La Sveglia maggio 2009

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Anno LIII - semestrale - n. 1 - maggio 2009

Sped. A. P. - art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Fil. Bergamo

Notiziario per gli Ex allievi del Collegio Vescovile Sant’Alessandro in Bergamo e per le loro famiglie Direttore Responsabile: mons. Achille Sana; autorizzazione n. 8 del 17/05/1948 del Tribunale di Bergamo. Con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica

Assemblea annuale degli Ex Allievi

Fu docente di lettere dal 1973 al 2002

«Vi aspetto il 6 giugno»

Per don Giuseppe Arnoldi

Gli Ex allievi mi sono cari e mi sono sempre presenti nel pensiero. Ogni giorno accompagno con la preghiera sia coloro che sono ancora negli studi sia coloro che sono già entrati nel mondo del lavoro. Per questo voglio condividere con voi un problema che mi sta a cuore. La scuola paritaria non statale (quindi anche la scuola paritaria cattolica) fa parte del sistema scolastico nazionale, ma non viene riconosciuta come servizio pubblico. Il problema non trova il clima politico e sociale per affermarsi nell’opinione pubblica e nella classe di governo. La nostra scuola è un’orfanella, ammirata, ma non adottata dallo stato. Torno su questo argomento perché le attuali difficoltà economiche della famiglia italiana impediscono una più larga adesione dei genitori alla nostra scuola.Le rette annuali sono impegnative. Quando sarà maturata maggiormente la coscienza sociale del bene comune ottenuto con la partecipazione di tutte le forze presenti nel Paese, allora sarà riconosciuta l’opera didattica ed educativa offerta ai cittadini dalla scuola paritaria cattolica. Termino ringraziando tutti gli Ex allievi, i più maturi e i più giovani, per la stima che nutrono per l’antico Collegio Vescovile Sant’Alessandro. Spero infine di incontrarvi sabato 6 giugno alle 17 per l’assemblea annuale degli Ex allievi. Saranno premiate le professoresse Paola Aymon e Maria Cristina Sonzogni per i primi venticinque anni di insegnamento al Sant’Alessandro. I neolaureati riceveranno un simpatico omaggio con la “griffe” del Collegio. Sarà anche l’occasione per festeggiare la ricorrenza degli esami di maturità per chi ha conseguito la maturità negli anni 1999, 1989, 1979 e 1969. Prima dell’incontro, alle 16.30, sarà celebrata una Santa Messa in suffragio del prof. don Giuseppe Arnoldi.

L’attenzione di questa scheda è rivolta all’immagine di don Giuseppe nell’esperienza dell’età matura. Alcune qualità personali fanno da tessuto sul quale brillano come ricamo le punte emergenti della sua vita come sacerdote, come docente, come educatore, come amico. Anzitutto nel tessuto è da mettere il suo temperamento emotivo timido che veniva compensato da una severa disciplina sulla sua persona: puntuale, serio per lo più, qualche volta con il sorriso aperto con i docenti colleghi ma con un piglio fermo con gli alunni; chiaro e preciso nelle proposte e esigente nelle risposte. Nel tessuto poi è da mettere il suo metodo di vita scandito dal lavoro quotidiano, silenzioso, proficuo; il rigore scientifico si traduceva nelle scelte educative coraggiose, alte e impegnative presentate sia negli interventi privati con i genitori degli alunni sia nelle assemblee pubbliche dei docenti nelle quali il suo pensiero faceva andare oltre l’illusione di una pratica educativa senza fatica. Questi due aspetti della sua figura erano così congegnati nell’attività ordinaria che tutto diventava generosità, originalità e concretezza. Come sacerdote univa il suo impegno scolastico al ministero nelle parrocchie dell’alto piano di Clusone e nei paesi della sua amata Valle Oltre la Goggia dove il fratello don Giglio era parroco di Valtorta. Ogni sabato finita la scuola partiva con il suo Vespino (50) per venire a Bergamo da Clusone e per risalire la Valle Brembana fino a Valtorta, Ornica, Peghera e più tardi a Santa Brigida e Cusio. La predicazione e la confessione dei fedeli erano le attività maggiormente svolte. Ma il confronto con il fratello e con gli altri sacerdoti della zona lo allenava a guardare i problemi concreti delle famiglie, della povertà contadina, del lavoro incerto sul luogo, del disagio dei pendolari settimanali a Milano o degli immigrati all’estero e a comprendere le difficoltà della famiglie. Amava

don Achille Sana

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La sveglia

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In memoria di don Giuseppe Arnoldi dalla prima

essere sacerdote, la celebrazione della S. Messa, il breviario, il rosario, la visita alla cappella con l’occhio fine e acuto da rilevare qualche attrezzatura fuori posto. Come docente sono da presentare come testimonianze di elezione e nobiltà dell’ufficio la documentazione delle sue lezioni con appunti, con certificazioni degli studi critici sugli autori, sui testi dubbi sulle interpretazioni diverse; la sua ricca biblioteca dava a lui l’agio di sentirsi sicuro delle sue affermazioni. Nei rapporti con gli alunni lo stile di vita era stile della lezione: silenzio sacro in classe, attenzione e appunti, libertà di iniziativa e di elaborazione degli studenti che avessero compreso l’apprendimento come risorsa, curiosità, desiderio. I suoi alunni lo hanno temuto, ma con interna ammirazione, stima e imitazione. Nel campo della scuola nella evoluzione degli ultimi anni della sua fatica, non guardava con entusiasmo la descrizione dei risultati alti ma ottenuti senza sofferenza e senza dedizione. L’istruzione di qualità è a condizioni semplici ma severe: il raccoglimento, l’applicazione, l’approfondimento. Come educatore e maestro di vita il suo pensiero ripeteva che l’istruzione è la prima via dell’educazione dell’uomo; per l’educazione del cuore e della volontà occorre l’abnegazione; la scuola può contare sull’alleanza dei genitori e sull’umiltà degli alunni. Ha prestato credito agli alunni sinceri e di buona volontà, dediti al dovere. Ha negato fiducia a chi giocava con imbroglio. Come amico ha stretto legami duraturi con alunni, genitori, famiglie intere quando avvertiva un animo sincero, il

desiderio di trovare luce nel dialogo e nella confidenza della confessione. La sua scorza esterna talvolta spinosa nascondeva un sentimento di attenzione, di aiuto e di benevolenza. Quanto è facile parlare bene di un sacerdote grande e nobile. Le generazioni dei suoi ex allievi sono afflitti per il lutto della Scuola e per la scomparsa di una persona di riferimento. La comunità dei Collegio Vescovile S. Alessandro esprime la sua riconoscenza al Signore per don Giuseppe Arnoldi e lo unisce come anello nella nobile e fulgida catena di sacerdoti docenti e di educatori della storia ultracentenaria dell’istituzione. Don Achille Sana

Alta. Inizia gli studi di teologia a Bergamo e li completa nel Seminario Pontificio del Laterano a Roma. E’ ordinato sacerdote a Bergamo da Mons. Giuseppe Piazzi (il 30/03/1963) e assegnato all’insegnamento di Lettere fra gli alunni del Seminario di Clusone. Licenziato in Sacra teologia a Roma perfeziona gli studi nelle scienze umane presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano dove ottiene la Laurea in lettere classiche il 7 novembre 1968. Consegue poi l’abilitazione all’insegnamento in materie letterarie, in latino e in greco nei concorsi del 1975 e 1976. La sua mansione in Diocesi è stata sempre rivolta all’insegnamento, in seminario di Clusone (5 anni), in Seminario di Bergamo (5 anni), in Collegio Vescovile S. Alessandro (29 anni). Un attacco di ischemia nel 2002 ha fatto abbandonare la cattedra dell’insegnamento per le cure necessarie. Oggi la sua salma è qui fra noi.

Testimonianze

ono una ex allieva di Don S Arnoldi (la mia classe fu anzi la prima che ebbe l’onore

Note biografiche La morte lo raccoglie domenica 29 marzo 2009 presso la Pia casa Piccinelli di Scanzorosciate con un infarto. Aveva 69 anni compiuti. Era nato a Peghera di Taleggio il 16 ottobre 1939 ultimo di nove fratelli. Oggi sono viventi solo due sorelle. Compie gli studi della Scuola Media presso il Seminario di Clusone e gli studi del Ginnasio Liceo Classico presso il Seminario Vescovile di Bergamo in Città pag. 2

di aprire la sua parentesi didattica al S. Alessandro). La scorsa settimana nella chiesa di S. Alessandro in Colonna mi sono trovata con alcuni miei ex compagni di classe a dare l’ultimo saluto al nostro amatissimo ex professore, che tanta “traccia” di sé ha lasciato nei nostri cuori e nelle nostre menti. Siamo rimasti colpiti dal suo testamento, letto da Don Sana durante le esequie. Ci siamo chiesti se non sarebbe possibile vederlo pubblicato, in modo che ognuno di noi lo potesse conservare e ogni tanto rileggere. Maria Teresa Raineri a perdita di Don Arnoldi è L per tutti noi suoi studenti, ma credo per ogni persona che


La sveglia l’ha conosciuto, assai grave e ne spiego le ragioni. Egli era un uomo di qualità rare in quanto si fondevano in lui caratteristiche uniche: fede ed ironia, sapienza e intuito. Era capace di forti accelerazioni intellettuali e lucide epifanie, così come di profonde e attente riflessioni. A partire dal disincanto comunicava una solida sensazione di consapevolezza del proprio sistema di pensiero. Era uno dei lucidi interpreti della maieutica come metodo didattico. Comunicava, con sottile ironia, come la verità potesse essere raggiunta solo attraverso il personale percorso intellettuale di ognuno e come egli potesse solo fornirne gli indizi: questa, a mio modo di vedere, era la sintesi del suo insegnamento. Tutti noi studenti ci siamo accorti, solo più tardi, che ci aveva insegnato un modo di essere, una chiave interpretativa della realtà, e non già letteratura e lingua che erano esclusivamente veicoli atti a condurci a qualcosa di più alto e complesso. La grandezza è in quegli uomini che riescono a generare consapevolezza, riflessione e intenzione, non già in sé, ma in coloro che gli stanno accanto: grazie di cuore Don Arnoldi. Ferdinando Traversi ia mamma è nativa di M Peghera e da sempre è legata da un rapporto di affetto e stima reciproca con don Giuseppe. Proprio un mese fa, gli avevamo fatto avere una lettera circa la nostra attuale situazione. Mia mamma si sta curando da un carcinoma mammario, mio padre a Natale è stato operato di un grave aneurisma all’aorta e io, a gennaio, sono diventata mamma per la seconda volta... ho due bellissime bambine, Matilde di quasi tre anni e Annalia, appunto, di pochi mesi. Siamo stati contenti di sapere che aveva gradito la cosa e a giorni saremmo andate

