Premio Sergio Amidei - Catalogo 2017

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017


36esimo Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei” Comune di Gorizia–Assessorato alla cultura Associazione culturale “Sergio Amidei” DAMS–Discipline dell’audiovisivo, dei media e dello spettacolo. Corso interateneo Universita degli Studi di Udine e di Trieste Associazione Palazzo del Cinema–Hiša Filma

Social–media Team ⁄ Info Point ⁄ Account di sala: Daniel Baissero, Arturo Chiasalotti, Sebastiano Coslovich, Emanuele Decolle, Irene Facciolà, Francesca Gravner, Elena Moro, Valeria Nardone, Margherita Pella, Leonardo Pintar, Enrico Rozic, Lorenzo Sfregola, Mireia Tossi, Antonio Verdichizzi

Media partner: Mediacritica.it Le retrospettive sono state realizzate in collaborazione con: Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, Cineteca Italiana, Cineteca Lucana, British Film Institute – National Film and Television Archive, Institut Français, Park Circus, Tamasa, MIR Cinematografica, Indigo Film, Medusa Film, Sky Cinema, Onemore Pictures, Young Films, Meproducodasolo, Cinema, Maxman Coop, Tramp Limited, Jole Film, Rai Cinema, Athena Cinematografica, Cinema2000, P.G.A.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione: Mirella Aguzzoni, Maria Francesca Arcidiacono, Sabrina Baracetti, Giulia Bernardi, Thomas Bertacche, Luigi Presidente dell’Associazione culturale Casalboni, Enrico Cavallero, Roberto “Sergio Amidei”: Cevenini, Germana De Bernardo, Cristiano Francesco Donolato Degano, Giulio De Paolis, Lorenzo Devetak, Francesco Donolato, Adriano Duri, Elda Giuria del Premio Internazionale alla Felluga, Marco Fortunato, Remigio Gabellini, Migliore Sceneggiatura Cinematografica Si ringraziano: Gabriella Gabrielli, Livio Jacob, Alessandra “Sergio Amidei”: Francesco Bruni, Silvia Eva Berti, Nicola Bertone, Isabella Calderoni, e Mauro Mauri, Roy Menarini, Stefano D’Amico, Massimo Gaudioso, Doriana Andrea Campana, Chiara Canesin, Laura Mestroni, Mario Milosa, Matteo Oleotto, Leondeff, Giovanna Ralli, Marco Risi Casella, Leonardo Castro, Alessandro Alessandro Orazietti, Adriano Ossola, Cattunar, Diego Cavallotti, Silvio Celli, Monica Paoletich, Marco Perco, Boris Peric, Direzione: Giuseppe Longo John T. Chance, Mengxi Chen, Leandro Pierluigi Pintar, Karel Plessini, Igor Princic, Direzione artistica: Mariapia Comand Chichizola, Maria Coletti, Piero Colussi, Robert Princic, Leonardo Quaresima, Ignazio Segreteria di direzione: Martina Pizzamiglio Michele Crocchiola, Daniela Currò, Roberto Romeo, Matija Spinazzola, Daniele Terzoli Della Torre, Giulio De Paolis, Anna Di Toma, Coordinatori del programma e ricerca film: Antoine Ferrasson, Sara Fgaier, Angelita Si ringrazia anche: Fondazione Palazzo Andrea Mariani, Martina Pizzamiglio, Fiore, Sergio Floriani, Katiusha Gaudiano, Coronini Cronberg onlus Gorizia, CEC Simone Venturini Vittoria Gelati, Paolo Geotti, Christine – Centro Espressioni Cinematografiche, Houard, Doriana Leondeff, Annamaria Responsabile ospitalità e logistica: Marco Treu Cinemazero, La Cappella Underground, Licciardello, Marco Manin, Alina Marazzi, La Cineteca del Friuli, Consorzio Turistico Giovanni Battista Martino, Silvia Mascia, Gorizia e Isontino, IAT – Ufficio del Turismo Responsabili pubblicazioni: Mattia Filigoi, Veronica Michelin, Lucio Milloch, Luca Friuli Venezia Giulia Silvia Mascia, Margherita Merlo Mirai, Annamaria Monaco, Fulvio “Marko” Ufficio Stampa: Atemporary Studio Mosetti, Matteo Pavesi, Gianfilippo Pedote, Partner Amidei di Samantha Punis e Giovanna Felluga Tamara Pellegrini, Sergio Petrilli, Alessandra Un ringraziamento particolare: Progetto grafico: Think Work Observe Pilato, Martina Pizzamiglio, Igor Princic, Consorzio Tutela Vini Collio Webmanager e webdesigner: Tmedia Srl Hannah Prouse, Gerardo Ramos, Rod Rhule, Ordine dei Giornalisti del Friuli Fotografo ufficiale: Andrea Tomasin, Laura Antonella Saccotelli, Gianandrea Venezia Giulia in collaborazione con Andrea Barbiero Sasso, Silvio Soldini, Giovanna Solinas, Azienda Agricola BorgosanDaniele Nunzio Spatafora Teresi, Steven Stergar, Azienda Agricola Roncus Responsabili accrediti e Infopoint: Barbara Vidali, Cristina Visintini, Santo KB 1909 Financna delniška družba Andrea Barbiero, Chiara Canesin, Vizzini, Benito Zuppel – Società finanziaria per Azioni Silvia Mascia, Marco Treu L’Image Padova Operatori tecnici: Ivo Mauri, Jacopo Ludoteca comunale di Gorizia Renner, Sandro Zanirato – Assessorato al Welfare Progetto grafico e impaginazione catalogo: Associazione culturale Crisalide Think Work Observe Presentano: Karolina Cernic, Martina Partner ufficiali: Pizzamiglio, Gianfranco Ziccarelli Azienda Agricola Livio Felluga Traduzione e trascrizione sottotitoli: Intertitula Wiener Haus Biolab Mostra Vania Comoretti_IRIDE di Vania Concessionaria Mazda per Udine e Gorizia Comoretti organizzata da: studiofaganel Osso Auto 2 S.r.l.–Autobagnoli S.r.l. Agenzia Spada Viaggi Pecar Piano Center studiofaganel Terre&vini S.r.l. Transmedia S.r.l. a.Artisti Associati Associazione culturale èStoria

36esimo Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei”

Catalogo a cura di: Mattia Filigoi, Silvia Mascia e Margherita Merlo

Organizzato da: Comune di Gorizia – Assessorato alla cultura Associazione Culturale “Sergio Amidei” DAMS–Discipline dell’audiovisivo, dei media e dello spettacolo. Corso interateneo Università degli Studi di Udine e di Trieste Associazione Palazzo del Cinema – Hiša Filma

Testi: Laura Casella, Michael Castronuovo, Diego Cavallotti, Francesco Donolato, Giovanni Grasso, Andrea Mariani, Sara Martin, Roy Menarini, Martina Pizzamiglio, Paolo Villa, Rodolfo Ziberna

Con il contributo di: Regione Friuli Venezia Giulia Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia Camera di Commercio I.A.A. Venezia Giulia Con il patrocinio di: Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Associazione 100autori Agis Tre Venezie Confcommercio Gorizia Promo Turismo FVG

e Mediacritica.it: Leonardo Cabrini, Valentina Cauteruccio, Lisa Cecconi, Eleonora Degrassi, Erasmo De Meo, Martina Farci, Mattia Filigoi, Michele Galardini, Francesco Grieco, Stefano Lalla, Marco Longo, Margherita Merlo, Andrea Moschioni Fioretti, Teresa Nannucci, Massimo Padoin, Vincenzo Palermo, Edoardo Peretti, Emanuele Rauco, Juri Saitta, Alex Tribelli Con la collaborazione di: Silvia Mascia, Roberta Verde (studentesse Laurea Magistrale in Scienze del patrimonio audiovisivo e dei nuovi media – International Master in Audiovisual and Cinema Studies (IMACS), dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine) ISBN 978-88-904340-9-9


36esimo Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei” Comune di Gorizia–Assessorato alla cultura Associazione culturale “Sergio Amidei” DAMS–Discipline dell’audiovisivo, dei media e dello spettacolo. Corso interateneo Universita degli Studi di Udine e di Trieste Associazione Palazzo del Cinema–Hiša Filma

Social–media Team ⁄ Info Point ⁄ Account di sala: Daniel Baissero, Arturo Chiasalotti, Sebastiano Coslovich, Emanuele Decolle, Irene Facciolà, Francesca Gravner, Elena Moro, Valeria Nardone, Margherita Pella, Leonardo Pintar, Enrico Rozic, Lorenzo Sfregola, Mireia Tossi, Antonio Verdichizzi

Media partner: Mediacritica.it Le retrospettive sono state realizzate in collaborazione con: Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, Cineteca Italiana, Cineteca Lucana, British Film Institute – National Film and Television Archive, Institut Français, Park Circus, Tamasa, MIR Cinematografica, Indigo Film, Medusa Film, Sky Cinema, Onemore Pictures, Young Films, Meproducodasolo, Cinema, Maxman Coop, Tramp Limited, Jole Film, Rai Cinema, Athena Cinematografica, Cinema2000, P.G.A.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione: Mirella Aguzzoni, Maria Francesca Arcidiacono, Sabrina Baracetti, Giulia Bernardi, Thomas Bertacche, Luigi Presidente dell’Associazione culturale Casalboni, Enrico Cavallero, Roberto “Sergio Amidei”: Cevenini, Germana De Bernardo, Cristiano Francesco Donolato Degano, Giulio De Paolis, Lorenzo Devetak, Francesco Donolato, Adriano Duri, Elda Giuria del Premio Internazionale alla Felluga, Marco Fortunato, Remigio Gabellini, Migliore Sceneggiatura Cinematografica Si ringraziano: Gabriella Gabrielli, Livio Jacob, Alessandra “Sergio Amidei”: Francesco Bruni, Silvia Eva Berti, Nicola Bertone, Isabella Calderoni, e Mauro Mauri, Roy Menarini, Stefano D’Amico, Massimo Gaudioso, Doriana Andrea Campana, Chiara Canesin, Laura Mestroni, Mario Milosa, Matteo Oleotto, Leondeff, Giovanna Ralli, Marco Risi Casella, Leonardo Castro, Alessandro Alessandro Orazietti, Adriano Ossola, Cattunar, Diego Cavallotti, Silvio Celli, Monica Paoletich, Marco Perco, Boris Peric, Direzione: Giuseppe Longo John T. Chance, Mengxi Chen, Leandro Pierluigi Pintar, Karel Plessini, Igor Princic, Direzione artistica: Mariapia Comand Chichizola, Maria Coletti, Piero Colussi, Robert Princic, Leonardo Quaresima, Ignazio Segreteria di direzione: Martina Pizzamiglio Michele Crocchiola, Daniela Currò, Roberto Romeo, Matija Spinazzola, Daniele Terzoli Della Torre, Giulio De Paolis, Anna Di Toma, Coordinatori del programma e ricerca film: Antoine Ferrasson, Sara Fgaier, Angelita Si ringrazia anche: Fondazione Palazzo Andrea Mariani, Martina Pizzamiglio, Fiore, Sergio Floriani, Katiusha Gaudiano, Coronini Cronberg onlus Gorizia, CEC Simone Venturini Vittoria Gelati, Paolo Geotti, Christine – Centro Espressioni Cinematografiche, Houard, Doriana Leondeff, Annamaria Responsabile ospitalità e logistica: Marco Treu Cinemazero, La Cappella Underground, Licciardello, Marco Manin, Alina Marazzi, La Cineteca del Friuli, Consorzio Turistico Giovanni Battista Martino, Silvia Mascia, Gorizia e Isontino, IAT – Ufficio del Turismo Responsabili pubblicazioni: Mattia Filigoi, Veronica Michelin, Lucio Milloch, Luca Friuli Venezia Giulia Silvia Mascia, Margherita Merlo Mirai, Annamaria Monaco, Fulvio “Marko” Ufficio Stampa: Atemporary Studio Mosetti, Matteo Pavesi, Gianfilippo Pedote, Partner Amidei di Samantha Punis e Giovanna Felluga Tamara Pellegrini, Sergio Petrilli, Alessandra Un ringraziamento particolare: Progetto grafico: Think Work Observe Pilato, Martina Pizzamiglio, Igor Princic, Consorzio Tutela Vini Collio Webmanager e webdesigner: Tmedia Srl Hannah Prouse, Gerardo Ramos, Rod Rhule, Ordine dei Giornalisti del Friuli Fotografo ufficiale: Andrea Tomasin, Laura Antonella Saccotelli, Gianandrea Venezia Giulia in collaborazione con Andrea Barbiero Sasso, Silvio Soldini, Giovanna Solinas, Azienda Agricola BorgosanDaniele Nunzio Spatafora Teresi, Steven Stergar, Azienda Agricola Roncus Responsabili accrediti e Infopoint: Barbara Vidali, Cristina Visintini, Santo KB 1909 Financna delniška družba Andrea Barbiero, Chiara Canesin, Vizzini, Benito Zuppel – Società finanziaria per Azioni Silvia Mascia, Marco Treu L’Image Padova Operatori tecnici: Ivo Mauri, Jacopo Ludoteca comunale di Gorizia Renner, Sandro Zanirato – Assessorato al Welfare Progetto grafico e impaginazione catalogo: Associazione culturale Crisalide Think Work Observe Presentano: Karolina Cernic, Martina Partner ufficiali: Pizzamiglio, Gianfranco Ziccarelli Azienda Agricola Livio Felluga Traduzione e trascrizione sottotitoli: Intertitula Wiener Haus Biolab Mostra Vania Comoretti_IRIDE di Vania Concessionaria Mazda per Udine e Gorizia Comoretti organizzata da: studiofaganel Osso Auto 2 S.r.l.–Autobagnoli S.r.l. Agenzia Spada Viaggi Pecar Piano Center studiofaganel Terre&vini S.r.l. Transmedia S.r.l. a.Artisti Associati Associazione culturale èStoria

36esimo Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei”

Catalogo a cura di: Mattia Filigoi, Silvia Mascia e Margherita Merlo

Organizzato da: Comune di Gorizia – Assessorato alla cultura Associazione Culturale “Sergio Amidei” DAMS–Discipline dell’audiovisivo, dei media e dello spettacolo. Corso interateneo Università degli Studi di Udine e di Trieste Associazione Palazzo del Cinema – Hiša Filma

Testi: Laura Casella, Michael Castronuovo, Diego Cavallotti, Francesco Donolato, Giovanni Grasso, Andrea Mariani, Sara Martin, Roy Menarini, Martina Pizzamiglio, Paolo Villa, Rodolfo Ziberna

Con il contributo di: Regione Friuli Venezia Giulia Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia Camera di Commercio I.A.A. Venezia Giulia Con il patrocinio di: Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Associazione 100autori Agis Tre Venezie Confcommercio Gorizia Promo Turismo FVG

e Mediacritica.it: Leonardo Cabrini, Valentina Cauteruccio, Lisa Cecconi, Eleonora Degrassi, Erasmo De Meo, Martina Farci, Mattia Filigoi, Michele Galardini, Francesco Grieco, Stefano Lalla, Marco Longo, Margherita Merlo, Andrea Moschioni Fioretti, Teresa Nannucci, Massimo Padoin, Vincenzo Palermo, Edoardo Peretti, Emanuele Rauco, Juri Saitta, Alex Tribelli Con la collaborazione di: Silvia Mascia, Roberta Verde (studentesse Laurea Magistrale in Scienze del patrimonio audiovisivo e dei nuovi media – International Master in Audiovisual and Cinema Studies (IMACS), dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine) ISBN 978-88-904340-9-9


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Capitolo A Premio internazionale alla migliore sceneggiatura; Capitolo B Premio all’opera d’autore; Capitolo C Arcipelago; Capitolo D Spazio off; Capitolo E Scrittura seriale; Capitolo F Racconti privati, memorie pubbliche; Capitolo G Premio alla cultura cinematografica; Capitolo H Eventi speciali Catalogo 2017

Introduzione 5


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Capitolo A Premio internazionale alla migliore sceneggiatura; Capitolo B Premio all’opera d’autore; Capitolo C Arcipelago; Capitolo D Spazio off; Capitolo E Scrittura seriale; Capitolo F Racconti privati, memorie pubbliche; Capitolo G Premio alla cultura cinematografica; Capitolo H Eventi speciali Catalogo 2017

Introduzione 5


degli strumenti narrativi che oggi si combinano per ottenere il risultato di descrivere il mondo che ci circonda. Prosegue l’attenzione al cinema indipendente italiano nella sezione “Spazio Off”, datata ormai al 2009 L’edizione del Premio e che prevede ogni anno sezioni a “Sergio Amidei” di quest’anno, la trentaseiesima, è la prima, dopo molti tema. In questo 2017 viene preso in esame il tema della religiosità nella anni, che si apre senza la pervasiva presenza dell’Avv. Sen. Nereo Battello, sua accezione più ampia di sentimento profondo eticamente orientato e non presidente della nostra associazione, necessariamente legato ad un credo che ci ha lasciato improvvisamente esistente su un piano storico. in una sera dello scorso febbraio. Il racconto privato costituisce Il dolore per la perdita è ancora forte in tutti noi, ma è stato al contempo un altro spazio importante all’interno della manifestazione quale strumento lo stimolo a dare il meglio per la narrativo di situazioni e luoghi legati realizzazione di una manifestazione alla memoria individuale ma capace che fosse all’altezza dell’aspettativa di riportare in vita, in modo concreto, dell’amico del cinema, Nereo, sempre un preciso momento storico. Al centro vivo nel nostro ricordo. della sezione i filmati amatoriali del Il Premio ruoterà, anche per fondo “Ugo Pilato” che, grazie alla questa edizione, attorno ai film scelti consolidata collaborazione tra la dalla nostra giuria (L’altro volto della Mediateca.GO “Ugo Casiraghi” speranza di Aki Kaurismäki, Il cliente di Gorizia, il laboratorio di restauro di Asghar Farhadi, Io, Daniel Blake “La Camera Ottica” e il DAMS – di Ken Loach, L’ora legale di Salvatore Discipline dell’audiovisivo, dei media Ficarra e Valentino Picone, La ragazza e dello spettacolo (Corso interateneo del mondo di Marco Danieli, Lasciati Università degli Studi di Udine andare di Francesco Amato e La e di Trieste), sono stati resi disponibili tenerezza di Gianni Amelio) ma, com’è alla visione collettiva e ci presenteranno nel solco della nostra storia, tali film la Gorizia degli anni Sessanta. s’inseriranno nel quadro delle sezioni Il testo cinematografico, quale dedicate a singoli argomenti. sintesi di soggetto, dialoghi e storia Filo conduttore è l’Arcipelago destinato ad essere girato, è al centro delle narrazioni inteso quale luogo del nostro interesse; non poteva metafisico in cui trova unità nella mancare dunque un approfondimento diversità la costellazione delle idee e dedicato alla scrittura seriale che oggi degli stili intimamente congiunti nella viene ad essere con sempre maggiore scrittura cinematografica, sia nella frequenza strumento di narrazione sua sostanza di racconto di un fatto cinematografica. Gli scritti sul mito dal quale dedurre identità e principi – a partire dal fondamentale L’eroe collettivi, sia sotto il profilo

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

dai mille volti (1949) dell’intellettuale americano Joseph Campbell (1904 –1987) –, considerati alla base della moderna struttura narrativa seriale, rappresentano efficacemente come il protagonista del film sia la metafora del personaggio mitico, un archetipo rappresentativo dell’inconscio collettivo condiviso da tutti gli uomini e derivato dai comuni antenati: proietteremo una sua intervista rilasciata al giornalista Bill Moyers, inedita in Italia, che ci introdurrà ai suoi studi nel quale il regista George Lucas ha riconosciuto di aver trovato ispirazione. Il Premio all’opera d’autore, che viene attribuito dalla nostra associazione, quest’anno è stato assegnato a Silvio Soldini, in forza della particolare sensibilità dimostrata verso un’esplorazione sociale filtrata nella rappresentazione di personaggi nei quali possiamo leggere ombre e virtù di individui reali, della sua eleganza figurativa e dell’interesse manifestato ad un tempo storico caratterizzato da una relatività incapace di trovare un proprio equilibrio. L’amore verso il cinema, testimoniato in una concreta e quotidiana opera di recupero di sale di quartiere messe a disposizione di una fruizione collettiva che consenta il gemellaggio di esperienze assai diverse tra loro, è la ragione per la quale è stato attribuito a “I ragazzi del Cinema America” il Premio alla cultura cinematografica. Il colloquio stretto tra didattica e Premio “Sergio Amidei” è sempre ben presente nel palinsesto e si manifesta attraverso le masterclass, che vedranno

protagonisti alcuni tra i migliori autori del nostro cinema (Alina Marazzi, Doriana Leondeff e Massimo Gaudioso). Un evento speciale ci servirà per ricordare, con la proiezione di due pellicole (Il corvo di Henry Clouzot e Furore di John Ford) a lui care per ragioni diverse, l’Avv. Sen. Nereo Battello, alla cui memoria sarà anche dedicato un incontro cui parteciperanno alcuni amici che lo hanno apprezzato nel corso della sua vita e lo hanno stimato per i suoi poliedrici talenti.

FRANCESCO DONOLATO Presidente dell’Associazione culturale “Sergio Amidei”

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degli strumenti narrativi che oggi si combinano per ottenere il risultato di descrivere il mondo che ci circonda. Prosegue l’attenzione al cinema indipendente italiano nella sezione “Spazio Off”, datata ormai al 2009 L’edizione del Premio e che prevede ogni anno sezioni a “Sergio Amidei” di quest’anno, la trentaseiesima, è la prima, dopo molti tema. In questo 2017 viene preso in esame il tema della religiosità nella anni, che si apre senza la pervasiva presenza dell’Avv. Sen. Nereo Battello, sua accezione più ampia di sentimento profondo eticamente orientato e non presidente della nostra associazione, necessariamente legato ad un credo che ci ha lasciato improvvisamente esistente su un piano storico. in una sera dello scorso febbraio. Il racconto privato costituisce Il dolore per la perdita è ancora forte in tutti noi, ma è stato al contempo un altro spazio importante all’interno della manifestazione quale strumento lo stimolo a dare il meglio per la narrativo di situazioni e luoghi legati realizzazione di una manifestazione alla memoria individuale ma capace che fosse all’altezza dell’aspettativa di riportare in vita, in modo concreto, dell’amico del cinema, Nereo, sempre un preciso momento storico. Al centro vivo nel nostro ricordo. della sezione i filmati amatoriali del Il Premio ruoterà, anche per fondo “Ugo Pilato” che, grazie alla questa edizione, attorno ai film scelti consolidata collaborazione tra la dalla nostra giuria (L’altro volto della Mediateca.GO “Ugo Casiraghi” speranza di Aki Kaurismäki, Il cliente di Gorizia, il laboratorio di restauro di Asghar Farhadi, Io, Daniel Blake “La Camera Ottica” e il DAMS – di Ken Loach, L’ora legale di Salvatore Discipline dell’audiovisivo, dei media Ficarra e Valentino Picone, La ragazza e dello spettacolo (Corso interateneo del mondo di Marco Danieli, Lasciati Università degli Studi di Udine andare di Francesco Amato e La e di Trieste), sono stati resi disponibili tenerezza di Gianni Amelio) ma, com’è alla visione collettiva e ci presenteranno nel solco della nostra storia, tali film la Gorizia degli anni Sessanta. s’inseriranno nel quadro delle sezioni Il testo cinematografico, quale dedicate a singoli argomenti. sintesi di soggetto, dialoghi e storia Filo conduttore è l’Arcipelago destinato ad essere girato, è al centro delle narrazioni inteso quale luogo del nostro interesse; non poteva metafisico in cui trova unità nella mancare dunque un approfondimento diversità la costellazione delle idee e dedicato alla scrittura seriale che oggi degli stili intimamente congiunti nella viene ad essere con sempre maggiore scrittura cinematografica, sia nella frequenza strumento di narrazione sua sostanza di racconto di un fatto cinematografica. Gli scritti sul mito dal quale dedurre identità e principi – a partire dal fondamentale L’eroe collettivi, sia sotto il profilo

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

dai mille volti (1949) dell’intellettuale americano Joseph Campbell (1904 –1987) –, considerati alla base della moderna struttura narrativa seriale, rappresentano efficacemente come il protagonista del film sia la metafora del personaggio mitico, un archetipo rappresentativo dell’inconscio collettivo condiviso da tutti gli uomini e derivato dai comuni antenati: proietteremo una sua intervista rilasciata al giornalista Bill Moyers, inedita in Italia, che ci introdurrà ai suoi studi nel quale il regista George Lucas ha riconosciuto di aver trovato ispirazione. Il Premio all’opera d’autore, che viene attribuito dalla nostra associazione, quest’anno è stato assegnato a Silvio Soldini, in forza della particolare sensibilità dimostrata verso un’esplorazione sociale filtrata nella rappresentazione di personaggi nei quali possiamo leggere ombre e virtù di individui reali, della sua eleganza figurativa e dell’interesse manifestato ad un tempo storico caratterizzato da una relatività incapace di trovare un proprio equilibrio. L’amore verso il cinema, testimoniato in una concreta e quotidiana opera di recupero di sale di quartiere messe a disposizione di una fruizione collettiva che consenta il gemellaggio di esperienze assai diverse tra loro, è la ragione per la quale è stato attribuito a “I ragazzi del Cinema America” il Premio alla cultura cinematografica. Il colloquio stretto tra didattica e Premio “Sergio Amidei” è sempre ben presente nel palinsesto e si manifesta attraverso le masterclass, che vedranno

protagonisti alcuni tra i migliori autori del nostro cinema (Alina Marazzi, Doriana Leondeff e Massimo Gaudioso). Un evento speciale ci servirà per ricordare, con la proiezione di due pellicole (Il corvo di Henry Clouzot e Furore di John Ford) a lui care per ragioni diverse, l’Avv. Sen. Nereo Battello, alla cui memoria sarà anche dedicato un incontro cui parteciperanno alcuni amici che lo hanno apprezzato nel corso della sua vita e lo hanno stimato per i suoi poliedrici talenti.

FRANCESCO DONOLATO Presidente dell’Associazione culturale “Sergio Amidei”

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Indirizzo di saluto del Sindaco di Gorizia Rodolfo Ziberna in occasione della XXXVI edizione del Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica “Sergio Amidei” L’emozione e l’orgoglio di portare l’abbraccio della città alla 36a edizione del Premio Internazionale “Sergio Amidei” nella veste di Primo Cittadino sono davvero grandi e difficili da contenere in queste poche righe. Infatti, l’affetto che mi unisce, ormai da moltissimi anni, a questa manifestazione è particolarmente profondo e i ricordi che affiorano alla mia memoria, andando a ritroso nel tempo, sono tanti e molto piacevoli. Era il 1991 quando, giovanissimo Assessore alla Cultura del Comune di Gorizia, ho ritenuto necessario intervenire al fine di valorizzare il Premio Amidei e, con questo obiettivo, ho incontrato l’amico Beppe Longo per cercare di trovare assieme delle soluzioni che dessero nuovo vigore e nuova linfa vitale ad una splendida iniziativa culturale che, però, stava via via “esaurendo” la sua originalità. L’anno successivo sono stato tra i Soci fondatori dell’Associazione “Sergio Amidei” la quale, edizione dopo edizione, anche di concerto con il Comune, è riuscita a riprendere per mano il Premio, facendolo crescere e portandolo a divenire la vivace e dinamica manifestazione di livello internazionale che oggi è così tanto apprezzata e seguita sia dal pubblico amante del buon cinema, sia dai professionisti che di cinema si occupano ogni giorno. 8

Mi fa molto piacere, inoltre, che alla rinascita del Premio abbiano contribuito fattivamente anche altre realtà preziosissime per la vita culturale goriziana: come dimenticare, infatti, l’irrinunciabile patrimonio di energia, entusiasmo e idee innovative offerto ogni anno dai docenti e dagli studenti del DAMS dell’Università degli Studi di Udine. E ancora, il Palazzo del Cinema di Gorizia: un ambizioso progetto dalle molteplici anime e sfaccettature artistiche che, facendosi interprete della “sete” di cultura dei goriziani, ha saputo approfondire le eclettiche specificità del mondo cinematografico (e non solo), mettendo le proprie competenze e conoscenze a completa disposizione della città. In questo magico turbinio di colori, di suoni e di emozioni che avvolge ogni Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica “Sergio Amidei”, un unico evento mi rattrista: la recente scomparsa di Nereo Battello, storico Presidente dell’Associazione “Sergio Amidei”, ha infatti lasciato un vuoto difficile da colmare in tutti noi. Ed è proprio nella settimana in cui si svolge il Premio, un contesto nel quale egli si sentiva perfettamente a suo agio, che desidero ricordarlo per la serietà e la passione con cui sapeva svolgere ogni suo impegno, fosse esso legato alla sfera professionale o a quella politica. Anche se, quando parlava di cinema, con una speciale luce negli occhi, dava il meglio di sé stesso, arrivando addirittura a citare a memoria battute di film visti parecchi anni prima! Anche quest’anno, dunque, il Comune di Gorizia ha voluto

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

impegnarsi concretamente al fianco dell’inossidabile e infaticabile Associazione culturale “Sergio Amidei”, contribuendo a creare quello splendido clima di euforia e di frenesia, che è una caratteristica peculiare del Premio Amidei e che riesce a coinvolgere, per una settimana, l’intera città, entusiasmando gli ospiti presenti e il pubblico che interviene, sempre numeroso e interessato, ai tanti eventi previsti da un programma particolarmente ricco e stimolante in cui il ruolo di protagonista è, senza dubbio alcuno, riservato al cinema indipendente italiano che, con intelligenza e creatività, sa raccontare al meglio la nostra società in tutte le sue composite e stravaganti dinamiche. Buon Cinema a tutti! RODOLFO ZIBERNA Sindaco di Gorizia

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Indirizzo di saluto del Sindaco di Gorizia Rodolfo Ziberna in occasione della XXXVI edizione del Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica “Sergio Amidei” L’emozione e l’orgoglio di portare l’abbraccio della città alla 36a edizione del Premio Internazionale “Sergio Amidei” nella veste di Primo Cittadino sono davvero grandi e difficili da contenere in queste poche righe. Infatti, l’affetto che mi unisce, ormai da moltissimi anni, a questa manifestazione è particolarmente profondo e i ricordi che affiorano alla mia memoria, andando a ritroso nel tempo, sono tanti e molto piacevoli. Era il 1991 quando, giovanissimo Assessore alla Cultura del Comune di Gorizia, ho ritenuto necessario intervenire al fine di valorizzare il Premio Amidei e, con questo obiettivo, ho incontrato l’amico Beppe Longo per cercare di trovare assieme delle soluzioni che dessero nuovo vigore e nuova linfa vitale ad una splendida iniziativa culturale che, però, stava via via “esaurendo” la sua originalità. L’anno successivo sono stato tra i Soci fondatori dell’Associazione “Sergio Amidei” la quale, edizione dopo edizione, anche di concerto con il Comune, è riuscita a riprendere per mano il Premio, facendolo crescere e portandolo a divenire la vivace e dinamica manifestazione di livello internazionale che oggi è così tanto apprezzata e seguita sia dal pubblico amante del buon cinema, sia dai professionisti che di cinema si occupano ogni giorno. 8

Mi fa molto piacere, inoltre, che alla rinascita del Premio abbiano contribuito fattivamente anche altre realtà preziosissime per la vita culturale goriziana: come dimenticare, infatti, l’irrinunciabile patrimonio di energia, entusiasmo e idee innovative offerto ogni anno dai docenti e dagli studenti del DAMS dell’Università degli Studi di Udine. E ancora, il Palazzo del Cinema di Gorizia: un ambizioso progetto dalle molteplici anime e sfaccettature artistiche che, facendosi interprete della “sete” di cultura dei goriziani, ha saputo approfondire le eclettiche specificità del mondo cinematografico (e non solo), mettendo le proprie competenze e conoscenze a completa disposizione della città. In questo magico turbinio di colori, di suoni e di emozioni che avvolge ogni Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica “Sergio Amidei”, un unico evento mi rattrista: la recente scomparsa di Nereo Battello, storico Presidente dell’Associazione “Sergio Amidei”, ha infatti lasciato un vuoto difficile da colmare in tutti noi. Ed è proprio nella settimana in cui si svolge il Premio, un contesto nel quale egli si sentiva perfettamente a suo agio, che desidero ricordarlo per la serietà e la passione con cui sapeva svolgere ogni suo impegno, fosse esso legato alla sfera professionale o a quella politica. Anche se, quando parlava di cinema, con una speciale luce negli occhi, dava il meglio di sé stesso, arrivando addirittura a citare a memoria battute di film visti parecchi anni prima! Anche quest’anno, dunque, il Comune di Gorizia ha voluto

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

impegnarsi concretamente al fianco dell’inossidabile e infaticabile Associazione culturale “Sergio Amidei”, contribuendo a creare quello splendido clima di euforia e di frenesia, che è una caratteristica peculiare del Premio Amidei e che riesce a coinvolgere, per una settimana, l’intera città, entusiasmando gli ospiti presenti e il pubblico che interviene, sempre numeroso e interessato, ai tanti eventi previsti da un programma particolarmente ricco e stimolante in cui il ruolo di protagonista è, senza dubbio alcuno, riservato al cinema indipendente italiano che, con intelligenza e creatività, sa raccontare al meglio la nostra società in tutte le sue composite e stravaganti dinamiche. Buon Cinema a tutti! RODOLFO ZIBERNA Sindaco di Gorizia

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A Nereo


A Nereo


-> IL CORVO Regia: Henri-Georges Clouzot p. 14

Ricordo di Nereo Battello

Furore (The Grapes of Wrath) Regia: John Ford Soggetto: dal romanzo Furore di John Steinbeck Sceneggiatura: Nunnally Johnson Fotografia: Gregg Toland Montaggio: Robert L. Simpson Scenografia: Richard Day, Mark–Lee Kirk Costumi: Gwen Wakeling Musiche: Alfred Newman

Produzione: Twentieth Century–Fox Distribuzione: Twentieth Century–Fox Origine: USA 1940 Durata: 129’

Interpreti: Henry Fonda (Tom Joad), Jane Darwell (Ma’ Joad), John Carradine (Casy), Charley Grapewin (nonno Joad), Dorris Bowdon (Roseof-Sharon Rivers), Russell Simpson (Pa’ Joad)

Premi: Academy Awards (1941): Miglior Regia (John Ford), Miglior Attrice non Protagonista (Jane Darwell); National Board of Review (1940): Miglior Film, Miglior Interpretazione (Jane Darwell), Miglior Interpretazione (Henry Fonda); New York Film Critics Circle Awards (1940): Miglior Film, Miglior Regista (John Ford)

della Grande Crisi, il caporalato e gli scioperi, le bidonville e la morte. Ma anche il bisogno di lottare per risollevarsi e cambiare le loro vite.

Furore, 1940

Dopo essere uscito di prigione a seguito di una rissa, Tom Joad scopre che le terre in cui viveva con la famiglia sono state espropriate dalle banche. L’unica cosa che possono fare tutti insieme per sopravvivere è partire dall’Oklahoma per andare in California, dove i campi sono fertili e si dice che il lavoro non manchi. Nel loro viaggio incontreranno la miseria dell’America 12

In molti, lungo i circa cinquant’anni di carriera, hanno accusato John Ford di essere un conservatore e un reazionario. Qualcuno si spinse addirittura a dargli del fascista. Eppure basterebbe un capolavoro come Furore per smentire ogni etichetta politica. Il romanzo omonimo di John Steinbeck esce nel 1939, è un successo clamoroso e diventa quasi immediatamente il romanzo simbolo della Grande Depressione cominciata dieci anni prima. Ford, l’anno successivo alla pubblicazione, ne realizza un adattamento straordinario che prende i punti di

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

forza del suo cinema fino ad allora e li porta a definitiva maturità nonostante più di vent’anni di carriera e almeno un caposaldo come Ombre rosse (1939). Furore è a suo modo un western, o quantomeno è una perfetta parabola americana, un viaggio epico verso l’Ovest in cui l’eroe che viene dal nulla – in questo caso dalla prigione – conduce un gruppo, sineddoche del popolo americano ancora più peculiare trattandosi di una famiglia, nel viaggio verso la frontiera del benessere o della sopravvivenza. E nel percorso, la famiglia Joad incontra nemici e pericoli molto più insidiosi degli indiani o degli sgherri di un latifondista: Tom e famiglia conoscono l’orrore generato dal crollo della Borsa nell’ottobre del 1929, la distruzione di un’intera economia, l’impossibilità di trovare lavoro e dignità. Ma soprattutto incontrano la disperazione umana e l’avidità di chi la sfrutta. Oltre al contesto, a fare la differenza tra questo western contemporaneo e il western che Ford porterà all’apice subito dopo – con Sfida infernale (1946) in primis –, è lo stile e il tono narrativo: Furore è un film emozionante e commovente, di rigore, asciuttezza e severità che con il senno del poi si potrebbe definire prodromo del neorealismo. Per la leggenda che vedrebbe Ford aver vietato trucchi e profumi sul set per avvicinare il cast all’atmosfera della Depressione, ma soprattutto perché del romanzo di Steinbeck il regista ha preso la crudezza e la sofferenza prima del racconto in sé, perché ha adattato lo splendore visivo tipico del suo modo di fare cinema ai dettagli della povertà, facendo nascere

un’opera che attraverso la forza dell’arte mostri la rinascita, la descrizione di uno stato di miseria e l’orizzonte del futuro: quel finale con Tom in cammino verso il sole nascente è più che emblematico. I momenti di grande potenza emotiva e registica ovviamente non si contano (l’immagine della “carovana” Joad radunata sul camion/casa, la sepoltura del nonno e il ballo con Ma’ Joad, una superba Darwell), ma più di ogni altra volta, in Furore Ford cerca di scavare dentro l’immagine per trarne un affresco, per raccontare un’epoca e non solo una storia. E con la maestria dell’essenziale, dà un eroe vero, vivo, possibile all’America del New Deal che presto andrà alla guerra: quel Tom Joad il cui monologo sarà voce per la chitarra di Woody Guthrie, di Bruce Springsteen e di Zack de la Rocha dei Rage Against the Machine. “Io sarò lì ovunque trovi un poliziotto che picchia un ragazzo, ovunque trovi un neonato che piange per fame, ovunque ci sia nell’aria la voglia di lottare contro il sangue e l’odio. Io sarò lì ovunque trovi qualcuno che combatte per un posto dove vivere o un lavoro dignitoso. Ovunque ci sia qualcuno che lotta per essere libero”. Altro che reazionario: con Furore, Ford dimostra di essere un illuminante esempio di socialismo liberale.

A NEREO

EMANUELE RAUCO

13


-> IL CORVO Regia: Henri-Georges Clouzot p. 14

Ricordo di Nereo Battello

Furore (The Grapes of Wrath) Regia: John Ford Soggetto: dal romanzo Furore di John Steinbeck Sceneggiatura: Nunnally Johnson Fotografia: Gregg Toland Montaggio: Robert L. Simpson Scenografia: Richard Day, Mark–Lee Kirk Costumi: Gwen Wakeling Musiche: Alfred Newman

Produzione: Twentieth Century–Fox Distribuzione: Twentieth Century–Fox Origine: USA 1940 Durata: 129’

Interpreti: Henry Fonda (Tom Joad), Jane Darwell (Ma’ Joad), John Carradine (Casy), Charley Grapewin (nonno Joad), Dorris Bowdon (Roseof-Sharon Rivers), Russell Simpson (Pa’ Joad)

Premi: Academy Awards (1941): Miglior Regia (John Ford), Miglior Attrice non Protagonista (Jane Darwell); National Board of Review (1940): Miglior Film, Miglior Interpretazione (Jane Darwell), Miglior Interpretazione (Henry Fonda); New York Film Critics Circle Awards (1940): Miglior Film, Miglior Regista (John Ford)

della Grande Crisi, il caporalato e gli scioperi, le bidonville e la morte. Ma anche il bisogno di lottare per risollevarsi e cambiare le loro vite.

Furore, 1940

Dopo essere uscito di prigione a seguito di una rissa, Tom Joad scopre che le terre in cui viveva con la famiglia sono state espropriate dalle banche. L’unica cosa che possono fare tutti insieme per sopravvivere è partire dall’Oklahoma per andare in California, dove i campi sono fertili e si dice che il lavoro non manchi. Nel loro viaggio incontreranno la miseria dell’America 12

In molti, lungo i circa cinquant’anni di carriera, hanno accusato John Ford di essere un conservatore e un reazionario. Qualcuno si spinse addirittura a dargli del fascista. Eppure basterebbe un capolavoro come Furore per smentire ogni etichetta politica. Il romanzo omonimo di John Steinbeck esce nel 1939, è un successo clamoroso e diventa quasi immediatamente il romanzo simbolo della Grande Depressione cominciata dieci anni prima. Ford, l’anno successivo alla pubblicazione, ne realizza un adattamento straordinario che prende i punti di

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

forza del suo cinema fino ad allora e li porta a definitiva maturità nonostante più di vent’anni di carriera e almeno un caposaldo come Ombre rosse (1939). Furore è a suo modo un western, o quantomeno è una perfetta parabola americana, un viaggio epico verso l’Ovest in cui l’eroe che viene dal nulla – in questo caso dalla prigione – conduce un gruppo, sineddoche del popolo americano ancora più peculiare trattandosi di una famiglia, nel viaggio verso la frontiera del benessere o della sopravvivenza. E nel percorso, la famiglia Joad incontra nemici e pericoli molto più insidiosi degli indiani o degli sgherri di un latifondista: Tom e famiglia conoscono l’orrore generato dal crollo della Borsa nell’ottobre del 1929, la distruzione di un’intera economia, l’impossibilità di trovare lavoro e dignità. Ma soprattutto incontrano la disperazione umana e l’avidità di chi la sfrutta. Oltre al contesto, a fare la differenza tra questo western contemporaneo e il western che Ford porterà all’apice subito dopo – con Sfida infernale (1946) in primis –, è lo stile e il tono narrativo: Furore è un film emozionante e commovente, di rigore, asciuttezza e severità che con il senno del poi si potrebbe definire prodromo del neorealismo. Per la leggenda che vedrebbe Ford aver vietato trucchi e profumi sul set per avvicinare il cast all’atmosfera della Depressione, ma soprattutto perché del romanzo di Steinbeck il regista ha preso la crudezza e la sofferenza prima del racconto in sé, perché ha adattato lo splendore visivo tipico del suo modo di fare cinema ai dettagli della povertà, facendo nascere

un’opera che attraverso la forza dell’arte mostri la rinascita, la descrizione di uno stato di miseria e l’orizzonte del futuro: quel finale con Tom in cammino verso il sole nascente è più che emblematico. I momenti di grande potenza emotiva e registica ovviamente non si contano (l’immagine della “carovana” Joad radunata sul camion/casa, la sepoltura del nonno e il ballo con Ma’ Joad, una superba Darwell), ma più di ogni altra volta, in Furore Ford cerca di scavare dentro l’immagine per trarne un affresco, per raccontare un’epoca e non solo una storia. E con la maestria dell’essenziale, dà un eroe vero, vivo, possibile all’America del New Deal che presto andrà alla guerra: quel Tom Joad il cui monologo sarà voce per la chitarra di Woody Guthrie, di Bruce Springsteen e di Zack de la Rocha dei Rage Against the Machine. “Io sarò lì ovunque trovi un poliziotto che picchia un ragazzo, ovunque trovi un neonato che piange per fame, ovunque ci sia nell’aria la voglia di lottare contro il sangue e l’odio. Io sarò lì ovunque trovi qualcuno che combatte per un posto dove vivere o un lavoro dignitoso. Ovunque ci sia qualcuno che lotta per essere libero”. Altro che reazionario: con Furore, Ford dimostra di essere un illuminante esempio di socialismo liberale.

A NEREO

EMANUELE RAUCO

13


<- FURORE Regia: John Ford p. 12

Ricordo di Nereo Battello

Il corvo (Le corbeau) Regia: Henri-Georges Clouzot Soggetto: Louis Chavance Sceneggiatura: Louis Chavance, Henri-Georges Clouzot Fotografia: Nicolas Hayer Montaggio: Marguerite Beaugé Scenografia: Andrej Andrejew Musiche: Tony Aubin

Produzione: Continental Films Distribuzione: Sangraf Origine: Francia 1943 Durata: 92’

Interpreti: Pierre Fresnay (Rémy Germain), Ginette Leclerc (Denise), Micheline Francey (Laura Vorzet), Héléna Manson (Marie Corbin), Jeanne Fusier-Gir (la merciaia), Sylvie (la madre del suicida), Liliane Maigné (Rolande), Pierre Larquey (Michel Vorzet), Noël Roquevert (Saillens)

del paese, l’ennesima epistola spietata provoca il suicidio di un malato di cancro. C’è una sospettata, ma altre lettere continuano ad arrivare. Più che un moralista o un pessimista, come viene spesso definito, ne Il corvo Clouzot dimostra di essere un relativista. Dalla coralità del film, Il corvo, 1943 in cui anche le figure secondarie sono Nella tranquilla cittadina di Saint- perfettamente tratteggiate e tutte le Robin, una lunga serie di lettere anonime colpe ricadono quasi geometricamente e calunniose, firmate “il Corvo”, semina sull’intera collettività, emerge una visione il panico tra i residenti. Tutti iniziano del mondo e dell’umanità in cui i confini a sospettare di tutti. La maggior parte tra bene e male sono sottilissimi. delle missive scredita con ferocia il La crisi, che investe tanto la cittadina in medico Rémy Germain, sia sul piano cui è ambientato il film quanto le vicende professionale, sia sulla sua vita privata. personali dei suoi abitanti, non è la fine Mentre ci si chiede chi possa conoscere di tutto e il male è necessario, come tutti i segreti più scottanti degli abitanti afferma lo stesso protagonista Germain. 14

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Tutti hanno le loro ragioni, le azioni non sono osservate con il distacco superiore dell’entomologo, ma con la comprensione e l’ironia di un uomo di mondo, con una certa esperienza politica, qual è Clouzot. Consideriamo la vera natura di Denise, per esempio: al look aggressivo, da dark lady, mangiatrice di uomini, al comportamento inizialmente sospetto si contrappone il buon cuore di una donna, in realtà, incapace di ipocrisia e invece travolta da un amore profondo. Questa duplicità, questo contrasto tra l’apparenza e la verità, caratterizza numerosi personaggi, come la falsa ingenua Rolande e il tutt’altro che bonario dottor Vorzet. Neanche Germain ne è esente. Corpo estraneo, forestiero, Germain, con il suo ateismo e i suoi modi bruschi, la grande sensibilità al fascino femminile, è il simbolo ideale dello scontro tra individuo e società, tra i temi principali del film. Bersaglio della penna affilata di Clouzot e Chavance sono, infatti, le istituzioni: la Chiesa, lo Stato, la retorica valoriale dell’epoca. Tutte forze che schiacciano il singolo e ne limitano la libertà. I tedeschi, che producono il film con la Continental fondata da Goebbels, ne vietano in seguito la diffusione, trovandolo immorale – giudizio condiviso dalla Chiesa – e deprimente. Temono che Il corvo scoraggi i delatori francesi dalla pratica di scrivere lettere anonime utili agli occupanti. Sadoul e la sinistra lo giudicano propaganda antifrancese, mentre la destra lo attacca in quanto antitesi dei valori di Vichy. Sta di fatto che Clouzot, dopo la Liberazione, viene accusato dai francesi di collaborazionismo e costretto a stare lontano dal set per

ben due anni, per ordine del Comité d’Épuration du Cinéma. Stessa sorte tocca a Louis Chavance e ad altri cineasti della Continental. In difesa di Clouzot si schierano Sartre e Camus, oltre ai colleghi Carné, Autant-Lara e L’Herbier. Bisogna attendere la proiezione parigina del 4 settembre 1947 per poter rivedere Il corvo sul grande schermo. L’influenza del film sul cinema francese dei decenni successivi, però, è enorme, a partire dai film neri “di provincia” di Claude Chabrol, regista ancor più hitchcockiano di Clouzot. Sarà proprio Chabrol, nel 1994, a girare L’inferno, dalla sceneggiatura del grande film incompiuto di Clouzot. Ma da Signore e signori (1965) di Germi a Peyton Place (Mark Robson, 1957), fino al contemporaneo Twin Peaks (David Lynch, Mark Frost, 1990–2017), innumerevoli sono i prodotti audiovisivi che mutuano da Il corvo l’intento di mostrare al pubblico quante bassezze si nascondono dietro la facciata immacolata di un piccolo paese come tanti.

A NEREO

FRANCESCO GRIECO

15


<- FURORE Regia: John Ford p. 12

Ricordo di Nereo Battello

Il corvo (Le corbeau) Regia: Henri-Georges Clouzot Soggetto: Louis Chavance Sceneggiatura: Louis Chavance, Henri-Georges Clouzot Fotografia: Nicolas Hayer Montaggio: Marguerite Beaugé Scenografia: Andrej Andrejew Musiche: Tony Aubin

Produzione: Continental Films Distribuzione: Sangraf Origine: Francia 1943 Durata: 92’

Interpreti: Pierre Fresnay (Rémy Germain), Ginette Leclerc (Denise), Micheline Francey (Laura Vorzet), Héléna Manson (Marie Corbin), Jeanne Fusier-Gir (la merciaia), Sylvie (la madre del suicida), Liliane Maigné (Rolande), Pierre Larquey (Michel Vorzet), Noël Roquevert (Saillens)

del paese, l’ennesima epistola spietata provoca il suicidio di un malato di cancro. C’è una sospettata, ma altre lettere continuano ad arrivare. Più che un moralista o un pessimista, come viene spesso definito, ne Il corvo Clouzot dimostra di essere un relativista. Dalla coralità del film, Il corvo, 1943 in cui anche le figure secondarie sono Nella tranquilla cittadina di Saint- perfettamente tratteggiate e tutte le Robin, una lunga serie di lettere anonime colpe ricadono quasi geometricamente e calunniose, firmate “il Corvo”, semina sull’intera collettività, emerge una visione il panico tra i residenti. Tutti iniziano del mondo e dell’umanità in cui i confini a sospettare di tutti. La maggior parte tra bene e male sono sottilissimi. delle missive scredita con ferocia il La crisi, che investe tanto la cittadina in medico Rémy Germain, sia sul piano cui è ambientato il film quanto le vicende professionale, sia sulla sua vita privata. personali dei suoi abitanti, non è la fine Mentre ci si chiede chi possa conoscere di tutto e il male è necessario, come tutti i segreti più scottanti degli abitanti afferma lo stesso protagonista Germain. 14

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Tutti hanno le loro ragioni, le azioni non sono osservate con il distacco superiore dell’entomologo, ma con la comprensione e l’ironia di un uomo di mondo, con una certa esperienza politica, qual è Clouzot. Consideriamo la vera natura di Denise, per esempio: al look aggressivo, da dark lady, mangiatrice di uomini, al comportamento inizialmente sospetto si contrappone il buon cuore di una donna, in realtà, incapace di ipocrisia e invece travolta da un amore profondo. Questa duplicità, questo contrasto tra l’apparenza e la verità, caratterizza numerosi personaggi, come la falsa ingenua Rolande e il tutt’altro che bonario dottor Vorzet. Neanche Germain ne è esente. Corpo estraneo, forestiero, Germain, con il suo ateismo e i suoi modi bruschi, la grande sensibilità al fascino femminile, è il simbolo ideale dello scontro tra individuo e società, tra i temi principali del film. Bersaglio della penna affilata di Clouzot e Chavance sono, infatti, le istituzioni: la Chiesa, lo Stato, la retorica valoriale dell’epoca. Tutte forze che schiacciano il singolo e ne limitano la libertà. I tedeschi, che producono il film con la Continental fondata da Goebbels, ne vietano in seguito la diffusione, trovandolo immorale – giudizio condiviso dalla Chiesa – e deprimente. Temono che Il corvo scoraggi i delatori francesi dalla pratica di scrivere lettere anonime utili agli occupanti. Sadoul e la sinistra lo giudicano propaganda antifrancese, mentre la destra lo attacca in quanto antitesi dei valori di Vichy. Sta di fatto che Clouzot, dopo la Liberazione, viene accusato dai francesi di collaborazionismo e costretto a stare lontano dal set per

ben due anni, per ordine del Comité d’Épuration du Cinéma. Stessa sorte tocca a Louis Chavance e ad altri cineasti della Continental. In difesa di Clouzot si schierano Sartre e Camus, oltre ai colleghi Carné, Autant-Lara e L’Herbier. Bisogna attendere la proiezione parigina del 4 settembre 1947 per poter rivedere Il corvo sul grande schermo. L’influenza del film sul cinema francese dei decenni successivi, però, è enorme, a partire dai film neri “di provincia” di Claude Chabrol, regista ancor più hitchcockiano di Clouzot. Sarà proprio Chabrol, nel 1994, a girare L’inferno, dalla sceneggiatura del grande film incompiuto di Clouzot. Ma da Signore e signori (1965) di Germi a Peyton Place (Mark Robson, 1957), fino al contemporaneo Twin Peaks (David Lynch, Mark Frost, 1990–2017), innumerevoli sono i prodotti audiovisivi che mutuano da Il corvo l’intento di mostrare al pubblico quante bassezze si nascondono dietro la facciata immacolata di un piccolo paese come tanti.

A NEREO

FRANCESCO GRIECO

15


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Catalogo 2017 CAPITOLO A Premio internazionale alla migliore sceneggiatura

19

CAPITOLO B Premio all’opera d’autore: Silvio Soldini

35

CAPITOLO C Arcipelago. Geografie e viaggi tra il cinema e le arti

63

CAPITOLO D Spazio off ⁄ Sedimenti. Folclore e credenze nel cinema italiano indipendente

85

CAPITOLO E Scrittura seriale ⁄ Joseph Campbell e il potere del mito

101

CAPITOLO F Racconti privati, memorie pubbliche

107

CAPITOLO G Premio alla cultura cinematografica ⁄ I ragazzi del Cinema America

115

CAPITOLO H Eventi speciali

119

Indice dei film A—Z

128

17


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Catalogo 2017 CAPITOLO A Premio internazionale alla migliore sceneggiatura

19

CAPITOLO B Premio all’opera d’autore: Silvio Soldini

35

CAPITOLO C Arcipelago. Geografie e viaggi tra il cinema e le arti

63

CAPITOLO D Spazio off ⁄ Sedimenti. Folclore e credenze nel cinema italiano indipendente

85

CAPITOLO E Scrittura seriale ⁄ Joseph Campbell e il potere del mito

101

CAPITOLO F Racconti privati, memorie pubbliche

107

CAPITOLO G Premio alla cultura cinematografica ⁄ I ragazzi del Cinema America

115

CAPITOLO H Eventi speciali

119

Indice dei film A—Z

128

17


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 19–33 Premio internazionale alla migliore sceneggiatura

Capitolo A 19


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 19–33 Premio internazionale alla migliore sceneggiatura

Capitolo A 19


-> IL CLIENTE Regia: Asghar Farhadi p. 22

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

L’altro volto della speranza (Toivon tuolla puolen) Regia: Aki Kaurismäki Soggetto e sceneggiatura: Aki Kaurismäki Fotografia: Timo Salminen Montaggio: Samu Heikkilä Scenografia: Ville Grönroos, Heikki Häkkinen, Markku Pätilä Costumi: Tiina Kaukanen

Produzione: Aki Kaurismäki per Sputnik Oy Distribuzione: Cinema di Valerio de Paolis Origine: Germania, Finlandia 2017 Durata: 98’ Premi: Festival di Berlino (2017): Orso d’Argento alla Miglior Regia (Aki Kaurismäki)

Interpreti: Sherwan Haji (Khaled), Sakari Kuosmanen (Waldemar Wikström), Ilkka Koivula (Calamnius), Janne Hy ytiäinen (Nyrhinen), Nuppu Koivu (Mirja), Kaija Pakarinen (moglie), Niroz Haji (Miriam), Simon Hussein Al–Bazoon (Mazdak)

offre loro l’occasione per riscattare un passato di dolore e frustrazione e la possibilità di una rinascita.

L’altro volto della speranza, 2017

Khaled, giovane migrante siriano fuggito da Aleppo, sbarca per caso ad Helsinki da una nave carboniera dopo un lungo e periglioso viaggio per mare; il rappresentante di camicie Waldemar Wikström abbandona la moglie e la sua occupazione per assecondare l’impeto irrefrenabile di dedicarsi all’attività della ristorazione. L’incontro tra i due personaggi, in fuga per motivi diversi, 20

Il pensiero, le parole e le immagini di Kaurismäki fanno rivivere “ad ogni angolo di strada il sentimento dell’assurdità”. Come Albert Camus, esistenzialista fra le due guerre mondiali, il cineasta finlandese si tiene lontano dalla contemplazione dell’assoluto e scruta, con immersioni stranianti e siparietti comico–grotteschi, il mondo terreno, le sue miserie e le sue disgrazie. A farsene carico sono gli eroi di una straziante quotidianità, outsider impacciati ma con altissima dignità e grande senso del pudore, schiacciati dal capitale venefico o dal destino beffardo. Come Marcel Marx e Idrissa in Miracolo a Le Havre (2011)

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

e Khaled e Wikström in L’altro volto della speranza, coppie di oppressi che vivono in modo diverso la condizione dell’esilio, chi dalla propria terra di origine a causa delle bombe, chi dal proprio nucleo familiare, altri ancora in fuga da una vita grama in cerca di una fortunata mano di poker che cambi la vita. Ma nel cinema di Kaurismäki la fortuna non ha molto peso perché a contare è l’atto di strenua resistenza dei bizzarri e stralunati personaggi. Nella storia dei due profughi scappati dal paese natio a causa della guerra – Idrissa e Khaled – è sintetizzata la delicata poetica della fuga risolta molto spesso in un miracolo laico con finale positivo. Un happy end che controbilancia, nell’ottica di un’equa compensazione, i fatti tragici narrati dal saltimbanco nordico. Quasi avesse il dono di rileggere il folclore locale per riversarlo in un’etica popolare dai risvolti universali, Kaurismäki dà spessore alle delicate immagini pastellate come se giungessero da uno strano universo mentale, dai colori caldi e dai toni recitativi freddi e all’apparenza distaccati. L’altro volto della speranza, ideale prosieguo della tematica del migrante, non fa eccezione, opponendo alla glaciale messa in quadro il composto e accogliente microcosmo in cui vivono gli emarginati: un profugo siriano sbarcato ad Helsinki in cerca della sorella scomparsa, un agente di commercio frustrato che decide di aprire un ristorante, la bizzarra combriccola della “Pinta d’oro”, il pub che, all’occorrenza e se il mercato lo richiede, si muta repentinamente in sushi–bar. L’atto di resistenza morale che promana dal film è sempre quello che si realizza tra gli ultimi – che saranno i primi – contro

il sistema, tra figure immalinconite dalla precarietà ma comunque in grado di sopportare il fastidio della vita con un carico di speranza e ottimismo. Tali ribellioni private, che non creano mai attriti in virtù di un accorato lirismo di fondo, equilibrano in una struttura semplice ed essenziale levitas e gravitas, sospensioni e ripide cadute, in nome di un umanesimo laico che nella staticità delle inquadrature trova riflessione più che immobilità, quiescenza del giusto più che sanguinosa vendetta sociale. Da Le Havre a Helsinki il regista muove i suoi eroi strambi e pietosi lungo rotte e viaggi di fortuna, stritolanti procedure burocratiche e, per fortuna, incontri che salvano la vita e riconciliano con il mondo. Tra parole che suonano a vuoto e silenzi pieni di significato L’altro volto della speranza guarda, più che al realismo poetico, a una miracolosa trasformazione che rovescia il dramma in dolcezza poetica, la violenza in languido tormento, nella ricostruzione di una cosmografia interiore che esalta l’umanità e la pone al di sopra di tutto. Il canto dissonante dell’assurdo è poi accordato con maestria attraverso l’utilizzo mai superfluo della musica diegetica – il topos del juke box e del rock taumaturgico – e di intermezzi esilaranti proprio perché privi di senso, in cui è lecito scovare bizzarrie ma impossibile rintracciare una reductio ad absurdum. L’unico ragionamento possibile è infatti quello che spinge alla sopravvivenza quanti hanno saputo forgiare con il duro lavoro la propria identità e che, tra banchine e porti, si trovano a dover individuare nuovamente il proprio posto in un mondo ostile.

CAPITOLO A

VINCENZO PALERMO

21


-> IL CLIENTE Regia: Asghar Farhadi p. 22

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

L’altro volto della speranza (Toivon tuolla puolen) Regia: Aki Kaurismäki Soggetto e sceneggiatura: Aki Kaurismäki Fotografia: Timo Salminen Montaggio: Samu Heikkilä Scenografia: Ville Grönroos, Heikki Häkkinen, Markku Pätilä Costumi: Tiina Kaukanen

Produzione: Aki Kaurismäki per Sputnik Oy Distribuzione: Cinema di Valerio de Paolis Origine: Germania, Finlandia 2017 Durata: 98’ Premi: Festival di Berlino (2017): Orso d’Argento alla Miglior Regia (Aki Kaurismäki)

Interpreti: Sherwan Haji (Khaled), Sakari Kuosmanen (Waldemar Wikström), Ilkka Koivula (Calamnius), Janne Hy ytiäinen (Nyrhinen), Nuppu Koivu (Mirja), Kaija Pakarinen (moglie), Niroz Haji (Miriam), Simon Hussein Al–Bazoon (Mazdak)

offre loro l’occasione per riscattare un passato di dolore e frustrazione e la possibilità di una rinascita.

L’altro volto della speranza, 2017

Khaled, giovane migrante siriano fuggito da Aleppo, sbarca per caso ad Helsinki da una nave carboniera dopo un lungo e periglioso viaggio per mare; il rappresentante di camicie Waldemar Wikström abbandona la moglie e la sua occupazione per assecondare l’impeto irrefrenabile di dedicarsi all’attività della ristorazione. L’incontro tra i due personaggi, in fuga per motivi diversi, 20

Il pensiero, le parole e le immagini di Kaurismäki fanno rivivere “ad ogni angolo di strada il sentimento dell’assurdità”. Come Albert Camus, esistenzialista fra le due guerre mondiali, il cineasta finlandese si tiene lontano dalla contemplazione dell’assoluto e scruta, con immersioni stranianti e siparietti comico–grotteschi, il mondo terreno, le sue miserie e le sue disgrazie. A farsene carico sono gli eroi di una straziante quotidianità, outsider impacciati ma con altissima dignità e grande senso del pudore, schiacciati dal capitale venefico o dal destino beffardo. Come Marcel Marx e Idrissa in Miracolo a Le Havre (2011)

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

e Khaled e Wikström in L’altro volto della speranza, coppie di oppressi che vivono in modo diverso la condizione dell’esilio, chi dalla propria terra di origine a causa delle bombe, chi dal proprio nucleo familiare, altri ancora in fuga da una vita grama in cerca di una fortunata mano di poker che cambi la vita. Ma nel cinema di Kaurismäki la fortuna non ha molto peso perché a contare è l’atto di strenua resistenza dei bizzarri e stralunati personaggi. Nella storia dei due profughi scappati dal paese natio a causa della guerra – Idrissa e Khaled – è sintetizzata la delicata poetica della fuga risolta molto spesso in un miracolo laico con finale positivo. Un happy end che controbilancia, nell’ottica di un’equa compensazione, i fatti tragici narrati dal saltimbanco nordico. Quasi avesse il dono di rileggere il folclore locale per riversarlo in un’etica popolare dai risvolti universali, Kaurismäki dà spessore alle delicate immagini pastellate come se giungessero da uno strano universo mentale, dai colori caldi e dai toni recitativi freddi e all’apparenza distaccati. L’altro volto della speranza, ideale prosieguo della tematica del migrante, non fa eccezione, opponendo alla glaciale messa in quadro il composto e accogliente microcosmo in cui vivono gli emarginati: un profugo siriano sbarcato ad Helsinki in cerca della sorella scomparsa, un agente di commercio frustrato che decide di aprire un ristorante, la bizzarra combriccola della “Pinta d’oro”, il pub che, all’occorrenza e se il mercato lo richiede, si muta repentinamente in sushi–bar. L’atto di resistenza morale che promana dal film è sempre quello che si realizza tra gli ultimi – che saranno i primi – contro

il sistema, tra figure immalinconite dalla precarietà ma comunque in grado di sopportare il fastidio della vita con un carico di speranza e ottimismo. Tali ribellioni private, che non creano mai attriti in virtù di un accorato lirismo di fondo, equilibrano in una struttura semplice ed essenziale levitas e gravitas, sospensioni e ripide cadute, in nome di un umanesimo laico che nella staticità delle inquadrature trova riflessione più che immobilità, quiescenza del giusto più che sanguinosa vendetta sociale. Da Le Havre a Helsinki il regista muove i suoi eroi strambi e pietosi lungo rotte e viaggi di fortuna, stritolanti procedure burocratiche e, per fortuna, incontri che salvano la vita e riconciliano con il mondo. Tra parole che suonano a vuoto e silenzi pieni di significato L’altro volto della speranza guarda, più che al realismo poetico, a una miracolosa trasformazione che rovescia il dramma in dolcezza poetica, la violenza in languido tormento, nella ricostruzione di una cosmografia interiore che esalta l’umanità e la pone al di sopra di tutto. Il canto dissonante dell’assurdo è poi accordato con maestria attraverso l’utilizzo mai superfluo della musica diegetica – il topos del juke box e del rock taumaturgico – e di intermezzi esilaranti proprio perché privi di senso, in cui è lecito scovare bizzarrie ma impossibile rintracciare una reductio ad absurdum. L’unico ragionamento possibile è infatti quello che spinge alla sopravvivenza quanti hanno saputo forgiare con il duro lavoro la propria identità e che, tra banchine e porti, si trovano a dover individuare nuovamente il proprio posto in un mondo ostile.

