Alberto Abruzzese - Le strette vie della largesse

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Comunicazione e università

Le strette vie della largesse. Università e Comunità Alberto Abruzzese

Guardando l’Eva porge la mela del Correggio (Museo del Louvre), lasciamo risuonare – come una voce fuori campo – alcune citazioni appartenenti alla tradizione occidentale a cui apparteniamo e che tuttavia risalgono a una traccia di pensiero che – invece d’essere messa in gioco, all’opera, a lavoro nei nostri modelli di organizzazione e amministrazione della società civile – è stata e ancora viene relegata, allontanata, museificata, nella sfera del letterario e dell’artistico: L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio (Sprache); ma questo accade (geschieht) autenticamente solo nel colloquio (Gespràche). (...) Ma che cosa significa allora un “colloquio”? Evidentemente il parlare insieme di qualcosa. in tal modo che il parlare rende possibile l’incontro. Ma Hölderlin dice: “da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro”. Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è piuttosto, al contrario, il presupposto. Ma anche il poter ascoltare è in sé a sua volta orientato in relazione alla possibilità della parola e di essa ha bisogno. Poter discorrere e poter ascoltare sono cooriginari. Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l’un l’altro. (...) Ma l’unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è manifesto quell’uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci. (Heidegger, La poesia di Hölderlin). L’essenza dell’arte è la Poesia. Ma l’essenza della Poesia è l’instaurazione [Stiftung] della verità. Instaurare qui è inteso in un triplice significato: come donare, come fondare, come iniziare. L’instaurazione è reale solo nel salvaguardare. Pertanto ad ogni modalità dell’instaurare corrisponde una modalità del salvaguardare. (Heidegger, Sentieri interrotti). “Ha scritto Bachelard: “Nascere nella scrittura, attraverso la scrittura, grande ideale delle grandi veglie solitarie! Ma per scrivere nella solitudine del proprio essere, come se si avesse la rivelazione di una pagina bianca della vita, sarebbero necessarie avventure di coscienza, avventure di solitudine. Ma la coscienza, da so69


la, può far variare la propria solitudine?” Esiste una nascita della scrittura e una nascita nella scrittura. La Necessità è ciò che rende possibile l’evolversi dell’esistenza nella scrittura. Tutto rimane segretamente contenuto nello spazio e nel luogo che al simbolo si richiama.” (Gianluca Giachery, Heidegger, Jung e la questione del simbolo, in Parol - Quaderni d’arte e di epistemologia).

Il titolo di questa nota è chiaro nel suo secondo tratto esplicativo (Università e Comunicazione), ma risulta invece abbastanza enigmatico nel suo primo tratto enunciativo (Le strette vie della “largesse”). È su questo enigma che vorrei brevemente intrattenermi. E si tratta di un enigma che vorrebbe sciogliere alcuni nodi problematici che mi pare tocchino qualsiasi istituzione, dunque anche qualsiasi istituzione universitaria. Ma si tratta di questioni che sicuramente toccano ancor più i corsi di Scienze della comunicazione e università come la Iulm, che – grazie anche alla sua giovane età – ha voluto fondarsi su una particolare e accentuata vocazione verso i saperi e per le professioni della comunicazione. È bene inoltre che io avverta da subito quanto questa vocazione della Iulm per i contenuti e le forme della comunicazione corrisponda alla mia vocazione professionale e al ruolo sociale – economico-politico, ma anche disciplinare, scientifico – che a me pare si debba assegnare ai media, spesso persino in chiave critica nei confronti di altre teorie e prassi sociali. Spero di essere tollerato dai colleghi di altre discipline se mi azzardo a dire che nello sviluppo della modernità ogni epoca ha avuto discipline più affini di altre, più connaturate al suo spirito del tempo, alla sua soggettività. Così è stato per la sociologia nella fase di massima espressione della società industriale e delle culture della produzione, così è ora per la mediologia relativamente ai processi di sviluppo della società post-industriale e delle culture del consumo. Da questo mio punto di vista dipende la logica del mio titolo e sottotitolo, logica che consiste nello stabilire una stretta equazione tra due nodi cruciali: il difficile e problematico rapporto che i mondi dell’Università stanno vivendo con i mondi della comunicazione e la specifica natura dei contenuti della comunicazione nell’epoca dei linguaggi digitali ovvero delle società delle reti. Vediamo di ragionare partendo da quanto di più accademico vi possa essere e cioè dai titoli con cui si onorano le sue diverse gerarchie. Gerarchie che a loro volta fanno capo alle gerarchie delle istituzioni pubbliche, dai ministri in giù. E dunque innanzi tutto dal Ministero che ha a carico l’università. Ministro Questo titolo non ha certo bisogno di spiegazione. Vorrei tuttavia sottolineare che dovrebbe rimandare assai più all’etica professionale di chi amministra la cosa pubblica che all’etica politica di chi appartiene a un partito e a una coali70


