Quaderni del Weiliero

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Sommario Editoriale …………………………………………...……………………………… p. 5 Tra vergogna e paura di Pascale Kramer, a cura di Aurelio Cavalleri ….. p. 6 Astronauti e poeti di Fabio Rapizza …………….………………………… p. 15 Costellazioni di Paolo Durando ……………………………………...…….. p. 18 Molisn’t di Alberto Sana ...………………………………………..…………. p. 24

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Editoriale È stato un caso, lo giuro, nulla di premeditato. Ma, trovandomi a ordinare il materiale per questo nuovo numero dei “Quaderni del Weiliero”, si è reso evidente un fatto: che nessuno dei pezzi che (forse) leggerete parla di realtà a noi prossime. Un caso, dopo l’anno appena trascorso in cui le prossimità hanno subito per tutti un rapido e talvolta doloroso stravolgimento? Non lo so. Ma era naturale dare un titolo a questo numero, e titolo più naturale non poteva che essere Altrove. Tutti e quattro gli scritti qui raccolti parlano di un altrove spaziotemporale: si comincia con il pugno nello stomaco iniziale, si prosegue tra allunaggi e poesia, si plana su pianeti sconosciuti. Escapismo? Parbleu!, no, anzi. Abbiamo tutti voglia di riavere a che fare con la nostra realtà, ma sappiamo benissimo che ci si conosce di più solo se si ha a che fare con l’altro. Anche questa volta ci proviamo. Quella cosetta che tanti problemi

ci ha dato nell’ultimo anno è citata solamente, e di sfuggita, nelle ultime righe del numero. C’è anche altro nel mondo, appunto. Grazie ai collaboratori del presente e del passato. Un invito a intervenire a quelli del futuro. Un saluto a tutti. Il responsabile del Weiliero

Alberto Sana

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Quello che segue (in originale L’effroi et la honte) è un articolo di Pascale Kramer pubblicato nel 2016 dalla rivista francese online Le 1 e oggetto di un percorso traduttivo del gruppo classe di 5^M nell’anno scolastico 2018-19. Per la sua realizzazione, ci si è avvalsi della supervisione attenta e preziosa di Luciana Cisbani, affermata traduttrice letteraria dal francese, di Crema, e con la quale il nostro liceo vanta una collaborazione significativa da circa quindici anni. Al termine dell’anno scolastico, gli alunni hanno infine presentato pubblicamente il lavoro con un’animazione teatrale, coordinata a titolo gratuito da Antonella Cazzola e da Emilio Quadri, della Compagnia Instabile di Vaprio d’Adda e genitori di un’alunna della classe. Un’esperienza che ha toccato in profondità tutti coloro che sono intervenuti. La classe ha accettato con coraggio una sfida naturalmente destinata a un rapporto a due, il testo e il traduttore, e che prevederebbe dinamiche lontane dalla condivisione a più voci, ancor più per un’autrice linguisticamente complessa e che metterebbe a dura prova i migliori professionisti. Tuttavia, come Luciana ha scritto nella postfazione a chiusura del lavoro: «tradurre in più gruppi vuol dire imparare a curare i dettagli, ad ascoltare le ragioni altrui, a negoziare, a rispettarsi, a fare e sentirsi squadra» e che «l’armonia finale di ogni lavoro collettivo è in realtà il frutto di immensi sforzi taciuti». È, a mio avviso, il valore aggiunto di una fatica che ha arricchito alunni, genitori e docenti, in termini linguistici, culturali e ancor più umani, e che dà senso alla scuola, per la sua capacità di sintetizzare esperienze di vita.

Aurelio Cavalleri 6

Pascale Kramer, Tra vergogna e paura È una sera di pieno agosto, in una Parigi abbandonata, sul Quai des Célestins. Un uomo è disteso sulla schiena, di traverso lungo il marciapiede. Da lontano, potrebbe sembrare morto o privo di conoscenza. In realtà sonnecchia, ubriaco. Dischiude gli occhi sentendo la mia presenza, mi rivolge un sorriso di una dolcezza inverosimile, farfuglia qualcosa che non capisco. Avrà trent’anni, è biondo, un bel ragazzo. «È pericoloso stare lì, si trova sulla pista ciclabile». Credo che mi tenda la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma quando la afferro, la ritira. Ciò che vuole è accarezzarmi la guancia, non per ringraziarmi, quanto per consolarmi, lui che dal basso mi vede compassionevole, si direbbe. La situazione è un po’ insolita, non so bene che fare. Si è avvicinato un altro uomo, amico del primo. Anche lui ha bevuto parecchio. Gli dico che bisognerebbe chiamare il 112, che non lo si può lasciare lì. Lui concorda. «Ma poi come faccio, non posso portarmelo in spalla». Certo.

Anche una coppia si è fermata, sono dei residenti del quartiere che come me fanno quattro passi dopo cena. Bisogna chiamare i pompieri, afferma la donna. Parla con voce forte, come se avesse la necessità di sentirsi agire. Dalla porta del negozio di alimentari a due passi da noi, un ragazzo ci osserva e ci raggiunge. Gli spiego la situazione, che lui conosce perfettamente. Quell’uomo dorme lì tutte le sere, proprio davanti all’ingresso del negozio, sempre in quel punto preciso, con la schiena appoggiata sul soffio caldo di una grata che non avevamo notato. Il giovane sembra restio a frenare il nostro ardore, ma i pompieri, loro, li hanno già chiamati, spesso e invano. «A volte non lo vogliono portare via, altre volte gli lasciano smaltire la sbornia e lo dimettono al mattino». Il ragazzo è dispiaciuto, perché evidentemente sente una responsabilità verso quell’uomo che ogni sera crolla davanti ai suoi occhi. Lui si è informato, sa che viene dalla Polonia, dallo stesso paesino del suo