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In memoria di don Giuseppe Arnoldi a trovarlo. Mia mamma è non vedente ed è stata sin da piccola in contatto con lui... la loro vita, in parte, è molto simile. Entrambi si sono spostati da Peghera sradicandosi dalle loro rispettive famiglie. Mia madre a sei anni partì dal paesino, allora troppo acerbo e calato in una dimensione assolutamente impreparata per poter accettare e comprendere appieno una fanciulla con tale menomazione, per affrontare il mondo dell’istruzione in un collegio milanese. Da lì, poi, si spostò a Bologna, terra nota per la sua fertilità socio culturale. Così creandosi relazioni con altre ragazze universitarie, potendo contare sul loro appoggio, tenendo sempre presenti i consigli che la sua mamma Pina le inviava (con la saggezza e la forza di una donna nel frattempo vedova, con due figli a suo carico e altri due già a miglior vita..) tramite lettere.... riuscì a laurearsi. Così, tornata a Bergamo iniziò ad insegnare lettere, presso diverse scuole medie prima e successivamente si stabilì a Zogno. Diciamo che il ruolo di Don Giuseppe nei confronti di mia mamma è sempre stato quello di incoraggiarla, sempre. Entrambi erano già stati esposti al dolore dell’uomo e venendo dalla stessa realtà conoscevano la fatica di vivere degli oppressi. La sua scelta di Fede, don Giuseppe, non ha mai smesso di proporcela... anche nei momenti in cui ci siamo rivolti a lui nello sconforto più totale. Ci ha sempre saputo dare la speranza. Sicuri della Sua preghiera nella volontà di Dio gli chiediamo nuovamente, come quando era in vita, di esserci vicini... di aiutarci nelle scelte che la vita ci darà modo di compiere. Sentiremo la mancanza dei biglietti che ci inviava... quanto cordialità e quanta cultura c’erano in pag. 3

quelle poche parole scritte cn la stilografica blu! La vita è veramente un continuo susseguirsi di colpi di scena..e chi l’avrebbe detto che proprio nel suo 46° anniversario di Sacerdozio il Signore se lo sarebbe preso con sé? Anche lui, come tutti, in balia della morte e della vita. Io così ho sperimentato don Giuseppe...indirettamente, attraverso il legame che aveva con mia mamma. Ho voluto anch’io condividere, nel mio piccolo, il mio grazie a colui che nella vita di mia mamma è stato una roccia inesauribile ed una certezza. Alice Costa ai, Arnold (“Arnold” per noi S che l’abbiamo avuto come insegnante), ci ho messo anni a capire che quel tuo burbero modo di fare, quel tuo sarcasmo aggressivo, quella tua apparente indifferenza al nostro interesse o disinteresse per i tuoi insegnamenti, quella tua pignoleria su elementi per noi del tutto secondari, altro non erano che aspetti di un metodo educativo che non sono stato in grado di cogliere. Ci trattavi da adulti mentre eravamo ancora talmente bambini da nemmeno accorgerci che ci stavi riservando quel trattamento che, dall’alto dei nostri 16 anni, pretendevamo. Ironico vero? Capire a distanza di anni che spesso si ottiene ciò che si vuole ma non si è in grado di capirlo e ci si continua a lamentare è stata un’illuminazione. Ed è stato il tuo più grande insegnamento. Lo so, a quel punto forse sarei dovuto passare da te e, quantomeno, confessarti che, nonostante lo scarso rispetto che ti ho portato negli anni del liceo, i tuoi insegnamenti hanno colpito il bersaglio, per quanto tardi. Ma tu lo sapevi già, vero? Gianpietro Masserini


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Due prof.sse di 25 anni D

ue prof moderne e piene di interessi. Pare che il tempo si sia fermato da quando, 25 anni fa, cominciarono la loro avventura in cattedra al Collegio vescovile Sant’Alessandro, prestigioso istituto paritario cittadino, con la scuola media e i licei classico, scientifico, scientifico a indirizzo musicale, nella sede di via Garibaldi 3. Dal 1984 ad oggi conservano la stessa passione Paola Aymon, di Bergamo, fino al 2007 docente di educazione tecnica e poi artistica alle medie e oggi di disegno e storia dell’arte allo scientifico, e Maria Cristina Sonzogni, di Trescore Balneario, docente di matematica e fisica allo scientifico del Sant’Alessandro e dal 1993 anche all’Istituto statale “Secco Suardo” di Bergamo. Il collegio Sant’Alessandro le festeggia per il quarto di secolo d’insegnamento nell’istituto, premiandole nell’incontro annuale degli ex allievi in programma sabato 6 giugno alle 17. “Esprimo alle docenti tanta gratitudine per la continuità didattica e l’alto livello educativo manifestato nella loro opera”: rimarca monsignor Achille Sana, rettore e preside del Collegio vescovile Sant’Alessandro. “Venticinque anni? Conservo il mio stile educativo autorevole e rigoroso, oggi però leggo meglio i miei ragazzi”: sottolinea la professoressa-architetto Paola Alessandra Domenica Aymon, intensi occhi blu, un perfetto mix tra creatività italiana, così com’è amante di tutta la storia dell’arte, e rigore svizzero, ereditato dal papà originario di Sion De Valais. Rigorosa sì, e insieme molto tenera, affettuosa. I suoi quattro figli, Matteo, Nicola, Tommaso,

Sebastiano, sono per lei una gioia immensa. Non stupisce che il suo sogno nel cassetto sia realizzare un libro illustrato per i bambini: “Potrei stare a disegnare per ore, senza accorgermene”. Il mestiere di educare per lei oltrepassa le quattro mura della classe. Domenica fa da cicerone ai propri studenti di quinta. I ragazzi, cioè, possono averla come guida in tour d’arte e di cultura, facendo visita a mostre e musei. Dal 1998 è anche responsabile dell’intero progetto grafico ed editoriale dell’Annuario del Sant’Alessandro. Per Maria Cristina Sonzogni gli anni al Sant’Alessandro sono in realtà trenta, se si considerano anche i cinque, dal ’74 al ’79, passati come studentessa allo scientifico. Lavorare a scuola è per lei “una scelta libera, senza forzature” e insieme una “tradizione di famiglia”. “Do del “lei” ai miei studenti, passo per una dura – scherza – Sono in realtà una persona molto allegra”. In molti la ricordano come responsabile provinciale delle olimpiadi di matematica (per una quindicina d’anni) e interprovinciale delle olimpiadi di fisica (per circa cinque anni). Per incoraggiare gli allievi a coltivare i propri talenti da anni li accompagna anche in visita alla base aeronautica militare di Ghedi (Brescia) ed ha persino organizzato una lezione speciale con il fisico Alessandro Sala, conosciuto al grande pubblico come vincitore del reality di Italia 1 “La pupa e il secchione”. All’insegnamento abbina l’attività di volontariato come responsabile della delegazione di Trescore della Lega Italiana per la lotta contro i tumori. Insomma, si tratta di due professoresse che tutti vorrebbero. Paola Aymon è una pag. 4

persona dinamica, molto pratica, appassionata dell’arte e della buona musica. Si laurea in architettura indirizzo progettazione al Politecnico di Milano, per un anno lavora in uno studio di architettura di Bergamo, firma progetti, ed è tuttora iscritta all’Ordine degli architetti. Nel 1984 sceglie la strada dell’insegnamento, più conciliabile con la professione di mamma e al tempo stesso un lavoro che l’appassiona e l’emoziona tantissimo. Nel tempo libero (pochissimo) realizza illustrazioni, cura la veste grafica di varie pubblicazioni, ha curato alcuni progetti nel campo dell’arredamento, dell’editoria e della pubblicità. Ha anche collaborato alla stesura di un libro di testo di storia dell’arte per la Fabbri. Maria Cristina Sonzogni è una persona scattante e piena di energia, sempre pronta a spendere il tempo libero per gli altri. Si laurea in matematica alla Cattolica di Brescia e sempre negli anni dell’università lavora in un’azienda orobica meccanica, occupandosi di dipendenti e contributi nel settore amministrativo. Nell’84 approda come insegnante al Sant’Alessandro e nel ’93 anche al “Secco Suardo”. Il mondo della scuola è anche una tradizione di famiglia: papà Saul è stato al Sant’Alessandro insegnante di matematica e fisica allo scientifico; mamma Eralda è stata per tanti anni preside alla scuola media di Trescore ed ha chiuso la carriera, sempre come preside, alla scuola media di Comonte di Seriate. Entrambe le professoresse hanno ricevuto dai propri studenti tante soddisfazioni, umane e professionali. Molti di loro non mancheranno di partecipare alla Festa degli ex allievi, torneranno al Sant’Alessandro il 6 giugno alle 17 per stringersi intorno alle prof in un abbraccio ideale. Teresa Capezzuto


