecitazioni quanto l’incapacità di sviluppare un sentire soggettivo: l’incontro con il cinema può dunque essere cruciale per iniziare a costruire una propria identità personale, utile a comprendere il mondo circostante. Diceva Truffaut che «fare un film significa migliorare la vita»: per noi di Kino Club anche semplicemente poterne vedere uno può rappresentare un passo avanti verso quella direzione.

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KINO CLUB

Jean-Loup Felicioli, Alain Gagnol

UNE VIE DE CHAT A CAT IN PARIS

Francia | Olanda | Svizzera | Belgio, 2010, 70’, col.

Regia Jean-Loup Felicioli, Alain Gagnol Sceneggiatura Alain Gagnol, Jacques-Rémy Girerd Montaggio Hervé Guichard Scenografia Jean-Loup Felicioli Musica Serge Besset Suono Loïc Burckhardt Voci Oriane Zani (Zoe), Dominique Blanc/ Barbara Berengo Gardin (Jeanne), Bruno Salomone/Sergio Lucchetti (Nico), Bernadette Lafont/Roberta Gasparetti (Claudine), Jean Benguigui/Giorgio Lopez (Victor Costa), Bernard Bouillon/Sergio Luzi (Lucas), Jacques Ramade (monsieur Bébé), Jean-Pierre Yvars (monsieur Hulot) Produttori Jacques-Rémy Girerd, Annemarie Degryse, Artelle Zylberberg Produzione Folimage, Digit Cinema, France 3 Cinéma, Lumière, Lunanime, RTBF, Rhône-Alpes Cinéma Distribuzione P.F.A. Films

Filmografia [co-regia Jean-Loup Felicioli, Alain Gagnol] Phantom Boy (2015) Une vie de chat (Un gatto a Parigi, 2010) Mauvais temps (short, 2006) Le couloir (short, 2005) Le nez à la fenêtre (short, 2000) Les tragédies minuscules (tv series, 1999) L’egoïste (short, 1997)

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UN GATTO A PARIGI La piccola Zoe, orfana di padre e figlia dell’ispettrice di polizia Jeanne, può contare sul conforto di Dino, un bel gatto che conduce una doppia vita: durante il giorno è tutto casa e famiglia, di notte segue nelle sue imprese lo scassinatore Nico. Mentre Jeanne è impegnata nelle indagini volte alla cattura del pericoloso Victor Costa, responsabile fra le altre cose della morte di suo marito, Zoe, Dino e Nico si trovano una notte alle prese con lo stesso criminale. Jean-Loup Felicioli (Albertville, Francia, 1960) ha frequentato scuole d’arte ad Annecy, Strasburgo, Perpignan e Valence. Dal 1987 lavora come grafico e artista per Folimage. Alain Gagnol (Roanne, Francia, 1967) ha frequentato l’Ecole Emile Cohl a Lione, dove ha studiato animazione e design. Ha scritto numerosi romanzi e dal 1988 lavora per Folimage. «L’idea principale era di fare un film noir per bambini. Ho scritto diversi romanzi legati al mondo del crimine, un immaginario dal quale ho sempre attinto per la creazione delle mie storie. Il personaggio del gatto ladro è venuta prima, con il gatto come compagno criminale. Vivo in un appartamento con una finestra con vista sui tetti del mio quartiere, che ho usato per vedere i gatti là fuori al tramonto, senza riuscire a fare a meno di chiedermi che cosa facciano la sera». Ci sono i gatti, in questo film; e ci sono elementi universali, archetipici dunque, che Alain Gagnol ha individuato, questa volta insieme a JacquesRémy Girerd, e ha messo in opera con l’aiuto di Jean-Loup Felicioli, con il quale collabora dal 1997 (L’égoïste, cortometraggio) a un cinema d’animazione disegnato a mano e realizzato con tecniche classiche, lontane dagli effetti speciali e dal 3D degli ultimi anni. [...] Torniamo alla sensibilità umana e psicologica degli autori di questo film e al realismo che li caratterizza, che però è un realismo magico e cioè incastonato in un alone fiabesco, sottolineato da una colonna sonora jazz (Serge Besset, che collabora da anni con Girerd, più un brano di Billie Holiday) che sta tra il noir americano e quello francese, e che inscrive, volendo, il film nel genere del polar, con annessi e connessi in termini di riferimenti (ma noi citiamo solo quello più superficiale, Caccia al ladro, per il Gatto). Però quello di Gagnol e Felicioli è un noir particolare perché ha un ritmo ovattato e lento, quello degli sguardi più che quello delle azioni. (Paola Brunetta, Un gatto a Parigi, «Cineforum» n. 541, gennaio/febbraio 2015)


