A quanti nell’Opai di Olgiate Olona hanno vissuto a pieni polmoni un periodo straordinario della propria esistenza Enrica Mariateresa
In copertina: Momenti di gioco dei bambini vicino ad una delle piscine nel parco Opai Quarta di Copertina: Statua “Maternità” di Giulio Monteverde
PUNTO MARTE EDITORE
PROGETTO GRAFICO
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978-88-95157-70-2
ENRICA MARIATERESA FERRAZZI
OPAI, IO C’ERO… Voci e volti della Casa dei bambini di Olgiate Olona
ARCHIVIO FOTOGRAFICO ITALIANO
IL VALORE DELLA MEMORIA Esiste storia senza passione? Cosa sarebbe giunto fino a noi del passato senza la passione di chi ha vissuto e di chi ha di questi raccontato le gesta? Tutto sarebbe scomparso nell'oblio se qualcuno non lo avesse consegnato all'eternità, scrivendo. Ascoltando, interrogando prima e scrivendo, poi. Giorno dopo giorno, in un percorso che da secoli attraversa il tempo, coinvolgendo popoli e territori, le parole generano discorsi, espressioni, proverbi. Le parole delineano e formano momenti culturali. Attraverso le parole si tramandano usi e costumi, i ricordi prendono forma e acquistano tanto più senso e valore quanto più vengono trascritti. La storia moderna, però, si nutre anche di immagini. Vedere, guardare prima e fotografare poi. Quanti attimi della nostra vita abbiamo voluto consegnare alla nostra eternità con una fotografia. O quante volte un'immagine ci evoca dei ricordi che credevamo perduti... Consapevole di queste motivazioni, da tempo, l’Amministrazione Comunale di Olgiate Olona sta lavorando al recupero di testimonianze del passato, per lasciare maggiori elementi possibili di crescita e riflessione per le generazioni future. “Da grande diventerai quello che leggi” recita un proverbio polacco. Potremmo anche dire che si diventa quello che si vive. Spesso, pur se non ce ne rendiamo conto, le persone che si incontrano lasciano traccia dentro di noi. Come, il tempo che si vive e lo spazio che ci ospita. Le grandi case hanno un'anima formata da tutti coloro che l'hanno vissuta ma trascende da ognuno di questi assumendo una vita propria. Questa anima ha accompagnato i bambini che l'hanno abitata. Ha segnato profondamente le loro vite e oggi di tutto questo ci parlano in questa opera di Enrica Mariateresa Ferrazzi. Il volume rappresenta, infatti, un prezioso tassello di parole e immagini nel mosaico della ricostruzione di ciò che significò il primo preventorio antitubercolare infantile italiano, il cui centenario di fondazione ricorre proprio in questi anni. Con il volume La casa dei bambini in Villa Gonzaga a Olgiate Olona. Storia del primo preventorio antitubercolare infantile italiano abbiamo voluto porre le basi per la ricostruzione di una “casa del vivere comune”. Con la favola illustrata C’era una volta l’Opai abbiamo sperato, attraverso le immagini di una storia vera, di disegnare nelle coscienze dei piccoli e dei grandi i valori fondamentali della grande bellezza che è la Vita. Con Opai, io c’ero… Voci e volti della Casa dei bambini di Olgiate Olona abbiamo dato la parola a tanti protagonisti di quella straordinaria esperienza umanitaria, attraverso i cui racconti emerge oggi ancor più nitido il tratto di un passato comune e acquista maggior senso il profilo di un futuro che ci appare, oggi, così incerto.
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Con un gioco di parole potrei dire che “io non c’ero", nel senso che non appartengo ai protagonisti di questo libro, ma leggendo ora le loro profonde e significative testimonianze è come se "ci fossi stato". A loro, innanzitutto, va il mio più affettuoso e cordiale sentimento di gratitudine per i ricordi che ci hanno donato, i quali costituiscono fondamento essenziale e senso autentico di questa nuova “creatura della memoria”. Congratulazioni altrettanto sentite vanno all’Autrice del libro e allo staff dell’Archivio Fotografico Italiano, per la preziosa sinergia e la squisita competenza professionale mostrate in tanti mesi di appassionato lavoro, nonché a tutti coloro che a diverso titolo hanno collaborato al raggiungimento del ragguardevole risultato finale.
Non mi resta, che augurarVi buona lettura.
dr. Giovanni Montano Sindaco del Comune di Olgiate Olona
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LA MEMORIA LATENTE Condividere un nuovo libro che della memoria fa esperienza, è per l’Archivio Fotografico Italiano motivo di vanto, tenendo conto che solo partendo dalle testimonianze vissute è possibile ricostruire storie che hanno identificato il territorio. Il Comune di Olgiate Olona non è certamente nuovo a questo tipo di proposte, consapevole che un lavoro d’ascolto attento e partecipe, può riservare amabili sorprese ma anche riflessioni e confronti, assonanze e disaccordi. Ma è proprio il parallelo tra le due esperienze a fissare il limite della comprensione. L’incisività delle espressioni diviene ricordo sociale, interpretazione elaborata dall’esperienza, medicata dalla vita, declinando in atti di stupore o torpore della memoria, le impressioni che ne scaturiscono, influenzate dai codici interpretativi con i quali si valutano i racconti. Narrazioni che trasformano il passato in atti di fede, amore e livore, favorendo un riscatto culturale che si perpetua in esperienze taciute per anni, quasi a dimenticare il contesto in cui si è consumata un’infanzia mitigata da studi, conoscenze e giocosi momenti tra coevi. In questo volume la fotografia pare abbia un ruolo marginale, rispetto agli empirici racconti che lasciano immaginare le vite vissute, ma appare evidente che i due linguaggi trovano il giusto equilibrio, perché se da una parte la scrittura stimola la nostra fantasia, dall’altra la fotografia coglie istanti che non necessitano di parole per essere compresi, appassionando anche i più agnostici. Non si tratta di puro realismo, ma piuttosto di una sorta di diario del tempo che pone l’accento su “momenti privilegiati”, così lontani che paiono stinti, raccolti in un fotogramma che nella semplicità del supporto racchiude qualcosa di avvincente. Ne emerge una dimensione umana che è legame con il mondo, nella pervasiva onnipotenza della divulgazione visuale, in cui la fotografia riveste un ruolo di primo piano, nella discrezionalità dello scatto, che non è mai oggettivo ma soggettivo, come la lettura di un poema che diviene inno alla vita.
Claudio Argentiero Presidente Archivio Fotografico Italiano
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PREFAZIONE
Si dice: Milan col coeur in man. Ma uno dei battiti del coeur in man meneghino pulsò a Olgiate Olona in Villa Greppi-Gonzaga (nel Settecento e Ottocento dimora di villeggiatura di tali nobili milanesi e sede operativa dei redditizi affari intrapresi nel 1824 acquistando il grande caseggiato civile circondato da giardini con giuochi d’acqua e mezzo paese, tra terreni coltivi e immobili, e divenendo per un secolo protagonisti indiscussi della vita politica e amministrativa olgiatese): l’Opera di prevenzione antitubercolare infantile (Opai) - fondata nel 1914 da filantropi milanesi benestanti, competenti e intraprendenti in campo medico ed educativo, sostenuti da un vivace universo solidaristico, graditi ai Savoia regnanti e al potere politico - dal 1918 al 1972 la rese il primo preventorio antitubercolare infantile d’Italia, la Casa dei bambini che accolse migliaia di piccoli vittime innocenti di emergenze sanitarie (tubercolosi dei genitori) e di precarie situazioni socioeconomiche e/o familiari e di disabilità. L’Opai enclave milanese in terra olgiatese nel Novecento, ma dalla notte dei tempi la Storia di Olgiate Olona e di Milano si sono incrociate proprio nel segno dell’assistenza ai bambini e dell’infanzia abbandonata. A Milano nel 1456 sorse l’Ospedale maggiore, primo dotato di criteri igienici all’avanguardia, la Cà granda spesso citata nei registri parrocchiali olgiatesi dell’Ottocento: alcuni neonati abbandonati del paese colà furono condotti, da là qualche minore fu dato a baljre a una famiglia del paese. Frequentemente citata nei registri parrocchiali olgiatesi dell’Ottocento è pure la Pia casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla ruota aperta nel 1781 a Milano per i neonati abbandonati della Cà granda: trovatelli, bimbi non tutti illegittimi, ma anche di famiglie incapaci di sfamare troppe bocche, di donne operaie senza più tempo per i figli. L’Opai enclave milanese a Olgiate Olona, ma non avulsa dal paese, anzi volano di positive ricadute economiche e lavorative. E comunque per i piccoli ospiti luogo più accogliente e dinamico della casa natia: vita e attività quotidiane scandite con efficienza, animate da persone dotate di professionalità e abnegazione; alloggio salubre, vitto abbondante (anche nelle due guerre mondiali), cure sanitarie efficaci, offerta educativa con fondamenta pedagogiche solide e moderne (il metodo di Maria Montessori) e coi rudimenti utili per un inserimento nel mondo del lavoro. Col sostegno lungimirante degli amministratori comunali di Olgiate Olona, Enrica Mariateresa Ferrazzi prima ha salvato i documenti testuali e iconografici dell’Opai reduci dai bombardamenti di Milano del 1943 e dalla negligenza che li abbandonò al degrado del tempo e agli agenti atmosferici; poi, ha sviscerato tale inestimabile tesoro con pazienza certosina e fedeltà alle fonti scritte - la seconda più della prima imprescindibile per chi indaga la Storia, vieppiù locale - ricostruendo con dovizia di particolari la filantropica impresa delle donne e degli uomini che fecero l’Opai nel volume La Casa dei bambini in Villa Gonzaga a Olgiate Olona. Storia del primo preventorio antitubercolare italiano, opera già impreziosita da alcune testimonianze. Ora ha fatto di più: partendo da dati scarni riportati su registri ingialliti, armata
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di tenacia - nel genere femminile è dote naturale - ha cercato in ogni dove le fonti ancora vive e parlanti della Casa dei bambini, quanti vissero e/o operarono in Opai, e con empatia - virtù non scontata - ha ricucito i legami con decine di opaini, ascoltandone le voci, guardandone i volti, coccolandone i ricordi. Così è nato questo volume. Enrica Mariateresa Ferrazzi ha osato ricostruire il più verosimilmente possibile la quotidianità nell’Opai, nel segno della memoria e nonostante i decenni trascorsi dai fatti evocati; le pagine del volume attestano che l’Autrice ha fatto centro e che la sua serietà professionale unita all’empatia è riuscita sia a raccogliere le testimonianze, sia in taluni casi a lenire qualche ferita psicologica ancora viva e a rappacificare la memoria con ricordi del passato poco graditi e drammatici. Grazie al lavoro impegnativo e assolutamente fedele alle fonti ancora vive e parlanti che sono riportate integralmente, nelle pagine di questo volume la Casa dei bambini di Olgiate Olona torna a rivivere, quel piccolo mondo antico si ripopola di voci e volti: ancora si illuminano Villa Greppi-Gonzaga e i padiglioni; ancora si ode la vivacità delle centinaia di bimbi che nel parco giocano rumorosamente o silenziosamente riposano e studiano sotto piante secolari; ancora aleggia il profumo tipico di ogni ambiente, delle pietanze, dei prati e del frutteto, delle visite mediche e delle cure specialistiche, dei regali, delle feste, delle preghiere; ancora si vedono alacremente all’opera medici, suore, cappellano, insegnanti, amministratori, inservienti, personale esterno; ancora si percepiscono il silenzio e i sorrisi, l’ordine e la disciplina, la costernazione del primo giorno e dei severi castighi, le lacrime di dolore della solitudine e della lontananza e quelle di gioia per una figura materna, i grigi incontri coi familiari e gli eventi eccezionali, l’innocenza dei più sfortunati nella vita e i sogni di tutti, il crescere vivace e sereno delle nuove generazioni mentre fuori l’Italia e Olgiate Olona mutano velocemente e talvolta altrettanto rapidamente vengono distrutte dalla guerra. Ora quel piccolo mondo antico sempre vivo in quanti lo abitarono non è più ignoto. Le abili capacità maieutiche di Enrica Mariateresa Ferrazzi e la disponibilità degli opaini hanno generato un’opera corale che è struggente nei contenuti e importante ai fini della memoria storica utile nella costruzione del presente e del futuro di Olgiate Olona. Infatti, parlando di sé nella Casa dei bambini - vincendo il comprensibile pudore derivante a volte dal rivelare elementi sensibili - ogni opaino ha consegnato a un testo scritto non un racconto orale, ma l’identità stessa di un tratto del proprio passato: un Io c’ero riemerso nella genuinità primordiale di chi fu bambino e da adulto decantato per donarlo alla memoria collettiva. E gli Io c’ero sono tutti insieme un giudizio universale dove, a dispetto dei decenni passati, pressoché all’unanimità la Casa dei bambini rivive nella sua unicità, cristallizzata nei ricordi con le sue luci e ombre e ancora additata come teatro di giorni sereni e proficui e di persone indimenticabili: sopra tutto, decine di opaini certificano l’alta qualità del metodo e delle attività assistenziali ed educative in essere nell’Opai di Olgiate Olona per mezzo secolo e un lustro.
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Sicché, questo volume consegna a Olgiate Olona sia la memoria di un piccolo mondo antico, sia parecchi spunti di riflessione utili per attuare non solo in Villa Greppi-Gonzaga, ma anche nell’intera comunità lungimiranti percorsi operativi inerenti la qualità della vita e dell’educazione dei bambini. Molto felicemente, ho accettato di scrivere questi pensieri e spiego perché. Nella vita può succedere di diventare ciò che nemmeno si pensa di essere, anche di studiare la Storia di Olgiate Olona rendendo tale fatica un modo per servire la comunità dove vivi: recentemente è successo a me, come pure a Enrica Mariateresa. Ognuno di noi ha sperimentato che, studiando il passato, la mente può smarrirsi e il tempo vola; più volte le nostre ricerche si sono incrociate e confrontate; la nostra amicizia di penna ha sortito finora otto volumi: figli di carta assai più longevi dei loro autori, nati solo dall’umiltà di arricchire il presente e il futuro di Olgiate Olona. Olgiate Olona, 23 agosto 2014
dott. Alberto Colombo
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INTRODUZIONE Nella società liquida dell’oblio e dell’effimero, diventa fondamentale fare memoria. Eventi, fatti, nomi, emozioni, sensazioni, nostalgie che scorrono lungo il tempo rendono uniche le nostre esperienze, i valori e anche i ricordi: diventano una rete di codici e di significati che si intrecciano con le singole esperienze e danno origine a una memoria sociale, ricca e sfaccettata. Per onorare la memoria collettiva che si realizza grazie alla capacità di ricordare dei singoli, ho interpellato alcune persone accomunate dall’aver trascorso a Olgiate Olona parte della loro vita in un luogo speciale: la Casa dei bambini dell’Opera di prevenzione antitubercolare infantile (Opai), conosciuta a livello nazionale e dove dal 1918 al 1972 è stata scritta una pagina fondamentale della Storia dell’assistenza sanitaria e dell’educazione infantile del nostro Paese. Ho rintracciato alcuni protagonisti di questa storia, soprattutto gli ex opaini, com’erano chiamati i fanciulli ricoverati al Preventorio. Attraverso interviste telefoniche e incontri personali ho ripercorso le orme di un passato per alcuni quasi dimenticato, accantonato in un angolo recondito, ma pronto a riemergere appena sollecitato. Un passato remoto che rivive nei ricordi e nelle testimonianze, struggenti, di quanti furono ospiti nella struttura olgiatese e di quanti vi operarono. I protagonisti di questa pubblicazione hanno aperto i loro cuori e le loro case per donare agli altri la memoria, per mostrare le radici e custodirle, perché non si perdano nel tempo. Accanto ai ricordi le fotografie, anch’esse specchio di memoria, narrazione visiva del tempo che fu. Memoria che diviene immagine, riflesso, espressione di un vissuto fatto di sentimenti intrecciati, di micro storie, di eventi intessuti l’uno nell’altro, l’uno dell’altro. Ricordare per evocare amore, ma anche dolore, ira, paura, senso di abbandono, giacché è doveroso ricordare tutto, anche le cose acuminate che lacerano e feriscono. Bella o brutta, felice o dolorosa, vecchia o giovane, la memoria è sempre presente, ma col tempo tende a sbiadire e occorre ravvivarla: è quello che ho tentato di fare in questo volume, che si apre con una sintesi storica, corredata da una bella galleria fotografica, che ripercorre la storia dell’Opera di prevenzione antitubercolare infantile, e poi riporta i ricordi dei testimoni (bambini ospiti, suore, personale interno ed esterno); c’è infine una sezione ricavata da un documentario girato all’Opai di Olgiate Olona all’inizio degli anni Cinquanta. Un grazie di cuore a tutti coloro che hanno rilasciato testimonianze e fornito foto personali, per aver condiviso con me il desiderio di consegnare ai lettori di questo libro e ai posteri una pagina unica e preziosa del passato loro e dell’Opai. Riappropriarsi della memoria significa far rivivere la storia per salvaguardare la cultura. Così, con le voci e i volti di quanti vissero nella Casa dei bambini, che oggi possono dire: «All’Opai io c’ero», diamo una memoria al passato e un futuro alla memoria.
Olgiate Olona, 22 luglio 2014
Enrica Mariateresa Ferrazzi
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Prologo
LA STORIA DELL’OPAI IN SINTESI Nell’ottobre 2013 la pubblicazione del volume La Casa dei bambini in villa Gonzaga a Olgiate Olona. Storia del primo preventorio antitubercolare infantile italiano ha offerto l’occasione per illustrare l’impresa di un ristretto manipolo di uomini e donne che agli inizi del Novecento lottarono strenuamente in mezzo a infinite difficoltà e a sorde incomprensioni, con pochi mezzi ma con illimitata fede, per dare vita a un progetto assistenziale che contribuì a salvare migliaia di vite. Uomini e donne che con grande nobiltà d’animo e incrollabile tenacia osarono un’onerosa impresa filantropica a beneficio di “piccoli d’uomo” vittime innocenti di rischio sanitario, precarie situazioni socioeconomiche e familiari, dando vita all’Opai, il primo preventorio antitubercolare infantile d’Italia, anzi del mondo, visto che l’unica esperienza simile precedente fu del francese Jacques Grancher direttore dell’Hôpital des Enfants Malades di Parigi e pioniere della lotta antitubercolare - ma si rivolgeva a bambini con età superiore ai tre anni, mentre l’Opai ricoverava già i lattanti, allontanandoli da famiglie a rischio di trasmissione della tubercolosi. La presentazione del volume ha anche offerto ad alcune persone legate al Preventorio olgiatese la possibilità di incontrarsi di nuovo dopo tanti anni, di scoprire una storia mai scritta o raccontata, di capire meglio se stessi e quello che l’Opai aveva rappresentato per l’Italia intera. Proprio da queste persone è venuta la richiesta di continuare con le ricerche tra quelle cartelle cliniche, tra le veline e la carte ingiallite dell’archivio Opai, per
Clotilde Perelli
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rintracciare nuovi nomi, e con loro nuove memorie. Abbiamo accettato la sfida e questo volume ne è l’esito. Mi sembra giusto iniziare riassumendo i momenti più importanti della storia che portò alla nascita e al successivo sviluppo dell’Opera di prevenzione antitubercolare infantile a Olgiate Olona. Agli inizi del Novecento, una donna milanese, Clotilde Perelli Minetti coniugata Cavalli, nel tentativo di superare il lutto per la perdita di tre figli morti in tenerissima età aprendo il suo cuore alla comprensione dell’altrui dolore, iniziò a frequentare il dispensario milanese dell’Opera pia Associazione milanese per la difesa contro la tubercolosi, portando conforto umano e aiuti concreti alle famiglie povere con malati di Tbc, «creature umane doloranti in lotta tra la vita e la morte, con stretti al seno i loro piccoli, predestinati per la miseria ed il contagio alla stessa fine»1. Di fronte a tanta sofferenza la donna non si lasciò abbattere né scoraggiare. Accostandosi ai malati, comprese che la profilassi contro la tisi doveva rivolgersi innanzitutto alla difesa del bambino allontanandolo da tutte le potenziali sorgenti di infezioni: occorreva salvare il giovane organismo fin dalla nascita da pericoli derivanti da elementi inquinati e dalla convivenza con ammalati di Tbc. Da qui l’idea di lasciare l’Opera Pia per dedicarsi esclusivamente alla protezione dell’infanzia minacciata dall’incubo della tubercolosi. La donna riuscì a elaborare un valido progetto assistenziale coinvolgendo due personaggi strategici, che decretarono il successo dell’iniziativa: la duchessa Marianna Visconti di Modrone2, dama di corte della regina Elena di Savoia, che assicurò l’appoggio delle più alte cariche istituzionali e della stessa famiglia Savoia; Luigi Mangiagalli3, illustre clinico, senatore, sindaco di Milano, fondatore degli Istituti clinici di perfezionamento e dell’Università degli studi di Milano, che garantì la validazione scientifica al progetto
Duchessa Marianna Visconti di Modrone
assistenziale. Per perorare la sua causa, Clotilde Cavalli «picchiò a tutte le porte, avvicinò masse popolari, Ministri, autorità di ogni grado, civili e militari […]. Mai sazia di donarsi, fu chiamata un “vulcano” di iniziative e di generosità»4. Capace di attivare reti di solidarietà, mettendo in campo forti risorse creative e sviluppando strategie manageriali, la Cavalli
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percorse con disinvoltura varie attività a carattere filantropico assistenziale, sviluppando legami con personaggi chiave della politica e dell’economia, rivelatisi poi determinanti per il successo delle sue azioni. Pur non volendo mai apparire direttamente, l’analisi dei documenti mostra chiaramente che fu merito delle sue doti, della sua tenacia e incrollabile fede nel perseguimento dei fini che si era prefissata se l’Opera di prevenzione antitubercolare infantile poté conseguire tanti successi. Venne steso un programma, formalizzato nel maggio 1914 e il 14 luglio, durante un sontuoso ricevimento organizzato dalla duchessa Marianna Visconti di Modrone nella sua lussuosa villa Belvedere di Macherio, alla presenza delle più alte autorità, nonché dei rappresentanti dell’aristocrazia e della borghesia meneghina, l’Opera di prevenzione antitubercolare infantile (Opai) vide ufficialmente la luce, sotto la presidenza di Luigi Mangiagalli. Non è un caso che l’Opai nacque a Milano, perché il capoluogo lombardo rappresentava meglio di qualsiasi altra città italiana il dramma della “peste bianca” e dei tentativi messi in atto per contrastare questa malattia diffusa dove le condizioni sociali erano più scadenti: case affollate e insalubri, lavoro non tutelato, educazione igienica e alimentazione del popolo deficitarie5. Le risorse economiche a disposizione erano modeste, ma gli artefici erano animati da una preziosa riserva di entusiasmo, di fede nella bontà dell’opera da svolgere e nei risultati da raggiungere, rincuorati da sostenitori e benefattori, nonché da illustri medici che condividevano la bontà della causa: tra essi, oltre a Luigi Mangiagalli, anche Gaetano Ronzoni6 e Cesare Cattaneo7. Molti scienziati seguivano, incoraggiavano, man mano che il programma auspicato si traduceva in realtà.