La sveglia ggi monsignor Achille O Sana, rettore e preside del Collegio vescovile Sant’Alessandro, compie settant’anni. Quasi la metà, trentadue, li ha dedicati agli studenti del Collegio. «È una tradizione che i rettori del Sant’Alessandro restino praticamente tutta la vita - ride -. Il vescovo Amadei ci ha sempre scherzato sopra dicendo di rassegnarmi...». Si interrompe, guarda per aria: «Per la verità si è sempre premurato di sapere se volevo cambiare, ma...». Per un momento, all’inizio degli anni ‘90, la rotta di don Achille Sana incrociò una parrocchia. Quasi. Così oggi è ancora al timone della sua nave di cemento in via Garibaldi, che governa dall’ufficetto in posizione strategica tra atrio e segreteria, dalla porta sempre aperta. Nato a Barzana nel 1939, Achille Sana vive un’infanzia di guerra prima di concludere gli studi nel Seminario investito dal vento del Concilio. Don Achille è ordinato sacerdote nel 1964 e l’anno dopo torna in Seminario come vicerettore. Intanto si laurea in Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano e si specializza in psicologia. Nel 1977 approda al Collegio Sant’Alessandro per sostituire monsignor Paolo Carrara che aveva guidato il collegio dal 1947 portandovi il liceo scientifico, l’apertura alle ragazze, il corpo docente laico, la nuova sede. Un’eredità pesante. Don Sana trasloca da Città Alta portandosi soprattutto libri, le Lettere di Gerolamo in cima al mucchio. Appassionato di Bibbia, sul comodino ha i libri di Martini. Anche San Gerolamo? «Uso la sinossi delle tre versioni, greco, latino, italiano. Nelle sue lettere Gerolamo rivela tutta l’accuratezza filologica, la genialità della sua traduzione: rintraccia, confronta, soppesa, discute i termini nei passaggi dall’ebraico al greco al latino per restare fedele al testo. Prima di provare a cambiare una parola di Gerolamo ci penso, assaporo la ricchezza, la finezza...». Si entusiasma, dietro le lenti gli occhi azzurri si accendono e

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Al Collegio Sant’Alessandro dal 1977

DON SANA HA SETTANT’ANNI rivelano tutta la loro acutezza. Ma monsignor Sana tira subito le redini a se stesso, l’umanista rientra disciplinatamente nel rettore. C’è, intorno ad Achille Sana, un’aria di nettezza senza tempo che è prima di tutto misura, stile interiore. Quale è il segreto dell’equanimità? «Ogni sera cerco di dimenticarmi di quanto è successo durante il giorno con gli allievi e i docenti, per poter ricominciare pulito ogni mattina, senza, come dire, preclusioni affettive sia in bene sia in male». La camicia a righine azzurre spunta dietro il colletto della talare d’ordinanza, che il rettore porta con naturalezza, segno esteriore di un suo profondo convincimento e cioè che «è importante che resti per ora un rettore sacerdote e non laico, per permettere un dialogo continuo con i ragazzi, con le famiglie, con i docenti». Ormai tutte le scuole cattoliche tendono a essere dirette da laici, non è d’accordo? «Forse in futuro accadrà così anche per il Sant’Alessandro, ma io non posso fare a meno di sentire che lo stile di questo collegio dipende anche dalla particolare vocazione educativa insita nel sacerdozio». Forse la talare la protegge anche dal troppo affetto per i suoi 500 ragazzi e ragazze dei quali, si sa, è molto fiero? «Chi, gli studenti? sbuffa -. Credono di sapere tutto perché si collegano a Internet, hanno perso il senso della riconoscenza ai genitori, non capiscono che apprendere è prendere dal docente e se ne stan lì a farsi scorrere addosso le ore...». Qualcuno bussa, dalla porta spunta una faccia simpatica, scarmigliata e rubiconda che tende il libretto dei ritardi. Istantaneamente la fronte del preside si aggrotta, cambia anche il tono di voce: «Sì, vieni dentro, ho visto che sei fuori posto... Come mai arrivi solo adesso?». Borbottio: «Non... pag. 5

sentito... sveglia... preside...». La mano firma in fretta il tagliando della riammissione in classe, l’allievo sparisce. Subito la fronte si distende: se sei un preside, anche la faccia è un ferro del mestiere. Ma davvero questa generazione vale poco? «Vale moltissimo, ma non lo sa. L’emergenza educativa esiste risponde monsignor Sana - questi ragazzi sono iperprotetti, mi capitano madri che dicono “il mio bambino” di ragazzoni di diciott’anni. La tecnologia e il benessere hanno portato il paradigma del maggior vantaggio con il minimo sforzo. Con le macchine funziona, ma se trasferisci questo modo di pensare nell’orizzonte educativo, diventa una sciagura. Perché l’educazione è trasmettere la consapevolezza che devi tenere sotto controllo il tuo cammino, che se non fai fatica non raggiungi vette alte, non è come l’auto che schiacci l’acceleratore e vai. Trasferire la mentalità tecnologica nello sforzo intellettuale ti svia, ti impedisce di vedere il processo interiore qual è, e cioè un’elaborazione lunga e a volte faticosa. Spesso i ragazzi non “si vedono” nemmeno. Gli dico: guardatevi allo specchio, come siete, cercate di capire chi siete, cosa valete, cosa volete». Monsignor Sana guarda fuori dalla finestra, parla di un collegio che conosce solo dalle carte e dai registri storici: quello di allievi come Giacomo Radini Tedeschi o Bortolo Belotti, quando i ragazzi avevano solo una casa e due genitori, quando la giornata in collegio era scandita dall’anno liturgico. Nostalgia? «Mi chiedo se quella pratica religiosa regolare non predisponesse a un’impostazione di vita ordinata, non radicasse un impianto etico che poi si trasferiva nella professione, nella vita privata, nella partecipazione civile». continua in ultima


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Attenti a quei due Dai banchi del Collegio alla guida di una società che gestisce la presenza online di numerosi marchi, anche a livello internazionale. Parliamo di Filippo Stefanelli (a destra nella foto) e di Carlo Pedrali (a sinistra nella foto): i giovanissimi soci dell’azienda bergamasca New Target Web, nata da una costola della New Target advertisement, agenzia pubblicitaria che si occupa di marketing dal 1985. L’interesse per il web nasce in loro sin da giovanissimi: dall’ultimo anno di scuola superiore, infatti, iniziano a lavorare ai loro primi siti. Da dove nasce il vostro amore per la Rete? L’informatica in generale ci ha sempre incuriositi. Internet è il futuro. Rappresenta un nuovo modo di comunicare, di creare, di esprimersi. Come si è trasformata questa passione in un lavoro? “Fare i siti” è sempre stato un nostro hobby, a cui ci siamo dedicati con impegno crescente durante gli ultimi anni del liceo e gli studi universitari. Allora andavamo personalmente a incontrare i clienti e svolgevamo tutto il lavoro a casa. Con il tempo però ci veniva richiesto un prodotto sempre più professionale e anche le responsabilità sono aumentate. La nostra attività era in una fase di grande sviluppo quando, nel 2007, abbiamo ricevuto la proposta di entrare nella New Target Web, della quale, dopo solo un anno, siamo diventati soci. Ora non ci occupiamo più direttamente della creazione del sito web dei clienti, ma di consulenze che riguardano l’intera strategia di comunicazione e le varie campagne di marketing online. Siete stati aiutati in questo dai vostri studi? Entrambi ci siamo laureati in ingegneria delle telecomunicazioni al politecnico di Milano e specializzati poi in ingegneria gestionale. Non abbiamo mai studiato grafica o design, in questo siamo stati assolutamente degli autodidatti.

Ma ora che il nostro lavoro richiede più competenze manageriali, ci rendiamo conto che gli studi fanno la differenza. La nostra formazione ci dà una marcia in più per affrontare le sfide che la nostra nuova posizione comporta. Tuttavia l’università italiana è ancora troppo lontana dal mondo del lavoro: si dovrebbero favorire le opportunità di stage, che addirittura in alcuni casi non sono viste di buon occhio dai professori. Un altro difetto delle facoltà scientifiche è che non insegnano a parlare e a scrivere. Inoltre si dà ancora poca importanza allo studio delle lingue straniere, che invece al

Carlo Pedrali e Filippo Stefanelli giorno d’oggi sono fondamentali: a questo proposito consiglio ai giovani di fare esperienze di studio o lavoro all’estero. Entrambi abbiamo scelto di fare un’esperienza di questo tipo e siamo stati a Lisbona e a Barcellona con il progetto ErasAnche la vostra mus. formazione quindi ha seguito una strada comune. Questo rapporto di amicizia vi è stato d’aiuto anche nel vostro percorso lavorativo? Sicuramente. Il nostro è un rapporto di totale complementarietà: c’è grande sinergia tra noi, le nostre diverse attitudini personali si integrano a pag. 6

vicenda. Poi dopo tutti questi anni ci basta un’occhiata per capirci, il che rende il lavoro molto più informale e rilassato. Qual è la vostra filosofia professionale? Innanzitutto bisogna sempre rispettare la regola fondamentale per creare un sito: la semplicità. Il prodotto deve essere facile e immediato, deve condurre il visitatore a trovare ciò che cerca nel minor numero di click possibile. Poi crediamo molto nella sperimentazione: il web è un terreno fertile per la creatività pura. Di questi tempi si parla spesso anche della necessità di porre dei limiti alla Rete. Esiste la necessità di regolamentare in qualche modo questo mondo che sembra espandersi in maniera incontrollata? Il problema di un eccesso di informazione è reale ed è collegato alla frammentazione della Rete, ma per risolverlo non si dovrebbe ragionare in termini di controllo e di censura. C’è bisogno più che altro di filtri autorevoli che aiutino gli utenti a selezionare le notizie. Secondo voi quali sono – se ci esistono – gli aspetti negativi di questo nuovo media? Internet, come tutti gli strumenti, può essere usato bene o male. Se si utilizza nel modo sbagliato può produrre alienazione. Può essere come una droga e portare chi ne abusa a confondere la vita vera e quella virtuale. Tuttavia i numerosi usi negativi sono surclassati dai molteplici benefici che questa innovazione porta con sé. La sua immediatezza e facilità, e in questi tempi di crisi anche i

costi contenuti, fanno sì che internet abbia una capacità di penetrazione che non è paragonabile a quello della stampa o della televisione. Molte delle possibilità della Rete non sono ancora state esplorate. Che consiglio dareste ai giovani che vogliono avvicinarsi alla realtà del web? Fate le vostre scelte pensando con la vostra testa e coltivate i vostri interessi con coraggio e ambizione. In questo settore il talento e la passione possono farvi arrivare lontano. Valentina Ravizza


