Festival del Cinema di Porretta Terme - Catalogo 2015

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XIV EDIZIONE di GHERARDO NESTI

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“ Cari amici, innanzitutto mi permetto di ricordare che Porretta Cinema è una manifestazione dedicata a importanti registi del Cinema mondiale che da anni si svolge nel nostro Comune. Nata nel 2002, si inserisce nel solco della tradizione della Mostra internazione del Cinema Libero svoltasi a Porretta fra gli anni ’60 e i primi anni ’80 e caratterizzatasi, allora, come uno dei principali festival alternativi della scena cinematografica italiana. Sin dalle prime edizioni il nuovo Festival ha privilegiato il taglio monografico, dedicando ogni anno un approfondimento a un noto regista della scena nazionale e internazionale, al termine del quale l’autore viene premiato e invitato a partecipare a un incontro aperto con il pubblico e la stampa. Quest’anno il Festival è dedicato a Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice nata a Roma nel 1960, che inizia a lavorare giovanissima e si diploma con un cortometraggio poi vincitore di numerosi festival internazionali. Seguono altri cortometraggi, tra cui La piccola avventura, del 1983, sui bambini disabili, e Un sogno truffato, prodotto da Ipotesi Cinema di Ermanno Olmi, che nel 1985 si aggiudica il premio Solinas per la migliore sceneggiatura. La regista debutta alla macchina da presa nel 1988 con Mignon è partita, amaro ritratto familiare dedicato alle problematiche degli adolescenti. Vincerà cinque David di Donatello, due Nastri d’Argento e numerosi premi internazionali. Il secondo film, Verso sera, è del 1990 e racconta gli anni di piombo e il conflitto tra un padre (Marcello Mastroianni) e un giovane figlio (Giorgio Tirabassi). Vince il David di Donatello come miglior film e ottiene numerosi altri riconoscimenti. Con Il grande cocomero, del 1993, la Archibugi affronta il difficile tema della neuropsichiatria

sindaco di Porretta Terme

infantile. Il film vince due David di Donatello e altri premi internazionali. Nel 1994 è la volta di Con gli occhi chiusi, complesso intreccio amoroso nella violenta campagna senese dei primi del ’900, seguito nel 1997 da La strana storia di banda sonora, che al Festival di Venezia si aggiudica il premio Jean Rouch come miglior documentario. Nel 1998 la regista gira L’albero delle pere, storia di un figlio adolescente costretto a una precoce maturità dalla madre fragile e tossicodipendente. Anche questo film vincerà numerosi premi in Italia e all’estero. Nel 2001 la Archibugi ritrae Ornella Muti sul set di Domani, film sul terremoto in Umbria del 1997, vincendo il premio speciale della giuria al Festival di Tokio. Nel 2006 gira Lezioni di volo e nel 2009 Questione di cuore, con Antonio Albanese e Kim Rossi Stewart, aggiudicandosi nuovi premi e ottenendo due nomination ai Nastri d’Argento e a due David di Donatello. Del 2012 è il docufilm Giulia ha picchiato Filippo, trasmesso da Rai1 per la giornata internazionale della violenza sulle donne, a vincere il Peace Award nella 17° edizione del Festival Capri, Hollywood. Nel 2015 esce Nel nome del figlio, che racconta quattro facce dell’Italia smaniosa di fermare il tempo, da un lato attaccandosi cocciutamente alle vecchie tradizioni borghesi, dall’altro adeguando il proprio narcisismo alla modernità e al villaggio globale dei social. Ogni film della Archibugi sembra dunque proporre una visione particolare delle cose e degli uomini, mescolando la curiosità e lo scetticismo con uno humor vigile e critico, sicuro indizio di un’intelligenza non comune. Alla semplicità delle inquadrature fa da contrasto una visione delle cose tutt’altro che semplice. Definita «architetto dei sentimenti», la regista


si presenta come una investigatrice delicata e forte del cuore della gente. Siamo al cospetto di una donna, nonché di una sceneggiatrice e di un’attrice, che con grande sensibilità ha saputo mappare il territorio dell’infanzia e delle sofferenze giovanili, mettendo al centro delle sue storie, con una regia parca e minimalista,

le prerogative individuali dei suoi personaggi. Una grandezza umana che si riverbera nella grandezza professionale di Francesca Archibugi: è un grande onore per Porretta ospitarla quest’anno.

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Lezioni Di Volo, 2007 (Foto : Claudio Iannone)


CON UN PIEDE NEL PASSATO E LO SGUARDO DRITTO E APERTO NEL FUTURO di LUCA ELMI

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Benvenuti alla XIV edizione del Festival del Cinema di Porretta Terme. Come ogni anno, prima di introdurre alcuni aspetti di questa edizione, non posso che ringraziare le istituzioni e gli sponsor che, unitamente al lavoro volontario degli associati, rendono possibile lo svolgimento dell’evento. Un ringraziamento particolare va all’amministrazione comunale, che non ha fatto mancare il proprio sostegno economico, confermando di credere fortemente alle specificità cinematografiche di Porretta Terme, e all’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna che, per la prima volta, ha deciso di investire sul nostro piccolo grande Festival e, più in generale, sulle attività culturali realizzate dall’associazione Porretta Cinema. Sì perché, come mi piace ricordare, Porretta Cinema non limita la propria attività ai giorni del Festival, ma produce una costellazione di iniziative che illuminano i crinali dell’Appennino toscoemiliano durante tutto l’anno. A tale proposito cito i Giovedì del Kursaal, realizzati in collaborazione con la gestione della omonima storica sala, che offrono al pubblico la possibilità di apprezzare titoli e autori che perverse logiche commerciali vorrebbero esclusi dalla programmazione di un piccolo cinema di provincia; il sodalizio con D.E.R, finalizzato a far conoscere il meglio della produzione documentaristica regionale e, sull’altro versante degli Appennini, la recente e preziosa collaborazione con Dynamo Camp e il Comune di San Marcello Pistoiese. Per la prima volta un’edizione del Festival è dedicata a una donna, ad una regista di grande sensibilità e talento: Francesca Archibugi. Autrice di pellicole di successo, come Il Gran-

presidente associazione Porretta Cinema

de cocomero, Mignon è partita e Questioni di cuore, sarà con noi per parlarci del suo lavoro. Avremo modo di apprezzare una parte significativa dell’opera di Francesca e di approfondirne lo sguardo raffinato e profondamente colto. Il cinema di Francesca Archibugi, infatti, affonda le proprie radici negli archetipi letterari di derivazione classica per restituire allo spettatore un racconto della vita originale e delicato, all’interno del quale è chiaramente riconoscibile il suo sguardo. Inoltre, sono lieto che, per il terzo anno consecutivo, alla retrospettiva dedicata ad un autore di fama si affianchi il concorso Fuori dal giro. Un’occasione preziosa per portare agli appassionati il giovane cinema italiano, spesso invisibile. La selezione di quest’anno, come sempre realizzata grazie alla collaborazione con Rete degli Spettatori, comprende titoli piuttosto eterogenei, accomunati però dall’interesse con cui sono stati accolti, nonostante la scarsa distribuzione. Gli spettatori potranno scegliere il titolo che hanno maggiormente apprezzato tra quattro opere: Fino a qui tutto bene, Last Summer, N-Capace e Senza nessuna pietà. Ogni sera, al termine della proiezione, uno degli autori incontrerà il pubblico presente in sala. Infine, voglio ricordare due eventi in programma che celebrano quel glorioso passato cinematografico porrettano da cui la nostra associazione trae ispirazione: il premio a Gian Paolo Testa, fondatore della Mostra Internazionale del Cinema Libero che si svolse a Porretta Terme fra il 1960 e il 1985 e la proiezione speciale de Lo stagionale, film sulla difficile condizione degli immigrati italiani nella Svizzera dei primi anni ’70, realizzato dal regista-operaio Al-


varo Bizzarri e presentato a Porretta Terme nel 1971. Gian Paolo, all’epoca compagno d’avventura di Repaci, Grieco e Zavattini, è un uomo di cinema piuttosto sui generis, più disposto all’azione che alla contemplazione e che, per usare le sue stesse parole, non ha «mai visto un film di quelli proiettati in sala a Porretta», ma rappresenta l’origine e il motore vero di una storia cinematografica gloriosa, per noi imprescindibile. Il piccolo omaggio che gli verrà tributato non è altro che un modesto riflesso della gratitudine

che Porretta Cinema nutre nei suoi confronti. Lo stagionale di Alvaro Bizzarri fu presentato a Porretta Terme in occasione della VI edizione della Mostra Internazionale del Cinema Libero, riscuotendo l’apprezzamento di Elio Petri e Gian Maria Volonté. L’autore, nato in un piccolo paese dell’Appennino pistoiese, sarà presente per ricordare la sua partecipazione alla manifestazione porrettana. Buon Festival e buona visione a tutti!

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Lezioni Di Volo, 2007 (Foto : Claudio Iannone)


I GRANDI, IN FONDO, NON SONO CHE BAMBINI SOPRAVVISSUTI di FRANCO VIGNI

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Esploratrice, fin dagli esordi, del difficile territorio dell’infanzia e dell’adolescenza, Francesca Archibugi ha saputo sviluppare con coerenza un proprio autoriale itinerario artistico, elaborando un proprio stile e una propria poetica da cui trapela un incisivo gusto del racconto, la volontà e il piacere di narrare – prima con la scrittura, poi con le immagini, i suoni e le parole – storie di personaggi ritratti con un senso di disincanto, talvolta commisto a un raffinato e sfumato humour, figure colte in quella fragilità e in quella incertezza che è tipica degli esseri umani, con il loro inestricabile groviglio di problemi, malesseri esistenziali, tormenti coscienziali e sociali. Percorso sempre con afflato poetico e con esemplare coerenza etica ed estetica, in una compresenza di indubbia autorialità e di alta artigianalità, e in una sostanziale unità di ispirazione e di intenti che sopravanza l’eterogeneità degli esiti artistici delle singole opere, l’itinerario cinematografico della regista romana si evolve in una vocazione al narrare che ha e mantiene, quale punto di osservazione privilegiato, quello ad altezza di adolescente, «l’unico capace» come non manca mai di ribadire l’autrice «di verità e innocenza, di rispetto e stupore». Raffigurati nella loro dinamica esistenziale, i bambini-giovani-adolescenti — o più esattamente, come la stessa regista ha precisato, quelle «persone di pochi anni» da lei così spesso elette a protagoniste, quasi gli unici protagonisti possibili delle sue storie – sono sovente descritti con ironia, ritratti nella loro dialettica interiore e nella relativa collisione con se stessi, con la realtà, con la Storia, tratteggiati nel conflitto tra conscio e inconscio, dipinti nello sdoppiamento della personalità individuale e nel gioco interno di scissioni e

giornalista e critico cinematografico

diffrazioni: personaggi la cui interiorità assume quasi, dostoevskijanamente, le fattezze di un campo di battaglia dove si fronteggiano il Bene e il Male. Colti nel momento del trapasso della “linea d’ombra” che separa, o congiunge, giovinezza e maturità – luogo forte e riconoscibile del cinema archibugiano – essi affrontano la crescita lungo un tragitto la cui asperità e tortuosità sembrano già racchiuse nei nomi ingombranti (i “nomi dei figli”) che gli adulti hanno assegnato loro: Mignon, Mescalina/Papere, Pippi, Siddharta, Domitilla, Vale, Tina, Apollonio/ Pollo, Marco/Curry, Airton, Scintilla. Hanno fretta di crescere, questi ragazzini, salvo poi accorgersi che il mondo degli adulti è segnato dalle stesse contraddizioni e da un malessere diffuso che fanno vacillare gli equilibri esistenziali, poggiati su un reticolo di crepe che, espandendosi fino in fondo all’anima, manda in frantumi ogni rapporto. Nella fase di crescita, i figli somigliano a nomi «in mezzo a una pagina bianca» (come le parole dell’io narrante Giorgio allegorizzano in Mignon è partita, rievocando l’episodio del casuale rinvenimento del diario della madre in cui la scrittura, in una frase non terminata, si arresta bruscamente proprio sul suo nome). Nel cinema dell’autrice le figure genitoriali si palesano soprattutto nella loro assenza, nella loro lontananza, nel loro vuoto. La famiglia si prospetta sovente come un organismo frammentato o assente, un luogo di scontro, di conflitti, di rancori, di complessi di colpa. Disastrati, squassati, disgregati sono i nuclei familiari nei quali spento appare il calore dell’unità e degli affetti parentali. Famiglie instabili, distaccate e precarie, o lontane, sgretolate e scisse, in cui comunque non è dato trovare protezione, rifugio, conforto. Famiglie di-


sunite e infrante dalle ideologie e dai contrasti generazionali, o famiglie sfaldate e scheggiate, coercitive e distruttive, che conducono verso il precipizio della schizofrenia e della psicosi. Il tessuto familiare appare sempre sfrangiato e scomposto: se le figure paterne sono spesso assenti o lontane, quelle materne sono fragili e insicure, amorevoli ma incapaci di instaurare un reale contatto con i figli. L’unità familiare può essere solo sognata o fantasticata, magari con i ruoli invertiti, con i figli che talvolta si ritrovano a fare da padri o da madri ai genitori. Se, insomma, i bambini sono proiettati in una dimensione che è già quella del mondo adulto, gli adulti, al contrario, si rapportano a un sistema e a una condotta che sono ancora quelli fanciulleschi. La genitorialità si presenta come imperfetta e difficile, così come l’infanzia si palesa sempre come rischio e sforzo. Nel loro percorso verso un’età e una coscienza più adulte, in un mondo che i bambini e i figli sovente non sa di averli, i piccoli protagonisti archibugiani conoscono le angolosità della vita e l’ombra della morte, il cui senso incombente aleggia senza sosta nell’intera opera della regista, striandola di tonalità ferali e chiosature tanatologiche. Morte reale o simulata, morte in diretta o riflessa, rappresentata o più spesso evocata; morte allusa e metaforica, o concreta, straziante, brusca e impietosa: in ogni opera della regista c’è la scoperta adolescenziale della morte. Nel loro processo di crescita, punteggiato di conflitti, tensioni, inquietudini, angosce, tutti i giovani personaggi dei suoi film si imbattono nell’idea della morte, intesa non solo come condizione fisica e terminale dell’individuo, ma anche come senso inquietante che avvolge le situazioni, condizione che innesca una dinamica di modificazione. È infatti anche attraverso la morte, usualmente quella di un genitore, che

essi scoprono il significato della vita, giungendo così all’ardua costruzione di un’identità. Crescere è un processo di collisione con la realtà, ma anche un sinonimo di cambiamento. Per loro, adolescenti in bilico tra audacia e timidezza, impulsività e silenzio, slancio e frustrazione, l’urto con il mondo e con le sue contraddizioni si risolve alla fine in un evolversi dei sentimenti, in un appropriamento della vita, in un superamento di un limite che sembrava invalicabile, proiettati come sono verso un nuovo possibile corso dell’esistere, verso una prospettiva ancora indeterminata ed evanescente ma aperta, forse, a quelle great expectations verso cui essi giungono infine a gettare il loro sguardo. Nell’opera complessiva della regista la macchina da presa diviene indagatrice di un universo di cui si mette in risalto la complessità, sovente l’inafferrabilità, attraverso la precisa descrizione di caratteri e ambienti, l’accuratezza e la trasparenza dello svolgimento tematico e uno stile che, talvolta proprio nella sua semplicità, sembra fare da controcanto alla profondità e intensità della visione delle cose e degli uomini. Il realismo umano e d’ambiente si carica di una componente simbolica, delineando un sentimento della vita che si palesa in tutta la sua dolorosa profondità. Dagli spazi domestici e intimi, dai tinelli e dai salotti, il pulviscolo della solitudine e del disagio si espande a invadere realtà esterne nel cui corpo malato l’obiettivo scava tagliando come un bisturi nella sostanza ulcerata dell’interiorità dei personaggi, perlustrando un mondo in cui, per riprendere l’efficace definizione di Nadia Terranova citata dalla stessa Archibugi, «i grandi in fondo non sono che bambini sopravvissuti».