CAPITOLO A

VINCENZO PALERMO

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Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA Regia: Aki Kaurismäki p. 20

-> IO, DANIEL BLAKE Regia: Ken Loach p. 24

Il cliente (Forushande) Regia: Asghar Farhadi Soggetto: liberamente tratto da Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller Sceneggiatura: Asghar Farhadi Fotografia: Hossein Jafarian Montaggio: Hayedeh Safiyari Scenografia: Key van Moghaddam Costumi: Sara Samiee Musiche: Sattar Oraki

Produzione: Arte France Cinéma, Farhadi Film Production, Memento Films Production Distribuzione: Lucky Red Origine: Iran, Francia 2016 Durata: 125’ Premi: Academy Awards (2017): Miglior Film Straniero; Festival di Cannes (2016): Miglior Sceneggiatura (Asghar Farhaid), Miglior Attore Protagonista (Shahab Hosseini); National Board of Rewiew Awards (2016): Miglior Film Straniero

Interpreti: Shahab Hosseini (Emad Etesami), Taraneh Alidoosti (Rana Etesami), Babak Karimi (Babak), Mehdi Koushki (Siavash), Fahrid Sajjadi Hosseini (Nasser), Emad Emami (Ali), Maral Bani Adam (Kati), Mina Sadati (Sanam), Shirin Aghakashi (Esmat), Ehteram Borouman (sig.ra Shahnazari), Sam Valipour (Sadra), Mojtaba Pirzadeh (Majid), Sahra Asadollahe (Mojgan)

di trovare, la colpisce facendole perdere i sensi. Sarà l’inizio della crisi tra Emad e Rana, la scoperta del passato della nuova abitazione e la ricerca ossessiva per rintracciare il colpevole.

Il cliente, 2016

Emad e Rana sono una coppia felicemente sposata e in procinto di mettere in scena Morte di un commesso viaggiatore, ma costretti a lasciare il loro appartamento a causa di un cedimento. Un pomeriggio, mentre Rana è sola nella nuova casa, uno sconosciuto entra grazie alla donna, che lo accoglie convinta fosse il marito. L’uomo, resosi conto di non essere di fronte a chi si aspettava 22

C’è sempre un mistero attorno cui ruotano tutte le vicende delle pellicole di Asghar Farhadi. L’improvvisa scomparsa di Elly in About Elly (che faceva eco a L’avventura di Antonioni del 1960), quel che accade subito dopo la colluttazione tra Nader e Razieh e che porta la donna a perdere il figlio in Una separazione (2011), oppure il passato che divide i protagonisti di, per l’appunto, Il passato (2013). Misteri che rimangono avvolti nell’oscurità o, altre volte, rivelati diluendoli nel tempo, sconvolgendo spesso tutto ciò che sapevamo in

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

precedenza o semplicemente scoprendo solo una parte di verità, una porzione a cui noi spettatori siamo interrogati per dare significato. Il cliente, l’ultima pellicola dell’autore iraniano, non fa eccezione, e in un certo senso raccoglie questo caleidoscopio di possibilità narrative, di verità nascoste o negate, lasciando a chi guarda il compito di giungere a una conclusione sugli accadimenti raccontati. Il modo perfetto per definire e comprendere immediatamente il tono delle pellicole di Farhadi è chiamandole thriller dei sentimenti, meccanismi narrativi che hanno la precisione di quelli hitchockiani, ruotando attorno alle reazioni dei personaggi, paure, nevrosi e lotte silenziose contro la famiglia e lo Stato. Eventi mai direttamente mostrati, ma che veniamo a conoscere solo tramite le loro conseguenze, in un sistema di personaggi che orbitano attorno ai propri conflitti insoluti, vergogne in una società, come quella iraniana, che rigidamente sopprime la libertà personale. Ne Il cliente queste tacite repressioni e queste ansie societarie si rispecchiano tutte nel rifiuto di Rana nell’affrontare e denunciare l’aggressione che ha subito nel bagno. Tentando di soprassedere all’accaduto, magari coprendolo con un po’ di trucco prima di andare in scena nella pièce teatrale di Morte di un commesso viaggiatore. Due punti di vista differenti nell’affrontare l’accaduto, la necessità di vendetta del marito che inizia a seguire una pista per trovare il colpevole dell’aggressione, e l’angoscia della donna ad affrontare gli eventi accaduti per dimenticarli (senza però riuscirci). E poi, il disagio di entrambi nello scoprire che la nuova casa in cui

sono andati a vivere era in precedenza un’abitazione usata da una prostituta e la vigliacca paura di quel cliente che, una volta entrato nello spazio privato dei due coniugi, è scappato lasciando dietro di sé non solo una moltitudine d’indizi, ma una scia di vergogne che investono tutti i personaggi. Cosa frena Rana ad affrontare l’accaduto come una vittima? La paura di una società che la vedrebbe alla pari di una prostituta perché uno sconosciuto è entrato nella sua sfera intima? È l’essere stesso a imporsi dei limiti che la società iraniana sublimemente gli affligge, ed è quella paura cui Farhadi sembra continuamente tenerci celata, scappando alle maglie di una censura di uno Stato che detesta il contraddittorio. È questo il mistero che in fondo l’autore iraniano nasconde a noi spettatori e ai suoi protagonisti. Verità fondamentalmente indicibile e non inconoscibile. Il senso di quelle non risposte che Emad riceve a tutte le domande sull’accaduto. È lui stesso a pagare, nonostante la sua apertura alla cultura occidentale, come dimostra la rappresentazione dell’opera di Arthur Miller, attraverso l’ossessione di vendetta, il prezzo di una verità non detta.

CAPITOLO A

MASSIMO PADOIN

23


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Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA Regia: Aki Kaurismäki p. 20

-> IO, DANIEL BLAKE Regia: Ken Loach p. 24

Il cliente (Forushande) Regia: Asghar Farhadi Soggetto: liberamente tratto da Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller Sceneggiatura: Asghar Farhadi Fotografia: Hossein Jafarian Montaggio: Hayedeh Safiyari Scenografia: Key van Moghaddam Costumi: Sara Samiee Musiche: Sattar Oraki

Produzione: Arte France Cinéma, Farhadi Film Production, Memento Films Production Distribuzione: Lucky Red Origine: Iran, Francia 2016 Durata: 125’ Premi: Academy Awards (2017): Miglior Film Straniero; Festival di Cannes (2016): Miglior Sceneggiatura (Asghar Farhaid), Miglior Attore Protagonista (Shahab Hosseini); National Board of Rewiew Awards (2016): Miglior Film Straniero

Interpreti: Shahab Hosseini (Emad Etesami), Taraneh Alidoosti (Rana Etesami), Babak Karimi (Babak), Mehdi Koushki (Siavash), Fahrid Sajjadi Hosseini (Nasser), Emad Emami (Ali), Maral Bani Adam (Kati), Mina Sadati (Sanam), Shirin Aghakashi (Esmat), Ehteram Borouman (sig.ra Shahnazari), Sam Valipour (Sadra), Mojtaba Pirzadeh (Majid), Sahra Asadollahe (Mojgan)

di trovare, la colpisce facendole perdere i sensi. Sarà l’inizio della crisi tra Emad e Rana, la scoperta del passato della nuova abitazione e la ricerca ossessiva per rintracciare il colpevole.

Il cliente, 2016

Emad e Rana sono una coppia felicemente sposata e in procinto di mettere in scena Morte di un commesso viaggiatore, ma costretti a lasciare il loro appartamento a causa di un cedimento. Un pomeriggio, mentre Rana è sola nella nuova casa, uno sconosciuto entra grazie alla donna, che lo accoglie convinta fosse il marito. L’uomo, resosi conto di non essere di fronte a chi si aspettava 22

C’è sempre un mistero attorno cui ruotano tutte le vicende delle pellicole di Asghar Farhadi. L’improvvisa scomparsa di Elly in About Elly (che faceva eco a L’avventura di Antonioni del 1960), quel che accade subito dopo la colluttazione tra Nader e Razieh e che porta la donna a perdere il figlio in Una separazione (2011), oppure il passato che divide i protagonisti di, per l’appunto, Il passato (2013). Misteri che rimangono avvolti nell’oscurità o, altre volte, rivelati diluendoli nel tempo, sconvolgendo spesso tutto ciò che sapevamo in

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

precedenza o semplicemente scoprendo solo una parte di verità, una porzione a cui noi spettatori siamo interrogati per dare significato. Il cliente, l’ultima pellicola dell’autore iraniano, non fa eccezione, e in un certo senso raccoglie questo caleidoscopio di possibilità narrative, di verità nascoste o negate, lasciando a chi guarda il compito di giungere a una conclusione sugli accadimenti raccontati. Il modo perfetto per definire e comprendere immediatamente il tono delle pellicole di Farhadi è chiamandole thriller dei sentimenti, meccanismi narrativi che hanno la precisione di quelli hitchockiani, ruotando attorno alle reazioni dei personaggi, paure, nevrosi e lotte silenziose contro la famiglia e lo Stato. Eventi mai direttamente mostrati, ma che veniamo a conoscere solo tramite le loro conseguenze, in un sistema di personaggi che orbitano attorno ai propri conflitti insoluti, vergogne in una società, come quella iraniana, che rigidamente sopprime la libertà personale. Ne Il cliente queste tacite repressioni e queste ansie societarie si rispecchiano tutte nel rifiuto di Rana nell’affrontare e denunciare l’aggressione che ha subito nel bagno. Tentando di soprassedere all’accaduto, magari coprendolo con un po’ di trucco prima di andare in scena nella pièce teatrale di Morte di un commesso viaggiatore. Due punti di vista differenti nell’affrontare l’accaduto, la necessità di vendetta del marito che inizia a seguire una pista per trovare il colpevole dell’aggressione, e l’angoscia della donna ad affrontare gli eventi accaduti per dimenticarli (senza però riuscirci). E poi, il disagio di entrambi nello scoprire che la nuova casa in cui

sono andati a vivere era in precedenza un’abitazione usata da una prostituta e la vigliacca paura di quel cliente che, una volta entrato nello spazio privato dei due coniugi, è scappato lasciando dietro di sé non solo una moltitudine d’indizi, ma una scia di vergogne che investono tutti i personaggi. Cosa frena Rana ad affrontare l’accaduto come una vittima? La paura di una società che la vedrebbe alla pari di una prostituta perché uno sconosciuto è entrato nella sua sfera intima? È l’essere stesso a imporsi dei limiti che la società iraniana sublimemente gli affligge, ed è quella paura cui Farhadi sembra continuamente tenerci celata, scappando alle maglie di una censura di uno Stato che detesta il contraddittorio. È questo il mistero che in fondo l’autore iraniano nasconde a noi spettatori e ai suoi protagonisti. Verità fondamentalmente indicibile e non inconoscibile. Il senso di quelle non risposte che Emad riceve a tutte le domande sull’accaduto. È lui stesso a pagare, nonostante la sua apertura alla cultura occidentale, come dimostra la rappresentazione dell’opera di Arthur Miller, attraverso l’ossessione di vendetta, il prezzo di una verità non detta.

CAPITOLO A

MASSIMO PADOIN

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<- IL CLIENTE Regia: Asghar Farhadi p. 22

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

-> LASCIATI ANDARE Regia: Francesco Amato p. 26

Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake) Regia: Ken Loach Soggetto e sceneggiatura: Paul Laverty Fotografia: Robbie Ryan Montaggio: Jonathan Morris Scenografia: Fergus Clegg, Linda Wilson Costumi: Joanne Slater Musiche: George Fenton Produzione: Sixteen Film, Why Not Productions, Wild Bunch Distribuzione: Cinema Origine: Gran Bretagna, Francia, Belgio 2016 Durata: 100’ Premi: Festival di Cannes (2016): Palma d’Oro, Premio Animalista

DogManitarian; British Independent Film Awards (2016): Miglior Attore (Dave Johns), Miglior Debutto (Hayley Squires); Locarno Film Festival (2016): Prix du public (Ken Loach); San Sebastian International Film Festival (2016): Premio del pubblico al Miglior Film; Stockholm International Film Festival (2016): Premio del pubblico al Miglior Film; Premi BAFTA (2017): Miglior Film Britannico; Premi César (2017): Miglior Film Straniero; Empire Awards (2017): Miglior Film Britannico, Miglior Debutto Maschile (Dave Johns); London Film Critics’ Circle (2017): Film britannico ⁄ irlandese dell’anno

Interpreti: Dave Johns (Daniel Blake), Hayley Squires (Katie), Briana Shann (Daisy), Dylan McKiernan (Dylan), Kate Rutter (Ann), Kema Sikazwe (China), Steven Richens (Piper), John Sumner (redattore cv), Sharon Percy (Sheila), Micky McGregor (Ivan), Fahrid Sajjadi Hosseini (Nasser), Emad Emami (Ali), Maral Bani Adam (Kati), Mina Sadati (Sanam), Shirin Aghakashi (Esmat), Ehteram Borouman (sig.ra Shahnazari), Sam Valipour (Sadra), Mojtaba Pirzadeh (Majid), Sahra Asadollahe (Mojgan)

deve far fronte a necessità puramente alimentari. A lottare insieme a lui incontra altre persone, tra cui Katie, giovane madre ridotta sul lastrico dall’incuria assistenziale. Dopo tanta attività sociale e politica, Ken Loach riceve la Palma d’Oro a Cannes 2016 con Io, Daniel Blake, Io, Daniel Blake, 2016 un film meno d’impatto e meno Daniel Blake è un uomo di mezz’età spettacolare, forse persino meno poetico, che, in seguito a un malore, si trova preso degli altri titoli della sua filmografia, tra due fuochi: da un lato l’impossibilità ma che regala momenti di innegabile di tornare a lavoro imposta dai certificati commozione e di sapiente ironia caustica. medici, dall’altro il rifiuto degli indennizzi Pur nell’esagerazione di alcune statali per un’invalidità non ritenuta idonea dinamiche, Loach presenta con semplice dall’amministrazione pubblica. Mentre linearità l’eterna lotta tra il singolo Daniel cerca di dirimere le questioni individuo e l’inadempienza burocratica, burocratiche ingaggiando una lotta contro senza mai cadere nella retorica populista i mulini a vento, il tempo scorre e l’uomo o in riottosi escamotages. 24

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Sullo sfondo di una serie pressoché infinita di figuranti che cercano in tutti i modi di deresponsabilizzare sé stessi e lo Stato nel prendere qualunque decisione utile al miglioramento delle condizioni dei singoli, due anime emergono forti e decise, unite dalla determinazione con cui cercano di sottrarsi all’uniformità grigia delle stanze paragovernative. Welfare, inadeguatezza assistenziale, ottusità istituzionale e lotta individuale sono ormai diventati dei veri e propri capi saldi della carriera di Ken Loach, fuori e dentro dalle sale cinematografiche. Tutta la storia di decenni di lotte contro l’impenetrabilità della burocrazia, arroccata in castelli kafkiani, si riversa nelle ultime produzioni del regista, comprese le avventure (dal sapore a tratti western, a tratti iperrealistico) di Daniel Blake. I piccoli gesti di disobbedienza civile e di estenuazione diventano esplosioni disperate di un’umanità in cerca di complicità. E in questo, lo sguardo rassegnato della coprotagonista Hayley Squires avrebbe molto da insegnare anche agli interpreti più navigati (memorabile l’episodio del banco alimentare sociale). La divisione tra bene e male è a dir poco manichea, in quanto Loach ricerca un azzeramento della prospettiva morale, che trova però riscatto nel racconto del rapporto tra Dan e Katie. Fuori da ogni etichetta, il legame tra i due protagonisti è una sorta di mutuo soccorso dalle molte sfaccettature, caratterizzato da un avvicinamento iniziale misurato e contenuto, dando vita a una messa in scena delicata, che sfocia in un’apparente resa asettica dei rapporti umani.

Questa impressione è smentita dagli appassionati momenti di protesta (civile e personale) che costellano il film. Ad accompagnare alcuni fili narrativi ben riusciti ce ne sono altri che rimangono in sordina, che non raggiungono un’adeguata completezza argomentativa (per esempio il commercio di scarpe contraffatte o l’accenno alla risonanza mediatica dei graffiti di Daniel). Ken Loach firma un film potente nella sua semplicità, che scopre il fianco nei momenti in cui cerca di moltiplicare e sovrapporre le narrazioni presentate, ma che riesce a ottenere un impatto emotivo decisivo grazie ad alcune vette di spiazzante realismo, con l’aiuto determinante di due protagonisti perfettamente in parte. Una messa in scena fredda come i meandri della logica burocratica, si contrappone alla rabbia che scalda i cuori della quotidianità della maggior parte delle persone, continuamente messe in difficoltà dalla mancanza di comunicazione tra i diversi scalini della società. Che, per quanto si voglia negare, persistono.

CAPITOLO A

TERESA NANNUCCI

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<- IL CLIENTE Regia: Asghar Farhadi p. 22

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

-> LASCIATI ANDARE Regia: Francesco Amato p. 26

Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake) Regia: Ken Loach Soggetto e sceneggiatura: Paul Laverty Fotografia: Robbie Ryan Montaggio: Jonathan Morris Scenografia: Fergus Clegg, Linda Wilson Costumi: Joanne Slater Musiche: George Fenton Produzione: Sixteen Film, Why Not Productions, Wild Bunch Distribuzione: Cinema Origine: Gran Bretagna, Francia, Belgio 2016 Durata: 100’ Premi: Festival di Cannes (2016): Palma d’Oro, Premio Animalista

DogManitarian; British Independent Film Awards (2016): Miglior Attore (Dave Johns), Miglior Debutto (Hayley Squires); Locarno Film Festival (2016): Prix du public (Ken Loach); San Sebastian International Film Festival (2016): Premio del pubblico al Miglior Film; Stockholm International Film Festival (2016): Premio del pubblico al Miglior Film; Premi BAFTA (2017): Miglior Film Britannico; Premi César (2017): Miglior Film Straniero; Empire Awards (2017): Miglior Film Britannico, Miglior Debutto Maschile (Dave Johns); London Film Critics’ Circle (2017): Film britannico ⁄ irlandese dell’anno

Interpreti: Dave Johns (Daniel Blake), Hayley Squires (Katie), Briana Shann (Daisy), Dylan McKiernan (Dylan), Kate Rutter (Ann), Kema Sikazwe (China), Steven Richens (Piper), John Sumner (redattore cv), Sharon Percy (Sheila), Micky McGregor (Ivan), Fahrid Sajjadi Hosseini (Nasser), Emad Emami (Ali), Maral Bani Adam (Kati), Mina Sadati (Sanam), Shirin Aghakashi (Esmat), Ehteram Borouman (sig.ra Shahnazari), Sam Valipour (Sadra), Mojtaba Pirzadeh (Majid), Sahra Asadollahe (Mojgan)

deve far fronte a necessità puramente alimentari. A lottare insieme a lui incontra altre persone, tra cui Katie, giovane madre ridotta sul lastrico dall’incuria assistenziale. Dopo tanta attività sociale e politica, Ken Loach riceve la Palma d’Oro a Cannes 2016 con Io, Daniel Blake, Io, Daniel Blake, 2016 un film meno d’impatto e meno Daniel Blake è un uomo di mezz’età spettacolare, forse persino meno poetico, che, in seguito a un malore, si trova preso degli altri titoli della sua filmografia, tra due fuochi: da un lato l’impossibilità ma che regala momenti di innegabile di tornare a lavoro imposta dai certificati commozione e di sapiente ironia caustica. medici, dall’altro il rifiuto degli indennizzi Pur nell’esagerazione di alcune statali per un’invalidità non ritenuta idonea dinamiche, Loach presenta con semplice dall’amministrazione pubblica. Mentre linearità l’eterna lotta tra il singolo Daniel cerca di dirimere le questioni individuo e l’inadempienza burocratica, burocratiche ingaggiando una lotta contro senza mai cadere nella retorica populista i mulini a vento, il tempo scorre e l’uomo o in riottosi escamotages. 24

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Sullo sfondo di una serie pressoché infinita di figuranti che cercano in tutti i modi di deresponsabilizzare sé stessi e lo Stato nel prendere qualunque decisione utile al miglioramento delle condizioni dei singoli, due anime emergono forti e decise, unite dalla determinazione con cui cercano di sottrarsi all’uniformità grigia delle stanze paragovernative. Welfare, inadeguatezza assistenziale, ottusità istituzionale e lotta individuale sono ormai diventati dei veri e propri capi saldi della carriera di Ken Loach, fuori e dentro dalle sale cinematografiche. Tutta la storia di decenni di lotte contro l’impenetrabilità della burocrazia, arroccata in castelli kafkiani, si riversa nelle ultime produzioni del regista, comprese le avventure (dal sapore a tratti western, a tratti iperrealistico) di Daniel Blake. I piccoli gesti di disobbedienza civile e di estenuazione diventano esplosioni disperate di un’umanità in cerca di complicità. E in questo, lo sguardo rassegnato della coprotagonista Hayley Squires avrebbe molto da insegnare anche agli interpreti più navigati (memorabile l’episodio del banco alimentare sociale). La divisione tra bene e male è a dir poco manichea, in quanto Loach ricerca un azzeramento della prospettiva morale, che trova però riscatto nel racconto del rapporto tra Dan e Katie. Fuori da ogni etichetta, il legame tra i due protagonisti è una sorta di mutuo soccorso dalle molte sfaccettature, caratterizzato da un avvicinamento iniziale misurato e contenuto, dando vita a una messa in scena delicata, che sfocia in un’apparente resa asettica dei rapporti umani.

Questa impressione è smentita dagli appassionati momenti di protesta (civile e personale) che costellano il film. Ad accompagnare alcuni fili narrativi ben riusciti ce ne sono altri che rimangono in sordina, che non raggiungono un’adeguata completezza argomentativa (per esempio il commercio di scarpe contraffatte o l’accenno alla risonanza mediatica dei graffiti di Daniel). Ken Loach firma un film potente nella sua semplicità, che scopre il fianco nei momenti in cui cerca di moltiplicare e sovrapporre le narrazioni presentate, ma che riesce a ottenere un impatto emotivo decisivo grazie ad alcune vette di spiazzante realismo, con l’aiuto determinante di due protagonisti perfettamente in parte. Una messa in scena fredda come i meandri della logica burocratica, si contrappone alla rabbia che scalda i cuori della quotidianità della maggior parte delle persone, continuamente messe in difficoltà dalla mancanza di comunicazione tra i diversi scalini della società. Che, per quanto si voglia negare, persistono.

CAPITOLO A

TERESA NANNUCCI

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Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

<- IO, DANIEL BLAKE Regia: Ken Loach p. 24

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L’ORA LEGALE Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone p. 28

Lasciati andare Regia: Francesco Amato Produzione: Cattleya, Rai Cinema Soggetto e sceneggiatura: Distribuzione: 01 Distribution Francesco Amato, Francesco Bruni, Origine: Italia 2017 Davide Lantieri Durata: 107’ Fotografia: Vladan Radovic Montaggio: Luigi Mearelli Premi: Nastri d’Argento (2017): Scenografia: Emita Frigato Migliore Attrice Protagonista (Carla Costumi: Mariano Tufano Signoris); Ciak d’Oro (2017): Miglior Musiche: Andrea Farri Attore non Protagonista (Luca Marinelli)

Interpreti: Toni Servillo (Elia Venezia), Luca Marinelli (Ettore), Veronica Echegui (Claudia), Pietro Sermonti (Roberto), Carla Signoris (Giovanna)

impacciato e in difficoltà con sé stesso prima ancora che con gli altri, trova nella terapia d’urto della personal trainer un nuovo carburante per il suo modo di guardare al mondo. Tra un omaggio alla commedia intellettuale e un cenno ispirato allo slapstick, Francesco Amato dirige Lasciati Lasciati andare, 2017 andare affidandosi all’istrionismo degli Elia è uno psicanalista di mezza interpreti più che alle sfaccettature della età, in via di separazione dalla moglie narrazione. La trama così leggera e Giovanna e afflitto da una totale incapacità divertita (finanche compiaciuta in alcune di abbandonare la sua poltrona da seduta occasioni) guadagna giustizia nella resa professionale e di prendere in mano la dei suoi interpreti, da Servillo a Marinelli, sua vita. Convintosi di doversi rimettere in che muovono da più parti un ritratto forma, si affida alla vivacità prorompente sociale stratificato, ma altrettanto statico. di Claudia, che con il suo spirito giovanile Toni Servillo regala una performance irrefrenabile lo travolge e coinvolge nei che supera nettamente le macchiette suoi problemi quotidiani. Elia, inizialmente a cui il suo personaggio si ispira, dando 26

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

vigore al carattere del protagonista: l’attore partenopeo si presta corpo e anima a un ritratto opaco erede di ben altre trasposizioni cinematografiche, che prende vigore proprio nella sua posata recitazione. Anche per Luca Marinelli si potrebbe dire lo stesso, identificando l’interprete come l’altra punta di diamante del casting di Lasciati andare e il suo personaggio come la macchietta più esasperata della sceneggiatura. In questo caso, però, Marinelli pur dimostrandosi perfettamente in grado di gestire la performance, lascia intravedere alcuni elementi che rischiano di ingabbiarlo in una tipologia attoriale che non gli rende certo giustizia. In questo senso, a prescindere da quanto possano essere apprezzabili, le figure maschili descritte da Amato superano nettamente, per complessità e centralità narrativa, quelle femminili: relegate nel ruolo statico e irrigidito di maestra di vita (Claudia) e di donna sensibile mascherata da donna rampante (Giovanna), le muse che muovono i fili delle sorti del protagonista mantengono un raggio d’azione molto limitato. In questa alternanza scientemente squilibrata di personaggi, Servillo si afferma istrione capace di immedesimarsi in tale interpretazione, regalando sfumature contemporanee e italiane (italiote a seconda delle occasioni) a un personaggio che molto deve ad altre opere cinematografiche (psicanalista introverso e insicuro, ebreo appena separato dalla moglie), salvandolo in qualche modo dall’anonimato della mera iterazione di un modello vuoto. A fare da sfondo a questo ristretto gruppo di personaggi, una città indefinita, tanto identificata dal

suo gusto italiano quanto universale nelle riprese di una realtà borghese, di interni forbiti e di esterni di verde urbano. In questo contesto, ancora una volta, risulta straniante il panorama (materiale e umano) presentato dal carcere di Marinelli. Sono peraltro scenografia e sceneggiatura a rappresentare una crasi importante tra la narrazione edulcorata tipica di certe produzioni targate Rai e delle ascensioni cinematografiche più erudite, che trovano inevitabilmente nel mondo di Woody Allen l’interlocutore principale. Complice anche un umorismo contenuto e intimo, Francesco Amato dirige con aria rilassata una commedia misurata e composita, in cui il buonismo trapela ma non domina la scena, che è invece quasi interamente a disposizione di un Elia ⁄ Servillo che da solo riempie lo schermo e fa da collante per tutte le figure che abitano la diegesi.

CAPITOLO A

TERESA NANNUCCI

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Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

<- IO, DANIEL BLAKE Regia: Ken Loach p. 24

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L’ORA LEGALE Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone p. 28

Lasciati andare Regia: Francesco Amato Produzione: Cattleya, Rai Cinema Soggetto e sceneggiatura: Distribuzione: 01 Distribution Francesco Amato, Francesco Bruni, Origine: Italia 2017 Davide Lantieri Durata: 107’ Fotografia: Vladan Radovic Montaggio: Luigi Mearelli Premi: Nastri d’Argento (2017): Scenografia: Emita Frigato Migliore Attrice Protagonista (Carla Costumi: Mariano Tufano Signoris); Ciak d’Oro (2017): Miglior Musiche: Andrea Farri Attore non Protagonista (Luca Marinelli)

Interpreti: Toni Servillo (Elia Venezia), Luca Marinelli (Ettore), Veronica Echegui (Claudia), Pietro Sermonti (Roberto), Carla Signoris (Giovanna)

impacciato e in difficoltà con sé stesso prima ancora che con gli altri, trova nella terapia d’urto della personal trainer un nuovo carburante per il suo modo di guardare al mondo. Tra un omaggio alla commedia intellettuale e un cenno ispirato allo slapstick, Francesco Amato dirige Lasciati Lasciati andare, 2017 andare affidandosi all’istrionismo degli Elia è uno psicanalista di mezza interpreti più che alle sfaccettature della età, in via di separazione dalla moglie narrazione. La trama così leggera e Giovanna e afflitto da una totale incapacità divertita (finanche compiaciuta in alcune di abbandonare la sua poltrona da seduta occasioni) guadagna giustizia nella resa professionale e di prendere in mano la dei suoi interpreti, da Servillo a Marinelli, sua vita. Convintosi di doversi rimettere in che muovono da più parti un ritratto forma, si affida alla vivacità prorompente sociale stratificato, ma altrettanto statico. di Claudia, che con il suo spirito giovanile Toni Servillo regala una performance irrefrenabile lo travolge e coinvolge nei che supera nettamente le macchiette suoi problemi quotidiani. Elia, inizialmente a cui il suo personaggio si ispira, dando 26

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

vigore al carattere del protagonista: l’attore partenopeo si presta corpo e anima a un ritratto opaco erede di ben altre trasposizioni cinematografiche, che prende vigore proprio nella sua posata recitazione. Anche per Luca Marinelli si potrebbe dire lo stesso, identificando l’interprete come l’altra punta di diamante del casting di Lasciati andare e il suo personaggio come la macchietta più esasperata della sceneggiatura. In questo caso, però, Marinelli pur dimostrandosi perfettamente in grado di gestire la performance, lascia intravedere alcuni elementi che rischiano di ingabbiarlo in una tipologia attoriale che non gli rende certo giustizia. In questo senso, a prescindere da quanto possano essere apprezzabili, le figure maschili descritte da Amato superano nettamente, per complessità e centralità narrativa, quelle femminili: relegate nel ruolo statico e irrigidito di maestra di vita (Claudia) e di donna sensibile mascherata da donna rampante (Giovanna), le muse che muovono i fili delle sorti del protagonista mantengono un raggio d’azione molto limitato. In questa alternanza scientemente squilibrata di personaggi, Servillo si afferma istrione capace di immedesimarsi in tale interpretazione, regalando sfumature contemporanee e italiane (italiote a seconda delle occasioni) a un personaggio che molto deve ad altre opere cinematografiche (psicanalista introverso e insicuro, ebreo appena separato dalla moglie), salvandolo in qualche modo dall’anonimato della mera iterazione di un modello vuoto. A fare da sfondo a questo ristretto gruppo di personaggi, una città indefinita, tanto identificata dal

suo gusto italiano quanto universale nelle riprese di una realtà borghese, di interni forbiti e di esterni di verde urbano. In questo contesto, ancora una volta, risulta straniante il panorama (materiale e umano) presentato dal carcere di Marinelli. Sono peraltro scenografia e sceneggiatura a rappresentare una crasi importante tra la narrazione edulcorata tipica di certe produzioni targate Rai e delle ascensioni cinematografiche più erudite, che trovano inevitabilmente nel mondo di Woody Allen l’interlocutore principale. Complice anche un umorismo contenuto e intimo, Francesco Amato dirige con aria rilassata una commedia misurata e composita, in cui il buonismo trapela ma non domina la scena, che è invece quasi interamente a disposizione di un Elia ⁄ Servillo che da solo riempie lo schermo e fa da collante per tutte le figure che abitano la diegesi.

CAPITOLO A

TERESA NANNUCCI

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<- LASCIATI ANDARE Regia: Francesco Amato p. 26

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

-> LA RAGAZZA DEL MONDO Regia: Marco Danieli p. 30

L’ora legale Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone Soggetto e sceneggiatura: Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Edoardo De Angelis, Nicola Guaglianone, Fabrizio Testini Fotografia: Ferran Paredes Rubio Montaggio: Claudio Di Mauro Scenografia: Sabrina Balestra Costumi: Cristina Francioni Musiche: Carlo Crivelli

Produzione: Tramp Ltd., Medusa Film Distribuzione: Medusa Origine: Italia 2017 Durata: 92’ Premi: Nastri d’Argento (2017): Miglior Commedia; BIFEST–Bari International Film Festival (2017): Miglior Soggetto (Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Edoardo De Angelis, Nicola Guaglianone, Fabrizio Testini)

Interpreti: Salvatore Ficarra (Salvatore), Valentino Picone (Valentino), Leo Gullotta (Padre Raffaele), Vincenzo Amato (Pierpaolo Natoli), Tony Sperandeo (Gaetano Patanè), Eleonora De Luca (Betty Natoli), Alessandro Roja (Politico romano)

Nonostante la vittoria, le sue promesse di rinnovamento gli si ritorceranno contro, riportando la città alla situazione iniziale. Il trionfo assoluto dello status quo. Che la commedia in Italia vada volentieri a braccetto con il fiabesco non è notizia degli ultimi anni. Filtrare la realtà attraverso lenti dolci allo sguardo per L’ora legale, 2017 mettere a nudo il sistema funziona, con A Pietrammare, paesino siciliano risultati diversi, nei film di Checco Zalone, di pura fantasia, è il momento di eleggere Alessandro Siani, Maccio Capatonda il nuovo sindaco. Per anni è stato Gaetano come un anestetico pre–operatorio. Patanè, col suo clientelismo e l’aria da In questo insieme eterogeneo di stand mafiosetto, a fare il bello e il cattivo tempo. up comedian, attori e showman, dove Il vento del cambiamento porta però il protagonista ⁄ autore si porta sempre il nome di Pierpaolo Natoli, professore dietro i panni del suo alter–ego televisivo, progressista convinto di poter impiantare ciò che fa di Ficarra e Picone un caso la legalità in una terra dove il privilegio anomalo, quasi di studio, è la cura della ha lentamente preso il posto del diritto. parte narrativa. I due scrivono L’ora legale 28

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

assieme a Edoardo De Angelis (regista di Indivisibili, Perez), Nicola Guaglianone (sceneggiatore di Indivisibili e di Lo chiamavano Jeeg Robot) e al fido Fabrizio Testini: tre professionisti della fabula, non giocolieri dello slapstick. “Vota Patanè senza chiederti perché” è uno slogan talmente sfacciato da essere credibile, descrive quel mondo – che nella realtà è la Sicilia di Termini Imerese – utilizzando le armi di uno storytelling cafone ma efficace secondo cui l’elettore, incapace di capire cosa sia meglio per il suo benessere, ha un solo compito: delegare. Perché il vero passaggio tra Patané e Natoli, che si rivelerà in fondo traumatico e quindi pericoloso per la comunità, sta proprio nella presa di coscienza civica imposta ai cittadini dal nuovo sindaco. Possiamo fregarcene, per ora, e lasciare ai posteri il compito di occuparsi dei nostri danni o dobbiamo impegnarci, rinunciare ad una parte dei privilegi accumulati senza motivo, per garantire un futuro migliore alla città? Il dubbio è simpsoniano, più che amletico, ed è esemplificato da un altro slogan sfacciato, quello che Homer ruba a Boe per diventare il nuovo commissario comunale dell’igiene pubblica: “Non può farlo qualcun altro?”. Nessun programma politico, totale deresponsabilizzazione e la promessa sottesa di qualcuno che opererà al posto dell’elettore. Al contrario di Homer, Patanè non vince, ma il passaggio di consegne delle chiavi della città all’avversario, spinto dalla parola d’ordine “cambiamento”, paradossalmente porta in dote la medesima logica e un simile epilogo. In fondo, le promesse che permettono

a Homer di vincere contro ogni logica sono tanto assurde quanto i punti del programma di Natoli che una signora conserva gelosamente per fargli le pulci a tempo debito: pedonalizzazione della piazza, abbattimento delle case abusive sulla spiaggia, raccolta differenziata, ripresa del servizio dei vigili urbani e (udite, udite) dei forestali. Homer mantiene le promesse ma finisce i soldi di un anno in un mese, Natoli porta i concittadini all’esasperazione con le regole: entrambi cadono per eccesso di immedesimazione e di onestà. Siamo a Springfield, Pietrammare ma anche nell’America di Trump, nell’Italia di Berlusconi prima e di Renzi poi; viviamo in un mondo che deve mantenere un certo grado di opacità, pena la messa a nudo di ciò che l’elettore non vuole vedere: la sua responsabilità nel processo di decisione. L’Italietta raccontata in L’ora legale non è più un palco di furbi e prepotenti, ormai pienamente integrati, ma lo specchio della guerra civile e ideologica fra chi vuole il cambiamento ma non lo pratica e chi, più sinceramente, non lo ha mai chiesto. Che è poi il racconto del nostro presente, un tempo scandito dalle trovate dialettiche del duo palermitano in un paese dove non ha mai funzionato niente e ci siamo sempre trovati bene.

CAPITOLO A

MICHELE GALARDINI

29


<- LASCIATI ANDARE Regia: Francesco Amato p. 26

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

-> LA RAGAZZA DEL MONDO Regia: Marco Danieli p. 30

L’ora legale Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone Soggetto e sceneggiatura: Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Edoardo De Angelis, Nicola Guaglianone, Fabrizio Testini Fotografia: Ferran Paredes Rubio Montaggio: Claudio Di Mauro Scenografia: Sabrina Balestra Costumi: Cristina Francioni Musiche: Carlo Crivelli

Produzione: Tramp Ltd., Medusa Film Distribuzione: Medusa Origine: Italia 2017 Durata: 92’ Premi: Nastri d’Argento (2017): Miglior Commedia; BIFEST–Bari International Film Festival (2017): Miglior Soggetto (Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Edoardo De Angelis, Nicola Guaglianone, Fabrizio Testini)

Interpreti: Salvatore Ficarra (Salvatore), Valentino Picone (Valentino), Leo Gullotta (Padre Raffaele), Vincenzo Amato (Pierpaolo Natoli), Tony Sperandeo (Gaetano Patanè), Eleonora De Luca (Betty Natoli), Alessandro Roja (Politico romano)

Nonostante la vittoria, le sue promesse di rinnovamento gli si ritorceranno contro, riportando la città alla situazione iniziale. Il trionfo assoluto dello status quo. Che la commedia in Italia vada volentieri a braccetto con il fiabesco non è notizia degli ultimi anni. Filtrare la realtà attraverso lenti dolci allo sguardo per L’ora legale, 2017 mettere a nudo il sistema funziona, con A Pietrammare, paesino siciliano risultati diversi, nei film di Checco Zalone, di pura fantasia, è il momento di eleggere Alessandro Siani, Maccio Capatonda il nuovo sindaco. Per anni è stato Gaetano come un anestetico pre–operatorio. Patanè, col suo clientelismo e l’aria da In questo insieme eterogeneo di stand mafiosetto, a fare il bello e il cattivo tempo. up comedian, attori e showman, dove Il vento del cambiamento porta però il protagonista ⁄ autore si porta sempre il nome di Pierpaolo Natoli, professore dietro i panni del suo alter–ego televisivo, progressista convinto di poter impiantare ciò che fa di Ficarra e Picone un caso la legalità in una terra dove il privilegio anomalo, quasi di studio, è la cura della ha lentamente preso il posto del diritto. parte narrativa. I due scrivono L’ora legale 28

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

assieme a Edoardo De Angelis (regista di Indivisibili, Perez), Nicola Guaglianone (sceneggiatore di Indivisibili e di Lo chiamavano Jeeg Robot) e al fido Fabrizio Testini: tre professionisti della fabula, non giocolieri dello slapstick. “Vota Patanè senza chiederti perché” è uno slogan talmente sfacciato da essere credibile, descrive quel mondo – che nella realtà è la Sicilia di Termini Imerese – utilizzando le armi di uno storytelling cafone ma efficace secondo cui l’elettore, incapace di capire cosa sia meglio per il suo benessere, ha un solo compito: delegare. Perché il vero passaggio tra Patané e Natoli, che si rivelerà in fondo traumatico e quindi pericoloso per la comunità, sta proprio nella presa di coscienza civica imposta ai cittadini dal nuovo sindaco. Possiamo fregarcene, per ora, e lasciare ai posteri il compito di occuparsi dei nostri danni o dobbiamo impegnarci, rinunciare ad una parte dei privilegi accumulati senza motivo, per garantire un futuro migliore alla città? Il dubbio è simpsoniano, più che amletico, ed è esemplificato da un altro slogan sfacciato, quello che Homer ruba a Boe per diventare il nuovo commissario comunale dell’igiene pubblica: “Non può farlo qualcun altro?”. Nessun programma politico, totale deresponsabilizzazione e la promessa sottesa di qualcuno che opererà al posto dell’elettore. Al contrario di Homer, Patanè non vince, ma il passaggio di consegne delle chiavi della città all’avversario, spinto dalla parola d’ordine “cambiamento”, paradossalmente porta in dote la medesima logica e un simile epilogo. In fondo, le promesse che permettono

a Homer di vincere contro ogni logica sono tanto assurde quanto i punti del programma di Natoli che una signora conserva gelosamente per fargli le pulci a tempo debito: pedonalizzazione della piazza, abbattimento delle case abusive sulla spiaggia, raccolta differenziata, ripresa del servizio dei vigili urbani e (udite, udite) dei forestali. Homer mantiene le promesse ma finisce i soldi di un anno in un mese, Natoli porta i concittadini all’esasperazione con le regole: entrambi cadono per eccesso di immedesimazione e di onestà. Siamo a Springfield, Pietrammare ma anche nell’America di Trump, nell’Italia di Berlusconi prima e di Renzi poi; viviamo in un mondo che deve mantenere un certo grado di opacità, pena la messa a nudo di ciò che l’elettore non vuole vedere: la sua responsabilità nel processo di decisione. L’Italietta raccontata in L’ora legale non è più un palco di furbi e prepotenti, ormai pienamente integrati, ma lo specchio della guerra civile e ideologica fra chi vuole il cambiamento ma non lo pratica e chi, più sinceramente, non lo ha mai chiesto. Che è poi il racconto del nostro presente, un tempo scandito dalle trovate dialettiche del duo palermitano in un paese dove non ha mai funzionato niente e ci siamo sempre trovati bene.

CAPITOLO A

MICHELE GALARDINI

29


<-

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

L’ORA LEGALE Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone p. 28

-> LA TENEREZZA Regia: Gianni Amelio p. 32

La ragazza del mondo Regia: Marco Danieli Soggetto e sceneggiatura: Antonio Manca, Marco Danieli Fotografia: Emanuele Pasquet Montaggio: Alessio Franco, Davide Vizzini Scenografia: Laura Inglese Costumi: Claudia Montanari, Giulia Pagliarulo Musiche: Umberto Smerilli

Produzione: CSC Production, Rai Cinema Distribuzione: Bolero Film Origine: Italia, Francia 2016 Durata: 104’ Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2016): Premio Pasinetti Miglior Interpretazione Femminile (Sara Serraiocco), Premio Pasinetti Miglior Interpretazione Maschile (Michele Riondino), Premio Brian, Premio Lizzani; David di Donatello (2017): Miglior Regista Esordiente (Marco Danieli)

Interpreti: Sara Serraiocco (Giulia), Michele Riondino (Libero), Marco Leonardi (Celestino), Stefania Montorsi (Costanza), Pippo Delbono (Giacomo), Lucia Mascino (Professoressa Donati), Martina Cerroni (Simona), Giorgio Careccia (Daniele), Maria Chiara Giannetta (Loretta), Alessandra Vanzi (Monica), Andrea Mautone (Raffaele)

sorella li sorprende, ne parla con i genitori e la comunità viene coinvolta. Giulia viene diffidata e invitata a non frequentarlo, pena l’allontanamento dalla congregazione.

La ragazza del mondo, 2016

Giulia e la sua famiglia fanno parte dei Testimoni di Geova e proprio in nome del loro credo devono seguire regole rigide che vietano relazioni sentimentali con persone non appartenenti alla comunità. Durante le sue predicazioni incontra Libero, un ragazzo al di fuori del suo mondo e di cui si innamora al primo sguardo. I due iniziano a frequentarsi di nascosto, ma tutto cambia quando la 30

Giulia e Libero, diversi, eppure perfetti per riempire i vuoti l’uno dell’altra: lei, Testimone di Geova, lontana dal mondo, lui, ex detenuto, immerso in quel mondo; lei imprigionata nelle adunanze, nell’osservanza della parola, nella “militanza” religiosa, lui in balia della sua impulsività. Giulia vive in una realtà che poggia su costrizioni, regole e testi sacri, Libero gravita al di là di quel recinto, è un “ragazzo del mondo” – così vengono chiamati coloro che non fanno parte della comunità –, rappresentazione di chi sbaglia, si arrabatta, inciampa ancora (i problemi con la giustizia).

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Ai due basta uno sguardo per aggrapparsi l’uno all’altro: lei è affascinata da quegli occhi profondi e ribelli, da quel carattere forte e violento, lui da quella misurata delicatezza e da quella bellezza timida e intensa che si nasconde sotto vesti mortificanti. Da qui parte La ragazza del mondo, prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, opera prima di Marco Danieli che, con la collaborazione di Antonio Manca nella fase di ricerca e scrittura, tratta un argomento poco analizzato nella cinematografia. La raccolta di testimonianze dirette da parte di Danieli e Manca (la storia di Giulia è ispirata a quella di una loro amica), rende ancor più reale la vicenda narrata; così il regista apre le porte delle Sale del Regno e vi entra con rispetto. Non cavalca i clichés di cui il pensiero comune si ciba, o meglio da essi allarga lo sguardo per approfondire ciò che c’è sotto. Per fare questo sceglie come punto di vista quello di Giulia e mette al centro il suo conflitto interiore, i dubbi che la tormentano e i sentimenti che per la prima volta la abitano. L’incontro con Libero fa crollare le certezze già instabili della ragazza; l’amore è motore di tutte le cose e la spinge all’azione, le dà la forza per uscire dalla rigida compostezza che la costringe. Il lungometraggio di Danieli vive della dicotomia norma ⁄ desiderio e della loro reciproca “contaminazione”, e ciò emerge dal disturbante e doloroso interrogatorio subito da Giulia da parte degli anziani. Le lacrime della giovane, violata da domande che si insinuano nell’intimità del suo corpo per quantificarne l’impurità, emblematizzano il dissidio tra devozione (lei conosce il suo errore) ed empietà (lei desidera Libero),

che si traduce nella dinamica inclusione ⁄ esclusione – il Regno protegge e indirizza Giulia fino a quando segue le regole, la disassocia quando le rifiuta –, legata al concetto di comunità, quella macro dei Testimoni prima, quella micro con Libero poi. La ragazza del mondo non è solo una storia d’amore, è anche un romanzo di formazione, emancipazione, ricerca della propria identità. La protagonista grazie al compagno scopre sé stessa, il proprio corpo, la propria sessualità; a cambiare è anche Libero che, grazie a Giulia, vuole cancellare il passato, dandosi la possibilità di pensare al futuro. La ragazza del mondo è un’opera prima coinvolgente, delicata e intensa che grazie al lavoro di Danieli e Manca è in grado di indagare la crescita di una giovane donna che alla fine diventa crescita di ciascuno di noi, dando vita così a una storia universale. Un valore aggiunto sono i due interpreti, Michele Riondino e Sara Serraiocco che per eccesso l’uno, per difetto l’altra, incarnano un ragazzo complicato ma sensibile e una ragazza piena di qualità e determinazione, alla ricerca di un proprio spazio di libertà.

CAPITOLO A

ELEONORA DEGRASSI

31


<-

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

L’ORA LEGALE Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone p. 28

-> LA TENEREZZA Regia: Gianni Amelio p. 32

La ragazza del mondo Regia: Marco Danieli Soggetto e sceneggiatura: Antonio Manca, Marco Danieli Fotografia: Emanuele Pasquet Montaggio: Alessio Franco, Davide Vizzini Scenografia: Laura Inglese Costumi: Claudia Montanari, Giulia Pagliarulo Musiche: Umberto Smerilli

Produzione: CSC Production, Rai Cinema Distribuzione: Bolero Film Origine: Italia, Francia 2016 Durata: 104’ Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2016): Premio Pasinetti Miglior Interpretazione Femminile (Sara Serraiocco), Premio Pasinetti Miglior Interpretazione Maschile (Michele Riondino), Premio Brian, Premio Lizzani; David di Donatello (2017): Miglior Regista Esordiente (Marco Danieli)

Interpreti: Sara Serraiocco (Giulia), Michele Riondino (Libero), Marco Leonardi (Celestino), Stefania Montorsi (Costanza), Pippo Delbono (Giacomo), Lucia Mascino (Professoressa Donati), Martina Cerroni (Simona), Giorgio Careccia (Daniele), Maria Chiara Giannetta (Loretta), Alessandra Vanzi (Monica), Andrea Mautone (Raffaele)

sorella li sorprende, ne parla con i genitori e la comunità viene coinvolta. Giulia viene diffidata e invitata a non frequentarlo, pena l’allontanamento dalla congregazione.

La ragazza del mondo, 2016

Giulia e la sua famiglia fanno parte dei Testimoni di Geova e proprio in nome del loro credo devono seguire regole rigide che vietano relazioni sentimentali con persone non appartenenti alla comunità. Durante le sue predicazioni incontra Libero, un ragazzo al di fuori del suo mondo e di cui si innamora al primo sguardo. I due iniziano a frequentarsi di nascosto, ma tutto cambia quando la 30

Giulia e Libero, diversi, eppure perfetti per riempire i vuoti l’uno dell’altra: lei, Testimone di Geova, lontana dal mondo, lui, ex detenuto, immerso in quel mondo; lei imprigionata nelle adunanze, nell’osservanza della parola, nella “militanza” religiosa, lui in balia della sua impulsività. Giulia vive in una realtà che poggia su costrizioni, regole e testi sacri, Libero gravita al di là di quel recinto, è un “ragazzo del mondo” – così vengono chiamati coloro che non fanno parte della comunità –, rappresentazione di chi sbaglia, si arrabatta, inciampa ancora (i problemi con la giustizia).

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Ai due basta uno sguardo per aggrapparsi l’uno all’altro: lei è affascinata da quegli occhi profondi e ribelli, da quel carattere forte e violento, lui da quella misurata delicatezza e da quella bellezza timida e intensa che si nasconde sotto vesti mortificanti. Da qui parte La ragazza del mondo, prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, opera prima di Marco Danieli che, con la collaborazione di Antonio Manca nella fase di ricerca e scrittura, tratta un argomento poco analizzato nella cinematografia. La raccolta di testimonianze dirette da parte di Danieli e Manca (la storia di Giulia è ispirata a quella di una loro amica), rende ancor più reale la vicenda narrata; così il regista apre le porte delle Sale del Regno e vi entra con rispetto. Non cavalca i clichés di cui il pensiero comune si ciba, o meglio da essi allarga lo sguardo per approfondire ciò che c’è sotto. Per fare questo sceglie come punto di vista quello di Giulia e mette al centro il suo conflitto interiore, i dubbi che la tormentano e i sentimenti che per la prima volta la abitano. L’incontro con Libero fa crollare le certezze già instabili della ragazza; l’amore è motore di tutte le cose e la spinge all’azione, le dà la forza per uscire dalla rigida compostezza che la costringe. Il lungometraggio di Danieli vive della dicotomia norma ⁄ desiderio e della loro reciproca “contaminazione”, e ciò emerge dal disturbante e doloroso interrogatorio subito da Giulia da parte degli anziani. Le lacrime della giovane, violata da domande che si insinuano nell’intimità del suo corpo per quantificarne l’impurità, emblematizzano il dissidio tra devozione (lei conosce il suo errore) ed empietà (lei desidera Libero),

che si traduce nella dinamica inclusione ⁄ esclusione – il Regno protegge e indirizza Giulia fino a quando segue le regole, la disassocia quando le rifiuta –, legata al concetto di comunità, quella macro dei Testimoni prima, quella micro con Libero poi. La ragazza del mondo non è solo una storia d’amore, è anche un romanzo di formazione, emancipazione, ricerca della propria identità. La protagonista grazie al compagno scopre sé stessa, il proprio corpo, la propria sessualità; a cambiare è anche Libero che, grazie a Giulia, vuole cancellare il passato, dandosi la possibilità di pensare al futuro. La ragazza del mondo è un’opera prima coinvolgente, delicata e intensa che grazie al lavoro di Danieli e Manca è in grado di indagare la crescita di una giovane donna che alla fine diventa crescita di ciascuno di noi, dando vita così a una storia universale. Un valore aggiunto sono i due interpreti, Michele Riondino e Sara Serraiocco che per eccesso l’uno, per difetto l’altra, incarnano un ragazzo complicato ma sensibile e una ragazza piena di qualità e determinazione, alla ricerca di un proprio spazio di libertà.

CAPITOLO A

ELEONORA DEGRASSI

31


<- LA RAGAZZA DEL MONDO Regia: Marco Danieli p. 30

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

-> CAPITOLO B Premio all’opera d’autore p. 35

La tenerezza Regia: Gianni Amelio Soggetto: tratto dal romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Simona Paggi Scenografia: Giancarlo Basili Costumi: Maurizio Millenotti Musiche: Franco Piersanti

Produzione: Pepito Produzioni, Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Origine: Italia 2016 Durata: 103’

Interpreti: Elio Germano (Fabio), Giovanna Mezzogiorno (Elena), Micaela Ramazzotti (Michela), Greta Scacchi (Aurora), Renato Carpentieri (Lorenzo), Arturo Muselli (Saverio), Giuseppe Zeno Premi: Nastri d’Argento (2017): (Giulio), Maria Nazionale (Rossana), Miglior Film, Miglior Regia (Gianni Hieb Khili (Imputato tunisino), Amelio), Miglior Attore Protagonista Renato Carpentieri Jr. (Francesco), (Renato Carpentieri), Miglior Fabio Cocifoglia (Notaio), Bianca Fotografia (Luca Bigazzi) Panicci (Bianca), Giovanni Esposito (Davide)

apparentemente conducono una vita regolare e serena. Lorenzo pian piano inizia a conoscerli meglio, grazie alla gentilezza di Michela, e finalmente si riavvicina ai figli. In quest’epoca in cui tutti siamo connessi e, in forma teorica, possiamo dialogare tra di noi al massimo delle nostre potenzialità, Gianni Amelio La tenerezza, 2016 con La tenerezza ci rivela invece proprio Napoli, oggi. Lorenzo è un avvocato il contrario, senza stereotipi eccessivi. in pensione che vive solo in un grande Ispirato al romanzo La tentazione appartamento. Ha chiuso quasi i rapporti di essere felici di Lorenzo Marone, con i suoi figli che però non si rassegnano La tenerezza è un film “semplice” ma allo alla sua mancanza, soprattutto Elena che stesso tempo esemplare. È il ritorno per lo insegue come può. La vita di Lorenzo Amelio, dopo il quasi surreale L’intrepido viene animata dall’arrivo dei nuovi vicini (2013) a un cinema di narrazione fatto che si trasferiscono nell’appartamento di attori e personaggi verosimili di fronte al suo: Fabio e Michela, una e contemporanei, che vivono seguendo giovane coppia con due bambini, che le proprie emozioni. 32

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

È importante sottolineare che il protagonista sia un anziano: Lorenzo (il superbo Renato Carpentieri) avvocato in pensione che si aggira tra le strade di una Napoli decadente, “un padre che è sempre un padre” nonostante non lo dimostri e che trasporta sulle sue spalle la saggezza del passato. Non una saggezza sterile o comune, ma la consapevolezza che dagli errori si deve imparare per vivere al meglio. Lorenzo cerca di insegnarlo ai nuovi vicini di casa, una coppia (Ramazzotti e Germano) che cela molti problemi e che non imparerà la lezione. Amelio è uno dei pochi in Italia a saper ancora dirigere un melodramma e trasformarlo in uno dei generi più utili per raccontare la società. Si inginocchia e mostra la storia con gli occhi dei più giovani, anche qui come in Il ladro di bambini (1992) o Le chiavi di casa (2004) che forse hanno capito tutto ma faticano a farsi sentire. Basterebbe seguirli e tutti ci arricchiremmo. Ci sono poche lacrime in La tenerezza, ma sin dai titoli di testa l’atmosfera rarefatta e tragica della vicenda ci accompagna fino al finale, in cui per esprimersi non servono parole ma solo un gesto sciocco come quello di sfiorarsi una mano. Un contatto evitato da quasi tutti i personaggi, una privazione che porta solo a cose brutte. Non siamo più dalle parti dell’incomunicabilità antoniana, qui c’è proprio un problema di fondo: la mancanza di contradditorio per chiarire finalmente ciò che è stato rimosso o taciuto. A volte basterebbe semplicemente parlarsi per assimilare, ma non è sempre facile farlo. Inafferrabile, maledetta apatia che rovina i rapporti tra gli uomini, un sentimento da abbattere

con la parola. Il regista ama la storia che ci racconta e per questo cerca di evitare le trappole della retorica irreale di troppo cinema contemporaneo, maneggia al meglio le emozioni e ci fa uscire dalla sala con una certezza: ciò che abbiamo visto ci frulla in testa come dovrebbe fare ciò che fa riflettere. Non serve dirlo, ma ormai il percorso autoriale di Amelio è giunto al suo massimo, custodito nella liberalità con cui dirige i suoi attori rendendo intima e sacra ogni performance, e nell’accessibilità del suo cinema che è sempre più un mondo palese e approfondibile. A volte i modi sono crudeli e conturbanti ma dolorosamente concreti. Il cinema di Amelio è questo, e se può risultare indigesto a chi dà le spalle alla realtà basti la sequenza in cui appare la generosa Greta Scacchi: una lezione di cinema, una lezione di vita attraverso la semplicità del racconto. Un racconto che mette i brividi.

CAPITOLO A

ANDREA MOSCHIONI FIORETTI

33


<- LA RAGAZZA DEL MONDO Regia: Marco Danieli p. 30

Premio internazionale alla migliore sceneggiatura A

-> CAPITOLO B Premio all’opera d’autore p. 35

La tenerezza Regia: Gianni Amelio Soggetto: tratto dal romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Simona Paggi Scenografia: Giancarlo Basili Costumi: Maurizio Millenotti Musiche: Franco Piersanti

Produzione: Pepito Produzioni, Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Origine: Italia 2016 Durata: 103’

Interpreti: Elio Germano (Fabio), Giovanna Mezzogiorno (Elena), Micaela Ramazzotti (Michela), Greta Scacchi (Aurora), Renato Carpentieri (Lorenzo), Arturo Muselli (Saverio), Giuseppe Zeno Premi: Nastri d’Argento (2017): (Giulio), Maria Nazionale (Rossana), Miglior Film, Miglior Regia (Gianni Hieb Khili (Imputato tunisino), Amelio), Miglior Attore Protagonista Renato Carpentieri Jr. (Francesco), (Renato Carpentieri), Miglior Fabio Cocifoglia (Notaio), Bianca Fotografia (Luca Bigazzi) Panicci (Bianca), Giovanni Esposito (Davide)

apparentemente conducono una vita regolare e serena. Lorenzo pian piano inizia a conoscerli meglio, grazie alla gentilezza di Michela, e finalmente si riavvicina ai figli. In quest’epoca in cui tutti siamo connessi e, in forma teorica, possiamo dialogare tra di noi al massimo delle nostre potenzialità, Gianni Amelio La tenerezza, 2016 con La tenerezza ci rivela invece proprio Napoli, oggi. Lorenzo è un avvocato il contrario, senza stereotipi eccessivi. in pensione che vive solo in un grande Ispirato al romanzo La tentazione appartamento. Ha chiuso quasi i rapporti di essere felici di Lorenzo Marone, con i suoi figli che però non si rassegnano La tenerezza è un film “semplice” ma allo alla sua mancanza, soprattutto Elena che stesso tempo esemplare. È il ritorno per lo insegue come può. La vita di Lorenzo Amelio, dopo il quasi surreale L’intrepido viene animata dall’arrivo dei nuovi vicini (2013) a un cinema di narrazione fatto che si trasferiscono nell’appartamento di attori e personaggi verosimili di fronte al suo: Fabio e Michela, una e contemporanei, che vivono seguendo giovane coppia con due bambini, che le proprie emozioni. 32

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

È importante sottolineare che il protagonista sia un anziano: Lorenzo (il superbo Renato Carpentieri) avvocato in pensione che si aggira tra le strade di una Napoli decadente, “un padre che è sempre un padre” nonostante non lo dimostri e che trasporta sulle sue spalle la saggezza del passato. Non una saggezza sterile o comune, ma la consapevolezza che dagli errori si deve imparare per vivere al meglio. Lorenzo cerca di insegnarlo ai nuovi vicini di casa, una coppia (Ramazzotti e Germano) che cela molti problemi e che non imparerà la lezione. Amelio è uno dei pochi in Italia a saper ancora dirigere un melodramma e trasformarlo in uno dei generi più utili per raccontare la società. Si inginocchia e mostra la storia con gli occhi dei più giovani, anche qui come in Il ladro di bambini (1992) o Le chiavi di casa (2004) che forse hanno capito tutto ma faticano a farsi sentire. Basterebbe seguirli e tutti ci arricchiremmo. Ci sono poche lacrime in La tenerezza, ma sin dai titoli di testa l’atmosfera rarefatta e tragica della vicenda ci accompagna fino al finale, in cui per esprimersi non servono parole ma solo un gesto sciocco come quello di sfiorarsi una mano. Un contatto evitato da quasi tutti i personaggi, una privazione che porta solo a cose brutte. Non siamo più dalle parti dell’incomunicabilità antoniana, qui c’è proprio un problema di fondo: la mancanza di contradditorio per chiarire finalmente ciò che è stato rimosso o taciuto. A volte basterebbe semplicemente parlarsi per assimilare, ma non è sempre facile farlo. Inafferrabile, maledetta apatia che rovina i rapporti tra gli uomini, un sentimento da abbattere

con la parola. Il regista ama la storia che ci racconta e per questo cerca di evitare le trappole della retorica irreale di troppo cinema contemporaneo, maneggia al meglio le emozioni e ci fa uscire dalla sala con una certezza: ciò che abbiamo visto ci frulla in testa come dovrebbe fare ciò che fa riflettere. Non serve dirlo, ma ormai il percorso autoriale di Amelio è giunto al suo massimo, custodito nella liberalità con cui dirige i suoi attori rendendo intima e sacra ogni performance, e nell’accessibilità del suo cinema che è sempre più un mondo palese e approfondibile. A volte i modi sono crudeli e conturbanti ma dolorosamente concreti. Il cinema di Amelio è questo, e se può risultare indigesto a chi dà le spalle alla realtà basti la sequenza in cui appare la generosa Greta Scacchi: una lezione di cinema, una lezione di vita attraverso la semplicità del racconto. Un racconto che mette i brividi.

CAPITOLO A

ANDREA MOSCHIONI FIORETTI

33


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 35–61 Premio all’opera d’autore: Silvio Soldini

Capitolo B 35


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 35–61 Premio all’opera d’autore: Silvio Soldini

Capitolo B 35


-> CORTI Regia: Silvio Soldini p. 38

Premio all’opera d’autore B

Premio all’opera d’autore: Silvio Soldini

“La velocità ha i suoi pregi. Non sono i miei” Josef Weiss, Il fiume ha sempre ragione, 2016

Racchiudere in poche righe quello che è l’intero spettro della poetica di un singolo autore è sempre un compito molto difficile. La cosa si complica ancora di più quando l’autore in questione possiede uno stile molto preciso ma capace di mutare come la marea, che ad ogni nuovo lavoro si arricchisce dell’esperienza precedente e trascina a riva una storia ricca, succulenta, per poi ritirarsi, elaborare e ricominciare, portando in dono un’altra favola. Anno dopo anno Silvio Soldini ritorna con un ultimo soggetto, l’inchiostro è ancora fresco sulla sceneggiatura mentre le sue parole scorrono e vanno ad assemblare nuovi personaggi, nuove avventure, tutti i suoi cari episodi di ordinaria follia. Alla base il punto di forza fondamentale di ogni lavoro, quella pluralità di attori che si avvicendano 36

sul palcoscenico, a volte nuclei già composti ma nella maggioranza dei casi perfetti sconosciuti che improvvisamente cominciano a gravitare gli uni intorno agli altri. Si apre il film e loro iniziano a condividere un tempo presente, recitando insieme quasi senza saperlo, finché si incontrano, o si scontrano, poi si lasciano, ma si ripigliano, mescolando le loro vite. Sembrano degli incontri dettati da un destino capriccioso, attimi che si creano per caso, magari davanti a un affresco di dubbio gusto (Il comandante e la cicogna, 2012) o seduti al tavolino di una modesta trattoria in una calle veneziana (Pane e tulipani, 2000), ma in realtà sono imprevisti dai quali non sarà mai più possibile tornare indietro. Ecco che caratteri opposti (L’aria serena dell’Ovest,

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

1990), generazioni a confronto (Le acrobate, 1997), culture lontane l’una dall’altra (Un’anima divisa in due, 1993), differenze all’apparenza insormontabili si assemblano come tessere di un puzzle, formando piano piano dei quadri inediti, il cui risultato finale è diverso da quello che ci eravamo immaginati: noi spettatori ignari siamo accompagnati per mano con saggezza da sceneggiature e ambientazioni che si srotolano sotto i nostri occhi lentamente, portando nuove cose dietro ad ogni curva. È un viaggio in continua evoluzione quello che si intraprende all’inizio di ciascuna pellicola di Soldini, avventure non programmate che non solo permettono di entrare in punta di piedi in vite non nostre, ma che si perdono a loro volta dentro città e paesaggi. Da New York a Milano, dalla Genova afflitta dalla crisi del nuovo Millennio alla silenziosa Svizzera, che accoglie e dona seconde possibilità (Brucio nel vento, 2002), passando per la colorata Tunisi finendo per smarrirsi nella malinconica Venezia. Il vagabondare può sembrare quasi un gioco, ma non perde mai aderenza con quella che è la realtà di tutti i giorni. Essa è fatta di drammi, che entrano e prendono la parola senza mezzi termini (Giorni e nuvole, 2007, e il suo fragile protagonista neodisoccupato), magari come un’eco lontana (piazza Tienanmen e il crollo del muro di Berlino fanno da sordo sfondo a L’aria serena dell’Ovest), sempre mettendo in crisi equilibri dati per certi (lavoro, famiglia, sentimenti soccombono alla forza della passione di Cosa voglio di più, 2010). Ma è composta anche di amore, amicizia, famiglia, sorrisi sinceri e contagiosi, leggeri nel loro

prendere talvolta deviazioni spontanee, evadendo dal quotidiano per fluttuare in una dimensione onirica parallela, che prende un senso solo all’interno di casi specifici, come quando si progetta un vivaio di trote in compagnia di una gallina (Agata e la tempesta, 2004) o quando si entra nella cucina di Fernando per assistere a una partita di scopa giocata in tre (Pane e tulipani). La gioia nasconde malinconia, la tristezza serenità, la chiave sta nel farle procedere tutte e quattro di pari passo, lasciando che siano loro a decidere chi di volta in volta può prendere il sopravvento. Solo così i personaggi di Silvio Soldini esistono, nessuno escluso, anche chi sembra soccombere sotto il peso di una quotidianità opprimente (Un’anima divisa in due, Giorni e nuvole, Brucio nel vento), sono in continuo movimento, agiscono, vivono. Piccoli uomini, piccole donne, vite comuni che scorrono silenziose, che molti calpesterebbero nella foga di rincorrere il mito, la leggenda: invece lui li osserva, li capisce, cuce intorno alla loro figura il vestito più bello, con calma, con la pazienza e la precisione di un vero artigiano.