La sveglia Correva l’anno 1940. Sembra l’incipit di un romanzo d’appendice, ma al di là dell’uso un po’ retorico della locuzione, che appare sproporzionato per avvenimenti che rivestono solo l’interesse delle poche persone rimaste ancora in vita, i ricordi di or sono 70 anni possono riuscire graditi a chi, quegli avvenimenti, li ha vissuti personalmente. I miei genitori, piccoli imprenditori tessili di Leffe, si accingevano a mandarmi in collegio. Già da tre anni vi andava mio fratello Detto, ed il collegio era quello di Sant’Alessandro, su consiglio dello zio prete, mons. Giuseppe Pezzoli, che a quel tempo reggeva l’omonima parrocchia di Bergamo. Ricordo ancora che la sera precedente la sua partenza, io, più giovane di tre anni, avevo chiesto con curiosità cosa fosse quello spazzolino annesso al suo corredo di toilette. Nessuna meraviglia. A quei tempi l’igiene della bocca con mezzi moderni, era praticata soltanto dalle famiglie più emancipate e non certo da persone di recente estrazione contadina, che usavano sciacquarsi la bocca con l’aceto e pulirsi i denti con una foglia di salvia. Fatto si è che, finita la quinta elementare, toccò anche a me iniziare l’insolita avventura. La prima sera fu una tragedia. Per qualche misterioso motivo, non erano stati recapitati al collegio i miei effetti letterecci, consegnati al corriere qualche giorno prima. Mi fecero dormire nel letto di un altro convittore, già allestito nonostante il legittimo occupante fosse ancora assente, ma piansi a lungo prima di addormentarmi sotto le coperte. Seppi poi che si trattava di Bianchetti, che abitando a Bergamo, aveva preferito dormire ancora per una notte a casa sua. I giorni successivi furono un incubo. Avuto finalmente il mio letto, mi terrorizzava un piccolo inconveniente: ogni tanto facevo pipì a letto. Per mia fortuna, l’incidente capitò prima a Bigoni, un mite ragazzo di Ardesio, il quale si distinse poi per la sua vibrante voce bianca, quando cantava il “Dio sia benedetto” durante le funzioni in chiesa, diventando da adulto direttore di Banca nel suo paese nativo. Ma nessuno gli tolse di dosso il nomignolo di “Pisù”, che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua permanenza in collegio. Quando toccò a me, il fatto non

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Caro vecchio Collegio rappresentava più una novità. I compagni avevano cominciato a stimarmi e forse nessuno osava più intaccare il mio prestigio di piccolo leader che inconsapevolmente si andava costruendo attorno alla mia persona. La camerata era stata affidata al “Vice” don Gnocchi, un piccolo prete pimpante ed autoritario, che si distinse subito per la sua inesauribile vivacità. I convittori del liceo l’avevano subito battezzato “Picchiatello”, ma non perché fosse un po’ matto, ma in analogia ai nuovi aeroplani da caccia, così chiamati per le loro incursioni in

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picchiata sugli obiettivi nemici. Quando passava nei corridoi, durante le ore di ricreazione, c’era sempre qualche spiritoso, i bulli del tempo, che imitava con la voce il fragore di tali aerei, facendo una cagnara della quale il povero vice non sapeva darsi ragione. Insegnante di Italiano era il prof. Ravasio, ex vicerettore, per il quale l’ironia malvagia dei convittori aveva coniato il nomignolo di Vice Cinema, per l’insopprimibile tic dei muscoli facciali, in perenne movimento nel rappresentare le più disparate espressioni del viso. Erano entrate in vigore le “cronache”, che sostituivano il tema tradizionale, perché si riteneva, secondo i nuovi canoni dell’istruzione, che fosse meglio lasciare a ciascuno la piena libertà di esprimersi, senza costringerlo a dissertare di cose che magari non lo interessavano punto. Io ero reduce da una quinta elementare, dove un maestro di moderne vedute ci leggeva in classe gli articoli del Corriere della Sera ed ogni tanto ci dilettava con la lettura di qualche canto della Divina Commedia, senza l’enfasi progressista con la quale si vorrebbero oggi spacciare pratiche di tal genere. Io feci tesoro di quei versi e vissi di rendita per il resto della mia permanenza in collegio. In occasione della potatura


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Caro vecchio Collegio degli imponenti ippocastani che arredavano il grande cortile che incombeva sulla via Garibaldi, rievocai il lamento di Pier delle Vigne tramutato in albero, quando l’Alighieri ne aveva spezzato un ramoscello, ma non ricordando esattamente le parole mi avvicinai alla cattedra per chiedere se le parole esatte fossero “chi mi scerpa?” o “chi mi sterpa?”. Nella mia ingenuità credevo che un professore fosse in grado di rispondermi sui due piedi, ma quando il “Vice” Ravasio biascicò con imbarazzo qualche cosa di incomprensibile, tornai al mio posto un po’ deluso, ma conscio che non poteva certo conoscere a memoria la Divina Commedia. Insegnante di Matematica era il prof. Rampa, un tipo allampanato e di ostentata serietà, che per tutta risposta suscitava nei ragazzi delle crisi contagiose di incontenibile riso, che per imperscrutabili motivi colpiscono talvolta le comunità soggette a qualche tensione emotiva. Detestava le giacche aperte e diceva che i bottoni sono fatti apposta per tenerle chiuse e non mancava di arguzia quando affermava che gli studenti, presi singolarmente, sono persone civili, mentre diventano canaglie quando si trovano in gruppo, a differenza dei soldati che, al contrario,

maggio 2009 esprimono la massima disciplina quando vengono inquadrati, ma che sono individualmente delle canaglie. L’impatto con l’algebra, per ragazzi giunti dalle valli e dalle fattorie della bassa, fu una vera tragedia. Non so ancora capacitarmi se fosse dovuto a nostre carenze o a difetti di comunicazione del professore. Poco mancava che scoppiasse una rivolta, e ci lamentammo col Vice. Intervenne allora l’Economo del Collegio, un monsignore dall’accattivante contegno e di meritata fama, che una sera ci svelò non so più quali misteri dell’algebra, che per rendere più accessibili alle nostre menti paragonò al gioco dei bussolotti. Io non so ancora oggi cosa siano questi bussolotti ed è forse per questo che non ho mai capito niente di matematica. Se ho potuto sopravvivere alle drastiche selezioni dell’epoca, lo devo ai successi nelle materie umanistiche e nelle scienze naturali. La giornata trascorreva tra le ore di lezione al mattino e di studio al pomeriggio, con brevi pause di ricreazione in aula e, tempo permettendo, in un piccolo cortile sovrastante quello più spazioso delle sottostanti elementari e che bastava per avvincenti partite di calcio. Il pallone era invariabilmente una pallina da tennis, proporzionata alle dimensioni del campo. Mi ricordo ancora di un certo Castelli, studente di Avviamento con mansioni di portiere, che si tuffava con estremo coraggio sull’asfalto del campo, come se fosse un morbido

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materasso. In alternativa c’era il gioco delle figurine, vinte da chi indovinava il lato che avrebbero mostrato quando cadevano per terra. Io ne avevo fatto una vera incetta, con spudorata fortuna, ma mentre le stavo mettendo in ordine, appena seduto nel banco per l’ora di studio, il vice Picchiatello me le sequestrò. Cosa che ancora oggi non gli ho perdonato. Una cosa che mi lasciava perplesso, era l’appello ad ogni inizio di lezione. Mi chiedevo se ce ne fosse realmente bisogno, vista la nostra condizione di “reclusi”, anche se, per la verità, i due più discoli della compagnia un giorno se ne involarono scavalcando il cancello, ma facendovi ritorno il giorno successivo, fra le esclamazioni ammirate delle pecorelle mansuete quali noi eravamo. A forza di sentire l’appello, l’ho imparato a memoria e lo ricordo ancora oggi: Angelini, alto e aristocratico; Assi, piccolo e gentile, con esiti di poliomielite; Bianchetti, che voleva fare il giornalista; Bigoni, la celestiale voce bianca; Cominetti, un sempliciotto un po’ snobbato dai compagni; Corini, un goleador dal tiro micidiale; Dal Canto, dal dolce eloquio toscano; De Bernardi, un altro campione di calcio, divenuto, credo, imprenditore; Donzelli, inarrivabile centometrista, furbo e scanzonato; Frigerio, un ragazzo dall’animo mite e con un occhio di vetro; Milesi, un brembano di Roncobello, che quando lo rividi sulle nevi del rifugio Calvi non seppe riconoscermi; Muratori, un pacioccone da far tenerezza; Locatelli, un robusto biondone con spessi occhiali da miope; Loglio, gracile e di salute malferma, deceduto in giovane età, era di Casazza; Pagani, timido fino al pianto, quando veniva interrogato; Paganoni, dagli occhi luminosi e investigativi; Pezzoli, il sottoscritto; Rudelli, un rude montanaro di Ponte Nossa; Tiraboschi, con un futuro di assessore a Selvino; Valisi, che ogni domenica il padre milanese portava al mitico Cappello d’Oro per gustare i famosi bolliti; Vassalli, futuro medico a Villa d’Almè, impertinente e birichino, che i compagni chiamavano “Somia”. La domenica ci portavano a vedere l’Atalanta, quando giocava in casa. Nell’attesa che i giocatori uscissero in campo, gli altoparlanti diffondevano il ritornello: “Oh, come è effervescente, la magnesia di San