zione di governo. Così come l’operato accademico non dovrebbe legittimare le retoriche e le ideologie di segno opposto con cui troppo spesso viene tracciato un solco tra università pubblica e università privata. Qui siamo chiamati a ragionare secondo i principi di “responsabilità” che dovrebbero animare ogni ceto dirigente nei confronti della società civile, indipendentemente dalla propria visione del mondo. Non a caso ho qui evocato la frase “visione del mondo”. Per il senso di responsabilità di Max Weber – una etica delle professioni conformata al razionalismo strumentale della società moderna – le strette vie del metodo scientifico si contrapponevano alle domande sul senso del mondo che, da quel grande pilastro del sapere moderno occidentale, venivano delegate invece alla letteratura e al cinema. Una delega pronunciata senza disprezzo, anzi. Una distinzione questa tra scienze e immaginario, praticata per onestà intellettuale. Ma forse anche una allusione al lato oscuro della sua inquietudine personale, del suo disagio nei confronti delle costruzioni e dei vincoli ai quali l’individuo moderno era obbligato dal contratto sociale e dallo spirito del capitalismo. Il problema che le Università stanno oggi affrontando – e ogni altra istituzione della politica così come dell’impresa – è o dovrebbe essere proprio quello di riuscire a ridefinire modelli professionali dotati di un senso di responsabilità che non può più godere della linea di demarcazione tracciata da Weber. Vale a dire che le forme immateriali dell’immaginario mediatico si sono fatte esse stesse costruzione della realtà sociale. Vale a dire che le culture del consumo hanno preso il sopravvento sulle culture della produzione: l’agire dei soggetti e soggettività delle forme di consumo hanno oltrepassato i modelli non solo ideali ma anche socio-antropologici dei soggetti e delle soggettività che hanno abitato e tuttora abitano le forme di produzione. E questa mutazione non va letta nella direzione del determinismo tecnologico, ma va letta in una direzione rovesciata: i mutamenti sociali, intercorsi da Weber a oggi con ritmi sempre più intensi e veloci, hanno trovato forme espressive adeguate alla natura dei loro conflitti e alle nuove soggettività emergenti. Tornerò su questo poco più avanti, soffermandomi sul alcuni autori del pensiero post-moderno o anti-moderno che – generalmente assenti nelle bibliografie delle nostre discipline, comprese quelle dei “comunicazionisti” – ritengo fondamentali. Per essere più chiaro nei confronti delle giovani matricole che frequentano i corsi universitari, sottopongo alla loro riflessione – ma soprattutto dei loro docenti – la differenza radicale che passa tra l’uso quotidiano del telecomando, di internet o più ancora del cellulare e l’uso previsto dalla positura corporea e mentale che il discente così come il docente assume nei confronti di un testo scritto o anche dello schermo cinematografico. Non si è forse più liberi grazie 71