TUT TI I GIOVANI PERSONAGGI DEI SUOI FIL M SI IMBAT TONO NELL’IDEA DELL A MORTE

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LA PRODUZIONE NEI FILM DI FRANCESCA ARCHIBUGI

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di PAOLO NOTO

titolare dell’insegnamento di Cinematografia Documentaria, Università di Bologna

Nel corso degli anni, e nella naturale alternanza di risultati al botteghino, il cinema di Francesca Archibugi è stato costantemente capace di intrattenere un dialogo costruttivo con la società nazionale, in particolare – se è consentita un’inevitabile semplificazione – con quel “ceto medio riflessivo” che costituisce, da almeno un decennio a questa parte, il pubblico di riferimento del cinema italiano di qualità. Questo elemento è stato ampiamente riconosciuto dagli organi pubblici deputati al sostegno alla produzione cinematografica, che hanno immancabilmente attribuito ai film diretti dalla regista romana la qualifica di “film di interesse culturale”, nonché i relativi benefici economici. Tale qualifica, è utile specificarlo, non individua un generico “valore artistico”, ma definisce quei film che, sulla base di un progetto industriale solido e di sceneggiature che danno risalto a questioni di largo interesse per la collettività, propongono temi e valori in grado di incidere positivamente a livello sociale. Il modo in cui i film di Archibugi sono stati valutati e supportati è quindi indicativo, allo stesso tempo, del ruolo che la cultura cinematografica italiana ha attribuito ai suoi film e dei cambiamenti che hanno modificato i criteri e le dimensioni del sostegno economico al nostro cinema. Andando in ordine cronologico, nel 2005 la Cattleya, società che produce Lezioni di volo, avanza al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali la richiesta di riconoscimento di interesse culturale per il film, sceneggiato dalla stessa regista insieme a Doriana Leondeff. Il film ottiene un punteggio elevato e risulta quinto nella graduatoria stilata dalla Direzione Generale per il Cinema, quarto se si prendono in considerazione solo i film che richiedono anche il contributo per la produzione. Su un costo industriale preventivato di 5.100.000 euro, Lezioni di volo ottiene 2.100.000 euro, di cui 100.000

quale contributo per la vendita all’estero. Nelle motivazioni che la commissione ministeriale ha fornito a supporto della decisione, visibili sul sito www.cinema.beniculturali.it, si legge che “Il progetto appare sostenuto da un solido impianto produttivo e riesce a far emergere nitidamente valori trans culturali ed universali quali l’amicizia, la solidarietà, la tolleranza, in un cammino di crescita”. Dai dati disponibili su www.lumiere.obs.coe.int, servizio del Consiglio d’Europa che registra il numero di biglietti venduti per ogni pellicola distribuita in Europa, il film risulta essere stato visto al cinema da oltre 300.000 spettatori. La stessa Cattleya produce tre anni dopo Questione di cuore. Anche in questo caso il film è valutato molto positivamente (90 punti su un massimo di 100), preceduto in graduatoria solo da Il grande sogno di Michele Placido e Come Dio comanda di Gabriele Salvatores, ed ottiene un contributo ministeriale di 1.900.000 euro, il più elevato tra quelli concessi nella relativa sessione (l’importo viene calcolato, tra le altre cose, sulla base del costo ammissibile; Questione di cuore viene presentato dalla Cattleya con un budget preventivo di 6.100.000 euro). Scrive la commissione: “Tra le qualità del progetto, dall’elevatissimo punteggio automatico e dal solido impianto produttivo, si evidenzia anche la scelta di due interpreti di valore [Kim Rossi Stuart e Antonio Albanese] particolarmente adatti ai due ruoli principali molto caratterizzati”. Le presenze del film sfiorano il mezzo milione, con oltre 15.000 biglietti venduti in Francia, dove il film è distribuito dalla Bellissima Film. L’ultimo, recente film di Francesca Archibugi è Il nome del figlio, remake del francese Le Prénom, adattato dalla regista e da Francesco Piccolo, con un notevole lavoro di sceneggiatura, alla realtà culturale italiana (soprattutto romana). L’istanza di riconoscimento di interesse cul-


Lezioni Di Volo, 2007 (Foto : Claudio Iannone)

turale è presentata nel 2013 dalla Lucky Red, che richiede un contributo di 950.000 euro ottenendo poco più della metà (500.000 euro). Il film, come al solito, ottiene un punteggio elevatissimo ed è ottavo tra quelli selezionati nella sessione di competenza, e quarto in quanto a importo finanziato. Non sono ancora disponibili i dati definitivi sulle presenze, ma Il nome del figlio ha già avuto un buon riscontro di pubblico all’uscita, incassando 1.117.143 euro nei primi quattro giorni, con una eccellente media per copia (3.592 euro). Nel decennio che separa Lezioni di volo da Il nome del figlio, evidentemente, sono cambiate molte cose nel cinema italiano, come testimonia il crollo dei contributi accordati, pure in presenza di valutazioni comparative analoghe, ai due film, scesi da oltre 2 milioni a meno di un quarto. Il 2005, in cui entra in lavorazione Lezioni di volo, è l’anno in cui il Fondo Unico per lo Spettacolo, che all’epoca costituisce praticamente la sola fonte per il supporto pubblico alla produzione cinematografica, viene drasticamente ridotto a nemmeno 30 milioni (dagli oltre 94 milioni del 2004). Oggi, oltre al finanziamento

diretto, sono stati implementati, dopo la legge Urbani del 2004, nuovi strumenti per il sostegno indiretto ed è cresciuto l’intervento degli enti locali attraverso le film commission e i film fund. Non è qui il caso di discutere se queste misure abbiano funzionato o meno (presenze e volumi produttivi, ad ogni modo, non sembrano avere subito effetti eccessivamente negativi). Anche le produzioni firmate da Francesca Archibugi hanno diversificato le forme di accesso alle risorse: alla produzione de Il nome del figlio, per esempio, partecipa il gruppo bancario BNP Paribas, in virtù della normativa sul tax credit (credito d’imposta: compensazione dei debiti verso l’erario con quote investite in produzioni cinematografiche). Segno che anche le iniziative cinematografiche di maggiore spessore hanno dovuto adattarsi a un sistema molto diverso rispetto al passato, ma anche che il riconoscimento pubblico, per chi è in grado di mettere in scena con profondità la realtà nazionale, può essere ancora conquistato, interpretando in modo efficace elementi critici e opportunità di questo nuovo contesto.

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INTERVISTA A FRANCESCA ARCHIBUGI a cura di

Come ti sei avvicinata al cinema e quando hai capito che saresti diventata regista? Il tuo esordio da attrice ha qualcosa a che fare con il tuo percorso successivo?

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Ho cominciato per puro caso, a 16 anni, quando l’aiuto regista di Gianni Amico mi ha fermato per strada, ero con i miei compagni di scuola, per chiedermi se volevo fare un provino per Le affinità elettive, di Wolfgang Goethe, un film per la Rai. Cercava una Ottilia quasi bambina, sono stata scelta e ho interpretato così, di botto, la giovane protagonista di uno dei più grandi libri dell’era moderna, che nasce come una commedia illuminista e finisce in una tragedia romantica. La mia famiglia si occupava d’altro e mai avrei immaginato che il mio futuro sarebbe stato il cinema. Mio padre è un economista, mia madre giornalista, la mia era una famiglia tutta di intellettuali, come si chiamano. L’unico artista era mio nonno, un violinista molto apprezzato, ma la musica classica non ha niente a che vedere con lo spettacolo. Però già scrivevo molto, e da anni, da quando ero bambina, poesie, racconti, e leggevo moltissimo. Forse questa inclinazione mi ha condotto a riconoscere nel cinema, appena l’ho incontrato, una cosa mia, personale: l’impulso narrativo è molto simile. Ma come attrice ero pessima, troppo impacciata e timida, la spudoratezza è necessaria, e avendo visto come lavorava il regista, quanto era solitario pur in mezzo alla moltitudine di un set, ho capito che il cinema mi attraeva in modo molto violento. In realtà ho proseguito a recitare per qualche anno perché mi chiamavano, spesso anche in teatro, sempre per ruoli che avvertivo al di sopra delle mie capacità recitative. Mi vergognavo di me stessa, soffrivo. Ho interpretato Cressida a diciassette anni, nel Troilo e Cressida di Shakespeare, diretta da Pier Luigi Pizzi. Ma lavorare mi piaceva, ero andata

associazione Porretta Cinema

via di casa contro la volontà di mia madre, ed era cominciata la mia vita vera, guadagnavo, pagavo le tasse, ero libera. Non mi rendevo conto quanto fossi ancora vulnerabile. Sono stata bocciata al liceo, a causa delle assenza continue, ho stretto i denti e ho fatto due anni in uno, portando alla maturità tutte le materie. Per far vedere che ce la potevo fare, che nessuno mi poteva dire niente. Al termine del liceo mi sono iscritta a psicologia, all’Università, e ho tentato anche l’esame al corso di Regia del Centro Sperimentale. In silenzio, mi vergognavo della mia presunzione. Per fortuna ce l’ho fatta ad entrare al primo tentativo. Lì, al Centro, ho trovato pace. La mia vita ha preso ordine, dovevo alzarmi la mattina, obbligo di frequenza, professori meravigliosi, e tutto il cupio dissolvi dell’adolescenza, la rabbia, la paura, l’autolesionismo, me lo sono lasciato alle spalle. Avevo diciannove anni ma mi sentivo una quarantenne. Quali sono i registi che ti hanno influenzato di più? Gianni Amico mi ha fatto vedere tantissimi film, erano gli anni del Cinema Massenzio all’aperto, l’estate romana, e ricordo che con un pennarello mi segnava sul programma tutti i titoli che dovevo assolutamente vedere. Grazie a lui ho conosciuto primi film di Cassavetes, la Nouvelle Vague, il cinema tedesco, Ozu, Napoléon di Abel Gance, il cinema indipendente, il Rossellini meno noto, tipo di India. Una grande sbornia contagiata dalla sua profonda cultura di cinéphile. Ero una ragazzina davanti alla quale si schiudeva un mondo meraviglioso di cui le era totalmente sconosciuta l’esistenza. La tua collaborazione, da attrice, al film Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci come è capitata?


In realtà io facevo, in quel film, l’assistente alla regia di Giuseppe che è stato, prima che un eccellente regista, un uomo eccezionale. Per farmi pagare Giuseppe mi inseriva fra le comparse. Il mio è solo un breve passaggio! Ma con il mio nome nei titoli, quando sono diventata regista mi è stato accreditato come ruolo, in realtà sollevavo solo una tapparella vestita da cameriera. Lui ha avuto qualche influenza sul tuo modo di dirigere? All’epoca ero troppo angosciata per rendermene conto, è stata l’unica mia prova da assistente alla regia. Sono troppo distratta per svolgere lavori di segreteria e le paure connesse a questo mio difetto hanno preso il sopravvento. Ero terrorizzata dall’idea di dimenticarmi gli appuntamenti, le cose che dovevo fare, le telefonate, soprattutto di non sentire la sveglia e non alzarmi la mattina prestissimo per andare sul set. Mio marito, allora il mio fidanzato, mi piazzava tre sveglie, e poi si sbagliava perché è più distratto di me e squillavano in mezzo alla notte. Non arrivavo mai in tempo. Per fortuna, la dolcezza di Giuseppe era proverbiale, pensa che, quando eravamo fuori città a girare, era lui in persona a svegliarmi, me che ero la sua assistente, per non farmi fare brutta figura con gli organizzatori, spesso portandomi il cappuccino. La sua incredibile calma, opposta all’iconografia classica del regista tutto stivali, cappello e megafono, è stata una grande lezione. Un uomo davvero di classe superiore. Poi ho avuto l’immensa fortuna di andare a Ipotesi Cinema da Ermanno Olmi, che mi ha prodotto un corto. Stare a contatto con Ermanno, con la sua visione così tecnica dell’arte, proprio da techné, che si opponeva con forza al grande fanatismo autoriale e cinefilo di cui ero imbevuta, è stato uno sganassone creativo veramente sonoro. Apprendere da lui quanto può essere grandioso l’artigianato, altro che umile. Ermanno è un direttore della fotografia eccezionale, uno dei più bravi montatori, faceva tutto lui con le sue mani, e quando parlava di una inquadratura bruttina che avevo fatto, perché magari fanatica, con due o tre suggerimenti anche umilianti- mi faceva capire come avrebbe potuto essere bella se io non fossi stata una “cretinetti” con la testa piena dei luoghi comuni cinematografici della mia generazione. Poi per ultimo, ma è il primo, c’è stato Furio Scarpelli, il mio insegnante di sceneggiatura al

Centro Sperimentale. É il grande sceneggiatore della coppia Age e Scarpelli, lo scrittore di tutti i film più belli di Monicelli, Comencini, Scola. Guardate, vedete, vi prego: quando un film della commedia all’italiana è un capolavoro, l’ha scritto lui. Ma io odiavo la commedia all’italiana, ero innamorata di Chantal Ackermann, Helma Sanders Brahms, Truffaut, Bob Rafelson, figuriamoci. Attraverso Furio sono entrata dentro i meandri della costruzione drammaturgica, tutto ciò che precedeva un film, la sua ideazione, la sua struttura, ed infine, l’amore per il dialogo. Furio ha tirato fuori da me, come un vero maieuta, tutto l’amore per le parole che mi ero inzeppata dentro, quasi occultato, credendo che con il cinema non c’entrasse niente. Nei raccontini, nelle poesie che scrivevo, nei romanzoni russi e francesi che mi leggevo da ragazzina. Mi ha fatto capire che il cinema è sì immagine, ma anche parola. Senso, suono, come la musica. Mi ha dato una grande fiducia in me stessa, sbraitandomi contro, come era uso fare. Intorno al suo caratteraccio c’era sempre una grande festa mobile, stavamo tutti ficcati nel suo ufficio alla Mass Film, dove scriveva, soprattutto io e Paolo Virzì, perché volevamo stare sempre con lui e farci maltrattare. Stare senza Furio per me era impossibile, mi ammalavo, come una pianta senza potassio. Ma la fortuna più grande della mia vita, lo dico senza retorica, è stata quella di innamorarmi di un ragazzino che sognava di diventare musicista, con la testa piena di idee, musica, arte, tutto in grande, anche l’amore, proprio come me. Con Battista Lena, con il quale sto dal liceo, anche se in modo non lineare, con salti, capriole, botte da orbi e riappacificazioni spaziali, viviamo una unione artistica davvero profonda e divertente. Abbiamo avuto tre bambini da giovani, non programmati, nati per caos e passione. Facciamo due lavori completamenti diversi, abbiamo due cervelli completamente diversi, abitiamo due mondi individuali, quindi siamo quasi due estranei, per molte cose. Ma c’è il momento in cui lui mi affianca, quando deve fare la colonna sonora, e lì diventa tutto bellissimo. Pensa che dal mio primo cortometraggio, che ho fatto a diciannove anni, dalla prima inquadratura che ho girato, lui ha messo la sua prima nota. Ma era più vecchio, ne aveva venti! Come nasce la storia di Mignon è partita, uno dei tuoi più grandi successi di critica? Io, Claudia Sbarigia e Gloria Malatesta aveva-

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mo vinto il premio Solinas con un’altra sceneggiatura che si chiamava Sott’acqua. Eravamo tre ragazzine alle prime armi, inesperte, che non avevano esitato a vendere il lavoro a Monica Vitti, alla quale era piaciuto e ci fece un’opzione. Fra i giurati sedeva un produttore, che io non conoscevo, Leo Pescarolo, che l’aveva letta e che si era interessato al progetto che non era più disponibile. Pescarolo ci chiese di portargli qualcos’altro. Io stavo già scrivendo il racconto Mignon è partita. L’ho sempre fatto, per tutti i film, sia quelli che poi ho realizzato sia per quelli che sono rimasti nel cassetto, anzi, nel cassonetto, dove forse è bene che stiano. Scrivo la storia del film in forma di racconto, come una sorta di romanzo breve. Parto sempre dalla scrittura, non importa che poi il lavoro sia soltanto per me stessa. Avevo da poco letto Il Tempo e il luogo di Jurij Trifonov, uno scrittore russo morto negli anni ‘80. Parlava della Russia del suo tempo, quella tetra e violenta dell’URSS, di ideali perduti, contemporaneo ma di grande tradizione letteraria, una cultura magnifica che si stava spappolando. Una pagina e mezzo di questo romanzo, molto corposo, è dedicata alla visita di questa cugina antipatica, di nome Mignon, in una casa nei sobborghi di Mosca. Ho rubato questo nucleo narrativo, che a sua volta Trifonov aveva rubato da Goethe. Mignon è la straniera del Meister, colei che tocca gli animi e poi se ne va, un archetipo letterario. Tra l’altro, lo stesso mio furto è stato compiuto da Wenders in Falso movimento, dove la ragazza interpretata da Nastassja Kinski si chiama Mignon, non alla francese, Mignonne, ma alla tedesca come la Mignon del Meister. Questo spunto nobilissimo, dal cuore dell’Europa, è stato poi calato a Piazza Melozzo, un quartiere di Roma, in una famiglia romana smandrappata, ma Giorgio, il ragazzino che si innamora della cugina, tutta la vicenda, il rapporto così difficile fra grandi e ragazzi, quello l’ho tutto inventato. Ma sempre un furto con destrezza compiuto ai danni del romanzo di Trifonov è stato.

All’epoca avevo le idee molto chiare sul tipo di cinema che volevo fare. É incredibile constatare come, da giovani, si abbiano le idee più chiare che nell’ età adulta, quando la vita ti rammollisce. Ero convinta che in Italia mancasse il cinema narrativo e ho fatto ricorso alla mia passione per la letteratura. Al provino per Le affinità elettive ero l’unica che aveva letto il libro e che conosceva a fondo il personaggio di Ottilia. Non lo dico per vantarmi, ma per raccontare cosa avevo dentro. Mia madre mi ha messo in mano grandi libri da quando ero piccola e io li divoravo, era il mio passatempo, il mio rifugio fantastico, altre vite, altre epoche,ero gentiluomini, vecchie balie, ero nella steppa, un’abitante dei sobborghi di Londra. Balzac, Dickens, Tolstoj sono stati i miei Pippo Pluto e Paperino, non avevo niente di intellettualistico nell’avvicinarmi a queste storie e personaggi. Tornavo a casa da scuola di corsa per rituffarmi a bomba in un amore, in un intrigo di eredità, in un paesaggio mai visto. Volevo tornare al cinema letterario, inteso non nel senso tradizionale, come trasposizione di romanzi o costruito con dialoghi spesso assurdi fra persone che parlano in modo forbito, volevo tornare alla letterarietà più alta, al film come romanzo in grado di raccontare la realtà. Credo che un regista sia, allo stesso tempo, uno scrittore con un altro mezzo. Mi muoveva la mia tensione verso il realismo, da non confondere con il naturalismo, basato sulla ricostruzione di un mondo solo apparentemente reale, ma dotato delle sue regole interne come un microcosmo. Dentro questa costruzione, drammaturgica e ideativa, a prima vista pare non esserci spazio per le esperienze personali ma, in realtà, l’autore entra in ogni personaggio, dalla fase di scrittura alla direzione degli attori. Tu sei ovunque, nei ragazzini, nella madre, nella professoressa fino al giovane down.

IL MONDO È PIENO DI BAMBINI, IL CINEMA NE È POVERO

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Di questo film colpisce proprio il realismo con cui racconti il mondo dei ragazzi, le loro esperienze. Che cosa c’è della tua vita in questa storia?