CAPITOLO B

MARGHERITA MERLO

37


-> CORTI Regia: Silvio Soldini p. 38

Premio all’opera d’autore B

Premio all’opera d’autore: Silvio Soldini

“La velocità ha i suoi pregi. Non sono i miei” Josef Weiss, Il fiume ha sempre ragione, 2016

Racchiudere in poche righe quello che è l’intero spettro della poetica di un singolo autore è sempre un compito molto difficile. La cosa si complica ancora di più quando l’autore in questione possiede uno stile molto preciso ma capace di mutare come la marea, che ad ogni nuovo lavoro si arricchisce dell’esperienza precedente e trascina a riva una storia ricca, succulenta, per poi ritirarsi, elaborare e ricominciare, portando in dono un’altra favola. Anno dopo anno Silvio Soldini ritorna con un ultimo soggetto, l’inchiostro è ancora fresco sulla sceneggiatura mentre le sue parole scorrono e vanno ad assemblare nuovi personaggi, nuove avventure, tutti i suoi cari episodi di ordinaria follia. Alla base il punto di forza fondamentale di ogni lavoro, quella pluralità di attori che si avvicendano 36

sul palcoscenico, a volte nuclei già composti ma nella maggioranza dei casi perfetti sconosciuti che improvvisamente cominciano a gravitare gli uni intorno agli altri. Si apre il film e loro iniziano a condividere un tempo presente, recitando insieme quasi senza saperlo, finché si incontrano, o si scontrano, poi si lasciano, ma si ripigliano, mescolando le loro vite. Sembrano degli incontri dettati da un destino capriccioso, attimi che si creano per caso, magari davanti a un affresco di dubbio gusto (Il comandante e la cicogna, 2012) o seduti al tavolino di una modesta trattoria in una calle veneziana (Pane e tulipani, 2000), ma in realtà sono imprevisti dai quali non sarà mai più possibile tornare indietro. Ecco che caratteri opposti (L’aria serena dell’Ovest,

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

1990), generazioni a confronto (Le acrobate, 1997), culture lontane l’una dall’altra (Un’anima divisa in due, 1993), differenze all’apparenza insormontabili si assemblano come tessere di un puzzle, formando piano piano dei quadri inediti, il cui risultato finale è diverso da quello che ci eravamo immaginati: noi spettatori ignari siamo accompagnati per mano con saggezza da sceneggiature e ambientazioni che si srotolano sotto i nostri occhi lentamente, portando nuove cose dietro ad ogni curva. È un viaggio in continua evoluzione quello che si intraprende all’inizio di ciascuna pellicola di Soldini, avventure non programmate che non solo permettono di entrare in punta di piedi in vite non nostre, ma che si perdono a loro volta dentro città e paesaggi. Da New York a Milano, dalla Genova afflitta dalla crisi del nuovo Millennio alla silenziosa Svizzera, che accoglie e dona seconde possibilità (Brucio nel vento, 2002), passando per la colorata Tunisi finendo per smarrirsi nella malinconica Venezia. Il vagabondare può sembrare quasi un gioco, ma non perde mai aderenza con quella che è la realtà di tutti i giorni. Essa è fatta di drammi, che entrano e prendono la parola senza mezzi termini (Giorni e nuvole, 2007, e il suo fragile protagonista neodisoccupato), magari come un’eco lontana (piazza Tienanmen e il crollo del muro di Berlino fanno da sordo sfondo a L’aria serena dell’Ovest), sempre mettendo in crisi equilibri dati per certi (lavoro, famiglia, sentimenti soccombono alla forza della passione di Cosa voglio di più, 2010). Ma è composta anche di amore, amicizia, famiglia, sorrisi sinceri e contagiosi, leggeri nel loro

prendere talvolta deviazioni spontanee, evadendo dal quotidiano per fluttuare in una dimensione onirica parallela, che prende un senso solo all’interno di casi specifici, come quando si progetta un vivaio di trote in compagnia di una gallina (Agata e la tempesta, 2004) o quando si entra nella cucina di Fernando per assistere a una partita di scopa giocata in tre (Pane e tulipani). La gioia nasconde malinconia, la tristezza serenità, la chiave sta nel farle procedere tutte e quattro di pari passo, lasciando che siano loro a decidere chi di volta in volta può prendere il sopravvento. Solo così i personaggi di Silvio Soldini esistono, nessuno escluso, anche chi sembra soccombere sotto il peso di una quotidianità opprimente (Un’anima divisa in due, Giorni e nuvole, Brucio nel vento), sono in continuo movimento, agiscono, vivono. Piccoli uomini, piccole donne, vite comuni che scorrono silenziose, che molti calpesterebbero nella foga di rincorrere il mito, la leggenda: invece lui li osserva, li capisce, cuce intorno alla loro figura il vestito più bello, con calma, con la pazienza e la precisione di un vero artigiano.

CAPITOLO B

MARGHERITA MERLO

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-> L’ARIA SERENA DELL’OVEST Regia: Silvio Soldini p. 42

Premio all’opera d’autore B

Regia e ideazione: Silvio Soldini Montaggio: Giorgio Garini Edizione: Gabriella Brunamonti, Maurizio Ossola

Consulente d’archivio: Assunta Gallotta Missaggio: Adriano Torbidone Produzione: Istituto Luce con Daniele Maggioni per Monogatari

Drimage, Giulia in ottobre, Femmine, folle e polvere d’archivio Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini Fotografia: William Moore Montaggio: Silvio Soldini

Suono in presa diretta: Lory Peters Produzione: Silvio Soldini Origine: USA 1981 Durata: 20’

Prodotto dall’Istituto Luce, il film si configura come un piccolo esperimento elaborato a partire da fonti d’archivio: ne emerge un cortometraggio fatto di piccoli frammenti in cui è possibile riscontrare il desiderio dell’autore di andare alla ricerca di volti e di stralci di vita che appaiono sepolti dai sommovimenti della storia ufficiale del Novecento.

Interpreti: Michael Sanville (Mike), Frances Ketcham (Mary), David Wolpe (Matthew), Barbara Wilder (Liz)

Mike abita a New York, ma desidera partire per la Grecia e lasciare la grande metropoli. Dopo tre lunghi colloqui con Mary, David e Liz e dopo essersi recato con quest’ultima al cinema, Mike parte da solo senza dire nulla ai propri amici.

Distribuzione: Istituto Luce Origine: Italia 1992 Durata: 7’

Femmine, folle e polvere d’archivio, 1992

Drimage, 1981

Regia: Silvio Soldini Soggetto: Silvio Soldini Sceneggiatura: Silvio Soldini, Laura Fremder Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio, Silvio Soldini Scenografia e costumi: Franca Bertagnolli Musiche: Matteo Di Guida, Gianni Celesta

Suono in presa diretta: Pino Castellet, Roberto Mozzarelli Produzione: Bilicofilm con il sostegno del “Premio Filmmaker” e con il coordinamento di Daniele Maggioni Origine: Italia 1985 Durata: 58’

Interpreti: Carla Chiarelli (Giulia), Giuseppe Cederna, Daniela Morelli, Andrea Novicov, Moni Ovadia

Alla fine di un’importante relazione amorosa, Giulia decide di prendere un periodo di ferie dal negozio di fotocopie in cui lavora come commessa. Si ritrova da sola, a Milano, all’inizio dell’autunno, senza avere nulla da fare. Decide così di esplorare la città, riallacciando vecchie amicizie e incontrando nuove persone. Giulia in ottobre, 1985

38

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Una delle caratteristiche fondamentali del cinema di Silvio Soldini è sempre stata quella di coniugare la sperimentazione con il linguaggio cinematografico e l’elaborazione di prodotti audiovisivi capaci di stabilire un rapporto di forte empatia con il proprio pubblico. Queste tre pellicole, sebbene appaiano estremamente eterogenee (si tratta, infatti, di due cortometraggi e di un mediometraggio elaborati in fasi diverse della produzione soldiniana), riescono a centrare un simile obiettivo prendendo avvio da differenti punti di partenza: Drimage (1981), il primo film del regista milanese, è un piccolo progetto nato all’interno del corso di “Film and Television” della New York University; Giulia in ottobre (1985) rappresenta la

seconda incursione nell’ambito della produzione indipendente italiana dopo Paesaggio con figure (1983); Femmine, folle e polvere d’archivio (1992), infine, si inserisce in quel nucleo di produzioni documentarie e sperimentali realizzate da Soldini tra il primo lungometraggio, L’aria serena dell’Ovest (1990) e il secondo, Un’anima divisa in due (1993). In particolare, Drimage e Giulia in ottobre, oltre a essere collocabili all’interno del periodo “giovanile” del regista, mostrano una decisa affinità riguardo a questioni di natura produttiva, tematica e stilistica. Entrambi, infatti, furono girati in 16mm e, in maniera più o meno diretta, furono promossi dal festival di cinema indipendente Filmmaker di Milano – Drimage venne

CAPITOLO B

39


-> L’ARIA SERENA DELL’OVEST Regia: Silvio Soldini p. 42

Premio all’opera d’autore B

Regia e ideazione: Silvio Soldini Montaggio: Giorgio Garini Edizione: Gabriella Brunamonti, Maurizio Ossola

Consulente d’archivio: Assunta Gallotta Missaggio: Adriano Torbidone Produzione: Istituto Luce con Daniele Maggioni per Monogatari

Drimage, Giulia in ottobre, Femmine, folle e polvere d’archivio Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini Fotografia: William Moore Montaggio: Silvio Soldini

Suono in presa diretta: Lory Peters Produzione: Silvio Soldini Origine: USA 1981 Durata: 20’

Prodotto dall’Istituto Luce, il film si configura come un piccolo esperimento elaborato a partire da fonti d’archivio: ne emerge un cortometraggio fatto di piccoli frammenti in cui è possibile riscontrare il desiderio dell’autore di andare alla ricerca di volti e di stralci di vita che appaiono sepolti dai sommovimenti della storia ufficiale del Novecento.

Interpreti: Michael Sanville (Mike), Frances Ketcham (Mary), David Wolpe (Matthew), Barbara Wilder (Liz)

Mike abita a New York, ma desidera partire per la Grecia e lasciare la grande metropoli. Dopo tre lunghi colloqui con Mary, David e Liz e dopo essersi recato con quest’ultima al cinema, Mike parte da solo senza dire nulla ai propri amici.

Distribuzione: Istituto Luce Origine: Italia 1992 Durata: 7’

Femmine, folle e polvere d’archivio, 1992

Drimage, 1981

Regia: Silvio Soldini Soggetto: Silvio Soldini Sceneggiatura: Silvio Soldini, Laura Fremder Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio, Silvio Soldini Scenografia e costumi: Franca Bertagnolli Musiche: Matteo Di Guida, Gianni Celesta

Suono in presa diretta: Pino Castellet, Roberto Mozzarelli Produzione: Bilicofilm con il sostegno del “Premio Filmmaker” e con il coordinamento di Daniele Maggioni Origine: Italia 1985 Durata: 58’

Interpreti: Carla Chiarelli (Giulia), Giuseppe Cederna, Daniela Morelli, Andrea Novicov, Moni Ovadia

Alla fine di un’importante relazione amorosa, Giulia decide di prendere un periodo di ferie dal negozio di fotocopie in cui lavora come commessa. Si ritrova da sola, a Milano, all’inizio dell’autunno, senza avere nulla da fare. Decide così di esplorare la città, riallacciando vecchie amicizie e incontrando nuove persone. Giulia in ottobre, 1985

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Una delle caratteristiche fondamentali del cinema di Silvio Soldini è sempre stata quella di coniugare la sperimentazione con il linguaggio cinematografico e l’elaborazione di prodotti audiovisivi capaci di stabilire un rapporto di forte empatia con il proprio pubblico. Queste tre pellicole, sebbene appaiano estremamente eterogenee (si tratta, infatti, di due cortometraggi e di un mediometraggio elaborati in fasi diverse della produzione soldiniana), riescono a centrare un simile obiettivo prendendo avvio da differenti punti di partenza: Drimage (1981), il primo film del regista milanese, è un piccolo progetto nato all’interno del corso di “Film and Television” della New York University; Giulia in ottobre (1985) rappresenta la

seconda incursione nell’ambito della produzione indipendente italiana dopo Paesaggio con figure (1983); Femmine, folle e polvere d’archivio (1992), infine, si inserisce in quel nucleo di produzioni documentarie e sperimentali realizzate da Soldini tra il primo lungometraggio, L’aria serena dell’Ovest (1990) e il secondo, Un’anima divisa in due (1993). In particolare, Drimage e Giulia in ottobre, oltre a essere collocabili all’interno del periodo “giovanile” del regista, mostrano una decisa affinità riguardo a questioni di natura produttiva, tematica e stilistica. Entrambi, infatti, furono girati in 16mm e, in maniera più o meno diretta, furono promossi dal festival di cinema indipendente Filmmaker di Milano – Drimage venne

CAPITOLO B

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proiettato per la prima volta proprio a Filmmaker nel giugno del 1982, mentre la produzione di Giulia in ottobre usufruì dei fondi del “Premio Filmmaker”. Entrambi, inoltre, hanno al loro centro la questione della rappresentazione della città – rispettivamente New York e Milano –, che, come suggerisce Silvia Colombo ne Il cinema di Silvio Soldini, svolge principalmente un ruolo antagonistico: essa, infatti, si configura o come un luogo di false promesse in cui i sogni e i desideri di chi la abita vengono trasformati in immagini pubblicitarie – si pensi al continuo gioco di rimandi a manifesti e inserzioni presente in Drimage – o come un luogo di passaggio transitorio, “incapace di stabilire occasioni di incontro e di rapporto con gli altri, incapace di costruire una socialità” (Silvia Colombo, Il cinema di Silvio Soldini, Falsopiano ⁄ Cinema, 2002) – si pensi alla Milano in cui girovaga la protagonista di Giulia in ottobre. Il rapporto tra soggetto e spazio abitato diviene così la manifestazione di una crisi impossibile da risolvere perché le uniche soluzioni sono la fuga – come nel caso di Mike in Drimage – o l’adattamento forzato a un ambiente composto ormai solo da oggetti inerti – come emerge in due inquadrature di Giulia in ottobre, ambientate rispettivamente nell’appartamento di Giulia e nel negozio in cui lavora, dove “gli oggetti e gli spazi [...] esistono crudelmente, perché il mondo degli oggetti non ha bisogno di noi” (Silvia Colombo, Il cinema di Silvio Soldini, Falsopiano ⁄ Cinema, 2002). Prende forma, così, uno sguardo 40

malinconico sulla “società del riflusso”, su quell’ovest in cui, già all’inizio degli anni Ottanta, non spira più “un’aria serena”: i soggetti rappresentati appaiono sempre più estranei al proprio contesto, sempre più incapaci di dare senso alle proprie vite. Ciò, tuttavia, non impedisce a Soldini di elaborare intrecci che, seppur minimali, siano caratterizzati da un’estrema coesione e coerenza. Come afferma Francesco Pitassio, “è questa accuratezza nella costruzione dell’impianto discorsivo piuttosto che meramente narrativo del film, a definire la specificità di Soldini degli anni Ottanta –Novanta” (Francesco Pitassio, “Il cinema nomade: appunti su Silvio Soldini”, in Annali d’Italianistica, vol. 17, 1999). In Drimage e in Giulia in ottobre possiamo trovare due esempi patenti di una simile tendenza stilistica: sebbene Soldini assegni una certa preminenza al lavoro sull’immagine, non trascura mai la necessità di rendere ben solidi i percorsi dei propri personaggi, tentando di restituirne la complessità in maniera credibile ed efficace anche quando essi si perdono “wendersianamente” nei luoghi che attraversano. Diversamente da Drimage e Giulia in ottobre, Femmine, folle e polvere d’archivio si colloca vicino al percorso “non–fiction” che attraversa la produzione di Soldini fin dai suoi inizi. In questo caso, tuttavia, non si tratta di un documentario, ma di una “rielaborazione d’archivio” che prende spunto da una commissione dell’Istituto Luce. E se la tecnica del found–footage si discosta in maniera netta da quella utilizzata per i corti e i mediometraggi degli anni Ottanta, la poetica di Soldini appare comunque

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

in trasparenza: anche questo film, infatti, mira a indagare il brulicare dei volti e delle azioni di una massa in cui la fisionomia dell’individuo si confonde senza mai obliterarsi. Insomma, anche quando muove verso orizzonti sperimentali, Soldini appare intento a elaborare “quell’umanesimo gentile” che la crisi della modernità sembra aver trasformato in un’utopia. DIEGO CAVALLOTTI

CAPITOLO B

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proiettato per la prima volta proprio a Filmmaker nel giugno del 1982, mentre la produzione di Giulia in ottobre usufruì dei fondi del “Premio Filmmaker”. Entrambi, inoltre, hanno al loro centro la questione della rappresentazione della città – rispettivamente New York e Milano –, che, come suggerisce Silvia Colombo ne Il cinema di Silvio Soldini, svolge principalmente un ruolo antagonistico: essa, infatti, si configura o come un luogo di false promesse in cui i sogni e i desideri di chi la abita vengono trasformati in immagini pubblicitarie – si pensi al continuo gioco di rimandi a manifesti e inserzioni presente in Drimage – o come un luogo di passaggio transitorio, “incapace di stabilire occasioni di incontro e di rapporto con gli altri, incapace di costruire una socialità” (Silvia Colombo, Il cinema di Silvio Soldini, Falsopiano ⁄ Cinema, 2002) – si pensi alla Milano in cui girovaga la protagonista di Giulia in ottobre. Il rapporto tra soggetto e spazio abitato diviene così la manifestazione di una crisi impossibile da risolvere perché le uniche soluzioni sono la fuga – come nel caso di Mike in Drimage – o l’adattamento forzato a un ambiente composto ormai solo da oggetti inerti – come emerge in due inquadrature di Giulia in ottobre, ambientate rispettivamente nell’appartamento di Giulia e nel negozio in cui lavora, dove “gli oggetti e gli spazi [...] esistono crudelmente, perché il mondo degli oggetti non ha bisogno di noi” (Silvia Colombo, Il cinema di Silvio Soldini, Falsopiano ⁄ Cinema, 2002). Prende forma, così, uno sguardo 40

malinconico sulla “società del riflusso”, su quell’ovest in cui, già all’inizio degli anni Ottanta, non spira più “un’aria serena”: i soggetti rappresentati appaiono sempre più estranei al proprio contesto, sempre più incapaci di dare senso alle proprie vite. Ciò, tuttavia, non impedisce a Soldini di elaborare intrecci che, seppur minimali, siano caratterizzati da un’estrema coesione e coerenza. Come afferma Francesco Pitassio, “è questa accuratezza nella costruzione dell’impianto discorsivo piuttosto che meramente narrativo del film, a definire la specificità di Soldini degli anni Ottanta –Novanta” (Francesco Pitassio, “Il cinema nomade: appunti su Silvio Soldini”, in Annali d’Italianistica, vol. 17, 1999). In Drimage e in Giulia in ottobre possiamo trovare due esempi patenti di una simile tendenza stilistica: sebbene Soldini assegni una certa preminenza al lavoro sull’immagine, non trascura mai la necessità di rendere ben solidi i percorsi dei propri personaggi, tentando di restituirne la complessità in maniera credibile ed efficace anche quando essi si perdono “wendersianamente” nei luoghi che attraversano. Diversamente da Drimage e Giulia in ottobre, Femmine, folle e polvere d’archivio si colloca vicino al percorso “non–fiction” che attraversa la produzione di Soldini fin dai suoi inizi. In questo caso, tuttavia, non si tratta di un documentario, ma di una “rielaborazione d’archivio” che prende spunto da una commissione dell’Istituto Luce. E se la tecnica del found–footage si discosta in maniera netta da quella utilizzata per i corti e i mediometraggi degli anni Ottanta, la poetica di Soldini appare comunque

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

in trasparenza: anche questo film, infatti, mira a indagare il brulicare dei volti e delle azioni di una massa in cui la fisionomia dell’individuo si confonde senza mai obliterarsi. Insomma, anche quando muove verso orizzonti sperimentali, Soldini appare intento a elaborare “quell’umanesimo gentile” che la crisi della modernità sembra aver trasformato in un’utopia. DIEGO CAVALLOTTI

CAPITOLO B

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<- CORTI Regia: Silvio Soldini p. 38

Premio all’opera d’autore B

-> UN’ANIMA DIVISA IN DUE Regia: Silvio Soldini p. 44

L’aria serena dell’Ovest Regia: Silvio Soldini Soggetto: Silvio Soldini, Paola Candiani Sceneggiatura: Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio Scenografia: Daniela Verdenelli Costumi: Daniela Verdenelli Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Monogatari, PIC Film, Radiotelevisione Svizzera Italiana Distribuzione: Mikado Film Origine: Italia, Svizzera 1990 Durata: 103’ Premi: Festival di Locarno (1990): Premio Cinema e Gioventù; Premio Saint–Vincent per il cinema italiano (1990): Grolla d’Oro per la sceneggiatura (Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi); Festival du Cinéma Européen (1990): Miglior Attrice (Patrizia Piccinini); Gran Premio agli incontri del Cinema Italiano di Annecy (1990)

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Cesare Noviti), Antonella Fattori (Irene Dilman), Ivano Marescotti (Tobia), Patrizia Piccinini (Veronica), Silli Togni (Clara), Roberto Accornero (Mario), Olga Durano (Rosa), Cesare Bocci (amico di Cesare), Riccardo Magherini (collega di Tobia), Bruno Stori (suicida)

di eventi, nella speranza che l’aria serena dell’Ovest possa definitivamente – o in parte – cambiare. Silvio Soldini, con L’aria serena dell’Ovest, porta sullo schermo la storia di quattro personaggi attraverso due differenti registri narrativi e con un realismo minimalista. Il primo registro, L’aria serena dell’Ovest, 1990 puramente esistenziale, riguarda i Le vite di quattro personaggi, tra personaggi, che attraverso un “banale” loro diversissimi e con nulla in comune, espediente narrativo – lo smarrimento se non la serenità delle proprie abitudini, dell’agenda di Veronica e i relativi incroci, vengono legate e stravolte dall’episodio di più che incontri, che ne conseguono –, un’agendina smarrita. Mentre il panorama avvertiranno di poter dare una scossa internazionale è disorientato dagli eventi di alle loro vite vivendo qualcosa di nuovo. piazza Tienanmen e dal crollo del muro di E il secondo, quello politico, che emerge Berlino, a Milano le loro vite si incrociano: dallo sguardo sulla quotidianità colta la tranquillità, le reciproche sicurezze ed nelle piccole cose apparentemente abitudini vengono sconvolte da una serie insignificanti, negli oggetti e nelle 42

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

abitudini che caratterizzano i personaggi – le partite di tennis registrate su videocassetta di Tobia, le interviste motivazionali di Cesare, la complicata traduzione di un libro e la difficoltà di vivere a Milano di Irene, la vita notturna e gli incontri casuali di Veronica –, con cui Soldini lancia un messaggio molto forte che si intreccia perfettamente con il registro esistenziale e lascia ampiamente riflettere sul conformismo e l’inettitudine dei protagonisti. Altrettanto forti e tragici sono i messaggi che ci arrivano da lontano, dalla Cina e dalla Germania (la storia è raccontata nell’arco di tempo che va dai fatti di piazza Tienanmen di Pechino alla caduta del Muro di Berlino), attraverso i giornali, la radio, la televisione, e che non turbano alcun meccanismo dei protagonisti, troppo impegnati a mantenere un’apparente serenità nelle loro piccole storie che in realtà nascondono la loro mediocrità. Una mediocrità che traspare anche attraverso la rappresentazione di una Milano riconoscibile e astratta al tempo stesso, quasi a rappresentare una metropoli occidentale qualsiasi in cui risiede la solitudine dell’individuo (portata all’estremo da Soldini con la vicenda del ragazzo suicida). In questo suo primo lungometraggio, Soldini, attraverso la raffigurazione della città, riporta sullo schermo la questione del rapporto dell’uomo con essa. Un elemento già affrontato nel suo primo lavoro Drimage del 1982 (in questo caso è New York a fare da sfondo al suo cortometraggio) e nel mediometraggio Giulia in ottobre del 1985 in cui è sempre Milano a fare da sfondo.

La ricchezza stilistica e la fine descrizione dei particolari che contribuiscono ad aumentare il realismo dell’opera, sono accompagnati dal suono in presa diretta, funzionale a mettere in risalto e ad arricchire ulteriormente quest’ultimo fattore. Infine, è interessante notare come le interviste motivazionali che Cesare fa ai protagonisti corrano lungo tutto il film, permettendoci di approfondire, scivolando nel privato, i caratteri e le debolezze dei personaggi e come esse si leghino perfettamente alla colonna sonora, dando l’impressione di farne propriamente parte. La doppia narrazione, a cui si accennava all’inizio, rende il film prodotto dalla Monogatari – factory milanese operante in diversi campi dell’audiovisivo, nata dalla precedente esperienza della Bilicofilm e fondata da Soldini insieme ai suoi collaboratori Luca Bigazzi, Giorgio Garini e Daniele Maggioni –, complesso, originale ed anticonformista.

CAPITOLO B

GIOVANNI GRASSO

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<- CORTI Regia: Silvio Soldini p. 38

Premio all’opera d’autore B

-> UN’ANIMA DIVISA IN DUE Regia: Silvio Soldini p. 44

L’aria serena dell’Ovest Regia: Silvio Soldini Soggetto: Silvio Soldini, Paola Candiani Sceneggiatura: Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio Scenografia: Daniela Verdenelli Costumi: Daniela Verdenelli Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Monogatari, PIC Film, Radiotelevisione Svizzera Italiana Distribuzione: Mikado Film Origine: Italia, Svizzera 1990 Durata: 103’ Premi: Festival di Locarno (1990): Premio Cinema e Gioventù; Premio Saint–Vincent per il cinema italiano (1990): Grolla d’Oro per la sceneggiatura (Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi); Festival du Cinéma Européen (1990): Miglior Attrice (Patrizia Piccinini); Gran Premio agli incontri del Cinema Italiano di Annecy (1990)

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Cesare Noviti), Antonella Fattori (Irene Dilman), Ivano Marescotti (Tobia), Patrizia Piccinini (Veronica), Silli Togni (Clara), Roberto Accornero (Mario), Olga Durano (Rosa), Cesare Bocci (amico di Cesare), Riccardo Magherini (collega di Tobia), Bruno Stori (suicida)

di eventi, nella speranza che l’aria serena dell’Ovest possa definitivamente – o in parte – cambiare. Silvio Soldini, con L’aria serena dell’Ovest, porta sullo schermo la storia di quattro personaggi attraverso due differenti registri narrativi e con un realismo minimalista. Il primo registro, L’aria serena dell’Ovest, 1990 puramente esistenziale, riguarda i Le vite di quattro personaggi, tra personaggi, che attraverso un “banale” loro diversissimi e con nulla in comune, espediente narrativo – lo smarrimento se non la serenità delle proprie abitudini, dell’agenda di Veronica e i relativi incroci, vengono legate e stravolte dall’episodio di più che incontri, che ne conseguono –, un’agendina smarrita. Mentre il panorama avvertiranno di poter dare una scossa internazionale è disorientato dagli eventi di alle loro vite vivendo qualcosa di nuovo. piazza Tienanmen e dal crollo del muro di E il secondo, quello politico, che emerge Berlino, a Milano le loro vite si incrociano: dallo sguardo sulla quotidianità colta la tranquillità, le reciproche sicurezze ed nelle piccole cose apparentemente abitudini vengono sconvolte da una serie insignificanti, negli oggetti e nelle 42

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

abitudini che caratterizzano i personaggi – le partite di tennis registrate su videocassetta di Tobia, le interviste motivazionali di Cesare, la complicata traduzione di un libro e la difficoltà di vivere a Milano di Irene, la vita notturna e gli incontri casuali di Veronica –, con cui Soldini lancia un messaggio molto forte che si intreccia perfettamente con il registro esistenziale e lascia ampiamente riflettere sul conformismo e l’inettitudine dei protagonisti. Altrettanto forti e tragici sono i messaggi che ci arrivano da lontano, dalla Cina e dalla Germania (la storia è raccontata nell’arco di tempo che va dai fatti di piazza Tienanmen di Pechino alla caduta del Muro di Berlino), attraverso i giornali, la radio, la televisione, e che non turbano alcun meccanismo dei protagonisti, troppo impegnati a mantenere un’apparente serenità nelle loro piccole storie che in realtà nascondono la loro mediocrità. Una mediocrità che traspare anche attraverso la rappresentazione di una Milano riconoscibile e astratta al tempo stesso, quasi a rappresentare una metropoli occidentale qualsiasi in cui risiede la solitudine dell’individuo (portata all’estremo da Soldini con la vicenda del ragazzo suicida). In questo suo primo lungometraggio, Soldini, attraverso la raffigurazione della città, riporta sullo schermo la questione del rapporto dell’uomo con essa. Un elemento già affrontato nel suo primo lavoro Drimage del 1982 (in questo caso è New York a fare da sfondo al suo cortometraggio) e nel mediometraggio Giulia in ottobre del 1985 in cui è sempre Milano a fare da sfondo.

La ricchezza stilistica e la fine descrizione dei particolari che contribuiscono ad aumentare il realismo dell’opera, sono accompagnati dal suono in presa diretta, funzionale a mettere in risalto e ad arricchire ulteriormente quest’ultimo fattore. Infine, è interessante notare come le interviste motivazionali che Cesare fa ai protagonisti corrano lungo tutto il film, permettendoci di approfondire, scivolando nel privato, i caratteri e le debolezze dei personaggi e come esse si leghino perfettamente alla colonna sonora, dando l’impressione di farne propriamente parte. La doppia narrazione, a cui si accennava all’inizio, rende il film prodotto dalla Monogatari – factory milanese operante in diversi campi dell’audiovisivo, nata dalla precedente esperienza della Bilicofilm e fondata da Soldini insieme ai suoi collaboratori Luca Bigazzi, Giorgio Garini e Daniele Maggioni –, complesso, originale ed anticonformista.

CAPITOLO B

GIOVANNI GRASSO

43


<- L’ARIA SERENA DELL’OVEST Regia: Silvio Soldini p. 42

Premio all’opera d’autore B

-> LE ACROBATE Regia: Silvio Soldini p. 46

Un’anima divisa in due Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio Scenografia: Elvezio Van Dej Mejiden Costumi: Franca Zucchelli Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Aran Film, Pic Film, Mod Films Distribuzione: D.A.R.C. Origine: Italia, Svizzera 1993 Durata: 124’

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Pietro De Leo), Mària Bakò (Pabe), Philippine Leroy Beaulieu (Miriam), Jessica Forde (Helene), Felice Andreasi (Savino), Silvia Mocci (Lidia), Giuseppe Battiston Premi: Mostra Internazionale (guardiano dell’autogrill), Antonio d’Arte Cinematografica di Venezia Albanese (receptionist), Moni (1993): Coppa Volpi al Miglior Attore Ovadia (un cliente nel bar), Ivano Protagonista (Fabrizio Bentivoglio); Marescotti (un cliente dell’albergo) Golden Globe (1993): Miglior Attore (Fabrizio Bentivoglio), Miglior Regista (Silvio Soldini); Ciak d’Oro (1994): Miglior Attore Protagonista (Fabrizio Bentivoglio), Miglior Film Italiano

Comincia così un viaggio all’insegna dell’incontro e della trasformazione reciproca, che porterà entrambi a rimettersi in discussione e a guardare il mondo con occhi diversi.

Un’anima divisa in due, 1993

In un grande magazzino di Milano, Pietro è l’addetto alla sicurezza e più volte dovrà rincorrere una giovane ladruncola, la zingara Pabe, che presidia giornalmente il reparto cosmetici. Lui è un uomo passivo, sopravvive andando avanti per inerzia, in solitudine e apparentemente senza desideri. Colpito dalla ragazza, decide di dare una svolta decisiva alla sua vita: scappare con lei in una fuga d’amore. 44

Il secondo lungometraggio di Silvio Soldini, Un’anima divisa in due, si presenta fin da subito come un film che mette in scena tutte le tematiche care al regista in un dialogo diretto tra le sue esperienze precedenti e la sua produzione successiva. Riesce a proporsi con forza innovatrice che punta da una parte alla sperimentazione narrativa e dall’altra a quella fotografica, ad opera di Luca Bigazzi. A caratterizzare la struttura narrativa è una suddivisione in tre movimenti, che fanno passare lo

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

spettatore dalla visione del mondo attraverso gli occhi di Pietro, protagonista all’inizio del film, a quella dagli occhi di Pabe, figura centrale nell’ultima parte. Il passaggio da un personaggio all’altro avviene in modo graduale nello sviluppo centrale del film, dove i due compiono il loro viaggio e sono quasi sempre compresenti sulla scena. Uno spostamento fisico che si pone anche come metafora di un cambiamento interiore profondo: il momento di incontro e scambio tra due mondi agli antipodi seppur vicinissimi nello spazio. Il tema centrale del film è infatti l’integrazione tra due culture, tutto è “basato sul confronto fra nomadismo e stanzialità” (Francesco Pitassio, “Il cinema nomade: appunti su Silvio Soldini”, in Annali d’Italianistica, vol. 17, 1999). Lo stato d’animo di Pietro, personaggio statico e triste, è pienamente in sintonia con il grigiore di Milano, metropoli postindustriale che ci viene presentata fin dalle prime scene. È tormentato e non riesce a vivere la sua vita con entusiasmo, continuamente ossessionato dai fantasmi del passato, trova pace solo nei pochi momenti di evasione che trascorre giocando con il figlio avuto dalla ex moglie. È Pabe che avrà la forza di sconvolgere il suo animo. La giovane ladruncola lo sfida sfacciatamente segnandosi il volto con una striscia di rossetto come una vera indigena, la battaglia è aperta. I due partono, anzi scappano insieme, alla ricerca di un futuro diverso che ha bisogno di un luogo nuovo: Ancona. Il mare, quell’elemento naturale che Pabe non ha mai visto e che dà ad entrambi la possibilità di reinventarsi

costruendosi una nuova vita. Anche il ritmo del montaggio cambia, da psicotico e confusionario, diventa pacato e dolce, quasi una ballata che accompagna lo spettatore ad avvicinarsi ai personaggi. La grande sfida che la pellicola mette in scena è l’incontro con “l’altro”, tematica che la rende più che mai attuale. La difficoltà di essere accettati dalla società che vede nell’alterità una minaccia paurosa e dalla quale bisogna difendersi manifestando un rifiuto pungente dettato dai pregiudizi. Ma anche quella di cambiare le abitudini con le quali si è nati, impegno che avviene in entrambe le direzioni, sia da parte di Pietro nei confronti della zingara, che da parte di Pabe nei confronti del “gaggio” (chi non appartiene alla cultura rom). Due persone appartenenti a culture distanti, per le quali la fuga è il passo decisivo per uscire da quella gabbia che li ha costretti fino a quel momento. Ma il finale rimane aperto e solo una cosa è davvero certa: tornare indietro non è più possibile.

CAPITOLO B

SILVIA MASCIA

45


<- L’ARIA SERENA DELL’OVEST Regia: Silvio Soldini p. 42

Premio all’opera d’autore B

-> LE ACROBATE Regia: Silvio Soldini p. 46

Un’anima divisa in due Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio Scenografia: Elvezio Van Dej Mejiden Costumi: Franca Zucchelli Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Aran Film, Pic Film, Mod Films Distribuzione: D.A.R.C. Origine: Italia, Svizzera 1993 Durata: 124’

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Pietro De Leo), Mària Bakò (Pabe), Philippine Leroy Beaulieu (Miriam), Jessica Forde (Helene), Felice Andreasi (Savino), Silvia Mocci (Lidia), Giuseppe Battiston Premi: Mostra Internazionale (guardiano dell’autogrill), Antonio d’Arte Cinematografica di Venezia Albanese (receptionist), Moni (1993): Coppa Volpi al Miglior Attore Ovadia (un cliente nel bar), Ivano Protagonista (Fabrizio Bentivoglio); Marescotti (un cliente dell’albergo) Golden Globe (1993): Miglior Attore (Fabrizio Bentivoglio), Miglior Regista (Silvio Soldini); Ciak d’Oro (1994): Miglior Attore Protagonista (Fabrizio Bentivoglio), Miglior Film Italiano

Comincia così un viaggio all’insegna dell’incontro e della trasformazione reciproca, che porterà entrambi a rimettersi in discussione e a guardare il mondo con occhi diversi.

Un’anima divisa in due, 1993

In un grande magazzino di Milano, Pietro è l’addetto alla sicurezza e più volte dovrà rincorrere una giovane ladruncola, la zingara Pabe, che presidia giornalmente il reparto cosmetici. Lui è un uomo passivo, sopravvive andando avanti per inerzia, in solitudine e apparentemente senza desideri. Colpito dalla ragazza, decide di dare una svolta decisiva alla sua vita: scappare con lei in una fuga d’amore. 44

Il secondo lungometraggio di Silvio Soldini, Un’anima divisa in due, si presenta fin da subito come un film che mette in scena tutte le tematiche care al regista in un dialogo diretto tra le sue esperienze precedenti e la sua produzione successiva. Riesce a proporsi con forza innovatrice che punta da una parte alla sperimentazione narrativa e dall’altra a quella fotografica, ad opera di Luca Bigazzi. A caratterizzare la struttura narrativa è una suddivisione in tre movimenti, che fanno passare lo

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

spettatore dalla visione del mondo attraverso gli occhi di Pietro, protagonista all’inizio del film, a quella dagli occhi di Pabe, figura centrale nell’ultima parte. Il passaggio da un personaggio all’altro avviene in modo graduale nello sviluppo centrale del film, dove i due compiono il loro viaggio e sono quasi sempre compresenti sulla scena. Uno spostamento fisico che si pone anche come metafora di un cambiamento interiore profondo: il momento di incontro e scambio tra due mondi agli antipodi seppur vicinissimi nello spazio. Il tema centrale del film è infatti l’integrazione tra due culture, tutto è “basato sul confronto fra nomadismo e stanzialità” (Francesco Pitassio, “Il cinema nomade: appunti su Silvio Soldini”, in Annali d’Italianistica, vol. 17, 1999). Lo stato d’animo di Pietro, personaggio statico e triste, è pienamente in sintonia con il grigiore di Milano, metropoli postindustriale che ci viene presentata fin dalle prime scene. È tormentato e non riesce a vivere la sua vita con entusiasmo, continuamente ossessionato dai fantasmi del passato, trova pace solo nei pochi momenti di evasione che trascorre giocando con il figlio avuto dalla ex moglie. È Pabe che avrà la forza di sconvolgere il suo animo. La giovane ladruncola lo sfida sfacciatamente segnandosi il volto con una striscia di rossetto come una vera indigena, la battaglia è aperta. I due partono, anzi scappano insieme, alla ricerca di un futuro diverso che ha bisogno di un luogo nuovo: Ancona. Il mare, quell’elemento naturale che Pabe non ha mai visto e che dà ad entrambi la possibilità di reinventarsi

costruendosi una nuova vita. Anche il ritmo del montaggio cambia, da psicotico e confusionario, diventa pacato e dolce, quasi una ballata che accompagna lo spettatore ad avvicinarsi ai personaggi. La grande sfida che la pellicola mette in scena è l’incontro con “l’altro”, tematica che la rende più che mai attuale. La difficoltà di essere accettati dalla società che vede nell’alterità una minaccia paurosa e dalla quale bisogna difendersi manifestando un rifiuto pungente dettato dai pregiudizi. Ma anche quella di cambiare le abitudini con le quali si è nati, impegno che avviene in entrambe le direzioni, sia da parte di Pietro nei confronti della zingara, che da parte di Pabe nei confronti del “gaggio” (chi non appartiene alla cultura rom). Due persone appartenenti a culture distanti, per le quali la fuga è il passo decisivo per uscire da quella gabbia che li ha costretti fino a quel momento. Ma il finale rimane aperto e solo una cosa è davvero certa: tornare indietro non è più possibile.

CAPITOLO B

SILVIA MASCIA

45


Premio all’opera d’autore B

<- UN’ANIMA DIVISA IN DUE Regia: Silvio Soldini p. 44

-> PANE E TULIPANI Regia: Silvio Soldini p. 48

Le acrobate Regia: Silvio Soldini Soggetto: Laura Bosio Sceneggiatura: Laura Bosio, Doriana Leondeff, Silvio Soldini Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Aran, Vega Film Distribuzione: Mikado Origine: Italia 1997 Durata: 123’

Interpreti: Licia Maglietta (Elena), Valeria Golino (Maria), Angela Maraffa (Teresa), Mira Sardoc (Anita), Manrico Gammarota (Mirko), Teresa Saponangelo (Giusy), Roberto Citran (Paolo), Fabrizio Bentivoglio (Stefano), Giuseppe Battiston (Mondini)

recuperarne le tracce. A Taranto conosce Maria, anch’ella amica di Anita, e la figlia Teresa, una curiosa ragazza di dieci anni affascinata dal nord e dalla scienza. Le acrobate sono tre piccole statue in terracotta esposte al Museo Archeologico Nazionale di Taranto, risalenti all’epoca della Magna Grecia. Le acrobate, 1997 Da questo oggetto, piccolo per Elena, quarantenne recentemente dimensione e fama, Soldini, Leondeff separata, lavora in una ditta di cosmetici e Bosio ricavano una storia altrettanto a Treviso. Un giorno investe per sbaglio microscopica, fatta di labili fili che Anita, un’anziana donna bulgara che vive connettono quattro vite banali. in condizioni di indigenza. Ne diventa La quotidianità delle protagoniste – amica e si prende cura di lei. Anita muore tutte donne – converge grazie a dettagli a causa di un malore, ed Elena organizza insignificanti, o, per meglio dire, a eventi il funerale e cerca di riordinare la casa, che l’ordinario normalmente tralascia. dove trova alcune cartoline da Taranto. Elena, Anita, Maria e Teresa, sono, infatti, Pensando si tratti di un parente, cerca di esse stesse acrobate, costantemente 46

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

in bilico tra un presente difficilmente dirimibile e un futuro incerto. Le acrobate è, in effetti, un prodotto che mette in luce una densa problematica. Il film, in senso un po’ zavattiniano, evidenzia l’interesse dei personaggi verso la spettacolarità del quotidiano. Di riflesso, tale peculiarità ci porta a porre l’attenzione verso l’interruzione degli automatismi dell’esistenza. Elena e Maria hanno infatti in comune la fascinazione istintiva verso Anita, un personaggio la cui vita, apparentemente poco interessante, è lasciata in sospeso e allusa dai numerosi indizi, oggetti, carabattole che si trovano nella sua abitazione. Un cammino investigativo, questo, che non sarà portato a termine, sovrapposto dall’urgenza della solidarietà nei rapporti umani (qui visti nel senso di una reciproca comprensione legata anche all’identità tautologica di genere). Similmente Teresa, in quanto bambina, ha il naturale, animalesco, entusiasmo verso il mondo (il nord, le montagne, gli esperimenti scientifici) e i suoi capricci trainano l’ultima macrosequenza della vicenda, determinandone il turning point. Lo stupore nell’ordinario che le protagoniste si trovano a provare è anche una riflessione sulla comunicazione interpersonale. La vicinanza e la reciproca comprensione delle quattro donne avviene in maniera alternativa al dialogo e al linguaggio verbale. I personaggi principali comunicano per azioni, gesti e sguardi e le conversazioni – una volta superate le iniziali incomprensioni – avvengono all’insegna di allusioni, rarefazioni e inferenze. Uno scambio istintuale, quello delle

protagoniste, che supera le regole della civilitas in nome di un’intimità sororale, quasi familiare. È interessante, a tal proposito, la particolarissima idea di de–municipalizzazione tipica del cinema di Soldini (che vediamo anche in Pane e tulipani e Il comandante e la cicogna). Tale concetto, in origine, era riferito all’avvento dei galatei e delle norme sulla civile conversazione; in un periodo storico, il Cinquecento, in cui era necessario abbellire o, meglio, “mettere in mora” la natura, in nome della convivenza fra popoli. Al contrario, in Le acrobate, il trait d’union tra Treviso, Taranto e la Bulgaria riguarda un’apertura verso l’altro che evidenzia l’istinto umano, la familiarità, la confidenza, l’eliminazione delle barriere sociali, in un concetto di solidarietà che intende fronteggiare il disagio della civiltà.

CAPITOLO B

LEONARDO CABRINI

47


Premio all’opera d’autore B

<- UN’ANIMA DIVISA IN DUE Regia: Silvio Soldini p. 44

-> PANE E TULIPANI Regia: Silvio Soldini p. 48

Le acrobate Regia: Silvio Soldini Soggetto: Laura Bosio Sceneggiatura: Laura Bosio, Doriana Leondeff, Silvio Soldini Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Claudio Cormio Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Aran, Vega Film Distribuzione: Mikado Origine: Italia 1997 Durata: 123’

Interpreti: Licia Maglietta (Elena), Valeria Golino (Maria), Angela Maraffa (Teresa), Mira Sardoc (Anita), Manrico Gammarota (Mirko), Teresa Saponangelo (Giusy), Roberto Citran (Paolo), Fabrizio Bentivoglio (Stefano), Giuseppe Battiston (Mondini)

recuperarne le tracce. A Taranto conosce Maria, anch’ella amica di Anita, e la figlia Teresa, una curiosa ragazza di dieci anni affascinata dal nord e dalla scienza. Le acrobate sono tre piccole statue in terracotta esposte al Museo Archeologico Nazionale di Taranto, risalenti all’epoca della Magna Grecia. Le acrobate, 1997 Da questo oggetto, piccolo per Elena, quarantenne recentemente dimensione e fama, Soldini, Leondeff separata, lavora in una ditta di cosmetici e Bosio ricavano una storia altrettanto a Treviso. Un giorno investe per sbaglio microscopica, fatta di labili fili che Anita, un’anziana donna bulgara che vive connettono quattro vite banali. in condizioni di indigenza. Ne diventa La quotidianità delle protagoniste – amica e si prende cura di lei. Anita muore tutte donne – converge grazie a dettagli a causa di un malore, ed Elena organizza insignificanti, o, per meglio dire, a eventi il funerale e cerca di riordinare la casa, che l’ordinario normalmente tralascia. dove trova alcune cartoline da Taranto. Elena, Anita, Maria e Teresa, sono, infatti, Pensando si tratti di un parente, cerca di esse stesse acrobate, costantemente 46

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

in bilico tra un presente difficilmente dirimibile e un futuro incerto. Le acrobate è, in effetti, un prodotto che mette in luce una densa problematica. Il film, in senso un po’ zavattiniano, evidenzia l’interesse dei personaggi verso la spettacolarità del quotidiano. Di riflesso, tale peculiarità ci porta a porre l’attenzione verso l’interruzione degli automatismi dell’esistenza. Elena e Maria hanno infatti in comune la fascinazione istintiva verso Anita, un personaggio la cui vita, apparentemente poco interessante, è lasciata in sospeso e allusa dai numerosi indizi, oggetti, carabattole che si trovano nella sua abitazione. Un cammino investigativo, questo, che non sarà portato a termine, sovrapposto dall’urgenza della solidarietà nei rapporti umani (qui visti nel senso di una reciproca comprensione legata anche all’identità tautologica di genere). Similmente Teresa, in quanto bambina, ha il naturale, animalesco, entusiasmo verso il mondo (il nord, le montagne, gli esperimenti scientifici) e i suoi capricci trainano l’ultima macrosequenza della vicenda, determinandone il turning point. Lo stupore nell’ordinario che le protagoniste si trovano a provare è anche una riflessione sulla comunicazione interpersonale. La vicinanza e la reciproca comprensione delle quattro donne avviene in maniera alternativa al dialogo e al linguaggio verbale. I personaggi principali comunicano per azioni, gesti e sguardi e le conversazioni – una volta superate le iniziali incomprensioni – avvengono all’insegna di allusioni, rarefazioni e inferenze. Uno scambio istintuale, quello delle

protagoniste, che supera le regole della civilitas in nome di un’intimità sororale, quasi familiare. È interessante, a tal proposito, la particolarissima idea di de–municipalizzazione tipica del cinema di Soldini (che vediamo anche in Pane e tulipani e Il comandante e la cicogna). Tale concetto, in origine, era riferito all’avvento dei galatei e delle norme sulla civile conversazione; in un periodo storico, il Cinquecento, in cui era necessario abbellire o, meglio, “mettere in mora” la natura, in nome della convivenza fra popoli. Al contrario, in Le acrobate, il trait d’union tra Treviso, Taranto e la Bulgaria riguarda un’apertura verso l’altro che evidenzia l’istinto umano, la familiarità, la confidenza, l’eliminazione delle barriere sociali, in un concetto di solidarietà che intende fronteggiare il disagio della civiltà.

CAPITOLO B

LEONARDO CABRINI

47


<- LE ACROBATE Regia: Silvio Soldini p. 46

Premio all’opera d’autore B

-> BRUCIO NEL VENTO Regia: Silvio Soldini p. 50

Pane e tulipani Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Doriana Leondeff, Silvio Soldini Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri, Alessandra Mura, Stefania Pasinato Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta Produzione: Monogatari, Istituto Luce, Rai Cinema, Amka Films Productions Distribuzione: Istituto Luce Origine: Italia, Svizzera 2000 Durata: 115’

Premi: David di Donatello (2000): Miglior Film, Miglior Regista (Silvio Soldini), Migliore Sceneggiatura (Doriana Leondeff, Silvio Soldini), Migliore Attrice Protagonista (Licia Maglietta), Miglior Attore Protagonista (Bruno Ganz), Migliore Attrice non Protagonista (Marina Massironi), Miglior Attore non Protagonista (Giuseppe Battiston), Migliore Fotografia (Luca Bigazzi); Nastri d’Argento (2000): Regista del Miglior Film (Silvio Soldini), Miglior Sceneggiatura (Doriana Leondeff, Silvio Soldini), Migliore Attrice Protagonista (Licia Maglietta), Migliore Attrice non Protagonista

(Marina Massironi), Miglior Attore non Protagonista (Felice Andreasi) Interpreti: Licia Maglietta (Rosalba Barletta), Bruno Ganz (Fernando Girasole), Giuseppe Battiston (Costantino Caponangeli), Antonio Catania (Mimmo Barletta), Marina Massironi (Grazia Reginella), Felice Andreasi (Fermo), Don Backy (il cantante), Vitalba Andrea (Ketty), Tatiana Lepore (Adele), Tiziano Cucchiarelli (Nic), Matteo Febo (Salvo), Lina Bernardi (Nancy), Mauro Marino (Lello), Antonia Miccoli (Sami), Ludovico Paladin (Eliseo), Silvana Bosi (la madre di Costantino)

di cui diviene amica, e Fermo, che le offre un lavoro. Lontano da casa, la donna vive una dimensione nuova, che sembrava aver dimenticato. Ma ben presto il marito mette sulle sue tracce un investigatore privato.

Pane e tulipani, 2000

Rosalba è una casalinga pescarese di mezza età, sposata e con due figli. Durante una gita organizzata viene accidentalmente dimenticata dalla sua famiglia in un autogrill; l’incidente le dà la preziosa occasione per concedersi una fuga a Venezia. Qui si imbatte in una piccola e bizzarra umanità: Fernando, cameriere con cui instaura un legame speciale, Grazia, massaggiatrice olistica 48

Dopo Le acrobate del 1997, Soldini con Pane e tulipani torna al ritratto femminile, soggetto verso il quale ha una spiccata vocazione. Attraverso l’avventura vissuta da Rosalba, personaggio reso magnificamente dall’interpretazione di Licia Maglietta vincitrice per questo ruolo di numerosi premi, il regista dà vita ad un film corale in cui si intrecciano sapientemente le vicende dei vari personaggi. L’umanità descritta è varia e talvolta bizzarra. Si va dal classico cliché del marito fedifrago e prepotente, che

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

approfitta dell’assenza della moglie per vivere più pienamente la sua relazione extraconiugale, al cameriere islandese Fernando, uomo dolce e gentile ma dall’oscuro passato, alla massaggiatrice Grazia, innamorata dell’amore. Nonostante la pellicola contenga diversi elementi tristi quali il tradimento, la detenzione e l’abbandono, essa presenta una innegabile qualità: riesce a trasmettere ottimismo, fa riflettere ma non lascia strascichi amari. Sicuramente questo aspetto è in gran parte dovuto alla figura della protagonista, che non è un personaggio votato al negativo, non è irrealizzato, non è una casalinga in crisi, nonostante dietro la normalità della sua vita si nasconda il tradimento del marito, tradimento che peraltro Rosalba non scoprirà mai. La donna non è aggressiva, non presenta nevrosi, risulta un personaggio dolce, sereno e solare, di quella solarità tipica delle donne del sud; ad un tratto però avverte il bisogno di evadere, di allontanarsi dalla routine ovattata in cui ha perso sé stessa. Venezia, città romantica per eccellenza, è la meta prescelta in quanto è il luogo in cui il fratello avrebbe voluto sempre portarla. Lì, tra canali e calli, Rosalba ritrova una sua dimensione, assaporando un’indipendenza mai pienamente vissuta essendo diventata moglie e madre in giovane età. Scopre la dolcezza di un amore puro e maturo, la complicità femminile, una realtà lavorativa soddisfacente. E così una “vacanza in pullman, si trasforma in vacanza della vita” (Vincenzo Buccheri, Segnocinema n. 103, giugno 2000). Personaggio fortemente comico, quasi ai limiti del surreale, è invece

quello di Costantino, investigatore improvvisato, impacciato e maldestro che però riuscirà a fare breccia nel tenero cuore di Grazia. Da un punto di vista propriamente stilistico, è evidente l’influenza del cinema dell’Est europeo nelle musiche di Venosta e la presenza di riflessi hollywoodiani riconducibili a Capra, riscontrabili soprattutto nel lieto fine. Ma in particolar modo è l’atmosfera dal sapore così francese ad allontanare la pellicola dai canoni della commedia all’italiana: la descrizione degli ambienti, il modo umoristico e non bozzettistico in cui vengono delineati i personaggi, lo rendono un film gioioso ai limiti del fiabesco, dimensione quest’ultima, acuita dai numerosi rifermenti all’Orlando Furioso. Una curiosità: il titolo deriva da due particolari del film. Il pane è l’elemento principale della colazione che Fernando prepara la mattina, mentre i tulipani sono l’ultimo mazzo di fiori che Rosalba porta all’uomo la sera prima di tornare a Pescara. Inoltre, i tulipani simbolicamente rappresentano la protagonista; come dichiara il proprietario del negozio di fiori, in genere si pensa che i tulipani siano fiori olandesi, mentre in realtà provengono dalla Persia. Da qui il paragone con Rosalba che appare in un modo, mentre la sua vera essenza è totalmente diversa e viene scoperta solo dalle persone che veramente si interessano a lei.

CAPITOLO B

ROBERTA VERDE

49


<- LE ACROBATE Regia: Silvio Soldini p. 46

Premio all’opera d’autore B

-> BRUCIO NEL VENTO Regia: Silvio Soldini p. 50

Pane e tulipani Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Doriana Leondeff, Silvio Soldini Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri, Alessandra Mura, Stefania Pasinato Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta Produzione: Monogatari, Istituto Luce, Rai Cinema, Amka Films Productions Distribuzione: Istituto Luce Origine: Italia, Svizzera 2000 Durata: 115’

Premi: David di Donatello (2000): Miglior Film, Miglior Regista (Silvio Soldini), Migliore Sceneggiatura (Doriana Leondeff, Silvio Soldini), Migliore Attrice Protagonista (Licia Maglietta), Miglior Attore Protagonista (Bruno Ganz), Migliore Attrice non Protagonista (Marina Massironi), Miglior Attore non Protagonista (Giuseppe Battiston), Migliore Fotografia (Luca Bigazzi); Nastri d’Argento (2000): Regista del Miglior Film (Silvio Soldini), Miglior Sceneggiatura (Doriana Leondeff, Silvio Soldini), Migliore Attrice Protagonista (Licia Maglietta), Migliore Attrice non Protagonista

(Marina Massironi), Miglior Attore non Protagonista (Felice Andreasi) Interpreti: Licia Maglietta (Rosalba Barletta), Bruno Ganz (Fernando Girasole), Giuseppe Battiston (Costantino Caponangeli), Antonio Catania (Mimmo Barletta), Marina Massironi (Grazia Reginella), Felice Andreasi (Fermo), Don Backy (il cantante), Vitalba Andrea (Ketty), Tatiana Lepore (Adele), Tiziano Cucchiarelli (Nic), Matteo Febo (Salvo), Lina Bernardi (Nancy), Mauro Marino (Lello), Antonia Miccoli (Sami), Ludovico Paladin (Eliseo), Silvana Bosi (la madre di Costantino)

di cui diviene amica, e Fermo, che le offre un lavoro. Lontano da casa, la donna vive una dimensione nuova, che sembrava aver dimenticato. Ma ben presto il marito mette sulle sue tracce un investigatore privato.

Pane e tulipani, 2000

Rosalba è una casalinga pescarese di mezza età, sposata e con due figli. Durante una gita organizzata viene accidentalmente dimenticata dalla sua famiglia in un autogrill; l’incidente le dà la preziosa occasione per concedersi una fuga a Venezia. Qui si imbatte in una piccola e bizzarra umanità: Fernando, cameriere con cui instaura un legame speciale, Grazia, massaggiatrice olistica 48

Dopo Le acrobate del 1997, Soldini con Pane e tulipani torna al ritratto femminile, soggetto verso il quale ha una spiccata vocazione. Attraverso l’avventura vissuta da Rosalba, personaggio reso magnificamente dall’interpretazione di Licia Maglietta vincitrice per questo ruolo di numerosi premi, il regista dà vita ad un film corale in cui si intrecciano sapientemente le vicende dei vari personaggi. L’umanità descritta è varia e talvolta bizzarra. Si va dal classico cliché del marito fedifrago e prepotente, che

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

approfitta dell’assenza della moglie per vivere più pienamente la sua relazione extraconiugale, al cameriere islandese Fernando, uomo dolce e gentile ma dall’oscuro passato, alla massaggiatrice Grazia, innamorata dell’amore. Nonostante la pellicola contenga diversi elementi tristi quali il tradimento, la detenzione e l’abbandono, essa presenta una innegabile qualità: riesce a trasmettere ottimismo, fa riflettere ma non lascia strascichi amari. Sicuramente questo aspetto è in gran parte dovuto alla figura della protagonista, che non è un personaggio votato al negativo, non è irrealizzato, non è una casalinga in crisi, nonostante dietro la normalità della sua vita si nasconda il tradimento del marito, tradimento che peraltro Rosalba non scoprirà mai. La donna non è aggressiva, non presenta nevrosi, risulta un personaggio dolce, sereno e solare, di quella solarità tipica delle donne del sud; ad un tratto però avverte il bisogno di evadere, di allontanarsi dalla routine ovattata in cui ha perso sé stessa. Venezia, città romantica per eccellenza, è la meta prescelta in quanto è il luogo in cui il fratello avrebbe voluto sempre portarla. Lì, tra canali e calli, Rosalba ritrova una sua dimensione, assaporando un’indipendenza mai pienamente vissuta essendo diventata moglie e madre in giovane età. Scopre la dolcezza di un amore puro e maturo, la complicità femminile, una realtà lavorativa soddisfacente. E così una “vacanza in pullman, si trasforma in vacanza della vita” (Vincenzo Buccheri, Segnocinema n. 103, giugno 2000). Personaggio fortemente comico, quasi ai limiti del surreale, è invece

quello di Costantino, investigatore improvvisato, impacciato e maldestro che però riuscirà a fare breccia nel tenero cuore di Grazia. Da un punto di vista propriamente stilistico, è evidente l’influenza del cinema dell’Est europeo nelle musiche di Venosta e la presenza di riflessi hollywoodiani riconducibili a Capra, riscontrabili soprattutto nel lieto fine. Ma in particolar modo è l’atmosfera dal sapore così francese ad allontanare la pellicola dai canoni della commedia all’italiana: la descrizione degli ambienti, il modo umoristico e non bozzettistico in cui vengono delineati i personaggi, lo rendono un film gioioso ai limiti del fiabesco, dimensione quest’ultima, acuita dai numerosi rifermenti all’Orlando Furioso. Una curiosità: il titolo deriva da due particolari del film. Il pane è l’elemento principale della colazione che Fernando prepara la mattina, mentre i tulipani sono l’ultimo mazzo di fiori che Rosalba porta all’uomo la sera prima di tornare a Pescara. Inoltre, i tulipani simbolicamente rappresentano la protagonista; come dichiara il proprietario del negozio di fiori, in genere si pensa che i tulipani siano fiori olandesi, mentre in realtà provengono dalla Persia. Da qui il paragone con Rosalba che appare in un modo, mentre la sua vera essenza è totalmente diversa e viene scoperta solo dalle persone che veramente si interessano a lei.

CAPITOLO B

ROBERTA VERDE

49


<- PANE E TULIPANI Regia: Silvio Soldini p. 48

Premio all’opera d’autore B

-> AGATA E LA TEMPESTA Regia: Silvio Soldini p. 52

Brucio nel vento Regia: Silvio Soldini Soggetto: dal romanzo Hier di Agota Kristof Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Silvio Soldini Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Albachiara, Rai Cinema, Vega Film Distribuzione: 01 Distribution Origine: Italia, Svizzera 2002 Durata: 118’ Premi: Nastri d’Argento (2002): Migliore Fotografia (Luca Bigazzi); Globo d’Oro (2002): Migliore Fotografia (Luca Bigazzi)

Interpreti: Ivan Franěk (Tobias), Barbara Lukešová (Line), Ctirad Götz (Janek), Caroline Baehr (Yolande), Cécile Pallas (Ève), Petr Forman (Pavel), Zuzana Maurery (Katy), Pavel Anděl (Kristof)

e Tobias avrà la fortuna di rincontrarla proprio quando la donna verrà a lavorare nella sua stessa fabbrica. Tuttavia, non sarà semplice per loro instaurare una vera relazione. Dopo il grande successo di Pane e tulipani (2000), Silvio Soldini cambia registro e adatta per il grande schermo Brucio nel vento, 2002 il romanzo Hier dell’autrice ungherese Tobias, immigrato in Svizzera Agota Kristof. Gran parte del film è da un imprecisato paese dell’Est Europa, incentrato sulla figura dell’immigrato lavora come operaio in una fabbrica Tobias, un uomo che appare solo e fragile, di orologi. La sua esistenza non può continuamente assediato dagli scheletri dirsi felice in quanto, oltre ad essere nascosti nell’armadio relativi al suo tormentato da un oscuro passato oscuro passato. Egli è stato costretto e frustrato dalla ripetitività dei gesti a fuggire dal suo Paese natale, a cui torna quotidiani, è ossessionato dalla ricerca spesso indietro con la memoria, e si di Line, una sorta di donna “ideale”. ritrova quotidianamente a ripetere sempre In realtà, Line appartiene al suo passato le stesse situazioni: vive in un modesto 50

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

appartamento e il suo lavoro è frustrante in quanto compie sempre la stessa azione in una catena di montaggio per la fabbricazione di orologi, lavoro alienante per definizione – egli stesso ammette che nessuno lì dentro sarebbe in grado di produrre un orologio completo. Eppure la sua condizione lavorativa contrasta fortemente con la sua creatività: Tobias è, infatti, uno scrittore, o almeno prova ad esserlo. Inoltre, non sembra avere grandi rapporti con i colleghi pur riuscendo a fare amicizia con alcuni connazionali, anche loro nella difficile condizione di integrarsi nel paese in cui ora vivono. La condizione esistenziale di Tobias è resa ancor più esplicita grazie alla fotografia di Luca Bigazzi, che predilige colori spenti e tendenti al neutro. Se si osserva, il paese che fa da sfondo al film è perennemente ritratto con toni cupi, spesso pervaso da condizioni atmosferiche avverse, quasi a voler sottolineare maggiormente il senso di frustrazione in cui vive Tobias. Soldini riesce a non cadere nella banalità del solito racconto dell’amore impossibile, creando un’intricata successione di eventi che tengono viva l’attenzione dello spettatore. Ciò che colpisce, al di là del rapporto tra i due protagonisti e della condizione frustrante di Tobias, è proprio il racconto della quotidianità delle loro vite e del passare del tempo nel paese svizzero. Non è un mistero che proprio gli italiani, dal Neorealismo in poi, siano tra i migliori nel ritrarre la quotidianità. Gli eventi si ripetono e ben poco accade nel procedere della vicenda: le azioni, i gesti, i percorsi sono sempre gli stessi ma curiosamente catturano lo spettatore grazie alle

atmosfere cupe del film. In particolare l’ossessione per Line, una sorta di donna ideale che, tuttavia, affonda le radici nel passato di Tobias. Nessuna delle donne da lui incontrate, o con cui intrattiene rapporti sessuali duraturi, sembra essere la sua Line. Un’intera vita a cercarla e nel momento in cui essa appare numerosi ostacoli gli si presentano davanti. Il loro è un amore impossibile ma non per questo significa dover rinunciare l’uno all’altro. Anche se Line si dimostra almeno inizialmente ostile, Tobias farà di tutto per averla con sé. Seppure può essere oggetto di discussione la decisione di aver cambiato il finale rispetto al libro, bisogna ammettere che il film non è mai prevedibile, proprio grazie alla vicenda originale dei due protagonisti, e anzi molteplici sono i colpi di scena che contribuiscono a tenere viva la narrazione.