ai new media? Più presenti? Più in comunione con i propri desideri, frustrati o esaltati che siano? Sono domande che per opposti motivi sono assenti tanto nei giovani quanto negli adulti: questi, perché troppo distratti nel senso delle vecchie routine comunicative; quelli, perché troppo coinvolti nelle nuove. Ma noi insegnanti universitari (insieme con quelli della scuola) sappiamo bene o dovremmo convincerci di sapere quanto sia drammatica questa differenza tra la nostra civiltà del libro e la civiltà multimediale del presente. Ma questo è il dramma che vivono anche i politici e i ministri, i quali, dotati di statuti nati in fasi premediatiche, si trovano ora ad agire in fasi radicalmente mediatiche. Titoli accademici Magnifico Il Dizionario etimologico italiano (DEI) di Carlo Battisti e Giovanni Alessio (Firenze, Barbera, 1954) riporta: “chi ha fatto grandi cose, molto frequente come ‘splendido’ e come titolo nel nostro latino medievale; “che usa magnificenza” (XIV secolo); “liberale” (XIV secolo); “eccellente” (XIV secolo); come titolo onorifico dal XVI secolo” (pag. 2318). Il Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortellazzo e Paolo Zolli (Bologna, Zanichelli, 1979) riporta le seguenti accezioni: “che manifesta generosità e larghezza di mezzi” (uso attestato già in Dante), “che eccelle per bellezza, sfarzo e pregio” (già in Dante), “titolo spettante ai patrizi, ma dato nel Rinascimento anche ai signori” (lo usa in questo senso Rinaldo degli Albizzi prima del 1443). Magnificenza “titolo attribuito un tempo a principi e sovrani” (lo usa in tal senso A. Bonfadini prima del 1428). Il Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia (Torino, Utet, 1975) segnala che nell’accezione di Magnifico Rettore se ne registra l’uso novecentesco in Pascoli, D’Annunzio e Viani (pag. 471). Amplissimo Il Dizionario etimologico italiano (DEI) di Carlo Battisti e Giovanni Alessio (Firenze, Barbera, 1954) riporta: “titolo che davasi al rettore dell’Università di Parigi” (pag. 176). Il Lessico etimologico italiano (LEI), a cura di Max Pfister, Wiesbaden, Reichert (1987) conferma il nesso con la largesse: ampio nel senso di “benefico, generoso, munifico; magnifico” è attestato sin dal 1691 dall’Accademia della Crusca.

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Amplissimo “titolo onorifico (a Firenze veniva attribuito al consiglio dei Quarantotto e a Bologna al consiglio dei Quaranta)”. Chiarissimo Clarus in latino appartiene alla semantica della visibilità, ma in prima istanza a quella dell’udibilità. Lo attesta il Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortellazzo e Paolo Zolli (Bologna, Zanichelli, 1979): “dalla stessa radice di clamare ‘chiamare’, prima adoperato per la voce poi per la vista”. Nel senso di “insigne, famoso” è già attestato in Dante. In greco kléos, che deriva dalla stessa radice, è appunto “fama”. Mi sembra interessante che la stessa radice di chiaro (autoevidenza del sapere) è alla base del termine classificazione “dividere per classi”. Ogni classificazione (ogni “chiamata” letteralmente, come l’appello che si fa in classe) è sempre un gesto autoritativo oltre che conoscitivo, come si sa e come conferma ad esempio il Foucault di Le parole e le cose. D’altra parte ogni disciplina (nel senso di materia dello scibile) è anche sempre una forma di disciplina (nel senso di autorità e controllo). Riassumendo. Magnifico ha a che vedere con la sovranità, la magnificenza istituzionale del principe. È figura che spicca su palazzi, ingressi, trionfi: gloria delle gesta del suo regno e non solo quindi di se stesso, corpo della propria corte (i docenti di cui si serve per governare il suo popolo, cioè per istruire gli studenti del suo palazzo-territorio di sapienza, del mondo di cui appunto si fa carico e che rappresenta). Chiarissimo ha a che vedere con le doti intellettuali del singolo professore e con la trasparenza dei suoi prodotti, la loro evidenza oggettiva (si dice chiara fama ad esempio per dire che evidenza e qualità coincidono e sono indubitabili). Amplissimo – che è il titolo che mi ha fruttato l’idea centrale di questi appunti – è il termine meno noto. A mio tempo, diventato Preside della Facoltà di scienze della comunicazione appena nata nell’Università di Roma La Sapienza, mi sembrò la forma onorifica più strana. E anche pericolosa per chi come me tende a ingrassare. Avvicinandomi al senso riposto in questo modo di onorare il ruolo accademico di un preside, mi sono riconciliato con la sua allusione a una corporeità espansa solo tornando a leggere A piene mani. Dono fastoso e dono perverso di Jean Starobinski e solo ripensando alla mostra sul dono da lui stesso organizzata al Museo del Louvre (e in cui tra le tante si inseriva la celebre immagine di cui all’inizio ho sollecitato il ricordo. Eva porge la mela del Correggio, una delle tante immagini in cui il racconto biblico mostra il doppio senso del dono, la felicità e il dolore che simboleggia, la contiguità tra spirito e carne, tra legge e desiderio, che mette in scena). 73