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amico, che ha dei figli, che a causa di un ictus non riesce più a reggersi in piedi da solo. Che sfortuna, ripete più volte. Scartata l’opzione pompieri, la coppia si è congedata. Rimaniamo solo noi tre: il figlio del negozio di alimentari, l’altro polacco e io, davanti all’uomo sdraiato che si è rigirato sul fianco e sorride al calore della grata, e sembra ormai lontano, lontano da noi, in un’immensa beatitudine. Dopo tutto quello sfoggio di buona volontà, il constatare che non c’è nient’altro da fare che abbandonarlo lì, ci imbarazza. Così ci presentiamo, prima di augurarci buona serata, molto cortesemente. Non è così frequente che si collabori tra residenti parigini e commercianti arabi, né che ci si preoccupi insieme di questi uomini o donne venuti a uccidersi lentamente nei nostri quartieri. Una preoccupazione spesso vana, ma che compensa tutte quelle volte, incalcolabili, in cui ci siamo scansati senza neanche uno sguardo, con una sorta di indifferenza, di ossessione a volte. Penso a quell’uomo in rue Rataud, nel quinto arrondissement. Un giorno, accompagno Rose, una bambina di tre anni, ai Jardins des Plantes. L’uomo è sdraiato sul fianco, ha le convulsioni, i suoi occhi sono due biglie nere allucinate in un viso incrostato di barba e di ematomi. Impossibile dire se quello sguardo folle mi veda, ma

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è fisso su di me, magari è solo la mia cattiva coscienza a farmi pensare che l’uomo mi stia supplicando? Non ho figli, è la prima volta che vado in giro per Parigi con un passeggino. E all’improvviso, la prospettiva è diversa. Riscopro, attraverso gli occhi della piccola Rose, occhi nuovi che si sono aperti al mondo in un appartamento borghese del quinto arrondissement, questa indecenza, indecenza sociale che porta a ritrovarsi da soli a contorcersi dalle convulsioni (forse a morire) sull’asfalto, ai piedi dei passanti. Riscopro tutto questo anche con istinti da nonna, e ciò non mi ferma. Ho paura che la piccola s’impaurisca, ho vergogna di quest’uomo, vergogna del suo degrado di fronte a lei. Mi sarei fermata se quella fosse stata mia figlia? Forse no, ma può darsi, dicendomi che bisognerà pur che lei si abitui a questa nuova realtà fatta di gente ogni giorno più numerosa, senza alloggio, che invade i portici e le strade. Noi stessi, nell’arco di una generazione, sentendoci molto a disagio ci siamo comunque abituati a questo e altro. Ricordo molto bene il mio sgomento nello scoprire per la prima volta un’intera famiglia ammassata sopra un mucchio di coperte, in un angolo rialzato del Monoprix di République. Vedere dei bambini dormire all’aperto con quel freddo! Oggi sotto casa sono una, due, tre le famiglie che incontro

con bambini, talvolta neonati che una madre allatta o cambia alla fermata dell’autobus, che giocano o si fanno rimproverare, ricevono degli schiaffi. Lo spavento è passato, sostituito da un miscuglio di sentimenti che preferiamo non districare. Ci siamo abituati a non meravigliarci, persino delle cose più improbabili. Siamo in piazza Clichy, un mattino qualunque della settimana. Devono essere le dieci, una giovane coppia dorme profondamente su un materasso a due piazze posato sul marciapiede proprio in mezzo al passaggio. Sono sereni, due innamorati il cui abbraccio si è sciolto nel sonno. A nessuno verrebbe in mente di svegliarli, molti li guardano e in quello sguardo si legge la perplessità, lo sconforto, talvolta il disprezzo, e anche lo scandalo. Come non essere infastiditi da queste situazioni che colpiscono così duramente i nostri pudori? Ho in mente quest’altra scena, in un vagone della metropolitana. Un uomo ubriaco è disteso di traverso sui sedili. Probabilmente non si cambia da mesi, puzza, ha creato il vuoto intorno a sé. Dalla distanza che le persone mettono tra loro e il suo odore, tutti lo guardano di sfuggita. E all’improvviso, la sua mano si muove a tastoni verso la zip dei pantaloni che apre per pisciare. Per un po’ il getto di urina schizza su di lui e lo bagna. Sul suo viso

si legge il piacere di colui che si svuota la vescica. Un tale abbandono lascia sbalorditi, in un certo senso anche commossi. Alcuni scoppiano a ridere, ma un uomo in particolare richiama la mia attenzione. Deve avere una sessantina d’anni, ha il bel viso scrupoloso di un medico di famiglia, ed è nero, proprio come quell’uomo che piscia sotto i nostri occhi. Lo choc di quella scena sembra moltiplicarsi in lui, questo spettacolo lo colpisce di persona: è una parte della sua dignità che si trova messa a nudo. La sofferenza che prova è lampante. Bisognerebbe dirgli che è la follia della strada che vuole tutto questo, che molti senzatetto sono gravemente malati, che tutti soffrono fisicamente e psicologicamente. La strada uccide, fa perdere il senso di se stessi. Xavier Emmanuelli, il fondatore del Samu social, servizio di assistenza sociale, parla di un rapporto distorto che il senzatetto ha con il proprio corpo, con lo spazio e il tempo. A forza di non essere guardati e di non vedersi più, ci si dimentica, ci si chiude in una bolla dove ci si sente a casa. Quell’uomo che faceva pipì si sentiva a casa sua, noi non dovevamo esserci. Questi senzatetto, questi malati così numerosi, queste persone radicate sulla strada da troppo tempo, diventano a poco a poco irraggiungibili. Pongono alla nostra società delle domande a cui si cerca

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invano di rispondere colmando le mancanze materiali. Thierry des Lauriers, direttore di Aux captifs La Libération, un’associazione che ha in qualche modo inventato nel 1981 le ronde per aiutare chi vive per strada, conosce bene il problema. «È difficile trovare degli alloggi per loro e ancora di più fare in modo che vadano a viverci. Alcuni non ci vivono mai, altri continuano a dormire per terra». Il reinserimento è un’idea che ha chi è già inserito. André Lacroix, che è stato direttore di Emmaüs per quindici anni, identifica varie categorie di senzatetto: il classico vagabondo che resta sotto il suo portico e si accontenta della benevolenza dei condomini, c’è il suicida che dorme all’aperto con venti gradi sotto zero e poi quello che lui chiama il “nomade immaginario”. Quest’ultima categoria non va nei centri di accoglienza, non vuole reintegrarsi nella società. Come potrebbero i vincoli di un centro d’accoglienza, l’obbligo di proiettarsi nel futuro, di costruire un progetto di vita, tutte queste imposizioni totalmente logiche dell’aiuto sociale essere adattate a persone che non hanno orari, obblighi, nessuno a cui rendere conto? La strada non è mai una scelta, lo può diventare. Pierrot ha vagabondato per anni, all’incirca trenta, prima di occupare la camera di uno di questi centri. È stato senza fissa dimora a