CAPITOLO B

ALEX TRIBELLI

51


<- PANE E TULIPANI Regia: Silvio Soldini p. 48

Premio all’opera d’autore B

-> AGATA E LA TEMPESTA Regia: Silvio Soldini p. 52

Brucio nel vento Regia: Silvio Soldini Soggetto: dal romanzo Hier di Agota Kristof Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Silvio Soldini Fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Albachiara, Rai Cinema, Vega Film Distribuzione: 01 Distribution Origine: Italia, Svizzera 2002 Durata: 118’ Premi: Nastri d’Argento (2002): Migliore Fotografia (Luca Bigazzi); Globo d’Oro (2002): Migliore Fotografia (Luca Bigazzi)

Interpreti: Ivan Franěk (Tobias), Barbara Lukešová (Line), Ctirad Götz (Janek), Caroline Baehr (Yolande), Cécile Pallas (Ève), Petr Forman (Pavel), Zuzana Maurery (Katy), Pavel Anděl (Kristof)

e Tobias avrà la fortuna di rincontrarla proprio quando la donna verrà a lavorare nella sua stessa fabbrica. Tuttavia, non sarà semplice per loro instaurare una vera relazione. Dopo il grande successo di Pane e tulipani (2000), Silvio Soldini cambia registro e adatta per il grande schermo Brucio nel vento, 2002 il romanzo Hier dell’autrice ungherese Tobias, immigrato in Svizzera Agota Kristof. Gran parte del film è da un imprecisato paese dell’Est Europa, incentrato sulla figura dell’immigrato lavora come operaio in una fabbrica Tobias, un uomo che appare solo e fragile, di orologi. La sua esistenza non può continuamente assediato dagli scheletri dirsi felice in quanto, oltre ad essere nascosti nell’armadio relativi al suo tormentato da un oscuro passato oscuro passato. Egli è stato costretto e frustrato dalla ripetitività dei gesti a fuggire dal suo Paese natale, a cui torna quotidiani, è ossessionato dalla ricerca spesso indietro con la memoria, e si di Line, una sorta di donna “ideale”. ritrova quotidianamente a ripetere sempre In realtà, Line appartiene al suo passato le stesse situazioni: vive in un modesto 50

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

appartamento e il suo lavoro è frustrante in quanto compie sempre la stessa azione in una catena di montaggio per la fabbricazione di orologi, lavoro alienante per definizione – egli stesso ammette che nessuno lì dentro sarebbe in grado di produrre un orologio completo. Eppure la sua condizione lavorativa contrasta fortemente con la sua creatività: Tobias è, infatti, uno scrittore, o almeno prova ad esserlo. Inoltre, non sembra avere grandi rapporti con i colleghi pur riuscendo a fare amicizia con alcuni connazionali, anche loro nella difficile condizione di integrarsi nel paese in cui ora vivono. La condizione esistenziale di Tobias è resa ancor più esplicita grazie alla fotografia di Luca Bigazzi, che predilige colori spenti e tendenti al neutro. Se si osserva, il paese che fa da sfondo al film è perennemente ritratto con toni cupi, spesso pervaso da condizioni atmosferiche avverse, quasi a voler sottolineare maggiormente il senso di frustrazione in cui vive Tobias. Soldini riesce a non cadere nella banalità del solito racconto dell’amore impossibile, creando un’intricata successione di eventi che tengono viva l’attenzione dello spettatore. Ciò che colpisce, al di là del rapporto tra i due protagonisti e della condizione frustrante di Tobias, è proprio il racconto della quotidianità delle loro vite e del passare del tempo nel paese svizzero. Non è un mistero che proprio gli italiani, dal Neorealismo in poi, siano tra i migliori nel ritrarre la quotidianità. Gli eventi si ripetono e ben poco accade nel procedere della vicenda: le azioni, i gesti, i percorsi sono sempre gli stessi ma curiosamente catturano lo spettatore grazie alle

atmosfere cupe del film. In particolare l’ossessione per Line, una sorta di donna ideale che, tuttavia, affonda le radici nel passato di Tobias. Nessuna delle donne da lui incontrate, o con cui intrattiene rapporti sessuali duraturi, sembra essere la sua Line. Un’intera vita a cercarla e nel momento in cui essa appare numerosi ostacoli gli si presentano davanti. Il loro è un amore impossibile ma non per questo significa dover rinunciare l’uno all’altro. Anche se Line si dimostra almeno inizialmente ostile, Tobias farà di tutto per averla con sé. Seppure può essere oggetto di discussione la decisione di aver cambiato il finale rispetto al libro, bisogna ammettere che il film non è mai prevedibile, proprio grazie alla vicenda originale dei due protagonisti, e anzi molteplici sono i colpi di scena che contribuiscono a tenere viva la narrazione.

CAPITOLO B

ALEX TRIBELLI

51


Premio all’opera d’autore B

<- BRUCIO NEL VENTO Regia: Silvio Soldini p. 50

-> GIORNI E NUVOLE Regia: Silvio Soldini p. 54

Agata e la tempesta Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Doriana Leondeff, Francesco Piccolo Fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Albachiara, Amka Films Productions, TSI (Zurigo), Mercury Film Productions (Londra) Distribuzione: Mikado Origine: Italia, Svizzera, Gran Bretagna 2004 Durata: 118’

Interpreti: Licia Maglietta (Agata Torregiani), Giuseppe Battiston (Romeo D’Avanzo), Emilio Solfrizzi (Gustavo Torregiani), Marina Massironi (Ines Silvestri), Claudio Santamaria (Nico e Arturo), Giselda Volodi (Maria Libera), Ann Eleonora Jørgensen (Pernille Margarethe Kierkegaard), Remo Remotti (Generoso Rambone), Monica Nappo (Daria), Carla Astolfi (geometra Mirabassi), Elena Nicastro (Iole ⁄ hostess), Mauro Marino (dottore), Silvana Bosi (madre di Romeo) Andrea Gussoni (Benedetto), Carlo Luca De Ruggieri (l’elettricista)

l’architetto per trovare le sue vere origini e la libraia per riequilibrare le complesse dinamiche familiari e affettive, cambierà per sempre i loro destini. Dopo la parentesi di Brucio nel vento, opera del 2002 dai drammatici toni esistenziali, Silvio Soldini ritorna alla commedia, seguendo una linea molto Agata e la tempesta, 2004 vicina a quella del suo premiatissimo Le vite di Agata, proprietaria di film Pane e tulipani. Pellicola ancora più una libreria a Genova e innamorata di corale rispetto al film del 2000, anche qui un giovane uomo sposato, e quella del i personaggi sono ai limiti del surreale e fratello Gustavo, rinomato architetto, i vistosi e accesi colori della fotografia la sono totalmente sconvolte dall’arrivo di fanno da padrona. Rispetto però a Pane Romeo, piazzista di vestiti. Quest’ultimo e tulipani, qui sono stati inseriti troppi rivela a Gustavo di essere suo fratello: argomenti, troppi eventi, troppe situazioni Gustavo, infatti, era stato dato in intricate e tale struttura narrativa non adozione poco dopo la nascita. Il consente di ottenere quell’equilibrio, metaforico viaggio che intraprenderanno quella gioiosità, quella pacata linearità che 52

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

invece sono le caratteristiche peculiari della commedia precedente. In Agata e la tempesta tutto risulta essere più confuso e più misterioso. Nulla è statico, tutto è dinamico e ai molteplici personaggi corrispondono molteplici energie: quella che ne sprigiona di più è proprio Agata, animata da un potere misterioso per cui, al suo passaggio, le lampadine si fulminano, i lampioni si spengono e i semafori vanno in tilt. Forse proprio per questa sua esuberanza magnetica, Agata è l’unico personaggio a comparire nel titolo che risulta, per questo, leggermente fuorviante; a ben vedere infatti nella dinamica narrativa la donna non riveste un ruolo decisionale o risolutivo. Agata vive, si muove e agisce in stretta relazione con le peripezie vissute dagli altri, i quali risultano come schiacciati da un destino sul quale hanno poco potere. I romanzi e il cinema diventano per la donna luoghi di una vita parallela, dove gli eventi che vive si trasformano, si enfatizzano, divenendo qualcosa di nuovo e irreale come fossero sogni dell’inconscio. Più che Gustavo, il fratello adottato interpretato da Solfrizzi, è Romeo l’altra figura preponderante del film: è proprio lui, a ben vedere, la tempesta cui fa riferimento il titolo. Come il fenomeno meteorologico, Romeo arriva all’improvviso, sconvolge le vite di tutti con le sue rivelazioni e così com’è apparso va via. È un personaggio concreto, sinceramente innamorato della moglie costretta in sedia a rotelle a causa di un incidente, ma nonostante questo è un impertinente dongiovanni che agisce senza esitazioni o rimorsi. La sua entrata in scena scatena uno sconvolgimento di sentimenti e relazioni; la sua dipartita

invece rafforza i legami non di sangue ma affettivi che si sono creati tra i diversi personaggi. Come in Pane e tulipani, anche qui i momenti difficili della vita quali la morte di una madre, il fallimento di uno studio professionale, la scoperta di essere stato adottato, una moglie paraplegica, un letale incidente d’auto, una separazione coniugale, l’amore verso un uomo già impegnato, sono risolti da Soldini in una maniera comunque lieve. La macchina da presa non è mai invadente, ma scorre delicata nella vita dei protagonisti, cogliendone emozioni, sensazioni e sfumature. Come in altri film, anche qui la location iniziale, Genova, non è altro che il punto di partenza, estremità di un metaforico ponte che ha la sua fine a chilometri di distanza, nell’isolata casa ai Lidi di Comacchio. Il regista Silvio Soldini appare nel film in un cameo: lo si intravede tra il pubblico della sala cinematografica dove Agata si rifugia subito dopo un incidente inconsciamente provocato da lei stessa facendo andare in tilt un semaforo.

CAPITOLO B

ROBERTA VERDE

53


Premio all’opera d’autore B

<- BRUCIO NEL VENTO Regia: Silvio Soldini p. 50

-> GIORNI E NUVOLE Regia: Silvio Soldini p. 54

Agata e la tempesta Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Doriana Leondeff, Francesco Piccolo Fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Albachiara, Amka Films Productions, TSI (Zurigo), Mercury Film Productions (Londra) Distribuzione: Mikado Origine: Italia, Svizzera, Gran Bretagna 2004 Durata: 118’

Interpreti: Licia Maglietta (Agata Torregiani), Giuseppe Battiston (Romeo D’Avanzo), Emilio Solfrizzi (Gustavo Torregiani), Marina Massironi (Ines Silvestri), Claudio Santamaria (Nico e Arturo), Giselda Volodi (Maria Libera), Ann Eleonora Jørgensen (Pernille Margarethe Kierkegaard), Remo Remotti (Generoso Rambone), Monica Nappo (Daria), Carla Astolfi (geometra Mirabassi), Elena Nicastro (Iole ⁄ hostess), Mauro Marino (dottore), Silvana Bosi (madre di Romeo) Andrea Gussoni (Benedetto), Carlo Luca De Ruggieri (l’elettricista)

l’architetto per trovare le sue vere origini e la libraia per riequilibrare le complesse dinamiche familiari e affettive, cambierà per sempre i loro destini. Dopo la parentesi di Brucio nel vento, opera del 2002 dai drammatici toni esistenziali, Silvio Soldini ritorna alla commedia, seguendo una linea molto Agata e la tempesta, 2004 vicina a quella del suo premiatissimo Le vite di Agata, proprietaria di film Pane e tulipani. Pellicola ancora più una libreria a Genova e innamorata di corale rispetto al film del 2000, anche qui un giovane uomo sposato, e quella del i personaggi sono ai limiti del surreale e fratello Gustavo, rinomato architetto, i vistosi e accesi colori della fotografia la sono totalmente sconvolte dall’arrivo di fanno da padrona. Rispetto però a Pane Romeo, piazzista di vestiti. Quest’ultimo e tulipani, qui sono stati inseriti troppi rivela a Gustavo di essere suo fratello: argomenti, troppi eventi, troppe situazioni Gustavo, infatti, era stato dato in intricate e tale struttura narrativa non adozione poco dopo la nascita. Il consente di ottenere quell’equilibrio, metaforico viaggio che intraprenderanno quella gioiosità, quella pacata linearità che 52

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

invece sono le caratteristiche peculiari della commedia precedente. In Agata e la tempesta tutto risulta essere più confuso e più misterioso. Nulla è statico, tutto è dinamico e ai molteplici personaggi corrispondono molteplici energie: quella che ne sprigiona di più è proprio Agata, animata da un potere misterioso per cui, al suo passaggio, le lampadine si fulminano, i lampioni si spengono e i semafori vanno in tilt. Forse proprio per questa sua esuberanza magnetica, Agata è l’unico personaggio a comparire nel titolo che risulta, per questo, leggermente fuorviante; a ben vedere infatti nella dinamica narrativa la donna non riveste un ruolo decisionale o risolutivo. Agata vive, si muove e agisce in stretta relazione con le peripezie vissute dagli altri, i quali risultano come schiacciati da un destino sul quale hanno poco potere. I romanzi e il cinema diventano per la donna luoghi di una vita parallela, dove gli eventi che vive si trasformano, si enfatizzano, divenendo qualcosa di nuovo e irreale come fossero sogni dell’inconscio. Più che Gustavo, il fratello adottato interpretato da Solfrizzi, è Romeo l’altra figura preponderante del film: è proprio lui, a ben vedere, la tempesta cui fa riferimento il titolo. Come il fenomeno meteorologico, Romeo arriva all’improvviso, sconvolge le vite di tutti con le sue rivelazioni e così com’è apparso va via. È un personaggio concreto, sinceramente innamorato della moglie costretta in sedia a rotelle a causa di un incidente, ma nonostante questo è un impertinente dongiovanni che agisce senza esitazioni o rimorsi. La sua entrata in scena scatena uno sconvolgimento di sentimenti e relazioni; la sua dipartita

invece rafforza i legami non di sangue ma affettivi che si sono creati tra i diversi personaggi. Come in Pane e tulipani, anche qui i momenti difficili della vita quali la morte di una madre, il fallimento di uno studio professionale, la scoperta di essere stato adottato, una moglie paraplegica, un letale incidente d’auto, una separazione coniugale, l’amore verso un uomo già impegnato, sono risolti da Soldini in una maniera comunque lieve. La macchina da presa non è mai invadente, ma scorre delicata nella vita dei protagonisti, cogliendone emozioni, sensazioni e sfumature. Come in altri film, anche qui la location iniziale, Genova, non è altro che il punto di partenza, estremità di un metaforico ponte che ha la sua fine a chilometri di distanza, nell’isolata casa ai Lidi di Comacchio. Il regista Silvio Soldini appare nel film in un cameo: lo si intravede tra il pubblico della sala cinematografica dove Agata si rifugia subito dopo un incidente inconsciamente provocato da lei stessa facendo andare in tilt un semaforo.

CAPITOLO B

ROBERTA VERDE

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<- AGATA E LA TEMPESTA Regia: Silvio Soldini p. 52

Premio all’opera d’autore B

-> COSA VOGLIO DI PIÙ Regia: Silvio Soldini p. 56

Giorni e nuvole Regia: Silvio Soldini Soggetto: Doriana Leondeff, Francesco Piccolo, Silvio Soldini Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli, Silvio Soldini Fotografia: Ramiro Civita Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Patrizia Mazzon, Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Lumière & Co., Amka Films, RSI–Radiotelevisione svizzera Distribuzione: Warner Bros. Picture Origine: Italia 2007 Durata: 116’

Interpreti: Margherita Buy (Elsa), Antonio Albanese (Michele), Giuseppe Battiston (Vito), Alba Rohrwacher (Alice), Carla Signoris (Nadia), Fabio Troiano (Riki), Paolo Sassanelli (Salviati), Antonio Carlo Francini (Luciano), Teco Celio (Ragionier Terzetti), Arnaldo Ninchi Premi: David di Donatello (2008): (Padre di Michele) Miglior Attrice (Margherita Buy), Miglior Attrice non Protagonista (Alba Rohrwacher)

trovando una serie di lavori part–time, lui non riesce a reinventarsi e crolla in uno stato di apatia e depressione che mettono a dura prova il rapporto con la moglie e la figlia. Genova, primi anni del 2000. La crisi in Italia dilaga, le fabbriche chiudono, i concorsi pubblici diventano Giorni e nuvole, 2007 un lontano ricordo, i profitti di grandi e Michele ed Elsa sono una coppia piccole aziende subiscono una battuta felice e agiata: lei lavora per passione d’arresto drammatica. I giovani sono e senza stipendio al restauro di un obbligati a fare i conti con un futuro importante dipinto, lui è un imprenditore. incerto, dettato dal precariato, da contratti Alice, la figlia, sta lasciando la lussuosa a termine, da gavette infinite. I giovani, abitazione di famiglia per andare a vivere non hanno avuto il privilegio di conoscere con il suo fidanzato, poco stimato dai una realtà lavorativa stabile e pertanto genitori. Quando Michele confessa a Elsa hanno sviluppato un’eccellente capacità di aver perso da tempo il lavoro la loro di adattamento. Sopportano, tenaci vita cambia. Lei si adatta velocemente e combattivi, l’idea che la tranquillità 54

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

economica non arriverà mai. Sono flessibili, magari insicuri, ma raramente depressi. È una condizione generazionale. Soldini sceglie Alice, interpretata da una convincente Alba Rohrwacher, per mostrarci quella precarietà incerta ma combattiva. Coloro che, invece, si sono immessi nel mondo del lavoro in una situazione economica florida e stabile e, quasi improvvisamente, si trovano a fare i conti con gli uffici di collocamento, con i call center, con una casa da vendere per pagare i debiti, non trovano la motivazione per combattere. E la quotidianità assume toni tragici. Le soluzioni da trovare ai problemi più banali (fare a meno di una domestica, rinunciare a vacanze in luoghi esotici, evitare lussuose cene al ristorante) sembrano impossibili. Oltre all’improvvisa instabilità economica, l’angoscia che vive un neodisoccupato borghese di mezza età è quella della vergogna nei confronti di parenti e amici e soprattutto nei confronti di sé stesso. Il tempo, che era sempre stato scandito da una fitta agenda lavorativa, ora sembra eterno e ogni gesto diventa inutile. “La mattinata è andata, adesso il problema è riempire il pomeriggio” dice Michele, il protagonista del film, che ha il corpo e il volto di Antonio Albanese, noto al pubblico per il suo talento comico (anche se non è la sua prima volta in un ruolo drammatico). Soldini compie una scelta di cast ardita ma adeguata: il corpo comico calato nei panni di un personaggio tragico crea un senso di disagio e inadeguatezza nello spettatore. Michele, che del tempo non sa più cosa farsene, vaga da una parte all’altra di una città avvolta nel grigiore dell’inverno,

catturata nei suoi momenti meno felici: le strade deserte del centro e i negozi chiusi la sera, il traffico, le barche ormeggiate nel porto in attesa della bella stagione. Il regista, dopo il colorato Agata e la tempesta e il realismo magico di Pane e tulipani, si cimenta nuovamente con il dramma dopo Brucio nel vento e L’aria serena dell’Ovest, e sceglie la strada del realismo, quello che fa del pedinamento del personaggio l’elemento stilistico (e narrativo) principale. Ci mostra gli effetti devastanti della crisi all’interno di una coppia attraverso i dettagli, gli sguardi, i gesti. Sceglie il piano sequenza quando racconta gli episodi emotivamente più duri, usa la macchina a mano che trema e si muove senza fluidità con l’intento di raccontare l’insicurezza, l’ansia per il presente e per il futuro che vivono i due protagonisti. È proprio nel pedinamento dei personaggi e nel ruolo della città di Genova, che più di altre in Italia si è inginocchiata alla crisi che risiede la forza di un film delicato, evanescente a tratti, ma capace di restituirci uno spaccato lucido di questi anni di grande fragilità.

CAPITOLO B

SARA MARTIN

55


<- AGATA E LA TEMPESTA Regia: Silvio Soldini p. 52

Premio all’opera d’autore B

-> COSA VOGLIO DI PIÙ Regia: Silvio Soldini p. 56

Giorni e nuvole Regia: Silvio Soldini Soggetto: Doriana Leondeff, Francesco Piccolo, Silvio Soldini Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli, Silvio Soldini Fotografia: Ramiro Civita Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Patrizia Mazzon, Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Lumière & Co., Amka Films, RSI–Radiotelevisione svizzera Distribuzione: Warner Bros. Picture Origine: Italia 2007 Durata: 116’

Interpreti: Margherita Buy (Elsa), Antonio Albanese (Michele), Giuseppe Battiston (Vito), Alba Rohrwacher (Alice), Carla Signoris (Nadia), Fabio Troiano (Riki), Paolo Sassanelli (Salviati), Antonio Carlo Francini (Luciano), Teco Celio (Ragionier Terzetti), Arnaldo Ninchi Premi: David di Donatello (2008): (Padre di Michele) Miglior Attrice (Margherita Buy), Miglior Attrice non Protagonista (Alba Rohrwacher)

trovando una serie di lavori part–time, lui non riesce a reinventarsi e crolla in uno stato di apatia e depressione che mettono a dura prova il rapporto con la moglie e la figlia. Genova, primi anni del 2000. La crisi in Italia dilaga, le fabbriche chiudono, i concorsi pubblici diventano Giorni e nuvole, 2007 un lontano ricordo, i profitti di grandi e Michele ed Elsa sono una coppia piccole aziende subiscono una battuta felice e agiata: lei lavora per passione d’arresto drammatica. I giovani sono e senza stipendio al restauro di un obbligati a fare i conti con un futuro importante dipinto, lui è un imprenditore. incerto, dettato dal precariato, da contratti Alice, la figlia, sta lasciando la lussuosa a termine, da gavette infinite. I giovani, abitazione di famiglia per andare a vivere non hanno avuto il privilegio di conoscere con il suo fidanzato, poco stimato dai una realtà lavorativa stabile e pertanto genitori. Quando Michele confessa a Elsa hanno sviluppato un’eccellente capacità di aver perso da tempo il lavoro la loro di adattamento. Sopportano, tenaci vita cambia. Lei si adatta velocemente e combattivi, l’idea che la tranquillità 54

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

economica non arriverà mai. Sono flessibili, magari insicuri, ma raramente depressi. È una condizione generazionale. Soldini sceglie Alice, interpretata da una convincente Alba Rohrwacher, per mostrarci quella precarietà incerta ma combattiva. Coloro che, invece, si sono immessi nel mondo del lavoro in una situazione economica florida e stabile e, quasi improvvisamente, si trovano a fare i conti con gli uffici di collocamento, con i call center, con una casa da vendere per pagare i debiti, non trovano la motivazione per combattere. E la quotidianità assume toni tragici. Le soluzioni da trovare ai problemi più banali (fare a meno di una domestica, rinunciare a vacanze in luoghi esotici, evitare lussuose cene al ristorante) sembrano impossibili. Oltre all’improvvisa instabilità economica, l’angoscia che vive un neodisoccupato borghese di mezza età è quella della vergogna nei confronti di parenti e amici e soprattutto nei confronti di sé stesso. Il tempo, che era sempre stato scandito da una fitta agenda lavorativa, ora sembra eterno e ogni gesto diventa inutile. “La mattinata è andata, adesso il problema è riempire il pomeriggio” dice Michele, il protagonista del film, che ha il corpo e il volto di Antonio Albanese, noto al pubblico per il suo talento comico (anche se non è la sua prima volta in un ruolo drammatico). Soldini compie una scelta di cast ardita ma adeguata: il corpo comico calato nei panni di un personaggio tragico crea un senso di disagio e inadeguatezza nello spettatore. Michele, che del tempo non sa più cosa farsene, vaga da una parte all’altra di una città avvolta nel grigiore dell’inverno,

catturata nei suoi momenti meno felici: le strade deserte del centro e i negozi chiusi la sera, il traffico, le barche ormeggiate nel porto in attesa della bella stagione. Il regista, dopo il colorato Agata e la tempesta e il realismo magico di Pane e tulipani, si cimenta nuovamente con il dramma dopo Brucio nel vento e L’aria serena dell’Ovest, e sceglie la strada del realismo, quello che fa del pedinamento del personaggio l’elemento stilistico (e narrativo) principale. Ci mostra gli effetti devastanti della crisi all’interno di una coppia attraverso i dettagli, gli sguardi, i gesti. Sceglie il piano sequenza quando racconta gli episodi emotivamente più duri, usa la macchina a mano che trema e si muove senza fluidità con l’intento di raccontare l’insicurezza, l’ansia per il presente e per il futuro che vivono i due protagonisti. È proprio nel pedinamento dei personaggi e nel ruolo della città di Genova, che più di altre in Italia si è inginocchiata alla crisi che risiede la forza di un film delicato, evanescente a tratti, ma capace di restituirci uno spaccato lucido di questi anni di grande fragilità.

CAPITOLO B

SARA MARTIN

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<- GIORNI E NUVOLE Regia: Silvio Soldini p. 54

Premio all’opera d’autore B

->

IL COMANDANTE E LA CICOGNA Regia: Silvio Soldini p. 58

Cosa voglio di più Regia: Silvio Soldini Soggetto: Doriana Leondeff, Silvio Soldini Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Angelo Carbone, Silvio Soldini Fotografia: Ramiro Civita Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Lumière & Co., Vega Film, RSI–Radiotelevisione svizzera Distribuzione: Warner Bros. Pictures Origine: Italia, Svizzera 2010 Durata: 126’ Premi: Festival du Film de Cabourg (2010): Grand Prix; Ciak d’Oro (2010): Miglior Attrice Protagonista (Alba Rohrwacher); Globo d’Oro (2010): Miglior Film

Interpreti: Alba Rohrwacher (Anna), Pierfrancesco Favino (Domenico), Giuseppe Battiston (Alessio), Teresa Saponangelo (Miriam), Monica Nappo (Chicca), Tatiana Lepore (Bianca), Sergio Solli (suocero di Domenico), Gisella Burinato (zia Ines), Gigio Alberti (Dott. Morini), Fabio Troiano (Bruno)

a emergere e Anna vorrebbe di più dalla loro relazione, cosa che Domenico, pur amandola, non può darle. In Giorni e nuvole (2007), Silvio Soldini aveva fotografato la difficile situazione sociale dell’Italia in crisi economica attraverso il prisma di una coppia, gettando uno sguardo “dal Cosa voglio di più, 2010 dentro” in una quotidianità ad alto tasso Tra l’impiego da ragioniera, la di realismo. Cosa voglio di più continua famiglia, gli amici e il compagno Alessio su questa linea tracciando il ritratto di col quale ha deciso di avere un figlio, una coppia di amanti e del loro doloroso la vita di Anna scorre senza scosse, percorso affettivo all’interno di un finché non incrocia per caso Domenico, contesto socio–culturale precisamente sposato e con due bambini. Tra di loro delineato e dall’influenza decisiva sulle scatta subito la passione, che presto si loro sorti. tramuta in profondo innamoramento. Il tema della passione improvvisa Accampando scuse e bugie, si vedono in capace di travolgere i protagonisti con un motel a ore. La verità comincia però pesanti conseguenza è infatti trattato 56

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

senza eludere, ma anzi rilevando tutti i fattori ambientali che appaiono, fin dal principio, insormontabili ostacoli: condizionamenti familiari, obblighi lavorativi, affetti preesistenti, vissuti personali, difficoltà economiche. Con i dovuti distinguo, ricorda gli amanti divisi – per ragioni diverse – di Ken Loach in Un bacio appassionato (2004). Nota predominante tanto della narrazione quanto della personalità di Anna è il sentimento acuto della mancanza nelle sue molteplici forme, dichiarato dallo stesso regista. Ad Anna e Domenico, infatti, mancano il tempo e i luoghi per incontrarsi, le possibilità materiali e il coraggio di stravolgere la propria esistenza in nome di un amore inaspettato, ma manca ugualmente la forza di chiudere in via definitiva la relazione clandestina, e fin dall’inizio appaiono entrambi segnati da un’assenza interiore che avvertono pur senza esserne pienamente coscienti. La parabola della protagonista si sviluppa dunque nella progressiva presa di coscienza di tale mancanza, colmabile solo attraverso una riscoperta di sé, una riconquista della propria volontà che muove dalla riappropriazione del corpo: la nuova consapevolezza di Anna passerà attraverso l’esperienza della sessualità, della fisicità dell’amore con Domenico. Questa trasformazione comporta, com’è ovvio, anche un profondo smarrimento e una dolorosa rimessa in questione della propria identità. Perdendosi e soffrendo in una situazione imprevista, Anna scoprirà qualcosa di nuovo in sé, in un percorso comune ad altre figure femminili della filmografia dell’autore. All’interno di essa, Cosa voglio

di più si riallaccia in particolare ai film dei primi anni Novanta: L’aria serena dell’Ovest (1990) e, soprattutto, Un’anima divisa in due (1993), dove Pietro e Pabe fuggono, come Anna e Domenico, verso un Sud, sia esso Ancona o Tunisi, in cui l’amore sembra temporaneamente potersi realizzare. Con queste due opere Cosa voglio di più condivide inoltre l’ambientazione in una Milano postindustriale, metropoli estesa a macchia d’olio e ridotta all’anonimia della periferia, tra quartieri residenziali, parcheggi, treni pendolari, motel e tangenziali notturne, un paesaggio a elementi ripetuti e ripetitivi che soffoca ogni possibilità di evasione in un quadro solo superficialmente variabile, in verità intimamente immutabile. Con una macchina da presa sempre vicina ai personaggi e uno sguardo mai giudicante ma comprensivo verso Domenico e Anna e i loro partner Alessio e Miriam, il film ruota attorno al suo titolo: “cosa voglio di più” è la domanda che i protagonisti saranno inevitabilmente portati a porsi, salvo rendersi conto di doverla riformulare in un più concreto “cosa posso volere di più”, consapevoli che i desideri sono destinati a scontrarsi con le ineludibili condizioni poste dalla realtà.

CAPITOLO B

PAOLO VILLA

57


<- GIORNI E NUVOLE Regia: Silvio Soldini p. 54

Premio all’opera d’autore B

->

IL COMANDANTE E LA CICOGNA Regia: Silvio Soldini p. 58

Cosa voglio di più Regia: Silvio Soldini Soggetto: Doriana Leondeff, Silvio Soldini Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Angelo Carbone, Silvio Soldini Fotografia: Ramiro Civita Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Giovanni Venosta

Produzione: Lumière & Co., Vega Film, RSI–Radiotelevisione svizzera Distribuzione: Warner Bros. Pictures Origine: Italia, Svizzera 2010 Durata: 126’ Premi: Festival du Film de Cabourg (2010): Grand Prix; Ciak d’Oro (2010): Miglior Attrice Protagonista (Alba Rohrwacher); Globo d’Oro (2010): Miglior Film

Interpreti: Alba Rohrwacher (Anna), Pierfrancesco Favino (Domenico), Giuseppe Battiston (Alessio), Teresa Saponangelo (Miriam), Monica Nappo (Chicca), Tatiana Lepore (Bianca), Sergio Solli (suocero di Domenico), Gisella Burinato (zia Ines), Gigio Alberti (Dott. Morini), Fabio Troiano (Bruno)

a emergere e Anna vorrebbe di più dalla loro relazione, cosa che Domenico, pur amandola, non può darle. In Giorni e nuvole (2007), Silvio Soldini aveva fotografato la difficile situazione sociale dell’Italia in crisi economica attraverso il prisma di una coppia, gettando uno sguardo “dal Cosa voglio di più, 2010 dentro” in una quotidianità ad alto tasso Tra l’impiego da ragioniera, la di realismo. Cosa voglio di più continua famiglia, gli amici e il compagno Alessio su questa linea tracciando il ritratto di col quale ha deciso di avere un figlio, una coppia di amanti e del loro doloroso la vita di Anna scorre senza scosse, percorso affettivo all’interno di un finché non incrocia per caso Domenico, contesto socio–culturale precisamente sposato e con due bambini. Tra di loro delineato e dall’influenza decisiva sulle scatta subito la passione, che presto si loro sorti. tramuta in profondo innamoramento. Il tema della passione improvvisa Accampando scuse e bugie, si vedono in capace di travolgere i protagonisti con un motel a ore. La verità comincia però pesanti conseguenza è infatti trattato 56

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

senza eludere, ma anzi rilevando tutti i fattori ambientali che appaiono, fin dal principio, insormontabili ostacoli: condizionamenti familiari, obblighi lavorativi, affetti preesistenti, vissuti personali, difficoltà economiche. Con i dovuti distinguo, ricorda gli amanti divisi – per ragioni diverse – di Ken Loach in Un bacio appassionato (2004). Nota predominante tanto della narrazione quanto della personalità di Anna è il sentimento acuto della mancanza nelle sue molteplici forme, dichiarato dallo stesso regista. Ad Anna e Domenico, infatti, mancano il tempo e i luoghi per incontrarsi, le possibilità materiali e il coraggio di stravolgere la propria esistenza in nome di un amore inaspettato, ma manca ugualmente la forza di chiudere in via definitiva la relazione clandestina, e fin dall’inizio appaiono entrambi segnati da un’assenza interiore che avvertono pur senza esserne pienamente coscienti. La parabola della protagonista si sviluppa dunque nella progressiva presa di coscienza di tale mancanza, colmabile solo attraverso una riscoperta di sé, una riconquista della propria volontà che muove dalla riappropriazione del corpo: la nuova consapevolezza di Anna passerà attraverso l’esperienza della sessualità, della fisicità dell’amore con Domenico. Questa trasformazione comporta, com’è ovvio, anche un profondo smarrimento e una dolorosa rimessa in questione della propria identità. Perdendosi e soffrendo in una situazione imprevista, Anna scoprirà qualcosa di nuovo in sé, in un percorso comune ad altre figure femminili della filmografia dell’autore. All’interno di essa, Cosa voglio

di più si riallaccia in particolare ai film dei primi anni Novanta: L’aria serena dell’Ovest (1990) e, soprattutto, Un’anima divisa in due (1993), dove Pietro e Pabe fuggono, come Anna e Domenico, verso un Sud, sia esso Ancona o Tunisi, in cui l’amore sembra temporaneamente potersi realizzare. Con queste due opere Cosa voglio di più condivide inoltre l’ambientazione in una Milano postindustriale, metropoli estesa a macchia d’olio e ridotta all’anonimia della periferia, tra quartieri residenziali, parcheggi, treni pendolari, motel e tangenziali notturne, un paesaggio a elementi ripetuti e ripetitivi che soffoca ogni possibilità di evasione in un quadro solo superficialmente variabile, in verità intimamente immutabile. Con una macchina da presa sempre vicina ai personaggi e uno sguardo mai giudicante ma comprensivo verso Domenico e Anna e i loro partner Alessio e Miriam, il film ruota attorno al suo titolo: “cosa voglio di più” è la domanda che i protagonisti saranno inevitabilmente portati a porsi, salvo rendersi conto di doverla riformulare in un più concreto “cosa posso volere di più”, consapevoli che i desideri sono destinati a scontrarsi con le ineludibili condizioni poste dalla realtà.

CAPITOLO B

PAOLO VILLA

57


<- COSA VOGLIO DI PIÙ Regia: Silvio Soldini p. 56

Premio all’opera d’autore B

-> IL FIUME HA SEMPRE RAGIONE Regia: Silvio Soldini p. 60

Il comandante e la cicogna Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Silvio Soldini Fotografia: Ramiro Civita Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Banda Osiris

Produzione: Lumière & Co., Ventura Film, RSI–Radiotelevisione Svizzera Distribuzione: Warner Bros. Pictures Origine: Italia, Svizzera, Francia 2012 Durata: 108’

Interpreti: Valerio Mastandrea (Leo Buonvento), Alba Rohrwacher (Diana), Giuseppe Battiston (Amanzio), Claudia Gerini (Teresa), Luca Zingaretti (Avv. Malaffano), Maria Paiato (Cinzia), Michele Maganza (Emiliano), Yang Shi (Fiorenzo), Luca Dirodi (Elia), Serena Pinto (Maddalena)

particolare della vita moralizzando il prossimo. Il tutto si svolge sotto l’occhio attento della statua di Garibaldi, che osserva e critica ciò che gli sta attorno. I protagonisti di Il comandante e la cicogna non si conoscono, vivono le loro vite fatte di problemi quotidiani che corrono su binari paralleli, fino a che il Il comandante e la cicogna, 2012 caso – o meglio il bisogno di un avvocato Un padre di famiglia, Leo – le incastra, piano piano, una alla volta, Buonvento, che parla tutte le notti alle trasformando poi la casualità quattro con la moglie defunta della in un’occasione di cambiamento gestione di due figli adolescenti e delle e miglioramento. Leo Buonvento fa ovvie difficoltà. Una giovane artista con l’idraulico, lavora molto e deve gestire poca fiducia in sé stessa e sempre in due figli adolescenti senza una mamma, lotta per riuscire a sopravvivere nella morta in una giornata al mare, che la grande città. Un padrone di casa che ha notte si presenta in bikini cercando di deciso di smettere con il lavoro da nove dare conforto e sostegno a un uomo anni e che cerca di attuare la sua visione in difficoltà, aiutandolo a rimettere nella 58

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

giusta prospettiva certi avvenimenti. Leo si dimostra un padre attento, capace di diventare un prestanome pur di avere l’aiuto di un avvocato per la figlia adolescente. Dallo stesso avvocato si trova Diana, una giovane artista che dipinge e crea sculture, poco capace di farsi valere, sopraffatta anche fisicamente da una società sempre di fretta, aggressiva e arrabbiata, dedita ai sotterfugi e alle scorciatoie. Gli altri due protagonisti sono il secondogenito Elia e il padrone di casa di Diana, Amanzio, che si incontrano casualmente nell’ufficio di un direttore di supermercato dopo un furto. Così le storie si incrociano, intrecciandosi ed evolvendo in amicizie e amori inaspettati. In contrasto ai personaggi positivi, che si fidano e affidano – venendo puntualmente delusi e traditi – ci sono un avvocato e un giovane investigatore, che per il Dio Denaro sono disposti a fare qualsiasi cosa e ad utilizzare ogni mezzo per i propri scopi. Dall’alto c’è chi osserva e si indigna, la statua di Garibaldi che è costretta a dividere lo spazio con il cavalier Cazzaniga, creando una diatriba che rappresenta perfettamente le due fazioni rappresentate dai personaggi ancora in vita. Tutto il racconto si svolge in bilico su una sottile linea tra realtà e surrealismo, tra caratterizzazioni al limite della veridicità dei personaggi, fantasmi in costume che raccontano dell’aldilà mentre annusano il barattolo del caffè, statue parlanti e un ragazzino che fa amicizia con la cicogna Agostina. Eppure la parte più fantasiosa del racconto – e perché no anche della vita – si amalgama perfettamente con i problemi del quotidiano; i tubi rotti da sistemare,

l’assistente perseguitato dalla fidanzata gelosa e i primi amori adolescenziali che si trasformano in piccoli drammi, soprattutto per i genitori che oltre a dovervi porre rimedio devono accettare l’idea che i loro ormai ex bambini si stanno affacciando alla vita e stanno iniziando a scoprire e sperimentare, a viaggiare da soli. Un viaggio di formazione non solo per i ragazzi che crescono ma anche per i genitori, che si devono trasformare anch’essi durante tutte le fasi della vita dei loro figli. Il regista Silvio Soldini persegue il suo ideale di racconto d’amore; incontri casuali di persone apparentemente diverse e divise dalla quotidianità che si riscoprono più simili di quello che sembra. Il destino o il caso li fa incontrare, sta poi ai personaggi riuscire a far evolvere in qualcosa di positivo e determinante quello che il fato ha servito loro su un piatto d’argento.

CAPITOLO B

VALENTINA CAUTERUCCIO

59


<- COSA VOGLIO DI PIÙ Regia: Silvio Soldini p. 56

Premio all’opera d’autore B

-> IL FIUME HA SEMPRE RAGIONE Regia: Silvio Soldini p. 60

Il comandante e la cicogna Regia: Silvio Soldini Soggetto e sceneggiatura: Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Silvio Soldini Fotografia: Ramiro Civita Montaggio: Carlotta Cristiani Scenografia: Paola Bizzarri Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Banda Osiris

Produzione: Lumière & Co., Ventura Film, RSI–Radiotelevisione Svizzera Distribuzione: Warner Bros. Pictures Origine: Italia, Svizzera, Francia 2012 Durata: 108’

Interpreti: Valerio Mastandrea (Leo Buonvento), Alba Rohrwacher (Diana), Giuseppe Battiston (Amanzio), Claudia Gerini (Teresa), Luca Zingaretti (Avv. Malaffano), Maria Paiato (Cinzia), Michele Maganza (Emiliano), Yang Shi (Fiorenzo), Luca Dirodi (Elia), Serena Pinto (Maddalena)

particolare della vita moralizzando il prossimo. Il tutto si svolge sotto l’occhio attento della statua di Garibaldi, che osserva e critica ciò che gli sta attorno. I protagonisti di Il comandante e la cicogna non si conoscono, vivono le loro vite fatte di problemi quotidiani che corrono su binari paralleli, fino a che il Il comandante e la cicogna, 2012 caso – o meglio il bisogno di un avvocato Un padre di famiglia, Leo – le incastra, piano piano, una alla volta, Buonvento, che parla tutte le notti alle trasformando poi la casualità quattro con la moglie defunta della in un’occasione di cambiamento gestione di due figli adolescenti e delle e miglioramento. Leo Buonvento fa ovvie difficoltà. Una giovane artista con l’idraulico, lavora molto e deve gestire poca fiducia in sé stessa e sempre in due figli adolescenti senza una mamma, lotta per riuscire a sopravvivere nella morta in una giornata al mare, che la grande città. Un padrone di casa che ha notte si presenta in bikini cercando di deciso di smettere con il lavoro da nove dare conforto e sostegno a un uomo anni e che cerca di attuare la sua visione in difficoltà, aiutandolo a rimettere nella 58

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

giusta prospettiva certi avvenimenti. Leo si dimostra un padre attento, capace di diventare un prestanome pur di avere l’aiuto di un avvocato per la figlia adolescente. Dallo stesso avvocato si trova Diana, una giovane artista che dipinge e crea sculture, poco capace di farsi valere, sopraffatta anche fisicamente da una società sempre di fretta, aggressiva e arrabbiata, dedita ai sotterfugi e alle scorciatoie. Gli altri due protagonisti sono il secondogenito Elia e il padrone di casa di Diana, Amanzio, che si incontrano casualmente nell’ufficio di un direttore di supermercato dopo un furto. Così le storie si incrociano, intrecciandosi ed evolvendo in amicizie e amori inaspettati. In contrasto ai personaggi positivi, che si fidano e affidano – venendo puntualmente delusi e traditi – ci sono un avvocato e un giovane investigatore, che per il Dio Denaro sono disposti a fare qualsiasi cosa e ad utilizzare ogni mezzo per i propri scopi. Dall’alto c’è chi osserva e si indigna, la statua di Garibaldi che è costretta a dividere lo spazio con il cavalier Cazzaniga, creando una diatriba che rappresenta perfettamente le due fazioni rappresentate dai personaggi ancora in vita. Tutto il racconto si svolge in bilico su una sottile linea tra realtà e surrealismo, tra caratterizzazioni al limite della veridicità dei personaggi, fantasmi in costume che raccontano dell’aldilà mentre annusano il barattolo del caffè, statue parlanti e un ragazzino che fa amicizia con la cicogna Agostina. Eppure la parte più fantasiosa del racconto – e perché no anche della vita – si amalgama perfettamente con i problemi del quotidiano; i tubi rotti da sistemare,

l’assistente perseguitato dalla fidanzata gelosa e i primi amori adolescenziali che si trasformano in piccoli drammi, soprattutto per i genitori che oltre a dovervi porre rimedio devono accettare l’idea che i loro ormai ex bambini si stanno affacciando alla vita e stanno iniziando a scoprire e sperimentare, a viaggiare da soli. Un viaggio di formazione non solo per i ragazzi che crescono ma anche per i genitori, che si devono trasformare anch’essi durante tutte le fasi della vita dei loro figli. Il regista Silvio Soldini persegue il suo ideale di racconto d’amore; incontri casuali di persone apparentemente diverse e divise dalla quotidianità che si riscoprono più simili di quello che sembra. Il destino o il caso li fa incontrare, sta poi ai personaggi riuscire a far evolvere in qualcosa di positivo e determinante quello che il fato ha servito loro su un piatto d’argento.

CAPITOLO B

VALENTINA CAUTERUCCIO

59


<-

Premio all’opera d’autore B

IL COMANDANTE E LA CICOGNA Regia: Silvio Soldini p. 58

-> CAPITOLO C Arcipelago p. 63

Il fiume ha sempre ragione Regia: Silvio Soldini Soggetto: Giovanni Bonoldi Sceneggiatura: Silvio Soldini Fotografia: Sabina Bologna Montaggio: Carlotta Cristiani Musiche: Giovanni Isgrò, Massimo Mariani

Produzione: Ventura Film Distribuzione: I Wonder Pictures Origine: Italia, Svizzera 2016 Durata: 72’

Interpreti: Alberto Casiraghy (sé stesso), Josef Weiss (sé stesso)

Premi: Biografilm Festival (2016): Premio del pubblico

le loro vite e i loro lavori lenti e antichi e quando si incontrano, come dei vecchi amici, condividono pensieri, sorrisi e ricordi.

Il fiume ha sempre ragione, 2016

Alberto Casiraghy e Josef Weiss sono due artigiani dei libri. Alberto vive in una casa debordante di oggetti che è anche una bottega dell’editoria. Stampa libri di poesie e aforismi con un’antica macchina a caratteri mobili. Josef vive non molto lontano, ma oltre il confine svizzero. Anche lui realizza libri e li restaura, salvandoli dall’erosione del tempo. I due personaggi ci mostrano 60

L’ultimo documentario di Silvio Soldini racconta “i giorni e le cose di Alberto e Josef”, come indica il sottotitolo. Il regista si mette al fianco dei due artigiani dei libri: Alberto Casiraghy, l’editore della Pulcinoelefante che ha 9400 libri al suo attivo, piccoli prodotti curati nei minimi dettagli, raccolte di poesie, di aforismi, con nomi come quello della poetessa Alda Merini; e Josef Weiss, stampatore e restauratore di libri d’arte. La macchina da presa svela con discrezione le loro abitudini, i loro gesti. Procede cauta, lenta. Lo spettatore trova il tempo di immergersi in un mondo pacifico

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

e rarefatto dove la bottega dell’artigiano è protagonista, dove ogni gesto, ogni suono e ogni oggetto assume un significato importante. “Sono entrato in punta di piedi e mi sono messo in un angolo a osservarli, a cercare di capire, per arrivare a cogliere la poesia dei loro gesti”, spiega Soldini. “Il fascino per il loro lavoro e per il modo in cui lo affrontano è stata la molla iniziale, ma solo adeguandomi al loro ritmo ho capito la forza del loro rapporto con la vita, che li fa essere personaggi straordinari, nella loro apparentemente umile e profonda umanità”. (Vittorio Scarpa, Il fiume ha sempre ragione: Silvio Soldini tra gli artigiani delle parole, http://cineuropa.org/ nw.aspx?t=newsdetail&l=it&did=311963, ultimo accesso 22 giugno 2016). Il regista conosce Alberto Casiraghy quando gira Made in Lombardia. Viaggio tra i luoghi e la gente (1996). All’epoca ne aveva tracciato un ritratto breve, di una decina di minuti, mettendo in dialogo la sua arte antica con la ricchezza dei poli industriali che abitano le terre lombarde al confine con la Svizzera, nelle province di Como e di Varese. Un decennio dopo decide di ritornare nella sua bottega e sceglie di far incontrare due uomini tanto simili nel loro approccio alle cose e alla vita e tanto diversi nel carattere e nel modo di porsi: Alberto è vivace, affabulatore, un animale da palcoscenico, Josef è un uomo riservato e timido, poco incline a svelarsi. L’idea dell’accostamento di questi due personaggi è di Giovanni Bonoldi, con cui Soldini aveva realizzato tra il 2007 e il 2008 il “film–passeggiata” sulla poetessa Vivian Lamarque Quattro giorni con Vivian. E il motore del racconto nasce

da una curiosità semplice: perché questi uomini continuano a lavorare con delle tecniche così lente e arcaiche in un’epoca dove tutto sembra andare nella direzione inversa, quella della digitalizzazione, della velocità, del massimo profitto con la minima spesa? Perché nella nostra epoca il concetto di bellezza (di una cosa, di un oggetto) è tenuto così poco in considerazione? Alberto e Josef credono nel valore della lentezza, della cura per le cose. Credono in un rapporto mite, empatico, gentile con il mondo. Non si curano del profitto, infatti non ottengono un vero e proprio reddito dal loro lavoro. E tuttavia stupiscono lo spettatore quando dimostrano di usare con agio e disinvoltura anche strumenti tecnologici all’avanguardia, come l’iPad per esempio. Non c’è, da parte dei due, il desiderio di vivere una vita fuori dal tempo, anzi. Alberto e Josef non sono in lotta con i tempi, ma il loro modo di lavorare, la loro attenzione alla bellezza è di un altro tempo.

CAPITOLO B

SARA MARTIN

61


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Premio all’opera d’autore B

IL COMANDANTE E LA CICOGNA Regia: Silvio Soldini p. 58

-> CAPITOLO C Arcipelago p. 63

Il fiume ha sempre ragione Regia: Silvio Soldini Soggetto: Giovanni Bonoldi Sceneggiatura: Silvio Soldini Fotografia: Sabina Bologna Montaggio: Carlotta Cristiani Musiche: Giovanni Isgrò, Massimo Mariani

Produzione: Ventura Film Distribuzione: I Wonder Pictures Origine: Italia, Svizzera 2016 Durata: 72’

Interpreti: Alberto Casiraghy (sé stesso), Josef Weiss (sé stesso)

Premi: Biografilm Festival (2016): Premio del pubblico

le loro vite e i loro lavori lenti e antichi e quando si incontrano, come dei vecchi amici, condividono pensieri, sorrisi e ricordi.

Il fiume ha sempre ragione, 2016

Alberto Casiraghy e Josef Weiss sono due artigiani dei libri. Alberto vive in una casa debordante di oggetti che è anche una bottega dell’editoria. Stampa libri di poesie e aforismi con un’antica macchina a caratteri mobili. Josef vive non molto lontano, ma oltre il confine svizzero. Anche lui realizza libri e li restaura, salvandoli dall’erosione del tempo. I due personaggi ci mostrano 60

L’ultimo documentario di Silvio Soldini racconta “i giorni e le cose di Alberto e Josef”, come indica il sottotitolo. Il regista si mette al fianco dei due artigiani dei libri: Alberto Casiraghy, l’editore della Pulcinoelefante che ha 9400 libri al suo attivo, piccoli prodotti curati nei minimi dettagli, raccolte di poesie, di aforismi, con nomi come quello della poetessa Alda Merini; e Josef Weiss, stampatore e restauratore di libri d’arte. La macchina da presa svela con discrezione le loro abitudini, i loro gesti. Procede cauta, lenta. Lo spettatore trova il tempo di immergersi in un mondo pacifico

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

e rarefatto dove la bottega dell’artigiano è protagonista, dove ogni gesto, ogni suono e ogni oggetto assume un significato importante. “Sono entrato in punta di piedi e mi sono messo in un angolo a osservarli, a cercare di capire, per arrivare a cogliere la poesia dei loro gesti”, spiega Soldini. “Il fascino per il loro lavoro e per il modo in cui lo affrontano è stata la molla iniziale, ma solo adeguandomi al loro ritmo ho capito la forza del loro rapporto con la vita, che li fa essere personaggi straordinari, nella loro apparentemente umile e profonda umanità”. (Vittorio Scarpa, Il fiume ha sempre ragione: Silvio Soldini tra gli artigiani delle parole, http://cineuropa.org/ nw.aspx?t=newsdetail&l=it&did=311963, ultimo accesso 22 giugno 2016). Il regista conosce Alberto Casiraghy quando gira Made in Lombardia. Viaggio tra i luoghi e la gente (1996). All’epoca ne aveva tracciato un ritratto breve, di una decina di minuti, mettendo in dialogo la sua arte antica con la ricchezza dei poli industriali che abitano le terre lombarde al confine con la Svizzera, nelle province di Como e di Varese. Un decennio dopo decide di ritornare nella sua bottega e sceglie di far incontrare due uomini tanto simili nel loro approccio alle cose e alla vita e tanto diversi nel carattere e nel modo di porsi: Alberto è vivace, affabulatore, un animale da palcoscenico, Josef è un uomo riservato e timido, poco incline a svelarsi. L’idea dell’accostamento di questi due personaggi è di Giovanni Bonoldi, con cui Soldini aveva realizzato tra il 2007 e il 2008 il “film–passeggiata” sulla poetessa Vivian Lamarque Quattro giorni con Vivian. E il motore del racconto nasce

da una curiosità semplice: perché questi uomini continuano a lavorare con delle tecniche così lente e arcaiche in un’epoca dove tutto sembra andare nella direzione inversa, quella della digitalizzazione, della velocità, del massimo profitto con la minima spesa? Perché nella nostra epoca il concetto di bellezza (di una cosa, di un oggetto) è tenuto così poco in considerazione? Alberto e Josef credono nel valore della lentezza, della cura per le cose. Credono in un rapporto mite, empatico, gentile con il mondo. Non si curano del profitto, infatti non ottengono un vero e proprio reddito dal loro lavoro. E tuttavia stupiscono lo spettatore quando dimostrano di usare con agio e disinvoltura anche strumenti tecnologici all’avanguardia, come l’iPad per esempio. Non c’è, da parte dei due, il desiderio di vivere una vita fuori dal tempo, anzi. Alberto e Josef non sono in lotta con i tempi, ma il loro modo di lavorare, la loro attenzione alla bellezza è di un altro tempo.

CAPITOLO B

SARA MARTIN

61


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 63–83 Arcipelago. Geografie e viaggi tra il cinema e le arti

Capitolo C 63


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 63–83 Arcipelago. Geografie e viaggi tra il cinema e le arti

Capitolo C 63


-> TERRA DI NESSUNO Regia: Mario Baffico p. 66

Arcipelago C

Arcipelago. Geografie e viaggi tra il cinema e le arti Quali e quante anime ha il cinema italiano? Dove ha abitato e da quali terre ha preso vita e forma? Dove ha viaggiato il nostro cinema? Vogliamo immaginare una fotografia dall’alto, sorvolando la storia del cinema italiano, sulle acque del Mediterraneo. Da qui il tentativo di restituire la ricchezza di voci, spazi, territori di un cinema che ha raccontato dialoghi, connessioni, legami tra persone, spazi, mondi, realtà. “Arcipelago” traccia i nodi e le relazioni tra le terre e gli uomini del nostro cinema e le arti di cui si è nutrito e che ha “visitato”: la letteratura, la poesia, le arti popolari, ma anche i mezzi della modernità. Si tratta di connessioni tra “geografie” italiane, ma anche tra i media e le arti: i tanti modi di “mettersi in viaggio” e unire ciò che appare separato. I criteri di composizione di questa geografia immaginaria riguardano tanto la collocazione geografica dei film proposti – che diviene testimonianza di una negoziazione complessa tra realtà (produttiva e culturale) locale ⁄ regionale e cinema nazionale – quanto la loro capacità di articolare connessioni tra arti diverse in costante tensione e dialogo reciproco nel nostro cinema. Terra di nessuno (1939) apre la rassegna “nel tempo di guerra”, 64

raccontando di appropriazione della terra, di fondazione di realtà sociali e urbane e nello stesso tempo di nomadismo, ma è soprattutto un superbo esercizio di dialogo e adattamento tra cinema e letteratura. Il grido della terra (1948) è il viaggio di ritorno verso “casa” di un gruppo di ebrei liberati dai campi di concentramento tedeschi verso la Palestina: è una testimonianza straordinaria, tutta “pugliese” (la Palestina è ricostruita lì: allora terra accogliente per migliaia di ebrei in attesa di tornare a casa) sul tema della terra promessa e sulla spinosa questione palestinese (dalla penna di Carlo Levi). Un altro letterato – Dino Buzzati – ci immerge in un’altra realtà regionale, tra le montagne del bellunese, con il cortometraggio Il postino di montagna (1951): un rarissimo intervento nel cinema di una penna raffinatissima su un tema letteralmente “epistolare” (mezzo di comunicazione per antonomasia). I girovaghi (1956) ricostruisce – rara testimonianza italiana – le origini (nomadi: i girovaghi) del cinema dalle arti popolari nella Sicilia di inizio secolo: la firma di Luigi Capuana alla sceneggiatura ci racconta del rapporto tra cinema e arti minori. Con Agostino (1962) muoviamo verso il centro, in terra

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

romana, e sul rapporto privilegiato tra letteratura e cinema: siamo ormai negli anni Sessanta e a guidare il dialogo tra due forme d’arte e tra due autori (Bolognini e Moravia) c’è Goffredo Parise. Li mali mestieri (1963) ci riporta nel mondo delle arti popolari di Palermo e del rapporto difficilissimo tra cinema e parola poetica, accompagnati dalla voce di Ignazio Buttitta. Nostos – Il ritorno (1989)è probabilmente il film–chiave della rassegna e il titolo più “teorico”: il mito di Ulisse (e del testo–madre dell’Odissea) rivive nella storia del cinema italiano e l’epopea del ritorno diventa la metafora di un cinema costantemente in viaggio: autonomo, imprendibile (esiste davvero un’italianità del nostro cinema?), indipendente (come Ulisse) eppure unito dalle acque di un mare “suo”. Bàrnabo delle montagne (1994) è la conferma della vitalità di un cinema italiano che rinasce dalla forza delle piccole “isole” produttive regionali (l’esperienza creativa di Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa): dalla scuderia di Ermanno Olmi e dall’influenza delle fiabe di Dino Buzzati. Se Nostos è Ulisse, L’attesa (2015) è – idealmente – Penelope: la rassegna si conclude con lo sguardo femminile dell’attesa, dell’amore e della speranza in una terra feconda. Tratto da un testo di Pirandello, il film di Pietro Messina è l’ultima tappa di un viaggio nelle isole del cinema italiano; ed è il tempo dell’attesa del nostro ritorno a casa. ANDREA MARIANI

CAPITOLO C

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-> TERRA DI NESSUNO Regia: Mario Baffico p. 66

Arcipelago C

Arcipelago. Geografie e viaggi tra il cinema e le arti Quali e quante anime ha il cinema italiano? Dove ha abitato e da quali terre ha preso vita e forma? Dove ha viaggiato il nostro cinema? Vogliamo immaginare una fotografia dall’alto, sorvolando la storia del cinema italiano, sulle acque del Mediterraneo. Da qui il tentativo di restituire la ricchezza di voci, spazi, territori di un cinema che ha raccontato dialoghi, connessioni, legami tra persone, spazi, mondi, realtà. “Arcipelago” traccia i nodi e le relazioni tra le terre e gli uomini del nostro cinema e le arti di cui si è nutrito e che ha “visitato”: la letteratura, la poesia, le arti popolari, ma anche i mezzi della modernità. Si tratta di connessioni tra “geografie” italiane, ma anche tra i media e le arti: i tanti modi di “mettersi in viaggio” e unire ciò che appare separato. I criteri di composizione di questa geografia immaginaria riguardano tanto la collocazione geografica dei film proposti – che diviene testimonianza di una negoziazione complessa tra realtà (produttiva e culturale) locale ⁄ regionale e cinema nazionale – quanto la loro capacità di articolare connessioni tra arti diverse in costante tensione e dialogo reciproco nel nostro cinema. Terra di nessuno (1939) apre la rassegna “nel tempo di guerra”, 64

raccontando di appropriazione della terra, di fondazione di realtà sociali e urbane e nello stesso tempo di nomadismo, ma è soprattutto un superbo esercizio di dialogo e adattamento tra cinema e letteratura. Il grido della terra (1948) è il viaggio di ritorno verso “casa” di un gruppo di ebrei liberati dai campi di concentramento tedeschi verso la Palestina: è una testimonianza straordinaria, tutta “pugliese” (la Palestina è ricostruita lì: allora terra accogliente per migliaia di ebrei in attesa di tornare a casa) sul tema della terra promessa e sulla spinosa questione palestinese (dalla penna di Carlo Levi). Un altro letterato – Dino Buzzati – ci immerge in un’altra realtà regionale, tra le montagne del bellunese, con il cortometraggio Il postino di montagna (1951): un rarissimo intervento nel cinema di una penna raffinatissima su un tema letteralmente “epistolare” (mezzo di comunicazione per antonomasia). I girovaghi (1956) ricostruisce – rara testimonianza italiana – le origini (nomadi: i girovaghi) del cinema dalle arti popolari nella Sicilia di inizio secolo: la firma di Luigi Capuana alla sceneggiatura ci racconta del rapporto tra cinema e arti minori. Con Agostino (1962) muoviamo verso il centro, in terra

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

romana, e sul rapporto privilegiato tra letteratura e cinema: siamo ormai negli anni Sessanta e a guidare il dialogo tra due forme d’arte e tra due autori (Bolognini e Moravia) c’è Goffredo Parise. Li mali mestieri (1963) ci riporta nel mondo delle arti popolari di Palermo e del rapporto difficilissimo tra cinema e parola poetica, accompagnati dalla voce di Ignazio Buttitta. Nostos – Il ritorno (1989)è probabilmente il film–chiave della rassegna e il titolo più “teorico”: il mito di Ulisse (e del testo–madre dell’Odissea) rivive nella storia del cinema italiano e l’epopea del ritorno diventa la metafora di un cinema costantemente in viaggio: autonomo, imprendibile (esiste davvero un’italianità del nostro cinema?), indipendente (come Ulisse) eppure unito dalle acque di un mare “suo”. Bàrnabo delle montagne (1994) è la conferma della vitalità di un cinema italiano che rinasce dalla forza delle piccole “isole” produttive regionali (l’esperienza creativa di Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa): dalla scuderia di Ermanno Olmi e dall’influenza delle fiabe di Dino Buzzati. Se Nostos è Ulisse, L’attesa (2015) è – idealmente – Penelope: la rassegna si conclude con lo sguardo femminile dell’attesa, dell’amore e della speranza in una terra feconda. Tratto da un testo di Pirandello, il film di Pietro Messina è l’ultima tappa di un viaggio nelle isole del cinema italiano; ed è il tempo dell’attesa del nostro ritorno a casa. ANDREA MARIANI

CAPITOLO C

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-> IL GRIDO DELLA TERRA Regia: Duilio Coletti p. 68

Arcipelago C

Terra di nessuno Regia: Mario Baffico Soggetto: Stefano Landi, dalle novelle Requiem aeterna dona eis Domine e Romolo di Luigi Pirandello Sceneggiatura: Corrado Alvaro, Stefano Landi Fotografia: Ugo Lombardi, Fernando Risi Montaggio: Giorgio Simonelli Scenografia e costumi: Alberto Tavazzi Musiche: Franco Casavola

Produzione: Roma Film Distribuzione: Generalcine Origine: Italia 1939 Durata: 94’

Interpreti: Mario Ferrari (Pietro Gori), Laura Solari (Grazia), Nelly Corradi (Elisabetta detta “Bettina”), Umberto Sacripante (Rinaldo), Maurizio D’Ancora (Rocco Securo), Lamberto Picasso (Padre di Rocco), Lola Braccini (Signora Securo), Tina Pica (Maruzza), Vasco Creti (Romualdo), Giovanni Grasso jr. (il puparo), Giuseppe Gambardella (Un campiere), Mario Mazza (Maniscalco), Corrado De Cenzo (Prefetto), Enzo Biliotti (Campiere anziano)

occupanti. Quindici anni dopo, Pietro ha messo su famiglia, ma quando i latifondisti gli vietano di seppellire sua moglie sulla proprietà, si scatena una rivolta armata che finirà in tragedia. Terra di nessuno è un film dalle molte vite. Nato dall’unione di due novelle di Luigi Pirandello, Requiem aeterna Terra di nessuno, 1939 dona eis Domine (1913, sulla lotta di un Fine Ottocento. Di ritorno paese per il diritto di seppellire i propri in Sicilia dall’America, Pietro si stabilisce morti nella terra in cui si vive e lavora) in un vasto latifondo disabitato e Romolo (1917, incentrata sulla storia e incolto, a metà strada tra due grandi del fondatore di un centro abitato), il film città. La posizione favorevole permette vide la sua prima stesura come soggetto lo sviluppo di una florida cittadina, cinematografico nel 1936 ad opera del attirando l’attenzione dei padroni del figlio del drammaturgo siciliano Stefano latifondo, i Seguro, che fino allora con il titolo Dove Romolo edificò, poi lo avevano abbandonato per disinteresse diventato Dove l’uomo edificò nella e ora impongono una minima tassa agli sceneggiatura scritta con Corrado Alvaro. 66

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Stefano Pirandello (che qui si firma Landi) aggiunse elementi assenti nelle novelle, alle volte concessioni (commerciali?) al melodramma (il personaggio di Bettina, figlia di Pietro e moglie del figlio dei Seguro), altre di natura sociale e critica (la sommossa popolare contro i latifondisti). Furono queste ultime modifiche a creare problemi alla produzione del film: presentavano tematiche (lo scontro tra contadini e proprietari, un desiderio anche violento di giustizia sociale…) sgradite al regime fascista. Non bastava il fatto che il soggetto del film fosse stato comprato dalla Roma Film, società fondata dall’alto esponente fascista Francesco Giunta: “il film – è stato scritto – si innestava sul tema scottante delle terre incolte; la politica agraria del fascismo aveva propugnato la distribuzione dei latifondi ai contadini, ma poi aveva dovuto cedere alle pressioni dei grandi proprietari terrieri” (Sandro Bernardi, “Una ‘Virginland’ siciliana”, in Cinema & cinema, n. 45, giugno 1986). Tra sovvenzioni revocate e problemi tecnici, la produzione del film si protrasse per tre anni, e solo un incontro dello stesso Giunta con Mussolini, da cui si decise per la mitigazione di alcune scene e qualche taglio (Nila Noto, Le novelle di Pirandello, in Nino Genovese, Sebastiano Gesù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Bonanno, Palermo 1990), sbloccò la questione e consentì l’uscita del film nel dicembre del 1939. Terra di nessuno fu accolto generalmente bene dalla critica del tempo, ma ogni copia scomparve in tempo di guerra, e il film di Baffico venne annoverato tra quelli andati perduti nel

conflitto. Fece riparlare di sé alla fine degli anni Sessanta, quando se ne trovò una copia presso la Library of Congress di Washington: era catalogata come “preda bellica”, confiscata dai magazzini di una società di distribuzione statunitense quando l’Italia, nel dicembre 1941, aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti (Nino Genovese, Quel ragno nero sul treppiede, in Nino Genovese, Sebastiano Gesù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Bonanno, Palermo 1990). Solo nel 1981, dopo diverse peripezie burocratiche, la Cineteca Nazionale poté disporre di una copia di questo film, anche se mancante di due degli otto rulli di cui si componeva in originale, e sottoporla a restauro. È stato così possibile riscoprire un film particolarmente anomalo per i tempi, per le sue atipiche analogie con il genere western (i vasti spazi esterni, gli scontri tra coloni e grandi allevatori, la figura del “cavaliere solitario” impersonata da Pietro…) e per gli accenni socio-economici di qui sopra, per cui Terra di nessuno “nonostante le cautele adottate, apparve per l’epoca singolare, coraggioso ed anticonformista, data la fuga dalla realtà che contraddistingueva il cinema degli anni Trenta” (Giulio Cesare Castello, Registi ed attori del cinema pirandelliano in Pirandello e il cinema. Atti del convegno del Centro Nazionale Studi Pirandelliani, Agrigento 1978), ovvero il cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi” e i suoi dorati sogni medio–borghesi.