Con termini come magnifico, chiarissimo e amplissimo siamo di fronte a isotopie corporee e visive. Per quanto nella loro stessa etimologia risulti ben evidente questo loro radicamento nel corpo ostentato del Principe, nello splendore audio-visivo in cui l’autorità del sovrano si fa presente e si legittima, oggi siamo abituati a percepire questi attributi solo nell’ordine di qualità sapienziali. Il fatto che si sia perduto il significato simbolico originario di questi titoli accademici a mio avviso ha direttamente a che vedere con le attuali condizioni di una Università che sta vivendo una profonda metamorfosi socio-antropologica, tale da mettere in discussione il senso originario della sua sovranità. Di queste trasformazioni dell’Università si è parlato a lungo attribuendole alla massificazione progressiva degli studi. Ne abbiamo fatto una questione quantitativa e non qualitativa o al massimo ci siamo posti il problema di come adeguare la qualità alla quantità. Abbiamo proseguito lungo l’asse tradizionale, già ottocentesco, delle strategie di divulgazione, educazione e scolarizzazione delle masse. Ne abbiamo sempre fatto una questione di alfabetizzazione versus un mondo di analfabeti. La questione di un linguaggio-identità dominante su tutti gli altri linguaggi espressivi. Quando finalmente è stato impossibile non farlo, abbiamo inserito nei programmi di insegnamento delle nostre facoltà le culture che venivano dalle forme dello spettacolo, dei media, dei consumi, del mercato, delle mode, senza per questo modificare i paradigmi sapienziali con cui sono organizzati i nostri processi formativi, le loro figure professionali, i loro spazi, i loro mezzi. Soprattutto i loro valori identitari. Abbiamo rimosso o voluto rimuovere i caratteri più sostanziali di questi mutamenti sociali, mutamenti che sono frutto dell’accesso nella sfera pubblica di nuove sensibilità o comunque di sensibilità prive di altra tradizione culturale che non sia la loro esperienza vissuta, quell’esperienza quotidiana in cui, invece, assai più delle istituzioni sono riusciti a entrare i media e i consumi. Si tratta dunque di fenomeni innovativi in cui non sono i contenuti antropologico-culturali, psicosomatici, del discente a doversi o potersi adeguare a quelli del docente, ma esattamente il contrario. Rispetto a questa necessità i modi “classici” della divulgazione non hanno più senso, non possono più averlo. La lettura economico-politica del dono messa in opera da Starobinski con straordinaria sensibilità nei confronti delle sue simbologie e del loro carattere anfibio, ci aiuta a comprendere il passaggio epocale che stiamo vivendo grazie all’estendersi dei territori mediali dell’esperienza vissuta, sin dentro i corpi (e qui si aprirebbe il nuovo capitolo inaugurato dagli studi sugli attuali sviluppi della biotecnologia e sugli orizzonti post-umani che più mettono oggettivamente in crisi la dimensione umanistica, universalistica e antropocentrica su cui l’università stessa si fonda). 74