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Parigi nell’85, dopo che era arrivato dal Belgio. È molto, molto lontano il 1985 nella storia di chi vive per strada. È la grande epoca di Coluche e dei Restos du Coeur, quella dei preti motociclisti come Guy Gilbert e Patrick Giros che conoscevano quasi ogni senzatetto per nome. D’ altronde non si era un senzatetto nell’85, si diceva ancora “barbone”. Era circa dieci anni prima della depenalizzazione del vagabondaggio e dell’accattonaggio, che si è tradotta in un’esplosione del numero di persone che vivono in strada, nella creazione del Samu social, dei centri diurni… Era prima della caduta del muro e dell’arrivo dei primi esuli dell’Est, prima dell’apertura dello spazio Schengen, prima della crisi economica e dell’esplosione della disoccupazione, che tutto d’un tratto hanno estromesso giovani senza lavoro, anziani, lavoratori poveri. Prima della guerra del Golfo e dei conflitti che si sono susseguiti a catena… Pierrot conserva con piacere una certa idea del folklore di quegli anni. «C’erano delle bande, nei vari quartieri. La banda delle Halles, quella di Châtelet, di Rambuteau. Posso dirvi i nomi degli appartenenti, sono tutti morti. Io non ho mai fatto parte di nessuna banda, non sono mai caduto nell’alcol, è questo che mi ha tenuto in vita. È un mondo duro, tu non hai idea. Questo è l’esercito più efficiente del

mondo, qui si uccide per un sì o per un no, per un telefono da 40 euro». Un mondo duro che lo Stato tratta senza un briciolo di coscienza. «Sotto Chirac, gli sbirri venivano a svegliarci in piena notte solo per farci incazzare. Dobbiamo dire grazie a Delanoë, che ha fatto una legge affinché ci lascino almeno dormire». Oggi, la Guide Solidarité Paris, disponibile nei municipi e aggiornata due volte all’anno, elenca gli innumerevoli centri di accoglienza, guardaroba, le docce pubbliche, i punti di consulenza, i centri di cura, ecc., messi a disposizione dei senzatetto. Emergono un po’ ovunque delle iniziative: c’è Le Carillon, una rete di commercianti che mettono a disposizione un bar, dei bagni pubblici, una presa elettrica; poi c’è Entourage, l’applicazione smartphone per monitorare le ronde… Thierry des Lauriers sorride all’idea di doversi lamentare persino della generosità dei parigini. «Se è simpatico, il senzatetto che si stabilisce in un quartiere non ha quasi più bisogno di spostarsi dal suo cartone, la gente gli porta da mangiare e da vestirsi. Un giorno, stavo discutendo con uno di loro quando una signora si è avvicinata e gli ha stretto la mano. «È consumato il suo cappotto, qual è la sua taglia?». È ritornata un po’ più tardi con camicia, pantaloni e scarpe. È bello, ma questo modo di agire

radica le persone in strada». Quello che comincia a essere una crudele mancanza a Parigi è lo spazio. E così ecco popolarsi Place de la République, le strade che costeggiano gli argini… La città, abbellendosi, spinge i senzatetto sempre più lontano. Si può percorrere il lungo Senna da una periferia all’altra a piedi senza vedere più un materasso, un vecchio divano, una costruzione di cartone, un carrello pieno di roba. Sophie Ladegaillerie, direttrice di Péniche du coeur, fa la stessa constatazione. «Poco a poco, gli arrondissement vengono ristrutturati e ogni metro quadrato è in costruzione. Questo comincia a causare problemi per la distribuzione dei pasti. Prima, i municipi ci mettevano a disposizione aree dismesse o degli edifici abbandonati, ma questi luoghi scarseggiano e le associazioni se li contendono. Lo spazio parigino sta per finire, poco a poco tutto si riempie». E un giorno, andando a prendere l’aereo a Roissy, ci rendiamo conto che oramai bisogna parlare di baraccopoli alle porte di Parigi. Ce ne sono ai lati del raccordo stradale, sotto i cavalcavia, lungo alcuni binari della RER, nei boschi fino alla foresta di Rambouillet. Ce ne sono alcune ben strutturate, per esempio le comunità organizzate dei Rom sono ingegnose e mobili. Recentemente sgomberato, l’agglomerato di baracche

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perfettamente disposte su entrambi i lati di una strada abbandonata lungo il boulevard Ney è tornato a essere di nuovo abitato. Non è visibile, se non grazie a una scala fatta da pezzi di legno di recupero e fissata a un muro da un cavo elettrico: fragile punto di passaggio tra due mondi che si ignorano. Sotto la pioggerella si alza dal muro il fumo di un falò. Non ci vuole molto prima di vedere spuntare un uomo con un carrello, poi una madre e sua figlia che portano, attaccate alla vita, delle enormi taniche vuote di plastica. Ripartendo, incrocio due donne anziane che scendono dal tram con dei trolley. Si arrampicano sulla scala con le loro gonne lunghe e sono subito inghiottite nell’accampamento; una sorta di gioco di prestigio che ho l’impressione di essere la sola, tra i passanti, ad aver notato. Sui cartelloni pubblicitari che coprono completamente i cancelli poco oltre, a Porte de la Chapelle, si intravedono a grandezza quasi naturale i giardini e gli edifici pieni di balconi del quartiere La Chapelle International, che sarà costruito sulla vecchia zona ferroviaria. Il villaggio rom verrà distrutto più probabilmente a causa di questo nuovo quartiere che con l’intervento della polizia. A Parigi restano quegli spazi che non sono spazi, e che si notano solamente quando si ha bisogno di