Villa Belvedere di Macherio
Luigi Mangiagalli
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Sul finire del 1914, «con ventimila lire di capitale, ma con parecchi milioni di buona volontà» l’Opai diede a balia alcuni bambini a sane nutrici, vigilate da medici locali e dalle patronesse; nel contempo si aprì una colonia alpina a Marchirolo8. Nel 1916, grazie alla generosa donazione di 45mila lire da parte dei coniugi Gustavo9 e Lucia Noël Winderling, fu possibile acquistare una villetta a Biassono che venne ristrutturata per trasformarla in asilo campestre, che accolse trenta bambini da tre a sei anni. «Nell’Asilo, vita semplice e sana: aria, luce, sole, alimentazione abbondante, occupazione intellettuale adatta ai teneri organismi e alle piccole menti»10. La struttura venne denominata Asilo Gigino11, in memoria del figlio dei coniugi Winderling morto di tubercolosi il 16 aprile 1915.
Ogni giorno dai dispensari e da privati giungevano nuove richieste di ricovero che diventava sempre più difficile soddisfare. Anche l’apertura dell’asilo di Biassono si dimostrò ben presto insufficiente e poi, con il raggiungimento dell’età scolare, il problema si ripresentava. L’affidamento dei bambini più piccoli a sane nutrici di campagna comportava altresì problemi gestionali di Professor Carlo Cavalli non poco conto: la ricerca di un numero sufficiente di balie (resa ancor più difficile dal periodo bellico), le trattative per la consegna, la difficoltà di mantenere una sorveglianza attiva ed efficace, si traducevano in una morbilità e mortalità tali da far ipotizzare ai dirigenti dell’Opera l’apertura di una Sala lattanti, una Crèche, che venne effettivamente attivata a luglio 1918 nella Clinica pediatrica De Marchi, istituita pochi anni prima in via Commenda per volontà di Luigi Mangiagalli. La Crèche poteva accogliere al massimo dieci bambini fino a un anno d’età: operò per quattro anni, incrementando a quindici il numero dei fanciulli assistiti. Si trattava di un provvedimento provvisorio, finchè l’Opai trovasse un luogo idoneo per accogliere i figli di genitori tubercolotici in un ambiente salubre, in un modo più completo, in uno speciale istituto dotato di balie, dove i bambini potessero essere curati, assistiti ed educati.
Asilo Gigino - Biassono
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Il prezzo richiesto sembrava proibitivo per le finanze dell’Opera: 250.000 lire, cifra estremamente rilevante per l’epoca. Fortunatamente intervenne a favore dell’Opai l’industriale milanese Piero Preda16 che offrì ai dirigenti dell’Opera di prevenzione antitubercolare infantile l’intera cifra necessaria per acquistare il complesso. Grazie alla bontà degli uomini, Villa Gonzaga, che Piero Preda era stata costruita per la gioia e l’orgoglio di pochi privilegiati, divenne nel giro di pochi anni la “Casa dei bambini di Olgiate Olona” senza perdere alcunché del suo antico splendore. Per accogliere in maniera adeguata i bambini, essa fu totalmente trasformata al suo interno e altri industriali si unirono a Piero Preda per allestirla degnamente: tra questi Carlo De Capitani da Vimercate17 e i coniugi Olga e Jean de Fernex18. Lentamente venne maturata la scelta di protrarre l’assistenza ai bambini ricoverati fino all’adolescenza per rafforzare le difese immunitarie dei ricoverati, così che una volta rientrati nelle famiglie di origine potessero meglio resistere alla possibilità di contagio. Naturalmente questa soluzione comportava la necessità di limitare nuovi ingressi, a meno di non ampliare gli spazi disponibili per l’assistenza e la cura.
Villa Greppi - Gonzaga
Un giorno il caso condusse Luigi Mangiagalli e il marito di Clotilde, il professor Carlo Cavalli12, a Olgiate Olona «innanzi ad un antico palazzo, maestoso e tranquillo, in fondo ad un parco stupendo. Stavamo ammirati in contemplazione come di cosa incantata, tanto ci appariva lontano dalla possibilità dei nostri poveri mezzi. Ma Egli [Mangiagalli, nda] con l’abituale sua serenità, spinse il cancello ed entrammo a visitare, per la prima volta, la villa dei principi Gonzaga13. Sembrava costruita apposta per lo scopo nostro, con la possibilità di raccogliervi migliaia di bambini»14. Si trattava di una villa secentesca ubicata nel territorio di Olgiate Olona, circondata da splendido parco con alberi secolari, rustici facilmente restaurabili e un podere con ventimila metri quadrati di terreno, che era stata casa di villeggiatura di molti nobili, ultimo del quali il principe Emanuele Gonzaga di Vescovato, ora di proprietà delle Figlie della presentazione di Maria santissima al Tempio15.
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Jean de Fernex
Facciata del preventorio Opai di Olgiate Olona, 1920
Olga Casati de Fernex
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Così avvenne. Venerdì 13 aprile 1923 ebbe luogo la posa della prima pietra di due nuovi padiglioni dedicati alla regina Elena e ad Edda Mussolini, alla presenza dell’arcivescovo di Milano Eugenio Tosi, del re Vittorio Emanuele III di Savoia, e del presidente del Consiglio, Benito Mussolini. L’evento venne ricordato con dovizia di particolari sulle pagine del Corriere della Sera del 14 aprile. Ne riportiamo alcuni stralci, pubblicando a corredo alcune fotografie inedite.
di ex combattenti tubercolotici. Il sen. Mangiagalli è lieto di ricordare che i magnifici risultati che l’Opera può vantare furono ottenuti senza chiedere alcun contributo agli Enti Pubblici e tanto più lieto egli è nell’annunciare che proprio nell’occasione della visita del Sovrano sono pervenute all’Opera altre cospicue offerte […]. Dopo il sindaco parla brevemente il vicepresidente comm. Cavalli, il quale presenta al Re, perché ne faccia omaggio alla Regina, un album nel quale sono le fotografie dei 200 bambini ricoverati nell’istituto19 […]. Il Cardinale che ha indossato la mitria e impugnato il pastorale, precede il corteo delle autorità che muove verso l’impalcatura della prima pietra del padiglione Regina Elena. Mons. Tosi, il Sovrano ed il presidente del Consiglio scendono nella fossa dove sarà posta la prima pietra. L’arcivescovo impartisce la benedizione, indi il Re colloca nell’incavo apposito un tubo che racchiude la pergamena, sottoscritta dal Re e dal Presidente del Consiglio, a ricordo dell’avvenimento. Fra la curiosità generale il sovrano impugna infine la cazzuola d’argento e compie sulla pietra la prima cementatura. La cerimonia si ripete poco dopo per l’erigendo padiglione Edda Mussolini. Il Re alla “Villa dei Bambini”
Fra le 11.30 e le 13 numerose automobili trasportarono ad Olgiate Olona le personalità, i membri del Consiglio direttivo dell’Istituzione, le signore patronesse. […] L’arrivo del Re era stato preannunciato per le 14. Cinque minuti prima giunge il Presidente del Consiglio, accompagnato, oltre che dai suoi Segretari, dal fratello, dalla figliola Edda, la sua primogenita, la quale indossa la camicia nera […]. Il Sovrano giunge alle ore 15.20. È in compagnia del sindaco sen. Mangiagalli, il quale fa gli onori di casa come presidente dell’istituzione, e gli presenta i membri del Consiglio. […] L’Augusto Ospite viene poi accompagnato nella visita ai vari reparti della villa. Nello spiazzo, davanti alla facciata principale, sono disposti a semicerchio, nella loro tenuta Kaki, i bambini ricoverati nell’Istituto […]. Il Sovrano si affaccia al balcone e i bambini intonano un canto in suo onore. Ora rimane l’ultima parte della cerimonia, quella della posa delle prime pietre. Due tribune si fronteggiano in un ampio spazio cintato, dove l’ordine è perfetto. Davanti alle tribune sono le due impalcature dalle quali pendono gli argani che reggono le pietre. […] Il sen. Mangiagalli pronuncia un breve discorso. Egli ricorda che la tubercolosi non è sempre ereditaria, che il contagio si prende nell’ambiente familiare. Isolare i bambini, che hanno i genitori tubercolotici, può essere crudele, ma vuol dire salvarli. Nell’istituto si dà la preferenza ai bambini sani
Domenica del Corriere n°17, 29 aprile 1923, illustrazione di Achille Beltrame
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Due anni dopo, il 27 aprile 1925, il re Vittorio Emanuele III ritornò a Olgiate Olona per inaugurare il padiglione dedicato alla regina Elena. Ad accogliere il sovrano, oltre alle personalità e agli invitati, un’orfana di guerra, Elisa Besana20, in rappresentanza dei bambini ricoverati nell’Istituto. La piccola offrì al re un mazzo di fiori e poi gli porse un paio di forbici, «finissima opera di gioielleria in argento e oro, cesellate e incrostate da lapislazzuli», con cui il sovrano recise il nastro tricolore teso sulla porta principale del padiglione dedicato alla consorte. Dopo che il Vicario apostolico dell’Eritrea, monsignor Celestino Cattaneo21, ebbe benedetto i presenti, il re murò nello zoccolo di una colonna un’artistica pergamena a ricordo della cerimonia che veniva descritta come «iniziativa di amore e di prevenzione». Terminata la cerimonia il sovrano appose la firma sull’albo dei visitatori e la duchessa Marianna Visconti di Modrone gli offrì un cofanetto in ferro battuto su cui era riportata una targa in bronzo, opere rispettivamente di Alessandro Mazzucotelli22 e dello scultore Giannino Castiglioni23, presenti alla cerimonia. La targa era stata espressamente modellata dal Castiglioni a distintivo dell’Opai e recava inciso un distico di Ovidio «Principiis obsta; sero medicina paratur, cum mala per longas convaluere moras» [Traduzione: “Opponiti sin dal principio; si prepara tardi la medicina quando ormai i mali si sono irrobustiti con lunghi indugi”]. Nel cofano erano raccolte parecchie fotografie dell’Istituto eseguite dal fotografo milanese Arturo Comerio che per anni documentò attraverso pellicole e fotografie l’attività del Preventorio. Purtroppo la maggior parte di questo preziosissimo materiale è andato distrutto nell’agosto 1943 durante i devastanti bombardamenti che colpirono il capoluogo lombardo. Il 27 ottobre 1925 Mussolini tornò a Olgiate Olona per inaugurare il padiglione dedicato alla figlia Edda24.
27 aprile 1923, il re Vittorio Emanuele III inaugura il padiglione “Regina Elena”
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Una bella descrizione della vita nella Casa dei bambini di Olgiate Olona ci viene fornita da Enzo Grazzini, giornalista del Corriere della Sera, che nel marzo 1931 visitò l’Istituto. La riportiamo quasi integralmente, perché attraverso di essa ci appare uno spaccato della vita in istituto e dei suoi protagonisti. Sono arrivato all’eremo in un pomeriggio umido e freddo: c’era un principio di tarda neve che si appollaiava sugli alberi scheletriti, sui tetti, sulla grezza pietra di certi balconi moderni, che sporgono ambiziosetti dalle ultime case come elastici nipoti insofferenti del timore delle nonne. Da Milano ad Olgiate, la strada è breve: non so perché, mi è sembrata lunghissima. Un uomo guarda: ci fermiamo. - Da che parte per l’istituto? - Al passaggio a livello, a destra. Poi su, cinque minuti di macchina. - Grazie. Avanti, allora. Mi ricevono il direttore, dr. Antonio Delaria27 e l’economo, Nello Bellacci28. Mi piace la loro composta cortesia, sfrondata di ogni inutile verbosità. Una caratteristica figura di portinaio [Colombo Arcangelo, nda], mi sorride pacatamente, ma dignitosamente, nel cedermi il passo; in tanti anni di servizio inappuntabile, questo bianco emulo del santo dalla chiave d’oro, si è guadagnata la sua grande tenuta, berretto e galloni. È vero che la indossa la domenica soltanto e che nei giorni lavorativi ha il suo modesto abito civile. - Lei vuol visitare l’Istituto, non è vero? Il dottor Delaria entra subito in argomento: con uno stile nuovissimo ed efficacissimo, evita di perdere il suo tempo che, in fondo in fondo, non appartiene precisamente a lui, ma ai piccoli ospiti di Villa Gonzaga [...]. - Precisamente, direttore: vorrei visitare l’Istituto.
Il dottor Antonio Delaria e l’economo Nello Bellacci
Il buon Bellacci mi accompagna. È un toscano; le aspirazioni gutturali sono un poco attenuate da questo suo esilio lombardo, ma talvolta se ne lascia scivolare qualcuna, tanto più che si accorge di farmi un certo piacere. Un briciolo di Firenze, per noi fiorentini, si ritrova sempre volentieri in ogni angolo di mondo. Cominciamo. I padiglioni sono tre, distinti, massicci, quadrati. La facciata costituisce la vera e propria Villa Gonzaga: da un lato il padiglione Regina Elena, adibito ai maschi, dall’altro quello di Edda Mussolini, per le femmine. Entrando, non si può avere quell’immediato senso di vastità che in altri luoghi si avverte appena varcata la soglia: questo senso, qua dentro, si acquista pian piano, durante il giro che sembra non finisca mai. Nell’andito [corridoio, nda], mi colpisce una statua [si tratta della statua Maternità di Giulio Monteverde, nda]: una donna, seduta, ma come impaziente di levarsi, stende le mani che reggono un fanciullo. I significati possono essere tanti, ed io non so veramente a che cosa
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d’un tratto in tutti, come un rapido germoglio che si schiuda così, dal miracolo di mille semenze. Che cosa dicono, non so: non afferro le parole, non cerco nemmeno di afferrarle. Che importa? Le indovino fra gli strambotti, e l’inno che non potrò conoscere, è un poema che non potrò dimenticare. Cantano e mi sorridono: sono tutti intorno a me. Intorno a Bellacci, che li chiama per nome uno ad uno, li accarezza, scherza con uno prima, con l’altro dopo, da liberò sfogo a quella sua speciale giocondità toscana, piena di affettuosa schiettezza. - Vede? - mi dice Bellacci - questi sono tutti figlioli di gente affetta dal male. Non sembrerebbe, vero? Io non rispondo: ma nuovamente affiora al mio cervello l’immagine di quella donna di marmo, laggiù. Dobbiamo uscire. Peccato. Sarei rimasto qui non so quanto tempo. Anch’io, che non ho un solo bimbo da amare, mi sono accorto improvvisamente di amare tutti i bambini del mondo. Ma il giro è lungo, e guai se ci dovessimo fermare in ogni stanza così. - Del resto - aggiunge Bellacci - di ragazzi ne vedrà molti ancora. Soltanto un pochino più grandi, ecco tutto. Un vecchietto passa, arzillamente: lo vedo chiuso in una tuta marrone, chiazzata e odorante di fresca vernice, ma non mi sembra un operaio. Sorride dietro gli occhiali, che non sono severi: in una oleografia questi occhiali addolcirebbero un viso. - Pomini - dice il segretario - il cav. [Arturo] Pomini29. Molto ricco, ai suoi tempi: fu uno dei nostri benefattori. Dette sempre quello che aveva: adesso non ha più nulla, ma dà ancora qualcosa a questi bambini: le sue braccia di sessantasei anni. Io lo guardo passare, senza rispondere.
pensasse lo scultore; certo mi punge la intima curiosità del simbolo, e vorrei che questa donna bella e felice come la Vita bene intesa, portasse in alto, fra le braccia forti, il fragile germoglio, rinvigorito dalla divina sua linfa. È così? Spero. Bisogna che io creda in questo preciso significato del gruppo, per poter seguire serenamente Bellacci che mi guarda dietro gli occhiali. Il nido. Ecco un nome che ricorse più volte nei fragorosi anni di guerra, e che ora, venendomi dalla bocca di questo giovane segretario, risveglia nella mia anima tutto un mondo distante di memorie acquietate. - Vede? Questo è il nido. Vale a dire dalla nascita sino ai tre anni. I lettini sono tutti bianchi, di ferro smaltato: nel mezzo di ogni camera, un letto più grande per la suora. Un granello di polvere non si troverebbe nemmeno a cercarlo. La simmetria dell’arredamento, aggiunta a questo insuperabile record di ordine nel senso puro della parola, subitamente rafforza uno strano bisogno di respirare a pieni polmoni, che mi ha colto d’un tratto sullo scalone. Tanto più che fa fresco, dico la verità. - Fa fresco qua dentro, non le pare? due o tre ore prima che i nostri bimbi vadano a letto, si chiude e si riscaldano gli ambienti. Il nostro direttore è, come dire? Un modernissimo della medicina: e d’altronde i risultati non gli danno torto. Passiamo intanto per una lunga fila di camere: in tutte, quella stessa sensazione di fresco, che richiama e rafforza una sopita ma latente nostalgia della montagna, quell’ordine, quella lucentezza che si avverte prima dai dettagli che dall’insieme, quel nitidore di ogni cosa che mi costringe a procedere piano, cautamente, per un timore improvviso di guastare o di spostare soltanto la simmetria degli oggetti. Un’altra porta si apre: un’altra camera, forse. No. Una nuvoletta di bambini due, tre anni, non più - mi viene incontro: una canzone fiorisce
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Capitolo Primo
I BAMBINI OSPITI
Premessa
Partendo dai registri di ingresso dell’archivio Opai scampati sia alle bombe cadute su Milano nel 1943, sia al degrado del tempo e all’incuria degli uomini, abbiamo cercato coloro che abitarono la Casa dei bambini di Olgiate Olona: e, nonostante i decenni trascorsi, abbiamo trovato molti di loro, conseguendo persino l’insperato successo di ritrovare ospiti dell’Opai degli anni Venti del Novecento. Le interviste orali trascritte e le testimonianze scritte hanno ridato voci e volti al piccolo mondo antico dell’Opai. Talvolta i testimoni hanno faticato a raccontare: per molti il Preventorio fu sinonimo di abbandono da parte della famiglia; in altri casi il tempo e la maturità hanno elaborato che la decisione di mandare i figli all’Opai fu l’unica concessa ai genitori per allontanarli da malattie e forti disagi soprattutto nelle due guerre mondiali, quando la morte di molti mariti e la tubercolosi resero molte donne vedove e incapaci di provvedere adeguatamente alla prole. Ma la gran parte dei testimoni ricorda positivamente la Casa dei bambini di Olgiate Olona che migliorò assai le loro condizioni di vita. Ogni racconto è prezioso, ricco di sapore, vivacità, umanità: episodi di vita vissuta, grandi e piccoli, giocondi e tormentosi, talvolta aneddoti gustosi. Oguno narra come sa e come può, con schietta naturalezza, scevro da preoccupazioni stilistiche: perciò i testi sono diversi tra loro. Ma su tutto emergono le cose dette, le emozioni rivelate, le passioni, i valori, la commozione. E riaffiora un quid impalpabile e affascinante: il clima umano, la natura profonda e la psicologia che tratteggiano ciò che fu la Casa dei bambini dell’Opai, e colui/colei che un tempo è stato in Opai e come. Così, ogni voce e ogni volto testimoniano il vissuto soggettivo, umano, emotivo di quanti vissero nel Preventorio olgiatese e la storia stessa dell’Opai che garantì non solo ottime condizioni igieniche e adeguata assistenza sanitaria, ma anche opportunità formative e di socializzazione di alta qualità e in taluni periodi storici pressoché irraggiunbili oltre le mura di Villa Gonzaga: la quotidianità dell’Opai erano vitto abbondante, musica, spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche, piscina, lezioni all’aria aperta, gite, soggiorni estivi in località marittime o montane; infine, non meno importante, poter imparare un lavoro per essere economicamente autonomi. La pluridecennale attività e l’inesorabile mutare delle condizioni socioeconomiche e medico-sanitarie del Paese modificarono assistenza, terapie sanitarie e organizzazione interna del Preventorio al pari della vita dei piccoli ospiti. Quegli opaini nei cui ricordi alcuni nomi, luoghi e situazioni ricorrono più frequentemente di altri: il cappellano don Sandro Cattaneo, grande amico e confidente dei bambini (molti rimasero in contatto con lui una volta usciti dal Preventorio); suor Rosaria Rampini che fece da mamma a moltissime ricoverate; il Rosario nel parco fino alla grotta della Madonna di Lourdes; la siesta sotto piante secolari; i giochi d’acqua; i grandi dormitori coi lettini bianchi e
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la zona riservata alle suore; abiti bianchi di pizzo e divise da marinaretto per la prima Comunione; il locale docce nel piano interrato; il grande refettorio con le pareti dipinte da Antonio Rubino37, i lavori a chiacchierino, le partite di calcio o a biglie nel campo all’aperto, alcuni cibi poco graditi; la disciplina e le punizioni… Leggere queste memorie, alcune delle quali già pubblicate a ottobre 2013 nel volume La Casa dei bambini in villa Gonzaga a Olgiate Olona. Storia del primo preventorio antitubercolare infantile italiano, è un tuffo nel passato remoto dopo il quale riaffiora, ma per sempre, ogni voce e ogni volto della Casa dei bambini di Olgiate Olona.