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Céline Sciamma

BANDE DE FILLES GIRLHOOD

Francia, 2014, 112’, col.

GIRLHOOD La sedicenne Marieme è oppressa dal suo background familiare, dalla mancanza di prospettive a scuola e dai ragazzi che dettano legge nel quartiere. Quando incontra tre spigliate ragazze della sua età, cambia nome e stile, e abbandona la scuola per essere accettata nel gruppo; nella speranza che tutto ciò rappresenti un cammino verso la libertà. Céline Sciamma (Pontoise, Francia, 1978) è fra le maggiori esponenti di una nuova generazione di cineasti francesi, debitori tanto del giovane cinema d’Oltralpe degli anni Novanta (Desplechin, Lvovsky, Rochant), quanto dello sguardo sugli adolescenti di Van Sant e Clark. Dopo essersi laureata in letteratura francese, frequenta la scuola parigina di cinema La Fémis. Tra il 2004 e il 2006 collabora alla stesura della sceneggiatura di Les premières communions (2004) e Cache ta joie (2006), cortometraggi di Jean-Baptiste de Laubier. Debutta alla regia nel 2007 con Naissance des pieuvres, con cui vince il Premio Louis-Delluc per la migliore opera prima e il Prix de la Jeunesse al Festival du Film de Cabourg. Nel 2009 dirige il cortometraggio Pauline e collabora alla sceneggiatura di Ivory Tower di Adam Traynor. Nel 2011, con il suo secondo lungometraggio (Tomboy) vince numerosi premi, tra cui quello del pubblico al Torino GLBT. Bande de filles è il suo terzo film.

Regia, Sceneggiatura Céline Sciamma Fotografia Crystel Fournier Montaggio Julien Lacheray Musica Para One Suono Pierre André, Daniel Sobrino Interpreti Karidja Touré (Marieme/Vic), Assa Sylla (Lady), Lindsay Karamoh (Adiatou), Marietou Touré (Fily) Produttore Bènédicte Couvreur Produzione Hold Up Films, Lilles Films, Arte France Cinéma Distribuzione Teodora

«Ancora una volta si tratta di un film sui giovani, sulle ragazze. Sono tornata alla tematica dell’adolescenza, o meglio laddove finisce, con quattro ragazze che cercano di vivere la propria giovane vita. In un certo senso è una situazione diversa, ma vi è comunque una chiara continuità con le questioni che ho trattato nei miei film precedenti: l’agitazione del desiderio, la forza della femminilità e la necessità di sfuggire a un destino prestabilito».

Filmografia Bande de filles (Girlhood, 2014) Tomboy (2011) Pauline (short, 2009) Naissance des pieuvres (Water Lilies, 2007)

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GAWA GAWA USEDUMP! Italia, 2014, 3’17’’, col., animazione della plastilina [realizzato dagli alunni e dalle alunne delle classi quarte della Scuola primaria “Giovanni Pascoli” di Bergamo all’interno del laboratorio di produzione “Telepongo – Viaggio alla scoperta dell’animazione” tenuto dall’Associazione Avisco – AudioVisivoScolastico]

All’interno del laboratorio “Telepongo”, le bambine e i bambini delle classi quarte si sono cimentati con la tecnica del film d’animazione percorrendo, una dopo l’altra, le fasi della produzione filmica. La filastrocca “nonsense” Gawa Gawa Usedump! di Michael Ende, è sembrata subito perfetta da animare con la plastilina e da proporre come prima esperienza di cinema d’animazione agli alunni della scuola primaria Giovanni Pascoli di Bergamo, che si sono dedicati alla costruzione dei personaggi con la plastilina e in piccoli gruppi hanno studiato le azioni e i movimenti, lasciandosi condurre dalle suggestioni sonore delle parole.