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trovare un riparo, come dice Pierrot. Mi accompagna là dove lui e altri hanno reso abitabile un passaggio sotterraneo appena sotto il Forum des Halles: un pezzo di cunicolo illuminato con faretti al neon, dove ogni tanto si infila una macchina. «Qui per lo meno fa caldo, ci sono delle prese e l’acqua non è troppo lontano. E si trova a fianco di una discarica di ingombranti di Parigi. Ci avevo trovato un aspirapolvere per pulire il nostro cunicolo. Si trova di tutto e di più nei cassonetti. Avevo delle casse acustiche enormi, mettevo la musica così forte che si sentiva fin dentro al Forum, la gente si domandava da dove provenisse». Di tutto questo, non restano che dei pezzi di cartone, una coperta ammucchiata, una maschera da saldatore che potrebbe ancora essere utilizzata. Fiancheggiando il muro di calcestruzzo, vediamo un buco che si apre sull’oscurità di una cavità profonda. Pierrot non si stupirebbe nel vedere qualcuno là dentro. Mi ha ricordato l’incredibile scena di uno straordinario documentario di Claus Drexel, Au bord du monde: un uomo vestito di stracci avanza sul marciapiede stretto di un sottopassaggio, come una specie di grande uccello arruffato che all’improvviso si intrufola nel muro. Tra quelli che si nascondono e quelli che frequentano i centri di accoglienza

durante la giornata, si forma così la popolazione di una città di media grandezza che vive per strada. Per farsene un’idea bisogna uscire dopo la chiusura della metropolitana, quando i cartoni e gli scatoloni vengono sistemati un po’ dappertutto davanti agli edifici. «I numeri sono esorbitanti e non rispecchiano appieno la realtà» spiega Sophie Ladegaillerie. «Poiché ci sono tutti quelli che non si notano, che non sono in cerca d’aiuto e se la cavano passando qualche notte dagli amici e altre per strada. A constatarlo sono soprattutto le squadre che si occupano della distribuzione dei pasti e dei pacchi. Non sono più in grado di soddisfare la richiesta. Da un anno si vedono arrivare anche i bambini.» I bambini dei rifugiati, ecco chi sono gli ultimi arrivati sulle strade parigine. Zabiullah Mohammandi, arrivato dall’Afghanistan, è rimasto otto mesi senza un posto in cui trovare riparo; aveva 19 anni. Riconosciuto oggi come rifugiato, ha un lavoro, vive presso una famiglia, parla bene il francese, spera di entrare alla facoltà di scienze politiche l’anno prossimo. La rete afgana gli ha indicato, nei pressi della Gare de l’Est di Parigi, il parco dell’ospedale militare Villemin, i cui viali di ghiaia erano gremiti di tende piantate in mezzo a scivoli e altalene. Si è scelto un posticino sotto i portici di place Raoul Follereau. Oggi, delle

alte recinzioni in legno bloccano l’entrata ai portici. Lì, prima c’erano afgani, africani, ma non siriani, che, secondo Zabiullah, erano ospitati direttamente nei centri d’accoglienza insieme a donne e bambini. Cacciato dai portici, l’accampamento si è spostato nei pressi della stazione Jaurès, lungo il canale e sotto alla metropolitana di superficie, nella zona che non era ancora stata recintata. C’era un campo afgano a sud della stazione, uno etiope a nord. Un’infinità di tende e materassi sono appoggiati su pallet, rivestiti da teli di plastica o da coperte termiche per proteggersi dalla pioggia che aveva appena smesso di cadere a dirotto. Agli occupanti delle tende si mescolano coloro che sono già ospitati qua e là, in centri d’accoglienza o in hotel di periferia, e che ammazzano il tempo nell’interminabile attesa di una risposta dalla prefettura. È una città di quasi solo uomini, giovani e di colore, con gli occhi rossi per la mancanza di sonno che gironzolano, parlano con la famiglia tramite Viber, vendono pacchetti di sigarette e qualche giacca, ciondolano tutto il giorno in gruppo nelle piazzette oppure da soli nella metropolitana. È un mondo che sembra deprivato dalle regole della società umana, un mondo che deve essere difficile da comprendere, ad esempio, per quella giovane ragazza con gli occhiali che si avvicina al

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campo profughi in bicicletta, con il suo violino sulle spalle. Ed è facile immaginare la violenza che potrebbe nascere dalla somma di tutte quelle frustrazioni e di tutto quell’ozio, che si aggiungono alla paradossale libertà di quegli uomini senza documenti, lontani da sguardi altrui. Zabiullah è davvero dispiaciuto di rivedere qui gli stessi identici conflitti del suo paese d’origine, o di scoprire che il giorno prima la polizia ha saccheggiato parte delle tende, buttando via dei vestiti, addirittura una giacca con dentro una ricevuta preziosa. Appena si inizia a parlare si riescono a distinguere le personalità, si immaginano le possibili complicità, e anche, da fuori, l’inquietante ostilità delle menti turbate da tutta una vita passata in guerra. Alcuni hanno già superato il loro colloquio all’OFPRA, cioè all’agenzia francese per i rifugiati, altri hanno lasciato le impronte digitali in altri paesi europei e hanno ricevuto l’ordine di ritornarci. Ad alcuni richiedenti asilo spettano fino a 350 euro, e ad altri neanche un centesimo. Nell’attesa, tutti devono arrangiarsi con i panini o gli abiti invernali offerti dai residenti venuti per aiutare a rimontare le tende sbattute per terra anche con l’aiuto legale ottenuto da studentesse di legge venute dalla parte opposta di Parigi per portare il loro sostegno. L’impulso degli umani ad aiutare gli altri è pari alla loro

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naturale diffidenza. A me e Zabiullah piacerebbe molto fare qualcosa, ma cosa, fino a quando, per quanti di loro? Ce ne andiamo a bocca asciutta e col cuore schiacciato dallo sconforto.