Perlustrando momenti del mondo antico, del rinascimento e infine del moderno (dallo spazio delle corti del principe allo spazio metropolitano di Baudelaire), Starobinski ha messo in luce la doppia valenza del dono, il gioco fastoso e insieme perverso del civilizzatore e in sostanza di una sovranità che al tempo stesso include in sé e esclude da sé il popolo dei suoi sudditi, simula la collettività per riaffermarvi il suo dominio: la benevolenza di chi – in epoche in cui esiste un tempo dell’ordine e un tempo del disordine, un tempo del lavoro e un tempo della festa – elargisce ricchezza, ma al tempo stesso il crudo realismo di chi dona per avere conferma della barbarie, della selvaggia violenza di coloro ai quali il dono viene elargito. Dobbiamo dunque riuscire a sostenere la severità dello sguardo di Starobinski sulle nostre “buone maniere” di classi dirigenti. Il nostro insegnamento è smarrito da molteplici ferite tra il sapere e il fare, tra conoscenza e professione. È naturale che sia così in fasi di trapasso da un regime societario a un altro, così diverso come quello che stiamo vivendo, ma credo che l’eccellenza di una università possa oggi mostrarsi proprio nel rendersi conto di questo trapasso. Ancor più smarriti dovremmo essere dalla ferita che si è aperta tra le generazioni che si raccolgono nello spazio universitario: docenti maturi (formatisi prima della televisione), docenti giovani (cresciuti dentro la televisione, studenti (nati con l’avvento dei new media), ma anche ricercatori (divisi tra il ruolo classico di aspiranti al lavoro istituzionale e il ruolo di “raccoglitori” e “nomadi”, a mio parere auspicabile in una società sempre più postmoderna e post-fordista). Il rapporto attuale tra Università e Comunicazione è in qualche modo speculare al sempre più vivo contrasto tra un sapere che si dona e un non-sapere che resta escluso da questo nostro dono. Un non-sapere che pretende altro (è nei territori di questa alterità che le strategie di mercato sembrano sapersi orientare assai più ormai di quelle istituzionali). Il dono simboleggiato dai media e dai consumi appartiene al disordine di bisogni e desideri che vanno oltre ogni confine. Starobinski, descrivendo i luoghi della “largesse” ci ha rivelato la coincidenza tra la trasparenza e il dolore, l’orrore della carne, il rituale sacrificale, la dimensione del sacro: tra la visibilità e ostentazione necessarie a ogni forma di dono moderno (quello splendore umanista della città rinascimentale e della festa barocca, quella radura heideggeriana che va dalle grandi esposizioni universali agli schermi del cinema e della televisione, agli spot pubblicitari e agli iper-mercati) e la tragedia umana, la nuda vita, che in qualche modo vi è mascherata, lasciata inespressa e inesprimibile. Rispetto a questa doppiezza del dono, le teorie della comunicazione mostrano a loro volta di dividersi in due filoni: il filone di studi che fa prevalere l’idea di una comunicazione sociale o personale che consisterebbe solo nella trasmissione di un messaggio, nell’analisi degli affetti che esso produce sul piano dei com75