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KINO CLUB CARTONI ANIMATI IN... CORSIA!

CARTONI ANIMATI IN... CORSIA! Coordinatore del progetto Vincenzo Beschi Operatori dei laboratori di cinema d’animazione Vincenzo Beschi, Sandra Cimaschi, Silvia Palermo, Irene Tedeschi Incontri di visione guidata Chiara Boffelli Produzione Associazione Avisco – AudioVisivoScolastico, in collaborazione con l’Ospedale dei Bambini – Spedali Civili di Brescia Post produzione Vincenzo Beschi, Silvia Palermo, Irene Tedeschi Il progetto ha visto la partecipazione di un centinaio di bambini e bambine, ragazze e ragazzi dai quattro ai diciassette anni – dei reparti di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Oncoematologia pediatrica, Chirurgia pediatrica, Ortopedia e Traumatologia pediatrica, Otorinolaringoiatria pediatrica e Pediatria – che hanno ideato, costruito con la carta strappata e animato tante storie: alcune brevissime, inventate dai giovani pazienti e subito trasformate in cartoni animati, altre ispirate da filastrocche di Sabrina Giarratana, Chiara Carminati, Gek Tessaro e Gianni Rodari che gli autori in erba hanno fatto proprie realizzando i personaggi, ideando le animazioni e registrando il testo. Produrre un film d’animazione è un’attività molto coinvolgente, che favorisce la socializzazione e il benessere, aiuta a dare corpo e voce al proprio mondo interiore, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Il laboratorio, caratterizzato da un approccio ludico, stimola la creatività e la consapevolezza di sé e crea uno spazio in cui incontrare gli altri, aiutando il bambino ospedalizzato e la sua famiglia a vivere l’ambiente e il tempo della degenza come occasioni di divertimento e apprendimento, oltre che di cura. 219


KINO CLUB CARTONI ANIMATI IN... CORSIA!

DOVE VAI? Italia, 2014, 2’10’’, col., animazione della sabbia [di Arianna, Ingrid, Sara, Silvana]

La sabbia è fine, leggera, incontenibile e volatile. Non sembrerebbe proprio un materiale adatto ad essere animato. Oppure sì?

FILASTROCCA DEL MARE Italia, 2014, 1’30’’, col., animazione della carta [di Giorgia, Gani, Ilias, Federico, Biran, Andrea e Mattia]

Quando l’estate si avvicina e la spiaggia è solamente una cartolina, basta un po’ di carta colorata e la giusta dose di fantasia: in un battibaleno i bagnanti in mezzo alle onde, i flutti, gli spruzzi e i paesini in riva al mare non saranno più solo un miraggio.

FILASTROCCA DELLE NUVOLE Italia, 2014, 1’55’’, col., animazione della carta [di Angela, Javier, Giulia, Sara, Selma, Marco, Anna, Roberto, Nicholas, Emilia, Asia, Alice, Giorgia]

Spesso le nuvole si osservano dalle finestre, e nelle camere di ospedale le finestre sono molto grandi. Forse è per questo motivo che i giovani pazienti si sono entusiasmati alla lettura del testo di Sabrina Giarratana e hanno costruito nuvole, nuvoloni e nuvolette veramente... solari.

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KINO CLUB CARTONI ANIMATI IN... CORSIA!