ASTRONAUTI E POETI: VIAGGI E RACCONTI DI VIAGGI di Fabio Rapizza


Che cosa fa Dante, di ritorno dal Paradiso? Come ci si sente dopo un viaggio del genere? È divertente immaginarlo così, la mattina di giovedì 14 aprile del 1300, in pieno hangover, occhiali scuri e aria stravolta, prendersi un caffè al bar: «O Dante, i che fin’ha fatto? È una settimana ‘e ‘un ti si vede!». Chissà se anche il Poeta, tornato sulla Terra, ha sofferto della depressione dell’astronauta.

I Tutti i cosmonauti delle missioni Apollo, dopo gli allunaggi dal 1969 al 1972, hanno vissuto un senso di perdita, per alcuni di loro sfociato in una depressione più o meno grave. Certo, erano altri tempi: oggi gli astronauti salgono e scendono dallo spazio come passeggeri di un volo low cost. Ma qui parliamo di

pionieri. Neil Armstrong, primo uomo sulla Luna, noto per il suo distacco e la sua apparente freddezza, finirà per rintanarsi in provincia, rilasciando pochissime interviste, adottando lo stile di vita di un eremita. L’eccentrico Buzz Aldrin, eterno secondo, abbandonerà la NASA, avrà problemi con l’alcool, divorzierà due volte, entrerà in una clinica per depressioni nervose. Ma quella sera del 20 luglio 1969, ad osservare i due compagni e ad attenderli, solo nel modulo rimasto in orbita lunare, c’è Michael Collins, americano nato a Roma il 31 dicembre del 1930. Amato da Armstrong per la sua ironia e professionalità, Collins arriva ad un passo dal suolo lunare, senza mai calpestarlo davvero. Una beffa? Lontano dalla depressione cosmonautica, descriverà la sua straordinaria esperienza nell’autobiografia Flying to the Moon. Che sia stata la scrittura la sua ancora di salvezza?

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A proposito di grandi ed intrepidi pionieri, pensiamo alla prima circumnavigazione del globo terrestre, che porta la prestigiosa firma di Ferdinando Magellano. Sappiamo che l’esploratore portoghese, che fortunosamente scoprì lo stretto del Sudamerica che porta il suo nome, garantendogli il passaggio nell’Oceano Pacifico, perse la vita proprio in quel viaggio, nelle Filippine, in una maldestra azione militare ai danni di un re indigeno da convertire al cristianesimo. Che impresa, comunque: delle cinque navi e 234 marinai partiti da Siviglia il 10 agosto del 1519 – attraverso ammutinamenti, guasti, colpi di scena, rivalità, agguati, guerre indigene, fame, scorbuto e pestilenze varie – soltanto la Victoria riuscì a fare ritorno tre anni dopo, con a bordo diciotto superstiti in pessime condizioni di salute. Tra di essi un italiano, il vicentino Antonio Pigafetta. Attendente di Magellano e redattore del diario di bordo, testimone scomodo di quanto avvenuto durante la spedizione, sarà liquidato in fretta dall’imperatore Carlo V, ma ricevuto dal sovrano portoghese e dalla reggente francese Luisa di Savoia, accolto nelle corti italiane e da papa Clemente VII come un eroe. Il suo diario sarà pubblicato nel 1525 come Relazione del primo viaggio intorno al mondo, unica e preziosa testimonianza della ‘folle impresa’. Un’avventura di cui, senza il suo racconto, non avremmo oggi nessuna notizia.

E allora, cosa fa Dante di ritorno dal Paradiso? Scrive la Divina Commedia, naturalmente, e ci mette tutta la vita. È bello e romantico immaginarlo morire – per tornare «colà dove gioir s’insempra» solo dopo aver concluso il resoconto del suo viaggio, consegnandocelo per l’eternità. Noi docenti, ogni volta che lo raccontiamo ad una nuova generazione, rifacciamo il giro del mondo. Poi andiamo sulla Luna, tocchiamo il cielo con un dito, facciamo un lento sospiro insieme all’«Amor che move il sole e l’altre stelle». Infine torniamo sulla Terra, ci facciamo un caffè, che ormai è giugno e c’è il programma di quinta da portare a termine. Che facciamo noi, di ritorno dal Paradiso? Ricominciamo daccapo, l’anno dopo, dal «mezzo del cammin di nostra vita». Ricominciamo a raccontare e riscopriamo, non in un meccanico loop da girone infernale, piuttosto come in una storia d’amore che si rinnova ad ogni anniversario. Perché non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Perché nel frattempo siamo cambiati. Perché Dante non può essere spiegato due volte nello stesso modo. Il racconto dopo il viaggio, come essenza del viaggio stesso: ecco cosa ci salva, forse, dalla depressione del cosmonauta.

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COSTELLAZIONI

di Paolo Durando

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Costellazione della Lira

Scesero su Kepler 62f. La super Terra era come si aspettavano: calda, verdeggiante. Nove continenti poco più grandi dell’Europa, alla deriva in uno sterminato oceano. Ingrid era felice di trovarsi lì, di non essere più nel vecchio, noioso, sistema solare. I nativi erano evoluti e gentili. Abitavano in case-fungo, erano vegetariani, lavoravano poco o nulla e dedicavano molte ore al giorno alla preghiera. Era il loro modo di connettersi con il mondo spirituale, senza ossessioni né bigottismi. Si accoppiavano liberamente e, qualche volta, nascevano dei piccoli. Quando alcuni di loro videro Ingrid non riuscirono a trattenersi dal ridere. Era come vedersi in uno specchio deformante. Ingrid era la loro caricatura. La invitarono ad andarsene, lei e i suoi compagni di viaggio. Erano gentili, ma non ospitali. Ci sarebbe stato tempo per capire. Uno di loro, quello che le assomigliava di più, le consegnò una fotografia. Era proprio lei, in un altro tempo e spazio. Gli abitanti di Kepler 62f non erano altro che terrestri che avevano ritrovato se stessi dopo essersi perduti.