Tu appari in alcuni tuoi film, Mignon è partita e ne Il grande cocomero solo per citarne alcuni. É la tua necessità di attrice che riemerge o siamo in presenza di una firma? Oppure è qualcos’altro ancora? L’ho fatto come scherzetto fino a che nessuno mi riconosceva, poi ho smesso perché mi sem-


brava vanitoso. Riconoscendoti, lo spettatore si allontana dalla vicenda, ritorna in platea, si ricorda che è un film. Io ho l’ambizione smodata di far sembrare la storia raccontata da se stessa, senza narcisismi registici, quelle belle inquadrature, quei dolly che fanno fare “Ohhhh” perché evidentissimi, anche alle capre. Questo mio stile espressivo, l’annullamento alla macchina da presa, difficile, a volte autopunitivo, tecnicamente arduo, spesso viene confuso con una mancanza di regia da chi - perdonami- non ci capisce molto. Quante volte di chi raggiunge l’invisibilità con sforzo immane viene detto che non c’è regia, o che la regia è mediocre, o che non è capace di girare. Il tuo secondo lungometraggio, Verso Sera, è incentrato sul conflitto tra un professore/intellettuale, interpretato da Mastroianni, e la giovane nuora. Forte e dolce il personaggio di Mastroianni, come è stato lavorare con lui? Quando hai pensato al film avevi già in mente il grande attore? Diciamo che una ragazza al secondo film non è in condizione di scegliere Mastroianni. E’ stato lui a scegliere me: aveva visto il mio primo lungometraggio. Ricordo di aver detto, al produttore, non senza titubanza: “Certo, Mastroianni…”, senza nemmeno pensarci sul serio. Il mio produttore, Pescarolo, gli ha mandato la sceneggiatura. Marcello l’ha letta, mi ha voluta conoscere, ci siamo presi insieme la prima di una lunga serie di sbronze di grappa (temeva che fossi noiosa, credo, si è accorto che sono anche una buffona) e infine ha detto “Sono felice di farlo”. É stato generoso. Lui sapeva di farti un regalo, il suo viso, la sua voce, ma poi ti lasciava usarli come volevi. “Franceschina, come vuoi che lo tengo il telefono? Con questa mano o con quest’altra?”. Dovevi dirgli tutto tutto tutto, perché sapeva la cosa più importante, un insegnamento che tengo nel cuore: che un film viene bene solo se il regista è ispirato. Innamorato. E che ti devi fidare di lui, costi quel che costi. É stata una collaborazione felice, come credo quella di chiunque abbia lavorato con Marcello. Ha fatto centosessanta film, sono stata solo un centosessantesimo della sua vita, ma è stato un pezzetto molto felice per entrambi. Molti dei tuoi film sono tratti da opere letterarie, Il grande cocomero da un saggio di Marco Lombardo Radice, Questioni di cuore da un libro di Contarello. Come e quando capisci che una storia vuoi trasporla sul grande schermo? Quali sono i

tuoi scrittori preferiti? É molto difficile spiegare cosa sento. Potrei parlare a lungo delle mie tecniche in fase di scrittura, di drammaturgia e di regia, che è molto più tecnica di quello che appare. L’ispirazione è un processo misterioso, a un certo punto c’è qualcosa che ti cattura senza che nemmeno tu capisca bene il perché, facendosi strada fra le altre proposte, altre idee. Lo spunto è come un granello di sabbia nell’ostrica, poi c’è il lungo processo di bava per costruire la perla. Sento una forte esaltazione e lavorando tesso, tesso quel filo di saliva, non mi stanco mai, vengo rimproverata perché ho bruciato la cena. É successo, tanto per fare un esempio, per il mio ultimo film, proveniente da una pièce teatrale dalla quale era già stato tratto un altro film francese. Il processo è stato il solito: ho immaginato il lavoro di riscrittura che avrei potuto fare con Francesco Piccolo ed è nato il progetto. In realtà sono stati i produttori a vincere le mie titubanze, dubbiosa com’ero dell’effettiva fattibilità dell’idea che non consisteva in un remake, ma proprio in un nuovo film ispirato alla medesimo testo. Alla fine, la voglia di provarci ha prevalso: attratta dai personaggi, dalle esplosioni drammatiche e comiche al tempo stesso, ho visto nell’intreccio la possibilità di fare completamente mio, nostro, il racconto. Il film Il grande cocomero racconta strategie e percorsi terapeutici fuori dagli schemi, fondati sull’ascolto paziente delle necessità dei bambini. Cosa ti ha spinta a raccontare questa storia? Tutto inizia con la lettura di Una concretissima utopia, saggio di Marco Lombardo Radice pubblicato dalla rivista Linea d’ombra in occasione della sua morte. Marco non l’ho conosciuto di persona, era morto un mese prima, ma questo non ha impedito che io mi interessassi molto al suo modo di lavorare. Ho voluto saperne di più, sono andata in reparto, così per curiosità personale. Non è l’unico caso in cui mi sono appassionata a temi che, apparentemente, sono lontani dal cinema e dall’attività di regia in senso stretto. Però poi è esploso il desiderio di raccontare. Insieme alla storia è nato un personaggio completamente inventato, Pippi, perché il saggio, per quanto divulgativo, aveva un taglio tipicamente scientifico. E anche il personaggio di Castellitto, con il quale ho adorato lavorare in quel film, era una nuova creatura, fatta di me, lui e Lombardo Radice.

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Come è stato lavorare con Laura Betti, l’Aida del film ? Laura è diventata, da quasi subito, una delle mie migliori amiche e, malgrado il suo carattere infernale, l’ho amata perdutamente. Eravamo proprio amiche, ci volevamo bene, uscivamo insieme. Il nostro rapporto, a causa del suo carattere, non è stato facile, ma avevo una tecnica personale per rabbonirla. Lavorare con lei è stato, per me, importantissimo. Il documentario Parole povere nasce quasi per caso, in seguito a un concerto in cui Pierluigi Cappello veniva accompagnato dalle musiche di tuo marito, Battista Lena. Come è successo?

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Io, di Pierluigi, ho letto il libro che aveva vinto il premio Viareggio. Mi piace la poesia contemporanea, la seguo. Dopo un anno, il Mittelfest di Cividale, un festival musicale molto bello e importante, propone casualmente a Battista e al suo quintetto un lavoro con Pierluigi. L’occasione era meravigliosa, non potevo perderla, ho organizzato tutto: telecamere, montaggio, produzione. Come spesso capita tra noi, Battista ha conosciuto Cappello attraverso di me che gli avevo letto alcune poesie ad alta voce, la sera prima di addormentarci. Forse, se non lo avesse amato come poeta, non avrebbe nemmeno accettato. Il documentario è nato così, come spesso accade, nell’aria di casa. Come La strana storia di Banda Sonora un altro documentario che ho fatto sul suo lavoro. Lui stava facendo un progetto con una banda di paese, Chianciano, in Toscana, non lontano da dove abitavamo all’epoca. Ha sempre amato lavorare con dilettanti, mescolandoli a un sestetto jazz di grandi musicisti, come Enrico Rava, Gianni Coscia, Enzo Pietropaoli, Gabriele Mirabassi. Io sono andata a filmare questo incontro, durante le prove durate un inverno, poi il concerto a Umbria jazz. Il disco ha vinto il premio Choc della musique, era prodotto da un’etichetta francese. Ci racconti un po’ de L’albero delle pere? Ho scritto la storia partendo da un ragazzino di quattordici anni che vive da solo, che, di fatto, fa il padre della madre, il padre della sorella. Un personaggino che si carica di un grande peso, portando sulle proprie spalle le mattane dei propri genitori che non vogliono crescere. Questo è stato l’ avvio. É nato un personaggio,

Siddharta, dal nome assurdo imposto dalla mamma alla nascita, con i capelli riccioli e con il bisogno di vagare per la città in motorino. Credevo fosse uno spunto originale, non come aggettivo qualificativo, ma come soggetto originale, nato tutto dentro di me. Dopo l’uscita del film, trovo il messaggio in segreteria telefonica di una vecchia conoscenza, che non sentivo da anni, che mi copre di insulti: “Brutta stronza, ma come ti sei permessa di raccontare la storia di Silvia senza nemmeno citarla?”. Solo in quel momento ho realizzato che la storia riprendeva, in gran parte, la difficile vita di un’ amica e la sua morte. Un nuovo furto, del tutto inconsapevole. E che la mia adorata Valeria Golino, che la interpretava con quel calore, quel fascino tutto suo, l’avevo scelta perché le somigliava. Non ho proprio ricalcato la storia, per dire, lei non aveva figli, bensì ho attinto a un certo modo di essere, a un certo modo di dire bugie, di vivere con un’ombra, un segreto. Era un’amica più grande di me a cui ho voluto molto bene, che ho visto dibattersi nella spirale dell’eroina fino alla morte in un incidente stradale. Questo tanto per cercare di spiegare come nascono le storie: a volte le pensi tu e, a volte, sono loro che pensano a te. Spesso, al termine di un film, qualcuno mi cita la fonte a cui, inconsapevolmente, mi sono ispirata. Una ragazza molto brava e attenta, ha fatto la propria tesi di laurea ricercando i riferimenti letterari all’interno dei miei film: mi ha colto con le mani nel sacco ovunque, senza che io ne fossi consapevole. Mansfield, Dickens, Proust, Alice Munro quando nessuno la conosceva e in Italia era pubblicata dalla Tartaruga, piccola casa editrice, e ancora Edna ‘O Brien, battute di Fitzgerald e Salinger: ha fatto rientrare nei miei film un flusso di autori e intrecci e parole. Del resto assorbiamo dall’esperienza, dalle persone che incontriamo, dai romanzi, dagli altri film, dai testi teatrali. La nostra giornata è una spugna, assorbe dalla realtà, dalla nostra vita, da quello che leggiamo e vediamo, per poi venire risputato fuori nel tempo, magari a distanza di anni. Gigia, la mia tata che ha vissuto nella nostra famiglia per tutta la vita, mi rivela sempre a quale ricordo d’infanzia ho rubato un dettaglio. Se continuiamo la conversazione, anche tu corri il rischio di finire sbattuto in un film. Questione di cuore, racconta l’amicizia tra Ange lo e Alberto, due uomini diversi accomunati dalla malattia. É stato difficile affrontare questo


Lezioni Di Volo, 2007 (Foto : Claudio Iannone)

tema? È una questione di tocco, e il tocco, come il tono della voce, non lo puoi artefare. Dal romanzo di Umberto ho preso il nucleo, il rac contato e anche l’irraccontabile, tutto ciò che io sapevo di lui per la nostra amicizia ventennale. L’ho sfrondato di tutto quello che non mi interessava, e diciamo che sostanzialmente ho fatto un film sulla morte, cercando che lo spettatore non se ne accorgesse. Ho avvolto la storia in un mantello di commedia, utilizzando, come una specie di cavallo di Troia, un’amicizia nata sul ciglio dell’abisso. Il lavoro con i due straordinari interpreti, Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart, mi ha permesso di andare a fondo sull’umanità dei personaggi, perché si sono aperti con tutto di loro stessi, hanno regalato al film la loro profondità e umanità. E’ stato molto importante per me anche lavorare con Micaela Ramazzotti, costruire insieme il personaggio di Rossana, la moglie di Kim nel film. Ho incontrato un’interprete che dentro la sua verità, forza, bellezza, riesce ad essere molto più tecnica di quello che appare. Il film si conclude con uno dei due amici che resta, mentre l’ altro cade giù. Di nuovo un archetipo letterario tratto dall’Iliade, dove

due generali nemici, di armate opposte, feriti, moribondi, vengono messi nella stessa tenda, dando vita a un’amicizia che altrimenti non sarebbe mai stata possibile. Passiamo a Il nome del figlio, uscito solo un anno mezzo dopo Cena tra amici. Come nasce la scelta di legarsi alla medesima opera teatrale? I due film in cosa differiscono? L’ossatura è fondamentalmente la stessa. E’ una commedia superlativa, congegnata con grande abilità, mi ha lasciato ammirata. La pièce è stata adattata, inserendo personaggi che sono stati completamente reinventati come, ad esempio, quello della Ramazzotti, Simona. Queste rielaborazioni impediscono di definire l’operazione un remake, essendo più corretto il termine “adattamento” che, ovviamente, non c’entra nulla con la volontà di rubare la commedia. Non solo sono stati pagati profumatamente i diritti ma, addirittura, gli autori francesi sono stati felicissimi del film, comprendendo a fondo il grande sforzo di personalizzazione che ho fatto, insieme a Francesco Piccolo. E’ stato importante il lavoro e la costruzione con gli attori, un quintetto che ho amato perdutamente:

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Alessandro Gassmann, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo, Valeria Golino e Micaela Ramazzotti. Abbiamo provato per settimane prima delle riprese, perché un film così, di personaggi, non può prescindere dagli attori. I francesi, a differenza degli italiani, sono più evoluti riguardo ai meccanismi della creazione, non vedono complotti ovunque, sono molto meno sospettosi. Come ti ho detto, mi sono innamorata di questa storia per come avrei potuto trasformarla, non tanto dello sviluppo originale. Dice Francesco Piccolo che abbiamo preso l’idea narrativa come una sorta di tram su cui salire per raggiungere una destinazione personale. Gli autori della piéce hanno amato moltissimo il film, erano commossi dal nostro lavoro di trasformazione. A proposito, quanto ha contato per te il cinema francese?

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Sicuramente il cinema francese ha una grandissima tradizione, a cominciare dal realismo degli anni ’30. In modo particolare amo Jean Renoir, alcuni titoli come La chienne, La Regle du jeu, Toni: sono stati film importantissimi per me, e non solo per me, per la storia del cinema, forse dell’umanità! Pensa a cos’era La Grande Illusion, film del ’37 ambientato durante la prima guerra mondiale come profezia di quello che sarebbe avvenuto nella seconda, scoppiata di lì a poco. E poi, più tardi, la Nouvelle Vague. Registi di vent’anni che hanno rivoluzionato l’idea stessa di cinema, spaccandone gli stereotipi linguistici. Di tutti loro, il mio preferito è Truffaut, che quella libertà comunque la abitava con una venerazione per la drammaturgia e la letteratura, riuscendo al tempo stesso a raccontare la vita contemporanea. E poi ammiro il suo sguardo nei confronti dell’infanzia, il tener sempre vivo, dentro se stesso, le ragioni del bambino che è stato. I bambini non sono tutti uguali, come sembra di veder spesso al cinema, quando fanno la parte dei “bambini”, senza specificità personali, unicità psichica, come gli altri personaggi. Il mondo è pieno di bambini, il cinema ne è povero. Non sono io che metto i bambini nei miei film, sono gli altri che ce li tolgono. Poi Agnès Varda. Ha immesso il pensiero femminile in un mondo non solo femminile, ma in tutto il mondo. Io odio l’idea che le donne debbano raccontare le donne, storie di donne. Mi piace raccontare il mondo, tutto, certo dalla nostra visione, che è diversa, inevitabilmente

diversa, a volte dolorosamente diversa, perché siamo relegate in un recinto a parte. Ci viene sempre accorciata la statura, non ci viene proibito apparentemente nulla, ma lo scetticismo bonario e paternalistico con il quale veniamo trattate, da artiste, è insopportabile. Dobbiamo essere brave il doppio, lavorare il doppio, per ottenere la metà, si dice. E’ proprio così. Durante il Festival ci sarà un incontro con Esmeralda Calabria, tua montatrice di fiducia. Esmeralda è una montatrice geniale, ha qualcosa in più. Non solo una visione complessiva del racconto, con la quale confrontarsi appassionatamente, ma “il Dono”, lo chiamo io, quella capacità di attacco, di saper fondere inquadrature e sequenze. É una mia grande amica, ci conosciamo da quando lei ha fatto l’assistente al montaggio del mio primo film, ormai sono vent’anni di lavoro comune e di affetto. Il suo lavoro immette una grande eleganza formale ma mai manieristica, è brutale e sofisticata, un modo di esprimersi nel quale mi riconosco come in una sorella. Il prossimo progetto che hai nel cassetto, puoi raccontarcelo? In questo momento sto lavorando a tre progetti, per poi scegliere quale realizzerò. Mi capita sempre così, scrivo più di una storia prima di decidere quale seguirò. La passione per la scrittura, sempre quella, mi porta a essere un po’ lenta, ma non importa. La mia felicità consiste, in gran parte, nello stare a casa a scrivere. Mi ha permesso di dedicare tanto, tanto tempo ai miei tre bambini che crescevano, di stare sempre con loro, sempre a loro disposizione. Lavoro a porta aperta, e mio figlio mentre studia mi manda un messaggio Skype che mi appare sopra la pagina che sto scrivendo: “Mi fai un panino?”. Ogni tanto qualcuno mi propone il proprio copione da revisionare. Ultimamente è capitato con Paolo Virzì. Abbiamo scritto insieme il suo ultimo film, è stato veramente bellissimo, siamo amici dai tempi in cui eravamo allievi di Scarpelli. Poi ci sono i corsi al Centro Sperimentale, dove talvolta insegno. Se non fossi diventata regista che cos’avresti fatto? Chi può dirlo? Non lo so, non saprei. Probabil-


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mente, avendo frequentato psicologia all’Università, forse sarei diventata psicologa. Mi sarebbe piaciuto. Amo l’umanità, soprattutto quella acciaccata. Tutti i miei personaggi sono dei casi clinici. Io stessa mi ci sento. Sei attiva su Twitter, che rapporto hai con i social network? Twitter è uno scherzetto, non bisogna prendere troppo sul serio questi mezzi. É una modalità di contatto con le persone, quelle che conosci e quelle che non conosci, soprattutto per chi conduce una vita solitaria, stando molto in casa. Io non faccio vita mondana, ho cresciuto tre figli, sto molto di più con ragazzi e ragazzini che non con vip. A parte la stretta cerchia degli amici, alcuni miei colleghi di cinema e gli

amici musicisti di Bat [ndr Battista Lena], conduco una vita molto ritirata. Abbiamo vissuto quindici anni in campagna, isolatissimi. Twitter mi dà la possibilità di stare in contatto con pensieri, persone, modi di essere; una piccola finestrella sul mondo, senza però attribuirgli troppa importanza. Un po’ come l’orologio da polso: quando uscì c’era chi diceva che essendo la vita scandita la vita dal Tempo, avrebbe mutato la sostanza stessa dell’esistenza. Occorre ricordare che siamo di fronte a mezzi, non a fini, che vanno visti in prospettiva. La vera rivoluzione casomai è stata Internet, con le sue enormi potenzialità di accesso in tempo reale a informazioni di tutti i tipi. La rete sì che ha cambiato davvero il nostro modo di vivere, offrendoci delle opportunità inimmaginabili di conoscenza.



MIGNON È PARTITA REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia. SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia. SCENOGRAFIA: Massimo Spano FOTOGRAFIA: Luigi Verga MONTAGGIO: Alfredo Muschietti MUSICHE: Roberto Gatto, Battista Lena INTERPRETI: Stefania Sandrelli, Jean Pierre Duriez, Massimo Dapporto, Cèline Beauvallet, Leonardo Ruta, Francesca Antonelli, Daniele Zaccaria, Eleonora Sambigio, Flavio Chiappalone, Lorenzo De Pasqua, Micheline Presle.