ICARO Italia, 2014, 1’35’’, col., animazione della plastilina [di Adriana, Arianna, Melania e Sonia]

La mitologia affascina da sempre gli individui più inclini a porsi delle domande. Perché il ragazzo dai riccioli dorati, davanti a una finestra chiusa, sente l’irrefrenabile desiderio di spiccare il volo? Cosa va cercando tra le nuvole? A questi e a tanti altri dilemmi, il film di animazione... saprà dare una risposta?

JAMES BONES IL CANGIANTE CORPO VUOTO Italia, 2014, 2’10’’, col., animazione della plastilina [di Costanza, Francesca, Isabella, Matteo, Sara, Veronica e Viola in collaborazione con Arianna, Ingrid, Sara, Silvana] La storia di uno scheletro e del suo viaggio. Perché parte? Cosa va cercando? E cosa incontra? Lungo il percorso cambia senza perdere la propria identità o si trasforma in qualcosa di completamente diverso? Per scoprirlo basta entrare in questo piccolo film e viaggiare insieme al protagonista...

IL VIAGGIO Italia, 2014, 5’10’’, col., tecniche varie [di Giuseppe, Inza, Asetou, Mohamed, Hamath, Sebastian, Jaskaran, Marino, Lorenzo, Diego, Laura, Daniil, Gabriel, Matteo, Giovanni]

Viaggiare comporta sempre qualche rischio e, in fin dei conti, non sempre è conveniente avere i piedi per terra. La poesia in rima di Gek Tessaro si è dunque trasformata in immagine in movimento... o sarebbe forse meglio dire, in “immagine movimentata”?

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INDICE DEI REGISTI INDEX TO DIRECTORS

A

AA.VV., 216, 218-219 Abbruzzese, Giacomo, 37 Amrami, Ester, 20 Arnold, Andrea, 68-74 Auner, Dieter, 38

B

Barma, Claude, 156 Baudinaud, Lucie, 57 Becker, Jacques, 183 Beckermann, Ruth, 39 Begić, Aida, 81-86 Bergman, Ingmar, 201 Bogdanovich, Peter, 202 Bull Robsahm, Nini, 30 Bürgelin, Jana, 40

C

Hitchcock, Alfred, 197 Hossein, Robert, 176

K

Kechiche, Abdellatif, 204 Kocsis, Ágnes, 92-97 Koutský, Pavel, 126-140 Krane Meby, Truls, 54 Kursietis, Juris, 26

L

La Cava, Gregory, 196 Lacombe, Georges, 168 Liebaert, Pierre, 48 Lolli, Franco, 28 Losey, Joseph, 151 Lubitsch, Ernst, 150 Lüdin, Angelo A., 49 Lumet, Sidney, 200

Cadei, Michele, 41 Campara, Chiara, 57 Carlstedt, Martina, 58 Christian-Jaque [Christian Maudet], 170 Cipolat, Davide, 57 Clerici, Francesco, 42 Clouzot, Henri-Georges, 169, 172 Cukor, George, 199 Czepiec, Teresa, 43

M

D

O

Dall’Avo Manfroni, Giovanni, 57 D’Aoust, Benjamin, 44 Dassin, Jules, 175 Decoin, Henri, 171, 173, 174 De La Patellière, Denys, 178 Düzgünoğlu, Murat, 22

E

Escandari, Amir, 45

F

Faggi, Lorenzo, 57 Felicioli, Jean-Loup, 214 Flörks, Pascal, 46 Franju, Georges, 185

G

Gabryel, Aniela, 58 Gagnol, Alain, 214 Gallu, Samuel, 208 Garaño, Jon, 24 Gerö, Marcell, 47 Goenaga, José Mari, 24 Gold, Jack, 163 Grangier, Gilles, 179, 180

H

Hawks, Howard, 195 Hickox, Douglas, 209

Malle, Louis, 203 Mamoulian, Rouben, 194 Manutrillo, 50 Melville, Jean-Pierre, 182, 187 Mihai, Teodora Ana, 51 Molinaro, Édouard, 181, 186 Moretti, Marilena, 145 Ophuls, Max, 198 Ozon, François, 144