Costellazione della Bilancia

Su Gliese 581d vivevano umanoidi

avvezzi al crepuscolo. Massicci ma agili, passeggiavano da un quartiere all’altro delle città che si susseguivano nel terminatore, separate da campagne umide, fiumi rossastri come il cielo. Una brezza tiepida sollevava i veli delle loro vesti; spesso danzavano rivolti alla penombra che sfociava nella notte perpetua o, al contrario, concentrati sui fasti di monti e deserti che si indovinavano all’orizzonte verso la piena luce, fuori dalla zona abitabile. Lungo il terminatore la vita era piacevole ma ignara dell’eccesso. Non vi era bagliore accecante né buio sconfortante. Allo stesso modo i nativi non erano mai compiutamente felici o infelici. Immuni da ogni bipolarismo, vivevano di saggezza e prosperità, esprimendosi giorno dopo giorno nelle coreografie delle loro danze tranquille, nelle pitture grasse di colori, nelle fluenti e prolisse opere letterarie. Qualcuno, ogni tanto, si allontanava dal terminatore. Andava verso il buio e sperimentava l’annientamento di ogni prospettiva, il freddo del corpo e, poi, dell’anima. Inevitabilmente si suicidava, talvolta veniva soccorso in extremis, finendo tuttavia i propri giorni in cliniche asettiche quanto confortevoli. Altri fuggivano verso la luce e conoscevano invece la forza e

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l’esplosione della visibilità, della nettezza. Prima di essere sfiancati dal caldo, si bloccavano in un delirio psicotico di onnipotenza, che li riconduceva alle medesime stanze di contenimento. I temerari erano stati pochissimi, nel corso dei secoli. Perché la verità di Gliese 581d era nel senso dei limiti dei suoi abitanti, ciò che li rendeva, in quel settore della galassia, la popolazione più antica.

Costellazione dell’Ariete

La vita su Teegarden b era una corsa controvento. Era come se la rotazione attorno alla stella, che si completava in neppure cinque giorni terrestri, imprimesse nell'animo dei nativi un senso di costante urgenza, una fame inesausta di esperienze nuove, di incontri, di progetti. La loro esistenza era una giostra di azioni e di fasi. Nascevano, studiavano, amavano e poi morivano, arrendendosi a un deterioramento di breve durata. La loro era una quotidianità piena ma di poco peso, come i loro corpi di insetti. Finché restavano abbastanza giovani, si abbandonavano ai salti in lungo tra le loro abitazioni e in questo trovavano una gioia superficiale. Piazze, pianure e spiagge erano spesso invase dai loro raduni, feste sotto le nuvole in lotta di quel cielo tanto brillante quanto volubile. Ogni tanto qualcuno non

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reggeva un ritmo così sostenuto. Veniva colto all’improvviso da una visione incomunicabile. Riacquistava il desiderio di una vita fatta di pause e consapevolezza, che forse era più un ricordo che una fantasia. E allora arrestava il suo moto, andando incontro a una fine prematura. Per questo c’erano i tanti canyon, le rupi da cui gettarsi, sbattendo contro le rocce, divenendo cibo per le piante carnivore nelle gole. Gli amici, i familiari non facevano nulla per fermarlo e salvarlo. Continuavano ad affaccendarsi, a tessere attività e relazioni, a inscenare le storie epiche degli antichi colonizzatori del pianeta, accompagnate dai cori che li avevano resi famosi in altri mondi. Canti in cui si ribadiva che nessuno può essere solo, caricandosi di seriosa titubanza, e chi si ferma è perduto.

Costellazione dell’Acquario

X2Q viveva su K2-72e e questo per lui non era mai stato motivo di stupore. Era cresciuto nel nitore di quell’aria cristallina, tra i cumuli turriti di roccia ghiacciata e le gradazioni di verde dei muschi. Aveva riso e pianto insieme alle più svariate creature, ascrivibili a diversi gradi di coscienza, non troppo distanti dal suo. Da piccolo aveva amato la compagnia dei biscioni acrobati, cosa del resto comune a tanti suoi coetanei. Adesso preferiva circondarsi di sestupedi rotanti, caldi

e soffici, amanti delle coccole e delle lunghe conversazioni. Non si era mai chiesto come e perché fosse tanto naturale convivere con specie così diverse eppure così empatiche. Un po’ come quando aveva iniziato a lavorare in fabbrica, dividendo macchinari e mense con i milleforcipi e i fedeli, miopi scassametalli. Aveva trascorso tanti tramonti a rilassarsi nei locali incastonati tra le gru e i paranchi del porto, godendo di quella molteplicità di sentimenti ed esperienze. Se gli sembrava del tutto ovvio riposare durante i tramonti, altrettanto gli appariva opportuno e sensato lavorare durante le interminabili notti. Al mattino si ritrovavano

in massa a salutarsi in spiaggia, quasi dimentichi di tutto. E iniziava l'aspettata, lunga parentesi di libertà, viaggi, incontri. Ma un giorno tutto questo amorevole disincanto cessò. Lesse di quello che avevano scoperto gli astronomi. Era stato individuato un pianeta molto simile al loro, per dimensioni e presunta abitabilità, distante, dal punto di vista degli ipotetici abitanti, 228 anni luce. Il loro giorno durava dodici volte di meno, per cui l’alternarsi di luce e buio, così rapido, doveva ripercuotersi in modo evidente sullo stile di vita, ammesso che ne avessero uno. Il pianeta era il terzo da una stella nana gialla, più massiccia e più calda della loro amata

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nana rossa. Dal giorno in cui si parlò di quella scoperta, X2Q cambiò. Era come se un velo fosse caduto dai suoi occhi. Nulla gli sembrò più scontato. Rientrava a casa e abbracciava i suoi due sestupedi con un attaccamento nuovo, un’emozione struggente che non aveva mai provato. Nei locali del porto chiacchieravano di quel mondo, immaginando le sue rive, la successione dei suoi monti. Si sviluppò un nuovo filone narrativo, sia in parole che in ologrammi, basato su storie e passioni dei presunti abitanti del pianeta gemello. X2Q pensava spesso a queste cose in riva al mare, seduto sulla spiaggia sassosa e osservava l'orizzonte, tastandosi il corpo raccolto. Sentendosi, nell’infinito, un cristallo di memoria.