PRODUZIONE: Leo Pescarolo e Luciano Martino per Ellepi Film - Raitre PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: D.M.V. ANNO: 1988 DURATA: 97 minuti

Mignon è una quindicenne parigina, molto sofisticata, snob e altezzosa, che giunge a Roma ospite di un ramo meno elevato della famiglia. È stata mandata lì dalla madre perché il padre (fratello del capofamiglia romano) è finito sotto inchiesta per il crollo di un palazzo costruito con materiali difettosi dalla sua impresa edile, incidente nel quale hanno perso la vita due persone. La ragazza è un corpo estraneo fra uno zio troppo assente, la zia Laura e i cinque cugini. Riservata e superba, non fa nulla per integrarsi all’interno dell’ambiente: litiga spesso con la coetanea Chiara, non lega né con Tommaso né con Antonella, e tanto meno con il piccolo Giacomino, che ha solo un anno e mezzo. Va invece più d’accordo con il tredicenne Giorgio, che ne condivide i gusti letterari e che si innamorerà di lei, pur non rivelandolo a nessuno. Sarà Cacio, bulletto di quartiere e grande amico di Tommaso, a corteggiarla in modo aperto, e Mignon, tormentata dall’indifferenza della madre che continua a lasciarla in Italia, finirà per concederglisi nella libreria dello zio.

Premi e riconoscimenti: • David di Donatello 1989: Miglior regista esordiente (Francesca Archibugi), Migliore sceneggiatura (Francesca Archibugi, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia), Migliore attrice protagonista (Stefania Sandrelli), Migliore attore non protagonista (Massimo Dapporto), Miglior fonico di presa diretta (Candido Raini) • Nastri d’Argento 1989: Miglior regista esordiente (Francesca Archibugi), Migliore attrice non protagonista (Stefania Sandrelli) • Ciak d’Oro 1989: Migliore attrice non protagonista (Stefania Sandrelli), Miglior regista esordiente (Francesca Archibugi), Migliore sceneggiatura (Francesca Archibugi, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia), Miglior manifesto • Festival di San Sebastiàn 1988: Miglior regista esordiente (Francesca Archibugi) Curiosità: La pellicola è stata girata a Roma. Il palazzo della famiglia che ospita Mignon è in Piazza Melozzo da Forlì. La famosa libreria si trova invece in via Famagosta 39/41 ed è la Libreria Pocket 2000.

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VERSO SERA REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia SCENOGRAFIA: Osvaldo Desideri, Paola Marchesin. FOTOGRAFIA: Paolo Carnera MONTAGGIO: Roberto Missiroli MUSICHE: Battista Lena, Roberto Gatto INTERPRETI: Marcello Mastroianni, Sandrine Bonnaire, Zoe Incrocci, Giorgio Tirabassi, Victor Cavallo, Veronica Lazar, Lara Pranzoni, Paolo Panelli, Giovanna Ralli, Gisella Burinato, Pupo De Luca, Dante Biagioni PRODUZIONE: Leo Pescarolo e Guido De Laurentiis per Ellepi Film e Paradis Films PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: IIF - Panarecord ANNO: 1990 DURATA: 99 minuti

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Ludovico Bruschi, professore universitario in pensione e comunista “aristocratico”, vive a Roma nel suo villino ai Parioli, servito con dedizione dalla domestica Elvira. Improvvisamente arriva il figlio Oliviero, un hippy insicuro e inconcludente appena separato dalla compagna Stella, che gli chiede di occuparsi per qualche tempo della figlioletta Mescalina, detta Papere. La piccola, abituata alla vita sregolata dei genitori, incontra non poche difficoltà nel rapporto con il nonno, il quale, oltre a essere un intellettuale, è anche legato a sani principi quali il lavoro, l’ordine, il rispetto dei tempi e delle regole. La situazione si complica a causa dell’invadenza di Stella, che non vuole rinunciare alla bambina ma, allo stesso tempo, nemmeno alla vita disordinata che ha sempre condotto. Visti i valori diametralmente opposti, all’inizio Ludovico e Stella si detestano, ma pian piano finiscono per affezionarsi l’uno all’altra, in un amore impossibile e platonico (del resto fra suocero e nuora «non si fa», almeno stando ai principi borghesi di Ludovico).

Premi e riconoscimenti: • David di Donatello 1991: Miglior film Migliore attrice non protagonista (Zoe Incrocci), Nomination Miglior regista (Francesca Archibugi) • Nastri d’argento 1991: Migliore attore protagonista (Marcello Mastroianni), Migliore attrice non protagonista (Zoe Incrocci), Nomination Migliore soggetto (Claudia Sbarigia, Gloria Malatesta e Francesca Archibugi), Nomination Migliore attrice non protagonista (Giovanna Ralli), Nomination Migliore attore non protagonista (Paolo Panelli) • Globo d’oro 1991: Migliore attore (Marcello Mastroianni) Curiosità: La vicenda si svolge ai Parioli, dove in effetti si trovano molte delle location. Non la villa del professor Bruschi, però, situata invece nel quartiere Aventino, in Via di Sant’Anselmo 14. L’edificio si trova proprio accanto all’abitazione di Giulia nel film Manuale d’Amore, di Giovanni Veronesi, con Silvio Muccino e Carlo Verdone (in questo film utilizzata come garage).


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Verso Sera, 1990


IL GRANDE COCOMERO REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi SCENOGRAFIA: Livia Borgognoni FOTOGRAFIA: Paolo Carnera MONTAGGIO: Roberto Missiroli MUSICHE: Roberto Gatto, Battista Lena INTERPRETI: Sergio Castellitto, Alessia Fugardi, Anna Galiena, Armando De Razza, Silvio Vannucci, Alessandra Panelli, Victor cavallo, Laura Betti, Lidia Broccolino, Gigi Reder.

PRODUZIONE: Fulvio Lucisano, Leo Pescarolo e Guido De Laurentiis PAESE DI PRODUZIONE: Italia, Francia DISTRIBUZIONE: Italian International Film - Skorpion Entertainment, L'Unità Video ANNO: 1993 DURATA: 102 minuti

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Valentina, soprannome “Pippi”, è una dodicenne che a seguito di un attacco di epilessia viene ricoverata nel reparto di neuropsichiatria infantile al Policlinico Umberto Primo di Roma. I genitori, Cinthya e Marcello Diotallevi, sono una coppia benestante ma priva di ideali che probabilmente rimane unita solo per la figlia. Il giovane psichiatra Arturo, convinto che si tratti di un caso più di natura psicologica che neurologica, accoglie la bambina nel suo reparto. Qui Pippi si rivela scontrosa, provocatoria e legata ai genitori da un rapporto difficile, cosa che induce Arturo a tentare di instaurare con lei una relazione analitica, per studiarne attentamente le reazioni e con l’obiettivo di riportarla alla normalità. Nell’ambiente famigliare Pippi non riesce a trovare sicurezza né affetto e viene abbandonata a se stessa, mentre il reparto ospedaliero è destinato a diventare la sua nuova casa. Nonostante le gravi carenze strutturali e organizzative del Policlinico, infatti, qui riuscirà a sviluppare degli interessi e a incontrare il vero affetto grazie ad Arturo, al quale gradualmente si aprirà con grande fiducia. Premi e riconoscimenti: • David di Donatello 1993: Miglior film (Francesca Archibugi), Miglior sceneggiatura (Francesca Archibugi), Migliore attore protagonista (Sergio Castellitto), Nomination Miglior

regista (Francesca Archibugi), Nomination Miglior produttore (Fulvio Lucisano, Leo Pescarolo e Guido De Laurentiis), Nomination Migliore attrice non protagonista (Alessia Fugardi), Nomination Miglior sonoro (Alessandro Zanon) • Nastri d’argento 1994: Miglior soggetto originale (Francesca Archibugi), Miglior sceneggiatura (Francesca Archibugi), Migliore produttore (Fulvio Lucisano, Leo Pescarolo e Guido De Laurentiis), Nomination Regista del miglior film (Francesca Archibugi), Nomination Migliore attore protagonista (Sergio Castellitto), Nomination Migliore attrice protagonista (Alessia Fugardi) • Globo d’oro 1993: Miglior attore (Sergio Castellitto) • Ciak d’oro 1993: Migliore attore protagonista (Sergio Castellitto), Migliore attrice non protagonista (Laura Betti) Curiosità: Il film è ambientato a Roma, per la maggior parte nel quartiere San Lorenzo. L’attrice Lidia Broccolino, che in questo film interpreta Laura, è stata nel 1983, cioè dieci anni prima, la protagonista di Una gita scolastica, di Pupi Avati, girato in gran parte nell’Appennino tosco-emiliano e in particolare nelle zone limitrofe a Porretta Terme (BO).


CON GLI OCCHI CHIUSI REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Federigo Tozzi (romanzo) SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi SCENOGRAFIA: Davide Bassan FOTOGRAFIA: Giuseppe Lanci MONTAGGIO: Roberto Perpignani MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Marco Messeri, Stefania Sandrelli, Debora Caprioglio, Alessia Fugardi, Gabriele Bocciarelli, Angela Molina, Fabio Modesti, Sergio Castellitto, Margarita Lozzano, Laura Betti, Nada, Raffaele Vannoli. PRODUZIONE: Fulvio Lucisano e Leo Pescarolo PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: I.I.F. (1995) – Skorpion Entertainment ANNO: 1994 DURATA: 111 minuti

Siamo agli inizi del 1910. Un padre contadino, Domenico Rosi, si è arricchito con una trattoria e con le proprietà di vigneti e bestiame che possiede nella splendida campagna senese. E’ volgare, violento, e tiranneggia sia la moglie sia i dipendenti: con lui i contadini devono solo ubbidire ed addirittura qualche massaia deve subire in silenzio le sue attenzioni. Riserva la stessa prepotenza al figlio Pietro, il quale è totalmente incompreso dal genitore, che gli rimprovera di non aiutarlo, di essere svogliato e lo considera un disadattato; è protetto solo dalla dolce madre Anna, che poi morirà a causa di un attacco improvviso. Pietro si innamora di una contadinella, Ghisola: il padre Domenico, intuito il pericolo, la caccerà dalla proprietà. Anni dopo Pietro e Ghisola si incontrano nuovamente, ma lei, nel frattempo, è diventata l’amante di un uomo sposato e fugge di nuovo. Ad una riunione di socialisti un conoscente rivela ad un Pietro affranto dove si trova la ragazza: in un bordello a Firenze. Qui giunto, il ragazzo amerà sempre Ghisola malgrado questa cruda realtà, la amerà “con gli occhi chiusi” appunto.

Premi e riconoscimenti: • Nastri d’Argento 1995: Migliore attore non protagonista (Marco Messeri), Nomination Regista del miglior film (Francesca Archibugi), Nomination Migliore attrice non protagonista (Alessia Fugardi), Nomination Migliore produttore (Fulvio Lucisano e Leo Pescarolo), Nomination Migliore scenografia (Davide Bassan), Nomination Migliori costumi (Paola Marchesin) • Globo d’Oro 1995: Nomination Miglior fotografia (Giuseppe Lanci) Curiosità: Il direttore delle fotografia Giuseppe (“Beppe”) Lanci è uno dei più grandi professionisti italiani in questo settore. Ha collaborato con registi del calibro di Nanni Moretti, i fratelli Taviani e Roberto Benigni (è sua la fotografia di Johnny Stecchino). Ha curato la fotografia di diverse pellicole di Marco Bellocchio fra le quali Enrico IV, girato al Castello della Rocchetta, sito in Riola di Vergato (BO). Relativamente alle location utilizzate dalla regista, è da ricordare la piazza nella quale Anna rivede il figlio Pietro: si tratta di Piazza Arnolfo di Cambio e si trova a Colle Val d’Elsa (SI).

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L’ALBERO DELLE PERE REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi SCENOGRAFIA: Mario Rossetti FOTOGRAFIA: Luca Bigazzi MONTAGGIO: Esmeralda Calabria MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Valeria Golino, Sergio Rubini, Stefano Dionisi, Niccolò Senni, Francesca Di Giovanni, Victor Cavallo, Chiara Noschese, Maria Consagra, Giuseppe Del Bono, Raffaella Lebboroni, Sergio Pierattini, Andrea Liu Junyo, Serena Scapagnini, Bruno Sclafani, Paolo Triestino, Corrado Invernizzi

PRODUZIONE: Leo Pescarolo e Guido De Laurentis per DANA Film, 3M Cinematografica, Istituto Luce, RAI Radiotelevisione Italiana, Teleplus PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: Istituto Luce, Buena Vista HV ANNO: 1998 DURATA: 90 minuti

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Siddharta è un quattordicenne che vive a Roma all’interno di una famiglia un po’ problematica: la madre, Silvia, è una fragile tossicodipendente e il padre, da cui è separata, un regista sperimentale. Siddharta ha anche una sorella, Domitilla, nata dalla relazione di Silvia con Roberto, un avvocato che lavora nello studio del padre e che rappresenta l’unica fonte di sostegno per la famiglia. Un pomeriggio, mentre Silvia non è in casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa con la quale involontariamente si punge. Siddharta se ne accorge e, per proteggere la madre, decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere i problematici adulti che gli stanno attorno. Al pronto soccorso e dallo specialista finge di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dello studio per non essere costretto a rivelare il nome della sorella. Quando però la verità verrà a galla, fra Silvia e i due padri, quello di Siddharta e quello di Domitilla, scoppierà uno scontro molto duro.

Premi e riconoscimenti: • Premio “Osella d’oro” 1998 per la Miglior fotografia (Luca Bigazzi) • Premio “Marcello Mastroianni” 1998 come Miglior attore emergente alla 55° Mostra del Cinema di Venezia (Niccolò Senni) Curiosità: La storia si svolge a Roma e romane sono le location utilizzate dalla regista. La casa nella quale vive Siddharta si trova nel quartiere Testaccio, in via Galvani 50. La scuola di Siddharta è in via di Ripetta ed è la sede dell’Istituto di Belle Arti. Il bar frequentato da Silvia è il Bar S. Calisto di Piazza San Calisto.


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L’Albero Delle Pere, 1998


DOMANI REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi SCENOGRAFIA: Sonia Peng, Mario Rossetti FOTOGRAFIA: Luca Bigazzi MONTAGGIO: Jacopo Quadri MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Ornella Muti, Valerio Mastrandrea, Ilaria Occhini, Marco Baliani, Umberto Ceriani, Massimo Coppola, Gisella Burinato, Niccolò Senni, Raffaele Vannoli

PRODUZIONE: Rai, Rai Cinefiction, Cinemello S.R.L. PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: Warner Bros ANNO: 2001 DURATA: 88 minuti

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Cacchiano Umbro è una vivace e ricca cittadina medievale, immersa nel verde e famosa per l’affresco del Beato Angelico. La normalità si sgretola tuttavia in pochi secondi, insieme ai muri delle case devastate da un forte terremoto. Non ci sono morti, ma il paese è raso al suolo e molto è andato perso. In un minuto e mezzo tutto cambia: le convenzioni di decenni non hanno più senso di esistere. La quotidianità svanisce e bisogna improvvisamente fare fronte alla calamità: la parola d’ordine è ricominciare, occorre reagire e adattarsi a una nuova vita che non conosce più classi e differenze sociali. La necessità di superare il trauma e la paura crea una nuova comunità intessuta di nuove amicizie, dove i rapporti si sviluppano rapidi e in maniera inaspettata. Con il proseguire delle scosse, la convivenza diventa però più difficile e non sempre si riesce ad avere la forza di ricostruire il sorriso e gli affetti. Due i punti di vista all’interno del film: quello dei più piccoli, con le due amiche del cuore Vale e Tina pronte a

confessarsi tutto, e quello degli adulti, con la famiglia Zerenghi costretta, malgrado l’estrazione borghese, a convivere in un container con gente di classe ben diversa. Sarà una nuova vita scandita da una nuova quotidianità, senza un tetto vero sotto cui vivere per un tempo non definito. Il tutto nella solita Italia delle facili tragedie, per le quali si sa tanto ben raccontare il dolore e tanto poco trovare soluzione: anche qui i protagonisti restano in attesa di una legge giusta che favorisca la ricostruzione. Curiosità: Presentato nella sezione Un Certain Regard al 54º Festival di Cannes. La storia originale riadattata da Francesca Archibugi prende spunto dai temi scritti dai ragazzi delle scuole medie di Nocera Umbra. Girato a Sellano, piccolo paese distrutto dal terremoto del 1997. Per preparare il film Francesca Archibugi ha effettuato interviste sul campo per circa due anni.


RENZO E LUCIA REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Alessandro Manzoni (romanzo) SCENEGGIATURA: Francesco Scardamaglia, Nicola Lusuardi

SCENOGRAFIA: Gianni Quaranta FOTOGRAFIA: Pasquale Mari MONTAGGIO: Esmeralda Calabria MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Stefano Scandaletti, Michela Macalli, Paolo Villaggio, Laura Morante, Laura Betti, Stefania Sandrelli, Stefano Dionisi, Gigio Alberti, Toni Bertorelli, Carlo Cecchi PRODUZIONE: Mediaset, Guido e Maurizio De Angelis PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 2004 DURATA: 200 minuti (miniserie)

La storia la conosciamo tutti o quasi, tant’è che il romanzo di Manzoni viene considerato come il più celebre della letteratura italiana; ma questa trasposizione di Francesca Archibugi è quasi apocrifa. Nella sua prima, e per ora unica, esperienza con la fiction televisiva, la regista decide di rileggere la celebre vicenda sottolineando l’umanità dei personaggi e restituendo a Lucia una volontà autonoma, non influenzata dalla Provvidenza manzoniana, oltre che la sua sensualità di giovane donna. Renzo e Lucia sono quindi due ragazzi moderni e normali che si baciano e fanno l’amore prima del matrimonio, ma la cui relazione è, come noto, minacciata dal fortuito incontro di Lucia con un signorotto locale. Nella serie della Archibugi Don Rodrigo, terzo incomodo e vero co-

protagonista dell’intreccio, è connotato da una forte umanità e da un conflitto interiore che ne fanno un cattivo spinto più dall’amore che non dall’odio. Preziose e ampiamente valorizzate le figure della monaca di Monza (Laura Morante), di Don Abbondio (Paolo Villaggio) e della badessa (Laura Betti), impersonate da tre grandi attori che reinventano e aggiungono spessore a personaggi altrimenti di contorno. Curiosità: Serie televisiva andata in onda su Canale 5 il 13 e il 14 gennaio 2004. Michela Macalli, scelta dalla Archibugi in un liceo lombardo, è qui al suo debutto. Laura Betti interpreta l’ultimo ruolo prima della sua scomparsa.