P

Pedersen, Egil, 55 Pilskog, Are, 55 Pilskog, Sturla, 55

R

Rešek, Katarina, 59

S

Sautet, Claude, 184 Schirman, Nadav, 146 Sciamma, Céline, 215

T

Tervo, Miia, 56 Travis, Glen, 59

V

Verneuil, Henri, 177 Villaverde, Teresa, 106-115

W

Wiseman, Frederick, 157

Z

Zomborácz, Virág, 32 Zweig, Sarah Yona, 52 225


INDICE DEI FILM INDEX TO FILMS

18 kép egy konzervgyári lány életéből/18 Pictures from the Life of a Conserve Factory Girl, 93 20th Century/Ventesimo Secolo, 195

A

A Favor da Claridade/In Favour of Light, 110 Água e Sal/Acqua e sale, 109 Album [ep. di Les ponts de Sarajevo/I ponti di Sarajevo], 86 Amants du Tage (Les)/Amanti del Tago (Gli), 177 Amapola/Poppy [ep. di Venezia 70 – Future Reloaded], 114 Amnesia, 30 Anderswo/Anywhere Else, 20 Applause, 194 Assassin habite au 21 (L’)/Assassino abita al 21 (L’), 169 Ať žije myš/Long Live the Mouse, 131 Autoportrét/Animated Self-Portraits, 130

B

Backstage of Tradition (The), 52 Bande de filles/Girlhood, 215 Bär/Bear, 46 Bed Bugs [ep. di Coming Up], 71 Below the Row, 59 Belphégor/Belfagor, 156 Bilancování/Balancing, 138

C

Cisne/Swan, 113 Classe tous risques/Asfalto che scotta, 184 Cold Wa(te)r [ep. di Visions of Europe], 111 Co oko neuvidí/Out of Sight, 129 Čtyři lásky/Four Loves, 137 Curriculum vitae, 129

D

Deathtrap/Trappola mortale, 200 Dernier des six (Le)/Ultimo dei sei (L’), 168 Desordre et la nuit (Le)/Vizio e la notte (Il), 180 Deux hommes dans Manhattan/ Jene del quarto potere (Le), 182 Dilema/Dilemma, 127 Djeca/Buon anno Sarajevo, 85 Dobrá rada/Good Advice, 139 Dog, 69 Dos au mur (Le)/Spalle al muro, 181 Doulos (Le)/Spione (Lo), 187 Dove vai?, 218 Dreams of a Clown, 38 Du rififi chez les hommes/Rififi, 175 Duelo/Duel, 133

E

Échec au porteur/Scacco alla morte, 179 Efter repetitionen/Dopo la prova, 201 Egy nap/Day (A) [ep. di Magyarország 2011/ Hungary 2011], 97 Entre onze heures et minuit/Tra le undici e mezzanotte, 174 Esquive (L’)/Schivata (La), 204 Eve/Eva, 151

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F

Filastrocca del mare, 218 Filastrocca delle nuvole, 218 Fille du diable (La), 171 Fish Tank, 73 Friss levegő/Fresh Air, 95

G

Gawa Gawa Usedump!, 216 Gente de bien, 28 Gesto delle mani (Il), 42 Girls (Les), 199 Green Prince (The)/ Figlio di Hamas – The Green Prince (Il), 146

H

Houslový koncert/Violin Concert (A), 126 Husiti/Hussites, 140

I

Icaro, 219 Idade Maior (A)/Alex, 106 Ishavshanda/Ice Handscape, 55

J

Non coupable/Condannatemi!, 173 Nouvelle amie (Une)/Nuova amica (Una), 144 Nuit qu’on suppose (La)/Night We Suppose (The), 44

O

O bankách a lidech/Of Banks and People, 136 Od Praotce k Unii/Looking Back, 139 Oloimugi, 41 Otel(o) [ep. di Unutma beni Istanbul/ Do Not Forget Me Istanbul], 84