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del mio piede. A ricordo di quella cerimonia ci donarono un Vangelo. Ricordo me e mia sorella, di due anni più grande, in una classe mentre impariamo una poesia da recitare a un matrimonio che sarebbe stato celebrato il giorno successivo a Olgiate Olona nella chiesa parrocchiale. Poiché suggerivo alcune strofe a mia sorella, ero stata messa in castigo davanti alla finestra: pioveva a dirotto e tuonava. Improvviso un rombo assordante, il cui ricordo è ancora nelle mie orecchie: un aereo stava precipitando38. Davanti a quella finestra avevo assistito a una tragedia che, saprò molti anni dopo, determinò la morte di settanta persone. Avverto la suora di ciò che ho visto: «Cade! L’aereo sta cadendo!» e lei «Zitta!» in tono perentorio. Io ripeto «Ma cade!!!» e poi il disastro: il tutto è durato pochi minuti. Ricordo un gran fermento: tutti i ragazzi e le ragazze in chiesa a pregare, e la sera, dal dormitorio, a guardare attraverso l’unica finestra che dava sulla strada tutto un correre di gente. Non volevo mai mangiare: quando riuscivo, davo a mia sorella ciò che avevo nel piatto, perché non si poteva avanzare nulla. Lei era una mangiona e sapevo di poter contare su di lei per evitare le punizioni. Una volta ho preso una polpetta, l’ho messa in un panino e ho chiesto di andare in bagno: lì ho buttato panino e polpetta ingorgando tutto: castigo!!! Un’altra volta mi hanno lasciata al tavolo del refettorio fino alla sera per farmi mangiare: ho vinto io e non ho mangiato. Ricordo una recita e una canzone: «Sul lago Tanganica Ciun bai bai, vogava una piroga ciun bai bai, ciun bai bai era il capo degli zulù, viva Mazzù viva Mazzù. O luna luna africana, che illumini nella notte nera la carovana, baciami tu o luna». Eravamo tutti vestiti in tema, chiaramente, con buffi gonnellini. Oggi, razionalmente, credo che il nostro ricovero a Olgiate sia stata una buona soluzione dati gli enormi problemi della nostra famiglia. Tuttavia non riesco a non angosciarmi al pensiero di quei due anni nei quali abbiamo visto nostra madre 2-3 volte in tutto.
ADONDI ELENA Rammento solo pochi episodi di quel periodo che va dal settembre ‘58 a novembre 1960: la partenza seduta sul portapacchi del motorino di uno zio, l’arrivo in astanteria. Ricordo lo zio che suonava un campanello e in un attimo la mano di una suora mi ha presa e poi il mio pianto disperato. Ricordo i rosari recitati camminando tutte in fila nel podere e nel parco, il cappellone delle suore, le corse con scivolata in chiesa per lucidare il pavimento, gli avanzi delle ostie che ci lasciavano mangiare, le sdraio per prendere il sole accatastate sotto al portico, le grandi camerate con il paravento per le suore. Rammento che d’estate recitavamo il Rosario passeggiando nel parco fino al podere e la suora che ci accompagnava che sbracciava per far scappare un cornabò (un coleottero con le pinze molto lunghe) che volava troppo vicino a noi. Ricordo il guardaroba con i grossi armadi mi pare verniciati di bianco e azzurro, poi i sotterranei che portavano alle docce, con tutti quei tubi sul soffitto molto basso, con piccole luci coperte da una gabbia di ferro, e noi tutte in fila ad aspettare il turno. Poi i getti d’acqua che partivano tutti contemporaneamente. Ricordo la messa della domenica e la chiesa mi sembrava grandissima, in confronto a noi, tanti e piccolissimi. E poi il refettorio, appuntamento che per me era un trauma: mangiare era una cosa alla quale avrei rinunciato volentieri, non certo a causa del mangiare che credo fosse buonissimo, ma perché io non avevo mai fame. Rammento in particolar modo suor Eugenia, una delle mie maestre, sempre arrabbiata, che in alcune occasioni digrignava i denti. Poi un’altra maestra, di nome Maria Grazia o forse Anna Maria... non so; deve avermi fatto da madrina alla Cresima e Comunione, celebrata lo stesso giorno, con un vestito dell’Istituto e un paio di scarpe bianche ma almeno un paio di numeri in più
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Mia sorella Serenella è tornata a casa prima di me: quando se ne è andata ho pianto a dirotto per giorni. Questo è tutto quello che ricordo. Mi sono sentita veramente abbandonata, senza riuscire a capirne il motivo. Se poi penso al ritorno a casa, al ritorno in un paese dove non conoscevo più nessuno... A scuola mi guardavano come se fossi stata un’appestata: il paese era piccolo, noi eravamo forse i più poveri. Conosciamo tutti la schiettezza dei bambini: non è stato per niente facile, tutta la mia infanzia non è stata facile. Oggi, a 57 anni me ne sono fatta una ragione, ma è stata dura.
Le sorelle Elena e Serenella Adondi, in Opai da settembre 1958 a settembre-novembre 1960
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Ricordo in particolar modo i tunnel per arrivare alle docce, nei sotterranei, tutti in fila a turni per lavarsi. Ricordo inoltre il Rosario tra i viali del podere che sembrava immenso. A me piaceva molto cucire, così suor Maria Adelaide [Apostoli, nda] (che ricordo con molto affetto e che ho avuto il piacere di rincontrare circa una ventina di anni fa) mi insegnò a ricamare. Nonostante avessi solo nove anni, ricamai una tovaglietta da tè e dei cuscini, che tutt’oggi conservo gelosamente. Nelle serate estive, dopo la cena, recitavamo il Santo Rosario, percorrendo il sentiero che attraversava la proprietà sotto gli alberi da frutta, (e quanti sguardi a quei frutti!!! Ancora oggi ne sono ghiotta) fino a ritrovarci di nuovo all’ingresso centrale del collegio. In quel periodo venne eletto papa Giovanni XXIII: le suore ci fecero assistere alla elezione, davanti al televisore tutte lì riunite ad assistere alle varie fumate. La prima Comunione e la Cresima vennero celebrate lo stesso giorno, nella bella chiesa dell’Istituto: per noi bambine fu una gran festa. Arrivò la mamma; le nostre madrine e alcuni parenti vennero per trascorrere la giornata con noi. Ricordo anche un episodio triste: eravamo in classe a recitare una poesia quando al di là delle finestre un forte temporale si scatenava; avvertimmo un rombo di motori e un boato fortissimo. Ci dissero solo più tardi che un aereo passeggeri era precipitato vicino al frutteto. Venni a conoscenza solo anni dopo che costò la vita a una settantina di persone. Le suore organizzavano annualmente della gite: ricordo con felicità quei momenti, che erano un modo per evadere dalla quotidianità. Il Santuario del Santo Crocefisso di Boca fu una prima meta, l’anno successivo andammo a Santa Caterina del Sasso sul Lago Maggiore: ci imbarcarono su un battello per raggiungere Luino, e mi colpì nel porticciolo una Madonnina tutta dorata che brillava al sole. Trascorsi due anni all’istituto e posso dire che sono stati periodi sereni e senza problemi, ma alla notizia
ADONDI SERENELLA Per delle piccole bambine essere strappate “seppur per necessità” alla famiglia anche se tra mille difficoltà è stato traumatizzante. Le conseguenze si protraggono nel tempo, addirittura per la vita. Sono originaria di Verbania: entrai nell’Istituto di Olgiate Olona la mattina del 30 agosto 1958 accompagnata da uno zio materno: avevo otto anni e non capivo il perché di quell’allontanamento dalla famiglia. Giunti al collegio, ricordo una suora che mi accolse e dopo pochi attimi salutai lo zio che mi aveva condotta in istituto. L’8 settembre mi raggiunse anche mia sorella Elena di due anni più piccola di me. Senz’altro fu un momento di gioia, così potemmo continuare il cammino insieme, sentendo meno la mancanza della famiglia. Nostro padre era stato ricoverato in sanatorio a Fenestrelle [Sanatorio Agnelli, Pracatinat Fenestrelle, nda] con la diagnosi “tubercolosi”. L’anno successivo al nostro ingresso a Olgiate a papà venne diagnosticato un tumore polmonare: fu ricoverato al Niguarda dove venne operato all’età di 39 anni. In quei mesi, che devono essere stati terribili per nostra madre, nacque la piccola Anita, che io e mia sorella non abbiamo nemmeno visto, in quanto morì pochi mesi dopo: apprendemmo la notizia della morte di nostra sorella da una suora, anche se non ci rendemmo bene conto di cosa fosse successo. Mio fratello maggiore, nonostante la giovane età (allora aveva 12 anni), riuscì a trovare un impiego in fabbrica, così poté aiutare la famiglia. Vi lascio immaginare che momenti difficili furono per i miei genitori: ricordo con gioia quando mia mamma, una volta al mese (se poteva), ci raggiungeva al collegio per stare con noi una giornata. Ricordo le suore che si occupavano di noi: non ci mancava nulla, andavamo a scuola, a messa la domenica, nel tempo libero c’erano tanti giochi (al contrario di casa mia) per potersi divertire insieme.
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del ritorno a casa feci salti di gioia. Lasciai purtroppo mia sorella (lei dovette restare ancora tre mesi, per il raggiungimento dei due anni previsti) con le lacrime agli occhi ma la felicitĂ era troppo grande: avrei rivisto finalmente mio papĂ dopo due lunghi anni e
il resto della mia famiglia. Vorrei concludere ringraziando una per una le suore che hanno fatto tanto per me: purtroppo non ricordo i loro nomi. Un pensiero e un ringraziamento speciale va a suor Maria Adelaide che ricorderò con affetto sincero per sempre.
Le sorelle Elena e Serenella Adondi con alcune compagne; la religiosa a destra è suor Maria Adelaide
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fa male, è lo star con voi mia cara Filomena». Non rammento con precisione le altre parole, ma alla fine ci accapigliavamo davanti al pubblico divertito. Rammento con particolare affetto suor Rosaria [Rampini, nda] che, quarant’anni dopo essere uscita dall’Opai, riuscì a mettersi in contatto con me a Milano. Fu un’emozione incredibile risentirla al telefono dopo tutti quegli anni. Andai a trovarla a Brivio dove era superiora, poi a Milano e infine a Erba. Ricordo ancora con infinita tristezza quando la chiamai al telefono e mi dissero che era mancata qualche giorno prima. Ricordo anche un’altra suora che si chiamava Cristina [Corbetta, nda]: era buona ma un giorno la esasperammo e lei se ne uscì dicendo: «Mi prudono le mani». Io risposi in modo impertinente «Se le gratti!» e lì partì il ceffone, l’unico che presi durante il mio ricovero. Un’altra cosa che ricordo è che durante le lezioni non si poteva andare in bagno. Un giorno, durante le lezioni, iniziai a capire che avevo necessità di andare ai servizi, ma riuscii a resistere. Poi arrivò l’intervallo ma io ero troppo presa dai giochi per ricordarmi delle necessità fisiologiche. Il problema si presentò alla ripresa delle lezioni, quando non riuscii più a trattenermi e intorno a me si formò un laghetto. In quell’occasione la suora fu buona, non mi rimproverò e cercò di sminuire l’accaduto. Ma non sempre era così: alcune volte le suore erano manesche e cattive, come se non capissero i nostri problemi e il nostro stato d’animo. A distanza di anni comprendo che alcuni comportamenti erano dettati dalla necessità di mantenere la disciplina, con tanti bambini da accudire, ma un po’ più di umanità sarebbe stata gradita. Sono uscita dal Preventorio il 7 luglio 1957.
DI MARZO ANGELA Ho tanti ricordi, ma preferisco fingere di non ricordare tutto. Sono arrivata all’Opai il 1° marzo 1955 a seguito di una schermografia fatta quando frequentavo la quarta elementare: trovarono ghiandole linfatiche ingrossate vicino al polmone e così decisero di inviarmi al Preventorio. Rammento che mi dicevano che mio padre, per contribuire a pagarmi la retta, doveva perdere i contributi pagati all’Inps che si accollò le spese del mio ricovero. Rammento che non mi piaceva ricamare, così mi dedicavo nei momenti liberi alla lettura: in particolare mi davano da leggere molti libri sulle persecuzioni dei cristiani. I miei abitavano a Milano e per venire a trovarmi la domenica prendevano un autobus in piazza Castello. Alcuni ricordi riguardano il cibo, che in generale era buono ma per me era problematica la regola che ci costringeva a mangiare tutto quello che c’era nel piatto. Un giorno ci servirono delle barbabietole, che io odiavo: ricordo che la suora stette con me in refettorio finchè non le ebbi finite, anche se poi vomitai tutto. Da allora imparai a nascondere le pietanze che non mi piacevano e a buttarle fuori dalla finestra quando non mi vedevano. Mi è sempre piaciuto recitare: così le suore mi insegnavano spesso lunghe poesie, che io memorizzavo e ripetevo senza alcuna fatica. In alcune occasione recitai nel teatrino dell’Opai. Rammento in particolare un giorno in cui venne organizzato uno spettacolino davanti a benefattori e autorità. Le suore, come sempre, avevano preparato testi, scenografie e costumi. Era una scenetta in cui si imamginava che due venditrici ambulanti al mercato si mettessero a litigare. Io vendevo pizzi e merletti, mentra un’altra ragazzina aveva un banchetto di ortofrutta. Io ricordo che cantavo. «Cravattini, fermaglietti e calze rare sono articoli che smercio con gran lena, ma la cosa che realmente mi
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Angela Di Marzo in due fotografie scattate in Opai
Angela Di Marzo nella foto di gruppo col cappellano don Sandro Cattaneo sui gradini della chiesa Santi Innocenti; è la prima da sinistra
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d’uscita: mia madre si girò e mi salutò con la mano. Ricordo un grande silenzio mentre aspettavo, ma dopo pochi minuti arrivò una donna, penso fosse un’inserviente, con delle coperte. Mi prese per mano, percorremmo insieme un lungo corridoio con grandi vetrate e soffitti altissimi. Ricordo i nostri passi che rimbombavano durante il tragitto. Arrivati davanti a una statua, al centro di altri corridoi, sentii le voci di altri bambini in lontananza, e piano piano farsi sempre più vicine, fino a che non arrivammo al mio padiglione. L’inserviente aprì una porta e mi consegnò a una suora che, dopo aver chiesto il mio nome, mi fece raggiungere gli altri bambini. Notai che avevano tutti un grembiulino uguale. Zitto e intimorito, mi avvicinai a loro, sentendo bisbigliare «C’è un bambino nuovo». Passai del tempo a guardarli giocare, mentre io avevo voglia solo di piangere. Rimasi con loro finchè non arrivò il momento della cena: le suore ci misero in fila per due, per mano, e ci fecero raggiungere il refettorio, un enorme locale con lunghe tavolate e tante sedie. Poco dopo entrarono nel refettorio delle suore o inservienti (non ricordo) con un grande carrello di ferro con pentoloni enormi e ci servirono risotto giallo, purea di patate e pollo e una pera cotta. Le suore, prima del pasto, ci fecero fare il segno della croce, che per me rappresentava un’abitudine nuova. Quella sera non mangiai nulla, anche se una suora, accortasi, cercò di convincermi ad assaggiare qualcosa. Finita la cena, ci rimisero in fila per due e ci accompagnarono in un padiglione per giocare e lì qualche bambino mi si avvicinò e mi parlò. Intanto sentivo ancora da altri bambini «È nuovo…» e io rimasi tutto il tempo a guardarli, fino al momento di andare a letto. Mi fecero salire una grande scalinata che accedeva a due padiglioni adibiti a dormitorio: uno per i “piccoli” e uno per i “grandi”: il mio era quello dei piccoli, un enorme locale circondato da grandi finestroni e con tanti letti in fila, uno davanti l’altro, e in fondo una
DI PIETRO PASQUALE Il racconto della mia esperienza all’Opai è frutto di sensazioni ed emozioni che ora, da adulto, riesco a decifrare e a cui riesco a dare un nome… mentre allora, da bambino, non comprendevo e mi spaventavano… emozioni e sensazioni forti, ma comunque importanti, che mi porto dentro e mi accompagnano nella vita. Figlio di un muratore, sesto di sette fratelli, la mia esperienza all’Opai è iniziata a 7 anni e mezzo, il 6 maggio 1965, mentre giocavo nel cortile di casa e mia sorella, di un anno più piccola, mi informava di aver sentito da nostra madre che la mattina successiva sarei andato in “collegio”. Un fulmine a ciel sereno. Il mio dispiacere era quello di lasciare la mia famiglia e gli amici del cortile a cui ero affezionato. Quella notte, non avrei mai voluto che arrivasse la mattina. Quella mattina, purtroppo, arrivò: mio zio venne a prendermi, dopo pranzo, in macchina. Ci salii con mia mamma e mio papà per raggiungere il collegio. Ricordo che arrivammo davanti a una grande cancellata con a fianco un cancello più piccolo, al di là dei quali vedevo una struttura imponente con enormi e numerose finestre. Mio padre suonò il campanello e dopo poco vidi arrivare una suora ad aprirci e ad accompagnarci all’interno della struttura. I miei genitori si appartarono con la suora in Direzione e io rimasi da solo fuori dalla porta, seduto su una panchina. Cercavo di capire le loro parole, ma non sentivo nulla. Allora mi misi a guardare fuori dalla finestra il giardino e pensavo che avrei dovuto rimanere lì senza di loro, senza sapere il perché e per quanto tempo. Quando uscirono, i miei genitori mi salutarono e la suora mi disse di aspettare seduto sulla panchina che sarebbero venuti a prendermi per accompagnarmi nel padiglione insieme con altri bambini. Io intanto vedevo i miei genitori allontanarsi verso il cancello
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vietato durante il momento di gioco: qui si giocava a pallone, a nascondino, a bandiera, o a correre, e in questo modo pensavo un po’ meno a casa mia. Mi ricordo quando di sabato ci consegnavano gli asciugamani, il sapone e lo shampoo per condurci poi alle docce: un inquietante scivolo ci conduceva nel sotterraneo e man mano che si scendeva si respirava vapore, aria umida e calda. Mi piaceva tanto il sabato sera, in estate, quando le suore organizzavano la visione di un film. Dopo la cena e il momento di gioco in giardino, ci preparavano per quello che per noi era un grande appuntamento. Così come la domenica con la messa, la visita dei genitori. Con tristezza ricordo che la visita dei miei genitori non avveniva tutte le domeniche; in particolare ricordo una domenica di quelle in cui rimasi solo e suor Marzia mi si avvicinò. Suor Marzia, notando che guardavo le farfalle, mi chiese se mi piacessero e io le dissi di sì. Poi mi chiese se avessi un fazzoletto bianco, di tiralo fuori e di stenderlo sull’erba perché così le farfalle sarebbero arrivate. lo feci, ma non successe nulla, allora suor Marzia mi invitò a stenderlo al sole e dopo pochi minuti arrivarono quattro farfalle e si posarono sul fazzoletto. Per la gioia e la felicità che provavo in quel momento, l’abbracciai e le chiesi come mai le farfalle non si posassero sul suo vestito bianco; lei sorrise, accarezzandomi i capelli e regalandomi giornalini nuovi e figurine: io le fui grato per questo gesto e per le sue dolci parole che riempirono l’assenza dei mie genitori di quel momento. La domenica, dopo la messa, si concludeva con un buon pranzo e un buon dolce e dopo la cena si poteva guardare la televisione. Mi ricordo un’estate, mentre si cenava nel refettorio, scoppiò un litigio tra alcuni bambini del mio padiglione: una suora intervenne e ascoltando le varie ragioni dei bambini decise di toglierci il momento di gioco, e ci mandò tutti quanti a letto. Fu un grande affronto per noi, soprattutto perché dall’enorme finestrone filtrava
tenda bianca. Scoprii poi che al di là di essa dormiva la suora. La suora mi fece vedere il letto in cui avrei dormito, ci fece mettere in ginocchio per dire le preghiere prima di dormire, e così finii la mia prima giornata all’Opai. Svegliandomi la mattina dopo, ci fecero lavare la faccia e i denti in bagno, un enorme locale con tanti lavandini, e ci fecero vestire per andare a fare la colazione: caffè latte con pane o biscotti, per poi andare a scuola e fare ginnastica. Le mie giornate all’Opai trascorrevano così, e più passava il tempo e più io legavo con gli altri bambini e non sentivo più bisbigliare «È nuovo». Al contrario fui io a vedere arrivare bambini nuovi. In particolare ricordo che arrivò un bimbo, di cui non ricordo il nome [Giovanni Praticò, nda]. Noi bambini lo invitammo subito a giocare a pallone, lui non esitò ad accettare e giocando mi disse che suo zio, Armando Savini, cantava in televisione nella trasmissione di Pippo Baudo Donna Rosa. Mi disse che suo zio sarebbe venuto a trovarlo e me lo avrebbe fatto conoscere. Lo vedemmo in televisione con il consenso delle suore, perché l’ora della trasmissione e la sua durata andavano oltre il tempo a noi consentito per vedere la televisione. Vinse la prima puntata e tutti noi bambini esultammo, comprese le suore e le inservienti, ma poi la seconda puntata la perse. Poi un giorno venne a trovarlo: il bambino mi chiamò e chiese a una suora se potevo andare con lui. La suora, naturalmente, acconsentì. Ci sedemmo ad aspettarlo su una panchina di legno lucidissima, dietro a una statua, all’incrocio dei padiglioni, poi quel signore arrivò. Il bambino si sedette sulle sue ginocchia: ricordo che arrivarono anche le inservienti che si misero a parlare con lui. Anche Caterina Caselli venne a visitare il collegio ma purtroppo non riuscii a vederla. Durante la primavera e l’estate incominciarono a farci uscire nel parco, un enorme giardino, con tanti alberi e tanto sole, che con il suo fascino e la sua bellezza mi trasmetteva felicità, allegria e libertà. Niente era
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questo fino a Natale. La notte di Natale, dopo cena, le suore ci facevano preparare le fiaccole per la fiaccolata; ci mettevano i cappotti e si usciva al buio, in fila per due o per tre, mentre nevicava nel parco già imbiancato dalla neve, e illuminato dalle nostre stesse fiaccole. Si raggiungeva così la chiesa interna al Preventorio per la messa di Natale. Noi “piccoli” dietro ai “grandi” vedevamo davanti a noi un lungo serpentone illuminato, mentre cantavamo tutti insieme Tu scendi dalle stelle. Provai un’emozione che non dimenticherò mai, così come non dimenticherò mai la magia di quella notte. Finita la messa arrivò l’inserviente Francesca che rivelò a noi bambini un segreto: «È arrivato Gesù Bambino e nel padiglione di ricreazione ci sono dei regali per voi»: non riuscimmo a nascondere la nostra felicità, e le suore ci condussero subito verso la sorpresa. Ma quale era il mio? Fu il mio primo pensiero. Una suora capì il mio disagio, mi prese per mano e mi disse quale fosse il mio regalo. L’abbracciai e da quel momento “quella” suora (di nome Marzia) divenne la “mia” suora, il mio riferimento. Dopo i regali pensavamo fosse arrivato il momento di andare a letto, e invece un’altra sorpresa ci aspettava: una cioccolata calda, di cui ancora ricordo con piacere il buon sapore e odore. E ancora il ricordo del giorno dell’Epifania, in cui noi bambini ricevevamo e ci aspettavamo dei giocattoli dopo la cena. Mi ricordo di aver capito che non tutti i bambini avevano il loro regalo (penso perché i genitori non potessero comprarli), ma puntualmente suor Marzia faceva in modo che ognuno ne avesse uno, così come capitò a me. Un altro evento particolare era quello del Carnevale: i preparativi iniziavano la mattina a scuola con noi bambini tutti presi a preparare gli addobbi per il teatrino con i coriandoli. Ricordo la nostra felicità perché in quel giorno, molto impegnativo, non c’era nemmeno il tempo per studiare e fare i compiti e nemmeno di fare ginnastica. In tutto il padiglione si
ancora luce e fuori si sentivano le risa degli altri bambini degli altri padiglioni che si divertivano. Solo ora, ricordando quell’episodio, mi rendo conto che anche il castigo era bello. C’era poi in estate l’abitudine di fare il riposino pomeridiano sulle sdraio, fuori, nel parco, al sole, con i giornalini, e dopo il riposo un altro bellissimo momento: ci proponevano, sempre all’aperto, una merenda con una bevanda molto dolce, penso vino dolce. Ogni novità rappresentava per me un evento importante! Ricordo che molte volte, arrivavano delle persone “importanti “ e le suore ci preparavano eleganti e puliti (per paura che ci sporcassimo ci lasciavano giocare sotto l’enorme porticato, e non nel parco). Mi ricordo che chiamavano “benefattori” queste persone che ci venivano a far visita. Solo da adulto ho capito il loro ruolo. Mi ricordo che si sentiva parlare dalle suore di una stanza molto importante, che loro chiamavano “stanza dei Capitani” [si tratta del salone di rappresentanza dell’Istituto, intitolato a Carlo De Capitani da Vimercate, uno dei primi benefattori dell’Opai, nda]: per tanto tempo non riuscii a capire dove fosse, fino a che un giorno le suore ci mandarono in infermeria per una visita. Durante il tragitto io e un mio compagno vedemmo una porta semiaperta: incuriositi andammo a vedere. Aprimmo la porta e vedemmo uno stanzone grandissimo con un tavolone enorme, circondato da sedie molto alte (più di noi bambini) e con un camino enorme. Non capimmo subito che quella che avevamo visto era la stanza “dei Capitani”. Un giorno chiesi a un’inserviente di nome Francesca [Francesca Pes, originaria di Sassari, classe 1948, come risulta dal Registro del personale Opai 1941-1966, nda] dove fosse, e lei ci portò, ma la porta era chiusa a chiave. Un ricordo speciale va al mio primo Natale all’Opai. Nel mese di dicembre noi bambini ci preparavamo all’avvento con un calendario personale su cui mettevamo un segno ogni giorno che ci comportavamo bene, e
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per il collegio. Volevo che il momento di partire non arrivasse mai. Ma arrivò. Suor Marzia mi accompagnò in giardino dai miei compagni per salutarli, mi disse di giocare ancora un pochino con loro, fino a che non fossero arrivati i miei genitori. Quando arrivarono i miei genitori, suor Marzia mi chiamò per accompagnarmi da loro. Mi tenne la manina e ripercorremmo lo stesso corridoio del primo giorno fino ad arrivare alla statua da cui sentivo ancora in lontananza le voci dei bambini. Piano piano, come d’incanto, non le sentii più, ma sentivo stringere di più la sua mano sulla mia. Arrivati in direzione, vidi i miei genitori. Suor Marzia mi lasciò la mano per prendere un fazzoletto dalla tasca e asciugarsi gli occhi: mi abbracciò e mi chiese di tornare a trovarla quando sarei diventato grande. Percorsi il giardino fino alla cancellata con i miei genitori, mi girai e vidi la mia cara suora trasformata in un punto bianco in lontananza: salii in macchina e piansi. Tornai a casa nell’ottobre 1967 con tutte le abitudini imparate in collegio, che erano diventate mie, tipo bussare alla porta prima di entrare in bagno o in camera, chiedere permesso quando si entra da una porta, salutare, fare il segno della croce prima di mangiare o dormire, non parlare con la bocca piena, e ancora oggi esse fanno parte di me.