La sveglia Pellegrino. Alla sera, al mattino, ti fa bene e se ne prende un cucchiaino”. Poi le formazioni: N. 1, Lanfranco; 2, Giancamerla; 3, Lamanna; 4, Citterio e via via tutti gli altri, di cui ricordo solo l’ala sinistra, il “Topolino” Fabbri, futuro allenatore della sfortunata Nazionale che naufragò in Corea. Ma tante altre cose avrei da ricordare degli 8 anni trascorsi in collegio, sempre che possano interessare ai giovani di oggi. In tal caso, ne sentirebbero delle belle… Il ritorno in collegio per la seconda media, dopo le vacanze estive, non fu più un trauma. Ritrovare i compagni di scuola, gli amici del cuore, e scambiare con loro le nuove esperienze vissute al proprio paese, compensavano abbondantemente la tristezza di dover abbandonare per qualche mese la casa paterna. La prima media si era conclusa nel giugno del 1941, un anno dopo l’infausta entrata in guerra dell’Asse Roma-Berlino contro gli alleati della “perfida Albione”, ormai in ginocchio sotto l’incalzare delle truppe di Hitler, nell’illusoria speranza del nostro Duce che bastassero pochi morti per “sedersi al tavolo del vincitore”. Il famoso discorso di Mussolini, con il quale si riprometteva di “spezzare le reni alla Grecia”, fu trasmesso in diretta per radio ed un gruppetto di studenti si accalcava attorno ad un piccolo apparecchio appoggiato sul davanzale di una finestra del cortiletto del Liceo, che il pingue Luigi Carrara, laureando in lettere e docente del Collegio, si industriava di sintonizzare, fra il gracidare del microfono e le roboanti espressioni del Duce. Noi ragazzi non ci rendevamo conto della gravità del momento ed il nostro entusiasmo, condiviso da non poche persone che avevano da lunga pezza raggiunto l’età della ragione, trapelava dalle nostre “cronache”, con le quali si inneggiava al valore dei nostri soldati. Conservo ancora il quaderno dei compiti in classe, con la cronaca datata 3 marzo 1941, nella quale descrivo la rimozione dell’inferriata posta sul muro del cortile pensile delle elementari, per dare materia prima all’industria bellica. In quel periodo vennero fusi tutti i manufatti in ferro battuto che cingevano i cortili d’Italia, contemporaneamente alle pentole di rame che facevano bella mostra di sé sulle rastrelliere,

maggio 2009 accanto ai camini di tutte le case. Il coinvolgimento della gente era commovente e sincero. Accanto alla retorica di guerra, non mancava la coscienza di una realtà che andava palesandosi con sempre maggiore preoccupazione. Mentre i pezzi di ringhiera, tagliati dalla fiamma ossidrica,”cadevano a terra con frastuono, in un turbine di faville”, un manipolo di giovani soldati marciava cantando nella sottostante via Garibaldi. “In quel mentre, io pensavo ai soldati che morivano sul fronte greco-albanese e alle povere madri che aspettavano trepidanti i loro figli, tanto generosi verso la patria”. In occasione del rientro a Bergamo dell’eroico battaglione “Lupi di Toscana”, i convittori del collegio parteciparono all’evento. Un’enorme folla si assiepava sui due lati del Viale della Stazione, mentre i soldati sfilavano fieri al ritmo dei tamburi. Noi piccoletti, riuscivamo a malapena a sgusciare fra la gente ed a far capolino tra una persona e l’altra, come pulcini fra le ali di una chioccia. Aprivano il corteo gli ufficiali impettiti, con le mostrine multicolori a testimoniare le numerose campagne. Poi i soldati con le armi in spalla, gli uomini a cavallo, i patetici blindati di latta ed infine i feriti con le bende in evidenza e le stampelle, mentre gli infermi venivano sospinti sulle carrozzine da crocerossine vestite di bianco. Tra gli applausi scroscianti, qualche fazzoletto asciugava lacrime di commozione. Fu l’ultima manifestazione di amor patrio cui ebbi la ventura di assistere, prima

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Caro vecchio Collegio che tale sentimento fosse bandito per sempre dall’incalzante progressismo. Le aule di seconda e terza media si affacciavano sul porticato del primo cortile, provenendo da quello della prima media. Ricordo ancora le latrine allogate sul fondo, che farebbero arricciare il naso ai giovani d’oggi. Dirigeva la camerata il vice rettore Pellegrinelli, un prete arguto e dalla calma olimpica, completamente calvo, che era solito scherzare sulla sua calvizie affermando che era segno di grande intelligenza perché, essendo questa testimoniata da una fronte spaziosa, la sua era estesa nientemeno che dalle sopracciglia alla nuca. Una sola volta perse le staffe. Fungeva da assistente un seminarista che vestiva abiti borghesi. Un giorno, nessuno seppe precisare ad opera di chi, si sparse la notizia che costui avesse molestato un convittore. Il giorno stesso, quando l’assistente fece il suo ingresso in aula, mentre tutti noi eravamo schierati nei banchi, venne accolto da grida di scherno e da un clamore tale, che il pover’uomo rimase ritto ed impietrito dietro la cattedra, finché la canea si spense da sola. E’ tremenda la ferocia dei ragazzi e alla sera don Pellegrinelli ci redarguì con una tale veemenza, che ci lasciò tutti mortificati e pentiti. Non


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Caro vecchio Collegio ricordo le parole che usò. Il suo discorso fu alquanto sibillino per le nostre menti immature e probabilmente fu anche un po’ confuso. Ricordo solo l’ultima parola: “Porci”, rivolta verso di noi e ripetuta per tre volte con tale veemenza e col viso paonazzo, che poco ci mancò che gli prendesse un colpo apoplettico. Oggi le molestie sessuali sui minori sembrano all’ordine del giorno, forse perché i media portano in tutte le case ciò che avviene nel mondo intero, forse perché i costumi sono degenerati col trascorrere del tempo o forse perché se ne parla più di quanto non si facesse nei tempi andati, ma io posso testimoniare che in otto anni di collegio, a parte questo episodio del quale non c’è stata nemmeno certezza, non ho mai udito pettegolezzi o avuto notizie né, tanto meno, esperienze dirette circa episodi del genere. Il rapporto tra docenti e discenti, e tra personale dirigente e di vigilanza coi convittori, è sempre stato improntato alla massima serietà ed al rispetto della dignità umana. Una volta la settimana, ci recavamo in fila al campo sportivo dell’Ardens, in fondo alla via san Bernardino, per appassionanti partite di calcio con un pallone autentico. Quando il campo non era disponibile,si facevano lunghe passeggiate fuori porta, fra campi arati di fresco o verdeggianti di grano ancor giovane, alternati a gialle distese di ravizzone. Era l’occasione per godere appieno della primavera e riempirsi i polmoni dell’aria frizzante che ancora risentiva delle recenti gelate invernali. Altre volte la meta era il giro delle mura, oppure il santuario della Madonna del Rosario, ma era sempre una ghiotta occasione per uscire da quelle quattro pareti, che imprigionavano l’azzurro del cielo nella cornice di un semplice quadrato. In una delle aule erano allineati gli scaffali della biblioteca,gestita da don Maffeis, vice rettore del sottostante liceo. I romanzi di Emilio Salgari, ravvivati dalle gesta di Sandokan, dell’olimpico Tremal Naik e dell’astuto Yanez che

ostentava l’ennesima sigaretta fra le dita, facevano da contrappunto ai romanzi di Giulio Verne, precursori dei moderni racconti di fantascienza. Erano momenti di fantastica evasione, che talvolta rubavano il tempo allo studio perché la loro lettura era permessa soltanto durante le ore di ricreazione, ma c’era chi li teneva sulle ginocchia sotto il banco e li leggeva di sottecchi, facendo finta di studiare. Ogni tanto transitava nel cielo un piccolo aereo della propaganda fascista, che a tratti lanciava nell’aria dei volantini multicolori. Era uno spettacolo vedere i pacchi staccarsi dal velivolo ed esplodere in una miriade di luci che si accendevano e spegnevano ad intermittenza, in coincidenza col volgere della loro facciata verso i raggi del sole. Noi li inseguivamo vociando, mentre cadevano nel cortile. Avevano come titolo “Il Corriere aereo” e corredavano i loro articoli di propaganda con vignette di sapore denigratorio nei confronti delle truppe nemiche. Io ne feci una piccola collezione, che recentemente ho affidato al Museo Storico della Città di Bergamo. Le mie performance di sapore dantesco mi avevano procurato la simpatia dei professori e la stima dei compagni, che spesso e volentieri ricorrevano a me per correggere i compiti. Non che io fossi particolarmente dotato in materia. La mia lingua madre era il dialetto della Valgandino, con la tipica inflessione leffese leggermente contaminata da quella del paese di Peia, dal quale pag. 10

proveniva mia madre. Allergico ad ogni altro idioma straniero, avevo trovato nella lingua italiana la mia seconda lingua, forse per merito del maestro Gallinotti che in quarta e quinta elementare aveva saputo infondermi i primi rudimenti e farmi apprezzare la musicalità del Dolce Stil Novo. Da qualche anno era entrata in vigore la nuova riforma della scuola, ad opera del ministro Bottai. Erano stati aboliti i voti numerici. In loro vece venivano espressi giudizi di merito che, per usare un’espressione cara agli odierni denigratori della riforma Gelmini, fornivano un giudizio più articolato e concreto sulla reale personalità dell’allievo. Quasi mi vergogno nel proporre un esempio di tali giudizi, che ancora conservo sulla pagella di seconda media, firmata dal rettore prof. Biava. Io non ne ho colpa alcuna e pregherei gli eventuali lettori di non ridere alle mie spalle. PROFILO DELL’ALUNNO (Art.17 e 19 della Legge I° luglio 1940-XVIII,n.899) Ad un fisico perfetto e robusto,all’occhio vivace e ridente e all’aspetto serio corrispondono capacità veramente superiori ed un animo sensibilissimo alle bellezze naturali e pronto ai più nobili sentimenti. Segue con particolare interesse le lezioni ed accoglie con docile riconoscenza le correzioni dei superiori. E’ molto amato e stimato dai compagni che egli aiuta volentieri e sui quali ha molto ascendente. Ben guidato darà ottimi risultati. Fine della prima parte Enea Carlo Pezzoli