CAPITOLO C

MATTIA FILIGOI

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-> IL GRIDO DELLA TERRA Regia: Duilio Coletti p. 68

Arcipelago C

Terra di nessuno Regia: Mario Baffico Soggetto: Stefano Landi, dalle novelle Requiem aeterna dona eis Domine e Romolo di Luigi Pirandello Sceneggiatura: Corrado Alvaro, Stefano Landi Fotografia: Ugo Lombardi, Fernando Risi Montaggio: Giorgio Simonelli Scenografia e costumi: Alberto Tavazzi Musiche: Franco Casavola

Produzione: Roma Film Distribuzione: Generalcine Origine: Italia 1939 Durata: 94’

Interpreti: Mario Ferrari (Pietro Gori), Laura Solari (Grazia), Nelly Corradi (Elisabetta detta “Bettina”), Umberto Sacripante (Rinaldo), Maurizio D’Ancora (Rocco Securo), Lamberto Picasso (Padre di Rocco), Lola Braccini (Signora Securo), Tina Pica (Maruzza), Vasco Creti (Romualdo), Giovanni Grasso jr. (il puparo), Giuseppe Gambardella (Un campiere), Mario Mazza (Maniscalco), Corrado De Cenzo (Prefetto), Enzo Biliotti (Campiere anziano)

occupanti. Quindici anni dopo, Pietro ha messo su famiglia, ma quando i latifondisti gli vietano di seppellire sua moglie sulla proprietà, si scatena una rivolta armata che finirà in tragedia. Terra di nessuno è un film dalle molte vite. Nato dall’unione di due novelle di Luigi Pirandello, Requiem aeterna Terra di nessuno, 1939 dona eis Domine (1913, sulla lotta di un Fine Ottocento. Di ritorno paese per il diritto di seppellire i propri in Sicilia dall’America, Pietro si stabilisce morti nella terra in cui si vive e lavora) in un vasto latifondo disabitato e Romolo (1917, incentrata sulla storia e incolto, a metà strada tra due grandi del fondatore di un centro abitato), il film città. La posizione favorevole permette vide la sua prima stesura come soggetto lo sviluppo di una florida cittadina, cinematografico nel 1936 ad opera del attirando l’attenzione dei padroni del figlio del drammaturgo siciliano Stefano latifondo, i Seguro, che fino allora con il titolo Dove Romolo edificò, poi lo avevano abbandonato per disinteresse diventato Dove l’uomo edificò nella e ora impongono una minima tassa agli sceneggiatura scritta con Corrado Alvaro. 66

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Stefano Pirandello (che qui si firma Landi) aggiunse elementi assenti nelle novelle, alle volte concessioni (commerciali?) al melodramma (il personaggio di Bettina, figlia di Pietro e moglie del figlio dei Seguro), altre di natura sociale e critica (la sommossa popolare contro i latifondisti). Furono queste ultime modifiche a creare problemi alla produzione del film: presentavano tematiche (lo scontro tra contadini e proprietari, un desiderio anche violento di giustizia sociale…) sgradite al regime fascista. Non bastava il fatto che il soggetto del film fosse stato comprato dalla Roma Film, società fondata dall’alto esponente fascista Francesco Giunta: “il film – è stato scritto – si innestava sul tema scottante delle terre incolte; la politica agraria del fascismo aveva propugnato la distribuzione dei latifondi ai contadini, ma poi aveva dovuto cedere alle pressioni dei grandi proprietari terrieri” (Sandro Bernardi, “Una ‘Virginland’ siciliana”, in Cinema & cinema, n. 45, giugno 1986). Tra sovvenzioni revocate e problemi tecnici, la produzione del film si protrasse per tre anni, e solo un incontro dello stesso Giunta con Mussolini, da cui si decise per la mitigazione di alcune scene e qualche taglio (Nila Noto, Le novelle di Pirandello, in Nino Genovese, Sebastiano Gesù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Bonanno, Palermo 1990), sbloccò la questione e consentì l’uscita del film nel dicembre del 1939. Terra di nessuno fu accolto generalmente bene dalla critica del tempo, ma ogni copia scomparve in tempo di guerra, e il film di Baffico venne annoverato tra quelli andati perduti nel

conflitto. Fece riparlare di sé alla fine degli anni Sessanta, quando se ne trovò una copia presso la Library of Congress di Washington: era catalogata come “preda bellica”, confiscata dai magazzini di una società di distribuzione statunitense quando l’Italia, nel dicembre 1941, aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti (Nino Genovese, Quel ragno nero sul treppiede, in Nino Genovese, Sebastiano Gesù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Bonanno, Palermo 1990). Solo nel 1981, dopo diverse peripezie burocratiche, la Cineteca Nazionale poté disporre di una copia di questo film, anche se mancante di due degli otto rulli di cui si componeva in originale, e sottoporla a restauro. È stato così possibile riscoprire un film particolarmente anomalo per i tempi, per le sue atipiche analogie con il genere western (i vasti spazi esterni, gli scontri tra coloni e grandi allevatori, la figura del “cavaliere solitario” impersonata da Pietro…) e per gli accenni socio-economici di qui sopra, per cui Terra di nessuno “nonostante le cautele adottate, apparve per l’epoca singolare, coraggioso ed anticonformista, data la fuga dalla realtà che contraddistingueva il cinema degli anni Trenta” (Giulio Cesare Castello, Registi ed attori del cinema pirandelliano in Pirandello e il cinema. Atti del convegno del Centro Nazionale Studi Pirandelliani, Agrigento 1978), ovvero il cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi” e i suoi dorati sogni medio–borghesi.

CAPITOLO C

MATTIA FILIGOI

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<- TERRA DI NESSUNO Regia: Mario Baffico p. 66

Arcipelago C

-> IL POSTINO DI MONTAGNA Regia: Adolfo Baruffi p. 70

Il grido della terra Regia: Duilio Coletti Soggetto: Tullio Pinelli Sceneggiatura: Giorgio Prosperi, Carlo Levi, Alessandro Fersen Fotografia: Domenico Scala Montaggio: Mario Serandrei Musiche: Alessandro Cicognini

Produzione: Lux Film Origine: Italia 1948 Durata: 90’

Interpreti: Marina Berti (Dina), Andrea Checchi (Arié), Filippo Scelzo (professor Tammen), Vivi Gioi (Judith), Carlo Ninchi (comandante della nave), Peter Trent (tenente Birkmore), Elena Zareschi (Ada), Alessandro Fersen (rabbino), Arnoldo Foà (terrorista)

è in corso la guerriglia tra coloni ebrei e partigiani inglesi e David fa parte di un corpo terrorista insieme alla nuova fidanzata Judith. Il grido della terra è un prodotto interessante sia per l’argomento trattato sia per il posto che occupa all’interno della storia del cinema italiano. Dopo Il grido della terra, 1948 il restauro ad opera della Cineteca Il professor Tammen, Dina e Arié Nazionale, il film è stato inserito nella sono un gruppo di ebrei che vivono retrospettiva Questi fantasmi: cinema in un campo profughi in Puglia dopo ritrovato italiano (1946–1975) a cura di essere stati liberati dai lager nazisti Tatti Sanguineti e Sergio Toffetti, durante dagli alleati. Insieme agli altri abitanti la Mostra del Cinema di Venezia del 2008. del campo raggiungono illegalmente la È curioso notare la presenza di alcuni Palestina, dove vive da alcuni anni, in nomi di richiamo tra gli attori, molti dei una colonia agricola, David, figlio del quali già famosi in precedenza (Andrea professor Tammen, promesso sposo di Checchi, Vivi Gioi, Carlo Ninchi…) e di Dina e vecchio amico di Ariè. In Palestina scrittori altrettanto importanti, fra i quali 68

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

figurano Tullio Pinelli e Carlo Levi. Una pellicola, nondimeno, esclusa dal canone del cinema italiano anche, forse, per l’annus mirabilis in cui è stata prodotta. In quel periodo, infatti, escono almeno quattro film–titani: Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), La terra trema (Luchino Visconti, 1948), Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1948), Anni difficili (Luigi Zampa, 1948). Eppure, Il grido della terra si adopera in un curioso aggiornamento di alcune coordinate tematiche del panorama neorealista, tenendone salde le principali peculiarità stilistiche. La retorica dell’autenticità è, difatti, presente: il film è girato nei medesimi campi profughi (a Bari e Trani) in cui il film è ambientato, inoltre, l’argomento trattato è quasi contemporaneo alla produzione dell’opera. Il cast interamente costituito da professionisti, e lo stile recitativo piuttosto solenne, appartengono, al contrario, a una prassi piuttosto tradizionalista. La vicenda, sebbene lineare e coerente, è composta da personaggi poco caratterizzati, che non subiscono particolari evoluzioni. Il tenente Birkmore, ad esempio, pare non mettere in questione il proprio ruolo di “poliziotto” (come ci si aspetterebbe) nemmeno in nome dell’amicizia con Ariè e David. Al medesimo tempo, il passato dei protagonisti e di alcuni altri personaggi è solo abbozzato (abbiamo notizie sparse della guerra, dei rastrellamenti, dei campi di sterminio, della nave Exodus, dello stabilimento in Palestina di David…). Non si tratta qui, tuttavia, di un tentativo rosselliniano di liberarsi dai vincoli della diegesi, ma piuttosto

di rimandare per inferenza a un passato prossimo che è risaputo. Analogamente, la povertà di eventi rappresentati è anche un pretesto per rendere note le tradizioni e i riti di un popolo che poco prima era disprezzato dalla cultura ufficiale, come testimoniano le scene di vita quotidiana nel campo profughi e la sequenza dei canti sulla nave verso la Palestina. Il rapporto con il passato è, in effetti, anche un dialogo con il cinema neorealista coevo, in cui si vedono i soldati inglesi combattere a fianco dei partigiani contro un nemico comune (in particolare all’episodio fiorentino di Paisà). Un’interlocuzione, questa, che è evidente nel flashback in cui si racconta del passato da commilitoni di Ariè, David e il tenente Birkmore dopo i rastrellamenti nel ghetto di Roma. Il film, in questo senso, parla di tradimenti, e di un popolo che – sebbene in maniera controversa e talvolta deprecabile – cerca di riassestarsi e di ritrovare una propria identità. Nonostante la parzialità del punto di vista e l’assoluta assenza della questione palestinese, Il grido della terra si dimostra indispensabile documento storico di una prospettiva politica e ideologica ancora poco investigata.

CAPITOLO C

LEONARDO CABRINI

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<- TERRA DI NESSUNO Regia: Mario Baffico p. 66

Arcipelago C

-> IL POSTINO DI MONTAGNA Regia: Adolfo Baruffi p. 70

Il grido della terra Regia: Duilio Coletti Soggetto: Tullio Pinelli Sceneggiatura: Giorgio Prosperi, Carlo Levi, Alessandro Fersen Fotografia: Domenico Scala Montaggio: Mario Serandrei Musiche: Alessandro Cicognini

Produzione: Lux Film Origine: Italia 1948 Durata: 90’

Interpreti: Marina Berti (Dina), Andrea Checchi (Arié), Filippo Scelzo (professor Tammen), Vivi Gioi (Judith), Carlo Ninchi (comandante della nave), Peter Trent (tenente Birkmore), Elena Zareschi (Ada), Alessandro Fersen (rabbino), Arnoldo Foà (terrorista)

è in corso la guerriglia tra coloni ebrei e partigiani inglesi e David fa parte di un corpo terrorista insieme alla nuova fidanzata Judith. Il grido della terra è un prodotto interessante sia per l’argomento trattato sia per il posto che occupa all’interno della storia del cinema italiano. Dopo Il grido della terra, 1948 il restauro ad opera della Cineteca Il professor Tammen, Dina e Arié Nazionale, il film è stato inserito nella sono un gruppo di ebrei che vivono retrospettiva Questi fantasmi: cinema in un campo profughi in Puglia dopo ritrovato italiano (1946–1975) a cura di essere stati liberati dai lager nazisti Tatti Sanguineti e Sergio Toffetti, durante dagli alleati. Insieme agli altri abitanti la Mostra del Cinema di Venezia del 2008. del campo raggiungono illegalmente la È curioso notare la presenza di alcuni Palestina, dove vive da alcuni anni, in nomi di richiamo tra gli attori, molti dei una colonia agricola, David, figlio del quali già famosi in precedenza (Andrea professor Tammen, promesso sposo di Checchi, Vivi Gioi, Carlo Ninchi…) e di Dina e vecchio amico di Ariè. In Palestina scrittori altrettanto importanti, fra i quali 68

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

figurano Tullio Pinelli e Carlo Levi. Una pellicola, nondimeno, esclusa dal canone del cinema italiano anche, forse, per l’annus mirabilis in cui è stata prodotta. In quel periodo, infatti, escono almeno quattro film–titani: Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), La terra trema (Luchino Visconti, 1948), Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1948), Anni difficili (Luigi Zampa, 1948). Eppure, Il grido della terra si adopera in un curioso aggiornamento di alcune coordinate tematiche del panorama neorealista, tenendone salde le principali peculiarità stilistiche. La retorica dell’autenticità è, difatti, presente: il film è girato nei medesimi campi profughi (a Bari e Trani) in cui il film è ambientato, inoltre, l’argomento trattato è quasi contemporaneo alla produzione dell’opera. Il cast interamente costituito da professionisti, e lo stile recitativo piuttosto solenne, appartengono, al contrario, a una prassi piuttosto tradizionalista. La vicenda, sebbene lineare e coerente, è composta da personaggi poco caratterizzati, che non subiscono particolari evoluzioni. Il tenente Birkmore, ad esempio, pare non mettere in questione il proprio ruolo di “poliziotto” (come ci si aspetterebbe) nemmeno in nome dell’amicizia con Ariè e David. Al medesimo tempo, il passato dei protagonisti e di alcuni altri personaggi è solo abbozzato (abbiamo notizie sparse della guerra, dei rastrellamenti, dei campi di sterminio, della nave Exodus, dello stabilimento in Palestina di David…). Non si tratta qui, tuttavia, di un tentativo rosselliniano di liberarsi dai vincoli della diegesi, ma piuttosto

di rimandare per inferenza a un passato prossimo che è risaputo. Analogamente, la povertà di eventi rappresentati è anche un pretesto per rendere note le tradizioni e i riti di un popolo che poco prima era disprezzato dalla cultura ufficiale, come testimoniano le scene di vita quotidiana nel campo profughi e la sequenza dei canti sulla nave verso la Palestina. Il rapporto con il passato è, in effetti, anche un dialogo con il cinema neorealista coevo, in cui si vedono i soldati inglesi combattere a fianco dei partigiani contro un nemico comune (in particolare all’episodio fiorentino di Paisà). Un’interlocuzione, questa, che è evidente nel flashback in cui si racconta del passato da commilitoni di Ariè, David e il tenente Birkmore dopo i rastrellamenti nel ghetto di Roma. Il film, in questo senso, parla di tradimenti, e di un popolo che – sebbene in maniera controversa e talvolta deprecabile – cerca di riassestarsi e di ritrovare una propria identità. Nonostante la parzialità del punto di vista e l’assoluta assenza della questione palestinese, Il grido della terra si dimostra indispensabile documento storico di una prospettiva politica e ideologica ancora poco investigata.

CAPITOLO C

LEONARDO CABRINI

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Arcipelago C

<- IL GRIDO DELLA TERRA Regia: Duilio Coletti p. 68

-> LI MALI MESTIERI Regia: Gianfranco Mingozzi p. 72

Il postino di montagna Regia: Adolfo Baruffi Soggetto e sceneggiatura: Dino Buzzati Fotografia: Antonio Sturla Musiche: Enzo Crosti

Produzione: Caba Film Origine: Italia 1951 Durata: 10’

Interpreti: Angelo Lezuo (il postino)

delle Dolomiti, a cavallo tra il Cadore e l’Agordino.” Le parole di Dino Buzzati ci introducono a un mondo da cartolina, la montagna delle Alpi di confine, fatta di prati inclinati, vette innevate e persone gentili che vivono a un ritmo più lento del nostro. C’è un filo di nostalgia nel commento parlato: siamo nel 1951 e il cinema deve cominciare a raccontare Il postino di montagna, 1951 quel fenomeno che sarà ricordato come Il postino di montagna racconta il boom economico. I centri come Colle una giornata di lavoro del postino di Santa Lucia già si svuotano dei loro Colle Santa Lucia, un paese inerpicato giovani e l’edilizia prende a correre sulle Alpi venete dove si parla il ladino. alla velocità del mondo moderno tanto Seguendolo con la cinepresa, Buzzati e che ci stupiamo nello scoprire che alcuni Baruffi raccontano la sua attività e la vita edifici del piccolo borgo hanno più di degli abitanti del piccolo borgo. trecento anni. Dino Buzzati narrativizza il suo “La corriera delle sette viene su documentario con un’idea semplice ma per la Val Fiorentina. Siamo nel cuore efficace: segue il postino nel suo giro 70

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

giornaliero e sceneggia così dei siparietti simbolici della vita del paese. Carmela non è in casa quindi il postino le lascia la posta sul gradino; un bambino raccoglie dei fiori per la sua maestra; sulla porta della chiesa viene affisso un avviso che recita “chi ha perso cinquemila lire sulla strada si rivolga al parroco”. Si tratta di scenette rappresentative, non tanto perché descrivono le pratiche comuni della vita a Colle Santa Lucia, ma piuttosto perché dipingono un quadro tanto idilliaco quanto anacronistico. Esse tradiscono la natura morale e didattica de Il postino di montagna, che descrive con grande passione un luogo dove la gente si conosce e si saluta per strada. “Qui a scuola ci vanno proprio tutti, un analfabeta che sia un analfabeta non lo trovate in tutto il paese”, recita con orgoglio il narratore mentre vediamo i bambini che si recano felicemente in classe. Il postino si ferma poi per brindare agli sposi novelli e viene da pensare che a Colle Santa Lucia anche l’amore duri per sempre, tanto è soave l’affresco che Adolfo Baruffi e Dino Buzzati hanno disegnato. La realtà delle cose è certamente diversa ma non c’è nulla di male a lasciarsi affabulare per dieci minuti dalle immagini de Il postino di montagna. STEFANO LALLA

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Arcipelago C

<- IL GRIDO DELLA TERRA Regia: Duilio Coletti p. 68

-> LI MALI MESTIERI Regia: Gianfranco Mingozzi p. 72

Il postino di montagna Regia: Adolfo Baruffi Soggetto e sceneggiatura: Dino Buzzati Fotografia: Antonio Sturla Musiche: Enzo Crosti

Produzione: Caba Film Origine: Italia 1951 Durata: 10’

Interpreti: Angelo Lezuo (il postino)

delle Dolomiti, a cavallo tra il Cadore e l’Agordino.” Le parole di Dino Buzzati ci introducono a un mondo da cartolina, la montagna delle Alpi di confine, fatta di prati inclinati, vette innevate e persone gentili che vivono a un ritmo più lento del nostro. C’è un filo di nostalgia nel commento parlato: siamo nel 1951 e il cinema deve cominciare a raccontare Il postino di montagna, 1951 quel fenomeno che sarà ricordato come Il postino di montagna racconta il boom economico. I centri come Colle una giornata di lavoro del postino di Santa Lucia già si svuotano dei loro Colle Santa Lucia, un paese inerpicato giovani e l’edilizia prende a correre sulle Alpi venete dove si parla il ladino. alla velocità del mondo moderno tanto Seguendolo con la cinepresa, Buzzati e che ci stupiamo nello scoprire che alcuni Baruffi raccontano la sua attività e la vita edifici del piccolo borgo hanno più di degli abitanti del piccolo borgo. trecento anni. Dino Buzzati narrativizza il suo “La corriera delle sette viene su documentario con un’idea semplice ma per la Val Fiorentina. Siamo nel cuore efficace: segue il postino nel suo giro 70

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

giornaliero e sceneggia così dei siparietti simbolici della vita del paese. Carmela non è in casa quindi il postino le lascia la posta sul gradino; un bambino raccoglie dei fiori per la sua maestra; sulla porta della chiesa viene affisso un avviso che recita “chi ha perso cinquemila lire sulla strada si rivolga al parroco”. Si tratta di scenette rappresentative, non tanto perché descrivono le pratiche comuni della vita a Colle Santa Lucia, ma piuttosto perché dipingono un quadro tanto idilliaco quanto anacronistico. Esse tradiscono la natura morale e didattica de Il postino di montagna, che descrive con grande passione un luogo dove la gente si conosce e si saluta per strada. “Qui a scuola ci vanno proprio tutti, un analfabeta che sia un analfabeta non lo trovate in tutto il paese”, recita con orgoglio il narratore mentre vediamo i bambini che si recano felicemente in classe. Il postino si ferma poi per brindare agli sposi novelli e viene da pensare che a Colle Santa Lucia anche l’amore duri per sempre, tanto è soave l’affresco che Adolfo Baruffi e Dino Buzzati hanno disegnato. La realtà delle cose è certamente diversa ma non c’è nulla di male a lasciarsi affabulare per dieci minuti dalle immagini de Il postino di montagna. STEFANO LALLA

CAPITOLO C

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<- IL POSTINO DI MONTAGNA Regia: Aldo Baruffi p. 70

Arcipelago C

-> I GIROVAGHI Regia: Hugo Fregonese p. 74

Li mali mestieri Regia: Gianfranco Mingozzi Soggetto e sceneggiatura: Gianfranco Mingozzi, Ignazio Buttitta Fotografia: Ugo Piccone Montaggio: Giuliana Bettoja Musiche: Egisto Macchi

Produzione: Documento Film Origine: Italia 1963 Durata: 10’

Li mali mestieri, 1963

A Palermo, per campare, uomini e donne si inventano i mestieri: chi spiccia le faccende per gli altri, chi unge di olio e grasso le guide delle saracinesche, chi legge la mano e chi addobba i quartieri con le immagini dei santi. L’occhio con cui Gianfranco Mingozzi guarda e legge Palermo e suoi abitanti è talmente sincero da 72

far dimenticare le sue origini emiliane e l’educazione romana al Centro Sperimentale. Già con La taranta (1962) la necessità di indagare in modo speleologico le tradizioni del Sud Italia lo porta in Salento a raccontare sì l’origine del ballo indemoniato, ma sempre riportandolo alla quotidianità, ai mestieri dei suonatori (barbieri, contadini, becchini). Li mali mestieri, uscito l’anno successivo e presentato in concorso tra i cortometraggi a Cannes 1964, è un inabissarsi ancor più profondo nelle forme ataviche di resistenza alla morte. Nelle strade di una Palermo ancora sfregiata dalle rovine ogni lira è una conquista, vale sia come privazione che come speranza. Comprare un biglietto della riffa significa rinunciare

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

a un bicchiere di vino sperando che la vittoria porti in dote una bottiglia, farsi leggere la mano è ascoltare una storia fantastica fingendosi il protagonista (“l’indovina legge attenta, nella man ‘e storie inventa”, recita Buttitta). Più si gira la città più i mestieri aumentano, passando per chi olia le saracinesche dei negozi come gesto naturale di cura del patrimonio commerciale, a chi spiccia le faccende per quelli che non hanno tempo (pratiche burocratiche) o mezzi (leggere e scrivere una lettera), ruolo fondamentale – anche se un po’ ombroso – in una società in cui l’analfabetismo raggiunge percentuali pericolose. Il Paese ripreso da Mingozzi è il lato oscuro del boom economico, la crudele ma vitale istantanea di un Dopoguerra mai finito dove esseri umani cercano ogni scusa possibile per stare assieme, attorno all’addobbo del santo o per un concerto improvvisato nella piazzetta dove cantare pizzini per parenti carcerati o disoccupati. Nella tecnica di ripresa così come nelle testimonianze visive, la finzione lenisce il reale, lo eleva al di sopra del presente in un luogo atemporale dove tutto è sempre esistito e continua ad accadere senza soluzione di continuità. MICHELE GALARDINI

CAPITOLO C

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<- IL POSTINO DI MONTAGNA Regia: Aldo Baruffi p. 70

Arcipelago C

-> I GIROVAGHI Regia: Hugo Fregonese p. 74

Li mali mestieri Regia: Gianfranco Mingozzi Soggetto e sceneggiatura: Gianfranco Mingozzi, Ignazio Buttitta Fotografia: Ugo Piccone Montaggio: Giuliana Bettoja Musiche: Egisto Macchi

Produzione: Documento Film Origine: Italia 1963 Durata: 10’

Li mali mestieri, 1963

A Palermo, per campare, uomini e donne si inventano i mestieri: chi spiccia le faccende per gli altri, chi unge di olio e grasso le guide delle saracinesche, chi legge la mano e chi addobba i quartieri con le immagini dei santi. L’occhio con cui Gianfranco Mingozzi guarda e legge Palermo e suoi abitanti è talmente sincero da 72

far dimenticare le sue origini emiliane e l’educazione romana al Centro Sperimentale. Già con La taranta (1962) la necessità di indagare in modo speleologico le tradizioni del Sud Italia lo porta in Salento a raccontare sì l’origine del ballo indemoniato, ma sempre riportandolo alla quotidianità, ai mestieri dei suonatori (barbieri, contadini, becchini). Li mali mestieri, uscito l’anno successivo e presentato in concorso tra i cortometraggi a Cannes 1964, è un inabissarsi ancor più profondo nelle forme ataviche di resistenza alla morte. Nelle strade di una Palermo ancora sfregiata dalle rovine ogni lira è una conquista, vale sia come privazione che come speranza. Comprare un biglietto della riffa significa rinunciare

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

a un bicchiere di vino sperando che la vittoria porti in dote una bottiglia, farsi leggere la mano è ascoltare una storia fantastica fingendosi il protagonista (“l’indovina legge attenta, nella man ‘e storie inventa”, recita Buttitta). Più si gira la città più i mestieri aumentano, passando per chi olia le saracinesche dei negozi come gesto naturale di cura del patrimonio commerciale, a chi spiccia le faccende per quelli che non hanno tempo (pratiche burocratiche) o mezzi (leggere e scrivere una lettera), ruolo fondamentale – anche se un po’ ombroso – in una società in cui l’analfabetismo raggiunge percentuali pericolose. Il Paese ripreso da Mingozzi è il lato oscuro del boom economico, la crudele ma vitale istantanea di un Dopoguerra mai finito dove esseri umani cercano ogni scusa possibile per stare assieme, attorno all’addobbo del santo o per un concerto improvvisato nella piazzetta dove cantare pizzini per parenti carcerati o disoccupati. Nella tecnica di ripresa così come nelle testimonianze visive, la finzione lenisce il reale, lo eleva al di sopra del presente in un luogo atemporale dove tutto è sempre esistito e continua ad accadere senza soluzione di continuità. MICHELE GALARDINI

CAPITOLO C

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<- LI MALI MESTIERI Regia: Gianfranco Mingozzi p. 72

Arcipelago C

-> AGOSTINO Regia: Mauro Bolognini p. 76

I girovaghi Regia: Hugo Fregonese Soggetto: dal racconto Cardello di Luigi Capuana Sceneggiatura: Giuseppe Berto, Salvatore Danò, Daniele D’Anza, Luciano Vincenzoni, Piero Vivarelli Fotografia: Alvaro Mancori Montaggio: Mario Serandrei Scenografia: Luigi Scaccianoce Costumi: Dina Di Bari Musiche: Angelo Francesco Lavagnino

Produzione: I.C.I., Villani–Rossini Distribuzione: I.C.I. (Indipendenti Regionali) Origine: Italia 1956 Durata: 88’

Interpreti: Peter Ustinov (Don Alfonso Puglisi), Carla Del Poggio (Donna Lia), Abbe Lane (Dolores), Gaetano Autiero (Calogero, detto “Cardiello”), Giuseppe Porelli (Professor Kroll), Rocco D’Assunta (Corteggiatore di Dolores), Angelo Dessy (Possidente locale)

in tutta risposta, si ripresenterà con un nuovo spettacolo: il cinematografo.

I girovaghi, 1956

Nella Sicilia dei primi del Novecento, il mastro puparo Calogero si sposta di paese in paese con il suo carrozzone, accompagnato dalla moglie Lia. Tuttavia, si lascia ammaliare dalla danzatrice di un illusionista suo rivale, la “rapisce” e la coinvolge nel suo spettacolo, consapevole del facile richiamo esercitato sul pubblico dall’erotismo della donna. L’illusionista, 74

Recuperato durante la 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella retrospettiva Questi fantasmi 2 (nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Roma), I girovaghi di Hugo Fregonese, tratto da un racconto di Luigi Capuana (Cardello) e sceneggiato tra gli altri da Giuseppe Berto, è una raffinata e rarissima incursione del cinema italiano nell’epoca del cosiddetto pre-cinema: la fase – assai significativa, in termini storici ma anche teorici – che segna il passaggio (ma anche e soprattutto gli stretti legami) tra le arti popolari e lo spettacolo cinematografico. Fregonese – che a Hollywood aveva vissuto sulla sua pelle la frustrazione

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

di vedersi preferire produzioni corrive al suo “artigianato” produttivo – riesce a restituire un ritratto inedito e assai convincente della “battaglia” delle arti che il nuovo medium cinematografico aveva scatenato all’inizio del secolo. Dopo un solido avvio di carriera a Hollywood dove si specializza in film d’avventura, western e thriller, alternando medie produzioni (perlopiù Universal e MGM, Columbia) a produzioni indipendenti di piccolo budget, di cui conserva l’attenzione per i mondi marginali e la cura artigianale, Fregonese giunge in Italia (era di origini trevisane) dopo essere cresciuto in Argentina e negli Stati Uniti. Il film rintraccia sapientemente questioni che solo ultimamente hanno ritrovato centralità nella storiografia del cinema: il nesso assai stretto tra pratiche illusioniste e cinematografo, ma anche l’evoluzione dello spettacolo popolare, il legame “archeologico” con il peep–show (la danza erotica della ballerina ne è una previsione), l’anima nomade e itinerante del primo spettacolo cinematografico. Di grande interesse – oltreché di notevole ingegno narrativo – è la scelta di affidare la comparsa del cinema a un illusionista, che fatalmente scompare dalla storia e riappare portando al pubblico la nuova invenzione: a conferma di un paradigma interpretativo che vede la comparsa del cinema come evento shoccante, attraente (come il corpo della danzatrice) ma anche travolgente, e soprattutto come – da un punto di vista teorico e filosofico – una fondamentale “rottura” nel sistema del sapere, del conoscere, e dell’interpretare il mondo e la realtà (la scomposizione del visibile,

l’impressione fotografica del reale in movimento, la creazione artistica riprodotta meccanicamente, la soluzione del tempo reale in un nuovo ordine ecc.). Il film però è anche e soprattutto un melodramma passionale a tinte forti, il ritratto di uno sconfitto dalla vita e dalla storia, che viene abbandonato, accecato dalla passione e dalla gelosia, dopo aver bruciato (letteralmente) il carrozzone di pellicole dell’illusionista. Di grande densità simbolica è la figura del piccolo orfano, accolto da Alfonso, il puparo, all’inizio della vicenda, che attraversa la storia e seguirà un destino lontano dal mondo dello spettacolo (artigianale o cinematografico). Prodotto da iniziativa indipendente e regionale, il film è uno splendido ritratto della storia siciliana e un raro excursus nel periodo dell’avvento della modernità: un film che merita un’assoluta riscoperta per la sua capacità di lettura storica e teorica dell’avvento del cinema.

CAPITOLO C

ANDREA MARIANI

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<- LI MALI MESTIERI Regia: Gianfranco Mingozzi p. 72

Arcipelago C

-> AGOSTINO Regia: Mauro Bolognini p. 76

I girovaghi Regia: Hugo Fregonese Soggetto: dal racconto Cardello di Luigi Capuana Sceneggiatura: Giuseppe Berto, Salvatore Danò, Daniele D’Anza, Luciano Vincenzoni, Piero Vivarelli Fotografia: Alvaro Mancori Montaggio: Mario Serandrei Scenografia: Luigi Scaccianoce Costumi: Dina Di Bari Musiche: Angelo Francesco Lavagnino

Produzione: I.C.I., Villani–Rossini Distribuzione: I.C.I. (Indipendenti Regionali) Origine: Italia 1956 Durata: 88’

Interpreti: Peter Ustinov (Don Alfonso Puglisi), Carla Del Poggio (Donna Lia), Abbe Lane (Dolores), Gaetano Autiero (Calogero, detto “Cardiello”), Giuseppe Porelli (Professor Kroll), Rocco D’Assunta (Corteggiatore di Dolores), Angelo Dessy (Possidente locale)

in tutta risposta, si ripresenterà con un nuovo spettacolo: il cinematografo.

I girovaghi, 1956

Nella Sicilia dei primi del Novecento, il mastro puparo Calogero si sposta di paese in paese con il suo carrozzone, accompagnato dalla moglie Lia. Tuttavia, si lascia ammaliare dalla danzatrice di un illusionista suo rivale, la “rapisce” e la coinvolge nel suo spettacolo, consapevole del facile richiamo esercitato sul pubblico dall’erotismo della donna. L’illusionista, 74

Recuperato durante la 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella retrospettiva Questi fantasmi 2 (nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Roma), I girovaghi di Hugo Fregonese, tratto da un racconto di Luigi Capuana (Cardello) e sceneggiato tra gli altri da Giuseppe Berto, è una raffinata e rarissima incursione del cinema italiano nell’epoca del cosiddetto pre-cinema: la fase – assai significativa, in termini storici ma anche teorici – che segna il passaggio (ma anche e soprattutto gli stretti legami) tra le arti popolari e lo spettacolo cinematografico. Fregonese – che a Hollywood aveva vissuto sulla sua pelle la frustrazione

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

di vedersi preferire produzioni corrive al suo “artigianato” produttivo – riesce a restituire un ritratto inedito e assai convincente della “battaglia” delle arti che il nuovo medium cinematografico aveva scatenato all’inizio del secolo. Dopo un solido avvio di carriera a Hollywood dove si specializza in film d’avventura, western e thriller, alternando medie produzioni (perlopiù Universal e MGM, Columbia) a produzioni indipendenti di piccolo budget, di cui conserva l’attenzione per i mondi marginali e la cura artigianale, Fregonese giunge in Italia (era di origini trevisane) dopo essere cresciuto in Argentina e negli Stati Uniti. Il film rintraccia sapientemente questioni che solo ultimamente hanno ritrovato centralità nella storiografia del cinema: il nesso assai stretto tra pratiche illusioniste e cinematografo, ma anche l’evoluzione dello spettacolo popolare, il legame “archeologico” con il peep–show (la danza erotica della ballerina ne è una previsione), l’anima nomade e itinerante del primo spettacolo cinematografico. Di grande interesse – oltreché di notevole ingegno narrativo – è la scelta di affidare la comparsa del cinema a un illusionista, che fatalmente scompare dalla storia e riappare portando al pubblico la nuova invenzione: a conferma di un paradigma interpretativo che vede la comparsa del cinema come evento shoccante, attraente (come il corpo della danzatrice) ma anche travolgente, e soprattutto come – da un punto di vista teorico e filosofico – una fondamentale “rottura” nel sistema del sapere, del conoscere, e dell’interpretare il mondo e la realtà (la scomposizione del visibile,

l’impressione fotografica del reale in movimento, la creazione artistica riprodotta meccanicamente, la soluzione del tempo reale in un nuovo ordine ecc.). Il film però è anche e soprattutto un melodramma passionale a tinte forti, il ritratto di uno sconfitto dalla vita e dalla storia, che viene abbandonato, accecato dalla passione e dalla gelosia, dopo aver bruciato (letteralmente) il carrozzone di pellicole dell’illusionista. Di grande densità simbolica è la figura del piccolo orfano, accolto da Alfonso, il puparo, all’inizio della vicenda, che attraversa la storia e seguirà un destino lontano dal mondo dello spettacolo (artigianale o cinematografico). Prodotto da iniziativa indipendente e regionale, il film è uno splendido ritratto della storia siciliana e un raro excursus nel periodo dell’avvento della modernità: un film che merita un’assoluta riscoperta per la sua capacità di lettura storica e teorica dell’avvento del cinema.

CAPITOLO C

ANDREA MARIANI

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<- I GIROVAGHI Regia: Hugo Fregonese p. 74

Arcipelago C

-> NOSTOS–IL RITORNO Regia: Franco Piavioli p. 78

Agostino Regia: Mauro Bolognini Produzione: Baltea Film Soggetto: dal romanzo Distribuzione: Dino Agostino di Alberto Moravia De Laurentiis Distribuzione Sceneggiatura: Mauro Bolognini, Origine: Italia 1962 Goffredo Parise Durata: 90’ Fotografia: Aldo Tonti Montaggio: Nino Baragli Scenografia: Maurizio Chiari Costumi: Maurizio Chiari Musiche: Carlo Rustichelli

Interpreti: Paolo Colombo (Agostino), Ingrid Thulin (la madre di Agostino), John Saxon (Renzo), Mario Bartoletti (Saro), Aldo Bussaglia (Berto), Roberto Mancia (Sandro), Franco Schiorlin (Scarpa), Gennaro Mesfun (Tripoli)

delinquenti che gli rivelano i segreti del sesso solamente per fargli un dispetto. La figura della madre è oramai compromessa e Agostino desidera affrancarsi da lei nonostante la sua giovane età.

Agostino, 1962

Agostino è in vacanza al mare con sua madre, una donna giovane e molto attraente. Tra i due c’è un legame fortissimo, quasi edipico, che dona al bambino l’illusione di essere l’unico uomo a possedere, in senso affettivo, la donna. Quando lei comincia a intrattenere un rapporto con un uomo, Agostino fugge via sconcertato e fa la conoscenza con una banda di piccoli 76

Tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, Agostino è un film sulla scoperta dolorosa del sesso da parte di un ragazzino tredicenne. Vedovo del padre, Agostino crede di essere l’unico uomo nella vita della giovane e attraente madre, splendidamente interpretata dal fascino nordico e “intoccabile” di Ingrid Thulin, una delle attrici feticcio di Ingmar Bergman. Con lei, Agostino tesse un legame tanto forte quanto puro che si esprime in un culto della sua saggezza e femminilità quasi eterea.

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

La sua illusione è destinata a infrangersi e lo farà in modo traumatico, con la scoperta della sessualità della madre e, soprattutto, gli sfottò dei ragazzi più poveri che, col loro disincanto popolare, impiegano poco tempo per dissacrare verbalmente la figura della ricca vedova, madre di Agostino. Trovandosi fortemente a disagio, Agostino desidera tagliare il cordone ombelicale per divenire adulto una volta per tutte e non soffrire più. Ciò, purtroppo, richiede del tempo e il ragazzino proverà invidia per il disincanto dei ragazzi più grandi e di estrazione sociale diversa dalla sua. Mauro Bolognini firma una regia essenziale, ferma sui volti di Agostino e di sua madre con alcune, pochissime, trovate, come le ripetute carrellate che evidenziano il senso di disagio del protagonista, altrimenti invisibile sul suo volto confuso. Ne risulta un film semplice ma onesto, che non parla solamente della scoperta dell’eros ma anche della vita borghese e del senso di smarrimento che prova un ragazzino cresciuto sotto una campana di vetro. Le emozioni di Agostino sono discrete come quelle di sua madre, una perfetta dama altolocata. Praticamente invisibili all’occhio, esse sono affidate per la gran parte alla musica firmata da Carlo Rustichelli, un pianoforte che oscilla tra i brani malinconici e gli spietati accordi dissonanti che picchiano duro quando la sensazione di impurità assale Agostino, confondendolo e facendogli desiderare di essere grande. Il film di Bolognini riesce bene nel visualizzare il disagio interiore del ragazzo senza ricorrere a espedienti facili ma usando il commento sonoro in modo efficace e citando brani del romanzo.

Sufficientemente grande per intuire ma troppo giovane per risolvere i suoi problemi rendendo libera la propria sessualità, il ragazzino entra nell’adolescenza in modo brusco e, privo della pellaccia dura dei suoi nuovi amichetti delinquenti, egli è destinato ad anni di disorientamento per assestare la propria identità di uomo. Agostino non racconta questi anni ma immortala solamente il momento del (simbolico) svezzamento e dell’entrata nella fase più complessa della vita; è quindi un film privo di risoluzione che turba particolarmente lo spettatore proprio per i toni drammatici e per nulla concilianti. Questa indole non compromissoria, ereditata dal romanzo di Moravia, è resa ancora più forte dall’ottimo casting – la scelta di Ingrid Thulin è di quelle che da sole determinano la riuscita di un film – e dall’interpretazione di Paolo Colombo, essenziale e mai lacrimevole. Oggi, Agostino è un film poco ricordato ma ancora rilevante per la sua volontà di problematizzare l’ingresso nell’età adolescenziale senza scadere nel faceto o nei sentimentalismi facili.

CAPITOLO C

STEFANO LALLA

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<- I GIROVAGHI Regia: Hugo Fregonese p. 74

Arcipelago C

-> NOSTOS–IL RITORNO Regia: Franco Piavioli p. 78

Agostino Regia: Mauro Bolognini Produzione: Baltea Film Soggetto: dal romanzo Distribuzione: Dino Agostino di Alberto Moravia De Laurentiis Distribuzione Sceneggiatura: Mauro Bolognini, Origine: Italia 1962 Goffredo Parise Durata: 90’ Fotografia: Aldo Tonti Montaggio: Nino Baragli Scenografia: Maurizio Chiari Costumi: Maurizio Chiari Musiche: Carlo Rustichelli

Interpreti: Paolo Colombo (Agostino), Ingrid Thulin (la madre di Agostino), John Saxon (Renzo), Mario Bartoletti (Saro), Aldo Bussaglia (Berto), Roberto Mancia (Sandro), Franco Schiorlin (Scarpa), Gennaro Mesfun (Tripoli)

delinquenti che gli rivelano i segreti del sesso solamente per fargli un dispetto. La figura della madre è oramai compromessa e Agostino desidera affrancarsi da lei nonostante la sua giovane età.

Agostino, 1962

Agostino è in vacanza al mare con sua madre, una donna giovane e molto attraente. Tra i due c’è un legame fortissimo, quasi edipico, che dona al bambino l’illusione di essere l’unico uomo a possedere, in senso affettivo, la donna. Quando lei comincia a intrattenere un rapporto con un uomo, Agostino fugge via sconcertato e fa la conoscenza con una banda di piccoli 76

Tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, Agostino è un film sulla scoperta dolorosa del sesso da parte di un ragazzino tredicenne. Vedovo del padre, Agostino crede di essere l’unico uomo nella vita della giovane e attraente madre, splendidamente interpretata dal fascino nordico e “intoccabile” di Ingrid Thulin, una delle attrici feticcio di Ingmar Bergman. Con lei, Agostino tesse un legame tanto forte quanto puro che si esprime in un culto della sua saggezza e femminilità quasi eterea.

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

La sua illusione è destinata a infrangersi e lo farà in modo traumatico, con la scoperta della sessualità della madre e, soprattutto, gli sfottò dei ragazzi più poveri che, col loro disincanto popolare, impiegano poco tempo per dissacrare verbalmente la figura della ricca vedova, madre di Agostino. Trovandosi fortemente a disagio, Agostino desidera tagliare il cordone ombelicale per divenire adulto una volta per tutte e non soffrire più. Ciò, purtroppo, richiede del tempo e il ragazzino proverà invidia per il disincanto dei ragazzi più grandi e di estrazione sociale diversa dalla sua. Mauro Bolognini firma una regia essenziale, ferma sui volti di Agostino e di sua madre con alcune, pochissime, trovate, come le ripetute carrellate che evidenziano il senso di disagio del protagonista, altrimenti invisibile sul suo volto confuso. Ne risulta un film semplice ma onesto, che non parla solamente della scoperta dell’eros ma anche della vita borghese e del senso di smarrimento che prova un ragazzino cresciuto sotto una campana di vetro. Le emozioni di Agostino sono discrete come quelle di sua madre, una perfetta dama altolocata. Praticamente invisibili all’occhio, esse sono affidate per la gran parte alla musica firmata da Carlo Rustichelli, un pianoforte che oscilla tra i brani malinconici e gli spietati accordi dissonanti che picchiano duro quando la sensazione di impurità assale Agostino, confondendolo e facendogli desiderare di essere grande. Il film di Bolognini riesce bene nel visualizzare il disagio interiore del ragazzo senza ricorrere a espedienti facili ma usando il commento sonoro in modo efficace e citando brani del romanzo.

Sufficientemente grande per intuire ma troppo giovane per risolvere i suoi problemi rendendo libera la propria sessualità, il ragazzino entra nell’adolescenza in modo brusco e, privo della pellaccia dura dei suoi nuovi amichetti delinquenti, egli è destinato ad anni di disorientamento per assestare la propria identità di uomo. Agostino non racconta questi anni ma immortala solamente il momento del (simbolico) svezzamento e dell’entrata nella fase più complessa della vita; è quindi un film privo di risoluzione che turba particolarmente lo spettatore proprio per i toni drammatici e per nulla concilianti. Questa indole non compromissoria, ereditata dal romanzo di Moravia, è resa ancora più forte dall’ottimo casting – la scelta di Ingrid Thulin è di quelle che da sole determinano la riuscita di un film – e dall’interpretazione di Paolo Colombo, essenziale e mai lacrimevole. Oggi, Agostino è un film poco ricordato ma ancora rilevante per la sua volontà di problematizzare l’ingresso nell’età adolescenziale senza scadere nel faceto o nei sentimentalismi facili.

CAPITOLO C

STEFANO LALLA

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Arcipelago C

<- AGOSTINO Regia: Mauro Bolognini p. 76

-> BÀRNABO DELLE MONTAGNE Regia: Mario Brenta p. 80

Nostos–Il ritorno Regia: Franco Piavoli Soggetto e sceneggiatura: Franco Piavoli Fotografia: Franco Piavoli Montaggio: Franco Piavoli Scenografia: Ferruccio Bolognesi Costumi: Ferruccio Bolognesi Musiche: Giuseppe Mazzuca, Luca Tessadrelli

Produzione: Zefiro Film, Immagininazione Distribuzione: Mikado Film Origine: Italia 1989 Durata: 87’ Premi: Festival di Djerba (1990): Premio OPL Moti Ibrahim; Premio AIACE (1990)

Interpreti: Luigi Mezzanotte (Odisseo), Branca de Camargo (Calipso), Alex Carozzo, Mariella Fabbris, Giuseppe Marcoli, Paola Agosti, Alessandro Agosti, Ginevra Alighieri, Roberto Terasco

natura, nella nostalgia di un’innocenza lontana. Disperso fino a riconoscersi tra le forze misteriose dell’universo che l’ha generato, l’uomo naufraga sull’isola di un nuovo popolo, che lo restituisce alla civiltà. Secondo lungometraggio di Franco Piavoli sette anni dopo il plaudito Nostos–Il ritorno, 1989 esordio de Il pianeta azzurro (1982), L’erratico ritorno per mare di Nostos – Il ritorno è una rivisitazione un eroe antico, reduce da una guerra personale del mito di Ulisse narrato da sanguinosa e destinato a molte Omero nella celebre Odissea. Fedele a peregrinazioni prima di approdare un modello di lavoro artigianale, dove nuovamente al mondo degli uomini. tutti i ruoli tecnici e le tappe creative Il ricordo delle feroci battaglie, la perdita sono risolti nella figura del regista, Piavoli dei propri compagni, la passione inattesa rimodella l’epopea antica in un’ottica e insopprimibile per una ninfa: sono esistenzialista e fortemente simbolica, i capitoli di un viaggio segnato dalla riuscendo nell’impresa di sintetizzare solitudine di un profondo dialogo con la il racconto di battaglie, meraviglie e 78

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

infinite peregrinazioni nella messinscena elementare e cristallina di un naturalismo primario. Al bando gli screzi tra uomini e divinità, gli incontri al confine con la magia e il soprannaturale, le prove dell’eroe intese come riflesso delle implicazioni psicologiche che ne muovono o frenano il cammino. Al bando la parola stessa, in luogo della quale si profila il ricorso più che scarno a un grammelot prossimo al greco arcaico, impastato coi suoni incessanti di un mondo dominato dalle forze della natura. È proprio la relazione tra Uomo e Natura al centro di questo mirabile distillato di intensa purezza visiva: Ulisse, qui guerriero senza nome, ha un solo vero controcampo, quello del mondo che l’ha generato e per molti anni lo ha impegnato, con cinismo e spietatezza, in una guerra priva di senso. Il ritorno a casa, labirintico gioco di attese e smarrimenti, diventa così un processo di graduale e sempre più profonda riconciliazione con il creato, allo stupore per il quale l’uomo intreccia, indissolubilmente, le trame di una memoria divisa tra passato e futuro: l’innocenza perduta dei giochi del bambino, la proiezione psichica di un percorso finito entro l’ordito indefinito del tempo. Attraverso il corpo e il volto di Luigi Mezzanotte, attore molto presente nel teatro di Carmelo Bene, Piavoli codifica la tensione personalissima di uno sguardo animato da una domanda di senso. La Natura, madre primigenia, è restituita attraverso i simboli di un paesaggio italiano qui elevato a teatro universale: la caverna come ventre a cui poter ritornare, oppure l’enorme luna riflessa sul mare, simile all’ovulo femminile

che il naufrago può sognare di sfiorare e abitare. Il viaggio dell’eroe per come lo conosciamo da Omero si trasforma dunque in radicale itinerario interiore, fondato tanto per il personaggio quanto per lo spettatore sulla fascinazione magnetica della percezione. Che questo poema visivo connetta l’atto di sondare le immagini della realtà a una complessa e stratificata solitudine, oscillante tra la dimensione della lotta e quella dell’oblio, il rimorso della violenza e l’urgenza della passione amorosa, sembrerebbe necessario catalizzatore lirico di un film per vocazione essenziale ed ecologico, attentissimo alla costruzione dell’immagine ma capace di eluderne ogni rischio di maniera. La lezione della concretezza e quella dell’astrazione entrano così in virtuoso dialogo per raccontare la catarsi umana nella geografia dell’esistenza e della temporalità, parabola ineludibile per poter approdare, rinnovati, alla civiltà, agli affetti, e nuovamente alla propria condizione d’origine.

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MARCO LONGO

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Arcipelago C

<- AGOSTINO Regia: Mauro Bolognini p. 76

-> BÀRNABO DELLE MONTAGNE Regia: Mario Brenta p. 80

Nostos–Il ritorno Regia: Franco Piavoli Soggetto e sceneggiatura: Franco Piavoli Fotografia: Franco Piavoli Montaggio: Franco Piavoli Scenografia: Ferruccio Bolognesi Costumi: Ferruccio Bolognesi Musiche: Giuseppe Mazzuca, Luca Tessadrelli

Produzione: Zefiro Film, Immagininazione Distribuzione: Mikado Film Origine: Italia 1989 Durata: 87’ Premi: Festival di Djerba (1990): Premio OPL Moti Ibrahim; Premio AIACE (1990)

Interpreti: Luigi Mezzanotte (Odisseo), Branca de Camargo (Calipso), Alex Carozzo, Mariella Fabbris, Giuseppe Marcoli, Paola Agosti, Alessandro Agosti, Ginevra Alighieri, Roberto Terasco

natura, nella nostalgia di un’innocenza lontana. Disperso fino a riconoscersi tra le forze misteriose dell’universo che l’ha generato, l’uomo naufraga sull’isola di un nuovo popolo, che lo restituisce alla civiltà. Secondo lungometraggio di Franco Piavoli sette anni dopo il plaudito Nostos–Il ritorno, 1989 esordio de Il pianeta azzurro (1982), L’erratico ritorno per mare di Nostos – Il ritorno è una rivisitazione un eroe antico, reduce da una guerra personale del mito di Ulisse narrato da sanguinosa e destinato a molte Omero nella celebre Odissea. Fedele a peregrinazioni prima di approdare un modello di lavoro artigianale, dove nuovamente al mondo degli uomini. tutti i ruoli tecnici e le tappe creative Il ricordo delle feroci battaglie, la perdita sono risolti nella figura del regista, Piavoli dei propri compagni, la passione inattesa rimodella l’epopea antica in un’ottica e insopprimibile per una ninfa: sono esistenzialista e fortemente simbolica, i capitoli di un viaggio segnato dalla riuscendo nell’impresa di sintetizzare solitudine di un profondo dialogo con la il racconto di battaglie, meraviglie e 78

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

infinite peregrinazioni nella messinscena elementare e cristallina di un naturalismo primario. Al bando gli screzi tra uomini e divinità, gli incontri al confine con la magia e il soprannaturale, le prove dell’eroe intese come riflesso delle implicazioni psicologiche che ne muovono o frenano il cammino. Al bando la parola stessa, in luogo della quale si profila il ricorso più che scarno a un grammelot prossimo al greco arcaico, impastato coi suoni incessanti di un mondo dominato dalle forze della natura. È proprio la relazione tra Uomo e Natura al centro di questo mirabile distillato di intensa purezza visiva: Ulisse, qui guerriero senza nome, ha un solo vero controcampo, quello del mondo che l’ha generato e per molti anni lo ha impegnato, con cinismo e spietatezza, in una guerra priva di senso. Il ritorno a casa, labirintico gioco di attese e smarrimenti, diventa così un processo di graduale e sempre più profonda riconciliazione con il creato, allo stupore per il quale l’uomo intreccia, indissolubilmente, le trame di una memoria divisa tra passato e futuro: l’innocenza perduta dei giochi del bambino, la proiezione psichica di un percorso finito entro l’ordito indefinito del tempo. Attraverso il corpo e il volto di Luigi Mezzanotte, attore molto presente nel teatro di Carmelo Bene, Piavoli codifica la tensione personalissima di uno sguardo animato da una domanda di senso. La Natura, madre primigenia, è restituita attraverso i simboli di un paesaggio italiano qui elevato a teatro universale: la caverna come ventre a cui poter ritornare, oppure l’enorme luna riflessa sul mare, simile all’ovulo femminile

che il naufrago può sognare di sfiorare e abitare. Il viaggio dell’eroe per come lo conosciamo da Omero si trasforma dunque in radicale itinerario interiore, fondato tanto per il personaggio quanto per lo spettatore sulla fascinazione magnetica della percezione. Che questo poema visivo connetta l’atto di sondare le immagini della realtà a una complessa e stratificata solitudine, oscillante tra la dimensione della lotta e quella dell’oblio, il rimorso della violenza e l’urgenza della passione amorosa, sembrerebbe necessario catalizzatore lirico di un film per vocazione essenziale ed ecologico, attentissimo alla costruzione dell’immagine ma capace di eluderne ogni rischio di maniera. La lezione della concretezza e quella dell’astrazione entrano così in virtuoso dialogo per raccontare la catarsi umana nella geografia dell’esistenza e della temporalità, parabola ineludibile per poter approdare, rinnovati, alla civiltà, agli affetti, e nuovamente alla propria condizione d’origine.

CAPITOLO C

MARCO LONGO

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<- NOSTOS–IL RITORNO Regia: Franco Piavioli p. 78

Arcipelago C

-> L’ATTESA Regia: Piero Messina p. 82

Bàrnabo delle montagne Regia: Mario Brenta Soggetto: dal romanzo Bàrnabo delle montagne di Dino Buzzati Sceneggiatura: Mario Brenta, Angelo Pasquini, Francesco Alberti, Enrico Soci Fotografia: Vincenzo Marano Montaggio: Roberto Missiroli Scenografia: Giorgio Bertolini Costumi: Paola Rossetti Musiche: Stefano Caprioli Produzione: Nautilus Film, Les Films Number One, T&C AG Film Zurigo

Distribuzione: Istituto Luce Origine: Italia, Francia, Svizzera 1994 Durata: 118’ Premi: Premio Italia della Presidenza del Consiglio (1995); Ciak d’Oro (1995): Migliori Costumi (Paola Rossetti); Nestor Almendros (1995): Premio alla Fotografia (Vincenzo Marano); Festival Internazionale film della montagna di Trento (1995): Primo premio; Festival de Gramado (1994): Premio della Critica e Miglior Regista (Mario Brenta); Cinemed (1994): Antigone d’Oro

Interpreti: Marco Pauletti (Bàrnabo), Carlo Caserotti (Molo), Angelo Chiesura (Del Colle), Duilio Fontana (Berton), Alessandra Milan (Ines), Marco Tonin (Darrio), Antonio Vecellio (Marden), Pino Tosca (Emigrante), Alessandro Uccelli (Giovane Emigrante)

bracconieri, segnando per sempre la sua credibilità e la sua vita. Rimasto solo lascerà per un po’ la montagna, per poi farvi ritorno quando nessuno sarà più disposto a ricoprire quel ruolo. Bàrnabo delle montagne è una delle rare opere con cui si potrebbe spiegare l’essenza del cinema. Le sue Bàrnabo delle montagne, 1994 immagini contengono decenni di arte Bàrnabo trova lavoro come cinematografica, il suo suono è una guardiaboschi nell’area di Cadore. partitura contrappuntistica per orchestra È riservato e schivo, ma soprattutto ha e suoni concreti che non sfigurerebbe un profondo rispetto per la natura nei cataloghi di musica contemporanea. e per le sue creature, ponendosi in netta Al Festival di Cannes del 1994 in molti, distanza rispetto agli uomini che lo accecati da altri fuochi, non ne videro la circondano, spregiudicati, scontrosi grandezza, ma tra questi non c’era Pupi e in fondo contraddittori. La sua rigorosa Avati che da giurato sostenne fortemente inoffensività però lo induce a non aiutare la sua pacata ma irrompente profondità. un collega in una sparatoria con dei Il soggetto è tratto dal primo 80

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

romanzo di Dino Buzzati, pubblicato nel 1933, dove i temi della solitudine, dell’attesa, dell’incerta finalità dell’esistere, tipici dell’autore, sono già tutti presenti e prefigurano, con molte coincidenze, Il deserto dei Tartari. L’operazione di Brenta e collaboratori puntò a ridurre fino all’essenzialità gli elementi del romanzo, a scarnificare ogni dialogo, ogni evento. Ciò che resta è una serie di simboli purissimi, che tra l’economia del racconto e la generosità di dettagli, intessono un dialogo esigente con lo spettatore, il quale non può fermarsi al ruolo passivo di ricettore: Bàrnabo delle montagne richiede, pretende e merita una “audiovisione”, secondo la terminologia di Chion. “Le immagini e i suoni sono come stranieri che si incontrano in un viaggio dopo il quale non riescono a separarsi”, lo scrisse Bresson e sembra averlo scritto a proposito del film di Brenta. Se mancasse l’audio per qualche istante le immagini da sole basterebbero, da sole raccontano, come se il film avesse dentro di sé un altro film, un film muto. L’indugiare sugli sguardi, le azioni mostrate nei minimi particolari, i gesti definiti, l’assenza di ambiguità, discendono direttamente da quei padri illustri. Ma allo stesso modo se chiudessimo gli occhi i suoni sarebbero una guida perfetta, descriverebbero un paesaggio sonoro ampio, articolato, vitale, denso quanto le immagini. A tratti sembra quasi di ascoltare troppo, invertendo il tipo di fruizione cui siamo abituati: il suono sembra attirarci ad un “ascolto ridotto”, un ascolto indipendente innamorato del suono stesso. Così Bàrnabo delle montagne

invita insistentemente a porsi le domande: “Quanto ascolto di ciò che vedo?” e “Quanto vedo di ciò che ascolto?”. Ogni visione di quest’opera, basata su premesse differenti, sarebbe riduttiva. Un bagaglio tecnico così ricco e intrigante, così sostanziale, riesce a non essere un ostacolo, né un tecnicismo, tutto è bensì indirizzato in funzione simbolica e narrativa, basti guardare ai viaggi in treno che aprono le tre sezioni del film. Essi indicano un cambio di ambiente, l’emergere di incertezze, la rimessa in discussione del ruolo che Bàrnabo sente come proprio, e ciascuno dei tre è una subitanea esplosione sonora e visiva che contrasta fortemente con le immagini prevalentemente statiche e con i suoni sparsi, ciascuno è un turbine nell’interiorità apparentemente serena di Bàrnabo. C’è chi ha visto nel film di Brenta un inno pacifista o un dramma vagamente ambientalista, ma categorizzarlo con un’etichetta, un’ideologia vorrebbe dire sovraccaricarlo, mentre il film stesso si disfa di zavorre narrative e stilistiche, restando agile, assoluto, libero. Proprio per questo riesce ad essere un film che non trasmette il peso della colpa o del rimorso: esso stesso non ha peso. Assomiglia molto più a quegli uccelli o a quelle vette verso cui Bàrnabo alza lo sguardo nei momenti in cui ha bisogno di ricordare a sé stesso che la natura umana sa e può essere alta, superiore agli spari tra i sassi, superiore ai giudizi e ai confini, superiore al tempo.