respirava euforia e allegria. Noi bambini preparavamo con le maestre i vestiti di carta, le maschere, i fischietti e le trombette per la festa che avrebbe avuto inizio nel pomeriggio e sarebbe terminata alla sera. Purtroppo, quel pomeriggio mi venne la febbre e una suora decise di mettermi a letto: ricordo la mia tristezza e la solitudine. Suor Marzia, non vedendomi alla festa, mi venne a cercare nel dormitorio, sapendomi a letto ammalato. Mi si avvicinò al letto, mi mise una mano sulla fronte, e poi mi fece alzare coprendomi con un cappotto e una sciarpa e mi avvolse con una coperta. Mi accompagnò alla festa e mi rassicurò dicendomi: «Non ti preoccupare, la festa non è ancora iniziata». Mi fece sedere vicino a lei, la sentii parlare con altre suore e solo ora penso abbia avuto uno scambio di vedute per la decisione di mettermi a letto. Un’altra festa importante è stata quella della Pasqua, con la processione e la fiaccolata di noi bambini e la Via Crucis, con la visita dei genitori e dopo la colazione un film su Gesù. Il mio ultimo grande evento, è stato quello della prima Comunione. Mi ricordo i preparativi e le prove nella chiesetta e ancora la scelta del vestito. Qualche giorno prima, ci portarono in uno stanzone grande, pieno di armadi e con un lungo tavolone pieno di vestiti. Le suore ce li fecero provare, uno a uno, fino a che non venne il mio turno. Suor Marzia mi fece vedere un vestito con i pantaloni corti, mentre io li volevo lunghi, e per non metterli strappai i bottoni, ma suor Giovanna li fece ricucire e alla fine li dovetti mettere. Riguardando la foto che mi ritrae il giorno della mia prima Comunione, penso che suor Giovanna avesse ragione. Dopo la Comunione passai nel padiglione dei “grandi”, nel cui dormitorio dormii fino all’ultimo giorno, fino a quando suor Marzia non mi disse che sarei tornato a casa. Ricordo benissimo quel giorno, per me malinconico; non dovetti vestirmi con il grembiulino e provai le stesse emozioni di quel giorno che partii
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Pasquale Di Pietro, primo da sinistra in piedi davanti alla suora
Pasquale Di Pietro con i genitori, la sorella Mariateresa e gli zii
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dal guanciale, ma mi rivolse uno sguardo disperato, denso di significati; io mi chinai e le baciai la fronte. Non la rividi più e di lei non ebbi notizie per molto tempo; durante il mio soggiorno all’Opai scrissi ripetutamente a casa, ma mio padre non rispose mai: nel mio cuore sentivo che le sofferenze terrene di mia madre erano terminate e che ora lei riposava tra gli angeli, tanto che ogni giorno, nelle mie orazioni, la ricordavo con un Requiem. Ma avevo bisogno di una conferma, così, due anni dopo l’ingresso in Opai, nei giorni di Pasqua provai a scrivere alla zia: inviai una cartolina indirizzata semplicemente “Assunta, Castiglione delle Stiviere”, perché non sapevo altro di lei. La missiva arrivò a destinazione, zia mi rispose e così ebbi la certezza: mia mamma Elena Fiore era morta. Gli anni dell’Opai trascorsero sereni: caratterialmente sono una persona positiva, non mi lascio abbattere facilmente e cerco di trarre il meglio da ogni situazione, mostrando sempre impegno e dedizione (anni più tardi, decisi di applicare alla mia vita il motto Vai con chi ne sa e stai con chi ne ha). Così feci anche al preventorio dove conobbi una persona dolcissima, Luisa Bonomi, la mia maestra, che mi dedicò grande attenzione perché io potessi colmare le lacune scolastiche dovute alla salute precaria. Così, quando gli altri bambini riposavano o giocavano, la maestra mi aiutava a studiare e feci progressi incredibili, tanto che durante gli esami di quinta elementare vinsi il primo premio come migliore allievo e ricevetti un libretto di risparmio della Cariplo con un deposito di 100 lire. Mi sentivo in debito con quella donna per quello che aveva fatto per me e negli anni Sessanta tornai a Olgiate Olona, perché volevo incontrarla ed esprimerle tutta la mia gratitudine. In Comune non seppero aiutarmi, così mi rivolsi al parroco e grazie a lui le mie ricerche furono coronate da successo: la mia maestra aveva sposato un mugnaio e si era trasferita in un comune della Valle Olona. Andai a trovarla, perché sentivo il
FACCINCANI LINO Sono felice di poter raccontare la mia esperienza all’Opai, perché per me il periodo trascorso al preventorio di Olgiate Olona ha significato molto e ancora oggi, a distanza di oltre settant’anni, rammento quegli anni con un senso di serenità e di profonda gratitudine per quanto mi fu donato, tanto che mi sento in dovere di restituire un po’ del bene ricevuto, aiutando a mia volta i bambini bisognosi. Era gennaio 1941 quando giunsi nella Casa dei bambini dove mia sorella Norma era arrivata alcuni mesi prima. La nostra era una famiglia molto povera: papà faceva il manovale e, nonostante i suoi sforzi, io e i miei fratelli trascorremmo l’infanzia in abitazioni umide, con condizioni igieniche precarie, tanto che la mia salute ne risentì: i problemi bronco-polmonari erano per me all’ordine del giorno e anche la mia formazione scolastica ne risentì a causa delle numerose assenze da scuola per problemi di salute. Eravamo otto fratelli; nel 1939, quando avevo nove anni, mia madre diede alla luce il nono figlio, Giorgio. Quella gravidanza, purtroppo, le fu fatale: il mio fratellino venne allontanato subito dalla famiglia, perché la mamma non era in condizioni di accudirlo né nutrirlo, e così Giorgio andò a vivere a Castiglione delle Stiviere con zia Assunta, sorella di mamma. Per la mia adorata mamma, che da bambino mi chiamava Chicco d’oro e mi pronosticava un radioso avvenire, gli ultimi giorni di vita furono carichi di sofferenza e tribolazioni, non tanto perché sentiva che la sua esistenza terrena da lì a poco sarebbe terminata, quanto, piuttosto, perché capiva che non avrebbe più potuto prendersi cura dei suoi bambini. Ricordo come fosse oggi l’ultima volta che la vidi, poche ore prima di partire col treno che mi avrebbe condotto a Castellanza e da lì a piedi al preventorio di Olgiate Olona: la mamma non aveva più la forza di alzare il capo
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tenere parole d’amore, ma io a quei tempi volevo farmi missionario in Amazzonia. Alcuni anni dopo un’altra bambina, Lucia, mi rivolse sorrisetti intriganti, e in quei momenti il pensiero della vita religiosa venne abbandonato. L’Opai per me significò molto: quando a quattordici anni uscii dal preventorio ero una persona diversa: il mio fisico si era irrobustito, tanto che grazie alle sapienti cure ricevute non ebbi mai più i problemi polmonari che avevano segnato i primi anni della mia vita; avevo ricevuto un’istruzione, ma soprattutto avevo imparato che la vita aveva molto da insegnarmi e dovevo sempre cercare di migliorarmi. Uscito dal preventorio, tornai a vivere con mio padre e iniziai a fare il carrettiere; a diciannove anni divenni piazzista di macchine per cucire, poi mi buttai su un altro ramo, il nylon e ottenni la privativa per l’Italia dell’elastomero Lycra, il filato sintetico con cui si fabbricano calze, collant e costumi da bagno: e fu così che un bambino dell’Opai conquistò le donne del Bel Paese.
dovere di ringraziarla per quanto aveva fatto per me: lei si stupì, ma fu felice della mia visita. Terminati gli studi, mi fu permesso di rimanere in preventorio come aiutante di cucina: andavo a prendere le patate che erano conservate in un grande locale sotto la bella chiesetta Santi Innocenti; portavo la legna per accendere il fuoco; mescolavo minestre, purè e risotti mentre cuocevano negli enormi pentoloni della cucina. Mi furono affidate anche altre piccole incombenze, come occuparmi della manutenzione delle aiuole; soprattutto, mi facevano piacere gli incarichi che mi assegnava Nello Bellacci, l’economo della direzione amministrativa dell’istituto. Bellacci giungeva ogni giorno all’Opai di Olgiate Olona in bicicletta da Legnano, dove abitava; ogni tanto mi prestava la sua bici chiedendomi di svolgere per lui alcune commissioni a Castellanza, Busto Arsizio, Legnano. Mi sentivo importante, in quanto pur essendo poco più che bambino, l’economo dimostrava di aver fiducia nelle mie capacità: quando suo figlio iniziò la prima elementare, io andavo a prenderlo in bici a scuola e lo riaccompagnavo a casa. Dell’Opai ricordo i bagni nella grande piscina situata nel podere: a otto anni avevo imparato a nuotare mentre mi trovavo in colonia a Pietra Ligure e così, quando il tempo era bello, potevo divertirmi sguazzando in acqua con gli altri bambini. Eravamo tantissimi, oltre cinquecento, e dovevamo fare i turni, ma il divertimento era assicurato! Erano gli anni della guerra, e così ci furono indubbiamente restrizioni anche per noi fanciulli del preventorio, ma non ci mancò mai nulla: la merenda a base di patate lesse e marmellata era un vero lusso per quei tempi… Ero un bel bambino: alto, sicuro, disinvolto; spesso mi scelsero per partecipare a Milano al funerale di qualcuno dei benefattori. Durante il mio soggiorno al preventorio alcune bambine espressero interesse nei miei confronti: una certa Angela quando ero in terza elementare mi scrisse una letterina piena di
Lino Faccincani in una foto scattata a Legnano in occasione di una delle commissioni affidate dall’economo
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GAZZANIGA RITA Nel luglio 1958, a otto anni, sono entrata all’Opai con mia sorella Maria Grazia. Siamo rimaste a Olgiate Olona tre anni. Io ero un po’ più piccola rispetto a mia sorella e quindi il mio ricordo è un po’ offuscato; comunque una cosa è certa: ci avevano curato molto bene, facendoci sentire come a casa nostra. Ricordo in particolare suor Rosaria Rampini e suor Maria che era stata la nostra maestra; poi c’era suor Maria Adelaide [Apostoli, nda] con cui giocavamo spesso a tombola. Mi ricordo alcuni nomi di bambine più grandi di noi: Angela, Luisa, Anna Maria ed Elvira. Il nostro gioco preferito era palla vinta e avevamo imparato a lavorare a maglia e uncinetto. Ricordo che nel salone della ricreazione c’era in un angolo la statua della Madonna e alla sera ci riunivamo intorno per pregare. Rammento i bellissimi Natali trascorsi con don Sandro Cattaneo, le festicciole di Carnevale e i piccoli teatrini. Il mattino di Natale era molto emozionante: suor Rosaria svegliava tutte noi bambine ponendo vicino alle nostre camere un giradischi che suonava musiche natalizie. Noi bambine eravamo entusiaste, anche perché sapevamo che era giorno di visita dei parenti e questo voleva dire regali. Suor Rosaria realizzava uno splendido albero di Natale, che a noi sembrava altissimo. Nel salone si giocava a tombola, a carte e con i giochi che ognuno di noi aveva. Per quanto riguarda il pranzo natalizio non ricordo benissimo ma senz’altro le specialità della cucina erano i risotti, le pastasciutte, gli arrosti con le patatine fritte, tanta verdura, frutta e spesso budino come dolce. Sono rimasta a Olgiate Olona sino a gennaio 1961, mia sorella fino a marzo 1961.
Maria Grazia Gazzaniga, sorella di Rita, la prima a sinistra
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e si mangiava tutti insieme in mensa, nelle gamelle militari di alluminio. Oltre a quello che ci dava l’orto, la nostra dieta non prevedeva molte variazioni: le solite scatolette verdi di cibo (sardine e carne) made in Usa portate dai soldati americani, ma ricordo ancora con l’acquolina in bocca il riso giallo, dolce aromatizzato alla vaniglia. Veramente indimenticabile! E poi c’erano gli scherzi, le risate, le gite a piedi allo stadio, dove i più meritevoli avevano i posti riservati (allora la Pro Patria giocava in serie A), ma la gioia più grande fu la domenica in cui andammo a vedere il grande Torino. Eravamo elettrizzati ed eccitati. Ora, dopo molti anni, ripenso talvolta al tempo trascorso all’Istituto e mi sento fortunato di avercela fatta, di aver avuto da adulto una vita normale e laboriosa, di essere ora in grado di raccontare la mia particolare esperienza, perché altri ne facciano tesoro e si prodighino perché eventi come le guerre non si ripetano più e tutti i bambini di questa generazione e di quelle a venire non debbano più soffrire per le malattie e la separazione dai propri genitori.
GELERA MARIO Le scatolette degli americani, l’odore di minestrone che saliva dalle cucine, le notti in camerate da quaranta ragazzini: così ricordo ancora oggi gli anni trascorsi a Olgiate Olona che hanno rappresentato più di una lezione di vita: sono stati l’esperienza che mi ha impresso i valori dell’amicizia e della vita in comunità. Avevo 11 anni, quando sono entrato. Era il 1946, e il Paese era a pezzi, con le ossa rotte dalla guerra. Non c’erano molte alternative: ero orfano di guerra, oltre che malato, e le autorità sanitarie della mia città, Cremona, avevano detto a mia madre che a Villa Gonzaga avrei potuto beneficiare delle cure necessarie. E così è stato. Ricordo che allora la penicillina non era ancora stata adottata ufficialmente, ma ci veniva somministrata lo stesso, eccezionalmente, fornita dai soldati americani. Ricordo il dolore nel separarmi dalla mamma, che poteva venire a farmi visita solo una volta ogni due mesi: quante lacrime ho versato, da solo, sotto la statua in giardino! Il mio unico conforto erano le suore Amanzia [Manzoni, nda], Giuseppina [Belcastro, nda], Maria Rosa [Buzzi, nda], Ida [Balestrini, nda] che hanno messo tutto il loro cuore e affetto per sollevarmi dalla malinconia della mamma e della mia casa. Iniziavo sì a guarire, ma era stata dura. Poi ho cominciato a sentirmi meglio, tanto che potevo stare all’aria aperta, giocare qualche partita a pallone e talvolta aiutare le suore nell’orto con gli altri ospiti del centro. Assieme al mio fisico, si rafforzava il legame di amicizia con i compagni. Sono entrato a Villa Gonzaga piangendo a lungo, ma al momento di uscire, dopo 3 anni, avevo nostalgia dei miei amici, pur desideroso di tornare alla mia casa di Castelverde. Non avrebbe potuto essere altrimenti: all’Istituto eravamo circa 350, divisi in due padiglioni, uno per i maschi, l’altro per le femmine. Si dormiva in camerata, si andava a scuola
Mario Gelera, sportivo doc, in Opai con un pallone
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GIANELLA ALFREDO Sono nato nel 1947. Ero figlio unico e abitavo a Busto Arsizio. Un medico di Busto, il dottor Crivelli [o forse Crovetti, non ricordo bene?], mi diagnosticò problemi alle coronarie e decise il mio ricovero all’Opai di Olgiate Olona: era il 9 marzo 1954 e restai a Olgiate circa un anno, fino all’Ottobre 1955. Ricordo di aver visto altre volte, durante il soggiorno al Preventorio, il dottor Crivelli che forse veniva a visitare i bambini. Ho solo vaghi ricordi: un bambino che giocava con me a ping pong, le sfide con le biglie di plastica (che recavano all’interno le fotografie dei ciclisti) nel parco su piste fatte con gli aghi dei pini, la suora che fu la mia insegnante in prima elementare, la presenza di molti orfani, i miei genitori che venivano a travarmi ogni fine settimana e mi portavano dei dolci che poi le suore distribuivano a noi bambini. All’Opai ho fatto sia la prima Comunione, sia la Cresima.
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attratta dai meravigliosi scaloni interni alla villa, così come dalla grande scala che dal parco conduceva al podere. Ancora oggi, quando vedo alla televisione grandi scalinate, mi tornano in mente quelle delle mia infanzia a Olgiate. Nel podere c’era una grande piscina dove facevano il bagno i ragazzi più grandi, mentre noi sguazzavamo in piscinette più basse, poste nel parco vicino alla fontana del Mangiagalli: ricordo che alcune volte anche le suore entravano con noi nelle piscine, anche se a causa degli abiti ingombranti capitava che scivolassero, provocando le nostre risa. Un altro ricordo riguarda la sala di rappresentanza che si trovava in quella che era stata la villa dei principi Gonzaga: al suo esterno c’era una bellissima statua di marmo bianco che rappresentava una mamma con in braccio un bimbo. Mentre noi ci recavamo al refettorio, passavamo davanti al salone e sbirciavamo dentro per vedere le armature e le spade che erano situate lungo le pareti. Il medico dell’istituto era il dottor Antonio Delaria: aveva tre figli, Franca, Giorgio e un altro di cui non ricordo il nome [Stefano, nda]. In inverno ci riunivamo a giocare in un grande salone, mentre d’estate stavamo molto tempo all’aria aperta. Rammento che dopo i colloqui con i parenti, ci facevano disinfettare la bocca, probabilmente temendo che potessimo aver contratto qualche virus. Spesso la domenica ci portavano in gita nei paesi vicini o in qualche amena località: rammento in particolare una visita al san Carlone d’Arona, durante la quale ci distribuirono della frutta presa in grandi ceste. Il venerdì santo andavamo in visita ai Sepolcri: Prospiano, Marnate e Gorla Minore. I miei genitori venivano a trovarmi nei giorni di festa e la domenica quando potevano: più spesso vedevo il cugino di mio papà, Isidoro Giorgetti, che era di Olgiate. D’inverno potevamo incontrare i nostri parenti in un grande salone, mentre nel periodo estivo ci era data la possibilità di trascorrere qualche ora con i nostri cari anche
GIORGETTI PIERANGELA Sono arrivata a Olgiate Olona nella primavera 1951. Mi sono trovata subito bene, grazie a una eccezionale disponibilità delle suore nel farci sentire parte di una grande famiglia. Ho subito fatto amicizia con una ragazza di un anno maggiore di me, Giancarla Neritto, con cui sono ancora in contatto: ora si trova in missione in Albania. Ci vediamo quando torna in Italia, una volta all’anno. Insieme con lei andavamo sempre a Erba alla Casa di riposo Cristo Re a far visita a suor Rosaria Rampini, che è stata nostra insegnante all’Opai. Oltre a stare con noi tutto il giorno, dormiva nella nostra camerata, nel suo letto circondato da cortine per un po’ di privacy. Per noi è stata più di una mamma: quante notti in bianco ha passato per accudirci! Ricordo che soffrivo spesso di mal di denti, e molte volte suor Rosaria mi portava con lei nel suo letto per consolarmi. Nella nostra camera c’erano quasi venti letti: salendo le scale del padiglione femminile, si trovava sulla destra. Il mio letto era sotto la finestra. Tutti i nostri indumenti, così come gli oggetti per l’igiene personale, erano contraddistinti da un numero: il mio era il 117. Oltre a suor Rosaria, che considero una seconda mamma, ricordo anche un’altra insegnante, suor Maria Nespoli, e suor Teresita [Merlo, nda], che faceva la guardarobiera: era bassa di statura e si dava un gran da fare per tenere in ordine tutti i nostri abiti. La nostra divisa era bianca e rossa a quadretti (bianca e blu per i maschietti), mentre per le occasioni più importanti indossavamo un gonnellina scozzese con maglietta bianca. Ricordo anche l’arrivo del cappellano, don Sandro, che come me era originario di Gorla Minore: forse proprio perché eravamo compaesani, mi sembrava che per me avesse un occhio di riguardo. Il suo ufficio era nel padiglione centrale, vicino a quello della superiora e al salone d’onore. Sono sempre stata
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nel giardino. Eravamo ben accuditi e nutriti: l’unico ricordo negativo è per un tipo di merenda: pane e marmellata. Sul pane niente da dire, ma odiavo le vaschette di marmellata, e tentavo sempre di fare cambio con qualche mia compagna. Ancora oggi, quando le vedo sugli scaffali del supermercato, provo lo stesso fastidio. Complessivamente devo dire che all’Opai mi sono trovata molto bene, tanto da non aver approvato la scelta dei miei genitori di togliermi dall’Istituto terminate le classi elementari. Avrei voluto stare ancora lì. Per consolarmi mia mamma mi portò spesso, negli anni successivi, a trovare le suore e le mie amiche che erano rimaste a Olgiate.