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LEZIONI DI VOLO REGIA: Francesca Archibugi SCENEGGIATURA: Doriana Leondeff, Francesca Archibugi

SCENOGRAFIA: Davide Bassan FOTOGRAFIA: Pasquale Mari MONTAGGIO: Jacopo Quadri MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Giovanna Mezzogiorno, Andrea Miglio Risi, Angel Tom Karumathy, Anna Galiena, Flavio Bucci, Roberto Citran, Angela Finocchiaro, Mariano Rigillo, Manuela Spartà, Sabina Vannucchi, Tom Angel Kharumaty, Maria Paiato, Riccardo Zinna, Douglas Henshall PRODUZIONE: Cattleya, Rai Cinema PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: 01 Distribution ANNO: 2006 DURATA: 106 minuti

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«A che età conviene morire? A quarant’anni?» «No, prima. A trenta già comincia a marcire la faccia.» Con tanta sfrontatezza in corpo data dall’età e dall’ingenuità di chi vede ancora tutta la strada davanti a sé, Pollo e Curry partono per il viaggio della loro vita. Così li chiamano tutti, Pollo e Curry, come due ingredienti fondamentali e indissolubili della cucina indiana che, uniti, si fondono esaltandosi a vicenda. Curry è davvero indiano, ma è stato adottato da una famiglia medioborghese italiana, come d’altronde Pollo, che però è ebreo. Siamo di fronte ai rappresentanti della nuova realtà multietnica delle nostre città, sempre più lontana dall’Italia che eravamo e più vicina al mondo che saremo. I due decidono di partire proprio per scoprire quel mondo, con il cuore aperto come solo a vent’anni si può avere: scoprire le radici di Curry nel dedalo indiano di strade, religioni, saggezza e povertà. La loro è quasi una fuga da una realtà che invece non li incuriosisce, e con un abile raggiro i due studenti riescono a fare leva sulla debolezza dei genitori e a ottenere il viaggio tanto agognato. Tutto per evitare ritorsioni al momento della bocciatura.

Ad attenderli c’è l’India urlante e colorata, il deserto del Thar magico e incontaminato, ma soprattutto c’è Chiara, giovane ginecologa che lavora per una Onlus. L’incontro con lei li aiuterà ad aprire gli occhi e a riconoscere quegli ideali che i genitori adottivi, ex-ribelli disillusi, non sono riusciti a far intravedere loro. Alla fine sapranno dunque trasformarsi, uscire dal bozzolo e imparare a volare. La ricerca della madre biologica di Curry li allontanerà dalle tratte comode e turistiche, aiutandoli a diventare finalmente se stessi e uomini adulti. Riconoscimenti: • David di Donatello 2007: Nomination Migliore attrice protagonista (Giovanna Mezzogiorno) • Nastri d’argento 2007: Nomination Migliore attrice protagonista (Giovanna Mezzogiorno), Nomination Miglior produttore (Marco Chimenz, Giovanni Stabilini e Riccardo Tozzi) Curiosità: Marco Miglio Risi (figlio del regista Marco) recita nel ruolo di Pollo.


Lezioni Di Volo, 2007 (Foto : Claudio Iannone)

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QUESTIONE DI CUORE REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Umberto Contarello SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi SCENOGRAFIA: Alessandro Vannucci FOTOGRAFIA: Fabio Zamarion MONTAGGIO: Patrizio Marone MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Antonio Albanese, Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Francesca Inaudi, Andrea Calligari. Nelsi Xhemalaj, Chiara Noschese, Paolo Villaggio, Francesca Antonelli, Daniele Luchetti, Stefania Sandrelli, Paolo Sorrentino, Carlo Verdone, Paolo Virzì

PRODUZIONE: Cattleya, Rai Cinema, Cinemello PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: 01 Distribution ANNO: 2009 DURATA: 102 minuti

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Le vite di Angelo e Alberto si incrociano all’improvviso, una notte, a causa di un attacco di cuore. Fino a quel momento quella di Alberto, sceneggiatore di successo dall’esistenza confusa e senza punti fermi, e quella Angelo, carrozziere e padre di famiglia, erano scorse parallele e distinte. In corsia e dopo, in riabilitazione, tra loro nasce un’amicizia, un legame di solidarietà. Angelo è un uomo del fare che si divide tra l’officina e la famiglia, che ha creato una solidità economica per sé e la moglie Rosanna; Alberto è un uomo del dire che sa leggere nella vita degli altri, sa indovinare i nomi dei figli dell’amico solo dall’età e dal contesto sociale, ma non sa leggere se stesso e le proprie incertezze. Grazie al nuovo amico si rifugia così in quello che non è mai riuscito a costruirsi: una realtà famigliare dove sentirsi a casa dove e trovare un po’ di sicurezza. Anche con l’universo sconosciuto dei figli di Angelo si trova a suo agio: con Perla, adolescente furiosa, e Airton, bambino impaurito che imparerà a guardare la realtà con occhi nuovi. Alla tramontata agiatezza di Alberto si contrappone la sfrontata determinazione di Angelo, che, partendo da una piccola attività di borgata, ha accumulato patrimoni e appartamenti. È la storia di due cuori deboli ma tanto generosi da essere pronti a rinunciare entrambi a qualcosa per sopperire alle reciproche debolezze; pronti a tutto, o quasi, pur di non deludere le reciproche speranze.

Questione di cuore si interroga sulla distanza tra scrittura e realtà, tra chi sa vivere la vita e chi la sa raccontare, e su quanto due mondi tanto diversi siano necessari l’uno all’altro. Riconoscimenti: • David di Donatello 2010: Nomination Migliore attore protagonista (Antonio Albanese), Nomination Miglior attore protagonista (Kim Rossi Stuart) • Nastri d’argento 2009: Nomination Regista del miglior film (Francesca Archibugi), Nomination Miglior produttore (Marco Chimenz, Giovanni Stabilini e Riccardo Tozzi), Nomination Migliore sceneggiatura (Francesca Archibugi), Nomination Migliore attore protagonista (Kim Rossi Stuart e Antonio Albanese), Nomination Migliore scenografia (Alessandro Vannucci) • Globo d’oro 2010: Nomination Miglior attore (Antonio Albanese), Nomination Miglior attrice (Micaela Ramazzotti) • Ciak d’oro 2010: Miglior attrice non protagonista (Micaela Ramazzotti) • Alabarda d’oro 2010: Miglior sceneggiatura (Francesca Archibugi) • Premio Bif&st: Premio Suso Cecchi D’Amico (Francesca Archibugi)


Questione Di Cuore, 2009 (Foto : Claudio Iannone)

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CuriositĂ : Nella parte di se stessi appaiono nel film Daniele Luchetti, Paolo Sorrentino, Carlo Verdone, Paolo VirzĂŹ e Stefania Sandrelli.


IL NOME DEL FIGLIO REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Alexandre de La Patellière, Matthieu Delaporte

SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi, Francesco Piccolo

SCENOGRAFIA: Alessandro Vannucci FOTOGRAFIA: Fabio Cianchetti MONTAGGIO: Esmeralda Calabria MUSICHE: Battista lena INTERPRETI: Alessandro Gassman, Micaela Ramazzotti, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo

PRODUZIONE: Indiana production Company, Motorino Amaranto e Lucky Red PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: Lucky Red ANNO: 2015 DURATA: 96 minuti

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Cena tra amici in una Roma medioborghese dove Paolo, con il suo disincantato e beffardo umorismo un po’ qualunquista, segna il distacco con l’ambiente che lo circonda, abitato dagli affetti più cari, impegnati e di sinistra. Lui e Simona, aspirante scrittrice di romanzetti erotici un po’ coatta ed esperta di gaffe, aspettano un figlio e il solo comunicarlo alla platea, ai futuri zii e all’amico di sempre Claudio, scatena il più classico dei litigi famigliari. La discussione parte da un’inezia come un nome non gradito e finisce per degenerare in un’analisi dei valori stessi della Repubblica: il punto è quanto un nome, una singola parola, rappresenti per noi, quanto siamo influenzati dai cliché della storia e quanto sia difficile comprendere chi è più legato all’apparenza e chi più attento alla sostanza. Se la parola sia dunque sostanza o se, al contrario, siano i valori a dare un nome alla realtà. Anche nell’amicizia e nei rapporti tra il gruppo di amici sarà presto chiaro come i legami siano meno scontati di quanto si possa pensare, e che al di là del percorso di ciascuno le affinità e le emozioni passano sopra alle barriere scontate dell’età e dell’appartenenza sociale. Tra le portate succulente di una normale serata conviviale, eventi inaspettati e situazioni tragicomiche lasceranno il posto a scottanti rivelazioni.

Curiosità: È l’adattamento della pièce Le Prénom, di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, dalla quale era già stato tratto il film francese Cena tra amici.


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Il nome del figlio, 2015


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Il nome del figlio, 2015



L’UNICO PAESE AL MONDO REGIA: Francesca Archibugi, Antonio Capuano, Marco Tullio Giordana, Daniele Lucchetti, Mario Martone, Carlo Mazzacurati, Nanni Moretti, Marco Risi, Stefano Rulli FOTOGRAFIA: Alessio Gelsini Torresi, Alessandro Pesci MONTAGGIO: Roberto Missiroli PRODUZIONE: Angelo Barbagallo, Nanni Moretti PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1994 DURATA: 18 minuti

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E’ un film collettivo realizzato da nove registi italiani, tra i quali anche Francesca Archibugi. La distribuzione nelle sale ha coinciso esattamente con l’avvento di Forza Italia, partito nato nel 1994. Il messaggio dominante è che l’Italia è l’unico paese al mondo dove a un magnate dei media come Silvio Berlusconi, proprietario di giornali, televisioni e sale cinematografiche, sia permesso candidarsi alla guida del Governo. Poco favorevole alla propaganda del Cavaliere, questo gruppo di cineasti decide di intervenire realizzando invece un cortometraggio composto da nove fulminanti episodi, tutti antiberlusconiani. La pellicola, che ha avuto una distribuzione molto limitata e solo a ridosso del periodo elettorale, fornisce pertanto una visione critica e pessimistica sul futuro dell’Italia in caso di vittoria della coalizione di centrodestra. L’episodio di Francesca Archibugi vede protagonisti alcuni bambini che giocano, ma uno non rispetta le regole e si dimostra arrogante al punto da considerare proprie anche le cose degli altri; verrà simpaticamente mandato a quel paese e lasciato solo.

Curiosità: Il film è stato girato in 25 giorni e prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti, uno dei nove registi che lo hanno realizzato.


RITRATTI D’AUTORE: MARCO BELLOCCHIO REGIA: Francesca Archibugi INTERPRETI: Francesca Archibugi, Marco Bellocchio. PROGRAMMA CURATO DA: Valentina Pascarelli PRODUZIONE: Cristiano Bortone per Orisa Films PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1996 DURATA: 15 minuti

Ritratti d’autore è un programma andato in onda su Telepiù 1 che si avvale della forma semplice ed efficace dell’intervista per analizzare gli aspetti della cinematografia italiana recente rispetto a quella già affermata. In ognuna delle quattordici puntate un grande regista incontra un veterano della regia e, intervistandolo, cerca di trarre qualche insegnamento dalla sua esperienza. Francesca Archibugi interroga Marco Bellocchio, regista in cui la maturità cinematografica ha di fatto coinciso con la maturità anagrafica. Lo fa scavando soprattutto nel suo modo di vivere il set, il rapporto con gli attori, con la troupe e con il pubblico. Bellocchio denuncia così in una sorta di confessione l’enorme fatica che gli costa dare forma visibile alle immagini interiori. «Il diavolo in corpo è stato il mio lavoro più faticoso» afferma, «ma anche Il gabbiano è stato piuttosto delirante, ho cercato di utilizzare una certa follia che circolava sul set, ma non è un buon modo di fare cinema!» Curiosità: A differenza di alcuni registi che hanno realizzato cortometraggi dall’aspetto quasi autoriale (per ambientare la crisi, Enzo Monteleone ha chiacchierato con Ettore Scola fra le rovine del Metro Drive In), Francesca Archibugi ha preferito non distrarsi dalla contemplazione dell’intervistato, producendo un solo primis-

simo piano di quindici minuti funzionale alla confessione “parapsicanalitica” di Marco Bellocchio.

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LA STRANA STORIA DI BANDA SONORA REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi FOTOGRAFIA: Chicca Ungaro MONTAGGIO: Esmeralda Calabria MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Giovanni Coscia, Marcello Di Leonardo, Battista Lena, Gabriele Mirabassi, Enzo Pietropaoli, Enrico Rava, Paolo Scatena. PRODUZIONE: RAI Cinemafiction Roma PAESE DI PRODUZIONE: Italia DISTRIBUZIONE: SACIS ANNO: 1997 DURATA: 60 minuti

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Chianciano, città normale e quieta, si offre in questo documentario come un magnifico scenario musicale. Il filo conduttore è inconfondibilmente la musica, strumento meraviglioso che permette a un eterogeneo gruppo di persone di comunicare in modo efficace, favorendo il confronto e la realizzazione di un progetto concreto. I musicisti coinvolti dimostrano una grande capacità di autoascolto, ma anche di reciproca interazione: il giovane chitarrista Battista Lena propone infatti alla banda di Chianciano Terme di abbandonare il proprio repertorio per un anno e di inserire nell’organico sei solisti jazz. Inizierà così uno stimolante addestramento, finalizzato alla messa in scena di un concerto a base di pezzi “para-jazz” composti dallo stesso Battista. Alternando bianco e nero e colore (il primo per le interviste, il secondo per le prove), Francesca Archibugi ha prodotto un appassionante e persuasivo documentario, e allo stesso tempo è riuscita a restituirci il senso e gli apprezzabili valori di un’esperienza collettiva. Premi e riconoscimenti: • Presentato nella sezione eventi speciali Immagini e Musica alla 54° Mostra di Venezia (1997), ha vinto il premio UNESCO

Curiosità: Battista Lena, compagno di Francesca Archibugi, è un musicista (chitarrista). Ha composto brani per banda per i film Ferie d’agosto e La bella vita, entrambi di Paolo Virzì.


GABBIANI. STUDIO SU IL GABBIANO DI ANTON TSCHECOV REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Andrea Agnello, Francesca Archibugi, Matteo Berdini, Devor De Pascalis, tratto dall’opera di Anton Chechov. Sceneggiatura: Andrea Agnello, Francesco Apice, Matteo Berdini, Devor De Pascalis, Francesco Lo Dico. FOTOGRAFIA: Fabio Amadei, Luca Ciuti, Luca Ranzato, Maximiliano Taricco, Ruth Torca, Agostino Vertucci. MONTAGGIO: Alessia Scarso, Maria Fantastica Valori (supervisore al montaggio Esmeralda Calabria). MUSICHE: Battista Lena, Roberto Gatto.

INTERPRETI: Enrica Ajò, Luigi Campi, Guglielmo Favilla, Matteo Febo, Riccardo Floris, Carolina Levi, Alessandro Lucente, Emanuela Mascherini, Laura Rovetti, Manuela Spartà. PRODUZIONE: Centro Sperimentale di Cinematografia – RAI Cinema

PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 2004 DURATA: 81 minuti

Si tratta di un film collettivo realizzato da Francesca Archibugi congiuntamente agli allievi del secondo anno del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Partendo dallo studio de Il gabbiano di Anton Tschecov, dramma in quattro atti scritto nel 1895, la regista ha condotto un laboratorio indirizzato all’adattamento del testo teatrale in opera cinematografica. Il lavoro si articola su più livelli comunicanti, che vanno dalle prove degli attori, finalizzate all’individuazione delle migliori modalità interpretative dei vari personaggi, fino alle vere e proprie scene recitate, anche con diverse improvvisazioni. Francesca Archibugi ha inoltre dichiarato il proprio amore per il drammaturgo russo scomparso nel 1904: «Ho scelto di utilizzare Tschecov perché, per me, non è uno scrittore ma una sostanza tipo il fosforo o il potassio: se la mia dieta ne è povera, ingiallisco. E così mi concimo almeno una volta all’anno. Il gabbiano in particolare mi sembrava straordinariamente consonante, attraverso i personaggi principali, artisti affermati e aspiranti artisti, alle domande che bisogna porsi quando si ha la smisurata presunzione di voler raccontare qualcosa a qualcuno». Premi e riconoscimenti: • Presentato a La Biennale di Venezia 2004: Corto Cortissimo – Fuori Concorso.

Curiosità: Con questo film Manuela Spartà ha esordito sul grande schermo. Nel 2007 sarà la giovane Monica, ragazza apparentemente sciocca ed innamorata di un uomo molto più grande di lei, nel film Lezioni di Volo, sempre di Francesca Archibugi. pag. 39


GIULIA HA PICCHIATO FILIPPO REGIA: Francesca Archibugi SOGGETTO: Francesca Archibugi SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi SCENOGRAFIA: Cristina del Zotto FOTOGRAFIA: Noelie Ungaro MONTAGGIO: Esmeralda Calabria MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Lucia Mascino, Ludovica Mezzanotte, Jacopo Comisso

PRODUZIONE: Carolina Popolani, Bernardette Carranza, Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 2012 DURATA: 24 minuti (documentario)

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Quasi un docu-film che, a partire dalle testimonianze delle donne vittime di violenza, descrive l’attività di Differenza donna, associazione Onlus che si occupa di aiutarle. I vari racconti vengono riportati e ricostruiti come se avessero un unico filo conduttore, mettendo così in risalto come i maltrattamenti non siano mai eventi isolati ma un percorso di sopraffazione continuo e progressivo. Le storie si intrecciano ai volti delle vittime, che ricordano l’incontro con i loro uomini, l’innamoramento e la scelta di sposarsi e avere dei figli. Il meccanismo sembra ogni volta ripetersi: a poco a poco i rapporti cambiano e subentrano i comportamenti aggressivi, dapprima saltuari ma destinati a diventare presto una sopraffazione sistematica fatta di minacce, ansia, paura e botte. Nelle fasi iniziali di questo processo le donne tendono spesso a colpevolizzarsi, più che a sentirsi vittime, ma il cambiamento nella coscienza comune intervenuto negli ultimi anni le aiuta a uscire dal terrore e a decidere di rivolgersi a un centro di sostegno. Siamo di fronte a donne soggiogate da carnefici che, anche per retaggio culturale, arrivano a giustificare le proprie brutalità e violenze. La storia di fantasia di Giulia e Filippo in una scuola materna romana ci dà un esempio di come un gesto, violento o sbagliato, possa non essere valutato con lo stesso metro se compiuto da un maschio o da una femmina: là dove i primi vengono giustificati,

infatti, le seconde vengono punite. A tre anni, Filippo è un bambino prepotente che picchia tutti, specie la piccola Giulia, per cui ha un debole, ma il finimondo scoppia proprio quando è la bambina a reagire. Al punto che sarà lei a dover chiedere scusa. Il padre stesso, che in un primo tempo la difende, finisce per essere convinto dalle maestre e dalla madre del ragazzo, quasi che l’aggressività di Filippo fosse giustificabile e la reazione di sua figlia fuori luogo. Curiosità: Il documentario è stato scritto e diretto da Francesca Archibugi per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne.