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Come di consueto (consueto per me, voi non potete saperlo) il momento di iniziare a scrivere il semestrale crogiuolo di assurdità incastonate in frasi dall’impressionante lunghezza e dall’altrettanto impressionante assenza di punteggiatura rilevante che costituisce l’angolo del Masse è momento di elevatissima tensione intellettuale, essenzialmente generata da quella strana specie di sottovuoto Torricelliano che prende possesso dell’interno del cranio umano appena prima di un impegno importante per il quale il cerebro sarebbe requisito essenziale. Tipo un esame, presente? Quei cinque minuti prima di un esame, quando vi pare che nulla di ciò che avete studiato sia disponibile per la consultazione nei meandri della vostra stessa memoria, salvo poi iniziare l’esame e scoprire che il black-out era solo temporaneo e che gli agognati ricordi di ore e ore di studio fluiscono magicamente a costituire frasi dal profondo significato e talvolta perfino di senso compiuto, interrotte solo dal pietoso “Forse sarebbe opportuno che Lei ripetesse l’esame.” profferito dal docente di turno? Ecco, appunto, mi aggiravo nel silenzio assordante (pregasi notare l’ossimoro!) dei miei pensieri, quando un suono

maggio 2009 inizialmente indistinto ha iniziato a prendere corpo e a definirsi vieppiù. E lì ne è nato un piccolo dramma, perché c’è voluto un po’ a identificarlo: era la sigla di un programma della RAI degli anni 80: l’Almanacco delgiorno dopo. Ve lo ricordate? Quelprogrammino da 20 minuti in cui Paola Perissi snocciolava il santo del giorno, dava informazioni essenziali tipo “il sole sorge alle e tramonta alle” e soprattutto, nel sottoprogramma “Domani avvenne”, citava improbabili e oscure ricorrenze quali il 273simo anniversario della morte di uno sconosciuto o il birillionesimo di un ignoto evento. Ordunque, di quale accadimento il mio subconscio, attraverso tali ignobili e incomprensibili mezzi, cercava di segnalarmi l’esistenza? La risposta era talmente ovvia da sfuggire ad una prima analisi, e poi a una seconda e anche a una terza. Finché… Sorbole! Sono già dieci anni che scrivo su La Sveglia! Ora, posso capire che a voi non ve ne freghi un granché, ma per me la ricorrenza è assai significativa e per uno sfracello di motivi. Intanto perché significa che sono invecchiato di altri dieci anni da quando già la qualifica di ex-allievo mi faceva sentire vecchio, il che è la prima considerazione che a uno viene quando si trova di fronte a un anniversario (Falso. Quella è la seconda, la prima è “Ostrega! Me ne ero dimenticato!). E poi perché passare dieci anni a dissertare in forma scritta degli argomenti più svariati (e talvolta del nulla più assoluto) senza essere invitato dai lettori o dalla redazione a dedicarsi ad attività più costruttive tipo lo scopaggio del mare o la briscola in solitaria è pur sempre risultato più che degno. Vero è che né io né la redazione veniamo subissati di lettere di pag. 11

apprezzamento a ogni tre per due, ma altrettanto vero è che nemmeno le lettere di sdegno e di insulti abbondano. Il che vuol dire che a) tutto sommato me la sono cavata o b) non gliene può fregare di meno a nessuno. In assenza di riscontri supplementari scelgo l’ipotesi a) e sto in pace con me stesso. Comunque sì, correva il marzo 1999 (per chi scriveva, per chi leggeva correva probabilmente il giugno o il luglio 1999) quando sulla Sveglia apparve un articolo di stampo vagamente anti-europeista che gettò nell’imbarazzo la redazione e creò lo scompiglio fra i lettori. Ciò posso affermare senza tema di smentite dal momento che facevo parte della redazione e mi imbarazzai alquanto ed ero pure uno dei tre affezionati lettori e mi scompigliai non poco. E qui dovrei iniziare il rito dell’autocelebrazione, fatto di accenni e brevi riassunti a quanto prodotto nel corso del decennio, ma non lo farò. Primo perché ho già ecceduto con la celebrazione di un anniversario che interessa solo me stesso, secondo perché così posso dare all’Eugenio la possibilità di fornire con congruo sovrapprezzo gli arretrati della Sveglia a chi ne facesse richiesta e terzo perché mi sovvengono gli insegnamenti del buon Fernando Noris, che faceva notare a un branco di ragazzotti semi-ignoranti che il segno evidente della crisi creativa degli artisti è la tendenza a rielaborare se stessi, a riprodurre le proprie opere (con o senza modifiche sostanziali), a pubblicare raccolte e “greatest hits”, ad avvilupparsi su se stessi in buona sostanza. E per uno come me, afflitto da un complesso di superiorità grande quanto un dirigibile, sarebbe troppo. Masse


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Non si può mettere ai voti la vita e la morte Lo scorso febbraio, a conclusione della sfortunata vicenda di Eluana Englaro, sembrava che in Italia non ci fosse questione più importante che legiferare chiaramente sui trattamenti di fine vita. Torbidezze legislative non potevano certo essere ammesse nel momento in cui la vita di più esseri umani stava diventando oggetto di battaglie in tribunale a colpi di cavilli. Cito i due riferimenti più importanti che il diritto ci offriva in quei giorni: il primo è l’articolo 32 della Costituzione, con il quale si stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, mentre il secondo corrisponde alla Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo del 1997 che l’Italia ha ratificato nel 2001 disponendo che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte del paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. È proprio questa disposizione che ha permesso alla vicenda di Eluana di prendere il corso che tutti sappiamo: la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale hanno ritenuto abbastanza fondate le testimonianze sulla volontà di Eluana fornite dai conoscenti e dal suo tutore legale Giuseppe Englaro e ha autorizzato l’interruzione di alimentazione e idratazione, ma il tutto, come potete vedere, si è svolto nella più perfetta legalità. Tuttavia, sia che in quei giorni abbiamo parteggiato per la battaglia condotta dal sig. Englaro o abbiamo biasimato la decisione dei tribunali, mi sembra davvero che in questo caso tale legalità possa definirsi miope. Miope perché lascia al puro arbitrio i due punti, a mio

parere, fondamentali del problema: innanzitutto alimentazione e idratazione possono essere considerati una trattamento medico? In secondo luogo cosa significa che i desideri precedentemente espressi dal paziente “saranno tenuti in considerazione”? Una dichiarazione scritta o orale (purché sia accertata con rigore) è vincolante o no per il medico? Lo scorso 26 marzo il Governo è riuscito a far approvare dal Senato (150 voti favorevoli contro 123 contrari e 3 astenuti) un disegno di legge sulla dichiarazione anticipata di trattamento, quella che ai più è nota sotto il nome di “testamento biologico”. Il disegno di legge si mostra categorico sul primo punto: alimentazione e idratazione non possono essere interrotte, in quanto non rientrano nella categoria delle terapie mediche. Di conseguenza in merito a queste due pratiche non vale l’articolo della Costituzione: né il malato o chi per lui possono chiederne l’interruzione, né il medico è autorizzato ad assecondare una simile richiesta. Interviene qui anche il giuramento di Ippocrate che cito in uno dei suoi passaggi: “ giuro di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze”. Essendo state alimentazione e idratazione omologate dalla legge a espressioni di semplice solidarietà, il medico che acconsentisse all’interruzione di queste violerebbe anche tale giuramento. Sul secondo punto, invece, la vicenda si fa più intricata. C’è chi ha parlato del disegno di legge come di carta straccia, dal momento che, dopo aver descritto contenuti e limiti del testamento biologico, inserisce il discusso emendamento pag. 12

Fosson, dal nome del senatore dell’UDC, approvato con 136 voti favorevoli contro 120 contrari: “le volontà espresse dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno”. Di fatto viene stabilito che il testamento biologico non sarà in alcun modo vincolante per il medico. In questo modo il paziente potrebbe essere messo nella situazione di essere sottoposto a interventi non richiesti, finendo così molto vicini al confine dell’accanimento terapeutico, stigmatizzato non solo dal giuramento di Ippocrate, ma anche dalla Costituzione e dalla stessa Chiesa cattolica. Personalmente sento di voler dire solo un paio di cose. Innanzitutto mi fanno impressione i numeri delle votazioni: per una manciata di voti si decide della vita e delle speranze di moltissime persone. Se una legge verrà fatta, è davvero auspicabile che parlamentari e senatori cerchino di trovare il maggior accordo possibile. So di poter apparire utopista ma credo che vita, libertà, dolore e morte siano temi che non possono essere sottoposti a giochi di potere tra maggioranza e opposizione come una qualsiasi legge finanziaria. Inoltre trovo abbastanza risibile il decreto approvato: se riguardo alla definizione di trattamento medico si dimostra coraggioso, la stessa cosa non si può dire del secondo punto. Che senso ha legiferare su una dichiarazione priva di qualsiasi vincolo giuridico? La politica un questo caso farebbe bene a seguire Ippocrate e ad evitare quanto meno di nuocere. Roberto Vedovati


La sveglia Dice di essere una persona con i piedi per terra, è ingegnere aerospaziale ed è certa che l’uomo metterà presto piede su Marte. È carina, bionda e con un gran sorriso che, insieme a uno zaino pieno di intelligenza, passione, algoritmi e nozioni impensabili per i «comuni mortali», le sarà tornato utile pure a Cap Canaveral, in Florida, dov’è sbarcata per dare una bella controllata a un modulo spaziale appena rientrato alla base dalla Stazione spaziale internazionale, avamposto permanente della presenza umana nell’universo. Sulla rampa del «Kennedy Space Center» ci è arrivata dopo una laurea presa nel 2006 sotto la guida della docente Michèle Lavagna, braccio destro dell’inossidabile professoressa Amalia Ercoli Finzi - che vive a Sotto il Monte -, «decana» delle ingegnere aerospaziali italiane e titolare al Politecnico di Milano della cattedra di meccanica orbitale. L’argomento della sua tesi di laurea vaga tra l’intelligenza artificiale e l’interazione tra uomo e robot. I piedi per terra, dunque, ma la testa tra stelle e pianeti, il mondo di Elena Afelli, 28 anni, di Martinengo, è lo spazio. E qualche mese fa ha messo piede alla Nasa, in Florida - il «sancta sanctorum» dell’esplorazione planetaria -, dove per una quindicina di giorni ha ispezionato palmo a palmo il modulo Mplm che porta i rifornimenti all’Iss (International space station). Per traslare in «italiano», si tratta del mezzo che trasporta tutto quel che serve agli astronauti della Stazione internazionale (progetto a cui collaborano le agenzie spaziali di Usa, Europa, Russia, Canada e Giappone) in orbita attorno alla Terra a un’altitudine dei 350 chilometri sopra i nostri nasi. Ovvio che la sicurezza in questo campo non è un optional, quindi il modulo Mplm, che viene lanciato con lo Shuttle, una volta tornato alla base va controllato per filo e per segno, in modo che sia pronto e tutto in ordine per la missione successiva. E a novembre 2008 l’incarico è stato affidato a lei, volata in Florida da sola. «È stato un sogno che si è avverato», dice Elena. Un sogno cullato da sempre e scalato pian piano con tenacia e tanto, tanto studio.