Pierangela Giorgetti quando era ospite dell’Opai
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Erminia, sorella di mio padre, dovetti ripetere gli anni di studio per l’avviamento commerciale. In Istituto piangevo spesso perché non volevo stare lontano dalla mia famiglia: così le suore mi mandavano da mia sorella Maria Luisa. Una volta sono anche scappata: poiché accompagnavo di frequente le suore che uscivano in paese per andare in merceria a comprare prodotti che servivano per ricamare, avevo imparato la strada e sapevo dove si fermava il pullman che portava a Milano. Così un bel giorno, col mio grembiulino bianco e rosso a quadretti, sono uscita di nascosto dall’Istituto, sono arrivata alla fermata dell’autobus e ho detto all’autista che se mi avesse portato a Milano da mia zia, lei gli avrebbe pagato il biglietto. L’uomo riconobbe la mia divisa e chiamò subito le suore che mi mi minacciarono di mandarmi all’orfanatrofio delle Stelline di Milano se avessi tentato di nuovo di fuggire. Rammento in particolare la mia insegnante delle elementari, Anita Pirovano57, bravissima e molto tenera, non solo con me: quando ero triste mi portava in camera sua e mi dava delle caramelle per cercare di risollevarmi un po’ il morale: aveva una stanzetta all’ultimo piano del padiglione dove abitava anche il direttore sanitario con la sua famiglia. Nel periodo nel quale ci sono stata io, era più un collegio che un sito di riabilitazione per convalescenti tubercolotici: ricordo però che esisteva un padiglione staccato dal nostro nel quale stavano i bambini malati, o convalescenti che noi chiamavamo “i gracili” e portavano un grembiule rosa, diverso dal nostro che era a quadretti rossi e bianchi. Nell’ultimo anno erano stati cambiati con grembiulini a quadrettini bianchi rossi e verdi, ma solo per la festa. Tornare a Olgiate Olona vuole dire rivedere i siti dove sono cresciuta… dove ho pianto ma anche imparato a stare al mondo e a cavarmela da sola. Le suore erano abbastanza tollerabili… tranne qualcuna troppo manesca. Prima di andare a dormire la suora diceva «Viva
REICHEL CARLA Io e mia sorella Maria Luisa siamo entrate nell’Istituto Opera di prevenzione antitubercolare infantile Opai nel febbraio del 1951, perché nostro padre era molto malato, infatti se ne andò il mese successivo. Papà era impresario teatrale e con mia madre Enrica, più giovane di ventun anni e di una bellezza eccezionale, dava spettacoli nei migliori teatri: mi ricordo che tra gli artisti c’erano anche Tino Scotti (noto per il Carosello dei confetti Falqui) e Alberto Rabagliati (che divenne poi una celebrità della radio italiana). Dopo la guerra si occuparono di avanspettacolo. Rammento mia madre che entrava in scena con abiti bellissimi e lunghi guanti e cantava entusiasmando il pubblico. Aveva una bellissima voce e incise anche dei dischi con lo pseudonimo di Erika Reichel. Rammento un disco intitolato Girando il mondo, su cui era riprodotta l’immagine di un cane, un Jack Russell Terrier, intento ad ascoltare i suoni che provengono dalla tromba di un grammofono: era il simbolo della casa editrice La voce del padrone. Mentre ero all’Opai gli zii mi portarono una copia di quel disco, e noi bambine ascoltavamo mia madre cantare pezzi di musica leggera. Mi piaceva soprattutto un pezzo, Paris Paris je t’aime. L’Opai era noto alla mia famiglia perché in precedenza erano già stati ospitati i miei cugini Renato56, Anna (che fece anche film con Macario) e Wanda, che erano rimasti orfani della madre morta proprio di tubercolosi, penso fosse intorno agli anni 1938-1940. Mia sorella è uscita dall’istituto nel 1955 per aiutare mia mamma che nel frattempo si era risposata e aveva avuto una bimba, mentre io ci sono rimasta fino al giugno 1956. All’Opai ho frequentato la scuola elementare dalla seconda alla quinta e poi la prima e la seconda avviamento commerciale. Questa scuola, però, non era parificata e quando sono uscita e sono andata a vivere con la zia
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suore che, più di cinquant’anni fa, ci avevano proibito di salire quelle scale, dicendoci che ai piani superiori c’era ad aspettarci il fantasma di una suora. Ricordo quando misero i vetri nel locale parlatorio, vicino al teatrino: ci fu una vera e propria rivolta di tutti i parenti, che non accettavano di dover vedere i loro bambini dietro un vetro, e così la separazione forzata durò poco. Per quello che riguarda il cibo, ricordo che mi ero messa d’accordo con le altre bambine e ci scambiavamo le pietanze che non ci piacevano: purtroppo, quando c’era qualcosa che mi piaceva tanto, io mangiavo troppo, e così finivo in infermeria perché facevo indigestione. In particolare rammento che mi piaceva moltissimo l’uovo sbattutto col pomodoro. Ricordo anche che non potevamo avanzare il pane. Allora lo nascondavamo e poi lo buttavamo in giardino appena potevamo. Ho fatto la prima Comunione all’Opai il 6 maggio 1951 con un vestito prestato dall’Istituto che mi piaceva per nulla, mentre il 22 maggio 1953 sono stata cresimata dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster (con me c’era anche Tiziana Bonatti).
Gesù» e noi dovevamo rispondere «Viva Gesù nei nostri cuori, grazie suora» e poi potevamo dormire. I primi anni in cui io e mia sorella eravamo all’Opai, durante l’estate potevamo tornare a casa; poi, quando nel 1954 mia madre si risposò e non pagò più la retta, noi fummo considerate a carico del servizio sociale e quindi cessò la nostra possibilità di rientrare in famiglia, anche se per fortuna la zia Erminia, che mi amava più di una figlia, non cessò mai di venirci a trovare. All’Opai ho imparato a lavorare a chiaccherino, a ricamare e a rammendare le calze con l’uovo di legno: tutte cose che mi sono servite nella vita, quando sono stata assunta come vetrinista alla Rinascente e ho lavorato in una boutique dove confezionavo maglioni e camicette con inserti in chiacchierino: in fondo, anch’io ero un’artista come i miei genitori, anche se in un campo diverso. A Pasqua ricordo le campane della chiesa che suonavano a festa, e noi bambini che correvamo ad aprire le uova nel grande salone che noi chiamavamo laboratorio che si trovava al piano terra del padiglione delle femmine, sotto le nostre camerate. Qui facevamo la ricreazione, la merenda e il riposino durante l’inverno, mentre d’estate uscivamo nel grande parco. Di merenda solitamente ci davano pane e miele, oppure pane con i fruttini Zuegg e il cioccolato Italcima prodotto a Milano. Al mattino, invece, per colazione, ci servivano caffelatte con il pane, mentre per i bambini intolleranti al lattosio c’era il brodo. Questo dimostra che c’era una grande attenzione alla cura dei bambini: facevamo spesso delle visite, esami, iniezioni, tutto ciò che il direttore sanitario considerava utile per la nostra salute. Quando a marzo 2014 sono venuta a Olgiate Olona per rivedere i luoghi della mia infanzia, è stato veramente emozionante rientrare in quello che era stato il Preventorio, riprovare emozioni sopite. Salendo il grande scalone che nella ex villa Gonzaga portava ai piani superiori, mi è sembrato di potermi prendere una rivincita nei confronti delle
Carnevale 1953: Carla Reichel è la terza da destra in prima fila
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Carla Reichel in prima fila, la seconda da destra, in una foto di gruppo scattata nel 1956
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RIMOLDI LAURA
ROMANATO OFELIA
Sono nata il 12 marzo 1951. Il 29 marzo 1954 entrai nel Preventorio Opai e vi rimasi fino all’agosto 1958. I miei ricordi sono solo dei flash: una piscina ovale nel parco e un grande stanzone dove dormivamo. Da una porta del dormitorio si accedeva al reparto lattanti. Ricordo che una notte mi svegliai e vidi una persona che cercava di manomettere la porta che dava al reparto dove erano raccolti i bambini più piccoli: al mattino circolava la voce che un bambino era sparito. Non so se il mio ricordo corrisponda a verità: ero molto piccola e magari… Ci accudivano sia delle suore che del personale laico, tra cui un’infermiera che ritrovai alcuni anni dopo all’ospedale di Saronno quando ero ricoverata per un intervento.
Sono arrivata all’Opai quando avevo nove anni: venivo da una famiglia povera ed ero sempre un po’ malaticcia. Durante il ricovero all’Opai venivamo frequentemente sottoposti a visite e controlli medici. Rammento le visite del dentista e il dolore che provavo, perché non c’era anestesia. Le cure però erano molto buone, tant’è che a distanza di più di cinquant’anni quei lavori odontoiatrici resistono ancora benissimo. In primavera e in autunno ci praticavano iniezioni ricostituenti: ogni volta che vedevo il dottore temevo che volesse farmene una! Dopo il ricovero ho rivisto mia mamma per la prima volta dopo un anno: più spesso venivano a trovarmi mio padre o mio fratello. Ricordo un episodio simpatico che vide coinvolta suor Teresa, una suora un po’ grassottella che ci accudiva: un giorno, mentre stava cercando di metterci bene in fila, si è girata verso di noi per sistemarci, e nel contempo continuava a camminare all’indietro finché... è caduta in un secchio! Quanto ridere abbiamo fatto. Se non volevamo mangiare, le suore ci imboccavano; per evitare ciò, mi mettevo d’accordo con una mia compagna che non amava il minestrone: io mangiavo la sua scodella di minestra, e lei prendeva il mio uovo sbattuto, che a me non piaceva. Per il resto sono stata trattata bene: di merenda ci davano cioccolata, miele, marmellata col pane o frutta. Nel parco c’erano i miei giochi preferiti: due altalene poste vicino a delle vasche lunghe, ovali, simili a piccole piscine, non molto profonde. Nei pressi delle altalene c’era anche l’asta dell’alzabandiera: ogni giorno, al mattino e alla sera, ci mettevano tutti in fila per assistere alla cerimonia. Andavo spesso nella chiesetta dell’istituto, dove aiutavo a mettere in ordine la sacrestia o a dare la cera.
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SANTIN NADIA Sono nata il 5 novembre 1960. Nel maggio 1962 sono stata ricoverata all’Ospedale del Circolo di Varese dove mi è stato riscontrato un focolaio al polmone destro. Durante il ricovero ho contratto da altri bambini la varicella, il morbillo e la pertosse: per questi motivi ero molto debilitata fisicamente, tanto che avevo addirittura smesso di camminare. Dopodichè sono stata trasferita all’Opai fino ai 3 anni. Mia madre ricorda che, nonostante le difficoltà, lei e mio padre venivano a farmi visita tutte le settimane (alcuni bambini invece rimanevano da soli) e il personale era molto gentile. Sono uscita nel dicembre 1963. La mamma è grata ancora oggi alla struttura, sia per come venivamo trattati noi bambini, sia per come il personale dell’Opai si rapportava con lei ogni volta che chiedeva notizie sulla mia salute.
La piccola Nadia Santin in Opai
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Sant’Antonio: sette pertiche coltivate a ortaggi, patate, grano e segale. Così lei mi preparava, coi prodotti della terra, una pietanza che chiamavamo pulti, fatta di verdure mescolate con polenta di mais. Non potevo certo sperare di mangiare riso o pasta, e tantomeno pane bianco, come invece facevano i bambini ricoverati al Preventorio. Furono anni difficili, sotto molti punti di vista, ma la possibilità di frequentare la scuola di avviamento all’Opai fu per me motivo di autentica gioia. All’interno dell’Opai sembrava non si avvertissero le difficoltà del momento. I bambini potevano contare su un’alimentazione ricca ed equilibrata, che io invidiavo. Per fortuna al pomeriggio c’era una religiosa, la buona suor Ida, che dava anche a me come agli altri bambini un bel panino bianco farcito con una deliziosa marmellata: un lusso per quei tempi. Ho frequentato la scuola secondaria di avviamento professionale a tipo industriale all’Opai sino al 1945, e quell’esperienza mi ha profondamente arricchita, contribuendo in maniera determinante sia alla mia crescita culturale che morale. Ricordo ancora come se fosse oggi i miei insegnanti, soprattutto il buon don Guido Mapelli, che oltre a essere il cappellano dell’Opai insegnava anche lettere, storia e geografia. Era una persona meravigliosa, un uomo di grandissima cultura, umanità e dolcezza. Rammento gli occhiali spessi e scuri che indossava: diceva che i suoi occhi si erano rovinati, perché amava andare a sciare, e il riflesso della neve gli aveva causato problemi di visione. Ogni tanto, mentre faceva lezione, andava in biblioteca e tornava con un grosso volume di filosofia, di cui ci leggeva qualche pagina. Ricordo anche la madre superiora, donna esile ma bravissima, che ci insegnava economia domestica. Quando i maschi si recavano al podere per le lezioni di agraria, noi ragazze andavamo in cucina per imparare a cucinare, capire i tempi di cottura dei cibi, e così via, oppure la superiora ci portava nella sala dedicata al ricamo e al cucito. La mia casa,
SAPORITI TERESA Il mio caso è un po’ particolare, in quanto ho vissuto l’esperienza dell’Opai di Olgiate Olona, paese in cui ancora abito, ma da studentessa esterna. Terminate le scuole elementari, la mia famiglia desiderava che proseguissi negli studi, ma per farlo sarei dovuta andare in collegio a Gorla Minore [il Collegio Gonzaga aperto a Olgiate Olona si trasferì nel 1912 nella nuova sede a Gorla Minore, nda] oppure frequentare le scuole pubbliche a Busto Arsizio. Mio padre, però, preferiva che non mi spostassi troppo da casa e così andammo a parlare col signor Nello Bellacci, l’economo dell’Opai, che accolse la nostra richiesta di iscrizione alla scuola del Preventorio, e così ebbe inizio la mia esperienza all’interno delle mura dell’Opai di Olgiate Olona, un’esperienza che ancora oggi, a distanza di oltre settant’anni, ricordo come una delle più belle e gratificanti della mia vita. Nell’ex villa dei principi Gonzaga tutto era ordinato, pulito, brillante, direi, o almeno così appariva ai miei occhi. Ogni volta che varcavo il cancello mi sembrava di entrare in un altro mondo, un mondo quasi fatato. Era il 1941 e il Paese era in guerra. Non mi vergogno a dire che si faceva fatica a trovare qualcosa da mangiare tutti i giorni: odiavo il pane nero che potevamo acquistare con la tessera annonaria. Mio padre aveva contratto una malattia della pelle lavorando nel reparto stamperia a mano della Bustese a causa di una intossicazione, e quindi gli era stato vietato dal medico di lavorare in ambienti chiusi. L’azienda aveva così offerto un posto di lavoro a mia madre, una donna fragile e di salute abbastanza cagionevole, che poco dopo si ammalò e fu ricoverata per un problema polmonare prima a Busto Arsizio, poi ad Angera e infine a Cuasso Al Monte, dove guarì definitivamente. Il cibo era poco: fortunatamente la mia nonna paterna possedeva un pezzo di terra vicino alla chiesa
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impedendomi di andare a scuola. Ero talmente disperata che un signore ebbe compassione e mi accompagnò fino al cancello dell’Opai. Sono veramente grata ai miei genitori che, a prezzo di grandi sacrifici, riuscirono a mettere da parte i soldi per farmi frequentare la scuola nel Preventorio di Olgiate Olona: ricordo ancora il papà che una volta al mese mi consegnava la busta con i soldi e io li portavo all’economo Bellacci. Quando ho terminato la scuola, per un po’ di tempo sono andata a lavorare nella tipografia Saita di Busto Arsizio, poi vinsi un concorso alle Poste58. Proprio in ragione di questo mio lavoro, anni dopo la mia vita si intrecciò di nuovo con quella dell’Opai, quando conobbi e diventai amica di Luigia Randolfini59, impiegata come ragioniera all’Opai che noi chiamavamo Gigina. L’Opai aveva una casella postale e lei veniva nel mio ufficio a ritirare la posta. Era una grande sportiva e amava moltissimo la montagna. Anche mia cognata, Mariuccia Gilardi, ebbe un’esperienza, seppure diversa, all’Opai: dal 1969 fino alla chiusura, si recò all’Opai come volontaria per aiutare ad accudire i bambini Down, e quando diminuì il numero di suore in servizio al Preventorio, mise la sua abilità di sarta al servizio di bambini, confezionando per loro capi di abbigliamento. Le suore e le insegnanti avevano verso di lei grande affetto e stima, come dimostrano i numerosi biglietti augurali e lettere che le inviavano e che ha conservato in memoria di quegli anni. Così, per esempio, le scriveva suor Eufemia il 24 giugno 1971: «Quanto mi è rimasta impressa la sua disponibilità generosa e disinteressata! In un mondo in cui domina l’egoismo più sfacciato e si ostenta la carità brillante […] solo per acquistarne gloria, lei, cara signora Mariuccia, è tra le poche persone che danno spontaneamente, rimettendoci anche di borsellino, senza nulla pretendere, riserbandosi la gioia di aver fatto del bene.»
ancora oggi, è arricchita dai lavoretti che facevo in quegli anni. In alcune occasioni, invece, scendevamo al podere, dove oggi c’è la pista di atletica, per le lezioni di agraria. C’era un bravo insegnante di educazione fisica, il professor Novelletti che ci preparava così da poter eseguire saggi ginnici nel bel parco. A proposito delle lezioni di ginnastica, ricordo che ci davano una maglietta da indossare, e le suore ci facevano usare una spilla da balia per tenere fermi i lembi della gonna, così che durante gli esercizi non mostrassimo le gambe (allora era considerato scandaloso). La nostra insegnante di musica era la professoressa Signorelli, una donna un po’ avanti con gli anni (ogni tanto la scherzavamo di nascosto, perché portava la dentiera) ma era molto brava, e io ricordo che amavo molto le lezioni di canto, ma anche di teoria e solfeggio. Nelle lezioni di disegno, spesso, andavamo nel parco alla ricerca di qualche fiore che poi dovevamo riprodurre con un nostro disegno. L’insegnante di matematica era una donna robusta, molto severa, che veniva da Gallarate. Rammento benissimo il direttore sanitario dottor Antonio Delaria, che sottoponeva anche me a controlli e visite, pur essendo una “esterna”: aveva sempre un’attenzione grandissima per la salute dei bambini. C’era anche un’altra ragazza di Olgiate Olona, Bruna De Dionigi, che come me entrava all’Opai per frequentare la scuola professionale. Ricordo anche i nomi di altre tre ragazze: Floriana, una ragazza molto bella, Roscio (non ricordo il nome), un po’ rotondetta e Dossena, alta, forse di Milano. Ogni classe era formata da circa venti alunni: maschi e femmine erano separati. Per far capire quanto amassi frequentare la scuola dell’Opai, posso raccontare un episodio occorso il 25 aprile 1945: tutto il paese era in subbuglio, molte strade erano sbarrate, ovunque agitazione di uomini e ragazzi con sulle spalle il fazzoletto azzurro (badogliani) e altri col fazzoletto rosso (garibaldini). Alcuni mi fermarono,
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Il cappellano dell’Opai ricordato da Teresina Saporiti: don Guido Mapelli qui ritratto il 28 giugno 1938, in occasione del venticinquesimo di sacerdozio; alla sua sinistra la sua mamma e il dottor Antonio Delaria; alla sua destra il senatore Stefano Cavazzoni
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COLOSI SUOR CHERUBINA (al secolo Maria)
CREPALDI SUOR SILVINA (al secolo Cesira)
Fui all’Opai per circa due anni: 1951-1953. Fui destinata dapprima al “pianterreno dell’Opera” per diverse mansioni, poi al piano superiore ove si trovava l’asilo. Lì aiutavo in vari modi nell’assistenza a quei piccoli degenti per malattie esantematiche e anche in isolamento. In particolare, ricordo i due fratellini Merici (fratellino e sorellina) a cui mi affezionai molto. Ricordo pure la visita che ci fece il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster: una vera gioia in quella visita di una persona che tutti ritenevano già “santa”. Il cappellano era don Sandro. Posso affermare che in quegli anni si fece sempre più chiara la mia vocazione e decisi quindi di entrare tra le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida che erano presenti in quell’Opera tanto benemerita e necessaria! Mi permetto segnalare a questo proposito una frase della nostra recente Consorella beata (2004), suor Nemesia Giulia Valle (valdostana) che mi tengo nel cuore: «È bello essere eroici, ma è meglio essere buoni sempre». Questo lo collego alle Consorelle e a tante persone generose che si donano per il bene dell’altro nella quotidianità. Ricordo pure che in quell’anno vi furono le elezioni politiche e io votai per la prima volta. Piccole cose... non so se potranno essere utili. Ringrazio i curatori di questo volume per la passione ben determinata di ricordare il passato (ancora presente) facendone testimonianza preziosa per quanti verranno dopo di noi. Quanto servono i buoni esempi! Auguri per il centenario di fondazione!