PAROLE POVERE REGIA: Francesca Archibugi SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi FOTOGRAFIA: Debora Vrizzi MONTAGGIO: Esmeralda Calabria MUSICHE: Battista Lena INTERPRETI: Pierluigi Cappello PRODUZIONE: Agherose e Tucker film PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 2014 DURATA: 60 minuti (documentario)

Parole povere è un documentario che narra la storia del poeta friulano Pierluigi Cappello, ragazzo come molti altri, animato da poco amore per le materie scientifiche, ma con il sogno di poter un giorno imparare a volare. A soli sedici anni un incidente motociclistico lo rende tetraplegico e lo costringe a due anni di degenza: quella che poteva essere una fine diventa però un nuovo inizio. In quei due anni Pierluigi si limita a fare l’unica cosa possibile: leggere. La passione per la letteratura gli permette di uscire dalla gabbia del letto, e in particolare la poesia, a cui decide di dedicare tutta la sua esistenza. Attraverso foto e ricordi ripercorriamo la vita del poeta, dal boato del terremoto del 1976 alla ricostruzione e alla vita di artista, dedicata, o forse sacrificata, alla poesia. Senza scadere in facili sentimentalismi, veniamo così accompagnati lungo le tappe della storia di un uomo: i sui affetti, la sua famiglia e il Friuli, terra ostica e ombrosa dove il protagonista è nato e tuttora vive. Ideato in occasione di un happening tra il quartetto jazz del musicista Battista Lena e Pierluigi Cappello, happening che rappresenta il filo conduttore della pellicola, Parole povere si propone come una riflessione sulla ricerca della bellezza raccontata attraverso la biografia di un uomo eccezionale e sfortunato.

Curiosità: Presentato al 31° Torino Film Festival. Il titolo del film è quello di una poesia del poeta friulano.

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ALVARO BIZZARRI, REGISTA MIGRANTE a cura di

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La Mostra internazionale del cinema libero è stato un importante festival cinematografico indipendente, organizzato a Porretta Terme tra il 1960 e il 1982 e noto a livello internazionale. Dal 1986 la Cineteca di Bologna, con la collaborazione della Mostra del cinema libero ONLUS, organizza ogni anno il festival di pellicole restaurate Il cinema ritrovato, particolarmente apprezzato. Durante la VI edizione della Mostra, tenutasi dal 2 al 9 ottobre 1971, venne proiettato per la prima volta in Italia il lavoro di un giovane documentarista emigrato in Svizzera: Alvaro Bizzarri. In questa occasione il regista presentò diversi film tra cui Il treno del sud e Lo stagionale, che riproponiamo oggi al pubblico, durante il Festival del Cinema di Porretta Terme. Alvaro Bizzarri nasce il 1 dicembre del 1934 a Pontepetri, frazione di San Marcello Pistoiese, in provincia di Pistoia. Nel 1955 emigra in Svizzera assieme ai genitori, in cerca di un impiego. Durante i primi anni lavora in fabbrica come saldatore. Le discriminazioni e le ingiustizie perpetrate ai danni degli italiani immigrati, all’inizio degli anni Settanta, lo spingono verso la cinepresa, utilizzata come strumento di denuncia, di lotta e di difesa dei diritti. Animato da questa volontà ma senza esperienza e senza mezzi, lascia la fabbrica e diventa commesso in un negozio di apparecchi fotografici, dove ha l’occasione di imparare i primi rudimenti del mestiere. Ogni fine settimana il proprietario gli presta una Super 8, con lo scopo di fargli acquisire una certa conoscenza della tecnica di ripresa e renderlo in grado di spiegarla ai clienti. Con quella cinepresa e il sostegno finanziario della Colonia Libera Italiana realizza il suo primo film: Il treno del sud. Successivamente collaborerà con la televisione svizzera (TSI e RTSR) e la televisione tedesca (ZDF), riscuotendo numerosi successi in Italia e all’estero. I film di Alvaro Bizzarri hanno squarciato un

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velo sulle condizioni di vita degli operai stagionali, che gli svizzeri all’epoca ignoravano e in un momento in cui - la Svizzera degli anni Settanta - esplodeva la xenofobia. Proiettati all’ epoca nelle associazioni di immigrati, diffusi da numerosi festival e trasmessi dalla televisione, i suoi film conservano tuttora la forza della testimonianza. Nel 2009 è uscito il DVD Accolti a braccia chiuse - Lavoratori immigrati in Svizzera negli anni 70 – Lo sguardo di Alvaro Bizzarri, contenente 5 film dell’autore. In quell’ occasione la 62° edizione del Festival di Locarno ha organizzato una proiezione speciale de Lo Stagionale e di diversi estratti della poesia visiva Pages de vie de l’ émigration. Filmografia : Il treno del sud, 1970, 56 minuti Lo stagionale, 1971, 50 minuti Il rovescio della medaglia, 1974, 55 minuti Pagine di vita dell’emigrazione, 1976, 54 minuti L’homme et le temps, 60 minuti L’autre suisse, 48 minuti Touchol (da solo), 1990, 58 minuti Asyl, 7 minuti Suisse, terre d’asile?, 47 minuti Droga-che fare?, 40 minuti Aids – una condanna mortale?, 38 minuti Sant’Anna – per non dimenticare!, 62 minuti


LO STAGIONALE REGIA: Alvaro Bizzarri INTERPRETI: Rolando Mion, Roberto Frisulli, Giacomo Paronitti e la famiglia Solimeo Hanno collaborato: Salvatore Calandra, Luciano Fiorentini, Jean Geiser, Paolo De Lucia, Gabriella Fiorentini, Salvatore Monteforte, Antonio Ascioni, Antonio Merola

PAESE DI PRODUZIONE: Svizzera ANNO: 1971 DURATA: 50 minuti

In seguito alla morte della moglie, Giuseppe deve prendere il suo bambino con sé in Svizzera, dove lavora come operaio stagionale. Lo statuto dello stagionale vieta al lavoratore di ricongiungersi con la famiglia, quindi il bimbo non può restare con il padre e gli viene negato il permesso di soggiorno. Il ragazzino è costretto quindi a vivere chiuso in casa, aspettando il ritorno del padre dal lavoro. Il giorno dell’espulsione Giuseppe organizza una manifestazione per denunciare la condizione dei clandestini.

Curiosità: Lo statuto svizzero dello stagionale vietava, oltre al ricongiungimento famigliare, anche di prendere in affitto una casa o di cambiare datore di lavoro. Lo Stagionale viene presentato alla VI Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme nel 1971. In sala sono presenti Elio Petri, Gian Maria Volontè e il noto giornalista de L’Unità Ugo Casiraghi. Dopo la visione del film Volontè disse a Bizzarri: «Il tuo film dovrebbe essere visto dal maggior numero possibile di persone, in modo da poter mostrare cos’è l’immigrazione. Gli italiani in Italia se ne fregano degli emigrati all’estero. Il tuo film dimostra che esiste, in Svizzera, un movimento operaio di protesta che rappresenta tutta l’emigrazione italiana all’estero. Mostra che ci sono delle persone che non hanno accettato passivamente l’emigrazione senza ribellarsi. C’è un movimento di rivolta che si dovrebbe far conoscere anche in Italia».

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IL FUTURO DEL CINEMA NEGLI OCCHI DELLO SPETTATORE di CLAUDIO STORANI

Per il terzo anno consecutivo Rete degli Spettatori condivide con Porretta Cinema, l’iniziativa Fuori dal giro dedicata al cinema italiano di qualità. Saranno quattro i film in gara accompagnati dai loro autori, pronti a sottoporsi al giudizio del pubblico in questa affascinantissima sfida che vede lo spettatore protagonista dell’evento. Eleonora Danco, Roan Johnson, Michele Alhaique e Leonardo Guerra Seràgnoli, registi di quattro dei film più interessanti della stagione in corso e inseriti nella lista della selezione 2015 di Rete degli spettatori, stilata da una prestigiosa giuria di critici, si confronteranno con il pubblico porrettano sulle scelte artistiche che hanno plasmato le loro opere. Noi di Rete degli Spettatori non potevamo non continuare a far parte del gioco. Crediamo infatti che il futuro del cinema sia oggi più che mai nelle mani e negli occhi dello spettatore

coordinatore Rete degli Spettatori

che con la sua curiosità, il suo stupore e la sua voglia di conoscere possa consentire a tutti i film, anche quelli più piccoli o più originali, di trovare spazio ed esprimere il proprio punto di vista. La sala cinematografica, come luogo dell’immaginario, diventerà sempre di più quello che gli spettatori attenti al prodotto di qualità vorranno farla diventare, una finestra sul mondo, un universo parallelo, un vettore della Storia e delle storie. Quindi benvenuta la rinnovata collaborazione con gli splendidi organizzatori del Porretta Cinema che, fin dalla prima edizione, valorizzano il ruolo dello spettatore e fanno della sala cinematografica il laboratorio dove sperimentare nuove forme di dialogo tra opera, autore e pubblico, per restituire alla nostra società, così in difficoltà di fronte alle sfide della contemporaneità, uno specchio in cui vedersi più bella e viva.

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LAST SUMMER REGIA: Leonardo Guerra Seràgnoli

Manganelli, Olivia Musini

SCENEGGIATURA: Leonardo Guerra

PRODUZIONE: Cinemaundici, Jean

Seràgnoli e Igort, con il contributo di Banana Yoshimoto SCENOGRAFIA E COSTUMI: Milena Canonero FOTOGRAFIA: Gianfilippo Corticelli MONTAGGIO: Monika Willi MUSICHE ORIGINALI: Asaf Sagiv

Vigo Italia, Essentia con Rai Cinema, prodotto da Elda Ferri Luigi Musini, in collaborazione con Milena Canonero, Paul Douek, Rony Douek, con il sostegno del MIBACT, con il contributo di Apulia Film Commission DISTRIBUZIONE: Bolero Film ANNO: 2014 DURATA: 94 minuti

INTERPRETI: Rinko Kikuchi, Yorick van Wageningen, Lucy Griffiths, Laura Sofia Bach, Daneil Ball e per la prima volta sugli schermi Ken Brady PRODUTTORI ESECUTIVI: Andrea

Una giovane donna giapponese ha quattro giorni per dire addio al figlio di sei anni, di cui ha perso la custodia, a bordo dello yacht della facoltosa famiglia occidentale dell’ex-marito. Sola con l’equipaggio, che ha il mandato di sorvegliarla a vista, la donna affronta la sfida di ritrovare un legame col bambino prima di doversene separare per molti anni.

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Note di regia “Quattordici anni fa, una donna, seduta sul divano di casa dei miei genitori, non riusciva a trattenere le lacrime. Era venuta a cena da noi insieme a degli amici di mia madre. Era una sconosciuta che piangeva apertamente davanti a degli estranei. Rimasi a guardarla dal bordo della stanza. Provava a raccontare con una voce esile che suo marito le stava portando via i figli. Questo ricordo, rimosso per molti anni, è poi riapparso fino a svilupparsi interiormente e trasformarsi nel soggetto di Last Summer. Con il film volevo indagare la possibilità dell’inizio di un rapporto nella sua fine; raccontare il travaglio di un riavvicinamento. La lotta di potere in cui lo squilibrio di determinate dinamiche sociali rende difficile mantenere intatta la propria identità. Un microcosmo inaccessibile che è luogo di isolamento e coercizione permeato da sentimenti di disorientamento e sconfitta. Una riconciliazione catartica tra il presente e il passato che permette di imparare a parlare con la propria voce, di imparare a essere di nuovo madre e figlio, per la prima e ultima volta. Un viaggio in cui quando tutte le difficoltà ingom-

branti lentamente scompaiono, la mente lascia spazio a sentimenti primari e, nel loro perdurare, alla speranza di cambiare il corso degli eventi futuri. La preparazione del film è stata un viaggio. Di distanze percorse fisicamente col desiderio d’inseguire una condivisione che potesse avvicinare gli interlocutori, che li facesse dialogare con una lingua comune. In questo itinerario che mi ha portato fino in Giappone da Banana Yoshimoto, della quale ho potuto osservare il rapporto dolce e materno nei confronti del figlio, che in Igort ha trovato un punto di svolta e coincidenza inaspettato con in suoi guizzi fuori dall’ordinario, passando alle serate con Milena Canonero nell’ufficio della produzione a discutere di ogni singolo dettaglio in un film per il quale i costumi erano una sfida legata all’essenziale e all’armonia, per poi arrivare a Vienna, vivendola in due stagioni e scoprendo in Monika Willi un centro propulsivo di ispirazione e supporto. In questo viaggiare, ho imparato molto più di quello che potessi immaginare e approfondito la storia che, insieme, avremmo raccontato. Ho compreso dal primo incontro con Luigi Musini e Elda Ferri che in loro avevo trovato qualcuno che mi dava fiducia e permetteva che io partissi, che cercassi, anche al costo di perdere un’identità. L’esplorazione ha portato all’arricchimento dei livelli interpretativi, ha dato spessori culturali misti al progetto. Avevo il desiderio di capire come oggi, mentre si assiste a uno sgretolamento delle identità nazionali sul web, si crei di pari


passo una necessità d’identità culturale maggiore e se questo fosse stato possibile metterlo in discussione subliminalmente, in una storia che sia su carta che nella sua creazione s’azzardasse, nella sua commistione, in favore di un centro emotivo universale. Come quando si viaggia e s’incontrano culture differenti e qualcosa in noi resta, poiché in fondo alcune parti sono comuni nonostante appaiano incomprensibili e lontane. E in questo andare, ho cercato di raccontare una storia, che si svolgesse in una

unità spazio-tempo, dove condurre lo spettatore, in mezzo al mare, in un non-luogo, lontano da tutto, dalla terra, dalla cronaca, dal pregiudizio: uno spazio in cui ognuno fosse libero di interpretare, di associare le proprie esperienze in un percorso narrativo che non cercasse spiegazioni, ma che vivesse solo del rapporto emotivo tra una madre e un figlio”. Leonardo Guerra Seràgnoli

INTERVISTA A LEONARDO GUERRA SERÀGNOLI a cura di

Cosa ci dici della genesi di Last Summer? Il film è inspirato da un ricordo personale: ho impressa nella mente l’immagine di una donna, a casa dei miei genitori, che piange per la sottrazione dei figli da parte del marito. Nel tempo è cresciuta in me la curiosità di capire come potesse comportarsi una madre nell’ultimo giorno in compagnia del figlio, sapendo che non l’avrebbe rivisto per molti anni. Volevo raccontare l’incontro tra una donna di cultura differente e una famiglia molto ricca, in un rapporto di potere asimmetrico, talmente sbilanciato dalla parte del padre che arriva persino a sottrarle il figlio. Una madre, posta in un conflitto di questo genere, avrebbe originato un dramma in grado di sviluppare problematiche sociali e esistenziali. Questi elementi si sono progressivamente trasformati nella storia che racconto in Last Summer. Il film vanta collaborazioni di alto livello. Rinko Kikuchi, già candidata agli Oscar, gli sceneggiatori, Milena Canonero ai costumi, Monika Willi al montaggio. Com’è stato lavorare all’esordio con una squadra così? Il progetto ha avuto uno sviluppo “a catena”, spesso imprevedibile: all’inizio non avevo nemmeno immaginato di lavorare con queste persone. Tutto parte dalla sceneggiatura che ho scritto pensando a Rinko Kikuchi, conosciuta in pre-

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cedenza e che mi aveva molto impressionato. In particolare mi aveva colpito il trasferimento dal Giappone agli Stati Uniti, la decisione di abbandonare la propria terra per tentare un’avventura occidentale. Da Rinko ho avuto lo stimolo decisivo per raccontare una storia che, nel 2010, non aveva ancora un volto su cui svilupparsi. Nella scelta hanno influito i miei legami personali con il Giappone ma, soprattutto, il fatto che lei mi fosse piaciuta come persona. L’empatia, per quanto mi riguarda, è un elemento fondamentale in ogni collaborazione. In seguito è venuto fuori il nome di Banana Yoshimoto come collaboratrice alla sceneggiatura. La produzione ha contattato il manager della scrittrice che è stato possibilista. Nella lettera che le ho scritto, fra le note, ho sottolineato che la sceneggiatura è stata scritta pensando a Rinko, la quale, coincidenza, ho scoperto essere sua amica. In modo altrettanto casuale sono nate le successive collaborazioni: Elda Ferri, uno dei produttori del film, aveva già lavorato con Milena Canonero, me l’ha presentata, a lei è piaciuta la storia e ha deciso di collaborare. Per quanto riguarda Monika Willi ho insistito io perché, al termine delle riprese, volevo qualcuno che lavorasse sul film in modo non sentimentale. I film di Haneke, che ammiro molto, mi facevano pensare che sarebbe potuta essere la persona ideale. Ci siamo visti, il girato le è piaciuto, ha proposto di incontrarci per una

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decina giorni, così da verificare la reciproca affinità artistica perché, di solito, lei lavora sempre con gli stessi registi. La prova è andata bene e, alla fine, il montaggio è opera sua. Per quanto riguarda la sceneggiatura, con Banana Yoshimoto ci siamo concentrati sull’affinare il personaggio di Naomi, la protagonista. Per me era importante lavorare sulla verosimiglianza dei comportamenti di una donna giapponese che, da solo, al di là delle mie frequentazioni, avrei rischiato di stereotipare. Elda Ferri mi aveva poi suggerito di trovare qualcuno che potesse rileggere la sceneggiatura al termine del lavoro sulla protagonista. E Igort, fumettista che in Giappone ha pubblicato vari libri, ha avuto un ruolo più di co-sceneggiatore, entrando nella costruzione di alcune scene e mettendo in discussione lo script in maniera professionale e costruttiva. Il suo talento di fumettista mi ha aiutato soprattutto a tagliare, così da raggiungere l’essenzialità del racconto. Come sta andando la vita distributiva di Last Summer?