CAPITOLO C

ERASMO DE MEO

81


<- NOSTOS–IL RITORNO Regia: Franco Piavioli p. 78

Arcipelago C

-> L’ATTESA Regia: Piero Messina p. 82

Bàrnabo delle montagne Regia: Mario Brenta Soggetto: dal romanzo Bàrnabo delle montagne di Dino Buzzati Sceneggiatura: Mario Brenta, Angelo Pasquini, Francesco Alberti, Enrico Soci Fotografia: Vincenzo Marano Montaggio: Roberto Missiroli Scenografia: Giorgio Bertolini Costumi: Paola Rossetti Musiche: Stefano Caprioli Produzione: Nautilus Film, Les Films Number One, T&C AG Film Zurigo

Distribuzione: Istituto Luce Origine: Italia, Francia, Svizzera 1994 Durata: 118’ Premi: Premio Italia della Presidenza del Consiglio (1995); Ciak d’Oro (1995): Migliori Costumi (Paola Rossetti); Nestor Almendros (1995): Premio alla Fotografia (Vincenzo Marano); Festival Internazionale film della montagna di Trento (1995): Primo premio; Festival de Gramado (1994): Premio della Critica e Miglior Regista (Mario Brenta); Cinemed (1994): Antigone d’Oro

Interpreti: Marco Pauletti (Bàrnabo), Carlo Caserotti (Molo), Angelo Chiesura (Del Colle), Duilio Fontana (Berton), Alessandra Milan (Ines), Marco Tonin (Darrio), Antonio Vecellio (Marden), Pino Tosca (Emigrante), Alessandro Uccelli (Giovane Emigrante)

bracconieri, segnando per sempre la sua credibilità e la sua vita. Rimasto solo lascerà per un po’ la montagna, per poi farvi ritorno quando nessuno sarà più disposto a ricoprire quel ruolo. Bàrnabo delle montagne è una delle rare opere con cui si potrebbe spiegare l’essenza del cinema. Le sue Bàrnabo delle montagne, 1994 immagini contengono decenni di arte Bàrnabo trova lavoro come cinematografica, il suo suono è una guardiaboschi nell’area di Cadore. partitura contrappuntistica per orchestra È riservato e schivo, ma soprattutto ha e suoni concreti che non sfigurerebbe un profondo rispetto per la natura nei cataloghi di musica contemporanea. e per le sue creature, ponendosi in netta Al Festival di Cannes del 1994 in molti, distanza rispetto agli uomini che lo accecati da altri fuochi, non ne videro la circondano, spregiudicati, scontrosi grandezza, ma tra questi non c’era Pupi e in fondo contraddittori. La sua rigorosa Avati che da giurato sostenne fortemente inoffensività però lo induce a non aiutare la sua pacata ma irrompente profondità. un collega in una sparatoria con dei Il soggetto è tratto dal primo 80

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

romanzo di Dino Buzzati, pubblicato nel 1933, dove i temi della solitudine, dell’attesa, dell’incerta finalità dell’esistere, tipici dell’autore, sono già tutti presenti e prefigurano, con molte coincidenze, Il deserto dei Tartari. L’operazione di Brenta e collaboratori puntò a ridurre fino all’essenzialità gli elementi del romanzo, a scarnificare ogni dialogo, ogni evento. Ciò che resta è una serie di simboli purissimi, che tra l’economia del racconto e la generosità di dettagli, intessono un dialogo esigente con lo spettatore, il quale non può fermarsi al ruolo passivo di ricettore: Bàrnabo delle montagne richiede, pretende e merita una “audiovisione”, secondo la terminologia di Chion. “Le immagini e i suoni sono come stranieri che si incontrano in un viaggio dopo il quale non riescono a separarsi”, lo scrisse Bresson e sembra averlo scritto a proposito del film di Brenta. Se mancasse l’audio per qualche istante le immagini da sole basterebbero, da sole raccontano, come se il film avesse dentro di sé un altro film, un film muto. L’indugiare sugli sguardi, le azioni mostrate nei minimi particolari, i gesti definiti, l’assenza di ambiguità, discendono direttamente da quei padri illustri. Ma allo stesso modo se chiudessimo gli occhi i suoni sarebbero una guida perfetta, descriverebbero un paesaggio sonoro ampio, articolato, vitale, denso quanto le immagini. A tratti sembra quasi di ascoltare troppo, invertendo il tipo di fruizione cui siamo abituati: il suono sembra attirarci ad un “ascolto ridotto”, un ascolto indipendente innamorato del suono stesso. Così Bàrnabo delle montagne

invita insistentemente a porsi le domande: “Quanto ascolto di ciò che vedo?” e “Quanto vedo di ciò che ascolto?”. Ogni visione di quest’opera, basata su premesse differenti, sarebbe riduttiva. Un bagaglio tecnico così ricco e intrigante, così sostanziale, riesce a non essere un ostacolo, né un tecnicismo, tutto è bensì indirizzato in funzione simbolica e narrativa, basti guardare ai viaggi in treno che aprono le tre sezioni del film. Essi indicano un cambio di ambiente, l’emergere di incertezze, la rimessa in discussione del ruolo che Bàrnabo sente come proprio, e ciascuno dei tre è una subitanea esplosione sonora e visiva che contrasta fortemente con le immagini prevalentemente statiche e con i suoni sparsi, ciascuno è un turbine nell’interiorità apparentemente serena di Bàrnabo. C’è chi ha visto nel film di Brenta un inno pacifista o un dramma vagamente ambientalista, ma categorizzarlo con un’etichetta, un’ideologia vorrebbe dire sovraccaricarlo, mentre il film stesso si disfa di zavorre narrative e stilistiche, restando agile, assoluto, libero. Proprio per questo riesce ad essere un film che non trasmette il peso della colpa o del rimorso: esso stesso non ha peso. Assomiglia molto più a quegli uccelli o a quelle vette verso cui Bàrnabo alza lo sguardo nei momenti in cui ha bisogno di ricordare a sé stesso che la natura umana sa e può essere alta, superiore agli spari tra i sassi, superiore ai giudizi e ai confini, superiore al tempo.

CAPITOLO C

ERASMO DE MEO

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Arcipelago C

<- BÀRNABO DELLE MONTAGNE Regia: Mario Brenta p. 80

-> CAPITOLO D Spazio off p. 85

L’attesa Regia: Piero Messina Soggetto: liberamente tratto da La vita che ti diedi di Luigi Pirandello Sceneggiatura: Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, Andrea Paolo Massara, Piero Messina Fotografia: Francesco Di Giacomo Montaggio: Paola Freddi Scenografia: Marco Dentici Costumi: Maurizio Millenotti Musiche: Alma Napolitano, Marco Mangani

Produzione: Indigo Film, Medusa Film Distribuzione: Medusa Film Origine: Italia, Francia 2015 Durata: 95’ Premi: Globo d’Oro (2016): Miglior Opera Prima (Piero Messina); Nastri d’Argento (2016): Nastro d’Argento Europeo (Juliette Binoche)

Interpreti: Juliette Binoche (Anna), Lou de Laâge (Jeanne), Giorgio Colangeli (Pietro), Domenico Diele (Giorgio), Giovanni Anzaldo (Giuseppe), Corinna Lo Castro (Rosa), Antonio Folletto (Paolo)

con lei. I giorni passano, le due donne lentamente imparano a conoscersi e insieme iniziano ad aspettare la Pasqua, Giuseppe e la tradizionale processione del venerdì santo. Il dramma che ogni genitore non dovrebbe mai vivere. La realizzazione di una tragedia che è impossibile da L’attesa, 2015 accettare. La voglia, nonostante tutto, In un’antica villa nella campagna di non cambiare le abitudini quotidiane. siciliana, aspra ma nello stesso La vita che continua, sempre e comunque. tempo splendida, Anna, sconvolta E l’attesa, prima di ricominciare, che dall’improvvisa morte del figlio Giuseppe, sembra non finire mai. Di questo, e molto trascorre le sue giornate in solitudine. di più, ci viene raccontato nell’opera prima Un giorno però, arriva Jeanne, la fidanzata di Piero Messina, L’attesa, presentato di Giuseppe, la quale ignora la tragedia, in anteprima mondiale alla 72a Mostra e Anna non riuscendo ad accettare e del Cinema di Venezia, e liberamente dichiarare l’impronunciabile verità della ispirato a La vita che ti diedi di Luigi morte, la invita semplicemente a restare Pirandello, con una narrazione che 82

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

procede quasi a specchio per le due protagoniste, Anna (Julienne Binoche) e Jeanne (Lou de Laâge). La prima non riesce ad accettare la morte del figlio, la seconda, non sapendo della tragedia, pensa di essere stata lasciata dal fidanzato. In entrambi i casi, quindi, assistiamo ad una separazione evidente dalla realtà, ma è interessante il percorso dei due personaggi, rigorosamente femminili, nell’elaborazione della perdita. Una perdita silenziosa, inaccettabile, incolmabile, ma sempre così assordante. Messina, assistente alla regia di Paolo Sorrentino in This Must Be the Place (2011) e La Grande Bellezza (2013), dimostra di averne tratto insegnamento, ma portando sullo schermo le proprie idee. Dalla fotografia impeccabile di Francesco Di Giacomo, alla coinvolgente colonna sonora di Alma Napolitano e Marco Mangani, sono elementi che diventano ben presto caratteristici dell’opera ed entrano nel meccanismo vulnerabile della storia. Complice anche il forte richiamo che Messina ha con la propria terra, una Sicilia paesaggisticamente quasi inedita, dove il lago viene preferito al mare e l’Etna viene mostrato con le sue aride pendici in un ambiente comunque suggestivo e toccante. Un legame che traspare in ogni inquadratura, quasi fosse un sentimento da esprimere attraverso colori, sfumature e sensazioni, rese ancora più percettibili da una narrazione che fa dell’intimità il proprio valore aggiunto. Un percorso interiore totalizzante, quasi sospeso in una bolla fuori dal tempo e dalla realtà, evidenziato ulteriormente dal luogo in cui si svolge la storia: una villa antica, che ha pochi punti di riferimento,

se non per essere il teatro in cui si respira la tragedia. Eppure assistiamo alla negazione della morte e al rifiuto di essa, con tutta la coscienza lucida del caso. E a tramutare in sfumature le infinite sensazioni vissute ci pensa una Juliette Binoche in stato di grazia, che si porta dietro una Lou de Laâge brava a reggerne il confronto. Anche perché tra le due si crea un legame che sfida la realtà e la sorte, ma che nel finale trova quel distacco necessario ad affrontare nuovamente la vita. Messina, poi, si serve della caratteristica processione pasquale notturna come metafora della morte e resurrezione del figlio perduto, alimentando ancora di più un rapporto madre–figlio che ugualmente durerà per sempre. L’attesa è un’opera poetica che attraverso colori, esteticità e Waiting for The Miracle di Leonard Cohen, pone uno sguardo personale ed intimista ad un racconto di formazione che con semplicità e silenzi arriva prepotentemente nel cuore di chi, alla vita, dà sempre e comunque una seconda possibilità.

CAPITOLO C

MARTINA FARCI

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Arcipelago C

<- BÀRNABO DELLE MONTAGNE Regia: Mario Brenta p. 80

-> CAPITOLO D Spazio off p. 85

L’attesa Regia: Piero Messina Soggetto: liberamente tratto da La vita che ti diedi di Luigi Pirandello Sceneggiatura: Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, Andrea Paolo Massara, Piero Messina Fotografia: Francesco Di Giacomo Montaggio: Paola Freddi Scenografia: Marco Dentici Costumi: Maurizio Millenotti Musiche: Alma Napolitano, Marco Mangani

Produzione: Indigo Film, Medusa Film Distribuzione: Medusa Film Origine: Italia, Francia 2015 Durata: 95’ Premi: Globo d’Oro (2016): Miglior Opera Prima (Piero Messina); Nastri d’Argento (2016): Nastro d’Argento Europeo (Juliette Binoche)

Interpreti: Juliette Binoche (Anna), Lou de Laâge (Jeanne), Giorgio Colangeli (Pietro), Domenico Diele (Giorgio), Giovanni Anzaldo (Giuseppe), Corinna Lo Castro (Rosa), Antonio Folletto (Paolo)

con lei. I giorni passano, le due donne lentamente imparano a conoscersi e insieme iniziano ad aspettare la Pasqua, Giuseppe e la tradizionale processione del venerdì santo. Il dramma che ogni genitore non dovrebbe mai vivere. La realizzazione di una tragedia che è impossibile da L’attesa, 2015 accettare. La voglia, nonostante tutto, In un’antica villa nella campagna di non cambiare le abitudini quotidiane. siciliana, aspra ma nello stesso La vita che continua, sempre e comunque. tempo splendida, Anna, sconvolta E l’attesa, prima di ricominciare, che dall’improvvisa morte del figlio Giuseppe, sembra non finire mai. Di questo, e molto trascorre le sue giornate in solitudine. di più, ci viene raccontato nell’opera prima Un giorno però, arriva Jeanne, la fidanzata di Piero Messina, L’attesa, presentato di Giuseppe, la quale ignora la tragedia, in anteprima mondiale alla 72a Mostra e Anna non riuscendo ad accettare e del Cinema di Venezia, e liberamente dichiarare l’impronunciabile verità della ispirato a La vita che ti diedi di Luigi morte, la invita semplicemente a restare Pirandello, con una narrazione che 82

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

procede quasi a specchio per le due protagoniste, Anna (Julienne Binoche) e Jeanne (Lou de Laâge). La prima non riesce ad accettare la morte del figlio, la seconda, non sapendo della tragedia, pensa di essere stata lasciata dal fidanzato. In entrambi i casi, quindi, assistiamo ad una separazione evidente dalla realtà, ma è interessante il percorso dei due personaggi, rigorosamente femminili, nell’elaborazione della perdita. Una perdita silenziosa, inaccettabile, incolmabile, ma sempre così assordante. Messina, assistente alla regia di Paolo Sorrentino in This Must Be the Place (2011) e La Grande Bellezza (2013), dimostra di averne tratto insegnamento, ma portando sullo schermo le proprie idee. Dalla fotografia impeccabile di Francesco Di Giacomo, alla coinvolgente colonna sonora di Alma Napolitano e Marco Mangani, sono elementi che diventano ben presto caratteristici dell’opera ed entrano nel meccanismo vulnerabile della storia. Complice anche il forte richiamo che Messina ha con la propria terra, una Sicilia paesaggisticamente quasi inedita, dove il lago viene preferito al mare e l’Etna viene mostrato con le sue aride pendici in un ambiente comunque suggestivo e toccante. Un legame che traspare in ogni inquadratura, quasi fosse un sentimento da esprimere attraverso colori, sfumature e sensazioni, rese ancora più percettibili da una narrazione che fa dell’intimità il proprio valore aggiunto. Un percorso interiore totalizzante, quasi sospeso in una bolla fuori dal tempo e dalla realtà, evidenziato ulteriormente dal luogo in cui si svolge la storia: una villa antica, che ha pochi punti di riferimento,

se non per essere il teatro in cui si respira la tragedia. Eppure assistiamo alla negazione della morte e al rifiuto di essa, con tutta la coscienza lucida del caso. E a tramutare in sfumature le infinite sensazioni vissute ci pensa una Juliette Binoche in stato di grazia, che si porta dietro una Lou de Laâge brava a reggerne il confronto. Anche perché tra le due si crea un legame che sfida la realtà e la sorte, ma che nel finale trova quel distacco necessario ad affrontare nuovamente la vita. Messina, poi, si serve della caratteristica processione pasquale notturna come metafora della morte e resurrezione del figlio perduto, alimentando ancora di più un rapporto madre–figlio che ugualmente durerà per sempre. L’attesa è un’opera poetica che attraverso colori, esteticità e Waiting for The Miracle di Leonard Cohen, pone uno sguardo personale ed intimista ad un racconto di formazione che con semplicità e silenzi arriva prepotentemente nel cuore di chi, alla vita, dà sempre e comunque una seconda possibilità.

CAPITOLO C

MARTINA FARCI

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 85–99 Spazio off ⁄ Sedimenti. Folclore e credenze nel cinema italiano indipendente

Capitolo D 85


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 85–99 Spazio off ⁄ Sedimenti. Folclore e credenze nel cinema italiano indipendente

Capitolo D 85


-> CUORI PURI Regia: Roberto De Paolis p. 88

Spazio off D

Sedimenti. Folclore e credenze nel cinema italiano indipendente È da anni che il “nuovo cinema italiano” lavora fuori dai luoghi ufficiali della cinematografia mainstream, come a stipulare un patto di bio–diversità con lo spettatore, che lo tenga lontano dalle formule produttive e narrative più standardizzate. Ma basta l’elemento geografico, o “glocal”, per appuntarsi al petto la medaglia della creazione alternativa? Ovviamente no, ed ecco perché quest’anno, e negli ultimi tempi, sembra essersi fatta strada una nuova sensibilità antropologica che – tra finzione e documentario, o situandosi nell’area sensibile del cinema del reale – offre spazi inediti dal punto di vista poetico e stilistico. Abbiamo scelto alcuni film che testimoniano di questa indagine, capace di illuminare anfratti oscuri della civiltà italiana e ricostruire storie che ci ricordano come il folclorico, anche se sepolto sotto strati di modernizzazione e contemporaneità, sembra sopravvivere (e anzi moltiplicarsi). Alcuni di questi film parlando di religione, e l’accostamento non deve apparire nemmeno lontanamente blasfemo. Pensiamo al documentario di Angelita Fiore, Uomini di Dio, dove si racconta con grande pudore una comunità quasi invisibile, spesso confusa con il mondo della vergogna o della barzelletta facile: i preti spretati, che hanno lasciato il sacerdozio per 86

amore, e che cercano la loro vita nel mondo. “Del mondo” fanno anche parte le persone non appartenenti alla congregazione dei testimoni di Geova, al centro dell’omonimo La ragazza del mondo (David di Donatello per la Miglior Opera Prima). Qui, fin dal titolo, il regista Marco Danieli suggerisce il paradosso di questi universi sostanzialmente chiusi, che guardano all’esterno solo per cercare forme di evangelizzazione. Il mondo è fuori, come se fosse un dispetto, mentre i fedeli sono dentro al proprio credo, ignari della sproporzione di questo dualismo. La veemenza del sentimento amoroso funge da testa d’ariete perché si accenda la miccia tra una pecora smarrita e un ragazzo che vive in altri margini, questa volta sociali. Un tema, quello dell’attrazione per un ragazzo e per una sessualità sempre soffocata, che riguarda anche la protagonista di Cuori puri di Roberto De Paolis, a suo modo simile alla pellicola di Danieli. In questo caso una giovane donna cattolica, convinta dei dettami di castità del suo gruppo di credenti, comincia a veder vacillare i suoi convincimenti dalla comparsa di un altro giovane precario, che di muri e di incomunicabilità se ne intende, visto che fa il guardiano in un parcheggio limitrofo a un parco rom. Piccole patrie, come sempre, dove la dimensione territoriale sfrega contro

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

quella comunitaria, dove la religione sembra l’ultima salvezza dentro un’Italia dalle scarse prospettive, specialmente per i giovani protagonisti. La religione arriva a diventare welfare in Liberami, il documentario di Federica Di Giacomo che ha vinto Orizzonti a Venezia 2016. Con la sua indagine del fenomeno degli esorcismi nel Sud Italia, la regista opta per l’analisi del personaggio del guaritore dal demonio, figura che il cinema dell’orrore e del soprannaturale ha spinto all’estremo dell’iconicità e che dunque deve essere calata nel mondo reale. Padre Cataldo diviene via via il catalizzatore di un universo precario e sotterraneo, sostenendo poveri di spirito e persone senza prospettive, prestandosi a momenti ambigui, lugubri, così come a situazioni grottesche – l’esorcismo per telefono è un momento che sarebbe piaciuto ai padri della commedia all’italiana. L’horror, comunque, è un’opzione possibile. Pensiamo a In fondo al bosco, dove il mito del Krampus e le feste gotiche del Nord Italia suggeriscono una tensione tra razionalità e soprannaturale che rimane sospesa per quasi tutto il film, come richiede il genere fantastico. E anche Indivisibili, pluri premiata opera seconda di Edoardo De Angelis, esplora un Sud dove la carriera di cantanti di due gemelle siamesi sfocia in una religione laica cui le due icone non possono sottrarsi, se non a costi di dolori spaventosi. Tra Ferreri e Tod Browning, il film mette in gioco una visionarietà che – pigiando sulla deformazione continua del folk tale contemporaneo – si offre al rischio di eccesso, ovviamente benvenuto in un contesto altrimenti monocorde.

Insomma, il cinema italiano rivela la resistenza di certi paganesimi e di modelli radicali di fede, nel cuore profondo della cultura italiana e nelle zone più marginali della sua tradizione. Indagando il passato – come nella caccia al “mostro” di La pelle dell’orso ambientata in Val di Zoldo a fine anni Cinquanta – scopriamo radici difficili da estirpare. Che sia il cinema italiano off a scavare a mani nude (ovvero a budget ridotto) in questo terreno nascosto è una piccola grande soddisfazione.

CAPITOLO D

ROY MENARINI

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-> CUORI PURI Regia: Roberto De Paolis p. 88

Spazio off D

Sedimenti. Folclore e credenze nel cinema italiano indipendente È da anni che il “nuovo cinema italiano” lavora fuori dai luoghi ufficiali della cinematografia mainstream, come a stipulare un patto di bio–diversità con lo spettatore, che lo tenga lontano dalle formule produttive e narrative più standardizzate. Ma basta l’elemento geografico, o “glocal”, per appuntarsi al petto la medaglia della creazione alternativa? Ovviamente no, ed ecco perché quest’anno, e negli ultimi tempi, sembra essersi fatta strada una nuova sensibilità antropologica che – tra finzione e documentario, o situandosi nell’area sensibile del cinema del reale – offre spazi inediti dal punto di vista poetico e stilistico. Abbiamo scelto alcuni film che testimoniano di questa indagine, capace di illuminare anfratti oscuri della civiltà italiana e ricostruire storie che ci ricordano come il folclorico, anche se sepolto sotto strati di modernizzazione e contemporaneità, sembra sopravvivere (e anzi moltiplicarsi). Alcuni di questi film parlando di religione, e l’accostamento non deve apparire nemmeno lontanamente blasfemo. Pensiamo al documentario di Angelita Fiore, Uomini di Dio, dove si racconta con grande pudore una comunità quasi invisibile, spesso confusa con il mondo della vergogna o della barzelletta facile: i preti spretati, che hanno lasciato il sacerdozio per 86

amore, e che cercano la loro vita nel mondo. “Del mondo” fanno anche parte le persone non appartenenti alla congregazione dei testimoni di Geova, al centro dell’omonimo La ragazza del mondo (David di Donatello per la Miglior Opera Prima). Qui, fin dal titolo, il regista Marco Danieli suggerisce il paradosso di questi universi sostanzialmente chiusi, che guardano all’esterno solo per cercare forme di evangelizzazione. Il mondo è fuori, come se fosse un dispetto, mentre i fedeli sono dentro al proprio credo, ignari della sproporzione di questo dualismo. La veemenza del sentimento amoroso funge da testa d’ariete perché si accenda la miccia tra una pecora smarrita e un ragazzo che vive in altri margini, questa volta sociali. Un tema, quello dell’attrazione per un ragazzo e per una sessualità sempre soffocata, che riguarda anche la protagonista di Cuori puri di Roberto De Paolis, a suo modo simile alla pellicola di Danieli. In questo caso una giovane donna cattolica, convinta dei dettami di castità del suo gruppo di credenti, comincia a veder vacillare i suoi convincimenti dalla comparsa di un altro giovane precario, che di muri e di incomunicabilità se ne intende, visto che fa il guardiano in un parcheggio limitrofo a un parco rom. Piccole patrie, come sempre, dove la dimensione territoriale sfrega contro

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

quella comunitaria, dove la religione sembra l’ultima salvezza dentro un’Italia dalle scarse prospettive, specialmente per i giovani protagonisti. La religione arriva a diventare welfare in Liberami, il documentario di Federica Di Giacomo che ha vinto Orizzonti a Venezia 2016. Con la sua indagine del fenomeno degli esorcismi nel Sud Italia, la regista opta per l’analisi del personaggio del guaritore dal demonio, figura che il cinema dell’orrore e del soprannaturale ha spinto all’estremo dell’iconicità e che dunque deve essere calata nel mondo reale. Padre Cataldo diviene via via il catalizzatore di un universo precario e sotterraneo, sostenendo poveri di spirito e persone senza prospettive, prestandosi a momenti ambigui, lugubri, così come a situazioni grottesche – l’esorcismo per telefono è un momento che sarebbe piaciuto ai padri della commedia all’italiana. L’horror, comunque, è un’opzione possibile. Pensiamo a In fondo al bosco, dove il mito del Krampus e le feste gotiche del Nord Italia suggeriscono una tensione tra razionalità e soprannaturale che rimane sospesa per quasi tutto il film, come richiede il genere fantastico. E anche Indivisibili, pluri premiata opera seconda di Edoardo De Angelis, esplora un Sud dove la carriera di cantanti di due gemelle siamesi sfocia in una religione laica cui le due icone non possono sottrarsi, se non a costi di dolori spaventosi. Tra Ferreri e Tod Browning, il film mette in gioco una visionarietà che – pigiando sulla deformazione continua del folk tale contemporaneo – si offre al rischio di eccesso, ovviamente benvenuto in un contesto altrimenti monocorde.

Insomma, il cinema italiano rivela la resistenza di certi paganesimi e di modelli radicali di fede, nel cuore profondo della cultura italiana e nelle zone più marginali della sua tradizione. Indagando il passato – come nella caccia al “mostro” di La pelle dell’orso ambientata in Val di Zoldo a fine anni Cinquanta – scopriamo radici difficili da estirpare. Che sia il cinema italiano off a scavare a mani nude (ovvero a budget ridotto) in questo terreno nascosto è una piccola grande soddisfazione.

CAPITOLO D

ROY MENARINI

87


-> INDIVISIBILI Regia: Edoardo De Angelis p. 90

Spazio off D

Cuori puri Regia: Roberto De Paolis Soggetto: Luca Infascelli, Roberto De Paolis, Carlo Salsa Sceneggiatura: Luca Infascelli, Roberto De Paolis, Carlo Salsa, Greta Scicchitano Fotografia: Claudio Cofrancesco Montaggio: Paola Freddi Scenografia: Rachele Meliadò Costumi: Loredana Buscemi Musiche: Emanuele De Raymondi

Produzione: Young Films, Rai Cinema Distribuzione: Cinema Origine: Italia 2017 Durata: 115’ Premi: Nastri d’Argento (2017): Premio “Graziella Bonacchi” (Simone Liberati)

Interpreti: Selene Caramazza (Agnese), Simone Liberati (Stefano), Barbora Bobulova (Marta), Stefano Fresi (Don Luca), Antonella Attili (Angela), Federico Pacifici (Ettore), Edoardo Pesce (Lele)

aspetti l’archetipo del coatto. Le loro diversità vengono a contatto arricchendo, nonostante gli inevitabili problemi, entrambi.

Cuori puri, 2017

Sullo sfondo della borgata romana Tor Sapienza, si incontrano la diciottenne Agnese e il venticinquenne Stefano, due personalità all’apparenza opposte. Lei è parte di una comunità religiosa cattolica attiva nel sociale ed è in procinto di fare un voto di castità fino alle nozze; lui lavora come guardiano in un parcheggio confinante con il campo rom, ha famiglia a carico, e ricorda sotto certi 88

Cuori puri, esordio alla regia di Roberto De Paolis, inizia e finisce con una corsa; all’inizio, con il primo piano di Agnese che scappa dopo aver taccheggiato un cellulare nel centro commerciale, inseguita da Stefano. Nel finale, con il primo piano di lui all’inseguimento del giovane rom ingiustamente accusato di stupro, garantendogli però così, con la “finzione” dell’inseguimento rabbioso, un’ancora di salvezza. Entrambe le corse hanno una duplice valenza metaforica, apparentemente contrastante e che in realtà riassume il senso profondo del film.

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Da un lato infatti sono corse inutili, vie di fuga impossibili da una realtà, quella dell’estrema periferia romana, dove il disagio autoctono convive con il disagio dei migranti, sempre più vincolante – che sia dal punto di vista del coatto, o da quello della comunità cattolica un po’ estrema – e dall’altro simboleggiano le occasioni con cui i due protagonisti trovano e capitalizzano quello che può essere un escamotage ideale, che perlomeno possa far prendere coscienza: l’avvicinamento e l’attrazione con arricchimento reciproco. Banalmente, la storia d’amore che costituisce lo scheletro della narrazione. Cuori puri è infatti un film, se dovessimo trovare una definizione, sentimentale, che innesta con pudicizia ed efficacia gli elementi del melodramma giovanile nella cornice del realismo “borgataro”, mettendo però, per così dire, in evidenza il primo aspetto, e in un piano certamente necessario, fondamentale e importante, ma anche in qualche modo strumentale, il secondo. È un film in cui la rappresentazione della realtà e del contesto sociale dipende ed è subordinata al racconto dell’interiorità dei due protagonisti, com’è avvenuto in una manciata di film recenti italiani che hanno cercato un approccio originale, meno votato al realismo puro e tradizionale e più all’introspezione dei personaggi, vittime della realtà, verso l’impegno sociale e la descrizione dello stato del Paese. Si veda l’esempio di un film dalle tematiche differenti, ma sotto più punti di vista imparentato con l’esordio di De Paolis, Il padre d’Italia di Fabio Mollo, dove il precariato e la questione della genitorialità omosessuale emergono

dal racconto di due individualità alla deriva che trovano nell’altro un porto sicuro. In entrambe le opere due personalità completamente opposte incontrandosi si mettono in gioco e modificano il loro sguardo sulle realtà che le circondano: in Cuori puri Stefano capisce i limiti del razzismo e dell’intolleranza e Agnese impara a comprendere una quotidianità e un modo di vivere che prima rifiutava. Entrambi riescono così a superare i confini mentali imposti dal contesto e a trovare il modo di liberare il proprio disagio e la diversità (qui sta la “purezza” del titolo), prima solo latenti e nascosti, rispetto alle regole imposte dalla realtà di borgata vista dal grande raccordo anulare e un po’ ai confini del mondo. De Paolis gestisce l’equilibrio tra vicenda sentimentale e testimonianza documentaria con uno sguardo pudico e asciutto, efficace, sia nel raccontare il tortuoso rapporto tra i due coinvolgendo a livello puramente emotivo, che nel documentare la verità della borgata romana e le sue problematiche.

CAPITOLO D

EDOARDO PERETTI

89


-> INDIVISIBILI Regia: Edoardo De Angelis p. 90

Spazio off D

Cuori puri Regia: Roberto De Paolis Soggetto: Luca Infascelli, Roberto De Paolis, Carlo Salsa Sceneggiatura: Luca Infascelli, Roberto De Paolis, Carlo Salsa, Greta Scicchitano Fotografia: Claudio Cofrancesco Montaggio: Paola Freddi Scenografia: Rachele Meliadò Costumi: Loredana Buscemi Musiche: Emanuele De Raymondi

Produzione: Young Films, Rai Cinema Distribuzione: Cinema Origine: Italia 2017 Durata: 115’ Premi: Nastri d’Argento (2017): Premio “Graziella Bonacchi” (Simone Liberati)

Interpreti: Selene Caramazza (Agnese), Simone Liberati (Stefano), Barbora Bobulova (Marta), Stefano Fresi (Don Luca), Antonella Attili (Angela), Federico Pacifici (Ettore), Edoardo Pesce (Lele)

aspetti l’archetipo del coatto. Le loro diversità vengono a contatto arricchendo, nonostante gli inevitabili problemi, entrambi.

Cuori puri, 2017

Sullo sfondo della borgata romana Tor Sapienza, si incontrano la diciottenne Agnese e il venticinquenne Stefano, due personalità all’apparenza opposte. Lei è parte di una comunità religiosa cattolica attiva nel sociale ed è in procinto di fare un voto di castità fino alle nozze; lui lavora come guardiano in un parcheggio confinante con il campo rom, ha famiglia a carico, e ricorda sotto certi 88

Cuori puri, esordio alla regia di Roberto De Paolis, inizia e finisce con una corsa; all’inizio, con il primo piano di Agnese che scappa dopo aver taccheggiato un cellulare nel centro commerciale, inseguita da Stefano. Nel finale, con il primo piano di lui all’inseguimento del giovane rom ingiustamente accusato di stupro, garantendogli però così, con la “finzione” dell’inseguimento rabbioso, un’ancora di salvezza. Entrambe le corse hanno una duplice valenza metaforica, apparentemente contrastante e che in realtà riassume il senso profondo del film.

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Da un lato infatti sono corse inutili, vie di fuga impossibili da una realtà, quella dell’estrema periferia romana, dove il disagio autoctono convive con il disagio dei migranti, sempre più vincolante – che sia dal punto di vista del coatto, o da quello della comunità cattolica un po’ estrema – e dall’altro simboleggiano le occasioni con cui i due protagonisti trovano e capitalizzano quello che può essere un escamotage ideale, che perlomeno possa far prendere coscienza: l’avvicinamento e l’attrazione con arricchimento reciproco. Banalmente, la storia d’amore che costituisce lo scheletro della narrazione. Cuori puri è infatti un film, se dovessimo trovare una definizione, sentimentale, che innesta con pudicizia ed efficacia gli elementi del melodramma giovanile nella cornice del realismo “borgataro”, mettendo però, per così dire, in evidenza il primo aspetto, e in un piano certamente necessario, fondamentale e importante, ma anche in qualche modo strumentale, il secondo. È un film in cui la rappresentazione della realtà e del contesto sociale dipende ed è subordinata al racconto dell’interiorità dei due protagonisti, com’è avvenuto in una manciata di film recenti italiani che hanno cercato un approccio originale, meno votato al realismo puro e tradizionale e più all’introspezione dei personaggi, vittime della realtà, verso l’impegno sociale e la descrizione dello stato del Paese. Si veda l’esempio di un film dalle tematiche differenti, ma sotto più punti di vista imparentato con l’esordio di De Paolis, Il padre d’Italia di Fabio Mollo, dove il precariato e la questione della genitorialità omosessuale emergono

dal racconto di due individualità alla deriva che trovano nell’altro un porto sicuro. In entrambe le opere due personalità completamente opposte incontrandosi si mettono in gioco e modificano il loro sguardo sulle realtà che le circondano: in Cuori puri Stefano capisce i limiti del razzismo e dell’intolleranza e Agnese impara a comprendere una quotidianità e un modo di vivere che prima rifiutava. Entrambi riescono così a superare i confini mentali imposti dal contesto e a trovare il modo di liberare il proprio disagio e la diversità (qui sta la “purezza” del titolo), prima solo latenti e nascosti, rispetto alle regole imposte dalla realtà di borgata vista dal grande raccordo anulare e un po’ ai confini del mondo. De Paolis gestisce l’equilibrio tra vicenda sentimentale e testimonianza documentaria con uno sguardo pudico e asciutto, efficace, sia nel raccontare il tortuoso rapporto tra i due coinvolgendo a livello puramente emotivo, che nel documentare la verità della borgata romana e le sue problematiche.

CAPITOLO D

EDOARDO PERETTI

89


<- CUORI PURI Regia: Roberto De Paolis p. 88

Spazio off D

-> IN FONDO AL BOSCO Regia: Stefano Lodovichi p. 92

Indivisibili Regia: Edoardo De Angelis Soggetto: Nicola Guaglianone Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Barbara Petronio, Edoardo De Angelis Fotografia: Ferran Paredes Rubio Montaggio: Chiara Griziotti Scenografia: Carmine Guarino Costumi: Massimo Cantini Parrini Musiche: Enzo Avitabile Produzione: Tramp Limited, O’ Groove Distribuzione: Medusa Origine: Italia 2016 Durata: 100’

Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Giornate degli Autori (2016): Premio Fedic per Miglior Film, Premio Lino Mangiacapre, Premio Francesco Pasinetti per Miglior Film e Menzione Speciale per le interpreti (Angela e Marianna Fontana); David di Donatello (2017): Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Produttore, Miglior Attrice non Protagonista (Antonia Truppo), Miglior Musicista, Miglior Canzone Originale, Miglior Costumista (Massimo Cantini Parrini); Nastri d’Argento (2017): Miglior Produttore, Miglior Soggetto (Nicola Guaglianone), Migliori

Costumi (Massimo Cantini Parrini), Miglior Colonna Sonora (Enzo Avitabile) Interpreti: Angela Fontana (Viola), Marianna Fontana (Dasy), Antonia Truppo (Titti), Massimiliano Rossi (Peppe), Tony Laudadio (Nunzio), Marco Mario de Notaris (Zio Nando), Gaetano Bruno (Marco Ferreri), Gianfranco Gallo (Don Salvatore), Peppe Servillo (Professor Fasano)

Ma quando un medico comunicherà che è possibile separarle, una delle due protagoniste comincerà a mettere in discussione gli equilibri che fino ad allora hanno retto la loro vita. Nel cinema italiano contemporaneo vi è una serie di autori che in modi e forme differenti Indivisibili, 2016 raccontano e descrivono i problemi Viola e Dasy sono due gemelle e le contraddizioni del Mezzogiorno. siamesi di circa diciotto anni che in Il riferimento non va solo all’opera Campania formano una coppia canora di Matteo Garrone, ma anche all’ottica chiamata “Indivisibili”. Guidate da un marcatamente realista di Leonardo padre manager ⁄ autore e supportate Di Costanzo, al cinema più fantastico da un sacerdote del posto, le sorelle e di genere di Fabio Grassadonia si esibiscono in comunioni, matrimoni e Antonio Piazza, fino ai documentari e feste, avendo successo soprattutto di Federica di Giacomo (Liberami) e di perché il pubblico pensa che toccare il Edoardo Morabito (I fantasmi di San punto in cui sono attaccate porti fortuna Berillo). 90

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Tra i titoli di questo “filone” va sicuramente inserito anche Indivisibili, terzo lungometraggio di Edoardo De Angelis presentato alle Giornate degli Autori della 73a Mostra del Cinema di Venezia. Tramite la storia delle sorelle siamesi Dasy e Viola, il film racconta una parte di Paese nel quale convivono – intrecciandosi – istituzioni religiose, superstizione, spettacolo e denaro. Infatti, le ragazze incarnano – per la situazione nella quale sono inserite – tutti gli elementi sopra elencati: se da un lato, le loro performance costituiscono uno show in qualche modo “attrattivo” sia per la qualità canora della coppia sia perché le due adolescenti vengono esibite come una sorta di fenomeno da baraccone; dall’altro, i loro spettacoli creano un piccolo business locale con il quale la famiglia si mantiene e cerca di arricchirsi; mentre la leggenda per cui toccarle porti fortuna si lega naturalmente alla superstizione. E in ultima istanza, il fatto che a sostenere e a convalidare tutto ciò sia un prete, collega tale vicenda anche a una parte della Chiesa Cattolica. Una condizione, quella delle “Indivisibili”, che ha un sapore contemporaneamente antico e moderno: se la superstizione alla quale sono legate sembra avere radici quasi arcaiche e “pagane”, le canzoni pop e neomelodiche da loro cantate sono invece assolutamente connesse ai gusti e alle mode attualmente dominanti in una certa popolazione. Una convivenza tra vecchio e nuovo che il film suggerisce per descrivere una società nella quale i riti, le usanze e le credenze che pensavamo remote sono ancora decisamente vive

e presenti, solo che aggiornate a un certo immaginario contemporaneo. Il tutto messo in scena tramite una regia che si rifà esplicitamente allo stile di altri autori italiani: come per esempio fa notare Alessio Galbiati su Rapporto Confidenziale, il film sembra unire il cinema di Paolo Sorrentino con quello di Matteo Garrone. Infatti, se del primo, Indivisibili ha l’uso marcato delle musiche e una regia composta da piani sequenza e numerosi movimenti di macchina, dell’autore di Gomorra ha la descrizione al tempo stesso realistica e grottesca di un Sud periferico e sotterraneo, socialmente disagiato e culturalmente influenzato da spettacoli e canzoni pop. Ma oltre ai due importanti cineasti contemporanei, l’autore omaggia tramite il nome di un personaggio anche Marco Ferreri: una citazione che in tal contesto narrativo non può non ricordare il capolavoro del regista milanese La donna scimmia (1964), in quello che è un rimando utile a sottolineare quanto le due protagoniste siano esibite come una sorta di fenomeno da baraccone. Ed è proprio la contaminazione di stili, sguardi e riferimenti a rendere Indivisibili un lavoro tanto puntuale nella sua descrizione socio–antropologica quanto cinematograficamente appagante, anche se magari non sempre originale.

CAPITOLO D

JURI SAITTA

91


<- CUORI PURI Regia: Roberto De Paolis p. 88

Spazio off D

-> IN FONDO AL BOSCO Regia: Stefano Lodovichi p. 92

Indivisibili Regia: Edoardo De Angelis Soggetto: Nicola Guaglianone Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Barbara Petronio, Edoardo De Angelis Fotografia: Ferran Paredes Rubio Montaggio: Chiara Griziotti Scenografia: Carmine Guarino Costumi: Massimo Cantini Parrini Musiche: Enzo Avitabile Produzione: Tramp Limited, O’ Groove Distribuzione: Medusa Origine: Italia 2016 Durata: 100’

Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Giornate degli Autori (2016): Premio Fedic per Miglior Film, Premio Lino Mangiacapre, Premio Francesco Pasinetti per Miglior Film e Menzione Speciale per le interpreti (Angela e Marianna Fontana); David di Donatello (2017): Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Produttore, Miglior Attrice non Protagonista (Antonia Truppo), Miglior Musicista, Miglior Canzone Originale, Miglior Costumista (Massimo Cantini Parrini); Nastri d’Argento (2017): Miglior Produttore, Miglior Soggetto (Nicola Guaglianone), Migliori

Costumi (Massimo Cantini Parrini), Miglior Colonna Sonora (Enzo Avitabile) Interpreti: Angela Fontana (Viola), Marianna Fontana (Dasy), Antonia Truppo (Titti), Massimiliano Rossi (Peppe), Tony Laudadio (Nunzio), Marco Mario de Notaris (Zio Nando), Gaetano Bruno (Marco Ferreri), Gianfranco Gallo (Don Salvatore), Peppe Servillo (Professor Fasano)

Ma quando un medico comunicherà che è possibile separarle, una delle due protagoniste comincerà a mettere in discussione gli equilibri che fino ad allora hanno retto la loro vita. Nel cinema italiano contemporaneo vi è una serie di autori che in modi e forme differenti Indivisibili, 2016 raccontano e descrivono i problemi Viola e Dasy sono due gemelle e le contraddizioni del Mezzogiorno. siamesi di circa diciotto anni che in Il riferimento non va solo all’opera Campania formano una coppia canora di Matteo Garrone, ma anche all’ottica chiamata “Indivisibili”. Guidate da un marcatamente realista di Leonardo padre manager ⁄ autore e supportate Di Costanzo, al cinema più fantastico da un sacerdote del posto, le sorelle e di genere di Fabio Grassadonia si esibiscono in comunioni, matrimoni e Antonio Piazza, fino ai documentari e feste, avendo successo soprattutto di Federica di Giacomo (Liberami) e di perché il pubblico pensa che toccare il Edoardo Morabito (I fantasmi di San punto in cui sono attaccate porti fortuna Berillo). 90

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Tra i titoli di questo “filone” va sicuramente inserito anche Indivisibili, terzo lungometraggio di Edoardo De Angelis presentato alle Giornate degli Autori della 73a Mostra del Cinema di Venezia. Tramite la storia delle sorelle siamesi Dasy e Viola, il film racconta una parte di Paese nel quale convivono – intrecciandosi – istituzioni religiose, superstizione, spettacolo e denaro. Infatti, le ragazze incarnano – per la situazione nella quale sono inserite – tutti gli elementi sopra elencati: se da un lato, le loro performance costituiscono uno show in qualche modo “attrattivo” sia per la qualità canora della coppia sia perché le due adolescenti vengono esibite come una sorta di fenomeno da baraccone; dall’altro, i loro spettacoli creano un piccolo business locale con il quale la famiglia si mantiene e cerca di arricchirsi; mentre la leggenda per cui toccarle porti fortuna si lega naturalmente alla superstizione. E in ultima istanza, il fatto che a sostenere e a convalidare tutto ciò sia un prete, collega tale vicenda anche a una parte della Chiesa Cattolica. Una condizione, quella delle “Indivisibili”, che ha un sapore contemporaneamente antico e moderno: se la superstizione alla quale sono legate sembra avere radici quasi arcaiche e “pagane”, le canzoni pop e neomelodiche da loro cantate sono invece assolutamente connesse ai gusti e alle mode attualmente dominanti in una certa popolazione. Una convivenza tra vecchio e nuovo che il film suggerisce per descrivere una società nella quale i riti, le usanze e le credenze che pensavamo remote sono ancora decisamente vive

e presenti, solo che aggiornate a un certo immaginario contemporaneo. Il tutto messo in scena tramite una regia che si rifà esplicitamente allo stile di altri autori italiani: come per esempio fa notare Alessio Galbiati su Rapporto Confidenziale, il film sembra unire il cinema di Paolo Sorrentino con quello di Matteo Garrone. Infatti, se del primo, Indivisibili ha l’uso marcato delle musiche e una regia composta da piani sequenza e numerosi movimenti di macchina, dell’autore di Gomorra ha la descrizione al tempo stesso realistica e grottesca di un Sud periferico e sotterraneo, socialmente disagiato e culturalmente influenzato da spettacoli e canzoni pop. Ma oltre ai due importanti cineasti contemporanei, l’autore omaggia tramite il nome di un personaggio anche Marco Ferreri: una citazione che in tal contesto narrativo non può non ricordare il capolavoro del regista milanese La donna scimmia (1964), in quello che è un rimando utile a sottolineare quanto le due protagoniste siano esibite come una sorta di fenomeno da baraccone. Ed è proprio la contaminazione di stili, sguardi e riferimenti a rendere Indivisibili un lavoro tanto puntuale nella sua descrizione socio–antropologica quanto cinematograficamente appagante, anche se magari non sempre originale.

CAPITOLO D

JURI SAITTA

91


<- INDIVISIBILI Regia: Edoardo De Angelis p. 90

Spazio off D

-> LIBERAMI Regia: Federica Di Giacomo p. 94

In fondo al bosco Regia: Stefano Lodovichi Soggetto e sceneggiatura: Isabella Aguilar, Stefano Lodovichi, Davide Orsini Fotografia: Benjamin Maier Montaggio: Roberto Di Tanna Scenografia: Daniele Fabretti Costumi: Ginevra De Carolis Musiche: Riccardo Amorese

Produzione: Sky Cinema Italia, Onemore Pictures Distribuzione: Notorius Pictures Origine: Italia 2015 Durata: 88’

Interpreti: Filippo Nigro (Manuel Conci), Teo Achille Caprio (Tommaso Conci), Camilla Filippi (Linda Weiss), Giovanni Vettorazzo (Pietro Weiss), Stefano Detassis (Hannes Ortner), Maria Vittoria Barrella (Else), Roberto Gudese (Flavio), Luca Filippi (Dimitri)

con sè la verità della tragica notte di cinque anni prima. Il secondo film di Stefano Lodovichi, il quale aveva esordito nel 2013 con Aquadro, è un film coraggioso e capace, come molti horror italiani degli ultimi anni rimasti nascosti in una circolazione di nicchia, di andare fino in In fondo al bosco, 2015 fondo alla rappresentazione esplicita di Durante la sfilata dei Krampus, momenti ed eventi duri e difficili, al limite diavoli tipici della mitologia cristiana dell’indicibile, tanto quanto andare fino delle vallate dell’Austria e del Trentino, in fondo alla capacità di usare il genere il piccolo Jacopo, quattro anni, sparisce, come metafora e cassa di risonanza di e il padre viene accusato d’omicidio. questioni importanti. Cinque anni dopo il bambino ricompare Risuonano infatti chiaramente e torna nella casa natale. C’è però tematiche quali la chiusura, l’omertà qualcosa che non va: Jacopo non sembra e le regole non scritte di una piccola il vero Jacopo e paure, mitologie ataviche comunità, la morbosa attenzione sui fatti e sospetti riemergono, portando però di cronaca, lo sciacallaggio giornalistico, 92

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

le zone d’ombra che caratterizzano molti nuclei familiari e i rapporti al loro interno, la follia nascosta tra le quattro mura e i suoi effetti, senza contare la questione della scomparsa dei minori. Da questo punto di vista ricorda, anche per l’ambientazione montana, La ragazza del lago (2007) di Andrea Molaioli. Temi e riferimenti amalgamati nella cornice di horror/thriller con elementi di fiaba che nel complesso funziona e affascina; In fondo al bosco è efficace come metafora sociale – a differenza, per esempio, del più esaltato e pubblicizzato Sicilian Ghost Story (2017) di Grassadonia e Piazza – ed è suggestivo se letto nell’ottica di film di genere puro. Da quest’ultimo punto di vista, numerosi sono i più o meno espliciti riferimenti alla storia e alle tipologie del cinema horror; ci sono, in particolare nella follia della madre e nella costante ambiguità sull’effettiva natura del bambino ritrovato, rimandi alla poetica polanskiana – ovviamente Rosemary’s Baby (1968) su tutti –, e il colpo di scena finale ricorda la sfida alla sospensione dell’incredulità e i ribaltamenti tipici dei finali dei film di Shyamalan. Non mancano inoltre riferimenti al filone dei bimbi demoniaci, con Omen – Il presagio (1976) esplicitamente citato, mentre la primissima sequenza, quella della sfilata dei Krampus (i diavoli che nella tradizione cristiana delle vallate di lingua tedesca vengono a rapire e punire i bambini cattivi), ricorda certi racconti dell’orrore che rielaborano le tradizioni e le paure ataviche espresse dalle leggende e dalle mitologie locali nascoste nelle valli o nelle località rurali più profonde. Uno dei momenti più inquietanti è proprio

lo scambio di sguardi tra il giovane malcapitato protagonista e uno dei diavoli in sfilata con cui il film inizia. Lodovichi riesce proprio a ottenere il massimo dalla suggestiva ambientazione montana, cogliendo, anche grazie all’efficace fotografia di Benjamin Maier, il lato più inquietante del suo fascino. È un paesaggio montano in cui le vette e la loro bellezza sono solamente evocate, e che viene richiamato dagli spazi chiusi, che siano metaforicamente gli esterni del bosco di notte, con il contrasto tra il bianco della neve e lo scuro delle tenebre, o che siano gli interni del bar di paese, delle baite o delle capanne isolate. In fondo al bosco è così un buon esempio di film di genere in grado di affrontare e metaforizzare tematiche sociali e culturali importanti, che si distingue dalla tendenza in corso di molto cinema italiano di unire “il genere” con “l’impegno” proprio perché più dichiaratamente propenso verso la parte di genere puro.

CAPITOLO D

EDOARDO PERETTI

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<- INDIVISIBILI Regia: Edoardo De Angelis p. 90

Spazio off D

-> LIBERAMI Regia: Federica Di Giacomo p. 94

In fondo al bosco Regia: Stefano Lodovichi Soggetto e sceneggiatura: Isabella Aguilar, Stefano Lodovichi, Davide Orsini Fotografia: Benjamin Maier Montaggio: Roberto Di Tanna Scenografia: Daniele Fabretti Costumi: Ginevra De Carolis Musiche: Riccardo Amorese

Produzione: Sky Cinema Italia, Onemore Pictures Distribuzione: Notorius Pictures Origine: Italia 2015 Durata: 88’

Interpreti: Filippo Nigro (Manuel Conci), Teo Achille Caprio (Tommaso Conci), Camilla Filippi (Linda Weiss), Giovanni Vettorazzo (Pietro Weiss), Stefano Detassis (Hannes Ortner), Maria Vittoria Barrella (Else), Roberto Gudese (Flavio), Luca Filippi (Dimitri)

con sè la verità della tragica notte di cinque anni prima. Il secondo film di Stefano Lodovichi, il quale aveva esordito nel 2013 con Aquadro, è un film coraggioso e capace, come molti horror italiani degli ultimi anni rimasti nascosti in una circolazione di nicchia, di andare fino in In fondo al bosco, 2015 fondo alla rappresentazione esplicita di Durante la sfilata dei Krampus, momenti ed eventi duri e difficili, al limite diavoli tipici della mitologia cristiana dell’indicibile, tanto quanto andare fino delle vallate dell’Austria e del Trentino, in fondo alla capacità di usare il genere il piccolo Jacopo, quattro anni, sparisce, come metafora e cassa di risonanza di e il padre viene accusato d’omicidio. questioni importanti. Cinque anni dopo il bambino ricompare Risuonano infatti chiaramente e torna nella casa natale. C’è però tematiche quali la chiusura, l’omertà qualcosa che non va: Jacopo non sembra e le regole non scritte di una piccola il vero Jacopo e paure, mitologie ataviche comunità, la morbosa attenzione sui fatti e sospetti riemergono, portando però di cronaca, lo sciacallaggio giornalistico, 92

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

le zone d’ombra che caratterizzano molti nuclei familiari e i rapporti al loro interno, la follia nascosta tra le quattro mura e i suoi effetti, senza contare la questione della scomparsa dei minori. Da questo punto di vista ricorda, anche per l’ambientazione montana, La ragazza del lago (2007) di Andrea Molaioli. Temi e riferimenti amalgamati nella cornice di horror/thriller con elementi di fiaba che nel complesso funziona e affascina; In fondo al bosco è efficace come metafora sociale – a differenza, per esempio, del più esaltato e pubblicizzato Sicilian Ghost Story (2017) di Grassadonia e Piazza – ed è suggestivo se letto nell’ottica di film di genere puro. Da quest’ultimo punto di vista, numerosi sono i più o meno espliciti riferimenti alla storia e alle tipologie del cinema horror; ci sono, in particolare nella follia della madre e nella costante ambiguità sull’effettiva natura del bambino ritrovato, rimandi alla poetica polanskiana – ovviamente Rosemary’s Baby (1968) su tutti –, e il colpo di scena finale ricorda la sfida alla sospensione dell’incredulità e i ribaltamenti tipici dei finali dei film di Shyamalan. Non mancano inoltre riferimenti al filone dei bimbi demoniaci, con Omen – Il presagio (1976) esplicitamente citato, mentre la primissima sequenza, quella della sfilata dei Krampus (i diavoli che nella tradizione cristiana delle vallate di lingua tedesca vengono a rapire e punire i bambini cattivi), ricorda certi racconti dell’orrore che rielaborano le tradizioni e le paure ataviche espresse dalle leggende e dalle mitologie locali nascoste nelle valli o nelle località rurali più profonde. Uno dei momenti più inquietanti è proprio

lo scambio di sguardi tra il giovane malcapitato protagonista e uno dei diavoli in sfilata con cui il film inizia. Lodovichi riesce proprio a ottenere il massimo dalla suggestiva ambientazione montana, cogliendo, anche grazie all’efficace fotografia di Benjamin Maier, il lato più inquietante del suo fascino. È un paesaggio montano in cui le vette e la loro bellezza sono solamente evocate, e che viene richiamato dagli spazi chiusi, che siano metaforicamente gli esterni del bosco di notte, con il contrasto tra il bianco della neve e lo scuro delle tenebre, o che siano gli interni del bar di paese, delle baite o delle capanne isolate. In fondo al bosco è così un buon esempio di film di genere in grado di affrontare e metaforizzare tematiche sociali e culturali importanti, che si distingue dalla tendenza in corso di molto cinema italiano di unire “il genere” con “l’impegno” proprio perché più dichiaratamente propenso verso la parte di genere puro.

CAPITOLO D

EDOARDO PERETTI

93


<- IN FONDO AL BOSCO Regia: Stefano Lodovichi p. 92

Spazio off D

-> LA PELLE DELL’ORSO Regia: Marco Segato p. 96

Liberami Regia: Federica Di Giacomo Produzione: MIR Soggetto: Federica Di Giacomo, Cinematografica, RAI Cinema Andrea Zvetkov Sanguigni Distribuzione: I Wonder Pictures Sceneggiatura: Federica Origine: Italia, Francia 2016 Di Giacomo Durata: 89’ Fotografia: Greta De Lazzaris, Carlo Sisalli Premi: Mostra Internazionale Montaggio: Aline Hervé, Edoardo d’Arte Cinematografica di Venezia Morabito (2016): Premio Orizzonti per il Miglior Film

Interpreti: Padre Cataldo Migliazzo (sé stesso)

porta sullo schermo la pratica giornaliera di un prete esorcista. Un’attività tutt’altro che sopita, anzi in crescita su scala internazionale.

Liberami, 2016

Da Padre Cataldo si va per tutto. Per chiedere consiglio, per invocare aiuto, perché il datore di lavoro non paga o per guardare l’eclissi. Soprattutto, si va per gli esorcismi. Per liberare sé stessi, la sorella o la casa. Si accalcano in tanti, fin dalla mattina, vengono da Catania o da molto più lontano: fanno la fila e aspettano il turno, uomini e donne, di ogni fascia d’età. Federica Di Giacomo 94

Padre Cataldo ha 77 anni e la fama di un esorcista veterano. Non ha l’aria di un asceta, né il cipiglio formidabile di un inflessibile castigatore. Piuttosto è un uomo energico e appassionato, appesantito nel passo e nella mole, che gestisce, con burbera efficacia, una folla di fedeli con le afflizioni più disparate. Quello che più colpisce, nel documentario di Federica Di Giacomo, premiato alla 73a Mostra di Venezia, è una disarmante quotidianità. L’esorcismo, forse l’esempio più inquietante e terribile di scontro emblematico tra Bene e Male, assume qui connotati inattesi. Non più l’evento

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

arcano ed eccezionale, protagonista di quell’immaginario che cinema e religione hanno contribuito a sedimentare, bensì una pratica insospettabilmente diffusa che una domanda in costante crescita mantiene viva a livello globale. Lo dicono i numeri in coda al film: nel Sud Italia come nel Nord, in Francia come negli Stati Uniti, a fugare ogni possibile ipotesi sulla natura circoscritta del rito. Liberami, il titolo del documentario, è la richiesta che un’umanità accorata rivolge ogni giorno ai preti esorcisti. Liberarsi da cosa? Dalla rabbia, dai vizi, dal passato, dall’ansia. Da tutto quello che esula dal socialmente accettabile, cui l’assistenza istituzionale non è riuscita a dare risposta. C’è la donna che si sente malata ma risulta sana a tutti gli esami, o la figlia che il padre maresciallo ritiene vittima di una fattura, o il ragazzo con scatti d’ira che la madre non fa entrare in casa, pur passandogli il pranzo dall’ascensore. “Funziona anche se non ci credi” replica il giovane alla fidanzata. L’alternativa, dice, è il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e non ha intenzione di sottoporvisi. Meglio allora sperare di cacciare il Demonio e redimersi agli occhi di sé stesso e degli altri. Federica Di Giacomo segue questa e altre storie, con uno sguardo di interesse partecipe, lasciando che la parola e il significato emergano dalla realtà ripresa. Dalle sedute private alle messe collettive, dall’abitacolo di una macchina alle strade di Palermo, nell’intimità di esistenze parallele ricongiunte nell’anticamera della Chiesa. Lungo il filo conduttore di un disagio contemporaneo, che affida a un rito fuori dal tempo la sua spasmodica

(as)soluzione, si compone il quadro sconcertante di un malessere trasversale. Non la minaccia di una presenza demoniaca, ma il baratro di un’assenza tutta terrena di supporto o sostegno adeguati. A questa urgenza che non trova risposta sopperiscono forme eccentriche di “reincanto”: un disperato bisogno di liberazione hit et nunc, dove si mescolano sacralità e paganesimo, misticismo e mondanità. Tra situazioni paradossali e parentesi involontariamente comiche (una su tutte l’esorcismo al telefono) la potenza dell’immaginario di genere si sgretola progressivamente. Non più imperscrutabile, definitivo, fatale. Semmai condiviso e reiterato, calato in contesti più modesti e prosaici, tra mense di corsi di formazione e lunghe code nelle sale d’attesa. Un succedersi di situazioni comuni che desacralizzano un’affezione umanissima, riconducendola alla banalità di un male che di maiuscolo ha solo la portata.

CAPITOLO D

LISA CECCONI

95


<- IN FONDO AL BOSCO Regia: Stefano Lodovichi p. 92

Spazio off D

-> LA PELLE DELL’ORSO Regia: Marco Segato p. 96

Liberami Regia: Federica Di Giacomo Produzione: MIR Soggetto: Federica Di Giacomo, Cinematografica, RAI Cinema Andrea Zvetkov Sanguigni Distribuzione: I Wonder Pictures Sceneggiatura: Federica Origine: Italia, Francia 2016 Di Giacomo Durata: 89’ Fotografia: Greta De Lazzaris, Carlo Sisalli Premi: Mostra Internazionale Montaggio: Aline Hervé, Edoardo d’Arte Cinematografica di Venezia Morabito (2016): Premio Orizzonti per il Miglior Film

Interpreti: Padre Cataldo Migliazzo (sé stesso)

porta sullo schermo la pratica giornaliera di un prete esorcista. Un’attività tutt’altro che sopita, anzi in crescita su scala internazionale.

Liberami, 2016

Da Padre Cataldo si va per tutto. Per chiedere consiglio, per invocare aiuto, perché il datore di lavoro non paga o per guardare l’eclissi. Soprattutto, si va per gli esorcismi. Per liberare sé stessi, la sorella o la casa. Si accalcano in tanti, fin dalla mattina, vengono da Catania o da molto più lontano: fanno la fila e aspettano il turno, uomini e donne, di ogni fascia d’età. Federica Di Giacomo 94

Padre Cataldo ha 77 anni e la fama di un esorcista veterano. Non ha l’aria di un asceta, né il cipiglio formidabile di un inflessibile castigatore. Piuttosto è un uomo energico e appassionato, appesantito nel passo e nella mole, che gestisce, con burbera efficacia, una folla di fedeli con le afflizioni più disparate. Quello che più colpisce, nel documentario di Federica Di Giacomo, premiato alla 73a Mostra di Venezia, è una disarmante quotidianità. L’esorcismo, forse l’esempio più inquietante e terribile di scontro emblematico tra Bene e Male, assume qui connotati inattesi. Non più l’evento

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

arcano ed eccezionale, protagonista di quell’immaginario che cinema e religione hanno contribuito a sedimentare, bensì una pratica insospettabilmente diffusa che una domanda in costante crescita mantiene viva a livello globale. Lo dicono i numeri in coda al film: nel Sud Italia come nel Nord, in Francia come negli Stati Uniti, a fugare ogni possibile ipotesi sulla natura circoscritta del rito. Liberami, il titolo del documentario, è la richiesta che un’umanità accorata rivolge ogni giorno ai preti esorcisti. Liberarsi da cosa? Dalla rabbia, dai vizi, dal passato, dall’ansia. Da tutto quello che esula dal socialmente accettabile, cui l’assistenza istituzionale non è riuscita a dare risposta. C’è la donna che si sente malata ma risulta sana a tutti gli esami, o la figlia che il padre maresciallo ritiene vittima di una fattura, o il ragazzo con scatti d’ira che la madre non fa entrare in casa, pur passandogli il pranzo dall’ascensore. “Funziona anche se non ci credi” replica il giovane alla fidanzata. L’alternativa, dice, è il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e non ha intenzione di sottoporvisi. Meglio allora sperare di cacciare il Demonio e redimersi agli occhi di sé stesso e degli altri. Federica Di Giacomo segue questa e altre storie, con uno sguardo di interesse partecipe, lasciando che la parola e il significato emergano dalla realtà ripresa. Dalle sedute private alle messe collettive, dall’abitacolo di una macchina alle strade di Palermo, nell’intimità di esistenze parallele ricongiunte nell’anticamera della Chiesa. Lungo il filo conduttore di un disagio contemporaneo, che affida a un rito fuori dal tempo la sua spasmodica

(as)soluzione, si compone il quadro sconcertante di un malessere trasversale. Non la minaccia di una presenza demoniaca, ma il baratro di un’assenza tutta terrena di supporto o sostegno adeguati. A questa urgenza che non trova risposta sopperiscono forme eccentriche di “reincanto”: un disperato bisogno di liberazione hit et nunc, dove si mescolano sacralità e paganesimo, misticismo e mondanità. Tra situazioni paradossali e parentesi involontariamente comiche (una su tutte l’esorcismo al telefono) la potenza dell’immaginario di genere si sgretola progressivamente. Non più imperscrutabile, definitivo, fatale. Semmai condiviso e reiterato, calato in contesti più modesti e prosaici, tra mense di corsi di formazione e lunghe code nelle sale d’attesa. Un succedersi di situazioni comuni che desacralizzano un’affezione umanissima, riconducendola alla banalità di un male che di maiuscolo ha solo la portata.

CAPITOLO D

LISA CECCONI

95


<- LIBERAMI Regia: Federica Di Giacomo p. 94

Spazio off D

-> UOMINI PROIBITI Regia: Angelita Fiore p. 98

La pelle dell’orso Regia: Marco Segato Soggetto: Marco Segato, dall’omonimo romanzo di Matteo Righetto Sceneggiatura: Enzo Monteleone, Marco Paolini, Marco Segato Fotografia: Daria D’Antonio Montaggio: Paolo Cottignola, Esmeralda Calabria Scenografia: Leonardo Scarpa Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Andrea Felli

Produzione: Jolefilm, Rai Cinema Distribuzione: Parthénos Origine: Italia 2016 Durata: 92’ Premi: Annecy Cinéma Italien (2016): Miglior Film al Festival; David di Donatello (2017): candidatura Miglior Regista Esordiente (Marco Segato); Globo d’Oro (2017): candidatura Miglior Opera Prima (Marco Segato), candidatura Migliore Fotografia (Daria D’Antonio)

Interpreti: Marco Paolini (Pietro Sieff), Leonardo Mason (Domenico Sieff), Lucia Mascino (Sara), Paolo Pierobon (Crepaz), Maria Paiato (Signora Dal Mas), Mirko Artuso (Franco), Valerio Mazzucato (Bruno), Massimo Totola (Toni Dal Mas), Silvio Comis (Santin)

a caccia dell’orso. Domenico lo segue: sarà l’occasione per riallacciare i rapporti col padre e, sfidando i pericoli del bosco, di dimostrare di non essere più un bocia, un ragazzino.