portamenti privati e sul piano politico o commerciale; e il filone di studi che concepisce la comunicazione come relazione, come territorio dell’esperienza. Questa differenza potrebbe anche essere sintetizzata nella distinzione spesso inespressa ma assai spesso implicita, se non manifesta, tra una concezione religiosa (religiosità che i sistemi di governo moderni hanno ereditato dai “vecchi regimi” premoderni) e una concezione sacra degli eventi e degli oggetti comunicativi. Sul primo versante, quello religioso, abbiamo coloro i quali sono interessati ai media in quanto strumenti dei regimi societari; sul secondo versante, quello del sacro, abbiamo coloro i quali sono interessati alle forme simboliche, ai contenuti dell’immaginario, all’ambiente antropologico-culturale in cui vivono e agiscono le persone, sia quelle in grado di essere attori sociali in senso tradizionale, sia quelle che ne sono parzialmente o interamente escluse. Sembra una distinzione rozza, e lo è, forse, ma credo che sostanzialmente possa funzionare se non altro per individuare due diverse vocazioni negli studi sui media e nei contenuti della formazione che tali studi producono. La stessa distinzione è rintracciabile nel diverso peso che alcuni autori hanno rispetto ai due filoni di studi di cui sto dicendo. È per me sorprendente quanto in gran parte dei testi che dovrebbero funzionare da base per la formazione scientifica dei corsi di comunicazione, siano pressoché assenti autori chiave come: Simmel (necessario a individuare nella metropoli, nelle relazioni metropolitane, la prima grande piattaforma espressiva della modernità, la matrice di tutti i media dai linguaggi analogici a quelli digitali); Benjamin (un autore radicalmente in contrasto con gli stereotipi della Scuola di Francoforte contro l’industria culturale e i consumi di massa); McLuhan (autore fondamentale per capire il valore sociale e politico dei linguaggi del vedere e del sentire, dunque, rispettivamente, dei regimi esclusivi della società moderna e dei regimi inclusivi delle società anti-moderne, pre- o post-moderne che siano); De Certeau (essenziale per capire la contrapposizione tra strategie del potere e tattiche della vita quotidiana, che è appunto il nodo verso il quale Starobinski ci ha indirizzato parlando di dono). Sorprendente anche, quanto siano sostanzialmente ininfluenti autori più recenti come De Kerckhove (allievo di McLuhan) e come Maffesoli (autore per molti discutibile ma a mio avviso capace di rileggere la tradizione sociologica in chiave post-moderna e in grado di fornire una efficace interpretazione dei fenomeni di neotribalismo del presente, sempre più emergenti in ogni zona dell’esperienza). Potrei elencare altre assenze. Non si tratta di vuoti bibliografici. Il fatto è che anche quando questi autori, detti non a caso “estremi”, vengono citati, l’asse di pensiero che ha riflettuto sulla ambivalenza dei “doni” di cui la nostra so76


cietà si è servita e si serve risulta in tutto alieno all’asse principale dei contenuti della ricerca che costituisce l’offerta formativa nel campo della comunicazione. La messa in scena del dono che Starobinski ci offre come rivelazione del suo doppio senso religioso e sacro, solidale e sacrificale, si produce nel rapporto tra linguaggi del corpo e linguaggi del sapere, un rapporto sopravvissuto all’autorità della scrittura, di ciò che è pre-iscritto, della legge come dispositivo di controllo identitario. Ora è nuovamente in gioco nella natura orale o psicofisica dei linguaggi digitali, interattivi, multimediali, multi-identitari. Il transito tecnologico che stiamo vivendo è un problema che ci dobbiamo porre, se vogliamo che l’innovazione tecnologica goda di contenuti nuovi e se vogliamo che l’offerta universitaria non si appiattisca su vecchi modelli culturali. La strada da percorre è difficile. Ecco perché ho definito strette le vie della “largesse”. Per allargarle, queste vie verso la ricchezza della comunicazione, ci vogliono alte doti intellettuali (il senso di responsabilità civile, venuto progressivamente a mancare nelle figure professionali che amministrano la nostra vita quotidiana) e grandi risorse economiche, adeguate capacità nel saperle far fruttare, etiche del rischio necessario a decidere e investire. Per trovare le vie di cui stiamo qui parlando, ci vuole una scintilla di intelligenza e coraggio: inutile soggiacere alla follia delle griglie in cui l’università è stata imprigionata, esse pesano come mattoni, gli stessi mattoni che da sempre sono serviti a chiudere e isolare la sfera dell’apprendimento in locali sempre più distanti dal vivo dei mutamenti culturali e ormai sempre più antropologici della società postmoderna. Non c’è procedura formale o nuova tecnologia che possa supplire all’assenza di contenuti innovativi. E per riuscire a trovare e trasmettere contenuti formativi diversi bisogna avere spazi universitari con strutture fisiche e mentali diverse.

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