Costellazione del Cigno

Su Kepler 452b la casta dei monaci era la più rispettata e autorevole. Aadhya saliva le scale del monastero, per ritirarsi nella sua stanza prima che facesse buio. Ce n’erano molti, di monasteri come il suo, massicci edifici di pietra sorti in cima alle coste frastagliate, vicino ai precipizi battuti dal vento freddo dell’oceano. Era uno studioso di biologia, fisica, matematica, come tutti i religiosi. Aadhya si era reso conto già in tenera età che solo lo scandaglio di

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questo tipo di conoscenza gli avrebbe consentito l’accesso al vero sentire spirituale. L’immersione per anni in formule matematiche, dimostrazioni, esperimenti era ciò che meglio consentiva di portare l’essere credenti dalla potenza all’atto. Arrivato alla piena maturità, Aadhya aveva anche compreso perché, nella sua civiltà, la morte era vissuta in modo così diverso rispetto ad epoche passate di cui avevano qualche cognizione. A parte poche eccezioni, il loro tempo considerava una festa il giorno dell'ultimo respiro. Era invece tuttora considerato un peccato il suicidio. Aadhya pensava a queste cose, al suo pianeta così grande, ai tanti vulcani in eruzione, che caratterizzavano quasi tutti gli orizzonti visibili dai monasteri a qualunque latitudine. Saliva le scale sentendosi in un momento cruciale della sua vita, nella morsa di una consapevolezza acuta. In quel precipitato della sua esistenza era tutto intero, il suo passato, il suo presente. E anche il futuro di dedizione e di calma appartata. Il vento fischiava fuori dalle bifore. Capì in quell’attimo, uguale a tanti altri, eppure così speciale, che il tempo non esisteva. E che non esisteva neppure lui, in fondo. La sua non era che una sfaccettatura, una colorazione infinitesima di un universo transfinito, che, quello

sì, esisteva e godeva di se stesso, nell’unico vero e legittimo narcisismo concepibile. Si chiese perché si trovasse lì, su quelle scale, su Kepler 452b e non altrove. Non c’era una risposta, ovviamente. Oppure sì, una risposta c’era, ma non era tale. È che non c’era un’alternativa. Tutto era uno e lui era quel tutto. In realtà non erano date situazioni particolari. Lui non era soltanto lì, era ovunque, in tutti i luoghi e i tempi in cui la consapevolezza nutriva se stessa. Arrivò alla fine delle rampe e le onde, lontane, si infrangevano sugli scogli. Uno, nessuno e tutti - Aadhya - entrò nella sua camera, per il rito della sera.

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Molisn’t

di Alberto Sana

Quasi tutti quelli della mia generazione (anno più, anno meno) al cinema parrocchiale, oltre a quelli di Fantozzi, hanno visto i film con Bud Spencer e Terence Hill (pre-don Matteo), ad esempio Continuavano a chiamarlo Trinità; tanti di noi alle elementari usavano il Diario Vitt con i fumetti di Benito Jacovitti, e tutti abbiamo ancora nelle orecchie il fluente eloquio di Aldo Biscardi al Processo del lunedì o di Antonio Di Pietro ai tempi di Mani Pulite. Più o meno tutti abbiamo ascoltato almeno una volta la celeberrima Una rotonda sul mare di Fred Bongusto, e, alle superiori, tutti abbiamo sentito parlare dei Sanniti e di papa Celestino V, nella vulgata dantesca quello “del gran rifiuto”; gli insegnanti di lettere ogni tanto fanno cenno alla Rivoluzione napoletana del ’99 di Vincenzo Cuoco e magari hanno letto Le terre del Sacramento di Francesco Jovine: qualcuno addirittura talvolta menziona, tra gli illuministi italiani, il nome di Giuseppe Maria Galanti. E, per concludere in bellezza, tutti (anche se magari qualcuno se ne vergogna) abbiamo visto al cinema o in streaming Sole a catinelle di Checco Zalone. Personaggi e opere dell’elenco hanno

un minimo comun denominatore: ciascuno di loro ha a che fare con il quasi ignoto Molise (un tempo, contado di Molise), di cui da qualche anno a questa parte un’innumerevole serie di meme mette perfino in dubbio l’esistenza. E invece… Bud Spencer scazzotta sulle sponde del Volturno, Zalone si agita a Petrella Tifernina e Provvidenti, Jacovitti era di Termoli, Biscardi di Larino, Bongusto di Campobasso, Cuoco di Civitacampomarano, Galanti di Santa Croce del Sannio, Jovine di Guardialfiera e Di Pietro è di Montenero di Bisaccia. Celestino V se lo contendono Isernia e Sant’Angelo Limosano. Dunque il Molise esiste, ed è pieno di belle cose da vedere e da fare. E adesso cerco di dimostrarlo. Sanniti, romani, longobardi (le terre appartenevano al ducato di Benevento), svevi, aragonesi, Borboni in sequenza l’hanno dominato, e hanno lasciato sul territorio innumerevoli testimonianze. A Pietrabbondante c’è un noto sito archeologico dei Samnites Pentri con un fantastico teatro e a Boviano si concluse la seconda guerra con i romani; Saepinum è chiamata un po’ tronfiamente “la Pompei del

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Molise” ed è una città con alcuni edifici pubblici (un altro splendido teatro, ad esempio) perfettamente conservati (e per visitarla non c’è mai ressa come nelle più famose sorelle distrutte dall’eruzione del Vesuvio); la cripta di San Vincenzo al Volturno – a poca distanza dall’abbazia –

trecentesco e uno splendido ambone scolpito. Abbondano severi castelli, da quello svevo termolese a quello imponente di Civitacampomarano. Agnone, nell’alto Molise, è città di chiese (notevole quella di San’Emidio) e di campane: vi ha sede l’antica fonderia pontificia Marinelli; Venafro

custodisce importanti affreschi di scuola longobarda del IX secolo; vicino a Matrice la romanica chiesa di Santa Maria della Strada pare anch’essa di fondazione longobarda; la cattedrale di Termoli, quella in stile abruzzese di Larino e la chiesa della Madonna del Canneto presso il fiume Trigno, medievali, conservano rispettivamente un importante mosaico, un elaborato portale

nasconde un bel centro storico medievale, Termoli comprende un nucleo antico direttamente sul mare, Campobasso uno in salita fino al castello, Isernia (tragicamente bombardata più volte dagli alleati durante l’ultima guerra) è piacevole e tranquilla cittadina, con cattedrale e la bella fontana Fraterna.