La pelle dell’orso, 2016

In un villaggio della Val di Zoldo nelle Dolomiti, negli anni Cinquanta, un orso colpisce ciclicamente il bestiame degli allevatori, e nessun cacciatore è mai riuscito a fermarlo. Pietro, che affoga nel vino il dolore per la perdita della moglie, trascurando il figlio adolescente Domenico e guadagnando tra i compaesani la nomea di ubriacone derelitto, decide di riscattarsi andando 96

Territorio fertile per i cineasti indipendenti, i generi più “bistrattati” rappresentano da sempre fonte quasi inesauribile di creatività. Anche La pelle dell’orso si fonda su generi che sono lontani dal cinema italiano mainstream, per lo meno in quello contemporaneo, come l’horror di In fondo al bosco di Stefano Lodovichi (film presente in questa rassegna). Per l’opera prima di Marco Segato l’ispirazione è il western e il romanzo di formazione, Mark Twain, Ernest Hemingway e Jack London, a cui “si sovrappone l’epos anti–spettacolare

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

dei racconti e dei romanzi di Mario Rigoni Stern, una lezione importante soprattutto per la descrizione dei boschi, delle montagne e delle vite degli uomini che li abitano. Uno stile che si sofferma sulla contemplazione della natura, sui piccoli gesti, sui momenti sospesi, attento alle vite degli uomini semplici e alla loro relazione con il mondo contadino” (Marco Segato, pressbook La pelle dell’orso, 2016). Riferimenti che Segato trova nel romanzo La pelle dell’orso del suo compagno di università Matteo Righetto, che subito adatta per il cinema con Enzo Monteleone e Marco Paolini. “Abbiamo fatto le modifiche che credevamo necessarie, ad esempio spostare l’azione dagli anni Sessanta ai Cinquanta, per portare due protagonisti, un padre e un orso, vicino all’idea di un’epoca che sta per finire” (Federico Gironi, Marco Paolini e Marco Segato su La pelle dell’orso, www.comingsoon.it/cinema/interviste/ marco-paolini-e-marco-segato-su-la-pelledell-orso-film-quasi-western-di/n60901, 27 ottobre 2016, ultimo accesso 2 luglio 2017). Modifiche che si spingono fino al finale, che tralascia in parte l’aspetto storico–sociale del libro (che si conclude con la tragedia del Vajont) per dare ulteriore spazio allo sviluppo del rapporto tra Pietro e suo figlio, riuniti nello scontro con un orso che per loro e per la comunità rappresenta qualcosa di più di un feroce animale selvatico. Il diaol, lo chiamano i montanari, il diavolo, terrificante e inafferrabile rappresentazione di ancestrali malvagità, sputato dal verde inferno dei boschi selvatici: la sua caccia è grande rito esorcizzante di una comunità, non solo prova di riscatto personale per Pietro e soglia di passaggio

dall’adolescenza all’età adulta per Domenico. Il ritmo sospeso e le poche battute costringono lo spettatore a viaggiare sui dettagli, siano essi del villaggio – che testimoniano l’esperienza da documentarista di Segato e la sua costante ricerca di realismo, fino all’utilizzo di un vero orso per le riprese – o dei boschi incontaminati; lo invogliano a riempire quegli spazi caratteriali dei personaggi volutamente lasciati in disparte; lo spingono ad ascoltare la natura, i suoi silenzi e i suoi rumori, a osservarne le diverse sfumature di luci e ombre, a temere le sue insidie e la sua crudeltà, a rimanere ammaliati dalla sua bellezza. “Tramite la fotografia ho cercato di restituire la naturalità di ciò che avevo attorno, a disposizione. La luce non è una luce artificiale, gli interni li ho lasciati come sono, scarsamente illuminati o bui per scelta emotiva, per conferire maggiore drammaticità. Volevo fosse la natura a dover parlare con i suoi silenzi, i suoi rumori, attraverso le diverse sfumature di luci e ombre, le sue insidie, la sua perfidia, l’incantesimo del paesaggio. (Carla Maistrello, Intervista al regista Marco Segato, http://www. excursus.org/intervista-al-regista-marcosegato, 5 aprile 2017, ultimo accesso 2 luglio 2017). La pelle dell’orso è dedicato a Carlo Mazzacurati: molte delle persone che vi hanno lavorato, davanti e dietro la macchina da presa, sono state ispirate dal suo cinema o vengono dai set dei suoi film, come lo stesso Segato, aiuto regista de La giusta distanza (2007).

CAPITOLO D

MATTIA FILIGOI

97


<- LIBERAMI Regia: Federica Di Giacomo p. 94

Spazio off D

-> UOMINI PROIBITI Regia: Angelita Fiore p. 98

La pelle dell’orso Regia: Marco Segato Soggetto: Marco Segato, dall’omonimo romanzo di Matteo Righetto Sceneggiatura: Enzo Monteleone, Marco Paolini, Marco Segato Fotografia: Daria D’Antonio Montaggio: Paolo Cottignola, Esmeralda Calabria Scenografia: Leonardo Scarpa Costumi: Silvia Nebiolo Musiche: Andrea Felli

Produzione: Jolefilm, Rai Cinema Distribuzione: Parthénos Origine: Italia 2016 Durata: 92’ Premi: Annecy Cinéma Italien (2016): Miglior Film al Festival; David di Donatello (2017): candidatura Miglior Regista Esordiente (Marco Segato); Globo d’Oro (2017): candidatura Miglior Opera Prima (Marco Segato), candidatura Migliore Fotografia (Daria D’Antonio)

Interpreti: Marco Paolini (Pietro Sieff), Leonardo Mason (Domenico Sieff), Lucia Mascino (Sara), Paolo Pierobon (Crepaz), Maria Paiato (Signora Dal Mas), Mirko Artuso (Franco), Valerio Mazzucato (Bruno), Massimo Totola (Toni Dal Mas), Silvio Comis (Santin)

a caccia dell’orso. Domenico lo segue: sarà l’occasione per riallacciare i rapporti col padre e, sfidando i pericoli del bosco, di dimostrare di non essere più un bocia, un ragazzino.

La pelle dell’orso, 2016

In un villaggio della Val di Zoldo nelle Dolomiti, negli anni Cinquanta, un orso colpisce ciclicamente il bestiame degli allevatori, e nessun cacciatore è mai riuscito a fermarlo. Pietro, che affoga nel vino il dolore per la perdita della moglie, trascurando il figlio adolescente Domenico e guadagnando tra i compaesani la nomea di ubriacone derelitto, decide di riscattarsi andando 96

Territorio fertile per i cineasti indipendenti, i generi più “bistrattati” rappresentano da sempre fonte quasi inesauribile di creatività. Anche La pelle dell’orso si fonda su generi che sono lontani dal cinema italiano mainstream, per lo meno in quello contemporaneo, come l’horror di In fondo al bosco di Stefano Lodovichi (film presente in questa rassegna). Per l’opera prima di Marco Segato l’ispirazione è il western e il romanzo di formazione, Mark Twain, Ernest Hemingway e Jack London, a cui “si sovrappone l’epos anti–spettacolare

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

dei racconti e dei romanzi di Mario Rigoni Stern, una lezione importante soprattutto per la descrizione dei boschi, delle montagne e delle vite degli uomini che li abitano. Uno stile che si sofferma sulla contemplazione della natura, sui piccoli gesti, sui momenti sospesi, attento alle vite degli uomini semplici e alla loro relazione con il mondo contadino” (Marco Segato, pressbook La pelle dell’orso, 2016). Riferimenti che Segato trova nel romanzo La pelle dell’orso del suo compagno di università Matteo Righetto, che subito adatta per il cinema con Enzo Monteleone e Marco Paolini. “Abbiamo fatto le modifiche che credevamo necessarie, ad esempio spostare l’azione dagli anni Sessanta ai Cinquanta, per portare due protagonisti, un padre e un orso, vicino all’idea di un’epoca che sta per finire” (Federico Gironi, Marco Paolini e Marco Segato su La pelle dell’orso, www.comingsoon.it/cinema/interviste/ marco-paolini-e-marco-segato-su-la-pelledell-orso-film-quasi-western-di/n60901, 27 ottobre 2016, ultimo accesso 2 luglio 2017). Modifiche che si spingono fino al finale, che tralascia in parte l’aspetto storico–sociale del libro (che si conclude con la tragedia del Vajont) per dare ulteriore spazio allo sviluppo del rapporto tra Pietro e suo figlio, riuniti nello scontro con un orso che per loro e per la comunità rappresenta qualcosa di più di un feroce animale selvatico. Il diaol, lo chiamano i montanari, il diavolo, terrificante e inafferrabile rappresentazione di ancestrali malvagità, sputato dal verde inferno dei boschi selvatici: la sua caccia è grande rito esorcizzante di una comunità, non solo prova di riscatto personale per Pietro e soglia di passaggio

dall’adolescenza all’età adulta per Domenico. Il ritmo sospeso e le poche battute costringono lo spettatore a viaggiare sui dettagli, siano essi del villaggio – che testimoniano l’esperienza da documentarista di Segato e la sua costante ricerca di realismo, fino all’utilizzo di un vero orso per le riprese – o dei boschi incontaminati; lo invogliano a riempire quegli spazi caratteriali dei personaggi volutamente lasciati in disparte; lo spingono ad ascoltare la natura, i suoi silenzi e i suoi rumori, a osservarne le diverse sfumature di luci e ombre, a temere le sue insidie e la sua crudeltà, a rimanere ammaliati dalla sua bellezza. “Tramite la fotografia ho cercato di restituire la naturalità di ciò che avevo attorno, a disposizione. La luce non è una luce artificiale, gli interni li ho lasciati come sono, scarsamente illuminati o bui per scelta emotiva, per conferire maggiore drammaticità. Volevo fosse la natura a dover parlare con i suoi silenzi, i suoi rumori, attraverso le diverse sfumature di luci e ombre, le sue insidie, la sua perfidia, l’incantesimo del paesaggio. (Carla Maistrello, Intervista al regista Marco Segato, http://www. excursus.org/intervista-al-regista-marcosegato, 5 aprile 2017, ultimo accesso 2 luglio 2017). La pelle dell’orso è dedicato a Carlo Mazzacurati: molte delle persone che vi hanno lavorato, davanti e dietro la macchina da presa, sono state ispirate dal suo cinema o vengono dai set dei suoi film, come lo stesso Segato, aiuto regista de La giusta distanza (2007).

CAPITOLO D

MATTIA FILIGOI

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<- LA PELLE DELL’ORSO Regia: Marco Segato p. 96

Spazio off D

-> CAPITOLO E Scrittura seriale p. 101

Uomini proibiti Regia: Angelita Fiore Sceneggiatura: Angelita Fiore Fotografia: Andrea Dalpian Montaggio: Davide Pepe, Paolo Marzoni Musiche: Riccardo Nanni, Cristiano Alberghini

Produzione: MaxMan Coop Origine: Italia 2015 Durata: 72’

sociale, costringendole ad una vita fatta di privazioni, silenzio, segretezza. È giusto proibire ad un uomo di essere uomo, ad un amore di essere amore?

Uomini proibiti, 2015

Uomini proibiti è un film documentario che apre un’ideale ridiscussione del celibato ecclesiastico attraverso la storia di alcuni preti sposati, che hanno rinunciato ai propri privilegi sacerdotali per crearsi una famiglia. Ma è anche la storia di tutte quelle donne che si innamorano di un prete non ancora pronto a rinunciare al proprio ruolo e alla propria credibilità 98

Sono tre le donne che con Uomini proibiti acquistano voce. Tre donne che hanno avuto l’ardire di innamorarsi di chi scelse di definire una volta per tutte i limiti del proprio amore. I sacerdoti che hanno abbandonato il proprio servizio per costruire una famiglia sono più di centoventimila nel mondo. Per tutte le loro mogli queste tre donne lanciano un appello forte, non con slogan, non con banali ideologismi, ma con le loro testimonianze di emarginazione, sofferenza, clandestinità, con la loro gioia che non vuole più nascondersi. Si chiede più libertà, più apertura,

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

ma si può chiedere ad un’identità, come quella ben definita del sacerdote cattolico, di aprirsi e diventare altro? Due di queste donne hanno il volto spigliato, sereno: sono Luiza e Fidelia, una brasiliana, l’altra nigeriana. I loro mariti, Fausto e Federico, sono ex–preti. Hanno negli occhi la conquista di un amore non facile che li ha abituati ad alternare rabbia e fiducia per l’altrui giudizio. Sanno però che raccontando e raccontandosi chi le ascolta, anche se parte da pregiudizi e categorie fortemente radicate, non può restare indifferente. Il celibato sacerdotale, anche se formalmente istituito come obbligo solo nel Concilio di Trento (1545–1563) fu praticato sin dalle prime comunità cristiane. La sua “convenienza”, esplicitata dal Concilio Vaticano II, e ribadita dai successivi pontefici, si basa sull’imitazione della verginità di Cristo e sulla contrapposizione tra interessi pastorali e le preoccupazioni mondane a cui un matrimonio – una famiglia – costringerebbe. Già San Paolo però, riconoscendo lucidamente la naturale inclinazione di ciascun uomo alla carnalità, ammise che “è meglio sposarsi che ardere” e allora il dubbio sta tutto sul dove collocare il confine tra le due visioni, presenti nella dottrina cattolica, del matrimonio tutto terreno e carnale, che sarebbe d’intralcio ad un uomo di Clero e dell’istituzione– famiglia osannata come principale motore di coesione e cristianità e sancita da quello stesso matrimonio: non c’è contraddizione? Le associazioni di ex–preti sposati in tutto il mondo cominciano a “far numero”, ma il vero dramma resta nelle case di quelle donne che hanno avuto relazioni o addirittura

figli con dei sacerdoti. Sono donne private dell’identità, della dignità, costrette a censurarsi, a dissimulare. Donne che la società benpensante vorrebbe non avessero volto, e così, senza volto, è mostrata Anna, la terza donna, quella che fa più rumore nelle coscienze grazie alle registrazioni telefoniche tra lei e il sacerdote, colpevole di averla lasciata sola con una figlia di cui non si assume responsabilità, né pratiche né morali. La sua figura è sempre sfumata, diffusa, ripresa in dettaglio, come si fa per i soggetti problematici che è vietato mostrare. Angelita Fiore pone Uomini proibiti come la prima opera di una sua trilogia su religione e spiritualismo. Il suo stile è semplice e comunicativo, alterna interviste frontali a immagini d’ambiente, utilizza più volte immagini d’archivio per rendere più solide e concrete le testimonianze, tra cui spiccano le preziosissime immagini sudamericane. Manca un controcanto, qualche accenno meno semplicistico alle posizioni ufficiali della Chiesa, un confronto con chi crede nel celibato. Ma non si può non essere certi che ovunque Uomini proibiti sarà visionato, più di qualcuno sarà incitato ad approfondire personalmente la questione, a rivedere le proprie posizioni, a riflettere, a interrogarsi, a scegliere.

CAPITOLO D

ERASMO DE MEO

99


<- LA PELLE DELL’ORSO Regia: Marco Segato p. 96

Spazio off D

-> CAPITOLO E Scrittura seriale p. 101

Uomini proibiti Regia: Angelita Fiore Sceneggiatura: Angelita Fiore Fotografia: Andrea Dalpian Montaggio: Davide Pepe, Paolo Marzoni Musiche: Riccardo Nanni, Cristiano Alberghini

Produzione: MaxMan Coop Origine: Italia 2015 Durata: 72’

sociale, costringendole ad una vita fatta di privazioni, silenzio, segretezza. È giusto proibire ad un uomo di essere uomo, ad un amore di essere amore?

Uomini proibiti, 2015

Uomini proibiti è un film documentario che apre un’ideale ridiscussione del celibato ecclesiastico attraverso la storia di alcuni preti sposati, che hanno rinunciato ai propri privilegi sacerdotali per crearsi una famiglia. Ma è anche la storia di tutte quelle donne che si innamorano di un prete non ancora pronto a rinunciare al proprio ruolo e alla propria credibilità 98

Sono tre le donne che con Uomini proibiti acquistano voce. Tre donne che hanno avuto l’ardire di innamorarsi di chi scelse di definire una volta per tutte i limiti del proprio amore. I sacerdoti che hanno abbandonato il proprio servizio per costruire una famiglia sono più di centoventimila nel mondo. Per tutte le loro mogli queste tre donne lanciano un appello forte, non con slogan, non con banali ideologismi, ma con le loro testimonianze di emarginazione, sofferenza, clandestinità, con la loro gioia che non vuole più nascondersi. Si chiede più libertà, più apertura,

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

ma si può chiedere ad un’identità, come quella ben definita del sacerdote cattolico, di aprirsi e diventare altro? Due di queste donne hanno il volto spigliato, sereno: sono Luiza e Fidelia, una brasiliana, l’altra nigeriana. I loro mariti, Fausto e Federico, sono ex–preti. Hanno negli occhi la conquista di un amore non facile che li ha abituati ad alternare rabbia e fiducia per l’altrui giudizio. Sanno però che raccontando e raccontandosi chi le ascolta, anche se parte da pregiudizi e categorie fortemente radicate, non può restare indifferente. Il celibato sacerdotale, anche se formalmente istituito come obbligo solo nel Concilio di Trento (1545–1563) fu praticato sin dalle prime comunità cristiane. La sua “convenienza”, esplicitata dal Concilio Vaticano II, e ribadita dai successivi pontefici, si basa sull’imitazione della verginità di Cristo e sulla contrapposizione tra interessi pastorali e le preoccupazioni mondane a cui un matrimonio – una famiglia – costringerebbe. Già San Paolo però, riconoscendo lucidamente la naturale inclinazione di ciascun uomo alla carnalità, ammise che “è meglio sposarsi che ardere” e allora il dubbio sta tutto sul dove collocare il confine tra le due visioni, presenti nella dottrina cattolica, del matrimonio tutto terreno e carnale, che sarebbe d’intralcio ad un uomo di Clero e dell’istituzione– famiglia osannata come principale motore di coesione e cristianità e sancita da quello stesso matrimonio: non c’è contraddizione? Le associazioni di ex–preti sposati in tutto il mondo cominciano a “far numero”, ma il vero dramma resta nelle case di quelle donne che hanno avuto relazioni o addirittura

figli con dei sacerdoti. Sono donne private dell’identità, della dignità, costrette a censurarsi, a dissimulare. Donne che la società benpensante vorrebbe non avessero volto, e così, senza volto, è mostrata Anna, la terza donna, quella che fa più rumore nelle coscienze grazie alle registrazioni telefoniche tra lei e il sacerdote, colpevole di averla lasciata sola con una figlia di cui non si assume responsabilità, né pratiche né morali. La sua figura è sempre sfumata, diffusa, ripresa in dettaglio, come si fa per i soggetti problematici che è vietato mostrare. Angelita Fiore pone Uomini proibiti come la prima opera di una sua trilogia su religione e spiritualismo. Il suo stile è semplice e comunicativo, alterna interviste frontali a immagini d’ambiente, utilizza più volte immagini d’archivio per rendere più solide e concrete le testimonianze, tra cui spiccano le preziosissime immagini sudamericane. Manca un controcanto, qualche accenno meno semplicistico alle posizioni ufficiali della Chiesa, un confronto con chi crede nel celibato. Ma non si può non essere certi che ovunque Uomini proibiti sarà visionato, più di qualcuno sarà incitato ad approfondire personalmente la questione, a rivedere le proprie posizioni, a riflettere, a interrogarsi, a scegliere.

CAPITOLO D

ERASMO DE MEO

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 101–105 Scrittura seriale ⁄ Joseph Campbell e il potere del mito

Capitolo E 101


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 101–105 Scrittura seriale ⁄ Joseph Campbell e il potere del mito

Capitolo E 101


-> JOSEPH CAMPBELL E IL POTERE DEL MITO p. 104

Scrittura seriale E

Joseph Campbell. Un eroe dai mille volti Joseph Campbell è stato un mitologista, uno scrittore e professore universitario, ma prima di tutto è stato un attento indagatore dell’esperienza umana, capace, tramite la carica rivoluzionaria del suo pensiero, di contribuire in modo determinante alla conoscenza della natura del raccontare. Grazie ai suoi studi, Campbell è entrato a pieno diritto nel novero dei più importanti e influenti studiosi di mitologia comparata del Ventesimo secolo, tanto che le teorie frutto delle sue ricerche ancora oggi trovano applicazione in diversi campi della produzione culturale. Affascinato sin da piccolo dalla cultura e dagli artefatti dei nativi americani, ha dedicato la sua vita all’indagine di miti e religioni provenienti da ogni parte del mondo, nel tentativo di comprendere la fascinazione per le storie connaturata nell’essere umano. Per le sue ricerche ha attinto da letteratura, filosofia, arte, psicologia e antropologia, ispirandosi alle opere di massimi esponenti di tali aree del sapere, come Thomas Mann, James Joyce, Pablo Picasso e Carl Jung. Ma Campbell, attraverso i suoi lavori, ha saputo ispirare a sua volta professionisti e studiosi di altre discipline, prima fra tutte il cinema. Il più rilevante 102

tra i suoi studi è certamente l’opera seminale pubblicata nel 1949 The Hero with a Thousand Faces, nella quale, analizzando fiabe, racconti popolari e leggende, il mitologista ha rivelato l’esistenza di uno schema ricorrente applicabile come modello generale alle narrazioni del mito senza distinzione di cultura o religione. Questa struttura comune, riassunta nel concetto del “monomito”, è anche nota come “viaggio dell’eroe”, perifrasi che ha contribuito a diffondere il documentario del 1988 Joseph Campbell and the Power of Myth, nel quale lo stesso Campbell è impegnato in una serie di sei conversazioni della durata di un’ora con il giornalista della PBS Bill Moyers. La dimostrazione della consapevole appropriazione del principio dell’archetipo dell’eroe e delle tappe del suo viaggio da parte del cinema è rav visabile ad esempio nel debito che George Lucas ha dichiarato di avere nei confronti della teoria del “monomito” per la creazione della popolare saga spaziale Star Wars. Più importante ancora però è il contributo che Christopher Vogler, lavorando come story analyst per diverse major americane, ha saputo apportare alla scrittura per l’audiovisivo adattando la lezione di Campbell, prima con il celeberrimo quaderno di appunti per

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

gli sceneggiatori holly woodiani e poi con la pubblicazione dello stesso in forma estesa e articolata con il titolo The Writer’s Journey: Mythic Structure for Writers, in cui la coniugazione tra teoria della struttura universale del mito e specificità della narrazione audiovisiva è portata definitivamente a compimento. Divenuto manuale di scrittura imprescindibile, il testo è soprattutto la testimonianza dell’inestimabile opera di rivelazione e sistematizzazione teorica che Joseph Campbell è stato capace di compiere relativamente ai modi del raccontare dell’uomo. MICHAEL CASTRONUOVO

CAPITOLO E

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-> JOSEPH CAMPBELL E IL POTERE DEL MITO p. 104

Scrittura seriale E

Joseph Campbell. Un eroe dai mille volti Joseph Campbell è stato un mitologista, uno scrittore e professore universitario, ma prima di tutto è stato un attento indagatore dell’esperienza umana, capace, tramite la carica rivoluzionaria del suo pensiero, di contribuire in modo determinante alla conoscenza della natura del raccontare. Grazie ai suoi studi, Campbell è entrato a pieno diritto nel novero dei più importanti e influenti studiosi di mitologia comparata del Ventesimo secolo, tanto che le teorie frutto delle sue ricerche ancora oggi trovano applicazione in diversi campi della produzione culturale. Affascinato sin da piccolo dalla cultura e dagli artefatti dei nativi americani, ha dedicato la sua vita all’indagine di miti e religioni provenienti da ogni parte del mondo, nel tentativo di comprendere la fascinazione per le storie connaturata nell’essere umano. Per le sue ricerche ha attinto da letteratura, filosofia, arte, psicologia e antropologia, ispirandosi alle opere di massimi esponenti di tali aree del sapere, come Thomas Mann, James Joyce, Pablo Picasso e Carl Jung. Ma Campbell, attraverso i suoi lavori, ha saputo ispirare a sua volta professionisti e studiosi di altre discipline, prima fra tutte il cinema. Il più rilevante 102

tra i suoi studi è certamente l’opera seminale pubblicata nel 1949 The Hero with a Thousand Faces, nella quale, analizzando fiabe, racconti popolari e leggende, il mitologista ha rivelato l’esistenza di uno schema ricorrente applicabile come modello generale alle narrazioni del mito senza distinzione di cultura o religione. Questa struttura comune, riassunta nel concetto del “monomito”, è anche nota come “viaggio dell’eroe”, perifrasi che ha contribuito a diffondere il documentario del 1988 Joseph Campbell and the Power of Myth, nel quale lo stesso Campbell è impegnato in una serie di sei conversazioni della durata di un’ora con il giornalista della PBS Bill Moyers. La dimostrazione della consapevole appropriazione del principio dell’archetipo dell’eroe e delle tappe del suo viaggio da parte del cinema è rav visabile ad esempio nel debito che George Lucas ha dichiarato di avere nei confronti della teoria del “monomito” per la creazione della popolare saga spaziale Star Wars. Più importante ancora però è il contributo che Christopher Vogler, lavorando come story analyst per diverse major americane, ha saputo apportare alla scrittura per l’audiovisivo adattando la lezione di Campbell, prima con il celeberrimo quaderno di appunti per

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

gli sceneggiatori holly woodiani e poi con la pubblicazione dello stesso in forma estesa e articolata con il titolo The Writer’s Journey: Mythic Structure for Writers, in cui la coniugazione tra teoria della struttura universale del mito e specificità della narrazione audiovisiva è portata definitivamente a compimento. Divenuto manuale di scrittura imprescindibile, il testo è soprattutto la testimonianza dell’inestimabile opera di rivelazione e sistematizzazione teorica che Joseph Campbell è stato capace di compiere relativamente ai modi del raccontare dell’uomo. MICHAEL CASTRONUOVO

CAPITOLO E

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->

Scrittura seriale E

CAPITOLO F Racconti privati, memorie pubbliche p. 107

Joseph Campbell e il potere del mito (Joseph Campbell and the Power of Myth) Fotografia: John Robinson Montaggio: Leonard Feinstein, Girish Bhargava, Bill Moyers Musiche: Richard Peaslee

Produzione: Apostrophe S Productions, Public Affairs Television Origine: USA 1988 Durata: 360’ (in sei episodi)

espressione dell’inconscio umano. Con questa serie, andata in onda meno di un anno dopo la sua morte, Campbell ci ha lasciato la chiave di un mondo più ricco e il compito di non lasciarlo chiuso dentro di noi. Quando si parla di mito si parla di qualcosa di profondamente antico e allo Joseph Campbell e il potere del mito, 1988 stesso tempo profondamente interiore, Il potere del mito è ancora forte e quindi presente, vivo. Joseph Campbell e fondamentale per Joseph Campbell, fu una di quelle menti illuminate mitologo statunitense tra i più conosciuti e illuminanti, capace di riattualizzare e influenti. Applicando il concetto qualcosa di apparentemente sommerso. junghiano di figura archetipica agli eroi Con i suoi numerosi libri dal linguaggio presenti in ogni cultura ha scoperto accessibile anche ai non esperti e in quanto questi si somiglino e quanto particolare per il suo legame con siano tutti riconducibili a dei modelli Star Wars, di cui era grande estimatore, comuni, non perché aventi un’origine Campbell si è guadagnato la notorietà storica o culturale comune, bensì perché che merita ed è oggi ancora vivo nella 104

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

memoria e sugli scaffali del mondo anglosassone e non, molto più di quanto lo siano le idee e le opere di autori che in qualche modo si son mossi sul suo stesso campo come Kerenyi, Propp, Frazer, Eliade e altri. Non in ultimo la sua fama è dovuta anche alla realizzazione di una serie di trasmissioni televisive che ne hanno messo in luce la personalità carismatica, la passione e la lucidità intellettuale. Joseph Campbell and the Power of Myth andò in onda sulla PBS nell’estate del 1988 in sei puntate, ciascuna da un’ora circa, sotto forma di una lunga intervista del giornalista Bill Moyers al grande mitologo. La serie prende le mosse da The Hero with a Thousand Faces, opera di Campbell edita nel 1949, ma ancora fondamentale decenni dopo nella ricerca dell’archetipo dell’eroe nelle diverse culture. Mitologia comparata quindi, ma molto di più, perché grazie alla facilità di similitudine di Campbell e alla sincera fascinazione e curiosità di Moyers, ogni concetto, ogni scoperta, ogni passo avanti compiuto nella conversazione viene riferito all’oggi, alla percezione moderna dell’eroe, a chi lo diventa e perché e a chi, individuando i propri eroi, costruisce una personale mitologia. Ogni confine tra le discipline svanisce, psicologia, scienza, informatica, economia, cinema, sociologia, arti figurative, si mescolano con una naturalezza che non può non suggerire come il mito sia la rappresentazione più completa di una società e del suo tempo e di quanto esso condensi tutto ciò che l’uomo fa, pensa ed è. La serie ebbe molto successo e per molti fu una porta spalancata su una rete di connessioni mai sospettate, un

invito a vivere con più profondità e con maggiore coscienza il rapporto col proprio Io. Quello che ne esce è infatti un quadro della spiritualità totalmente moderno, che intreccia individuo e comunità in uno scambio costante di simboli e significati dove al bisogno di risposte del primo corrisponde un’elaborazione della seconda sotto forma di “narrazioni” collettive e condivise, veicolate dai mezzi di comunicazione di volta in volta disponibili. Chissà cosa avrebbe pensato Campbell di internet, come l’avrebbe interpretato, lui che già a fine anni Ottanta, quando mouse e interfacce grafiche avevano da pochi anni fatto il loro ingresso sulla scena, parlava di religione come software. Intravide sviluppi allora imprevedibili verso un mondo, quello attuale, in cui l’informatizzazione è il centro attorno a cui gira ogni cosa e la rete è forse la tessitrice dell’attuale racconto, la narratrice del focolare, la grande madre alla base di ogni mitologia. Moyers, che ammetterà poi di essere stato profondamente segnato da quelle conversazioni, in più di un’inquadratura non nasconde il suo stupore, incarnando pienamente lo spettatore di ogni tempo, che troverà in queste interviste una via certa verso una ricchezza del tutto umana e per questo fragile e preziosa.

CAPITOLO E

ERASMO DE MEO

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Scrittura seriale E

CAPITOLO F Racconti privati, memorie pubbliche p. 107

Joseph Campbell e il potere del mito (Joseph Campbell and the Power of Myth) Fotografia: John Robinson Montaggio: Leonard Feinstein, Girish Bhargava, Bill Moyers Musiche: Richard Peaslee

Produzione: Apostrophe S Productions, Public Affairs Television Origine: USA 1988 Durata: 360’ (in sei episodi)

espressione dell’inconscio umano. Con questa serie, andata in onda meno di un anno dopo la sua morte, Campbell ci ha lasciato la chiave di un mondo più ricco e il compito di non lasciarlo chiuso dentro di noi. Quando si parla di mito si parla di qualcosa di profondamente antico e allo Joseph Campbell e il potere del mito, 1988 stesso tempo profondamente interiore, Il potere del mito è ancora forte e quindi presente, vivo. Joseph Campbell e fondamentale per Joseph Campbell, fu una di quelle menti illuminate mitologo statunitense tra i più conosciuti e illuminanti, capace di riattualizzare e influenti. Applicando il concetto qualcosa di apparentemente sommerso. junghiano di figura archetipica agli eroi Con i suoi numerosi libri dal linguaggio presenti in ogni cultura ha scoperto accessibile anche ai non esperti e in quanto questi si somiglino e quanto particolare per il suo legame con siano tutti riconducibili a dei modelli Star Wars, di cui era grande estimatore, comuni, non perché aventi un’origine Campbell si è guadagnato la notorietà storica o culturale comune, bensì perché che merita ed è oggi ancora vivo nella 104

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

memoria e sugli scaffali del mondo anglosassone e non, molto più di quanto lo siano le idee e le opere di autori che in qualche modo si son mossi sul suo stesso campo come Kerenyi, Propp, Frazer, Eliade e altri. Non in ultimo la sua fama è dovuta anche alla realizzazione di una serie di trasmissioni televisive che ne hanno messo in luce la personalità carismatica, la passione e la lucidità intellettuale. Joseph Campbell and the Power of Myth andò in onda sulla PBS nell’estate del 1988 in sei puntate, ciascuna da un’ora circa, sotto forma di una lunga intervista del giornalista Bill Moyers al grande mitologo. La serie prende le mosse da The Hero with a Thousand Faces, opera di Campbell edita nel 1949, ma ancora fondamentale decenni dopo nella ricerca dell’archetipo dell’eroe nelle diverse culture. Mitologia comparata quindi, ma molto di più, perché grazie alla facilità di similitudine di Campbell e alla sincera fascinazione e curiosità di Moyers, ogni concetto, ogni scoperta, ogni passo avanti compiuto nella conversazione viene riferito all’oggi, alla percezione moderna dell’eroe, a chi lo diventa e perché e a chi, individuando i propri eroi, costruisce una personale mitologia. Ogni confine tra le discipline svanisce, psicologia, scienza, informatica, economia, cinema, sociologia, arti figurative, si mescolano con una naturalezza che non può non suggerire come il mito sia la rappresentazione più completa di una società e del suo tempo e di quanto esso condensi tutto ciò che l’uomo fa, pensa ed è. La serie ebbe molto successo e per molti fu una porta spalancata su una rete di connessioni mai sospettate, un

invito a vivere con più profondità e con maggiore coscienza il rapporto col proprio Io. Quello che ne esce è infatti un quadro della spiritualità totalmente moderno, che intreccia individuo e comunità in uno scambio costante di simboli e significati dove al bisogno di risposte del primo corrisponde un’elaborazione della seconda sotto forma di “narrazioni” collettive e condivise, veicolate dai mezzi di comunicazione di volta in volta disponibili. Chissà cosa avrebbe pensato Campbell di internet, come l’avrebbe interpretato, lui che già a fine anni Ottanta, quando mouse e interfacce grafiche avevano da pochi anni fatto il loro ingresso sulla scena, parlava di religione come software. Intravide sviluppi allora imprevedibili verso un mondo, quello attuale, in cui l’informatizzazione è il centro attorno a cui gira ogni cosa e la rete è forse la tessitrice dell’attuale racconto, la narratrice del focolare, la grande madre alla base di ogni mitologia. Moyers, che ammetterà poi di essere stato profondamente segnato da quelle conversazioni, in più di un’inquadratura non nasconde il suo stupore, incarnando pienamente lo spettatore di ogni tempo, che troverà in queste interviste una via certa verso una ricchezza del tutto umana e per questo fragile e preziosa.

CAPITOLO E

ERASMO DE MEO

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 107–113 Racconti privati, memorie pubbliche

Capitolo F 107


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 107–113 Racconti privati, memorie pubbliche

Capitolo F 107


Racconti privati, memorie pubbliche F

-> UN’ORA SOLA TI VORREI Regia: Alina Marazzi p. 110

Gorizia: film di famiglia, storie di una città I film di famiglia sono uno dei patrimoni culturali sommersi del Novecento, al confine tra racconto del privato e intreccio con le grandi narrazioni della storia del secolo scorso. Al centro della rivoluzione storiografica nell’ambito dei film studies, della liberalizzazione della circolazione dei patrimoni “orfani” in ambito europeo, di più interessi disciplinari che vanno dalla storia tout court alla storia dei media contemporanei, il cinema di famiglia è una fonte storica straordinariamente ricca. Racconta biografie di autori appassionati e non sempre dilettanti; rivela storie di famiglia, di intimità e sentimenti; svela domesticità e vita quotidiana, consumi e culture; mostra la vita privata e quella comunitaria; descrive una città, i suoi spazi e i cambiamenti che la interessano, i ritmi della sua vita associata. A questo patrimonio è dedicato il Laboratorio Interdisciplinare del Film di Famiglia (LIFF), un progetto didattico innovativo che coinvolge docenti e studenti della Laurea Magistrale in Scienze del patrimonio audiovisivo e dei nuovi media – International Master in Audiovisual and Cinema Studies (IMACS), dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine. Il progetto testimonia la collaborazione interdisciplinare tra storici, storici del cinema e restauratori 108

dei beni audiovisivi, fa tesoro dell’attività decennale del Laboratorio “La Camera Ottica” nel campo della conservazione, restauro e valorizzazione del cinema amatoriale, della collaborazione con l’“Archivio Nazionale del Film di Famiglia” di Bologna e con la Mediateca Provinciale di Gorizia “Ugo Casiraghi”. Dopo un biennio di didattica sperimentale e interdisciplinare, è possibile mostrare alcuni dei risultati che i materiali filmici di fondi privati (in particolare il fondo Pilato e il fondo Sgubin) hanno consentito in termini di riuso creativo e di approfondimento storico. Tre audiovisivi didattici raccontano tre differenti storie: la biografia di un cineamatore, Ugo Pilato; la scuola degli anni Cinquanta e Sessanta: strumento didattico e testimonianza; il cambiamento di una città, Gorizia, che negli anni del boom economico non potendo ignorare un confine ingombrante, lo trasforma in un’opportunità. Ritratto ⁄ autoritratto: Ugo Pilato cineamatore Quella di Ugo Pilato, nato in Sicilia e arrivato bambino, con la famiglia, a Gorizia dopo la Prima guerra mondiale, è una figura dalle molte sfaccettature. Cinefilo appassionato, membro del Cineclub, produttore, regista e sceneggiatore; una volta finita la guerra,

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

ritornato dalla dura esperienza della deportazione, ha fatto l’insegnante: produce e diffonde cultura in maniera incisiva ma senza troppa risonanza. È uno di quegli uomini silenziosi che, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, attraverso il cinema amatoriale e le attività divulgative e produttive connesse, partecipa alla rinascita di una città, Gorizia, che, più di altre, deve dimenticare la guerra. Ma Pilato è stato anche un padre affettuoso, un marito, un amico che ha fermato i momenti della sua vita privata attraverso la cinepresa, come tanti padri e madri di famiglia, in quegli anni. Questo contributo li usa, quei filmati, per raccontare lui e quel tempo.

slovena), è un prezioso documento di quell’idea di educazione, già presente, quindici anni prima, in Scuola all’aperto (1950) di Quarto Cossi e che ritorna nel cortometraggio di finzione Giorno di sciopero (1956), realizzato dallo stesso Pilato per il Cineclub Gorizia: un’idea di educazione del corpo e della mente in sintonia, dove la natura si fa scuola. Tempo di cambiamenti. Dal tempo rituale al tempo libero

Gorizia, anni Sessanta, e poi Settanta. Decenni pieni di contrasti: la guerra non è ancora sepolta nei ricordi e nell’elaborazione dei traumi collettivi e personali; ma la vita riparte, con slancio, nel boom economico, nel cambiamento Uno schermo per insegnare, una del volto urbano della città, nella vivacità cinepresa per testimoniare dell’associazionismo culturale, sportivo, del tempo finalmente liberato. Il confine Nel 1957, Pilato, con alcuni amici però è lì, in mezzo alla città. E soprattutto cineamatori, fonda la La Caravella Film, società di produzione cinematografica di le montagne, sono di confine. In bilico tra la guerra e la prosperità, tra le radici cortometraggi e filmstrip per la scuola. profonde della religiosità e le seduzioni Sa bene quanto queste nuove tecniche possano ammodernare la didattica. Pilato del divertimento, è un tempo in cui la vita goriziana mostra anche l’impegno è stato insegnante e poi funzionario del di uomini che usano le immagini, il CAI Provveditorato agli studi di Gorizia, che e i concorsi fotografici per tessere un distribuisce questi materiali didattici dialogo, un legame di civiltà. attraverso il Centro provinciale per i sussidi audiovisivi. L’anno prima, in LAURA CASELLA televisione, inizia L’amico degli animali, il programma di Angelo Lombardi, progenitore della divulgazione scientifica; di lì a poco il maestro Manzi insegnerà a quella parte d’Italia ancora analfabeta che Non è mai troppo tardi, per imparare a leggere e scrivere. Scuola materna 1966 in cui Pilato racconta una giornata all’asilo della frazione di Sant’Andrea (oggi scuola Fran Erjavec, di minoranza CAPITOLO F

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Racconti privati, memorie pubbliche F

-> UN’ORA SOLA TI VORREI Regia: Alina Marazzi p. 110

Gorizia: film di famiglia, storie di una città I film di famiglia sono uno dei patrimoni culturali sommersi del Novecento, al confine tra racconto del privato e intreccio con le grandi narrazioni della storia del secolo scorso. Al centro della rivoluzione storiografica nell’ambito dei film studies, della liberalizzazione della circolazione dei patrimoni “orfani” in ambito europeo, di più interessi disciplinari che vanno dalla storia tout court alla storia dei media contemporanei, il cinema di famiglia è una fonte storica straordinariamente ricca. Racconta biografie di autori appassionati e non sempre dilettanti; rivela storie di famiglia, di intimità e sentimenti; svela domesticità e vita quotidiana, consumi e culture; mostra la vita privata e quella comunitaria; descrive una città, i suoi spazi e i cambiamenti che la interessano, i ritmi della sua vita associata. A questo patrimonio è dedicato il Laboratorio Interdisciplinare del Film di Famiglia (LIFF), un progetto didattico innovativo che coinvolge docenti e studenti della Laurea Magistrale in Scienze del patrimonio audiovisivo e dei nuovi media – International Master in Audiovisual and Cinema Studies (IMACS), dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine. Il progetto testimonia la collaborazione interdisciplinare tra storici, storici del cinema e restauratori 108

dei beni audiovisivi, fa tesoro dell’attività decennale del Laboratorio “La Camera Ottica” nel campo della conservazione, restauro e valorizzazione del cinema amatoriale, della collaborazione con l’“Archivio Nazionale del Film di Famiglia” di Bologna e con la Mediateca Provinciale di Gorizia “Ugo Casiraghi”. Dopo un biennio di didattica sperimentale e interdisciplinare, è possibile mostrare alcuni dei risultati che i materiali filmici di fondi privati (in particolare il fondo Pilato e il fondo Sgubin) hanno consentito in termini di riuso creativo e di approfondimento storico. Tre audiovisivi didattici raccontano tre differenti storie: la biografia di un cineamatore, Ugo Pilato; la scuola degli anni Cinquanta e Sessanta: strumento didattico e testimonianza; il cambiamento di una città, Gorizia, che negli anni del boom economico non potendo ignorare un confine ingombrante, lo trasforma in un’opportunità. Ritratto ⁄ autoritratto: Ugo Pilato cineamatore Quella di Ugo Pilato, nato in Sicilia e arrivato bambino, con la famiglia, a Gorizia dopo la Prima guerra mondiale, è una figura dalle molte sfaccettature. Cinefilo appassionato, membro del Cineclub, produttore, regista e sceneggiatore; una volta finita la guerra,

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

ritornato dalla dura esperienza della deportazione, ha fatto l’insegnante: produce e diffonde cultura in maniera incisiva ma senza troppa risonanza. È uno di quegli uomini silenziosi che, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, attraverso il cinema amatoriale e le attività divulgative e produttive connesse, partecipa alla rinascita di una città, Gorizia, che, più di altre, deve dimenticare la guerra. Ma Pilato è stato anche un padre affettuoso, un marito, un amico che ha fermato i momenti della sua vita privata attraverso la cinepresa, come tanti padri e madri di famiglia, in quegli anni. Questo contributo li usa, quei filmati, per raccontare lui e quel tempo.

slovena), è un prezioso documento di quell’idea di educazione, già presente, quindici anni prima, in Scuola all’aperto (1950) di Quarto Cossi e che ritorna nel cortometraggio di finzione Giorno di sciopero (1956), realizzato dallo stesso Pilato per il Cineclub Gorizia: un’idea di educazione del corpo e della mente in sintonia, dove la natura si fa scuola. Tempo di cambiamenti. Dal tempo rituale al tempo libero

Gorizia, anni Sessanta, e poi Settanta. Decenni pieni di contrasti: la guerra non è ancora sepolta nei ricordi e nell’elaborazione dei traumi collettivi e personali; ma la vita riparte, con slancio, nel boom economico, nel cambiamento Uno schermo per insegnare, una del volto urbano della città, nella vivacità cinepresa per testimoniare dell’associazionismo culturale, sportivo, del tempo finalmente liberato. Il confine Nel 1957, Pilato, con alcuni amici però è lì, in mezzo alla città. E soprattutto cineamatori, fonda la La Caravella Film, società di produzione cinematografica di le montagne, sono di confine. In bilico tra la guerra e la prosperità, tra le radici cortometraggi e filmstrip per la scuola. profonde della religiosità e le seduzioni Sa bene quanto queste nuove tecniche possano ammodernare la didattica. Pilato del divertimento, è un tempo in cui la vita goriziana mostra anche l’impegno è stato insegnante e poi funzionario del di uomini che usano le immagini, il CAI Provveditorato agli studi di Gorizia, che e i concorsi fotografici per tessere un distribuisce questi materiali didattici dialogo, un legame di civiltà. attraverso il Centro provinciale per i sussidi audiovisivi. L’anno prima, in LAURA CASELLA televisione, inizia L’amico degli animali, il programma di Angelo Lombardi, progenitore della divulgazione scientifica; di lì a poco il maestro Manzi insegnerà a quella parte d’Italia ancora analfabeta che Non è mai troppo tardi, per imparare a leggere e scrivere. Scuola materna 1966 in cui Pilato racconta una giornata all’asilo della frazione di Sant’Andrea (oggi scuola Fran Erjavec, di minoranza CAPITOLO F

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-> PER SEMPRE Regia: Alina Marazzi p. 112

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Un’ora sola ti vorrei Regia: Alina Marazzi Sceneggiatura: Alina Marazzi Montaggio: Italia Fraioli Produzione: Venerdí Produzione Cinema e Bartlebyfilm in coproduzione con RSI Televisione Svizzera con la partecipazione di Tele+ Distribuzione: Mikado Film Origine: Italia, Svizzera 2002 Durata: 55’

Premi: Torino Film Festival Interpreti: Luisa Hoepli Marazzi (2002): Miglior Documentario; (sé stessa), Alina Marazzi (sé Festival Internazionale del Film stessa) di Locarno (2002): Menzione Speciale della giuria; Festival dei Popoli di Firenze (2002): Menzione Speciale; Festival International de Documentàrios Tudo Verdade (2003): Menzione Speciale della giuria; Annual Newport International Film Festival Awards: Usa Caliborne Pell Award; Kalamata International Documentary Film Festival: Silver Stone Award

insieme ai diari ritrovati e ai dischi preferiti dalla madre. È un viaggio nella memoria, nell’inquietudine e nel mal di vivere di una donna che sembrava aver tutto dalla vita.

Un’ora sola ti vorrei, 2002

La regista cerca di ricostruire la vita e la personalità della madre, Luisa Hoepli Marazzi, morta suicida nel 1972, a soli trentatré anni, dopo aver convissuto lungamente con una profonda depressione che l’ha costretta in una casa di cura. Alina, che ha perso la madre all’età di sette anni, monta i filmini di famiglia, girati dal nonno, il libraio–editore milanese Ulrico Hoepli, 110

All’inizio c’è il corpo della madre, il primo fuori da noi che conosciamo, il primo volto di cui ci ricordiamo. La madre è un insieme di tracce, asprezze e delicatezze che danno l’impronta alla nostra vita. La sua morte è un bagaglio difficile da portare addosso e per sopportare questo la Marazzi scoperchia scatole ricolme di ricordi e realizza Un’ora sola ti vorrei, in cui bruciano i corpi sullo schermo e così si ricompone il legame con le origini. La sua opera non è solo un documentario, non è solo found footage cinema, ma qualcosa di più, un disperato

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

atto d’amore di una figlia, un diario filmato in cui una bambina conosce la figura materna. Nonna e nonno, mamma e papà, lei da piccola (ri)vivono e dialogano vincendo la strapotenza dell’oblio. Prendono vita i riti più significativi del nucleo familiare (le gite, i matrimoni, le feste, le nascite), la felicità, ma anche il dolore, quello profondo e devastante della depressione, le insicurezze della bambina, il disagio dell’adolescente, la solitudine della maternità. Si scontra così l’Io sociale (la Luisa dei film di famiglia) e l’Io privato (la Luisa delle carte). Fin dal titolo si comprende che questo documentario è intriso di passione e sentimento, quello di una figlia che ricorda poco della propria madre, quello di una documentarista piena di talento che attraverso uno studio inesauribile ricostruisce e riporta alla luce. Crea una memoria attraverso i film di famiglia (1926-1972), trovati negli archivi del nonno e cineamatore Ulrico Hoepli, le foto, le lettere, i diari scritti dalla dolce e sofferente Luisa, bella come una diva ma piena di ferite. Il percorso fatto dalla Marazzi diventa terapeutico ed evocativo, è una ricerca di quel volto a cui mancano i contorni, che appare chiuso nelle convenzioni sociali e nei modelli femminili prestabiliti. Le parole dei diari escono e lottano con le immagini, in bianco e nero e a colori, dei film amatoriali girati dal nonno. Emerge con forza quasi onirica il viso puro e dolente di Luisa che inizia a costruirsi, smentendo sé stesso, e accade come un’epifania lirica colma di poesia. Ricordare, ripetere e rielaborare diceva Freud e questo fa la Marazzi. La regista non rispetta l’ordine

cronologico, aggiunge suoni al silenzio dell’assenza, rallenta il fluire della vita per capovolgerlo di senso, monta, compone, rimaneggia ciò che già c’era. In ciò che si vede mostra ciò che non si vede, va oltre alla retorica della felicità: l’adolescente Luisa ride con le amiche, lo spettatore sente che sopra di lei grava l’inadeguatezza, la madre Luisa stringe a sé i suoi figli, lo spettatore sa che dentro di lei la depressione la mangia. Al centro di tutto c’è Alina che scioglie i nodi e stringe un legame indissolubile e commovente con le altre donne della sua vita. Non c’è solo quindi il racconto della “lacuna” ma anche un trittico di femminilità, la nonna, la madre, Alina stessa – presente più che mai con la voce over che legge le pagine dei diari – e si compone un racconto di quegli anni. Un’ora sola ti vorrei è un documentario di disperazione e nostalgia, amore e senso della perdita. È un film necessario, quasi essenziale per la regista, per superare il lutto e costruire un suo “album” dei ricordi, e lo diventa incredibilmente anche per lo spettatore, rapito da un dolore malinconico, da un nostalgico sentimento comune, la mancanza.

CAPITOLO F

ELEONORA DEGRASSI

111


-> PER SEMPRE Regia: Alina Marazzi p. 112

Racconti privati, memorie pubbliche F

Un’ora sola ti vorrei Regia: Alina Marazzi Sceneggiatura: Alina Marazzi Montaggio: Italia Fraioli Produzione: Venerdí Produzione Cinema e Bartlebyfilm in coproduzione con RSI Televisione Svizzera con la partecipazione di Tele+ Distribuzione: Mikado Film Origine: Italia, Svizzera 2002 Durata: 55’

Premi: Torino Film Festival Interpreti: Luisa Hoepli Marazzi (2002): Miglior Documentario; (sé stessa), Alina Marazzi (sé Festival Internazionale del Film stessa) di Locarno (2002): Menzione Speciale della giuria; Festival dei Popoli di Firenze (2002): Menzione Speciale; Festival International de Documentàrios Tudo Verdade (2003): Menzione Speciale della giuria; Annual Newport International Film Festival Awards: Usa Caliborne Pell Award; Kalamata International Documentary Film Festival: Silver Stone Award

insieme ai diari ritrovati e ai dischi preferiti dalla madre. È un viaggio nella memoria, nell’inquietudine e nel mal di vivere di una donna che sembrava aver tutto dalla vita.

Un’ora sola ti vorrei, 2002

La regista cerca di ricostruire la vita e la personalità della madre, Luisa Hoepli Marazzi, morta suicida nel 1972, a soli trentatré anni, dopo aver convissuto lungamente con una profonda depressione che l’ha costretta in una casa di cura. Alina, che ha perso la madre all’età di sette anni, monta i filmini di famiglia, girati dal nonno, il libraio–editore milanese Ulrico Hoepli, 110

All’inizio c’è il corpo della madre, il primo fuori da noi che conosciamo, il primo volto di cui ci ricordiamo. La madre è un insieme di tracce, asprezze e delicatezze che danno l’impronta alla nostra vita. La sua morte è un bagaglio difficile da portare addosso e per sopportare questo la Marazzi scoperchia scatole ricolme di ricordi e realizza Un’ora sola ti vorrei, in cui bruciano i corpi sullo schermo e così si ricompone il legame con le origini. La sua opera non è solo un documentario, non è solo found footage cinema, ma qualcosa di più, un disperato

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

atto d’amore di una figlia, un diario filmato in cui una bambina conosce la figura materna. Nonna e nonno, mamma e papà, lei da piccola (ri)vivono e dialogano vincendo la strapotenza dell’oblio. Prendono vita i riti più significativi del nucleo familiare (le gite, i matrimoni, le feste, le nascite), la felicità, ma anche il dolore, quello profondo e devastante della depressione, le insicurezze della bambina, il disagio dell’adolescente, la solitudine della maternità. Si scontra così l’Io sociale (la Luisa dei film di famiglia) e l’Io privato (la Luisa delle carte). Fin dal titolo si comprende che questo documentario è intriso di passione e sentimento, quello di una figlia che ricorda poco della propria madre, quello di una documentarista piena di talento che attraverso uno studio inesauribile ricostruisce e riporta alla luce. Crea una memoria attraverso i film di famiglia (1926-1972), trovati negli archivi del nonno e cineamatore Ulrico Hoepli, le foto, le lettere, i diari scritti dalla dolce e sofferente Luisa, bella come una diva ma piena di ferite. Il percorso fatto dalla Marazzi diventa terapeutico ed evocativo, è una ricerca di quel volto a cui mancano i contorni, che appare chiuso nelle convenzioni sociali e nei modelli femminili prestabiliti. Le parole dei diari escono e lottano con le immagini, in bianco e nero e a colori, dei film amatoriali girati dal nonno. Emerge con forza quasi onirica il viso puro e dolente di Luisa che inizia a costruirsi, smentendo sé stesso, e accade come un’epifania lirica colma di poesia. Ricordare, ripetere e rielaborare diceva Freud e questo fa la Marazzi. La regista non rispetta l’ordine

cronologico, aggiunge suoni al silenzio dell’assenza, rallenta il fluire della vita per capovolgerlo di senso, monta, compone, rimaneggia ciò che già c’era. In ciò che si vede mostra ciò che non si vede, va oltre alla retorica della felicità: l’adolescente Luisa ride con le amiche, lo spettatore sente che sopra di lei grava l’inadeguatezza, la madre Luisa stringe a sé i suoi figli, lo spettatore sa che dentro di lei la depressione la mangia. Al centro di tutto c’è Alina che scioglie i nodi e stringe un legame indissolubile e commovente con le altre donne della sua vita. Non c’è solo quindi il racconto della “lacuna” ma anche un trittico di femminilità, la nonna, la madre, Alina stessa – presente più che mai con la voce over che legge le pagine dei diari – e si compone un racconto di quegli anni. Un’ora sola ti vorrei è un documentario di disperazione e nostalgia, amore e senso della perdita. È un film necessario, quasi essenziale per la regista, per superare il lutto e costruire un suo “album” dei ricordi, e lo diventa incredibilmente anche per lo spettatore, rapito da un dolore malinconico, da un nostalgico sentimento comune, la mancanza.

CAPITOLO F

ELEONORA DEGRASSI

111


Racconti privati, memorie pubbliche <- UN’ORA SOLA TI VORREI Regia: Alina Marazzi F p. 110

-> CAPITOLO G Premio alla cultura cinematografica p. 115

Per sempre Regia: Alina Marazzi Soggetto: Alina Marazzi Fotografia: Giuseppe Baresi, Sabrina Varani Montaggio: Ilaria Fraioli Musiche: Michele Fedrigotti, Vic Vergeat

Produzione: MIR Cinematografica, Cisa Service, RSI Distribuzione: MIR Cinematografica Origine: Italia 2004 Durata: 52’ Premi: Bellaria Film Festival (2006): Premio Casa Rossa

solo all’apparenza, sembra avere meno da dare. E alla fine ciò che la regista rappresenta non è il mondo monastico fine a sé stesso ma soprattutto la scelta che sta alla base di una vita. Cosa porta una donna a diventare suora di clausura? Quali sono le scelte che si celano dietro ad una decisione Per sempre, 2004 così radicale? A queste domande, e molte Per sempre è un documentario altre, prova a rispondere Alina Marazzi che analizza e approfondisce la scelta nel suo documentario Per sempre, di alcune donne di intraprendere una cinquanta minuti volti a raccontare le vita religiosa all’interno delle comunità testimonianze di chi, questa vita, l’ha monastiche. Attraverso testimonianze sentita dentro e la sceglie “per la vita”. e racconti personali, scopriamo i motivi Girato tra il Carmelo di Legnano, l’Abbazia che si celano dietro ad una decisione benedettina di Viboldone e dalle monache così definitiva, tra abitudini, quotidianità di Camaldoni, il film ha richiesto tre anni e una spiritualità totalmente dominante, di ricerche e arriva dopo il successo sfidando il mondo esterno e una vita che, ottenuto con Un’ora sola ti vorrei, un’altra  112

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

opera intima dove la Marazzi, attraverso i filmati di famiglia, ritrae la madre persa da bambina. Anche in questo caso si avvale di una prospettiva molto soggettiva, soffermandosi prevalentemente sulla vita delle monache e sulla loro vocazione religiosa. Non un film d’inchiesta, ma un ritratto limpido e accattivante sulla quotidianità, sulle abitudini e sulle riflessioni personali all’interno dei conventi. Al centro ci sono sempre personaggi femminili forti, che impariamo a conoscere attraverso le loro parole: quello che traspare è la loro totale dedizione verso un mondo per certi versi quasi sconosciuto alla stragrande maggioranza, ma che per chi lo accetta diventa esistenziale. Scelte definitive che portano alla rielaborazione della propria femminilità e a rinunce di vita, come racconta la testimonianza di Valeria, che si apre totalmente con la regista, tanto da regalare sensazioni intime percettibili anche ai più scettici. Lei, suora a 27 anni, diventa una figura fondamentale ai fini del racconto stesso, proprio perché attraverso le sue parole si percepisce chiaramente il percorso che una donna deve intraprendere per entrare in monastero, confrontandolo tra presente e passato, dove le differenze non possono che essere evidenti. Ma anima e corpo sono un tutt’uno con una fede che risulta imprescindibile, arriva dal profondo del cuore e si tramuta in una scelta totalizzante di amore verso il prossimo, resa ancora più forte dal legame che si viene a creare tra esse. Anche perché nel loro caso non c’è neanche la possibilità di fare carriera, non puoi diventare papa,

ma è qualcosa che, paradossalmente, le rende più libere. Sono loro stesse a dirlo, essendo consapevoli di trovarsi ai margini della società, dove, però, non esistono competitività e potere. Forte delle proprie idee, Per sempre ha la capacità, attraverso immagini pure ed esaustive, accompagnate dalla voce fuori campo di Alina Marazzi, di essere un documentario dove la fede religiosa diventa un credo e un tramite per scelte di vita che, in alcuni casi, possono anche subire un ripensamento. Come quella di Valeria, che dopo due anni decide di abbandonare la sua missione con lo stesso coraggio di come l’aveva iniziata. Scelte che diventano, e sono, personali, che non vanno giudicate o comprese, ma solo accettate perché ognuno ha la libertà di farle. E questo, di per sé, è già un traguardo che va difeso e valorizzato per amore della vita stessa.

CAPITOLO F

MARTINA FARCI

113


Racconti privati, memorie pubbliche <- UN’ORA SOLA TI VORREI Regia: Alina Marazzi F p. 110

-> CAPITOLO G Premio alla cultura cinematografica p. 115

Per sempre Regia: Alina Marazzi Soggetto: Alina Marazzi Fotografia: Giuseppe Baresi, Sabrina Varani Montaggio: Ilaria Fraioli Musiche: Michele Fedrigotti, Vic Vergeat

Produzione: MIR Cinematografica, Cisa Service, RSI Distribuzione: MIR Cinematografica Origine: Italia 2004 Durata: 52’ Premi: Bellaria Film Festival (2006): Premio Casa Rossa

solo all’apparenza, sembra avere meno da dare. E alla fine ciò che la regista rappresenta non è il mondo monastico fine a sé stesso ma soprattutto la scelta che sta alla base di una vita. Cosa porta una donna a diventare suora di clausura? Quali sono le scelte che si celano dietro ad una decisione Per sempre, 2004 così radicale? A queste domande, e molte Per sempre è un documentario altre, prova a rispondere Alina Marazzi che analizza e approfondisce la scelta nel suo documentario Per sempre, di alcune donne di intraprendere una cinquanta minuti volti a raccontare le vita religiosa all’interno delle comunità testimonianze di chi, questa vita, l’ha monastiche. Attraverso testimonianze sentita dentro e la sceglie “per la vita”. e racconti personali, scopriamo i motivi Girato tra il Carmelo di Legnano, l’Abbazia che si celano dietro ad una decisione benedettina di Viboldone e dalle monache così definitiva, tra abitudini, quotidianità di Camaldoni, il film ha richiesto tre anni e una spiritualità totalmente dominante, di ricerche e arriva dopo il successo sfidando il mondo esterno e una vita che, ottenuto con Un’ora sola ti vorrei, un’altra  112

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

opera intima dove la Marazzi, attraverso i filmati di famiglia, ritrae la madre persa da bambina. Anche in questo caso si avvale di una prospettiva molto soggettiva, soffermandosi prevalentemente sulla vita delle monache e sulla loro vocazione religiosa. Non un film d’inchiesta, ma un ritratto limpido e accattivante sulla quotidianità, sulle abitudini e sulle riflessioni personali all’interno dei conventi. Al centro ci sono sempre personaggi femminili forti, che impariamo a conoscere attraverso le loro parole: quello che traspare è la loro totale dedizione verso un mondo per certi versi quasi sconosciuto alla stragrande maggioranza, ma che per chi lo accetta diventa esistenziale. Scelte definitive che portano alla rielaborazione della propria femminilità e a rinunce di vita, come racconta la testimonianza di Valeria, che si apre totalmente con la regista, tanto da regalare sensazioni intime percettibili anche ai più scettici. Lei, suora a 27 anni, diventa una figura fondamentale ai fini del racconto stesso, proprio perché attraverso le sue parole si percepisce chiaramente il percorso che una donna deve intraprendere per entrare in monastero, confrontandolo tra presente e passato, dove le differenze non possono che essere evidenti. Ma anima e corpo sono un tutt’uno con una fede che risulta imprescindibile, arriva dal profondo del cuore e si tramuta in una scelta totalizzante di amore verso il prossimo, resa ancora più forte dal legame che si viene a creare tra esse. Anche perché nel loro caso non c’è neanche la possibilità di fare carriera, non puoi diventare papa,

ma è qualcosa che, paradossalmente, le rende più libere. Sono loro stesse a dirlo, essendo consapevoli di trovarsi ai margini della società, dove, però, non esistono competitività e potere. Forte delle proprie idee, Per sempre ha la capacità, attraverso immagini pure ed esaustive, accompagnate dalla voce fuori campo di Alina Marazzi, di essere un documentario dove la fede religiosa diventa un credo e un tramite per scelte di vita che, in alcuni casi, possono anche subire un ripensamento. Come quella di Valeria, che dopo due anni decide di abbandonare la sua missione con lo stesso coraggio di come l’aveva iniziata. Scelte che diventano, e sono, personali, che non vanno giudicate o comprese, ma solo accettate perché ognuno ha la libertà di farle. E questo, di per sé, è già un traguardo che va difeso e valorizzato per amore della vita stessa.