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Qui Cape Canaveral a voi stazione orbitante Ex alunna del liceo scientifico dell’istituto Sant’Alessandro in città, dopo il diploma si fionda al Politecnico di Milano con le idee chiare in testa: dopo i tre anni di laurea breve, passa alla specialistica nella facoltà di Ingegneria aerospaziale. Né mamma Ida e papà Renato, per anni alla guida di un noto negozio di abbigliamento a Martinengo e ora in pensione, né la sorella Daniela, che invece ha scelto di fare la casalinga, hanno avuto nulla da ridire: era una vita che Elena annunciava di volersi iscrivere a Ingegneria. Nell’anno in cui si laurea, le donne sono solo cinque. E sono pochine anche alla «Altec», l’azienda torinese in cui nel 2007 Elena trova lavoro con un contratto a tempo determinato dopo sei mesi di collaborazione con l’ateneo milanese. «Siamo una quarantina tra ingegneri, fisici e matematici racconta -, ma le ragazze solo sette». «Qui contano solo le capacità, il resto nulla», aggiunge decisa. Tanto che a novembre la spediscono da sola a controllare il modulo Mplm, alla Nasa.

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«Lavoro principalmente su due progetti - spiega Elena -. Il primo dell’European space agency (l’Esa: Agenzia spaziale europea, ndr), in cui svolgo il ruolo di responsabile di magazzino per programmi relativi sempre alla Iss lato Europa. In questa mansione svolgo attività di logistica vera e propria, quindi immagazzinamento, spedizioni, ricezioni. Ovviamente si tratta sempre di pezzi molto particolari e di difficile maneggiamento, che devono essere tenuti in ambienti controllati sia per condizioni di temperatura e umidità che per condizioni di pulizia. Per questi pezzi vengono costantemente fatte delle attività di manutenzione per fare in modo che mantengano la loro funzionalità nel tempo. Inoltre, nell’ambito di questo programma svolgo le attività di test per un software di argomento logistico che viene sviluppato all’interno della mia azienda». Poi ci sono i progetti con la Nasa. «Per il modulo logistico Mplm della Stazione spaziale internazionale spiega Elena - seguo le missioni Shuttle che hanno come protagonista il modulo attraverso il centro di controllo allestito a Torino nella mia azienda, nella console di operations&logistics, supportando il responsabile di sala nel monitoraggio dello stato dei diversi sistemi di Mplm, in collaborazione ovviamente con i singoli esperti di questi sottosistemi. In questa attività siamo chiamati a dare il nostro supporto ingegneristico nel caso di problematiche nate sul modulo. Inoltre, siamo chiamati a svolgere le attività di preparazione della missione oppure di post landing direttamente sul modulo al Kennedy Space Center di Cape Canaveral, in Florida». E scusate se è poco. «È stata una bellissima esperienza», commenta soddisfatta. Però poi le piace anche fare quello che fanno tutti i giovani della sua età. «Sono una persona normale», protesta sorridendo quando le chiedi se nel suo «giro» di amici si parla solo di stelle e di spazio. «Mi piace trascorre le serate a chiacchierare o ballare, non sogno di fare l’astronauta, non penso solo al lavoro». E prima o poi dice che nella sua vita ci sarà «spazio» anche per metter su famiglia. Claudia Mangili


La sveglia

maggio 2009

Rassegna stampa degli Ex allievi L’Eco di Bergamo Il Giorno UNA BELLA RAGAZZA bionda a Cape Canaveral. E chi se lo sarebbe mai aspettato che Elena Afelli, classe ’81, ex allieva del Collegio Vescovile Sant’Alessandro di Bergamo, ingegnere aerospaziale, si ritrovasse (come lei stessa scrive) «dopo anni di sacrifici a svolgere un lavoro che mi permette di vivere “tre metri sopra il cielo”, con satelliti, shuttle e Nasa oramai non più sogni, ma pane quotidiano». Partita da Martinengo, la grintosa ragazza bergamasca ha trovato la sua strada, tanto da arrivare sino in Florida, negli Stati Uniti. Nel novembre scorso, infatti, ha effettuato un’esperienza unica e irripetibile in una sala di controllo delle missioni spaziali, nel centro di Cape Canaveral, mettendo a disposizione degli astronauti la sua preparazione. Le sigle ed i nomi di questa esperineza suonano difficili, ma Elena riesce a spiegare con semplicità quello che ha fatto. «ILNOMEdella mia prima missione, che è durata 15 giorni - racconta era ULF2 STS-126 ed il compito assegnatomi è stato quello di supportare il responsabile della sala di controllo nella consolle di “operations&logistics”. Specificatamente si trattava di raccogliere l’intera documentazione definita delle diverse discipline ingegneristiche coinvolte nella missione (termici, strutturasti, avionici) monitorando lo stato dei vari sottosistemi del modulo logistico Mplm. Si tratta del sistema che permette di portare rifornimenti agli astronauti che per mesi abiteranno nella stazione spaziale, eventuali pezzi di ricambio per la manutenzione, oppure veri e propri esperimenti, che arrivano dal mondo scientifico mondiale». Difficoltà? «Devo dire che l’approccio è stato molto positivo ricorda - perchè anche se mi ero appena laureata e non avevo esperienza, tutti i componenti del teamdi cui ho fatto parte (una ventina di persone) mi hanno aiutato. Alla fine credo che si tratti di un lavoro come un altro. Certo ci sono in ballo cose molto complesse, gli studi fatti erano lontani anni luce dall’applicazione pratica, ma con buona volontà, pazienza ed umiltà è possibile riuscire». QUALE LA QUALITÀ più importante che si deve avere? « Fondamentale è la minuziosità, l’attenzione ai particolari che si deve avere. Per esempio in Nasa, al Kennedy Space Center, la casa dello shuttle, vero e proprio sogno per chi come me ha scelto ingegneria spaziale, ogni piccola discrepanza deve essere registrata e giustificata. Lì vige un motto “Safety!.. is no accident” per poter garantire la sicurezza dell’intero equipaggio e l’integrità del progetto ». Una ragazza proprio speciale.. «No - rettifica decisa - sono una persona normale che ha i problemi di tutti. Il mio sogno, ora, come succede ai precari di tutto il mondo, è quello di rimanere nel settore ed avere un contratto fisso».

Ex allieva dell’istituto «Sant’Alessandro» in città e della facoltà di Ingegneria aerospaziale del Politecnico di Milano, Federica Baretti, 28 anni di Urgnano, oggi progetta impianti eolici in Alto Adige, dove ha trovato lavoro «al volo», qualche mese dopo la laurea specialistica in aeronautica. Una passione di famiglia, quella per la matematica in generale, ma solo delle donne di casa Baretti: mamma Nadia è insegnante di «mate» alle elementari di Spirano, mentre la piccola di casa - Gloria, 20 anni - pure lei è iscritta alla facoltà di Ingegneria del Politecnico a Milano (papà Silvano è, invece, vicedirettore al Centro di formazione professionale di Curno). Federica, dunque, oggi lavora alla «Leitwind» di Vipiteno, in provincia di Bolzano, come analista aeroelastica. Tra una quarantina di dipendenti da tutta Europa (italiani, tedeschi, austriaci e tanti spagnoli), lei è l’unico ingegnere aerospaziale e si occupa di studiare la dinamica delle turbine alimentate dal vento e di collaborare alla progettazione degli impianti (in gergo aerogeneratori) che producono energia pulita. L’ultimo in ordine di tempo, il nuovo Parco eolico di Montacatini Val di Cecina, che s’inaugura oggi e che si trova nel «Distretto delle energie rinnovabili della Toscana». Un parco che produrrà a regime circa 16.200 megawatt di energia elettrica, consentendo un risparmio di circa 3.600 tonnellate di petrolio e un taglio di quasi 16.000 tonnellate di anidride carbonica. «Un settore che non conosce crisi - dice Federica -, e che anzi è in forte sviluppo». Così il giovane ingegnere «in rosa» ha fatto le valigie e da Urgnano si è trasferita in Alto Adige e oggi vive a Bressanone. Ha pure trovato l’amore, in un collega di lavoro. La passione per la matematica (al liceo scientifico la sua media si attestava tra l’8 e il 9 e alla fine si è diplomata con 100 centesimi) l’ha condotta dove voleva: un lavoro che le dà grandi soddisfazioni. «Ma è stata veramente dura - dice sorridendo -: quando mia sorella ha annunciato che voleva frequentare la facoltà di Ingegneria energetica le ho detto di prepararsi ai sacrifici. Se guardo indietro, vedo ore e ore passate sui libri. Io ero una che studiava davvero tanto. Ma ho avuto anche tantissime soddisfazioni: il metodo di approccio scientifico alle cose mi serve anche nella vita». E pensare che ha scelto ingegneria aerospaziale solo per curiosità: «Mi piaceva la matematica. Ho seguito la presentazione della facoltà e mi son detta “Perché no?”». Ci sarebbero mille ragioni (i sacrifici di cui parlava poc’anzi, per esempio), ma lei ha detto sì.