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Il film, nonostante i nomi e le collaborazioni prestigiose, è stato da subito considerato difficile. Bolero, la distribuzione, ha tentato di lanciare il film in occasione del Festival di Roma, con l’obiettivo di uscire la settimana successiva. Per alcune concomitanze la pellicola è slittata di altri sette giorni, in un momento già affollato di titoli in uscita. In sala poi è andata come va solitamente per molti film pensati al di fuori della logica commerciale. Se il film non guadagna nel primo week end viene, prima, spostato in orari improponibili, poi definitivamente tolto dalla programmazione. Last Summer ha “resistito” circa dieci giorni. Non vorrei però si dimenticasse che, di questi tempi, il fatto stesso di aver raggiunto il cinema è già un successo. Certamente, viste le critiche positive e la reazione del pubblico, ci si poteva aspettare un po’ più di affluenza. Probabilmente il nostro lavoro avrebbe avuto bisogno di una promozione più graduale, maggiormente basata sul “door-to-door”, sui social network. Il gradimento di chi ha visto Last Summer in sala dimostra che potrebbe esistere un pubblico, sensibile e bendisposto, nei confronti di film di nicchia, considerati difficili. D’altra parte gli esercenti fanno il loro lavoro e, come qualsiasi azienda, devono guadagnare. Ritengo che la questione della distribuzione in Italia sia più complessa e abbia a che fare con un problema annoso di po-

litica culturale. Iniziative come quella di Rete degli Spettatori sono estremamente importanti, ce ne vorrebbero di più e dovrebbero essere più sostenute. La stampa, presentando il film, ha ipotizzato una tua trilogia del distacco. Confermi? Ci dai qualche anticipazione sui successivi capitoli? Lavorando con Rinko ho avuto la sensazione di voler fare altri film con lei. Per questo ho pensato a due storie che si legano, tematicamente, a Last Summer e che avrebbero ancora lei come protagonista. Al momento però sono ancora nella fase di valutazione dei progetti che ho in mente, da scegliere tenendo conto delle possibilità concrete che si profilano: tra le ipotesi c’è l’idea di lavorare su una storia familiare con attori italiani, sempre piuttosto astratta, ma con una forte caratterizzazione nazionale. Sto verificando, inoltre, la possibilità di collaborare con una produzione francese e una portoghese ad un progetto più sociale. Il mio orizzonte rimane, nonostante tutto, un cinema in grado di affrontare temi a me cari, senza l’ossessione del successo commerciale. Da qui la necessità di muovermi in modo trasversale, di avere più di una storia su cui puntare. L’arco temporale del prossimo film è il 2016.


N-CAPACE REGIA SOGGETTO ED INTERPRETE: Eleonora Danco PRODUZIONE: Angelo Barbagallo FOTOGRAFIA: Daria D'Antonio MONTAGGIO: Desideria Rayner con collaborazione di Maria Fantastica Valmori MUSICHE: Markus Acher PRODUZIONE: Bibi Film in collaborazione con RAI Cinema, con il contributo del MIBACT e con il sostegno di Regione Lazio, Fondo regionale per il Cinema e l'Audiovisivo ANNO: 2014 DURATA: 80 minuti

Una donna: anima in pena, si aggira tra Roma e Terracina, dove vive l’anziano padre. Vaga tra campagne, mare e città, con un letto e in pigiama. Spesso con un piccone in mano, vorrebbe distruggere la nuova architettura che ha tradito i suoi ricordi. Il rapporto con il tempo e la memoria è motivo di struggimento per lei, unico personaggio lucido del film, il più sofferente. Comunica solo con adolescenti e anziani, compreso suo padre, li interroga sull’infanzia, la morte, il sesso, attraverso delle provocazioni, degli stimoli anche fisici. Il corpo e i luoghi diventano sogni, incubi, ricordi. Un’intimità tanto personale quanto universale. Note di regia “Pezzi di vento. Per le immagini del film mi sono ispirata alla pittura di De Chirico, Giotto, e al cinema di Buñuel, al Surrealismo.

Il rapporto con le immagini è stato una forte motivazione. Non ho mai pensato di fare delle interviste, ma delle performance. Delle installazioni fisiche per arrivare alla memoria. Lo strato intimo. Le immagini sono l’inconscio dei personaggi e della realtà che sto trattando. L’impatto materico tra corpo e natura. Che in questo film è un elemento determinante. La musica è un altro elemento molto importante del mio lavoro. L’andamento inconscio delle atmosfere. Per questo la scelta di utilizzare l’elettronica del maestro Markus Acher, che ha aderito subito allo spirito del progetto e con le sue composizioni ha saputo rendere ed esaltare la tensione e l’emozione che cercavo. Il legame tra Terracina e Roma è tra l’infanzia e la vita adulta. La stessa dimensione che avevo nell’adolescenza. Era questo il limite che volevo trattare”. Eleonora Danco

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INTERVISTA A ELEONORA DANCO a cura di

Come nasce l’idea di N-Capace?

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Le idee non nascono, ti arrivano. Io la penso così. N-Capace scaturisce dalla morte di mia madre, avvenuta dieci anni fa. Il primo embrione del progetto è consistito nel mettere a confronto mio padre e la badante, rimasti a vivere insieme. Il metodo utilizzato si è evoluto ed è stato sviluppato nel film, mantenendosi fedele all’incontro fra forma, materia e immagine. Il filo conduttore risiede nella volontà di tirare fuori qualcosa di intimo e profondo, attraverso quelle che io chiamo “installazioni cinematografiche”. A tale proposito, ci tengo a rilevarlo, quelle del film non sono interviste, ma vere e proprie performances, realizzate dai personaggi. I miei lavori hanno sempre mantenuto un sostanziale carattere d’indipendenza. Lavoro per i principali teatri stabili e privati del panorama nazionale, scrivendo spesso su commissione e, al cinema, ho mantenuto lo stesso approccio del teatro, sia pure in presenza di un impatto materico e corporeo diverso. Lo scopo della mia arte consiste nel far sì che le cose arrivino alle persone fino a commuoverle, o a disturbarle e a spiazzarle. Poco tempo fa, a Napoli, alcuni giovani registi si chiedevano come fosse stato possibile il sostegno del MIBAC ad un film “d’avanguardia”, come loro lo hanno definito, rilevando come Ncapace rappresenti una speranza di futuro per chiunque voglia tentare, in Italia, progetti più coraggiosi del solito. Personalmente non sono fra quelli che predicano la protezione e il sostegno dell’arte tout court da parte delle istituzioni. Al contrario, l’artista deve essere perennemente esposto al rischio di fallimento, è bene che lotti per potersi esprimere. Le istituzioni dovrebbero, comunque, assumersi la responsabilità di sostenere e rilanciare la sperimentazione, fondamento dell’evoluzione del linguaggio. Al TFF il film ha ricevuto due menzioni, una a te come regista e una ai tuoi attori, anziani e ra-

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gazzi, rigorosamente non professionisti. Come li hai scelti? Ho fatto lunghi provini e li ho scelti attraverso il mio stile. Ero disinteressata alla loro esistenza, non volevo narrare la vita di nessuno. Ho coinvolto così tante persone che, con il materiale disponibile, potrei fare altri due film. Il girato è stato montato due volte, con una sceneggiatura che ho tradito per poi ritrovarla nell’essenza del ritmo. Il lavoro era ultimato nel luglio scorso, ma la prima versione non riusciva a emozionarmi. In agosto ho ripreso in mano tutte le trentacinque ore e, grazie all’intervento artistico di Marco Tecce, ho ribaltato completamente l’opera, rimontandola da zero. È stato un rischio ma in quattordici giorni abbiamo fatto il mio film, quello che io volevo. N-capace, al momento, non ha una vera e propria distribuzione. Sarà proiettato al Sacher, all’Anteo di Milano, presso la Cineteca a Bologna, ovviamente a Porretta Terme. Come proseguirà la vita del film? Barbagallo ha tentato di trovare un distributore, per ora senza riuscirci. Del resto, non è facile trovare qualcuno che scommetta su un progetto nato così, work in progress. Le distribuzioni, spesso, hanno già un listino di titoli da promuovere, stabiliti all’inizio della produzione. Angelo, molto motivato dalla volontà di Moretti di ospitare il film al Sacher, ha deciso di seguire direttamente le prime uscite all’Anteo e, grazie all’Anac, in varie città per un giorno. Lunedì 19 Marzo è stato alla Cineteca di Bologna, dove ho coinvolto gli amici di Gender Bender, conosciuti grazie ai miei lavori teatrali. Del resto, adoro Bologna, le sono legata per questioni di vita e di bellezza, sono stata felice di questa prima, anche se lontana da Roma. Tu sei un’attrice, autrice, regista di teatro prestata al cinema. Cosa ti è piaciuto di questa nuova esperienza?


La libertà sul set, la paura e la concentrazione totale che sono riuscita a mantenere. I segreti che tenevo dentro e che mi hanno guidato in quello che stavo facendo. La costante sensazione di rischio, legata alle otto ore quotidiane di lavoro che ti costringono a esprimere tutta la creatività e la forza che hai. Ero un killer a spasso per il set, mi sono sentita come se facessi sega a scuola. Sul set ho avuto di nuovo sedici anni. In verità, a volte ho bleffato, improvvisando perché non avevo sempre tutto chiaro: mi ha salvato il mio senso ipercritico, rigoroso e folle. Ecco, se morissi oggi, direi che, per qualche attimo, ho volato. Bellissimo. Hai già detto di essere una spettatrice disattenta, però ci saranno dei lavori e degli autori che ti hanno influenzato. Hai già parlato di Buñuel e De Chirico. Nel film forse c’è anche un po’ il Pasolini di Comizi d’amore. No? Più che disattenta, riconosco le cose affascinanti, quelle non mi spaventano mai, però se si esagera con gli aspetti concettuali, la testa va altrove. No, Pasolini non c’entra niente, certo è un poeta, una nuvola inarrivabile. Le nuvole non le puoi imitare, stanno lì, continuano a esserci e a modificarsi, senza mai essere raggiunte. Il mio lavoro non c’entra nulla con l’inchiesta, si regge su un personaggio che si domanda: che cos’è vivere? Come adeguarsi? Malgrado

questi dubbi, Anima in pena è consapevole dell’importanza insita nell’assunzione di responsabilità, dalle quali, a livello umano e affettivo, si distanzia e avvicina continuamente. Questa impostazione deriva dalla tecnica teatrale che utilizzo nei seminari, dove lavoro sul trauma. La mia abilità consiste nel captare delle sensazioni, attitudine che ho sviluppato durante l’infanzia e l’adolescenza, probabilmente per evitare la pazzia. Nel tempo ho sviluppato uno spirito di osservazione duro, spietato, quasi senza limiti, soprattutto nei confronti di me stessa, che mi conferisce la capacità di cogliere aspetti a prima vista nascosti. Cerco di stimolare le persone a tirare fuori se stesse senza paura perché sono proprio gli aspetti più difettosi che ci avvicinano davvero agli altri. L’arte serve a comprendere che non esistono sensi di colpa, siamo questo, e il Bene, il Male e tutto il resto sono sovrastrutture dell’educazione. Siamo tutti sbagliati e non sbagliati, da cui il titolo, capace e non capace. Pasolini, nei Comizi d’amore, conduceva un’indagine. Io le persone le ho usate, facendole diventare delle installazioni.

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FINO A QUI TUTTO BENE REGIA: Roan Johnson

PRODUTTORE: Roan Johnson in

SCENEGGIATURA: Ottavia Madeddu, Roan Johnson

SCENOGRAFIA E COSTUMI: Rincen Caravacci

FOTOGRAFIA: Davide Manca MONTAGGIO: Paolo Landolfi, Davide

collaborazione con gli autori, gli attori e la troupe; produttori esecutivi Roan Johnson, Serena Alfieri, Fulvia D'Ottavi DISTRIBUZIONE: Microcinema ANNO: 2014 DURATA: 80 minuti

Vizzini

MUSICHE ORIGINALI: I Gatti Mézzi INTERPRETI: Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D'Amico,Guglielmo Favilla, Melissa Anna Bartolini, e con l'amichevole partecipazione di Isabella Ragonese

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L’ultimo weekend di cinque ragazzi che hanno studiato e vissuto nella stessa casa, dove si sono consumati sughi scaduti e paste col nulla, lunghi scazzi e brevi amplessi, nottate sui libri e feste all’alba, invidie, gioie, spumanti, amori e dolori. Ma adesso quel tempo di vita così acerbo, divertente e protetto, sta per finire e dovranno assumersi le loro responsabilità. Prenderanno direzioni diverse, andando incontro a scelte che cambiano tutto. Chi rimanendo nella propria città, chi partendo per lavorare all’estero. Il racconto degli ultimi tre giorni di cinque amici che hanno condiviso il momento forse più bello della loro vita, di sicuro quello che non scorderanno mai. Note di regia “Nel 2013, l’Università di Pisa mi chiede di fare un documentario e mi sorprendo ad ascoltare ragazzi che, anziché lamentarsi per la crisi, hanno un atteggiamento di sfida. Di rilanciare, piuttosto che arrendersi. Per questo, quando ci è venuta l’idea per raccontare la fine di quel periodo, anziché seguire il classico percorso che ci avrebbe portato

a sentirci dire che avremmo dovuto aspettare, che i soldi erano finiti, che avremmo dovuto scendere a compromessi produttivi, abbiamo deciso di fare da soli, di non arrenderci, di puntare in alto. Questo film sull’amicizia è stato fatto grazie agli amici, alcuni professionisti del settore, altri semplicemente amici. L’organizzatore era il proprietario di una libreria, il data manager uno stagista del Il Tirreno, la segretaria di edizione era la sceneggiatrice e mia compagna, incinta di cinque mesi. Avevamo un solo macchinista/elettricista, una sola costumista/ scenografa. Con questa “armata brancaleone” siamo stati liberi di fare un film che ci apparteneva. Gli attori dormivano nella casa in cui stavamo girando così da essere davvero coinquilini. Questo clima ci ha fatto diventare i personaggi del film: gli attori indossavano i loro veri vestiti, le stanze erano le loro, e quando abbiamo dovuto lasciare quella casa, avevamo tutti davvero un groppo in gola”. Roan Johnson


INTERVISTA A ROAN JOHNSON a cura di

Da dove sei partito per girare Fino a qui tutto bene? L’Università di Pisa ci aveva commissionato un documentario, con tutte le difficoltà del caso. Girare un documentario sull’Università è come scegliere Roma per fare un film: l’indicazione è troppo vaga. Occorre individuare un punto di vista, un personaggio e un tema. Abbiamo realizzato il primo step, costituito da interviste a studenti e professori, scegliendo solo in fase successiva di focalizzarci sugli studenti. Dal girato emergevano aneddoti buffi, a tratti esilaranti, ma anche commoventi che spesso evocavano la volontà di non arrendersi. Era diffusa la percezione di attraversare una terra di mezzo, nel momento peggiore della storia, armati solamente della disperata volontà di assecondare, malgrado tutto, le proprie aspirazioni personali. Questa atmosfera è entrata nel film come una sorta di eredità. Nella scrittura abbiamo pescato dalle esperienze più significative, tentando di realizzare un’opera corale. Il film è frutto di un esperimento produttivo inedito. Pensi che il vostro modello potrebbe essere imitato da altri? Il film è stato realizzato con alcuni contributi standard, ha avuto il supporto dell’Università, della Toscana Film Commission e, in piccola parte, del Comune di Pisa. Abbiamo, infine, potuto contare sul Tax credit esterno, ma il denaro non bastava. Abbiamo quindi optato per la compartecipazione, contribuendo con il valore del lavoro di ognuno di noi che verrà ripagato, speriamo, dagli eventuali utili della pellicola. Le limitate dimensioni della troupe, coesa e costituita da amici, professionisti e neolaureati, sono state determinanti nella riuscita dell’impresa. In questo modo qualsiasi professionista di cinema, attore, direttore della fotografia o regista che sia, può avere l’occasione e la voglia di fare un film veramente indipendente, raggiungendo livelli di originalità e libertà impossibili per una distribuzione tradizionale. Certo,

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ti assumi il rischio, molto concreto, di lavorare gratis, rinunciando alla remunerazione che ogni attività lavorativa dovrebbe prevedere. Il cinema purtroppo è un’industria che richiede una serie di spese da coprire, quindi i limiti che rendono accettabile un lavoro come il nostro sono labili. Di sicuro la compartecipazione è possibile soltanto quando l’idea produttiva è adeguata al progetto artistico. Raccontare in questo modo storie che implicano budget e sforzi produttivi importanti sarebbe un errore immenso. Tu nel film racconti una storia nella quale si possono identificare in molti. Ma davvero in Italia non ci sono produttori disposti ad investire su un progetto che, potenzialmente, può raggiungere un pubblico vasto? Io, il produttore, non l’ho nemmeno cercato. Probabilmente, qualcuno disposto a scommettere sulla storia l’avrei trovato, ma ciò avrebbe allungato i tempi e normalizzato l’idea originale. Mi sono fidato di una percezione molto netta: Fino a qui tutto bene sarebbe stato realizzato in quell’agosto o mai più. E in effetti avevo visto giusto perchè, poco dopo, sono diventato padre, con tutto il carico di responsabilità che questa condizione implica, e l’estate successiva ho girato due puntate per SKY de I delitti del Barlume e questo impegno avrebbe reso impossibile il film. Rispetto al sistema produttivo italiano, credo di poter dire che convivano eccellenze e limiti evidenti, di cui il principale è rappresentato dal passaggio obbligato attraverso due tappe imprescindibili: il Ministero e Rai Cinema. Fuori di lì, il deserto: Medusa ha smesso di produrre, SKY, forse, inizierà e questo sarebbe importante. La stasi, in ogni caso, non riesce a cancellare i numerosi casi positivi che, con pochissimi mezzi, riescono a fare miracoli e ad ottenere importanti riconoscimenti. A fare la differenza sono le singole personalità che ce la fanno, arrabattandosi all’italiana, nelle difficoltà quotidiane.