CAPITOLO F

MARTINA FARCI

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 115–117 Premio alla cultura cinematografica ⁄ I ragazzi del Cinema America

i cinema storici di quartiere, dal Piccolo America di Trastevere alla sala Troisi, proponendo rassegne cinematografiche aperte a tutti, animando l’Arena di San Il Premio viene attribuito a coloro Cosimato con proiezioni estive gratuite che svolgono un ruolo importante in piazza, trasformando il degrado in nella valorizzazione delle opere occasione di cultura e aggregazione. cinematografiche, per la difesa delle Grazie alla determinazione e all’impegno libertà artistica, morale e professionale, civile, “I ragazzi del Cinema America” per la tutela dell’autorialità in ogni sua rappresentano oggi un’esperienza forma, per la volontà di promuovere la formazione di nuovi talenti, per il sostegno virtuosa di dialogo e coesistenza tra realtà apparentemente distanti (le periferie, al coraggio e all’innovazione e infine per la volontà di trasformare l’esperienza il centro, la piazza, le istituzioni), attuata grazie al potere catalizzatore del cinema; cinematografica in un’occasione suggerendo nello stesso tempo nuovi di crescita, civile e culturale, collettiva. modi di operare in campo culturale e un Quest’anno il Premio viene esempio positivo di riscatto della sala, attribuito a “I ragazzi del Cinema luogo virtualmente ricco di contatti umani America” ispiratori di un movimento giovanile bottom up, nato per recuperare e di alternative culturali. Motivazioni Premio alla Cultura Cinematografica

Capitolo G 115


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 115–117 Premio alla cultura cinematografica ⁄ I ragazzi del Cinema America

i cinema storici di quartiere, dal Piccolo America di Trastevere alla sala Troisi, proponendo rassegne cinematografiche aperte a tutti, animando l’Arena di San Il Premio viene attribuito a coloro Cosimato con proiezioni estive gratuite che svolgono un ruolo importante in piazza, trasformando il degrado in nella valorizzazione delle opere occasione di cultura e aggregazione. cinematografiche, per la difesa delle Grazie alla determinazione e all’impegno libertà artistica, morale e professionale, civile, “I ragazzi del Cinema America” per la tutela dell’autorialità in ogni sua rappresentano oggi un’esperienza forma, per la volontà di promuovere la formazione di nuovi talenti, per il sostegno virtuosa di dialogo e coesistenza tra realtà apparentemente distanti (le periferie, al coraggio e all’innovazione e infine per la volontà di trasformare l’esperienza il centro, la piazza, le istituzioni), attuata grazie al potere catalizzatore del cinema; cinematografica in un’occasione suggerendo nello stesso tempo nuovi di crescita, civile e culturale, collettiva. modi di operare in campo culturale e un Quest’anno il Premio viene esempio positivo di riscatto della sala, attribuito a “I ragazzi del Cinema luogo virtualmente ricco di contatti umani America” ispiratori di un movimento giovanile bottom up, nato per recuperare e di alternative culturali. Motivazioni Premio alla Cultura Cinematografica

Capitolo G 115


-> CAPITOLO H Eventi speciali p. 119

Premio alla cultura cinematografica G

Scialla! (Stai sereno) Regia: Francesco Bruni Produzione: IBC Movie, Rai Soggetto: Francesco Bruni, Cinema Giambattista Avellino Distribuzione: 01 Distribution Sceneggiatura: Francesco Bruni Origine: Italia 2011 Fotografia: Arnaldo Catinari Durata: 95’ Montaggio: Marco Spoletini Scenografia: Roberto De Angelis Premi: Mostra Internazionale Costumi: Cristina La Parola d’Arte Cinematografica di Venezia Musiche: Amir e The Ceasars (2011): Premio Controcampo Italiano (Francesco Bruni); David di Donatello (2012): Miglior Regista Esordiente (Francesco Bruni), Premio David Giovani (Francesco Bruni); Nastro d’Argento (2012): Miglior Regista Esordiente (Francesco Bruni)

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Bruno), Filippo Scicchitano (Luca), Barbora Bobuova (Tina), Vinicio Marchioni (Poeta), Giuseppe Guarino (Carmelo), Prince Manujibeya (Prince), Arianna Scommegna (Marina), Giacomo Ceccarelli (Valerio), Raffaella Lebboroni (Professoressa Di Biagio), Alessandro Tuzzi (Bidello)

di padre e figlio. Il tutto sullo sfondo della città eterna che diventa un personaggio assieme a Bruno e Luca. Di film generazionali e polpettoni adolescenziali le sale sono piene da moltissimi anni. Francesco Bruni esordisce dietro la macchina da presa, dopo molti anni di lavoro come Scialla! (Stai sereno), 2011 sceneggiatore (soprattutto di Virzì), con Un professore, Bruno, che vuole una pellicola che tratta di adolescenti fare lo scrittore ma che per vivere attraverso una storia che non si rivolge dà ripetizioni. Un adolescente, Luca, solo a loro, sia per tematiche che per che si lascia travolgere dalle vicende, modalità di sviluppo. dal lato più oscuro della società, che Scialla! si discosta da titoli come per accontentare la madre si fa dare Tre metri sopra il cielo o Notte prima ripetizioni. Due sconosciuti che imparano degli esami, solo per citarne alcuni, film a conoscersi e a volersi bene prima esplicitamente ed esteticamente rivolti ancora di sapere che un legame di a quelle giovani menti che rappresentano sangue li unisce profondamente, quello una fetta importantissima della società

consumistica che erige i dettami di cosa avrà successo. Quella parte di pubblico a cui sempre più spesso si rivolgono fiction e pellicole cinematografiche, come dice lo stesso gangster/ex alunno al professore Bruno impegnato a scrivere la sua biografia, a cui chiede, in una saletta carceraria, di modificare il finale, perché vogliono comprare i diritti della sua storia per farne un film, e ai giovani quelle cose da delinquente bello e impossibile piacciono molto. Però, l’ex professore ora quasi scrittore, ha appena conosciuto il figlio Luca che senza la figura di un padre si era costruito un modello tutto suo di mito maschile da inseguire, quello dell’uomo malavitoso che tutti rispettano perché temono, impossibile quindi coadiuvare quell’immaginario collettivo negativo. Invece l’incontro con un vero spacciatore trasforma Luca da giovane irriverente poco scolarizzato con il sogno dell’illegalità, a maturo sedicenne in grado di accettare un nuovo percorso, di vita e scolastico. Padre e figlio crescono insieme, attraversano la sceneggiatura in un percorso formativo, raccontato con molta semplicità e ilarità, anche se con qualche buonismo da fiaba disneyana. Il finale che vede Bruno girare per la capitale in sella a un motorino ricorda, come un tributo, grandi film del passato, da Vacanze romane (1953) al più recente Caro diario (1993) palesando come i miti di un tempo abbiano ispirato il regista Bruni e forse anche convinto a lasciare la scrivania da sceneggiatore per cimentarsi nel ruolo di regista, rischiando ed azzardando una carriera consolidata per provare a intraprenderne una sconosciuta. VALENTINA CAUTERUCCIO

116

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

CAPITOLO G

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-> CAPITOLO H Eventi speciali p. 119

Premio alla cultura cinematografica G

Scialla! (Stai sereno) Regia: Francesco Bruni Produzione: IBC Movie, Rai Soggetto: Francesco Bruni, Cinema Giambattista Avellino Distribuzione: 01 Distribution Sceneggiatura: Francesco Bruni Origine: Italia 2011 Fotografia: Arnaldo Catinari Durata: 95’ Montaggio: Marco Spoletini Scenografia: Roberto De Angelis Premi: Mostra Internazionale Costumi: Cristina La Parola d’Arte Cinematografica di Venezia Musiche: Amir e The Ceasars (2011): Premio Controcampo Italiano (Francesco Bruni); David di Donatello (2012): Miglior Regista Esordiente (Francesco Bruni), Premio David Giovani (Francesco Bruni); Nastro d’Argento (2012): Miglior Regista Esordiente (Francesco Bruni)

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Bruno), Filippo Scicchitano (Luca), Barbora Bobuova (Tina), Vinicio Marchioni (Poeta), Giuseppe Guarino (Carmelo), Prince Manujibeya (Prince), Arianna Scommegna (Marina), Giacomo Ceccarelli (Valerio), Raffaella Lebboroni (Professoressa Di Biagio), Alessandro Tuzzi (Bidello)

di padre e figlio. Il tutto sullo sfondo della città eterna che diventa un personaggio assieme a Bruno e Luca. Di film generazionali e polpettoni adolescenziali le sale sono piene da moltissimi anni. Francesco Bruni esordisce dietro la macchina da presa, dopo molti anni di lavoro come Scialla! (Stai sereno), 2011 sceneggiatore (soprattutto di Virzì), con Un professore, Bruno, che vuole una pellicola che tratta di adolescenti fare lo scrittore ma che per vivere attraverso una storia che non si rivolge dà ripetizioni. Un adolescente, Luca, solo a loro, sia per tematiche che per che si lascia travolgere dalle vicende, modalità di sviluppo. dal lato più oscuro della società, che Scialla! si discosta da titoli come per accontentare la madre si fa dare Tre metri sopra il cielo o Notte prima ripetizioni. Due sconosciuti che imparano degli esami, solo per citarne alcuni, film a conoscersi e a volersi bene prima esplicitamente ed esteticamente rivolti ancora di sapere che un legame di a quelle giovani menti che rappresentano sangue li unisce profondamente, quello una fetta importantissima della società

consumistica che erige i dettami di cosa avrà successo. Quella parte di pubblico a cui sempre più spesso si rivolgono fiction e pellicole cinematografiche, come dice lo stesso gangster/ex alunno al professore Bruno impegnato a scrivere la sua biografia, a cui chiede, in una saletta carceraria, di modificare il finale, perché vogliono comprare i diritti della sua storia per farne un film, e ai giovani quelle cose da delinquente bello e impossibile piacciono molto. Però, l’ex professore ora quasi scrittore, ha appena conosciuto il figlio Luca che senza la figura di un padre si era costruito un modello tutto suo di mito maschile da inseguire, quello dell’uomo malavitoso che tutti rispettano perché temono, impossibile quindi coadiuvare quell’immaginario collettivo negativo. Invece l’incontro con un vero spacciatore trasforma Luca da giovane irriverente poco scolarizzato con il sogno dell’illegalità, a maturo sedicenne in grado di accettare un nuovo percorso, di vita e scolastico. Padre e figlio crescono insieme, attraversano la sceneggiatura in un percorso formativo, raccontato con molta semplicità e ilarità, anche se con qualche buonismo da fiaba disneyana. Il finale che vede Bruno girare per la capitale in sella a un motorino ricorda, come un tributo, grandi film del passato, da Vacanze romane (1953) al più recente Caro diario (1993) palesando come i miti di un tempo abbiano ispirato il regista Bruni e forse anche convinto a lasciare la scrivania da sceneggiatore per cimentarsi nel ruolo di regista, rischiando ed azzardando una carriera consolidata per provare a intraprenderne una sconosciuta. VALENTINA CAUTERUCCIO

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

CAPITOLO G

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 119–127 Eventi speciali

Capitolo H 119


36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg Catalogo 2017 119–127 Eventi speciali

Capitolo H 119


-> AMIDEI KIDS Le avventure del Principe Achmed p. 122

Eventi speciali H

Tutto quello che vuoi Regia: Francesco Bruni Soggetto: Francesco Bruni, liberamente ispirato al romanzo Poco più di niente di Cosimo Calamini Sceneggiatura: Francesco Bruni Fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Cecilia Zanuso Scenografia: Roberto De Angelis Costumi: Maria Cristina La Parola Musiche: Carlo Virzì

Produzione: IBC Movie, Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Origine: Italia 2017 Durata: 106’ Premi: Nastri d’Argento (2017): Miglior Sceneggiatura (Francesco Bruni), Nastro d’Argento Speciale (Giuliano Montaldo)

Interpreti: Giuliano Montaldo (Giorgio), Andrea Carpenzano (Alessandro), Arturo Bruni (Riccardo), Emanuele Propizio (Tommi), Donatella Finocchiaro (Claudia), Antonio Gerardi (Stefano), Raffaella Lebboroni (Laura), Andrea Lehotska (Regina), Riccardo Vitiello (Leo), Carolina Pavone (Zoe)

ai racconti monchi del suo nuovo amico con una curiosità sempre più forte. Una commedia alla “vecchia maniera” con al centro del discorso le persone: sembra la definizione perfetta per Tutto quello che vuoi, e così è. Terza regia di Francesco Bruni, già esperto sceneggiatore, Tutto quello Tutto quello che vuoi, 2017 che vuoi incanta subito grazie alla sua Alessandro è un giovane genuinità, non in senso negativo, ma perdigiorno costretto a badare a Giorgio, anzi intesa come un pregio che spesso un poeta dimenticato di 85 anni che manca al cinema italiano. Un racconto di sta per essere divorato dall’Alzheimer. formazione che seppur già visto in molte I due iniziano a conoscersi durante le opere, si impreziosisce per la compiuta passeggiate al parco e le poche ore che messa in scena e l’autorevolezza attoriale. passano insieme nella casa/museo di In una Roma “sporca e cattiva” in Giorgio. Ascoltando la storia dell’anziano, cui il bello è soffocato dal brutto, come Alessandro scoprirà che il passato è fatto del resto abbiamo potuto sempre più per essere ricordato, e si appassionerà constatare ultimamente dalle cronache 120

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

capitoline, due realtà opposte si trovano per conoscersi e comprendersi: Alessandro, giovane scapestrato, e Giorgio, poeta anziano con un Alzheimer galoppante. Entrambi dovranno badare l’uno all’altro, e insieme cresceranno grazie alla potenza del passato che ritorna come monito per un futuro migliore. Sceneggiatura solida, interpreti generosi, su tutti Giuliano Montaldo, e personaggi che meriterebbero un approfondimento: la mamma/tabaccaia di Donatella Finocchiaro ha dentro di sé un mondo anarchico e reale da antologia. Una donna che aiuta più di quanto ne sia consapevole, figlia di una chiara tradizione, tenera nei modi e salda nei propri sacrifici. Poi ci sono i giovani, stereotipati per la loro superficialità e ignoranza, sui quali Bruni invece scommette: se presi per mano e portati alla scoperta di ciò che siamo stati, tutti possiamo capire come vivere al meglio il nostro futuro. Le situazioni narrate non sono semplificate dalla penna generosa dello sceneggiatore, ma si basano sulla verosimiglianza: basta un nome detto finalmente giusto per commuovere, in una delle scene più umane e riuscite del film. Un meccanismo onesto che è spunto per un’analisi comparativa con il pessimismo del cinema contemporaneo europeo. Qui c’è vitalità e ottimismo, senza dimenticare la rabbia insita nelle generazioni, sia quelle di ieri che quelle di oggi. Lotte apparentemente agli antipodi, ma in realtà simili: Bruni tratteggia al massimo delle potenzialità i caratteri tipici di una società che ha voglia ancora di crescere. Non ci prende in giro con inutili inserti surreali o grotteschi,

conosce i problemi che narra e li fa suoi con destrezza. L’Alzheimer è visto non come una malattia, ma come lo spunto per ricostruire un passato che pretende di non essere dimenticato. Se in Scialla! il rapporto tra adulto e ragazzo era un pretesto esclusivo allo scontro generazionale e alla voglia di rimanere Peter Pan, qui non c’è nessuno scontro ma solo curiosità. È banale dirlo, ma da Tutto quello che vuoi emerge un’urgenza: la perdita della memoria come la perdita di chi può raccontarci la Storia; a breve non avremo più testimoni, rimarranno solo le loro storie. E allora fermiamoci, sediamoci ad ascoltare le parole degli anziani anche quando ci sembrano inutili, potremmo pentirci di non averlo fatto.

CAPITOLO H

ANDREA MOSCHIONI FIORETTI

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-> AMIDEI KIDS Le avventure del Principe Achmed p. 122

Eventi speciali H

Tutto quello che vuoi Regia: Francesco Bruni Soggetto: Francesco Bruni, liberamente ispirato al romanzo Poco più di niente di Cosimo Calamini Sceneggiatura: Francesco Bruni Fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Cecilia Zanuso Scenografia: Roberto De Angelis Costumi: Maria Cristina La Parola Musiche: Carlo Virzì

Produzione: IBC Movie, Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Origine: Italia 2017 Durata: 106’ Premi: Nastri d’Argento (2017): Miglior Sceneggiatura (Francesco Bruni), Nastro d’Argento Speciale (Giuliano Montaldo)

Interpreti: Giuliano Montaldo (Giorgio), Andrea Carpenzano (Alessandro), Arturo Bruni (Riccardo), Emanuele Propizio (Tommi), Donatella Finocchiaro (Claudia), Antonio Gerardi (Stefano), Raffaella Lebboroni (Laura), Andrea Lehotska (Regina), Riccardo Vitiello (Leo), Carolina Pavone (Zoe)

ai racconti monchi del suo nuovo amico con una curiosità sempre più forte. Una commedia alla “vecchia maniera” con al centro del discorso le persone: sembra la definizione perfetta per Tutto quello che vuoi, e così è. Terza regia di Francesco Bruni, già esperto sceneggiatore, Tutto quello Tutto quello che vuoi, 2017 che vuoi incanta subito grazie alla sua Alessandro è un giovane genuinità, non in senso negativo, ma perdigiorno costretto a badare a Giorgio, anzi intesa come un pregio che spesso un poeta dimenticato di 85 anni che manca al cinema italiano. Un racconto di sta per essere divorato dall’Alzheimer. formazione che seppur già visto in molte I due iniziano a conoscersi durante le opere, si impreziosisce per la compiuta passeggiate al parco e le poche ore che messa in scena e l’autorevolezza attoriale. passano insieme nella casa/museo di In una Roma “sporca e cattiva” in Giorgio. Ascoltando la storia dell’anziano, cui il bello è soffocato dal brutto, come Alessandro scoprirà che il passato è fatto del resto abbiamo potuto sempre più per essere ricordato, e si appassionerà constatare ultimamente dalle cronache 120

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

capitoline, due realtà opposte si trovano per conoscersi e comprendersi: Alessandro, giovane scapestrato, e Giorgio, poeta anziano con un Alzheimer galoppante. Entrambi dovranno badare l’uno all’altro, e insieme cresceranno grazie alla potenza del passato che ritorna come monito per un futuro migliore. Sceneggiatura solida, interpreti generosi, su tutti Giuliano Montaldo, e personaggi che meriterebbero un approfondimento: la mamma/tabaccaia di Donatella Finocchiaro ha dentro di sé un mondo anarchico e reale da antologia. Una donna che aiuta più di quanto ne sia consapevole, figlia di una chiara tradizione, tenera nei modi e salda nei propri sacrifici. Poi ci sono i giovani, stereotipati per la loro superficialità e ignoranza, sui quali Bruni invece scommette: se presi per mano e portati alla scoperta di ciò che siamo stati, tutti possiamo capire come vivere al meglio il nostro futuro. Le situazioni narrate non sono semplificate dalla penna generosa dello sceneggiatore, ma si basano sulla verosimiglianza: basta un nome detto finalmente giusto per commuovere, in una delle scene più umane e riuscite del film. Un meccanismo onesto che è spunto per un’analisi comparativa con il pessimismo del cinema contemporaneo europeo. Qui c’è vitalità e ottimismo, senza dimenticare la rabbia insita nelle generazioni, sia quelle di ieri che quelle di oggi. Lotte apparentemente agli antipodi, ma in realtà simili: Bruni tratteggia al massimo delle potenzialità i caratteri tipici di una società che ha voglia ancora di crescere. Non ci prende in giro con inutili inserti surreali o grotteschi,

conosce i problemi che narra e li fa suoi con destrezza. L’Alzheimer è visto non come una malattia, ma come lo spunto per ricostruire un passato che pretende di non essere dimenticato. Se in Scialla! il rapporto tra adulto e ragazzo era un pretesto esclusivo allo scontro generazionale e alla voglia di rimanere Peter Pan, qui non c’è nessuno scontro ma solo curiosità. È banale dirlo, ma da Tutto quello che vuoi emerge un’urgenza: la perdita della memoria come la perdita di chi può raccontarci la Storia; a breve non avremo più testimoni, rimarranno solo le loro storie. E allora fermiamoci, sediamoci ad ascoltare le parole degli anziani anche quando ci sembrano inutili, potremmo pentirci di non averlo fatto.

CAPITOLO H

ANDREA MOSCHIONI FIORETTI

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<- TUTTO QUELLO CHE VUOI Regia: Francesco Bruni p. 120

Eventi speciali H

Amidei Kids 2017 vi porta alle origini del cinema d’animazione con Le avventure del Principe Achmed, film del 1926 della regista tedesca Lotte Reiniger. Un’opera dal sapore artigianale realizzata con materiali misti (piombo, cartoncino, sabbia e cera colorata), che sa emozionare anche senza i grandi

-> ZERORCHESTRA PLAYS SHOW PEOPLE p. 124

effetti speciali tipici del cinema di oggi. Considerato il primo lungometraggio d’animazione, è stato realizzato con una complessa tecnica di silhouettes ritagliate da una sottile lastra di piombo, che a distanza di quasi un secolo incantano ancora adulti e bambini con la loro raffinata magia. – MARTINA PIZZAMIGLIO

Le avventure del Principe Achmed (Die Abenteur des Prinzen Achmed) Regia: Lotte Reiniger Sceneggiatura: Lotte Reiniger Fotografia: Carl Koch Montaggio: Nina Goslar Musiche: Wolfgang Zeller, Klau–Peter Beyer, Helmut Imig, Torsten Scholz

Produzione: Comenius–Film GmbH Origine: Germania 1926 Durata: 60’

Qui incontra una giovane schiava che libera e cerca di portare sulla terra attraversando molti pericoli e inconvenienti, riuscendo nell’impresa solo grazie a una strega e ad Aladino e la sua lampada.

Le avventure del Principe Achmed, 1926

Al cospetto del Califfo e dei suoi figli arriva un mago su un cavallo volante: il Califfo cerca di comprare la bestia ma il mago vuole solo la principessa in cambio. Il giovane Achmed non lo permette, così il pretendente lo fa salire sul suo cavallo e lo lancia verso il cielo. Il principe continua a salire fino a che non capisce come manovrarlo riuscendo ad atterrare nelle isole Waka-Waka. 122

Nell’odierno scenario cinematografico, in cui siamo quasi assuefatti da immagini sensazionali e tecniche digitali all’avanguardia, una piccola perla riemerge a testa alta dal passato. Era infatti il 1926 quando Lotte Reiniger realizza uno dei primi lungometraggi della storia del cinema, il primo in quella dell’animazione. Lo crea utilizzando delle silhouettes di piombo e cartone, che la regista inventava fin da bambina, costituite da molteplici pezzi tenuti insieme da sottilissimi fili di

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

metallo, per poter ottenere movimenti fluidi dai suoi meravigliosi personaggi. Per gli effetti speciali Lotte Reiniger utilizza la sovrapposizione di lastre di vetro e una macchina da lei stessa inventata per poter riprendere la scena, impiegando tre anni per la realizzazione della pellicola. Ne Le avventure del Principe Achmed tutto è un’innovazione, perché tutto era da inventare e tutto era in divenire, qualsiasi cosa era una scoperta e un passo avanti per la storia del cinema. Ispirandosi a Le mille e una notte – nello specifico al racconto di Aladino e la lampada magica – la regista racconta le avventure fantastiche di Achmed, un giovane principe che viene ingannato da un mago finendo con un cavallo volante nelle isole di Waka-Waka dove incontra Paru Bari, una bellissima ragazza schiava dei demoni dell’isola, e nel tentativo di portarla via con lui va a creare un susseguirsi di vicende che lo porteranno a combattere maghi trasformisti e demoni che escono dalla bocca di un vulcano, fino ad allearsi con una strega e con il giovane Aladino, anche lui vittima dell’inganno del mago, alla ricerca del lieto fine e dell’amore. Il film è muto e in bianco e nero, ma già nel 1926 capivano quanto il colore potesse aiutare la rappresentazione, così i cinque atti in cui l’opera è suddivisa hanno viraggi differenti in base alle ambientazioni: un blu cupo quando i nostri protagonisti si ritrovano nelle isole abitate da demoni e maghi, un caldo giallo quando la schiava liberata viene portata in Cina dal mago ingannatore, un verde speranza per l’incontro con Aladino che racconta la sua storia e trova un alleato.

I personaggi sono invece delle silhouettes totalmente nere, così ben definite che basta una sola dimensione per riuscire a riconoscere i personaggi e a capire la bellezza dei tratti somatici del principe e della sua innamorata, in un capolavoro di innovazione e perfezione, realizzato con un lavoro manuale sistematico, studiato in ogni dettaglio e in ogni momento, per creare una mise en scene emozionante e curata in ogni singolo movimento. Forse ciò che ci insegna di più questa piccola perla del secolo scorso è che la dedizione e la passione, il duro lavoro di una regista con molta inventiva e pochi mezzi basta per rimanere nella storia, basta a emozionare lo spettatore anche novant’anni dopo, a differenza di opere filmiche che con molti mezzi e tecnologia a disposizione dimenticano la passione e l’amore per la settima arte. La storia rimane per sempre.

CAPITOLO H

VALENTINA CAUTERUCCIO

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<- TUTTO QUELLO CHE VUOI Regia: Francesco Bruni p. 120

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Amidei Kids 2017 vi porta alle origini del cinema d’animazione con Le avventure del Principe Achmed, film del 1926 della regista tedesca Lotte Reiniger. Un’opera dal sapore artigianale realizzata con materiali misti (piombo, cartoncino, sabbia e cera colorata), che sa emozionare anche senza i grandi

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effetti speciali tipici del cinema di oggi. Considerato il primo lungometraggio d’animazione, è stato realizzato con una complessa tecnica di silhouettes ritagliate da una sottile lastra di piombo, che a distanza di quasi un secolo incantano ancora adulti e bambini con la loro raffinata magia. – MARTINA PIZZAMIGLIO

Le avventure del Principe Achmed (Die Abenteur des Prinzen Achmed) Regia: Lotte Reiniger Sceneggiatura: Lotte Reiniger Fotografia: Carl Koch Montaggio: Nina Goslar Musiche: Wolfgang Zeller, Klau–Peter Beyer, Helmut Imig, Torsten Scholz

Produzione: Comenius–Film GmbH Origine: Germania 1926 Durata: 60’

Qui incontra una giovane schiava che libera e cerca di portare sulla terra attraversando molti pericoli e inconvenienti, riuscendo nell’impresa solo grazie a una strega e ad Aladino e la sua lampada.

Le avventure del Principe Achmed, 1926

Al cospetto del Califfo e dei suoi figli arriva un mago su un cavallo volante: il Califfo cerca di comprare la bestia ma il mago vuole solo la principessa in cambio. Il giovane Achmed non lo permette, così il pretendente lo fa salire sul suo cavallo e lo lancia verso il cielo. Il principe continua a salire fino a che non capisce come manovrarlo riuscendo ad atterrare nelle isole Waka-Waka. 122

Nell’odierno scenario cinematografico, in cui siamo quasi assuefatti da immagini sensazionali e tecniche digitali all’avanguardia, una piccola perla riemerge a testa alta dal passato. Era infatti il 1926 quando Lotte Reiniger realizza uno dei primi lungometraggi della storia del cinema, il primo in quella dell’animazione. Lo crea utilizzando delle silhouettes di piombo e cartone, che la regista inventava fin da bambina, costituite da molteplici pezzi tenuti insieme da sottilissimi fili di

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

metallo, per poter ottenere movimenti fluidi dai suoi meravigliosi personaggi. Per gli effetti speciali Lotte Reiniger utilizza la sovrapposizione di lastre di vetro e una macchina da lei stessa inventata per poter riprendere la scena, impiegando tre anni per la realizzazione della pellicola. Ne Le avventure del Principe Achmed tutto è un’innovazione, perché tutto era da inventare e tutto era in divenire, qualsiasi cosa era una scoperta e un passo avanti per la storia del cinema. Ispirandosi a Le mille e una notte – nello specifico al racconto di Aladino e la lampada magica – la regista racconta le avventure fantastiche di Achmed, un giovane principe che viene ingannato da un mago finendo con un cavallo volante nelle isole di Waka-Waka dove incontra Paru Bari, una bellissima ragazza schiava dei demoni dell’isola, e nel tentativo di portarla via con lui va a creare un susseguirsi di vicende che lo porteranno a combattere maghi trasformisti e demoni che escono dalla bocca di un vulcano, fino ad allearsi con una strega e con il giovane Aladino, anche lui vittima dell’inganno del mago, alla ricerca del lieto fine e dell’amore. Il film è muto e in bianco e nero, ma già nel 1926 capivano quanto il colore potesse aiutare la rappresentazione, così i cinque atti in cui l’opera è suddivisa hanno viraggi differenti in base alle ambientazioni: un blu cupo quando i nostri protagonisti si ritrovano nelle isole abitate da demoni e maghi, un caldo giallo quando la schiava liberata viene portata in Cina dal mago ingannatore, un verde speranza per l’incontro con Aladino che racconta la sua storia e trova un alleato.

I personaggi sono invece delle silhouettes totalmente nere, così ben definite che basta una sola dimensione per riuscire a riconoscere i personaggi e a capire la bellezza dei tratti somatici del principe e della sua innamorata, in un capolavoro di innovazione e perfezione, realizzato con un lavoro manuale sistematico, studiato in ogni dettaglio e in ogni momento, per creare una mise en scene emozionante e curata in ogni singolo movimento. Forse ciò che ci insegna di più questa piccola perla del secolo scorso è che la dedizione e la passione, il duro lavoro di una regista con molta inventiva e pochi mezzi basta per rimanere nella storia, basta a emozionare lo spettatore anche novant’anni dopo, a differenza di opere filmiche che con molti mezzi e tecnologia a disposizione dimenticano la passione e l’amore per la settima arte. La storia rimane per sempre.

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Eventi speciali H

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-> PUBBLICAZIONI SHOTRACK p. 126

Zerorchestra plays Show People

Show People rappresenta uno dei vertici della commedia brillante degli anni Venti e offre un panorama della Hollywood dietro le quinte attraverso gli occhi e le storie di Peggy Pepper, interpretata da una delle star più amate dal pubblico di allora, Marion Davies. Con un ritmo oltremodo brillante, la regia di King Vidor offre un’ottima occasione per Show People, 1928 mettere in mostra le doti di attrice leggera Il 36° Premio “Sergio Amidei” della Davies, affiancata da una vera e presenta la proiezione–evento, in propria parata di grandi divi di Hollywood collaborazione con a.Artisti Associati, che nel film interpretano loro stessi: Pecar Piano Center, Associazione Culturale Charlie Chaplin, John Gilbert, Douglas èStoria, Le Giornate del Cinema Muto Fairbanks, William S. Hart, Mae Murray, e Cinemazero, e con il sostegno della Norma Talmadge e molti altri. Show People Regione Friuli Venezia Giulia e della Banca è uno dei primi esempi di film sul mondo di Cividale, del film Show People (distribuito del cinema e vi appaiono brevemente in Italia con il titolo Maschere di celluloide) diverse celebrità hollywoodiane del tempo. musicato dal vivo da Zerorchestra. Il cammeo più divertente è quello di

124

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Charlie Chaplin e la gag si basa sul fatto che il suo volto (così diverso da quello di Charlot) era sconosciuto al grande pubblico. Spiritosa, e autoironica, è inoltre la breve scena in cui la protagonista incrocia nei giardini degli Studios l’attrice Marion Davies (cioè sé stessa) rimanendone delusa. Zerorchestra vede la luce nel 1995 su iniziativa di Cinemazero in occasione del centenario della nascita del cinema. L’ambizioso progetto di proporre musiche originali per accompagnare dal vivo i capolavori del cinema delle origini nasce con l’intento di offrire ai musicisti uno spazio per la ricerca e l’improvvisazione, una sorta di laboratorio per la scrittura di nuove partiture musicali per quelle pellicole, spesso ignote al grande pubblico, che rappresentano l’incredibile repertorio del cinema muto. Per Show People la partitura e la direzione dell’orchestra è affidata al compositore tedesco Gunther Buchwald, mentre l’organico e la derivazione jazzistica della Zerorchestra si adattano molto bene ad un film ambientato nei ruggenti anni Venti caratterizzati dall’esplosione della musica jazz, ed in particolare dal Dixieland. Ora la Zerorchestra si pone l’obiettivo di rivisitare questo classico del cinema muto con un approccio meno filologico e più aperto all’improvvisazione grazie alla formazione squisitamente jazzistica dei musicisti che la compongono e che ricordiamo essere: Romano Todesco (contrabbasso), Luca Colussi (batteria), Luigi Vitale (xilofono e percussioni), Luca Grizzo (percussioni), Gaspare Pasini (sassofoni), Francesco Bearzatti (sax e clarinetti) e Didier Ortolan (clarinetti).

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-> PUBBLICAZIONI SHOTRACK p. 126

Zerorchestra plays Show People

Show People rappresenta uno dei vertici della commedia brillante degli anni Venti e offre un panorama della Hollywood dietro le quinte attraverso gli occhi e le storie di Peggy Pepper, interpretata da una delle star più amate dal pubblico di allora, Marion Davies. Con un ritmo oltremodo brillante, la regia di King Vidor offre un’ottima occasione per Show People, 1928 mettere in mostra le doti di attrice leggera Il 36° Premio “Sergio Amidei” della Davies, affiancata da una vera e presenta la proiezione–evento, in propria parata di grandi divi di Hollywood collaborazione con a.Artisti Associati, che nel film interpretano loro stessi: Pecar Piano Center, Associazione Culturale Charlie Chaplin, John Gilbert, Douglas èStoria, Le Giornate del Cinema Muto Fairbanks, William S. Hart, Mae Murray, e Cinemazero, e con il sostegno della Norma Talmadge e molti altri. Show People Regione Friuli Venezia Giulia e della Banca è uno dei primi esempi di film sul mondo di Cividale, del film Show People (distribuito del cinema e vi appaiono brevemente in Italia con il titolo Maschere di celluloide) diverse celebrità hollywoodiane del tempo. musicato dal vivo da Zerorchestra. Il cammeo più divertente è quello di

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Charlie Chaplin e la gag si basa sul fatto che il suo volto (così diverso da quello di Charlot) era sconosciuto al grande pubblico. Spiritosa, e autoironica, è inoltre la breve scena in cui la protagonista incrocia nei giardini degli Studios l’attrice Marion Davies (cioè sé stessa) rimanendone delusa. Zerorchestra vede la luce nel 1995 su iniziativa di Cinemazero in occasione del centenario della nascita del cinema. L’ambizioso progetto di proporre musiche originali per accompagnare dal vivo i capolavori del cinema delle origini nasce con l’intento di offrire ai musicisti uno spazio per la ricerca e l’improvvisazione, una sorta di laboratorio per la scrittura di nuove partiture musicali per quelle pellicole, spesso ignote al grande pubblico, che rappresentano l’incredibile repertorio del cinema muto. Per Show People la partitura e la direzione dell’orchestra è affidata al compositore tedesco Gunther Buchwald, mentre l’organico e la derivazione jazzistica della Zerorchestra si adattano molto bene ad un film ambientato nei ruggenti anni Venti caratterizzati dall’esplosione della musica jazz, ed in particolare dal Dixieland. Ora la Zerorchestra si pone l’obiettivo di rivisitare questo classico del cinema muto con un approccio meno filologico e più aperto all’improvvisazione grazie alla formazione squisitamente jazzistica dei musicisti che la compongono e che ricordiamo essere: Romano Todesco (contrabbasso), Luca Colussi (batteria), Luigi Vitale (xilofono e percussioni), Luca Grizzo (percussioni), Gaspare Pasini (sassofoni), Francesco Bearzatti (sax e clarinetti) e Didier Ortolan (clarinetti).

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-> INDICE DEI FILM A–Z p. 128

meno determinante del coinvolgimento del fandom, pluripremiata e apprezzata dalla critica, Game of Thrones rappresenta, tra i recenti successi targati Gian Piero Brunetta HBO e nel più ampio panorama seriale Attrazione fatale. Letterati italiani e contemporaneo, un caso paradigmatico. letteratura dalla pagina allo schermo. In un’ottica apertamente transdisciplinare, Una storia culturale. il volume propone un’introduzione al Edito da Mimesis ⁄ Cinema, 2017 mondo (o ai mondi) della serie, che trova nel tema della complessità spaziale e “Problema: siano dati un giacimento di narrativa il filo rosso lungo il quale si opere letterarie e un insieme di letterati, dispongono i saggi raccolti in questo che incontrano il cinema all’inizio del Novecento. Quali sono gli effetti qualitativi volume da Sara Martin e Valentina Re. e quantitativi nell’immediato, sul medio Ugo Casiraghi e lungo periodo, di questo incontro? Quali (Lorenzo Pellizzari, a cura di) e quante le variabili che portano a delle Il cinema del Calendario del Popolo soluzioni?” La letteratura è iscritta nel (1947–1967). DNA del cinema italiano, ne costituisce Edito da Sandro Teti Editore, 2017 una struttura portante e gli scrittori e letterati ne sono i vettori privilegiati. Più di vent’anni di grande cinema In questo volume Gian Piero Brunetta riaffiorano, tra le pagine di questo libro, cerca di raccontare la complessità e varietà dei rapporti tra letterati, letteratura dalla penna del celebre critico Ugo e cinema italiano lungo tutta la sua storia Casiraghi. Da Chaplin, Griffith, Ėjzenštejn, prendendo in considerazione ventitré casi fino a Visconti, Fellini, Antonioni, passando per il neorealismo, i primi film specifici che puntano a ricomporre una di Pasolini, il cinema sovietico, storia culturale che attraversa tutto statunitense e francese, il lettore ha il Novecento. a disposizione più di duecento saggi e recensioni apparsi dal 1947 al 1967 Sara Martin, Valentina Re sulla storica rivista di cultura Il Calendario (a cura di) del Popolo. Grazie alla sua profonda Game of Thrones. Una mappa per capacità di analisi, Casiraghi ci permette immaginare mondi. di rivisitare i grandi classici e le pellicole Edito da Mimesis ⁄ Cinema, 2017 meno conosciute, e di indagare quel periodo fondamentale del cinema italiano, Capace di coniugare la solidità dei in bilico tra il mito di Hollywood e l’alto tradizionali indici di ascolto all’intensità meno “quantificabile” ma non per questo impegno sociale. Le pubblicazioni presentate al Premio “Sergio Amidei”

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36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

SHOTRACK

ShoTrack è promosso dal servizio Punto Giovani dell’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Gorizia, in collaborazione con gli atenei universitari di Udine e Trieste. Si tratta di un progetto di video–making interamente realizzato da un gruppo di studenti del DAMS e di Relazioni Pubbliche dell’Università degli Studi di Udine. Lo scopo del progetto è stato quello di mettere in pratica le conoscenze teoriche acquisite durante gli studi, creando gruppi di lavoro con lo scopo di realizzare nelle edizioni 2015 e 2016 alcuni videoclip musicali per altrettante band emergenti del territorio nazionale.

I videoclip prodotti sono: Produzione: Green Glitch Nome Band e Brano: Beyond all meanings –Beyond all meanings Durata: Circa 4 minuti Produzione: Sandali Brutti Nome Band e Brano: Aganis–Il carso a novembre Durata: Circa 10 minuti Produzione: Kayokén Nome Band e Brano: Haunting Green–Our Days In Silence Durata: 8:35 Produzione: 4kortesia Nome Band e Brano: Nomotion–Dying Stars Collapsing Durata: Circa 4 minuti Produzione: Mad Hatters Nome Band e Brano: IZ Quartet–Lebannen Durata: Circa 5 minuti Produzione: White Russian Nome Band e Brano: Fire at Work–RWS Durata: Circa 4 minuti Produzione: Pescebanana Nome Band e Brano: Francesco Imbriaco –Again Durata: Circa 5 minuti

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meno determinante del coinvolgimento del fandom, pluripremiata e apprezzata dalla critica, Game of Thrones rappresenta, tra i recenti successi targati Gian Piero Brunetta HBO e nel più ampio panorama seriale Attrazione fatale. Letterati italiani e contemporaneo, un caso paradigmatico. letteratura dalla pagina allo schermo. In un’ottica apertamente transdisciplinare, Una storia culturale. il volume propone un’introduzione al Edito da Mimesis ⁄ Cinema, 2017 mondo (o ai mondi) della serie, che trova nel tema della complessità spaziale e “Problema: siano dati un giacimento di narrativa il filo rosso lungo il quale si opere letterarie e un insieme di letterati, dispongono i saggi raccolti in questo che incontrano il cinema all’inizio del Novecento. Quali sono gli effetti qualitativi volume da Sara Martin e Valentina Re. e quantitativi nell’immediato, sul medio Ugo Casiraghi e lungo periodo, di questo incontro? Quali (Lorenzo Pellizzari, a cura di) e quante le variabili che portano a delle Il cinema del Calendario del Popolo soluzioni?” La letteratura è iscritta nel (1947–1967). DNA del cinema italiano, ne costituisce Edito da Sandro Teti Editore, 2017 una struttura portante e gli scrittori e letterati ne sono i vettori privilegiati. Più di vent’anni di grande cinema In questo volume Gian Piero Brunetta riaffiorano, tra le pagine di questo libro, cerca di raccontare la complessità e varietà dei rapporti tra letterati, letteratura dalla penna del celebre critico Ugo e cinema italiano lungo tutta la sua storia Casiraghi. Da Chaplin, Griffith, Ėjzenštejn, prendendo in considerazione ventitré casi fino a Visconti, Fellini, Antonioni, passando per il neorealismo, i primi film specifici che puntano a ricomporre una di Pasolini, il cinema sovietico, storia culturale che attraversa tutto statunitense e francese, il lettore ha il Novecento. a disposizione più di duecento saggi e recensioni apparsi dal 1947 al 1967 Sara Martin, Valentina Re sulla storica rivista di cultura Il Calendario (a cura di) del Popolo. Grazie alla sua profonda Game of Thrones. Una mappa per capacità di analisi, Casiraghi ci permette immaginare mondi. di rivisitare i grandi classici e le pellicole Edito da Mimesis ⁄ Cinema, 2017 meno conosciute, e di indagare quel periodo fondamentale del cinema italiano, Capace di coniugare la solidità dei in bilico tra il mito di Hollywood e l’alto tradizionali indici di ascolto all’intensità meno “quantificabile” ma non per questo impegno sociale. Le pubblicazioni presentate al Premio “Sergio Amidei”

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SHOTRACK

ShoTrack è promosso dal servizio Punto Giovani dell’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Gorizia, in collaborazione con gli atenei universitari di Udine e Trieste. Si tratta di un progetto di video–making interamente realizzato da un gruppo di studenti del DAMS e di Relazioni Pubbliche dell’Università degli Studi di Udine. Lo scopo del progetto è stato quello di mettere in pratica le conoscenze teoriche acquisite durante gli studi, creando gruppi di lavoro con lo scopo di realizzare nelle edizioni 2015 e 2016 alcuni videoclip musicali per altrettante band emergenti del territorio nazionale.

I videoclip prodotti sono: Produzione: Green Glitch Nome Band e Brano: Beyond all meanings –Beyond all meanings Durata: Circa 4 minuti Produzione: Sandali Brutti Nome Band e Brano: Aganis–Il carso a novembre Durata: Circa 10 minuti Produzione: Kayokén Nome Band e Brano: Haunting Green–Our Days In Silence Durata: 8:35 Produzione: 4kortesia Nome Band e Brano: Nomotion–Dying Stars Collapsing Durata: Circa 4 minuti Produzione: Mad Hatters Nome Band e Brano: IZ Quartet–Lebannen Durata: Circa 5 minuti Produzione: White Russian Nome Band e Brano: Fire at Work–RWS Durata: Circa 4 minuti Produzione: Pescebanana Nome Band e Brano: Francesco Imbriaco –Again Durata: Circa 5 minuti

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Indice dei film A–Z A Acrobate, Le (p. 46) Agata e la tempesta (p. 52) Agostino (p. 76) Altro volto della speranza, L’ (p. 20) Anima divisa in due, Un’ (p. 44) Aria serena dell’Ovest, L’ (p. 42) Attesa, L’ (p. 82) Avventure del Principe Achmed, Le (p. 122) B Bàrnabo delle montagne Brucio nel vento (p. 50) C Cliente, Il (p. 22) Comandante e la cicogna, Il (p. 58) Corvo, Il (p. 14) Cosa voglio di più Cuori puri (p. 88) D Drimage 128

(p. 38)

(p. 80)

F

M

Femmine, folle e polvere d’archivio Fiume ha sempre ragione, Il (p. 60) Furore (p. 12)

Mali mestieri, Li N

(p. 39)

Tempo di cambiamenti. Dal tempo rituale al tempo libero (p. 109) Tenerezza, La (p. 32) Terra di nessuno (p. 66) Tutto quello che vuoi (p. 120) U

(p. 72)

Nostos–Il ritorno

(p. 78)

G

O

Giorni e nuvole (p. 54) Girovaghi, I (p. 74) Giulia in ottobre (p. 38) Grido della terra, Il (p. 68)

Ora legale, L’ (p. 28) Ora sola ti vorrei, Un’

I

Pane e tulipani (p. 48) Pelle dell’orso, La (p. 96) Per sempre (p. 112) Postino di montagna, Il (p. 70)

Indivisibili (p. 90) In fondo al bosco (p. 92) Io, Daniel Blake (p. 24) J Joseph Campbell e il potere del mito

(p. 56)

T

L Lasciati andare Liberami (p. 94)

(p. 104)

(p. 110)

Uomini proibiti

(p. 98)

P

R Ragazza del mondo, La (p. 30) Ritratto ⁄ Autoritratto: Ugo Pilato cineamatore (p. 108) S

(p. 26)

Schermo per insegnare, una cinepresa per testimoniare, Uno (p. 109) Scialla! (Stai sereno) (p. 116)

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Indice dei film A—Z

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Indice dei film A–Z A Acrobate, Le (p. 46) Agata e la tempesta (p. 52) Agostino (p. 76) Altro volto della speranza, L’ (p. 20) Anima divisa in due, Un’ (p. 44) Aria serena dell’Ovest, L’ (p. 42) Attesa, L’ (p. 82) Avventure del Principe Achmed, Le (p. 122) B Bàrnabo delle montagne Brucio nel vento (p. 50) C Cliente, Il (p. 22) Comandante e la cicogna, Il (p. 58) Corvo, Il (p. 14) Cosa voglio di più Cuori puri (p. 88) D Drimage 128

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Femmine, folle e polvere d’archivio Fiume ha sempre ragione, Il (p. 60) Furore (p. 12)

Mali mestieri, Li N

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Tempo di cambiamenti. Dal tempo rituale al tempo libero (p. 109) Tenerezza, La (p. 32) Terra di nessuno (p. 66) Tutto quello che vuoi (p. 120) U

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Nostos–Il ritorno

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Giorni e nuvole (p. 54) Girovaghi, I (p. 74) Giulia in ottobre (p. 38) Grido della terra, Il (p. 68)

Ora legale, L’ (p. 28) Ora sola ti vorrei, Un’

I

Pane e tulipani (p. 48) Pelle dell’orso, La (p. 96) Per sempre (p. 112) Postino di montagna, Il (p. 70)

Indivisibili (p. 90) In fondo al bosco (p. 92) Io, Daniel Blake (p. 24) J Joseph Campbell e il potere del mito

(p. 56)

T

L Lasciati andare Liberami (p. 94)

(p. 104)

(p. 110)

Uomini proibiti

(p. 98)

P

R Ragazza del mondo, La (p. 30) Ritratto ⁄ Autoritratto: Ugo Pilato cineamatore (p. 108) S

(p. 26)

Schermo per insegnare, una cinepresa per testimoniare, Uno (p. 109) Scialla! (Stai sereno) (p. 116)

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Indice dei film A—Z

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Vania Comoretti_IRIDE 8–28 Luglio 2017 a cura di Sara Occhipinti e Marco Faganel Inaugurazione venerdì 7 luglio: ore 18.30 presso studiofaganel ore 19.30 presso Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma – Kinemax

Vania Comoretti_IRIDE Iride sia un progetto in divenire aperto e implementabile. “È un lavoro estremamente interessante poiché nel cercare somiglianze e differenze nei volti e negli sguardi ci sollecita ad interrogarci su ciò a cui esse rimandano. O, in altro modo, ci invita ad ascoltare quel che c’è d’irregolare e di scomodo nella sensazione del vedere” (Eniti, 2017). Il Premio alla sceneggiatura Le opere – allestite presso due sedi “Sergio Amidei” conferma la sua espositive, la galleria studiofaganel e il collaborazione con lo studiofaganel che Kinemax – saranno immerse in un ambiente per questa edizione propone e cura sonoro inedito e creato per l’occasione l’esposizione di Vania Comoretti dal titolo dal musicista e compositore Teho Teardo. Iride. La mostra sarà inaugurata il 7 luglio e Per l’esposizione sarà inoltre presentato sarà visitabile fino al 28. un catalogo con testi di Augusta Eniti e del Le opere della serie Iride sono poeta Francesco Tomada. installazioni composte da diverse parti In concomitanza della mostra per – Person, Eye, Iris – ognuna delle quali il Premio “Sergio Amidei”, sarà inoltre descrive il volto in un taglio stretto, l’occhio visitabile Percorsi, un’antologica di Vania e la pelle del suo intorno, infine, l’iride dei Comoretti presso belo189, realizzata in componenti di alcune famiglie. Comoretti collaborazione con KB1909. Le opere qui pur muovendosi nell’ambito di tecniche esposte – che appartengono a tre serie classiche (adoperando una tecnica sviluppate dall’artista negli ultimi anni iperrealista, realizzata ad acquerello, china – saranno cortesemente prestate dalle e pastello su carta), dimostra una spiccata gallerie Guidi & Shoen di Genova e C|E sensibilità a cogliere e narrare l’umanità Contemporary di Milano. contemporanea. Indirizzi ⁄ Informazioni: Comoretti ritrae persone Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma–Kinemax Piazza della Vittoria, 41, 34170, Gorizia conosciute, parenti o amici, nell’intento www.kinemax.it, +39 0481 530263 di rivelarne i tratti genetici, le relazioni studiofaganel e il loro mutamento nel tempo. Alcune Viale XXIV maggio 15 ⁄ c, 34170 Gorizia www.studiofaganel.com, +39 0481 81186 delle famiglie, a distanza di anni, vengono belo189 nuovamente disegnate, a confermare come Via Carducci, 41, 34170, Gorizia Mostre

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Vania Comoretti_IRIDE 8–28 Luglio 2017 a cura di Sara Occhipinti e Marco Faganel Inaugurazione venerdì 7 luglio: ore 18.30 presso studiofaganel ore 19.30 presso Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma – Kinemax

Vania Comoretti_IRIDE Iride sia un progetto in divenire aperto e implementabile. “È un lavoro estremamente interessante poiché nel cercare somiglianze e differenze nei volti e negli sguardi ci sollecita ad interrogarci su ciò a cui esse rimandano. O, in altro modo, ci invita ad ascoltare quel che c’è d’irregolare e di scomodo nella sensazione del vedere” (Eniti, 2017). Il Premio alla sceneggiatura Le opere – allestite presso due sedi “Sergio Amidei” conferma la sua espositive, la galleria studiofaganel e il collaborazione con lo studiofaganel che Kinemax – saranno immerse in un ambiente per questa edizione propone e cura sonoro inedito e creato per l’occasione l’esposizione di Vania Comoretti dal titolo dal musicista e compositore Teho Teardo. Iride. La mostra sarà inaugurata il 7 luglio e Per l’esposizione sarà inoltre presentato sarà visitabile fino al 28. un catalogo con testi di Augusta Eniti e del Le opere della serie Iride sono poeta Francesco Tomada. installazioni composte da diverse parti In concomitanza della mostra per – Person, Eye, Iris – ognuna delle quali il Premio “Sergio Amidei”, sarà inoltre descrive il volto in un taglio stretto, l’occhio visitabile Percorsi, un’antologica di Vania e la pelle del suo intorno, infine, l’iride dei Comoretti presso belo189, realizzata in componenti di alcune famiglie. Comoretti collaborazione con KB1909. Le opere qui pur muovendosi nell’ambito di tecniche esposte – che appartengono a tre serie classiche (adoperando una tecnica sviluppate dall’artista negli ultimi anni iperrealista, realizzata ad acquerello, china – saranno cortesemente prestate dalle e pastello su carta), dimostra una spiccata gallerie Guidi & Shoen di Genova e C|E sensibilità a cogliere e narrare l’umanità Contemporary di Milano. contemporanea. Indirizzi ⁄ Informazioni: Comoretti ritrae persone Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma–Kinemax Piazza della Vittoria, 41, 34170, Gorizia conosciute, parenti o amici, nell’intento www.kinemax.it, +39 0481 530263 di rivelarne i tratti genetici, le relazioni studiofaganel e il loro mutamento nel tempo. Alcune Viale XXIV maggio 15 ⁄ c, 34170 Gorizia www.studiofaganel.com, +39 0481 81186 delle famiglie, a distanza di anni, vengono belo189 nuovamente disegnate, a confermare come Via Carducci, 41, 34170, Gorizia Mostre

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GORIZIA MAGICA. LIBRI E GIOCATTOLI PER RAGAZZI (1900–1945) 28 aprile–19 dicembre 2017 Sala espositiva Fondazione Carigo, via Carducci 2, 34170 Gorizia

Orario: mercoledì, ore 16–19; sabato, domenica e festivi, ore 10–14 ⁄ 15–19. L’apertura sarà sospesa dal 17 luglio al 1° settembre 2017, periodo in cui la mostra sarà visitabile su prenotazione da parte di gruppi. INGRESSO GRATUITO

Gorizia Magica. Libri e giocattoli per ragazzi (1900–1945) Verne, Salgari, Collodi, De Amicis, Yambo: i bambini goriziani d’inizio Novecento leggevano solo questi autori o vi è uno scaffale segreto? Durante la Grande Guerra quali libri per ragazzi circolavano? E nel 1945, quei bambini cosa ricordavano delle loro letture? Sono queste alcune delle domande cui cerca di dare risposta la mostra “Gorizia magica. Libri e giocattoli per ragazzi (1900-1945)”, visitabile nella sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, dove rimarrà visitabile fino al 10 dicembre. Il titolo rimanda a Gorizia intesa come baricentro di un ampio territorio che comprende la Venezia Giulia, il Friuli e la Slovenia, che funge allo stesso tempo da scenario e da punto di partenza per raccontare tante fiabe che possono ambientarsi ovunque la fantasia decida di collocarle. Curata da Simone Volpato (Libreria antiquaria Drogheria 28 di Trieste) e da Marco Menato (direttore della Biblioteca Statale Isontina), la rassegna è promossa e sostenuta dalla stessa Fondazione e vede la collaborazione della Ludoteca del Comune di Gorizia e della Biblioteca “Feigel” di Gorizia. Dagli scaffali di collezionisti privati e di istituzioni pubbliche sono riemersi molti libri illustrati e giocattoli didattici di pregio, che mettono in moto sentimenti, emozioni, ricordi: gli alfabetieri del 132

negozio di Ida Sello a Udine, che seguiva i metodi Montessori e Froebel e riforniva gli asili della regione; la produzione della Editoriale Libraria di Trieste, che acquisiva le illustrazioni tedesche e traduceva i testi in italiano; libri e album illustrati da Cambellotti, Rubino, Angoletta, Riccobaldi, fino a Bruno Munari; e ancora “Il giornalino della domenica” e le collane “La bibliotechina de la Lampada” di Mondadori e i “Librini del cuccù” della Salani; ed infine la grafica di Cernigoj e Bambic applicata a sognanti fiabe slovene. Sì, perché “Gorizia Magica” è una mostra multiculturale, così come la Venezia Giulia di quegli anni, fervido luogo di contaminazione tra le culture italiana, slovena e tedesca. Informazioni e prenotazioni: www.mostre–fondazionecarigo.it/mostra/ informazioni–gorizia–magica

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Il Premio “Sergio Amidei” Il 1992 vede la nascita dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”. Tra gli obiettivi fissati dall’organizzazione, in tutti i suoi aspetti – culturale, regolamentare, finanziario, sociale e di sviluppo – del Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei”. In quest’ottica, la creazione di un oggetto che in sé rappresentasse lo spirito della manifestazione e ne diventasse elemento caratterizzante fu uno dei

primi cambiamenti rivelatori del nuovo corso che l’Associazione volle dare al Premio. L’oggetto raffigura idealmente un foglio, supporto di quella scrittura cinematografica che tanto amiamo, foglio che su di un lato è percorso dalla foratura della pellicola, supporto delle immagini che da quella iniziale scrittura nascono. Volendo dare a questo oggetto un titolo lo si potrebbe chiamare “dalla scrittura all’immagine”. Il progetto del Premio, come l’immagine della manifestazione, è stato curato fino al 2015 da Remigio Gabellini, da sempre membro dell’Associazione.

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GORIZIA MAGICA. LIBRI E GIOCATTOLI PER RAGAZZI (1900–1945) 28 aprile–19 dicembre 2017 Sala espositiva Fondazione Carigo, via Carducci 2, 34170 Gorizia

Orario: mercoledì, ore 16–19; sabato, domenica e festivi, ore 10–14 ⁄ 15–19. L’apertura sarà sospesa dal 17 luglio al 1° settembre 2017, periodo in cui la mostra sarà visitabile su prenotazione da parte di gruppi. INGRESSO GRATUITO

Gorizia Magica. Libri e giocattoli per ragazzi (1900–1945) Verne, Salgari, Collodi, De Amicis, Yambo: i bambini goriziani d’inizio Novecento leggevano solo questi autori o vi è uno scaffale segreto? Durante la Grande Guerra quali libri per ragazzi circolavano? E nel 1945, quei bambini cosa ricordavano delle loro letture? Sono queste alcune delle domande cui cerca di dare risposta la mostra “Gorizia magica. Libri e giocattoli per ragazzi (1900-1945)”, visitabile nella sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, dove rimarrà visitabile fino al 10 dicembre. Il titolo rimanda a Gorizia intesa come baricentro di un ampio territorio che comprende la Venezia Giulia, il Friuli e la Slovenia, che funge allo stesso tempo da scenario e da punto di partenza per raccontare tante fiabe che possono ambientarsi ovunque la fantasia decida di collocarle. Curata da Simone Volpato (Libreria antiquaria Drogheria 28 di Trieste) e da Marco Menato (direttore della Biblioteca Statale Isontina), la rassegna è promossa e sostenuta dalla stessa Fondazione e vede la collaborazione della Ludoteca del Comune di Gorizia e della Biblioteca “Feigel” di Gorizia. Dagli scaffali di collezionisti privati e di istituzioni pubbliche sono riemersi molti libri illustrati e giocattoli didattici di pregio, che mettono in moto sentimenti, emozioni, ricordi: gli alfabetieri del 132

negozio di Ida Sello a Udine, che seguiva i metodi Montessori e Froebel e riforniva gli asili della regione; la produzione della Editoriale Libraria di Trieste, che acquisiva le illustrazioni tedesche e traduceva i testi in italiano; libri e album illustrati da Cambellotti, Rubino, Angoletta, Riccobaldi, fino a Bruno Munari; e ancora “Il giornalino della domenica” e le collane “La bibliotechina de la Lampada” di Mondadori e i “Librini del cuccù” della Salani; ed infine la grafica di Cernigoj e Bambic applicata a sognanti fiabe slovene. Sì, perché “Gorizia Magica” è una mostra multiculturale, così come la Venezia Giulia di quegli anni, fervido luogo di contaminazione tra le culture italiana, slovena e tedesca. Informazioni e prenotazioni: www.mostre–fondazionecarigo.it/mostra/ informazioni–gorizia–magica

36esimo PREMIO SERGIO AMIDEI

Il Premio “Sergio Amidei” Il 1992 vede la nascita dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”. Tra gli obiettivi fissati dall’organizzazione, in tutti i suoi aspetti – culturale, regolamentare, finanziario, sociale e di sviluppo – del Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei”. In quest’ottica, la creazione di un oggetto che in sé rappresentasse lo spirito della manifestazione e ne diventasse elemento caratterizzante fu uno dei

primi cambiamenti rivelatori del nuovo corso che l’Associazione volle dare al Premio. L’oggetto raffigura idealmente un foglio, supporto di quella scrittura cinematografica che tanto amiamo, foglio che su di un lato è percorso dalla foratura della pellicola, supporto delle immagini che da quella iniziale scrittura nascono. Volendo dare a questo oggetto un titolo lo si potrebbe chiamare “dalla scrittura all’immagine”. Il progetto del Premio, come l’immagine della manifestazione, è stato curato fino al 2015 da Remigio Gabellini, da sempre membro dell’Associazione.

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36esimo Premio Sergio Amidei Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg I volumi, i saggi, gli omaggi a registi e personaggi di spicco dell’arte cinematografica, pubblicati dal Premio “Sergio Amidei”

Franca Marri, Marta Macedonio (a cura di) Premio Sergio Amidei – Vent’anni (Associazione Sergio Amidei, Gorizia, 2001) Giovanni Di Vincenzo Le incrinature dell’anima. Il cinema di Fabio Carpi (Grafica Goriziana, Gorizia, 2002) Ilaria Borghese, Mariapia Comand, Maria Rita Fedrizzi (a cura di) Sergio Amidei, sceneggiatore (Transmedia, Gorizia, 2003) Simone Venturini (a cura di) Nelo Risi. Scritture in movimento (Transmedia, Gorizia, 2004) Remigio Gabellini Amarcord, Federico, amarcord! (Transmedia, Gorizia, 2005) Roy Menarini (a cura di) Il cinema secondo Cosulich (Transmedia, Gorizia, 2005) Mariapia Comand (a cura di) Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia (Lindau, Torino, 2006) Autori Vari Omaggio a Edgar Reitz (Transmedia, Gorizia, 2007) Maria Serena Vastano Il cinema di Sandro Petraglia e Stefano Rulli (Transmedia, Gorizia, 2007) Alice Autelitano, Roy Menarini (a cura di) Dentro la critica. Testimonianze, materiali, analisi (Transmedia, Gorizia, 2007) Giorgio Bacchiega (a cura di) Miklòs Jancsò. L’uomo di fronte alla storia (Transmedia, Gorizia, 2007)

Béla Balàzs L’uomo visibile (Lindau, Torino, 2008) Roy Menarini (a cura di) Italiana Off. Pratiche e poetiche del cinema italiano periferico 2001–2008 (Transmedia, Gorizia, 2008) Mariapia Comand, Stefania Giovenco, Sara Martin (a cura di) Il personaggio cinematografico (Transmedia, Gorizia, 2008) Roy Menarini (a cura di) La luce della scrittura. Paul Schrader critico, sceneggiatore, regista (Transmedia, Gorizia, 2009) Ugo Casiraghi Naziskino, ebrei ed altri erranti (Lindau, Torino, 2010) Ugo Casiraghi Vivement Truffaut! Cinema, libri, donne, amici, bambini (Lindau, Torino, 2012) Nereo Battello (a cura di) Omaggio a Marcel Pagnol (Transmedia, Gorizia, 2012) Ugo Casiraghi Storie dell’altro cinema (Lindau, Torino, 2012) Sara Martin Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia (Mimesis Cinema, Milano–Udine, 2015) Nereo Battello, Mariapia Comand, Sara Martin (a cura di) – con la collaborazione di Filippo Zoratti Memorie di un cinefilo (Transmedia, 2016) Gian Piero Brunetta Attrazione fatale. Letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo. Una storia culturale (Mimesis Cinema, Milano–Udine, 2017)

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36esimo Premio Sergio Amidei Gorizia 13–19 Luglio 2017 Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg I volumi, i saggi, gli omaggi a registi e personaggi di spicco dell’arte cinematografica, pubblicati dal Premio “Sergio Amidei”

Franca Marri, Marta Macedonio (a cura di) Premio Sergio Amidei – Vent’anni (Associazione Sergio Amidei, Gorizia, 2001) Giovanni Di Vincenzo Le incrinature dell’anima. Il cinema di Fabio Carpi (Grafica Goriziana, Gorizia, 2002) Ilaria Borghese, Mariapia Comand, Maria Rita Fedrizzi (a cura di) Sergio Amidei, sceneggiatore (Transmedia, Gorizia, 2003) Simone Venturini (a cura di) Nelo Risi. Scritture in movimento (Transmedia, Gorizia, 2004) Remigio Gabellini Amarcord, Federico, amarcord! (Transmedia, Gorizia, 2005) Roy Menarini (a cura di) Il cinema secondo Cosulich (Transmedia, Gorizia, 2005) Mariapia Comand (a cura di) Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia (Lindau, Torino, 2006) Autori Vari Omaggio a Edgar Reitz (Transmedia, Gorizia, 2007) Maria Serena Vastano Il cinema di Sandro Petraglia e Stefano Rulli (Transmedia, Gorizia, 2007) Alice Autelitano, Roy Menarini (a cura di) Dentro la critica. Testimonianze, materiali, analisi (Transmedia, Gorizia, 2007) Giorgio Bacchiega (a cura di) Miklòs Jancsò. L’uomo di fronte alla storia (Transmedia, Gorizia, 2007)

Béla Balàzs L’uomo visibile (Lindau, Torino, 2008) Roy Menarini (a cura di) Italiana Off. Pratiche e poetiche del cinema italiano periferico 2001–2008 (Transmedia, Gorizia, 2008) Mariapia Comand, Stefania Giovenco, Sara Martin (a cura di) Il personaggio cinematografico (Transmedia, Gorizia, 2008) Roy Menarini (a cura di) La luce della scrittura. Paul Schrader critico, sceneggiatore, regista (Transmedia, Gorizia, 2009) Ugo Casiraghi Naziskino, ebrei ed altri erranti (Lindau, Torino, 2010) Ugo Casiraghi Vivement Truffaut! Cinema, libri, donne, amici, bambini (Lindau, Torino, 2012) Nereo Battello (a cura di) Omaggio a Marcel Pagnol (Transmedia, Gorizia, 2012) Ugo Casiraghi Storie dell’altro cinema (Lindau, Torino, 2012) Sara Martin Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia (Mimesis Cinema, Milano–Udine, 2015) Nereo Battello, Mariapia Comand, Sara Martin (a cura di) – con la collaborazione di Filippo Zoratti Memorie di un cinefilo (Transmedia, 2016) Gian Piero Brunetta Attrazione fatale. Letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo. Una storia culturale (Mimesis Cinema, Milano–Udine, 2017)

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Stampa Grafiche Filacorda (Udine) 7.2017


Stampa Grafiche Filacorda (Udine) 7.2017


Capitolo A Premio internazionale alla migliore sceneggiatura; Capitolo B Premio all’opera d’autore; Capitolo C Arcipelago; Capitolo D Spazio off; Capitolo E Scrittura seriale; Capitolo F Racconti privati, memorie pubbliche; Capitolo G Premio alla cultura cinematografica; Capitolo H Eventi speciali 36esimo Premio Sergio Amidei Gorizia 13–19 Luglio 2017 Premio internazionale alla migliore sceneggiatura cinematografica Palazzo del Cinema ⁄ Hiša Filma, Parco Coronini Cronberg www.amidei.com


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