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maggio 2009

NOTIZIE DALLA SCUOLA

«Con voi mi sento a casa»

Notizie in breve • Il Vescovo Francesco Beschi scrive a don Sana. “Rev.mo mons. Achille, grazie di cuore per la sua partecipazione a questo passaggio della mia vita e del mio servizio pastorale. Mi dispongo a corrispondere a questa responsabilità con semplicità e disponibilità. Sono sempre stato convinto che in qualsiasi luogo, situazione, e condizione della mia vita fosse possibile e doveroso assecondare la meraviglia della Grazia e la sorpresa della Chiamata. Sarei incosciente se non vedessi la sproporzione fra il compito e la mia persona: mi fido a e mi affido al Signore. E anche a lei: alla sua amicizia, fede e preghiera; memore della sua lettera, primizia di tutte quelle bergamasche. Ricordo tutta la comunità educativa. Con profonda vicinanza, la benedico.” • Chi volesse ricevere il catalogo in formato xls del “Fondo Lorenzo Capellini” lo può chiedere con una mail al prof. Eugenio Donadoni: biblioteca@santalex.it. • Chi volesse vedere don Sana che presenta l’Annuario 2007-2008 può andare su You Tube sul canale degli Ex allievi del Sant’Alessandro http://it.youtube.com/user/EXALLIEVI • Giovedì 15 gennaio alle 13.00 è stata inaugurata dal Preside la palestra di pesistica del Sant’Alessandro. • A Natale, durante la Santa Messa di Mezzanotte, sono stati raccolti 366 euro a favore degli Ex allievi in terra di missione. • Il prof. Umberto Amadigi ha pubblicato: “Vittoria Quarenghi. Biografia di una testimonianza”. • Fra Natale e Pasqua gli studenti del Sant’Alessandro hanno raccolto per l’ospedale di Lacor in Uganda 4.500,00 euro. • Roberta Marzani, la promettente spadista della Bergamasca Scherma, nella categoria Ragazze, s’impone nella seconda prova nazionale Under 14 disputatasi al PalaCus di Baronissi, in provincia di Salerno. • Dal 17 al 23 aprile Isabelle Campagne e Martina Da Re sono state a New York per la finale del concorso Yagp di danza classica. • Giovedì 23 aprile la squadra di softball maschile del Sant’Alessandro ha conquistato a Novara il titolo nazionale nei campionati studenteschi. • Gianluca Scanzi e Sofia Libraro sono i due studenti del Sant’Alessandro che si sono classificati per la finale nazionale di Kangourou della lingua inglese 2009 che si terrà a Mirabilandia dal 14 al 16 maggio. pag. 15

«Non sono stato uno studente brillante, ma la fiducia che gli adulti avevano in me non è mai venuta meno anche quando li deludevo e mi ha aiutato a ritrovarmi. Ma ha aiutato a prendere gusto alla vita fino a provare riconoscenza per il fatto di esistere. Senza la loro fedeltà, forse mi sarei perso». Il vescovo Francesco Beschi parla agli studenti del Collegio vescovile Sant’Alessandro. L’incontro con studenti e docenti del Sant’Alessandro, ha detto il vescovo, lo «ha fatto sentire a casa», tanto che le sue parole ai ragazzi sono state più libere dei messaggi di benvenuto (tutti impeccabilmente inamidati) dei rappresentanti delle classi, accolti con sorrisi e abbracci da monsignor Beschi che si è commosso alle parole della portavoce più piccola, Serena, di prima media. Il vescovo è stato accolto in auditorium dal rettore monsignor Achille Sana che gli ha donato la medaglia del 150° anniversario del Collegio, conio numero 58: «Scelto apposta - ha sottolineato lieto il rettore - perché uguale agli anni del vescovo». Dopo il caloroso benvenuto, tutto lo spazio è stato lasciato alla scuola. A nome dei docenti ha parlato il vicepreside Enzo Noris che ha suggerito il «rinforzo dei legami» della comunità educante come via per superare le incertezze dei ragazzi e le difficoltà professionali dei docenti. La presidente del Consiglio d’istituto, Sara Longo Cesarini, ha ricordato con emozione l’incontro dei giovani con il vescovo il giorno dell’ingresso in diocesi e ha concluso con un impegnativo: «Non la deluderemo». L’atmosfera si è distesa quando il vescovo, per ascoltare il breve concerto dei ragazzi dell’indirizzo musicale diretti da Paolo Viscardi, si è accomodato fra il pubblico (alla giusta distanza dai violini). «Sono felice di essere approdato tra voi», ha detto monsignor Beschi ai ragazzi che riempivano l’auditorium, soffermandosi sulla rassicurante sensazione del sentirsi a casa. Ha raccontato come, «proprio perché si sa dove tornare, sia bello lanciarsi alla scoperta del mondo, andare lontano per esplorare le mille possibilità della vita». Il silenzio ha cambiato qualità quando il vescovo ha francamente ammesso le difficoltà di crescere, le «situazioni delicate e dolorose» che possono annidarsi in ogni famiglia, la «fame di fiducia» di chi per sua fortuna ha già il pane e che può essere saziata solo se «gli adulti, anche a scuola, sono fedeli ai giovani». Perché solo la fiducia accordata «fa sentire a casa propria nel mondo, nel proprio cuore, nel cuore degli altri». Così la giovinezza può compiersi e diventare età adulta consapevole e grata. Un augurio e un’offerta di aiuto che i ragazzi hanno preso al volo. Susanna Pesenti


La sveglia

maggio 2009

ULTIMA PAGINA

DON SANA HA 70 ANNI continua dalla quinta

Come è nato il Collegio Sant’Alessandro? «Come un convitto per i ragazzi che venivano in città a studiare.Poi ha aperto scuole proprie: le elementari, i cinque anni del ginnasio, il Liceo classico, per breve tempo l’Avviamento. Infine la scuola media, il Liceo scientifico». Dal 1846 è passata di qui metà della borghesia bergamasca. Cosa è cambiato? «Le generazioni si sono modificate sempre più in fretta, prima le leve di ragazzi erano stabili, simili tra loro, poi qualcosa è partito, siamo arrivati ad avere modificazioni generazionali ogni tre anni, adesso ogni anno l’approccio educativo dev’essere modificato». In questo mare agitato il timone, oltre che sulla cultura, è tenuto fisso sulla rotta del personalismo cristiano e del senso della comunità. Cosa significa essere una scuola cattolica? «L’aggettivo cattolico...i genitori si affidano fin troppo, delegano, chiedono alla scuola di supplire. Manteniamo alcuni segni forti, al mattino la Messa è libera. Molti ragazzi entrano in cappella a dire le preghiere...è bello. Ma, soprattutto, sto cercando di iscrivere il senso cattolico nella scuola attraverso la parabola dei talenti. Cerco di far nascere la coscienza del dovere di mettere a frutto le proprie capacità e di metterle a servizio della società. In quanto cattolico, devi essere un buon

cittadino». È vero che parla con tutti gli allievi, uno per uno, a partire dal terzo anno delle superiori? «Sono gli anni più produttivi per la testa e per il cuore. Non devono perderli». Funziona? «Non subito, non sempre, ma si sentono presi sul serio». Dicono che monsignor Sana sia sempre pronto a dare fiducia. È così? «Dio sa quanto mi costa a volte urtarmi con il corpo docente...a volte rischio. Eppure credo che se dai fiducia prima o poi i ragazzi rispondono... Ora sono molto preoccupato per un ragazzo intelligentissimo che ha deciso di non-fare-nulla non-dire-nulla e non capisco perché...». Lo sguardo gli si rattrista, si passa una mano tra i capelli che restano ritti. Qual è il punto critico per l’educatore di oggi? «È difficile trasmettere il valore di un progetto. Ai ragazzi non riesci a dare un’idea futura di sé, perché hanno tutto già e non hanno idea di che cosa vuol dire “raggiungere”. Hanno bisogno di autonomia. I genitori devono lasciarli andare». Questa scuola è sempre stata capace di innovare. Qual è il suo contributo? «Il mio contributo all’innovazione sono state le scuole medie miste, il liceo musicale. Sono riconoscente a chi mi ha preceduto per aver creato questa tradizione di fedeltà e innovazione. Oggi però la scuola non è aiutata dal contesto, si è perso, in gran parte, il senso del legame tra benessere e responsabilità». Non che le passate generazioni di allievi fossero perfette: c’è stato anche qualcuno «beccato di notte nella scuola a caccia di un certo compito in classe: lo spavento per le conseguenze gli fece riconnettere il cervello. Ma dalla scuola sono usciti politici,

diplomatici, imprenditori, professionisti, scienziati in grado di dire la loro in contesti internazionali». La crisi della cittadinanza è profonda, investe tutta la società italiana. Come si fa a dare segnali diversi? «Questo collegio nella sua storia ha attraversato momenti durissimi - ricorda monsignor Sana - eppure tutti i rettori son sempre rimasti al loro posto: dietro di me ho solo 5 predecessori nello spazio di 163 anni» È evidente che questa tradizione di fedeltà le dà forza. Ma forse la verità è che, a guidare questa «parrocchia» di under 18, si diverte più di quanto si preoccupi? «Si impara molto dai giovani. Per anni un alunno straniero che restava solo durante le vacanze ha passato il Natale con i miei famigliari. Mi insegnò l’importanza di interessarmi dei ragazzi oltre il cancello della scuola. A volte sbaglio. Per impazienza son troppo duro, voglio il risultato, il ragazzo si chiude. Mai interrompere il dialogo». Entusiastici saluti urlati lo accolgono mentre passa davanti a un’aula aperta. «Son quegli sconsiderati del recupero...» commenta tutto contento dopo averli inceneriti con lo sguardo ed essersi informato di come vanno i loro affari di quindicenni. Cosa significa essere preside per trent’anni? «Restare a lungo nella scuola significa imparare a guardare oltre, appassionarsi alle generazioni, trovare modi per legarle l’un l’altra», risponde mentre si accomiata con un sorriso. Su Facebook, il gruppo degli allievi del Sant’Alessandro ha 309 iscritti: si chiama «Mens Sana in corpore Achille». Susanna Pesenti

La Redazione: Teresa Capezzuto e Gianpietro Masserini. Disegni di Stefano Savoldelli. Segretario di redazione: Eugenio Donadoni. Grafica: Fabio Colombo e Domenico Gualandris. LA SVEGLIA c/o Biblioteca Collegio Vescovile Sant’Alessandro via Garibaldi 3, 24122 Bergamo Tel. 035 21 85 00 - Fax. 035 388 60 88 - Internet: www.exsantalex.it - www.santalex.it email: biblioteca@santalex.it


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