P

Það kemur í ljós/It Will Come to Light, 57 Pál Adrienn/Adrienn Pál, 96 Photofinish – Una stagione alle corse, 57 Pixadores, 45 Plastic People, 138 Pleins feux sur l’assassin/Piena luce sull’assassino, 185 Portrét/Portrait (The), 131 Prvo, smrtno iskustvo/First Death Experience, 81 Puppe (Die)/Bambola di carne (La), 150 Pygmalion, 136

Q

James Bones – Il cangiante corpo vuoto, 219

Quai des Orfèvres/Legittima difesa, 172 Quivir/Greats, 50

K

R

Káin gyermekei/Cain’s Children, 47 Karlův most/Charles Bridge [ep. di Dopisy z Česka/ Letters from Czech Republic], 137 Katastrofy/Disasters, 128 Kavárna/Café, 134 Koktejl/Cocktail, 135

Red Road, 72 Retour de manivelle/Delitto sulla Costa Azzurra, 178 Revenant (Un)/Spettro del passato (Lo), 170 Romeo a Julie/Romeo and Juliet, 140 Ronde (La), 198

L

Salauds vont en enfer (Les)/ Assassini vanno all’inferno (Gli), 176 Santra ja puhuvat puut/Santra and the Talking Trees, 56 Sara e a Sua Mãe/Sara and Her Mother [ep. di Les ponts de Sarajevo/I ponti di Sarajevo], 115 Schweben wie Schmetterlinge, stechen wie Bienen/ Floating Like Butterflies, Stinging Like Bees, 40 Sjever je poludio/North Went Mad, 82 Snijeg/Snow, 83 Stage Door/Palcoscenico, 196 Stage Fright/Paura in palcoscenico, 197 Superjednostka/Super Unit, 43 Svět 2000/World 2000, 132 Szortírozott levelek/Assorted Letters, 92

Láska na první pohled/Love at First Sigh, 130 Laterna muzika/Laterna Musica, 128 Lecieć, nie­lecieć/To Fly or Not to Fly, 58 Libre maintenant/Free Now, 48 Loreak/Flowers, 24

M

Má Vlast/My Country, 134 Média/Media, 135 Micke & Tommy, 58 Milk, 68 Modris, 26 Moje ime je Ogledalo/My Name Is Mirror, 59 Mort de Belle (La)/Chi ha ucciso Bella Sherman?, 186 Mutantes (Os)/ Mutants (The), 108

N

Naked Civil Servant (The)/Funzionario nudo (Il), 163 National Gallery, 157 Navštivte Prahu/Welcome to Prague, 127 Neden Tarkovski olamıyorum/ Why Can’t I Be Tarkovsky?, 22 No comment, 132 Noises Off/Rumori fuori scena, 202

S

T

Theatre of Blood/Oscar insanguinato, 209 Theatre of Death/Il teatro della morte, 208 This Is the Way, 37 Thomas Hirschhorn – Gramsci Monument, 49 Those Who Go Those Who Stay, 39 Transe/Trance, 112 Três Irmãos/Two Brothers, My Sister, 107 Trojfórum/Triple Forum, 126 Trou (Le)/Buco (Il), 183 227


U

Utóélet/Afterlife, 32

V

Vanya on 42nd Street/Vanya sulla 42esima strada, 203 Várjjatvuotnalaččat/Portraits from Varangerfjord, 55 Verdensvevde Kropper/World Wide Woven Bodies, 54 Viaggio (Il), 219 Vie de chat (Une)/Gatto a Parigi (Un), 214 Vírus (A)/Virus (The), 94 Vivat Evropa!/Cheers Europe!, 133

W

Waiting for August, 51 Walking with Red Rhino – A spasso con Alberto Signetto, 145 Wasp, 70 Wuthering Heights, 74