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Dopo l’anteprima al Festival del Cinema di Roma, il film uscirà a marzo nelle sale: la critica lo ha accolto benissimo, accostandolo a Ecce Bombo di Moretti. Ci sono i presupposti per un buon successo di pubblico. Che tipo di campagna di comunicazione farete?

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Noi ci stiamo muovendo da tempo perché, contrariamente a quanto avviene di solito, Fino a qui tutto bene ha ricevuto un paio di proposte prima del Festival, tra cui quella di Microcinema che distribuirà la pellicola. Questa società di distribuzione ha una peculiarità sorprendente per lo standard italiano: il capo e i suoi collaboratori hanno la mia età e, in alcuni casi, anche meno. Questa caratteristica ha generato fra noi una spiccata affinità di vedute. Non ci sono, ovviamente, i mezzi e le forze della Warner o della Universal, però ci crediamo molto, galvanizzati dall’accoglienza, dall’entusiasmo del pubblico e dal premio ottenuto a Roma. Le venti/trenta copie iniziali sono già diventate un’ottantina che, per un piccolo film, sono un’enormità. L’opera è già stata presentata all’Università, iniziando, ovviamente, dall’Ateneo pisano, dove ci ha fatto compagnia Paolo Virzì, testimonial d’eccezione, già mio docente al Centro nazionale di cinematografia. Le prossime tappe saranno l’Università di Firenze, la Federico II di Napoli e la Sapienza. E’ un modo per incontrare il pubblico vero di Fino a qui tutto bene, immaginato perché chi ha vissuto

l’atmosfera magica del periodo universitario ci si riconosca. Credo che ognuno di noi ricordi quel momento della vita come una fase in cui ha compiuto cavolate memorabili, sicuramente sbagliando e imparando molto, una palestra di esperienze che rimane importante negli anni a venire. L’appartamento è un pretesto per raccontare l’Italia: Francesca viene dal nord, un ragazzo è siciliano e Ilaria è laziale. D’altra parte le case degli studenti fuori sede sono laboratori dove si incontrano culture e modi di vivere molto diversi, a seconda della provenienza. Il prossimo lavoro sarà ambientato a Roma, con una dose massiccia di territorialità, mentre Fino a qui tutto bene tenta di offrire uno spaccato, sia pure composito, della nazione. A livello personale, non posso certo negare qualche debito con la migliore commedia all’italiana: Monicelli, Germi e Scola. L’ironia è, probabilmente, una delle armi migliori di cui dispongo, abbondantemente utilizzata nella lavorazione del film. In ogni caso, Fino a qui tutto bene non segue un modello preciso. Nella scrittura abbiamo scelto personaggi ispirati dalle storie reali, avendo come unico riferimento il nostro gusto e il divertimento. Gli accostamenti, Ecce Bombo, L’appartamento spagnolo, perfino I vitelloni, ci hanno fatto piacere, ma sono successivi.


SENZA NESSUNA PIETA’ REGIA: Michele Alhaique SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Andrea Garello, Michele Alhaique, Andrea Garello, Emanuele Scaringi SCENOGRAFIA: Sonia Peng FOTOGRAFIA: Ivan Casalgrandi MONTAGGIO: Tommaso Gallone MUSICHE ORIGINALI: Luca Novelli, Pierre Alexander “Yuksek” Busson

PRODUZIONE: Maurizio Piazza, Alexandra Rossi, Pierfrancesco Favino, produttore associato Graziella Bonacchi, una produzione Lungta Film, PKO con Rai Cinema in associazione con Bnl – Gruppo Bnp Paribas DISTRIBUZIONE: BIM ANNO: 2014 DURATA: 92 minuti

INTERPRETI: Pierfrancesco Favino, Greta Scarano, Claudio Gioe', Renato Marchetti, Iris Peynado, Adriano Giannini, Ninetto Davoli, Samantha Fantauzzi, Francesco Petrazzi, Edoardo Sala

A Mimmo piace molto di più costruire case che rompere ossa. Vorrebbe fare solo il muratore, ma gli tocca anche fare recupero crediti tra i palazzoni dei quartieri alla periferia di Roma. Lavora per suo zio, il signor Santili, che ama e rispetta come un padre. Non sopporta invece Manuel, suo cugino, viziato ed arrogante. E l’avversione è reciproca. Il Roscio, che sarebbe il suo migliore amico, se fosse davvero amico di qualcuno, e la mezza dozzina di dipendenti della ditta completano la famiglia. È un mondo con regole e gerarchie chiare, dove chi non sbaglia ha la pagnotta assicurata e qualche extra. Giusto o sbagliato, è l’unico mondo che Mimmo abbia mai conosciuto. Tutto cambia quando nella sua vita irrompe Tania. È bellissima, giovane e ha capito che nella vita deve arrangiarsi da sola. Sa che gli uomini sono pronti a spendere per averla e ne approfitta. Costretti da un imprevisto a passare una notte e un giorno insieme, Mimmo e Tania si ritroveranno uniti dal bisogno di sentirsi amati e dalla voglia di fuggire a un destino già segnato. Note di Regia “Mi hanno sempre appassionato le storie di uomini che si battono contro le avversità per riscattarsi dalla loro condizione. Mimmo è un lavoratore silenzioso, instancabile. Fa quello che ha sempre voluto fare, il muratore, è un uomo forte, imponente, potrebbe far paura a chi non lo conosce. Osserva il mondo che lo circonda con gli occhi curiosi di un

bambino senza prendere realmente parte alla quotidianità, la guarda come se non vi appartenesse, senza giudicarla. Tania è la svolta che travolgerà la sua esistenza, la spinta per Mimmo a svegliarsi dal torpore di un’esistenza immobile, per scoprire che c’è altro per cui vale la pena vivere. Sono due individui solitari, due spiriti sconosciuti tra loro e a loro stessi, ma dal loro incontro nasce qualcosa di unico. Il loro legame fuori dall’ordinario si svolge in una classica struttura noir, dove chi cerca non dà tregua a chi scappa. La metropoli buia e sporca avvolge i protagonisti nel suo alone polveroso, i palazzi di periferia sono i loro rifugi, i protagonisti lasciano le loro tracce sull’asfalto grigio e consunto. Ho lavorato alla sceneggiatura (con Andrea Garello e Emanuele Scaringi) per portare i personaggi ad avere un respiro ampio, con l’obiettivo di dare alla vicenda toni epici. Così come avevo fatto precedentemente con il mio cortometraggio Il torneo, dove i protagonisti erano dei ragazzi di tredici anni, ho dedicato ogni mio sforzo per permettere agli attori la completa libertà di espressione nei movimenti. Per questa ragione ho utilizzato la macchina a mano, costantemente al loro servizio. Fin dalle prime fasi della scrittura ho pensato a Pierfrancesco Favino per il ruolo di Mimmo. Avevo bisogno di un attore che non solo lo interpretasse, ma che avesse il coraggio di abbandonarsi al personaggio con la mente e col corpo. Il lavoro fatto insieme a Ivan Casalgrandi (direttore della fotografia e operatore), sempre attento a

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cogliere ogni sfumatura delle emozioni degli attori con la macchina a mano, mi ha permesso di avere un’ampia scelta in fase di montaggio per mettere in evidenza, scena dopo scena, il percorso dei personaggi. Ho voluto raccontare il mondo di Mimmo attraverso i suoi occhi, come a sentire con la macchina da presa il battito del suo cuore. Spero che questo possa portare lo spettatore ad un coinvolgimento senza filtri, spingendolo verso una completa immedesimazione nei protagonisti. Il contesto urbano di cementificazione in cui i personaggi non solo abitano, ma che contribuiscono a costruire, diventa ancora più significativo quando Mimmo e Tania scappano per andare a rifugiarsi al mare. Lo spazio si apre, comincia a respirare, i confini crollano e con essi l’identità dei protagonisti; la costrizione che essi vivono, imbrigliati in uno sfondo di cemento, è funzionale all’apertura dello

spazio che li circonda. I cantieri, i palazzi e le strade dei sobborghi rappresentano solo l’idea e la percezione che abbiamo della solidità del mondo materiale e finiscono per divenire un elemento che improvvisamente non assolve più alla sua funzione di proteggere ma, al contrario, schiaccia, in contrasto con un mondo di emozioni che si apre. Ho preparato questo film per tre anni, o forse per tutta la vita. Ho lavorato per coinvolgere i miei collaboratori, gli attori e i produttori affinché comprendessero fino in fondo l’essenza di ciò che volevo raccontare in Senza nessuna pietà. Ed è come se il mio immaginario si fosse ampliato grazie al lavoro di tutti. Perché il cinema non è altro che l’espressione unica di un gruppo di persone che lavorano col fine di raccontare una storia”. Michele Alhaique

INTERVISTA A MICHELE ALHAIQUE a cura di

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associazione Porretta Cinema

Come nasce Senza nessuna pietà?

sero sull’umanità dei protagonisti.

Da un’idea di Andrea Garello, uno degli sceneggiatori, che intendeva scriverne un romanzo. Andrea elaborò poi una prima stesura di sceneggiatura con Emanuele Scaringi, che mi sottopose, dopo averla tenuta per un po’ di tempo nel cassetto. Da quella lettura ho subito focalizzato elementi che per me erano molto interessanti, ad esempio la storia metropolitana, questa periferia romana che fa un po’ da protezione ed allo stesso tempo da prigione ai personaggi che vengono raccontati. Ciò che mi ha da subito affascinato erano gli archetipi di due personaggi in particolare: il gigante buono, costretto a compiere degli atti per niente positivi, e una ragazzina che, senza quasi accorgersene, viene catapultata in un mondo corrotto e violento. Ho tentato di comporre ed approfondire lo spessore dell’animo di questi personaggi, ecco quello che più mi ha entusiasmato, non ero interessato a costruire il sottobosco criminale romano, volevo piuttosto ragionare su come il mondo di lui ed il mondo di lei influis-

Sei un attore di grande talento che, fra le altre cose, ha partecipato ad un film che ha sfiorato i 44 milioni di incasso, superando, in Italia, La Vita è bella e Titanic (mi sto ovviamente riferendo a Che bella giornata con Checco Zalone ed al tuo personaggio, Don Ivano). Come hai vissuto il passaggio “dietro” la macchina da presa? Fin dal liceo ho realizzato cortometraggi che dirigevo assieme ad un amico ed allo stesso tempo interpretavo. A diciannove anni sono entrato al Centro Sperimentale come attore, ma ho comunque continuato la mia produzione di corti, che nel frattempo stavano diventando sempre più evoluti rispetto ai primi da me diretti. Sono uscito dal Centro nel 2003 ed ho partecipato a film importanti come Che bella giornata e Benvenuto Presidente. Ho quindi recitato in commedie ma anche in film drammatici, come per esempio in Cavalli di Michele Rho o L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi, film, quest’ultimo, nel quale ho conosciuto Pierfran-


cesco Favino. Insomma, la mia carriera d’attore non ha avuto un’impronta precisa, in quanto non mi sono focalizzato su un solo tipo di prodotto, e questo mi ha consentito di fare il mio lavoro nel modo più divertente, cambiando continuamente il carattere del personaggio che andavo ad interpretare. Si tratta però di un tipo di carriera che offre poca riconoscibilità a sguardi non sufficientemente attenti. Tornando all’evoluzione da attore a regista devo dirti che per me è stato abbastanza naturale. Ho realizzato molti cortometraggi e la terza fase di questa attività è coincisa con la possibilità di potermeli produrre in autonomia, avendo nel frattempo iniziato a lavorare. L’avere avuto la possibilità di investire qualche soldo in più, mi ha permesso di dedicarmi a lavori più ambiziosi rispetto al passato. Con Il Torneo ho girato un po’ tutto il mondo: è stato in concorso al Tribeca Film Festival, è stato venduto in Australia, in Canada, ha vinto un Nastro d’Argento. Poi è avvenuto il passaggio naturale al lungometraggio. Tuttavia, fare un film è una sfida titanica, fare un film drammatico come opera prima poi, è un progetto davvero ambizioso e convincere qualcuno ad investirvi del denaro lo è ancora di più. Non ti nascondo che preparare, girare ed infine montare il film, è stata una vera e propria impresa, per la quale ho impiegato tre anni del mio tempo. Parliamo di Pierfrancesco Favino che, oltre ad essere il protagonista di Senza nessuna pietà, ne è anche produttore. In un’intervista concessa a Marilena Vinci per RB Casting hai raccontato di avere espressamente chiesto all’attore di ingrassare. Hai incontrato qualche difficoltà nel dirigere un professionista del calibro di Pierfrancesco? Nella nostra idea, Mimmo doveva essere una personalità capace di incutere timore fin dal primo incontro. Desideravo raccontare un personaggio imponente dal punto di vista fisico. Ricordiamo che fin da ragazzino Mimmo lavora in cantiere, ed avevo pertanto il desiderio che potesse restituirci quella pesantezza derivante dal duro lavoro, iniziato a soli sedici anni. E’ proprio questa imponenza che verrà poi sfruttata dallo zio nell’attività di recupero crediti. Oltre a questo avevo bisogno di un contrasto forte rispetto alla ragazza protagonista. Nella mia idea, questi due personaggi dovevano avere un distacco dal proprio corpo, in quanto ognuno di essi aveva trovato un senso nella propria vita, o comunque un proprio

ruolo nel mondo, utilizzandolo per scopi a cui altrimenti non avrebbe pensato:. Mimmo se ne serve per picchiare le persone e farsi restituire i soldi per conto dello zio; Tania, invece, ha capito che in questa società le può garantire un guadagno facile. Relativamente a Pierfrancesco devo dirti che il rapporto non è stato assolutamente difficile. E’ un attore molto plasmabile e sempre in ascolto. La bellezza di lavorare con lui è che è riuscito totalmente ad indossare il carattere che avevo di questo personaggio nel mio immaginario. Proponeva una gamma infinita di possibilità interpretative e riusciva sempre a scegliere quella più giusta. Credo davvero che sia una delle sue più grandi interpretazioni! E’ riuscito poi a svolgere magnificamente anche il ruolo di produttore, ruolo che, nel momento di girare, abbandonava per dedicarsi interamente alla recitazione. Il film Senza nessuna pietà è uscito nelle sale giovedì 11 settembre 2014. Come sta procedendo a livello distributivo e di pubblico? Il film è rimasto in sala solo tre settimane e non è stato un grande successo proprio a causa della mancanza di fondi per la promozione. Sai, se la gente non sa che il film esiste, è difficile che lo vada a vedere. Va detto però che, grazie alle bellissime recensioni e critiche che abbiamo ottenuto, chi ne era incuriosito, alla fine lo ha visto: nei grandi centri il film è andato complessivamente bene. Inoltre, grazie alla partecipazione alla 71° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, il film oggi ha una distribuzione internazionale che lo sta promuovendo all’estero.

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PORRETTA CINEMA

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L’associazione Porretta Cinema nasce senza scopo di lucro con l’obiettivo di allargare l’offerta culturale del proprio territorio e proseguire l’esperienza del Festival del Cinema di Porretta Terme. L’operato dell’associazione si inserisce idealmente nel solco della tradizione della Mostra del Cinema Libero di Porretta Terme che durante gli anni ’60 costituì uno dei più importanti antifestival italiani e senza censure proiettò in anteprima La classe operaia va in paradiso e Ultimo Tango a Parigi. In 13 anni il Festival del Cinema di Porretta Terme ha portato nella provincia di Bologna alcuni dei più prestigiosi nomi della cinematografia nazionale e internazionale, come Giuseppe Tornatore, Mario Monicelli, Ken Loach o Constantin Costa Gavras. Il Festival ha così contribuito alla ricchezza del territorio dell’Alta Valle del Reno e alla sua vivacità culturale, offrendo la possibilità di approfondire la conoscenza di autori universalmente riconosciuti, anche attraverso l’incontro diretto con il regista, in un contesto piacevole e informale.

Da quest’anno il Festival del Cinema di Porretta Terme fa parte dell’Afic, l’Associazione Festival Italiani di Cinema, nata nel 2014 con lo scopo di far diventare i festival un sistema coordinato e riconosciuto dalle istituzioni pubbliche, dagli spettatori e dagli sponsor. Aderiscono all’Afic le manifestazioni culturali nel campo dell’audiovisivo caratterizzate dalle finalità di ricerca, originalità, promozione dei talenti e delle opere cinematografiche nazionali ed internazionali. Gli associati fanno riferimento ai principi di mutualità e solidarietà che già hanno ispirato in Europa l’attività della Coordination Européenne des Festivals. Inoltre, accettando il regolamento, si impegnano a seguire una serie di indicazioni deontologiche tese a salvaguardare e rafforzare il loro ruolo. L’Afic nell’intento di promuovere il sistema festival nel suo insieme, rappresenta già oggi più di trenta manifestazioni cinematografiche e audiovisive italiane ed è concepita come strumento di coordinamento e reciproca informazione.



INDICE 2 XIV EDIZIONE Gherardo Nesti 4 CON UN PIEDE NEL PASSATO E LO SGUARDO DRITTO E APERTO NEL FUTURO Luca Elmi 6 I GRANDI, IN FONDO, NON SONO CHE BAMBINI SOPRAVVISSUTI Franco Vigni 8 LA PRODUZIONE NEI FILM DI FRANCESCA ARCHIBUGI Paolo Noto 10 INTERVISTA A FRANCESCA ARCHIBUGI 18 FILMOGRAFIA – FILM pag. 60

35 FILMOGRAFIA – DOCUMENTARI 42 ALVARO BIZZARRI, REGISTA MIGRANTE 45 IL FUTURO DEL CINEMA NEGLI OCCHI DELLO SPETTATORE Claudio Storani 46 LAST SUMMER, INTERVISTA A LEONARDO GUERRA SERÀGNOLI 49 N-CAPACE, INTERVISTA A ELEONORA DANCO 52 FINO A QUI TUTTO BENE, INTERVISTA A ROAN JOHNSON 55 SENZA NESSUNA PIETÀ, INTERVISTA A MICHELE ALHAIQUE




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