Sono nata ad Ariano nel Polesine nel febbraio 1924: ho prestato servizio all’Opai di Olgiate Olona dal settembre 1968 al settembre 1972. Dei quattro anni trascorsi all’Opai ricordo in particolare che ero addetta al “nidino” dei piccoli62, i cui lettini con spondine erano stati regalati dalla direzione di Milano. C’erano le pappine da fare e tutto il resto per accudire bene quei piccoli... Il lavoro era molto ed ero anche a contatto con i medici. Ero coadiuvata però da bravo personale. Mi ricordo che questi piccoli si portavano nella sala dei raggi per le necessarie radiografie. Se c’era qualcosa di negativo si mandavano all’Ospedale di Busto Arsizio. Ricordo pure che i genitori venivano a trovare i loro piccoli la domenica... o in feste varie. Mi piaceva molto questo servizio ai più piccoli perché mi faceva sentire una vera suora della Carità. Ricordo anche che i ragazzini più grandi erano molto vivaci e le mie consorelle facevano fatica a mantenere la disciplina. Io li vedevo solo quando erano in infermeria.
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DEL CURTO SUOR MARIA ANGELICA (al secolo Delia) Sono nata a Piuro il 27 febbraio 1943. Arrivai all’Opai di Olgiate Olona nel 1961 e vi rimasi fino al 1966, prestando servizio inizialmente nel nidino, poi per due anni al nido; successivamente fui trasferita in servizio presso il refettorio femminile e infine nel reparto accettazione. Anche mia sorella Gabriella aveva prestato servizio nel Preventorio, dal 1958 al 1961. Il mio ricordo più caro è quello dei cari bambini ai quali ho dato proprio tutto ciò che la mia giovane età mi consentiva di offrire. Amavo molto i bambini e così mi trovai subito a mio agio. Tengo ancora nel cuore l’affetto che ho ricevuto da quei bambini, che riuscirono a rendermi molto felice. Nel marzo 1966 entrai fra le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida, che ebbi modo di conoscere proprio durante il mio periodo di servizio all’Opai: la loro capacità di donarsi, soprattutto nei confronti dei bambini malati, mi colpì subito e facilitò la mia vocazione; già avvertivo il bisogno di donarmi al Signore. Mi è caro pensare che diverse di noi, inservienti nella Casa dei Bambini di Olgiate Olona, abbiano abbracciato la vita religiosa proprio come suore della Carità. Si vede che il Signore ha guardato con occhi di benevolenza speciale le diverse giovani che si mettevano al servizio dei suoi cari piccoli malati, per chiamarle a seguirLo più da vicino. L’Opai fu veramente un’opera benemerita, e sono contenta che si faccia qualcosa per ricordare l’impegno di tante persone al servizio dei più deboli e bisognosi.
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severo, ma nello stesso tempo materno; ci insegnava ad amare lo studio, a impegnarci in tutto quello che facevamo, a essere ordinate e a rispettarci vicendevolmente. Ricordo i grandi cameroni dove prima di andare a dormire si recitava insieme con la suora della camerata le preghiere della buona notte, come segno di ringraziamento al buon Dio per tutto il bene ricevuto durante la giornata. Pregavamo anche per i nostri genitori e per tutti i benefattori dell’Istituto. Mi è rimasto vivo il ricordo dei grandi viali alberati con le vasche basse che nel periodo estivo, quando faceva molto caldo, servivano per fare il bagno. Con Pierangela, nel 2009, abbiamo visitato l’ex preventorio: mi hanno colpito i grandi spazi verdi e la fontana che si trova lungo il viale principale. Mi sono chiesta: è veramente questo il luogo dove ho vissuto da bambina e dove mi sono stati trasmessi i veri valori che cerco ancora di vivere? Vivo ora la mia vita religiosa per volere di Dio in una terra di missione in Albania nella città di Fier. Questa terra per certi aspetti è ancora povera ma non per proprio volere: a mano a mano sta crescendo per acquistare la vera libertà, l’autonomia e il senso religioso dopo aver subito per cinquant’anni la dittatura. Spesso mi sono di conforto e di aiuto le parole del Vangelo di Matteo cap. 18 v 3.6: «E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me Gesù». Ho anch’io sperimentato fin da piccola quello che dice Gesù e non dimentico il bene ricevuto da persone con un cuore grande e generoso che hanno segnato la mia vita. Tocca a me, oggi, continuare ad amare i più poveri, ad accoglierli con un cuore grande e amorevole. Il mio grazie perciò va soprattutto alle mie amate suore vive e defunte, a tutto il personale che ha dato il meglio di sè per rendere sereni noi piccoli che abbiamo vissuto all’Opai. Grazie anche a coloro che da lassù ci guardano, e a tutti coloro che continuano a seminare nella gioia e nel bene. Dio benedica tutti.
NERITO SUOR PAOLA FAUSTINA (al secolo Giancarla) Mi chiamo Giancarla Nerito al secolo; sono nativa di Oggiona con Santo Stefano, e appartengo alla Congregazione delle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione d’Ivrea. Il mio nome da religiosa è suor Paola Faustina, nomi dei miei genitori a me tanto cari. Da bambina, insieme con le mie sorelle Maria e Rosanna, sono stata accolta benevolmente e amata dalle suore e da tutto il personale dell’Opai negli anni 1951-1953. È forte l’emozione, ma sono ben felice di poter descrivere i ricordi, rimasti per tanti anni vaghi nel mio cuore e nella mia mente. Tra le compagne che hanno vissuto con me l’esperienza dell’Opai ricordo soprattutto Pierangela Giorgetti: tra noi ancora oggi profonda amicizia e affetto. Col passare degli anni ci siamo perse di vista, ma non è mai venuto meno il ricordo e il bene che entrambe nutrivamo; la vera amicizia sorta a Olgiate Olona non si è mai spenta, tant’è vero che si è data da fare per rintracciarmi. Ci siamo date appuntamento nell’estate 1990: è stato un incontro meraviglioso, commovente e bello. I ricordi della nostra infanzia sono subito emersi nella nostra mente come se fossimo tornate bambine. Tanto è stato il bene che abbiamo ricevuto dalle suore e dal personale del collegio: mi è rimasto nel cuore soprattutto il ricordo di alcune suore. Come non ricordare la benevolenza, la dolcezza, il garbo materno di suor Rosaria Rampini? Era una suora esemplare, sempre sorridente: amava tutte noi, ed essendo piccole aveva una predilezione per quelle gracili, per quelle bisognose di affetto e di attenzioni particolari. È stata per me una mamma premurosa e pronta a grandi sacrifici. Non si risparmiava in nulla, era molto attenta in tutto pur di vederci serene, felici e contente. Ricordo anche suor Maria Nespoli che è stata la nostra insegnante: il suo aspetto era
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NESPOLI SUOR MARIA (al secolo Isolina)
PALEARI SUOR MARIA PIERA (al secolo Carla)
Sono nata ad Arosio il 6 gennaio 1921 e ho conseguito il diploma magistrale. Sono stata presente all’Opai di Olgiate Olona dal 1° giugno 1949 al 30 settembre 1965, prestando la mia opera come insegnante elementare, accanto a me altre insegnanti sia laiche che religiose, tra cui ricordo: Pirovano Anita e Bonomi Luisa, nonché le consorelle suor Antonina Giudici63 e suor Maria Cristina Corbetta64. Soprattutto nei primi anni, ricordo che l’allora direttore sanitario, dottor Antonio Delaria, considerava la cura fisica dei bambini predominante rispetto al loro sviluppo formativo, tanto che era solito ripetere «Meglio un asino vivo che un dottore morto». Non era raro che, durante le lezioni, il medico entrasse per portare i bambini nel parco per una passeggiata all’aria aperta o per le cure elioterapiche. Col trascorrere degli anni, però, anche il dottor Delaria comprese l’importanza di coniugare la cura del corpo con la cura della mente. Nell’ambito delle cure mediche, veniva prestata grande attenzione all’alimentazione. Tutte le domeniche i bambini venivano portati in passeggiata nei paesi limitrofi a Olgiate: ogni tanto erano previste gite anche sui laghi o in altre località come premio per i bambini più meritevoli. I bambini erano estremamente bisognosi di affetto e di attenzione. Nell’istituto erano presenti mediamente trentacinque suore, coadiuvate da personale laico che si occupava sia dell’assistenza ai bambini che dell’insegnamento. Col passare degli anni, iniziarono ad arrivare in Istituto anche bambini con problemi caratteriali, per lo più provenienti da famiglie in situazioni di disagio, nonché fanciulle gracili, bisognose di tranquillità e riposo.
Sono nata a Milano nel 1935. In giovane età, dall’ottobre 1961 al febbraio 1967, ho fatto parte del personale per l’assistenza ai bambini nell’Istituto di prevenzione Opai di Olgiate Olona. La mia attività la svolgevo prevalentemente nel reparto scuola materna affiancata da suor Giovanna, responsabile della scuola. La giornata era piena, il tempo e le attenzioni per i bimbi erano continui, dalla sveglia quando si dovevano accudire, vestire specie i più piccini, a tutto l’arco della giornata, rincuorarli a turno quando la nostalgia di casa e della mamma aveva il sopravvento sui giochi, farne le veci, spronandoli al divertimento con molta cautela e tanta convinzione. Controllare attentamente la loro salute e qualche inevitabile malessere che veniva subito segnalato all’infermeria che interveniva prontamente con adeguati accorgimenti, assicurarsi che il riposo pomeridiano venisse fatto da tutti e non fosse occasione di gioco, controllare che i pasti fossero regolarmente consumati anche dai più piccini e dai più delicati di salute, il tutto con tanto amorevole incoraggiamento. I ricordi sono ancora ben presenti nella mia mente, comprese le non poche soddisfazioni che mi davano quando si aggrappavano alla veste chiedendo un momento di coccole. Ho fatto per un periodo anche una breve esperienza al nido che mi ha ancor più arricchita quanto ad amore e dono verso gli altri. Purtroppo non ho foto che testimonino visivamente di questa mia esperienza; mi basta, però, il ricordo che mi hanno lasciato quegli anni, che resterà sempre nei miei pensieri.
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PASINI SUOR MARIA VINCENZA (al secolo Margherita) Ero la maggiore di nove fratelli e per poter dare un aiuto in famiglia dovetti cercare un lavoro. Fu una mia compaesana a parlarmi dell’Opai di Olgiate Olona, dove aveva lavorato: venni a Olgiate e iniziai la mia attività nel 1949 come inserviente, occupandomi soprattutto delle ragazze più grandi. Col trascorrere degli anni scoprii la mia vocazione e così entrai nell’ordine delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida. Ho dei bellissimi ricordi. Rammento suor Natalina65, che insegnava ai bambini della scuola materna, suor Valeria66 in cucina e suor Gervasina67 che era entrata all’Opai di Olgiate già nel lontano 1919, in occasione dell’apertura. Era insegnante d’asilo, ma negli ultimi anni, a causa dell’età, si occupava del guardaroba al posto di suor Teresita68 (Rosina) Merlo, deceduta nel dicembre 1964, che dal febbraio 1938 era stata anche responsabile del reparto femminile. Suor Gervasina è morta a Erba nella casa di riposo “Cristo Re” il 31 dicembre 1981. Suor Teresita è invece sepolta a Olgiate Olona nella tomba della famiglia Colombo.
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ragazze, ma io le amavo come se lo fossero state. Durante l’anno, insieme con loro, facevamo anche dei piccoli fioretti, delle rinunce, per approntare delle sorpresine da portare in dono ai bambini dell’asilo del paese quando andavamo a trovarli. Uscivamo spesso a fare passeggiate: quanto camminavamo! Al santuario della Madonna dell’albero a Prospiano di Gorla Minore, nei paesi vicini, addirittura a Legnano. A piedi, sempre a piedi. Ma non ci pesava. Tornavamo esauste ma felici, anche se per me era abbastanza stressante, di solito da sola con almeno 40 bambine al seguito. E quando qualcuna delle più piccole era esausta, le prendevamo in braccio. Non avevamo nulla, ma paradossalmente avevamo tutto. La domenica ci recavamo spesso ai poderi Morganti e Restelli, dove ci attendevano interessanti lezioni di botanica, o le bambine potevano osservare e accarezzare gli animali delle stalle, anche se a me facevano un po’ paura. Quanto mi mancano quei giorni, le merende nel parco, il Rosario all’imbrunire tra i viali di carpino, in attesa che suonasse la campanella della cena! E poi tutte a letto dopo un’attenta toilette. Era prestata grande attenzione all’igiene, e dal punto di vista nutrizionale non mancava nulla ai bimbi dell’Opai. Eravamo molto attenti anche alla loro educazione, a cui io stessa ho atteso per circa vent’anni, aiutata da una ventina di consorelle e da alcune insegnanti laiche. I bimbi erano suddivisi in base all’età: c’erano quelli del nidino, da zero a due anni, poi quelli del Nido fino ai tre anni, a seguire la scuola materna che accoglieva bimbi fino ai cinque anni, le cinque classi elementari e le tre classi di avviamento. Quanto bene volevamo a quelle bambine! Cercavamo in ogni modo di non far pesare la lontananza dalla famiglia o la carenza d’affetto. Rammento che quando arrivava una nuova bimba da ricoverare, se mi accorgevo che era affetta da pidocchi, per evitare di farle subire il trauma del taglio dei capelli la prendevo da parte, le lavavo ripetutamente la testa applicando
RAMPINI SUOR ROSARIA (al secolo Maria) Suor Rosaria Rampini (1928-2009), di Pogliano Milanese, entrò tra le Suore della Carità dopo aver frequentato a Milano corsi di taglio e cucito, aver lavorato in una sartoria a Parabiago e conseguito l’abilitazione come infermiera. Di seguito la sua testimonianza resa a Erba nell’ottobre 2009, pochi giorni prima di morire. Se penso all’Opai penso alle “mie” bambine: Pierangela Giorgetti, che ogni anno viene a trovarmi con una sua amica conosciuta all’Opai e che ora si trova in Albania come religiosa, Vincenzina Mombelli, che abita a Segrate, Angela Di Marzo che vive nel milanese, Emma Bianchini da Fidenza, anche Rita, di cui purtroppo non ricordo il nome, originaria di Legnano e poi Angela Nava di Bollate che era bravissima a fare il chiacchierino. Mi volevano tutte un gran bene: alcune mi dicevano che ero come la loro mamma, povere piccole, spesso allontanate da famiglie problematiche o provenienti da situazioni di estremo disagio. Cercavano spesso il contatto fisico, sempre bisognose di affetto, di una buona parola, di qualcuno che potesse dimostrare di amarle. Ricordo che ogni anno, per Natale, mi piaceva fare loro, a ciascuna di loro, un piccolo pensiero: a quei lavoretti simbolo del mio affetto per loro mi dedicavo tutto l’anno, lavorando di nascosto nei ritagli di tempo: ricordo anche che chiedevo al Cappellano, don Sandro, di procurare per il Santo Natale un regalo collettivo, di cui tutti potessero fruire. E don Sandro, il buon don Sandro, ci accontentava sempre: una volta ci portò una macchina per il cinematografo. Mi piaceva tanto raccontare loro delle storie: le riunivo intorno a me, nel bel parco dell’Opai o in uno dei saloni e leggevo loro dei bei libri. Non erano figlie del mio sangue, queste
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io entravo per ultima in aula e chiudevo immediatamente la porta a chiave e nel frattempo i piccoli erano già tutti fuori dalla finestra. Un giorno, mentre li richiamavo, un mattone, lanciato da Giorgio Lorusso, non so se intenzionalmente, mi colpì dietro l’orecchio destro: rimasi con quel dolore fino alle ore 16.30, ora in cui terminavano le lezioni e un gran mal di testa mi impedì l’indomani di andare a scuola; quando mia mamma telefonò alla capogruppo, questa le rispose: «Non può stare a casa, non ne ha diritto. Il giorno di malattia c’è solo dopo tre mesi di servizio e lei non li ha ancora fatti!». Quanto lavoro in quel periodo! A casa preparavo per ognuno schede di esercitazioni che l’indomani, in un attimo eseguivano e poi… Era duro gestire il tempo scolastico… Dopo Natale, il miracolo: c’era più tranquillità, non chiudevo più la porta a chiave, era tutto più “normale”. Quante lacrime ho versato… piangevo ogni mattina prima di andare a scuola, non so cosa avrei dato per poter rinunciare a quell’incarico… Ma non potevo, avrei perso punti in graduatoria: sono stati comunque anni che mi hanno formato e che hanno inciso su di me come persona, insegnante, educatrice. Ricordo comunque Brunella: con il direttore scolastico Renato Corazzini avevamo proposto l’inserimento alla scuola Contardo Ferrini nella classe di un’insegnante che ora è anziana e che allora non l’aveva ritenuta idonea. Il giorno della sua prima Comunione era venuta a casa con me, era rimasta a pranzo e aveva goduto un calore familiare; a sorpresa era arrivata da Milano all’Opai la sua mamma e non l’aveva trovata; venendo a sapere che era a casa della sua maestra (io), non ha reclamato, anzi ha apprezzato che non fosse rimasta da sola nel padiglione. Conclusa questa esperienza, iniziai a insegnare nella cosiddetta scuola “normale”.
COLOMBO MARIAGRAZIA Sono Mariagrazia Colombo, un tempo residente in via Angelo Crespi a Olgiate Olona e dagli anni Ottanta cittadina di Bormio. Come testimonia la prima busta paga, ho iniziato il mio lavoro in Opai nell’ottobre 1969 come insegnante specializzata all’insegnamento dei bambini con insufficienza mentale. Ricordo quando sono stata convocata da Vittorio Lazzarotto per conoscere l’esito della domanda presentata precedentemente: ero seduta di fronte a lui, ero trepidante, stavo vivendo un momento molto importante per un qualsiasi giovane. Sarei stata assunta? Avrei avuto l’occasione del mio primo lavoro? Iniziai la mia esperienza nell’ultimo padiglione con altre colleghe: Daniela Castiglioni di Castellanza, Miriam Valsecchi pure di Castellanza, Lina Valente e Bianca che provenendo da Milano e da Cremona erano interne e dormivano nel dormitorio con i bambini. Oltre l’insegnamento, accudivamo i bambini, tutti Down, mentre mangiavano e alla sera li lavavamo prima che andassero a dormire: questo per 11 mesi, avendo libero il mese di agosto. Avevo studiato che difficilmente ci sono due Down nella stessa famiglia: in realtà con noi c’erano due fratellini di Milano, Rino e Lella. Gli ospiti avevano da 7 a 14 anni: ricordo un simpaticissimo Maurizio Perego di Villasanta, Franco Zoia di Caronno Pertusella, un ragazzino di Oleggio, altri del Varesotto. Come responsabile sanitaria c’era Delfina, infermiera che aveva lavorato nel Cantone di Glarus, in Svizzera, e che è stata con noi tutto il periodo. Dopo due anni in questo padiglione, sono passata in una prima elementare con pochi alunni “difficili”, sempre ospiti dell’Opai, tutti del Milanese. Sapevo che i bambini avevano grossi problemi familiari che avevano inciso sulla loro giovane personalità, ma erano piccoli… erano pochi… Dall’assunzione fino a Natale è stato difficilissimo:
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Mariagrazia Colombo in Opai con alcuni bambini Down
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dare direzione precisa al proprio operare, educare senza affetto significa non accorgersi che il bambino è una persona, prima di essere uno scolaro. Non ho mai dimenticato questa lezione di don Quarta per tutto il tempo in cui ho operato nella scuola. Entrare nell’aula del maestro Spagnoli era come salire sul palco di un’ orchestra, dove il direttore era il maestro Spagnoli. Quaranta bambini in silenzio assoluto. Mai vista una cosa del genere! I ragazzi lavoravano sui loro quaderni a righe o a quadretti con attenzione e di tanto in tanto andavano dal loro maestro a chiedere se si trovavano in difficoltà. Poi quando il maestro Spagnoli si metteva al piano e distribuiva le parti ai ragazzi era un vero spettacolo. Ricordo che ammiravo estasiato le prove di un’operetta, che parlava di un gruppo di ragazzi olandesi, che non ricordo bene - venivano a capo felicemente di una situazione difficile. Ma, non so perché, mi rimane ancora in mente questo ritornello: «Vollendam. Cuffiette e zoccoli. Vollendam, bimbi che s’amano. Bocche di melarosa, sorrido. S’incidono, fanno ciak, ciak, ciak». Vedendo questi bambini, che avevano famiglie tanto problematiche alle loro spalle, che cantavano o accompagnavano con qualche semplice strumento le arie di questa operetta, non finivo di stupirmi di queste ore di serenità con cui il loro maestro era riuscito a riempire i loro cuori. Ah, l’Opai !