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INDICE GENERALE CONTENTS


MOSTRA CONCORSO EXHIBITION COMPETITION Anderswo/Anywhere Else, 20 Neden Tarkovski olamıyorum/Why Can’t I Be Tarkovsky?, 22 Loreak/Flowers, 24 Modris, 26 Gente de bien, 28 Amnesia, 30 Utóélet/Afterlife, 32 VISTI DA VICINO | CLOSE UP This Is the Way, 37 Dreams of a Clown, 38 Those Who Go Those Who Stay, 39 Schweben wie Schmetterlinge, stechen wie Bienen/ Floating Like Butterflies, Stinging Like Bees, 40 Oloimugi, 41 Gesto delle mani (Il), 42 Superjednostka/Super Unit, 43 Nuit qu’on suppose (La)/Night We Suppose (The), 44 Pixadores, 45 Bär/Bear, 46 Káin gyermekei/Cain’s Children, 47 Libre maintenant/Free Now, 48 Thomas Hirschhorn – Gramsci Monument, 49 Quivir/Greats, 50 Waiting for August, 51 Backstage of Tradition (The), 52 FILMS FROM THE NORTH Verdensvevde Kropper/World Wide Woven Bodies, 54 Várjjatvuotnalaččat/Portraits from Varangerfjord, 55 Ishavshanda/Ice Handscape, 55 Santra ja puhuvat puut/Santra and the Talking Trees, 56 THE BEST OF CILECT PRIZE IN DOC Það kemur í ljós/It Will Come to Light, 57 Photofinish – Una stagione alle corse, 57 Micke & Tommy, 58 Lecieć, nie­lecieć/To Fly or Not to Fly, 58 Moje ime je Ogledalo/My Name Is Mirror, 59 Below the Row, 59 EUROPA: FEMMINILE, SINGOLARE Andrea Arnold Milk, 68 Dog, 69 Wasp, 70 Bed Bugs [ep. di Coming Up], 71 Red Road, 72

Fish Tank, 73 Wuthering Heights, 74 Aida Begić Prvo, smrtno iskustvo/First Death Experience, 81 Sjever je poludio/North Went Mad, 82 Snijeg/Snow, 83 Otel(o) [ep. di Unutma beni Istanbul/ Do Not Forget Me Istanbul], 84 Djeca/Buon anno Sarajevo, 85 Album [ep. di Les ponts de Sarajevo/ I ponti di Sarajevo], 86 Ágnes Kocsis Szortírozott levelek/Assorted Letters, 92 18 kép egy konzervgyári lány életéből/18 Pictures from the Life of a Conserve Factory Girl, 93 Vírus (A)/Virus (The), 94 Friss levegő/Fresh Air, 95 Pál Adrienn/Adrienn Pál, 96 Egy nap/Day (A) [ep. di Magyarország 2011/ Hungary 2011], 97 Teresa Villaverde Idade Maior (A)/Alex, 106 Três Irmãos/Two Brothers, My Sister, 107 Mutantes (Os)/Mutants (The), 108 Água e Sal/Acqua e sale, 109 A Favor da Claridade/In Favour of Light, 110 Cold Wa(te)r [ep. di Visions of Europe], 111 Transe/Trance, 112 Cisne/Swan, 113 Amapola/Poppy [ep. di Venezia 70 – Future Reloaded], 114 Sara e a Sua Mãe/Sara and Her Mother [ep. di Les ponts de Sarajevo/ I ponti di Sarajevo], 115 PAVEL KOUTSKÝ Houslový koncert/Violin Concert (A), 126 Trojfórum/Triple Forum, 126 Navštivte Prahu/Welcome to Prague, 127 Dilema/Dilemma, 127 Katastrofy/Disasters, 128 Laterna muzika/Laterna Musica, 128 Curriculum vitae, 129 Co oko neuvidí/Out of Sight, 129 Láska na první pohled/Love at First Sigh, 130 Autoportrét/Animated Self-Portraits, 130 Portrét/Portrait (The), 131 Ať žije myš/Long Live the Mouse, 131 No comment, 132 229