CORAZZINI RENATO Nell’ottobre 1970 fui assegnato alla Direzione Didattica di Castellanza, che comprendeva anche le scuole dell’Opai di Olgiate Olona. Ero giovane allora, avevo trent’anni e come tutti i giovani pensavo di fare qualcosa di nuovo nella scuola. Per me che avevo esperienza soltanto di scuole “normali”, fu davvero uno shock. Un nuovo scenario mi si apriva davanti: il mondo “Down” e il mondo delle cosidette “scuole differenziali”. Non avevo mai visto un bambino Down e la prima volta che entrai in una classe dove una maestra operava con questi bimbi fu per me come un violento pugno allo stomaco. Rimasi quasi stordito. Forse la maestra se ne accorse e mi riportò alla realtà. Quei piccoli che senza imbarazzo venivano accanto a me, mi battevano una mano sulla spalla, mi dicevano «Ciao» erano per me una vera sorpresa. Nei loro occhi c’era una gioia e un’innocenza che richiedeva rispetto, silenzio e ascolto. Non avevo niente da insegnare, dovevo solo imparare. Per fortuna c’era un gruppo di brave maestre, che sapevano cavarsela da sole. Le classi differenziali erano formate da bambini che avevano difficili situazioni famigliari: carcere, alcolismo, violenza domestica, separazione, abbandono. Questi bambini vivevano tutta la giornata all’Opai, come in un collegio. Le loro famiglie provenivano in gran parte da varie zone della Lombardia. Ebbi la fortuna di conoscere due figure di educatori di eccezionale livello, che veramente erano punti di riferimento sicuri per questi ragazzi: il maestro Natale Spagnoli e lo psicologo don Gaetano Quarta. Con don Quarta imparai a conoscere la duplice polarità che deve sostenere ogni educatore: dare ad ogni bambino sicurezza e affetto. Educare senza dare sicurezza significa non
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CORSINI PIERA Sono nata nel 1947. Nel giugno 1962 ho preso servizio all’Opai, che la mia famiglia conosceva già, perché mia sorella Mariuccia aveva lavorato al Preventorio olgiatese per alcuni anni, su suggerimento di don Sandro Cattaneo, che avevamo conosciuto durante un suo periodo di soggiorno a Mura, nostro paese natale. In un primo periodo prestavo assistenza ai bambini dell’asilo insieme con suor Giovanna, poi mi venne la parotite e mi misero nel reparto isolamento: maturò lì il mio interesse per la pratica infermieristica e quando più tardi usci dal Preventorio divenni effettivamente infermiera. Una volta guarita, ricordo che accompagnavo spesso il dottor Fulvio Zay nelle visite ai reparti per praticare le iniezioni e visitare i bimbi. Mi piaceva moltissimo lavorare coi bambini. Ricordo di essere stata cresimata all’Opai da monsignor Giovanni Colombo con mia cugina Imelda, che pure lavorava al Preventorio.
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grande fabbrica di mobili, la Reguitti, che esiste ancora oggi. Mentre ero all’Opai un pittore [Antonio Martinotti, nda] affrescò la chiesa del Preventorio. Ricordo anche che nel giugno 1959 ci fu un terribile incidente proprio vicino al bel parco del Preventorio: durante un violento temporale cadde una aereo: io ero di riposo e così, nonostante il brutto tempo, uscii per andare a vedere cosa era successo; la scena era veramente terribile: le fiamme e l’odore non si possono dimenticare. Poco dopo arrivarono le forze dell’ordine che transennarono l’area e ci fecero allontanare; seppi poi che in quell’incidente erano morte tutte le persone a bordo dell’aereo. Nel Preventorio era presente un guardaroba molto fornito: io o la mia collega usavamo un carrellino per andare a prendere le lenzuola o la biancheria per i bambini. Attraverso un saliscendi prendevamo dalla cucina le pietanze per noi e per i bimbi dell’infermeria: prima mangiavamo noi, poi ci occupavamo del pasto dei piccoli. Anche nel nostro reparto, come in molti altri, c’era un cucinotto per le piccole necessità. Amavo leggere e così, una volta esauriti i libri di mio interesse della biblioteca interna all’Opai, durante il mio giorno libero andavo nella biblioteca della parrocchia per procurarmi qualcosa da leggere.
CORTI FRANCA Ho lavorato all’Opai come inserviente dall’ottobre 1958 al maggio 1961. Ero molto giovane e venivo da un paesino in provincia di Brescia. Fu mia zia Lidia, che già lavorava al Preventorio come inserviente (restò a Olgiate Olona sedici anni, occupandosi dell’assistenza notturna dei bambini dell’asilo), a parlarmi della struttura di Olgiate Olona, dove erano presenti le suore della Carità, che entrambe conoscevamo, perché erano presenti anche nella parrocchia del nostro paese. Quando arrivai fui assegnata per circa sei mesi al reparto maschile, e poi andai in infermeria, dove aiutavo suor Domenica [al secolo Giuseppina Caielli, classe 1909, in Opai dal 1954 al 1965, diploma di caposala della scuola convitto di Roma, nda], che era infermiera diplomata, ad assistere i bambini che venivano ricoverati nel nostro reparto perché avevano la febbre o non stavano bene. L’infermeria si trovava al primo piano del padiglione Cavazzoni82, dove ora ci sono alcuni uffici del Comune. Sopra di noi gli appartamenti del cappellano, don Sandro e del dottor Fulvio Zay che era il direttore sanitario. Sul nostro piano gli appartamenti delle suore che non dormivano nelle camerate coi bambini, mentre al piano terra si trovavano gli ambulatori medici dove venivano professionisti esterni per visitare i bambini (dentista, otorino, e così via). Insieme con me lavorava un’altra ragazza di cui però non ricordo il nome. Oltre a vestire e accudire i bambini dell’infermeria, io accompagnavo la suora infermiera quando doveva fare le iniezioni, oppure andavo nelle varie classi a prendere i bambini che dovevano essere visitati o sottoposti a qualche controllo. Ero molto giovane, ma ricordo con piacere quegli anni. Rammento i nomi di due sorelle, Caterina e Angela Crescini: con Angela (che poi si è fatta suora), una volta uscita dall’Opai, sono andata a lavorare ad Agnosine in una
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CRESCINI CATERINA Sono nata nel 1943 ed entrata all’Opai come inserviente nel giugno 1959. Prima di me era arrivata a Olgiate Olona mia sorella Angela83, che negli anni successivi ha preso i voti nelle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. In quegli anni ho conosciuto anche Ida Bertelli con cui sono rimasta in contatto e amicizia. Avevo solo sedici anni ed è stato per me un periodo bellissimo: per due anni sono stata al nido, poi per sei mesi al baliatico dove erano ricoverati i bambini tra i quattro mesi e i tre anni. L’ultimo periodo invece accudivo i bimbi in infermeria. Era un bell’impegno, perché dovevamo assistere tra i trenta e i trentacinque bambini. La giornata era molto lunga: prendevamo servizio alle 7 del mattino e finivamo alle 9 di sera. Così tutti i giorni. Potevamo usufruire di tre giorni di riposo al mese e andavano a casa una volta all’anno. Noi ragazze dormivamo in camerate all’ultimo piano, nel sottotetto. Anche se eravamo aiutate dalle suore, la giornata era molto pesante: si trattava comunque di bambini malati. Mi ricordo un episodio che allora mi spaventò moltissimo. Avevamo vestito un bimbo arrivato da poco tempo e notammo che zoppicava malamente: chiamammo subito il direttore sanitario, dottor [Fulvio, nda] Zay, temendo che potesse trattarsi di poliomelite. Il medico ci fece subito togliere le scarpe al piccolo. Vedendo che senza calzature camminava bene, ci chiese di guardare bene le scarpine e in effetti scoprimmo che c’era un chiodino che entrava nella calzatura e gli faceva male il piedino. L’unico momento di svago per noi erano le feste di Carnevale. Nonostante i sacrifici, la lontananza da casa e i ritmi lavorativi molto impegnativi, ho dei bei ricordi di quel periodo. Uscii dall’Opai il 28 maggio 1962.
Caterina Crescini in Opai: si specchia con una collega nell’acqua della fontana monumento a Luigi Mangiagalli
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DAGLIO GIORDANO Nel 1962 conobbi Maria Teresa Bettinsoli, che dall’agosto 1959 era stata assunta all’Opai come inserviente, me ne innamorai e dopo due anni ci sposammo. Ricordo Enrico Cavalleri84 che faceva il mezzadro e il dottor Fulvio Zay, sposato con tre figli, che aveva anche un ambulatorio privato fuori dall’Opai. C’era personale che risiedeva in istituto, come per esempio il falegname; il calzolaio Aldo Palma veniva da fuori, mentre l’autista Aldo Fontana abitava a Olgiate, in località Sant’Antonio e faceva anche la spesa e alcune commissioni per l’Istituto. I tre fornai di Olgiate (Cattaneo, Volpi, e un altro di cui non ricordo il nome) avevano una convenzione con l’Opai e fornivano a turno il pane. Vicino al padiglione che attualmente ospita l’ufficio tecnico del Comune, c’era un’asta usata ogni giorno per l’alzabandiera. Dove ora c’è la biblioteca c’era il padiglione femminile, mentre i maschietti erano ricoverati nell’edificio che ora accoglie le scuole elementari Ferrini. Ricordo la grande cucina, alimentata prima a carbone e poi a gasolio. Quando ero in servizio di notte, la suore mi lasciavano un litro di latte e un panino per rifocillarmi. I parenti potevano venire a trovare i bambini la prima e la terza domenica di ogni mese. Rammento un pianoforte particolare, con delle specie di “bussolotti” [era un autopiano con rulli, nda]. Mentre ero all’Opai, un bimbo di nome Rosolino cadde da un balcone del reparto isolamento e morì: nel punto in cui cadde le suore mi fecero piantare un alberello di rosmarino in sua memoria. Anche la moglie di Piero Preda, che aveva donato all’Opai la villa dei principi Gonzaga, è morta nel Preventorio di Olgiate nel novembre 1961 ed è stata sepolta nel cimitero comunale85: sulla sua tomba mi fecero piantare un piccolo pino.
Giordano Daglio con i bambini dell’asilo in una posa tanto curiosa quanto simpatica
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DUVIA TERESA (nel ricordo della figlia Luigia) Mio nonno Luigi [il papà di Teresa Duvia, nda], classe 1866, era originario di Como e agli inizi del Novececento venne a Olgiate Olona per lavorare come giardiniere nel Collegio Gonzaga, allora gestito dalle Pie Signore di Como da cui aveva probabilmente avuto notizia della necessità di assumere un fattore per la struttura di Olgiate. Arrivò insieme con la moglie Giuseppina e coi figli Felice, Clementina, Anna e Teresa, mia madre: mia nonna diceva che arrivarono a piedi, con un carretto e una mucca. Nell’aprile 1909 nacque a Milano l’ultimo figlio, Ermanno, e la nonna Giuseppina morì dandolo alla luce. Vivevano tutti all’interno del Collegio e quando l’Opai acquistò il complesso nel 1918 rimasero a lavorare nel Preventorio. Mia madre Teresa aiutava nell’assistenza dei bambini, la zia Clementina venne assunta nel gennaio 1920 come inserviente in cucina, mentre la zia Anna andò a lavorare a Milano da Carlo e Clotilde Cavalli. Ricordo mia zia Anna che diceva spesso di aver conosciuto proprio a casa dei signori Cavalli il generale Luigi Cadorna, e di avergli servito una minestra, preparata in tutta fretta, perché quando lui era arrivato (era il periodo della Prima guerra mondiale) in casa non si era trovato altro da mangiare, se non gli ingredienti per preparare una bella zuppa. Mia madre diceva sempre che il preventorio era un “paradiso terrestre” dove non mancava nulla e si stava benissimo. Ha lasciato l’Opai nel 1923 quando si è sposata. Mia sorella Angela, già morta, ricordava spesso con la mamma le visite che facevano al Preventorio per andare a trovare il nonno. Teresa Duvia, a destra, con alcuni bambini del nido
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ORSI LUCINA Ho lavorato nella Casa dei bambini di Olgiate Olona dal febbraio 1959 al maggio 1960, quando sono dovuta tornare a casa per motivi familiari. Sono passati tanti anni, ma il sorriso, o qualche piccola tristezza, di quei volti di bambino li ho ancora presenti.
Erano dolcissimi. Mi sono trovata molto bene, anche perchĂŠ ho sempre amato moltissimo i bambini, anche adesso che sono nonna. Rammento suor Giovanna che era molto impegnata con le sue tortore, e suor Lauretta che era sempre allegra.
Lucina Orsi tra i bambini del nido Opai
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chiudere occhio, disturbata dal continuo passaggio dei tram. Il mattino successivo, in pullman, giungemmo a Olgiate Olona: era l’8 ottobre 1964. In portineria ci accolse suor Rosaria, offrendoci dolci per cercare di risollevarci un po’ il morale, e poi ci accompagnò in un grande dormitorio con una trentina di letti: io e Luisa restammo lì, mentre Paolina si recò in una stanza più piccola, dove dormiva insieme con altre inservienti. Avevo un comodino dove riponevo la biancheria personale, un baule sotto al letto e un armadietto in corridoio per i miei vestiti. In guardaroba ci presero le misure per prepararci le uniformi. Poi, per due giorni, fummo libere di girovagare per l’istituto per conoscerne il funzionamento e soprattutto per poter decidere dove ci sarebbe piaciuto lavorare. Io scelsi il reparto maschile, dove c’erano due suore: suor Giovanna (alta, ben piazzata) per i bambini più grandi e suor Marzia per quelli più piccolini. Io venni affincata a suor Marzia e iniziò la mia esperienza all’Opai di Olgiate Olona. Al mattino mi alzavo molto presto, verso le 5.30. Andavo in chiesa, assistevo alla messa e poi andavo in reparto per permettere alle suore di partecipare all’adorazione e alla messa. I bambini dormivano e io mi sedevo sul letto di uno di loro, in attesa del ritorno di suor Marzia verso le 7.30. Proprio in questi giorni è stato per me molto emozionante essere contattata da Pasquale Di Pietro, quel bambino sul cui letto io mi sedevo tutti i giorni, che è riuscito a rintracciarmi grazie al meraviglioso lavoro di ricerca condotto dal Comune di Olgiate Olona. Dopo cinquant’anni il passato è riaffiorato e con esso i ricordi di tutti quei bambini che avevo accudito: ero molto giovane ma ero affezionata a tutti quei bimbi, anche se erano irrequieti e spesso monelli. Li capivo, perché sapevo cosa voleva dire essere lontani da casa. Ricordo ancora con un po’ di tristezza le domeniche in cui i parenti potevano venire in visita e alcuni bambini restavano
PES FRANCESCA Sono originaria della Sardegna: quando avevo sedici anni frequentai nel mio paese natale, Oschiri, un corso di cucito e ricamo per preparare la mia dote. Il corso era gestito dalle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida. Furono proprio quelle suore a parlarci dell’Opai di Olgiate Olona, invitandoci a lasciare il nostro paese natio dove non avevamo alcuna prospettiva lavorativa (potevamo solo diventare contadine), per recarci al preventorio ad assistere i bambini. Ci proponevano di cambiare vita, lasciando i nostri affetti. Per illustrare cosa ci avrebbe atteso a Olgiate Olona ci consigliarono di parlare con una ragazza, Paolina Nieddu, che da qualche anno era in servizio all’Opai (lavorava all’asilo) e da lì a poco sarebbe tornata a Oschiri a trovare i familiari. Paolina ci parlò della vita nel preventorio olgiatese, assicurandoci che saremmo state trattate bene, non avremmo corso pericoli e avremmo potuto guadagnare un po’ di soldi per aiutare le nostre famiglie. Mia mamma Assunta si fece convincere, forse allettata dalla prospettiva di un guadagno: i figli erano tanti e i soldi non bastavano mai. Inizialmente vissi la cosa con grande delusione: pensavo che la mia mamma non mi volesse più bene e volesse mandarmi via. Solo col senno del poi posso dire che fu la scelta giusta, anche se molto sofferta. Così, insieme con Paolina e a un’altra mia compaesana, Luisa Masia, partimmo con la nave dirette a Civitavecchia; da lì in treno a Milano, dove giungemmo in tarda serata, quando non c’erano più mezzi per raggiungere Olgiate Olona. Fuori dalla stazione tutto mi sembrava strano, avvolto da una fitta nebbia che vedevo per la prima volta, con tutti quei tram che andavano avanti e inditro. Paolina telefonò all’Opai e tramite le suore trovammo una sistemazione per la notte. Ricordo ancora che non riuscii a
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prendeva i pasti nel suo ufficio: ricordo che suonava una campanella e la perpetua gli serviva i pasti. Noi ragazze mangiavamo in un locale sopra la cucina da cui giungevano le pietanze attraverso un passavivande. A quei tempi ero molto schizzinosa, e non amavo quando (spesso!) ci servivano pollo con patate. Ricordo però che ero ghiottissima di frutta, tanto che spesso, quando non ero vista, entravo nel podere dell’Opai e “rubavo” qualche frutto dagli alberi: un giorno mi vide il figlio del mezzadro e mi sgridò. All’Opai imparai molto bene a ricamare, cucire, fare il tombolo. A insegnarci era suor Rosaria che accudiva le bambine. Indossavamo una divisa tutta bianca, che doveva essere sempre immacolata e senza pieghe: ricordo che mentre pulivo e riordinavo le camere dei bambini spesso (anche se non si poteva) mi toglievo il grembiule bianco che avevo sopra la divisa per evitare di sporcarlo o stropicciarlo, perché altrimenti le suore mi avrebbero sgridato. In testa dovevamo tenere una cuffietta, pure bianca, che per me era una vera tortura, soprattutto perché avevo moltissimi capelli, lunghi e ribelli, e tenerli in ordine sotto la cuffia risultava difficile. Così, quando presi il secondo stipendio, uscii in paese, andai da un parrucchiere che aveva il negozio vicino all’asilo e mi feci fare un caschetto corto. Poi mi feci fare una fotografia e la mandai a casa per far vedere anche a mia madre com’ero cambiata: coi capelli corti sembravo un’altra persona. Da allora non ho mai più tenuto i capelli lunghi. Ricordo anche che con lo stesso stipendio acquistai un cappotto, perché era dicembre e faceva molto freddo (conservo ancora foto con indosso quel cappotto, circondata dalla neve scesa copiosa su Olgiate Olona). L’anno successivo acquistai dal fotografo di Olgiate Olona una macchina fotografica: anche molte delle mie colleghe fecero lo stesso, così potevamo riprenderci sia quando eravamo all’Opai, sia quando ci portavano in gita. Ricordo che
da soli, perché nessuno veniva a trovarli. La suora lasciava trascorrere un’ora dopo l’inizio dell’orario di ricevimento, dopodichè li portava a giocare nel parco e dava loro dei buoni dolcetti per cercare di far scomparire quel velo di tristezza sui loro visi. Rammento quando accompagnavo i bambini nel bel teatrino per assistere in televisione allo Zecchino d’oro. I bimbi erano ben accuditi, nutriti e non ho mai assistito a episodi di maltrattamento. Alcune volte le suore erano costrette ad alzare la voce per tenere ordine e disciplina, ma indubbiamente non era facile. I bambini erano tanti e alcuni di loro arrivavano da situazioni familiari veramente problematiche, che avevano influito non poco sul loro carattere, rendendo difficile la socializzazione. Noi inservienti dovevamo tenere le stanze in ordine, rifare i letti e aiutare a pulire gli spazi comuni. Ricordo che i letti avevano dei copriletti verdi, mentre quando era prevista qualche visita da parte dei benefattori o dei patroni, ci facevano usare copriletti bianchi. Pulivamo i pavimenti con acqua e disinfettante, mentre una volta ogni tanto (mi sembra una volta al mese) dovevamo pulire le scale con acqua calda, sapone e segatura. Rammento il direttore sanitario, dottor Delaria: alcuni anni dopo, mentre lavoravo in pronto soccorso all’ospedale di Legnano, incontrai un medico che gli assomigliava molto: dopo qualche giorno gli chiesi se per caso fosse parente del dottore che avevo conosciuto al preventorio di Olgiate Olona e lui mi confermò di essere il figlio. Ne nacque una bella amicizia che continua ancora oggi. Ricordo con molto affetto anche il cappellano dell’Opai, don Sandro Cattaneo, che fu per me un vero padre spirituale: aveva un incredibile carisma e una grande capacità di capire le persone. Ricordo che una delle inservienti gli faceva da perpetua e lo accompagnò anche una volta uscito dall’Opai quando andò al santuario di Corbetta. Don Sandro
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andammo a Comabbio, Sotto il Monte, San Carlone di Arona e al santuario della Madonna del sangue di Re, in Valle Vigezzo. Alle gite partecipavano le suore e lo stesso don Sandro. Per noi era una vera gioia. Di solito uscivamo raramente dall’Istituto, se non per fare qualche commissione o andare al mercato. In alcuni casi, durante la festa del Paese, le suore ci consentivano di uscire per andare alle giostre. Durante l’anno, in alcune occasioni, le suore ci facevano preparare per allestire nel teatrino degli spettacolini. Rammento soprattutto le recite per il Natale e il Carnevale, quando ci mascheravamo e la sera potevamo fare una bella festa. Sul finire del 1968 le suore ci avvertirono che l’Opai stava attraversando un periodo di crisi, che probabilmente avrebbero ridotto il personale e che sarebbe stato meglio per noi iniziare a cercare lavoro nei dintorni. Grazie al loro interessamento, molte di noi inservienti furono selezionate presso ospedali della zona: così, il primo dicembre 1968, lasciai l’Opai e iniziai il mio servizio all’ospedale di Legnano, dove qualche anno dopo feci il concorso per diventare infermiera.
Francesca Pes, in prima fila, prima da sinistra con alcune colleghe
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alla mente i loro nomi e i loro volti: Giovanni, Claudio, Franco, Costantino, Sergio, Matteo, Maurizio, Cristina, Filomena. Ci auguriamo che questi ragazzi, ormai adulti, abbiano potuto trovare nella loro vita quella serenità che non ebbero nella loro infanzia.
ROSSI AMBROGINA E SACCONAGO PIERA Finita la scuola magistrale, il direttore didattico di Castellanza, dottor Urbanelli, ci convocò in direzione e ci affidò l’incarico annuale come insegnanti nella scuola elementare parificata dell’istituto Opai. Accettammo subito con l’entusiasmo di chi realizza il proprio sogno di poter insegnare dopo tanti anni di studio. Iniziammo nell’ottobre del 1966 e ci furono assegnate una classe di prima e una di seconda di circa dodici alunni per sezione; le altre classi erano affidate alle suore (suor Luigia Mapelli e suor Ambrogia Banfi). Erano bambini con gravi difficoltà familiari, che provenivano da diverse zone milanesi e che il tribunale di Milano mandava in questa struttura. Già dai primi giorni di scuola i bambini hanno dimostrato nei nostri confronti un grande bisogno di affetto vedendo in noi la figura materna che a loro mancava. Aspettavano con ansia il nostro arrivo, ci correvano incontro e iniziavamo così la nostra giornata scandita con questo orario: 8,30-12; 14-16; 17-18 (quest’ultima ora era dedicata al gioco libero). Durante l’attività didattica serviva tanta pazienza e tanta amorevolezza per calmare i loro litigi che a volte degeneravano in scontri violenti. Riuscivamo, anche se con fatica, a riportare l’ordine e riprendere il lavoro. Nei momenti di maggior difficoltà nell’affrontare alcune situazioni, trovavamo sostegno, conforto e incoraggiamento nella figura di don Sandro Cattaneo, il cappellano dell’istituto. Finito il primo anno d’insegnamento, fummo riconfermate per altri due fino a settembre del 1969, anno in cui fu chiusa la scuola elementare parificata. Sono passati ormai quasi cinquant’anni, ma è ancora viva nella nostra memoria quell’esperienza vissuta con tanta intensità. Non dimenticheremo mai quei ragazzi che, con il loro affetto, ci hanno arricchito come persone e hanno lasciato un impronta nella nostra vita. Ci tornano
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quelle a ovest il cortile tra le due ali della villa. L’ambiente era molto grande e sempre ben illuminato: al centro c’era un tavolo massiccio, lungo più di tre metri, con cassettoni sotto il piano di lavoro su cui praticamente lavoravamo tutte; oltre al necessario c’erano quattro macchine da cucire (una sola elettrica, di marca Necchi, che solitamente usavo io), dietro la stanza principale c’era un magazzino per la biancheria; ognuno dei padiglioni Opai aveva comunque il suo guardaroba ben fornito e pronto per ogni necessità. Anche in guardaroba la responsabile era una suora. Io facevo la sarta, il lavoro che ho imparato fin dalla giovane età: alla scuola di taglio e cucito dell’asilo Landriani di Olgiate Olona come detto, poi dai quattordici anni a Legnano (una sartoria vicino a corso Magenta: ci andavo in bicicletta) e Busto Arsizio. Il personale Opai, suore comprese, era assunto in regola e coi contributi previdenziali; i dipendenti portavano tutti la divisa bianca: medici, cappellano, maestre e inservienti il camice bianco lungo, le suore che curavano i bambini la veste bianca e quelle presenti in guardaroba il grembiule bianco lungo sopra la veste grigia; io avevo un grembiule bianco a metà. Come il personale esterno, timbravo il cartellino in portineria dell’Opai (all’ingresso dell’edificio affacciato su via Luigia Greppi) e giungevo in guardaroba per svolgere il mio lavoro: controllare e riparare la divisa delle bambine ospiti dell’istituto, cucire, rammendare e piegare la biancheria del personale interno, confezionare nuovi grembiuli e biancheria per inservienti, perché dal guardaroba passava solo la biancheria da letto del personale interno all’Opai, tranne quella delle suore. Dalla lavanderia venivano portati su in guardaroba grossi sacchi con la biancheria lavata: la si controllava, piegava, sistemava se e quando necessario e stirava. Raramente in guardaroba entrava altro personale interno dell’Opai e comunque solo chi aveva bisogno: le suore o la
ROSSI CARLA GIOVANNA Ho lavorato nel guardaroba dell’Opai a due riprese: da aprile 1967 ad aprile 1968 e dal 2 febbraio 1970 alla chiusura dell’istituto avvenuta nel 1972. Il contratto era per mezza giornata di lavoro, di pomeriggio, dal lunedì al sabato dalle ore 14 alle 18: in totale ventiquattro ore settimanali. Ho trovato lavoro in Opai come sarta tramite suor Palmina Brambilla che all’asilo Landriani di Olgiate Olona a quel tempo seguiva la scuola di cucito per le bambine del paese aperta dopo la Seconda guerra mondiale dalle Suore della carità di Santa Giovanna Antida Thouret, consorelle di quelle presenti in istituto: qui nelle vacanze scolastiche estive ho imparato a maneggiare ago e filo. Negli anni di lavoro nel guardaroba Opai ho lavorato con altre quattro persone: la responsabile suor Gervasina Barri fino al 1971, suor Emilia Brioschi che subentrò a suor Gervasina (quando l’Opai chiuse nel 1972, fu destinata ad Arosio), suor Giuseppina Belcastro (quando l’Opai chiuse andò a Bollate), due giovani sarde che alloggiavano in istituto come interne (le dipendenti sarde erano molte, si assentavano solo per recarsi dal continente - così dicevano loro in Sardegna quando erano chiamate a votare). Con le tre suore, che mi hanno sempre voluto bene, ho mantenuto i contatti anche dopo la chiusura dell’Opai e più volte sono andata a trovarle con mio marito Alessandro Colombo e i miei figli Alberto e Maria Angela: ci hanno riservato sempre calorosa accoglienza, molti sorrisi, qualche piccolo dono, il loro ricordo nella preghiera. Tramite suor Gervasina Barri, a Erba ho conosciuto un’altra religiosa che aveva lavorato in Opai: suor Giovanna Tacchini. Il guardaroba dell’Opai si trovava in un’ala dell’edificio di Villa Gonzaga al primo piano: le finestre a est guardavano il cortile davanti alle cucine e alla facciata della chiesa Santi Innocenti,
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domestica del cappellano don Sandro Cattaneo (nel 1968 divenne rettore del santuario di Corbetta). Perché normalmente in Opai ognuno lavorava nel proprio reparto: sicché, lavorando in guardaroba e solo al pomeriggio, io mai ho incontrato i bambini ospitati in istituto e li ho conosciuti solo attraverso i racconti delle suore. Durante le ore di lavoro in guardaroba si scambiava qualche parola e ogni giorno recitavamo il Rosario insieme con le suore: una decina ognuna, e del resto eravamo in cinque. E le suore volentieri volevano essere aggiornate su come stavano la mia famiglia e i miei due bambini piccoli. L’ultima mansione del pomeriggio di lavoro era chiudere le finestre del guardaroba. Nel guardaroba ho vissuto gli ultimi anni di attività dell’Opai in Villa Gonzaga: già nel 1971 tutti erano consapevoli che l’istituto avrebbe chiuso e nessuno ha mai fatto mistero della difficile situazione e dell’esito a cui si giunse nel 1972. Con il dovuto preavviso tutti hanno ricevuto dall’istituto la lettera di licenziamento: sono tra i dipendenti esterni che hanno lavorato fino all’ultimo in Opai. Prima di me e molto tempo prima, nei primi anni di attività dell’Opai, ebbe a che fare saltuariamente con l’istituto mia nonna Maria: come altre donne olgiatesi, lavava la biancheria nei momenti di maggiore necessità. Lei raccontava a mia mamma Adalgisa e a me della “festa del riso”, una delle iniziative con cui l’Opai cercava fondi per finanziarsi; e anche loro entravano all’Opai quando l’istituto apriva le sue porte a tutti in occasione delle feste annuali. Passati oltre quaranta anni dalla chiusura dell’Opai, l’istituto e la sua storia restano nelle pagine del libro a esso dedicato e nei ricordi di quelli che hanno avuto benefici dalla presenza a Olgiate Olona dell’Opai e delle persone che all’istituto in vari modi hanno assistito centinaia di bambini dalla vita poco fortunata.
Carla Giovanna Rossi e i familiari insieme con suor Gervasina Barri (a sinistra) e suor Giovanna Tacchini (a destra) nella Casa di riposo Cristo Re di Erba
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Somma Lombardo, Gallarate... Durante il tragitto, ogni giorno, le sue risate e chiacchiericcio riempivano l’abitacolo della sua o mia auto, così i chilometri correvano veloci; insieme ricordavamo i nomi e le “imprese” di alcuni bimbi dell’Opai o progettavamo come migliorare il nostro lavoro e rapporto coi nuovi alunni speciali; da lei ho imparato molto come docente e come persona. Con grande dispiacere non sono arrivata in tempo a vederla e salutarla per l’ultima volta, ma il suo sorriso è ancora dentro me.
SOLINAS ANNAMARIA Ero una giovane supplente alla sua prima esperienza di scuola speciale, ancora non sapevo che quei bambini “speciali” lo erano davvero tanto. Non ricordo il nome di molti di essi e tantomeno i loro visi, ma tra i tanti uno è rimasto profondamente radicato nella mia memoria e nel cuore non solo mio, ma di tutta la mia famiglia; un nome: Antoni, uno scricciolo biondo dagli occhi azzurri, i suoi vivevano in America; a trovarlo ogni tanto arrivavano degli zii, ma durante le vacanze restava lì in istituto. Seppur circondato dalle cure amorose della suora e del personale del reparto, quando si rendeva conto di non poter uscire come gli altri s’intristiva, immalinconiva e io mi sentivo coinvolta, perciò quella volta, in concomitanza delle vacanze, chiesi il permesso di poterlo portare a casa con me per qualche giorno. Così fu che quel piccolo conquistò i miei: mia madre, mia sorella, mio fratello e anche lo zio celibe che viveva con noi. Tutti si fecero in quattro per soddisfare i suoi bisogni anche affettivi e lui ricambiò col suo affetto, col suo sorriso, con la sua allegria conditi con qualche capriccio: purtroppo per noi, ma certo non per lui, prima di sera mi avvertirono che gli zii erano in arrivo per portarlo via con loro. Ricordo come fosse successo da poco il dispiacere di tutti noi per quel suo breve soggiorno in casa nostra, le lacrime di mamma per un bimbo speciale, molto speciale non tanto “fuori”, ma tanto “dentro”, con quel suo spontaneo modo di dare amore suscitando amore. Questo è davvero un bellissimo ricordo che ho dell’Opai. Voglio ricordare anche una cara collega e amica che oggi non c’è più, Daniela Castiglioni, la maestra di Antoni: piccolina, magra, ma un concentrato di energia e allegria, sempre disponibile a dare una mano. Io e lei, dopo la chiusura dell’Opai, abbiamo condiviso le sedi scolastiche dei nostri primi anni d’insegnanti di ruolo:
Daniela Castiglioni, collega di Annamaria Solinas, coi suoi alunni
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gruppi-classe da un’equipé pscicopedagogica formata da una neuropsichiatra infantile, la professoressa Bencini Bariatti, una pedagogista, la dottoressa Angela Spinelli e da un’infermiera, Delfina, che veniva dalla Svizzera, e si occupava attivamente dell’assistenza sanitaria ai bambini, costituendo il nostro punto di riferimento per qualsiasi necessità. All’Opai venne attivata nel 1969 questa “scuola pilota” cui giungevano molti bambini inviati soprattutto da Milano: molti di quei bimbi presentavano varie patologie e affezioni, necessitando di assistenza medico-sanitaria costante che all’Opai fu veramente ottima. Io e le mie colleghe fummo reclutate tramite la direzione didattica di Castellanza; vennero formate cinque classi con la presenza di sei insegnanti (una di noi faceva la turnista): la nostra giornata iniziava verso le otto, aiutando le assistenti nella vestizione e preparazione dei bambini, poi facevamo fare loro colazione e quindi si iniziava l’attività mattutina, con una pausa per la merenda e poi per il pranzo, che era servito in un grande salone. Il cibo era molto buono e abbondante. Nel pomeriggio, dopo una piccola pausa, i bambini facevano un riposino in classe, con le testoline appoggiate sui banchi, e poi riprendevamo le attività fin verso le 17, quando i nostri alunni venivano presi in carico dalle assistenti. Rammento i nomi e i volti di tutti i miei bambini: Maurizio Perego che veniva da Monza, un gran chiacchierone, molto ubbidiente e collaborativo, una volta si sedette sul cappello del direttore didattico; Lella Moretto che era all’Opai col fratello, anche lui Down; Oriana Pina di Saltrio; Bruno Rossato; Federico Legnani; Giuseppe che girava sempre con la sua bambola; Cinzia; Rina Dall’Erba e Rossella Crippa di Monza, che cercava sempre il contatto ed era ben voluta dagli altri bambini che l’aiutavano nelle piccole incombenze come allacciarsi le scarpe. Era veramente faticoso accudire quei bambini, e tornavo a casa distrutta: bisogna
VALSECCHI MIRIAM Avevo solo vent’anni quando ho iniziato la mia esperienza come insegnante all’Opai, ma ero piena d’entusiasmo. Insieme con altre colleghe (Tilde Turconi, Anna Solinas, Paola Burla, Bianca Gandini, Lina Draicchio Valente, Maria Grazia Colombo, Daniela Castiglioni, che ora non c’è più), ci occupavamo dei bambini Down, o mongoloidi, come si diceva abitualmente allora. I primi tempi furono veramente difficili, soprattutto perché ognuna di noi doveva prestare assistenza a circa otto bambini di età diversa, che nella maggior parte dei casi presentavano uno sviluppo intellettivo e una capacità relazionale molta bassa, anche perché in quel periodo molte famiglie con bambini Down tendevano a isolarli dal mondo esterno, un po’ per proteggerli, un po’ per un senso quasi di vergogna, e a trattarli sempre come bambini piccoli. Ci impegnammo moltissimo per sviluppare la loro educazione motoria, psico-sensoriale, affettiva, occupandoci anche della costruzione del loro linguaggio. Applicavamo per lo più i metodi didattici della scuola montessoriana, adattandoli un po’ a seconda della nostra esperienza e istinto. Ogni giorno cercavamo di stimolare i bambini a prendersi cura del proprio corpo, a gestire le relazioni con l’ambiente esterno e con gli altri esseri umani, nel tentativo di dare a quei fanciulli un po’ di autonomia che avrebbe dovuto essere loro utile per la vita. Come accennavo, non fu facile: soprattutto i primi tempi dovevamo chiuderci in classe coi nostri alunni, perché temevamo che potessero sfuggire alla nostra vigilanza e farsi male. Eravamo giovani e sentivamo quella responsabilità come un grande peso. Non ho mai pianto, perché ero fortemente motivata e convinta di dover aiutare quei bambini, anche se in alcuni momenti mi prendeva un po’ di sconforto. I bambini erano stati divisi in
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considerare che lavoravamo sette giorni su sette e l’impegno era gravoso, ma quei bambini mi sono rimasti nel cuore e mi hanno insegnato a essere una brava maestra, a non avere pregiudizi, a cogliere il meglio da ogni alunno. Da loro ho imparato veramente molto. Chiudo questa mia testimonianza con un ricordo simpatico, anche se allora fu fisicamente molto doloroso: uno dei bambini, non ricordo il nome, mentre stava giocando, prese un triciclo di metallo e lo scagliò con violenza, colpendomi sulla tempia: il danno fu tale che per alcuni giorni dovetti girare con la parrucca per rendermi un po’ più presentabile!
Miriam Valsecchi coi suoi alunni dell’Opai: da sinistra: in seconda fila, Maurizio, Lella, Oriana, Bruno; in prima fila, Rossella, Rina, Cinzia, Giuseppe, Federico
Giuseppe con la sua bambola
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dai nonni da cui andavamo noi a fare le vacanze e questo sino a pochi anni prima che chiudesse l’Opai, quando finalmente ebbe in aiuto una giovane pediatra. Le infermiere facevano parte di una congregazione di suore e avevano una superiora che le coordinava. Ricordo con grande affetto suor Domenica88 che era addetta all’infermeria e al reparto nido. Era proprio una piccola cittadella autonoma. Ricordo Domenico Gandi, falegname, che viveva all’interno del preventorio e ogni tanto tornava a casa dalla famiglia. Altri come l’ingegner Piano che si occupava dell’amministrazione e la signorina Gigina, sua segretaria, invece venivano tutti i giorni da fuori a lavorare lì. Rammento la figura di don Sandro: allampanato prete con lunga tonaca nera che ha fatto sempre parte della nostra vita, ha battezzato me e i miei due fratelli nella cappella dell’Ospedale di Busto Arsizio dove nascemmo, frequentava abitualmente la nostra casa e sino a mattina con i miei genitori discuteva di Teologia e Filosofia: fu lui a insegnarci Catechismo prima che a mia sorella e a me, assieme agli altri bambini del Preventorio, venissero amministrate la prima Comunione e la Cresima.
ZAY FULVIO Fulvio Zay fu direttore sanitario dell’Opai di Olgiate Olona dal 1953 al 1966. Le figlie ricordano il padre e la loro vita all’Opai. Giuliana Zay Come i miei fratelli sono nata a Olgiate Olona e ho vissuto in Preventorio sino a 14 anni quando l’Opai, come tutti gli altri sanatori, ha chiuso, perché la tubercolosi era stata debellata. Noi abitavamo nel corpo centrale della villa Gonzaga, sul fronte strada, al secondo e ultimo piano. Avevamo una grande terrazza che mia mamma era riuscita a far diventare giardino pensile e sulla quale i miei genitori avevano costruito una casetta in Canadà per me e mia sorella. Ricordo il bellissimo parco nel quale non potevamo andare per non disturbare i bambini ricoverati: avevamo il permesso solo di andare in bicicletta nel viale di accesso e vi garantisco che non era poco. Era un largo viale alberato che terminava con i garage e vicino c’era la chiesa del Preventorio. Anche una fattoria faceva parte del complesso e qualche volta nostro padre ci ha portato a visitarla. Quello di mio padre era un lavoro che lo impegnava giorno e notte, 365 giorni all’anno. Egli era l’unico medico con 450 bambini ricoverati che avevano da pochi giorni a 18 anni i maschi e 16 le femmine. All’interno dell’Opai c’erano anche le scuole, ma noi le abbiamo frequentate in paese (mio fratello che nacque nel 1963 le frequentò tutte a Gallarate dove ci trasferimmo), mentre la Cresima e la Comunione ci vennero impartite con gli altri bambini del Preventorio nella chiesa interna dove andavamo anche a messa la domenica e la notte di Natale. Non ricordo che mio padre abbia fatto periodi di vacanze se non di pochissimi giorni in cui magari doveva andare a Trieste per qualche necessità o ci accompagnava
Pia Zay Ricordo una suora che avevo soprannominata “la suora degli animali”. La potevo trovare nel padiglione dell’asilo e aveva una passione: amava gli animali e lì ne aveva alcuni in custodia così io potevo andare a vederli e ammirarli come se andassi allo zoo. Ricordo un episodio in particolare… Quando non c’erano i bambini nell’aula, lei lasciava libero un merlo, piumaggio bello, nero pece, col becco rosso fuoco, quanto mi piaceva!!! Ma quel giorno il merlo volò nei bagni e si posò sul bordo dello sciacquone, che non aveva il coperchio, la suora entrò nel bagno e tentò di farlo uscire da quella stanza, ma forse spaventato invece
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aveva un lungo e largo terrazzo dove durante le calde giornate primaverili e autunnali era permesso ai ragazzi ricoverati di restare fuori: c’erano bambini nei letti o in sedia a rotelle, ma non mancavano quelli che correvano per giocare. Anch’io volevo giocare con loro! Così presi la corda e a un capo fissai il cesto di vimini, lo calai sino al piano di sotto e presa la misura giusta legai l’altro capo al calorifero, così nel caso mi fosse scappato di mano lo spago, non si sarebbe schiantato sul terrazzo. In quel cesto ci mettevo a volte le bambole, a volte diversi vestitini per vestirle, altre volte le macchinine, così potevo giocare sia con i maschietti che con le femminucce. Finalmente potevo giocare con loro, senza infrangere il divieto di papà. Ma un giorno papà se ne accorse e mi sgridò molto duramente, non tanto perché stavo giocando con loro, ma perché sporgendomi ero io che potevo cadere dalla finestra e non il cesto. Testarda e cocciuta oggi come allora non mi persi d’animo, stando molto attenta a non sporgermi troppo dalla finestra e non facendomi scoprire da papà continuai a giocare con loro, ma ovviamente avevo molta paura e così finì che giocai sempre meno con loro. Avevo forse 8-10 anni ed ero veramente temeraria e incosciente! Il fatto che il lavoro di mio padre gli consentisse di restare a stretto contatto con la sua famiglia aveva i suoi vantaggi. Mi spiego meglio: la cosa positiva era che io e i miei fratelli avevamo l’opportunità di vedere nostro padre spesso nell’arco della giornata, anche se per pochi minuti per volta, ma questo mi dava una sorta di serenità e di protezione, cosa che molti miei compagni di scuola non avevano, visto che i loro padri lavoravano fuori casa. C’era un’altra cosa che mi piaceva di papà: lui suonava il pianoforte, era molto bravo, aveva fatto 8 anni di conservatorio, mi piaceva sentirlo suonare, ma la cosa che ogni volta mi faceva contenta era che prima di sedersi al piano apriva la finestra - quella stessa che io usavo per giocare con i bambini
di volare via ci finì dentro: io non sapevo se ridere o preoccuparmi, bisognava assolutamente non tirare la catenella dell’acqua altrimenti sarebbe finito giù nello scarico, ma la suora prese la situazione in mano, anche se era molto agitata. Fu una vera avventura: prendere la scala, salire sino all’ultimo scalino, mettersi in punta di piedi; lo sciacquone era decisamente in alto, e la suora che ormai non era più molto agile e impacciata nei movimenti a causa del “gonnone” poco comodo, allungò il braccio nella vaschetta dell’acqua per prenderlo e dopo vari tentativi finalmente riuscì a recuperarlo. Era impaurito e zuppo: anche la suora lo era, ma con tanta pazienza lo asciugammo e lo calmammo per poi rimetterlo nella sua accogliente gabbia. Da quella volta la suora ogni volta che decideva di farlo volare libero nella stanza imparò a chiudere la porta dei bagni! Devo ammetterlo, quegli anni furono indimenticabili!!! Vi racconterò quella volta che inventai il modo di… ma è meglio che cominci dall’inizio. Papà ci aveva dato precise disposizioni su dove potevamo o non andare in giro per l’Opai, e uno di questi posti off limits era l’infermeria, che si trovava un piano sotto la nostra abitazione: che peccato, c’erano tanti bambini con i quali avrei potuto giocare, spesso li guardavo dalla finestra giocare tra loro. Io sono la secondogenita, e come tutte le secondogenite sono tremenda e se c’era qualche divieto bisognava trovare un’ idea per aggirarlo. Anche questa volta la mia testa elaborò un piano strategico per non disubbidire a papà, ma riuscire comunque a giocare con loro, e un giorno mi venne un’idea. Andai nello sgabuzzino di casa e come in tutti gli sgabuzzini che si rispettano si trovano tante cose interessanti, tutte quelle cose che non si buttano perché potrebbero sempre servire. Infatti lì trovai un bel cesto in vimini con manico tondo e una bella e lunga matassa di corda: ecco fatto, c’era tutto l’occorrente per giocare! L’infermeria
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dell’infermeria - e così anche loro potevano sentire quella musica che io amavo tanto. Non lo so e non lo sapremo mai con certezza, ma credo che fosse un modo, per lui, di non farli sentire in un ospedale. Nel 1963 nacque mio fratello Adriano: fu battezzato nella chiesa dell’Opai dal cardinale Montini, che qualche anno dopo divenne papa Paolo VI.
28 maggio 1955. Fulvio Zay e il cappellano don Sandro Cattaneo col presidente dell’Opai professor Umberto Carpi de Resmini che firma il libro dei visitatori illustri dopo l’inaugurazione del padiglione contumaciale
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