Svět 2000/World 2000, 132 Vivat Evropa!/Cheers Europe!, 133 Duelo/Duel, 133 Kavárna/Café, 134 Má Vlast/My Country, 134 Koktejl/Cocktail, 135 Média/Media, 135 O bankách a lidech/Of Banks and People, 136 Pygmalion, 136 Čtyři lásky/Four Loves, 137 Karlův most/Charles Bridge [ep. di Dopisy z Česka/ Letters from Czech Republic], 137 Plastic People, 138 Bilancování/Balancing, 138 Od Praotce k Unii/Looking Back, 139 Dobrá rada/Good Advice, 139 Romeo a Julie/Romeo and Juliet, 140 Husiti/Hussites, 140 ANTEPRIME Nouvelle amie (Une)/Nuova amica (Una), 144 Walking with Red Rhino – A spasso con Alberto Signetto, 145 Green Prince (The)/Figlio di Hamas – The Green Prince (Il), 146 BERGAMO FILM MEETING INAUGURA BERGAMO JAZZ Puppe (Die)/Bambola di carne (La), 150 Eve/Eva, 151 RIAPRE L’ACCADEMIA CARRARA Belphégor/Belfagor, 156 National Gallery, 157 CULT MOVIE – GAMeCINEMA Naked Civil Servant (The)/Funzionario nudo (Il), 163 Il POLAR NASCITA E FORMAZIONE DI UN GENERE Dernier des six (Le)/Ultimo dei sei (L’), 168 Assassin habite au 21 (L’)/Assassino abita al 21 (L’), 169 Revenant (Un)/Spettro del passato (Lo), 170 Fille du diable (La), 171 Quai des Orfèvres/Legittima difesa, 172 Non coupable/Condannatemi!, 173 Entre onze heures et minuit/ Tra le undici e mezzanotte, 174 Du rififi chez les hommes/Rififi, 175 Salauds vont en enfer (Les)/ Assassini vanno all’inferno (Gli), 176 230

Amants du Tage (Les)/Amanti del Tago (Gli), 177 Retour de manivelle/Delitto sulla Costa Azzurra, 178 Échec au porteur/Scacco alla morte, 179 Desordre et la nuit (Le)/Vizio e la notte (Il), 180 Dos au mur (Le)/Spalle al muro, 181 Deux hommes dans Manhattan/ Jene del quarto potere (Le), 182 Trou (Le)/Buco (Il), 183 Classe tous risques/Asfalto che scotta, 184 Pleins feux sur l’assassin/ Piena luce sull’assassino, 185 Mort de Belle (La)/Chi ha ucciso Bella Sherman?, 186 Doulos (Le)/Spione (Lo), 187 DOPO LA PROVA: SCHERMI E PALCOSCENICO Applause, 194 20th Century/Ventesimo Secolo, 195 Stage Door/Palcoscenico, 196 Stage Fright/Paura in palcoscenico, 197 Ronde (La), 198 Girls (Les), 199 Deathtrap/Trappola mortale, 200 Efter repetitionen/Dopo la prova, 201 Noises Off/Rumori fuori scena, 202 Vanya on 42nd Street/ Vanya sulla 42esima strada, 203 Esquive (L’)/Schivata (La), 204 FANTAMARATONA Theatre of Death/Il teatro della morte, 208 Theatre of Blood/Oscar insanguinato, 209 KINO CLUB Vie de chat (Une)/Gatto a Parigi (Un), 214 Bande de filles/Girlhood, 215 Gawa Gawa Usedump!, 216 CARTONI ANIMATI IN… CORSIA! Dove vai?, 218 Filastrocca del mare, 218 Filastrocca delle nuvole, 218 Icaro, 219 James Bones – Il cangiante corpo vuoto, 219 Viaggio (Il), 219


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LA SOCIETÀ AGRICOLA ELAV

Agricoltura biologica - Val d’Astino (Bergamo Alta)

L’OSSERVATORE ELAVIANO Periodico di culto targato Elav

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Finito di stampare il 3 Marzo 2015 presso Tipolitografia Pagani - Lumezzane (BS)

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