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Il patrimonio ambientale è notevole: parte del Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise si estende nella regione; il basso Molise, dal mare alle alture dietro Larino, è segnato da un paesaggio collinare dolce e dorato; l’alto Molise, più verdeggiante, è dominato da splendidi e mossi panorami (e anche – e verrebbe da dire purtroppo – dalla presenza di troppe pale eoliche); i monti del Matese, al confine con la Campania, di scarsa antropizzazione, sembrano quelli, immobili, di tanti film western. Le stazioni balneari di maggior richiamo (in Molise c’è il mare!) sono quelle di Termoli e di Campomarino: da Termoli parte il traghetto per le suggestive isole Tremiti (amministrativamente

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pugliesi); gli impianti sciistici più noti sono quelli di Capracotta (tra i paesi più elevati dell’Appennino) e di Campitello Matese. Di antichi e ben conservati paesi arroccati sui colli ce n’è un’infinità: segnalo solo a titolo di esempio quelli di Guglionesi, di Casacalenda, di Jelsi. In alcune zone l’opera di sistemazione idrografica operata dall’uomo ha arricchito e non svilito il paesaggio: la dighe artificiali sui fiumi Biferno e Fortore hanno creato i deliziosi laghi artificiali di Guardialfiera e Occhito. Da Carpinone all’abruzzese Sulmona, tra boschi e nevi, passa la linea ferroviaria nota come “Transiberiana d’Italia”. Certo, non è tutto oro quel che luccica: anche qui inquinamento atmosferico

e idrico, sversamenti illeciti di rifiuti e di sostanze petrolchimiche, minacce ambientali, aumento della percentuale di tumori sono all’ordine del giorno. Quanto al patrimonio artistico, in parte si è detto; pure qui, come nel resto d’Italia, i luoghi minori formano una rete di musei a cielo aperto. Abbondano chiese romaniche (un esempio insigne nella suddetta Petrella Tifernina), gotiche, barocche, palazzi cinque e secenteschi, centri storici piccoli e ben conservati. Chi ha interessi linguistici avrà pane per i suoi denti: nella regione esistono comunità di minoranze immigrate dal versante orientale adriatico sul territorio dal XV secolo. Si conversa correntemente nell’antico dialetto molisano-croato (comunemente detto “na našu”) nei comuni di Montemitro (Mundimitar), San Felice del Molise (Filić, un tempo San Felice Slavo) e Acquaviva Collecroce (Kruč); si parla la lingua arbëreshe – analogamente a ciò che avviene pure in Abruzzo, Puglia, Calabria e Sicilia – in quelli di Campomarino (Këmarini), Portocannone (Portkanuni), Montecilfone (Munxhufuni) e Ururi (Ruri). Nei paesi slavi è ancora in uso la tradizione balcanica del Majo (il primo maggio un personaggio fronzuto si aggira per i borghi) e a Guglionesi la Collegiata parrocchiale di Santa Maria Maggiore conserva un trittico

del pittore rinascimentale di origine albanese Michele Greco da Valona, recentemente valorizzato da Vittorio Sgarbi. Vi piace il cinema e siete nei paraggi ad agosto? Bene, c’è Molise Cinema a Casacalenda, un concorso di corti e lungometraggi giunto nel 2020 alla diciottesima edizione, sul cui palco negli anni sono passati tra gli altri Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo, Alba Rohrwacher, Elio Germano, Pierfrancesco Favino. Il comico Antonio Cornacchione (quello di “Povero Silvio”) è nato a Montefalcone nel Sannio. La regione ha prodotto talenti letterari notevoli. Su tutti il già menzionato Francesco Jovine, autore di almeno due tra i maggiori romanzi del nostro Novecento, Signora Ava e Le terre del Sacramento. Il primo, ambientato nel 1860, narra un’avvincente vicenda di contrasti sociali in un’Italia tutta da fare e mai fatta veramente: indimenticabili alcune figure, come quelle del sacerdote don Matteo e del contadino-brigante Pietro Veleno. Il secondo è una storia di padroni e cafoni durante l’epoca fascista. Jovine fu maestro elementare e direttore didattico; sposò la pedagogista Dina Bertoni, visse a Roma e all’estero ma ebbe sempre nel cuore i luoghi che lo videro crescere. Tra i prosatori molisani di una certa fama è opportuno menzionare almeno le figure di Franco

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Ciampitti e Giose Rimanelli: il primo, giornalista, scrisse alcuni romanzi di ambito sportivo; il secondo, noto soprattutto per Tiro al piccione (Einaudi) sulle disavventure di un ragazzo arruolato controvoglia nelle file della Repubblica Sociale Italiana, è stato docente universitario negli Stati Uniti. Chi ha studiato la Commedia ricorderà il nome del critico letterario campobassano Francesco D’Ovidio, esponente della “scuola storica”, e chi ha fatto il classico ha sicuramente sentito almeno nominare il grecista termolese Gennaro Perrotta. Numerosi anche i poeti, di valore segnatamente i dialettali: Eugenio Cirese (padre dell’antropologo Alberto Mario), Giovanni Cerri, Nina Guerrizio. Poeta, ma soprattutto sindacalista, fu Arturo Giovannitti, di Ripabottoni, protagonista di aspre lotte sociali a favore della classe operaia negli

USA. Luigi Biscardi, fratello di Aldo, fu senatore della Repubblica e storico locale di indiscusso valore. Il bergamasco Vittorio Feltri trascorse lunghi periodi d’infanzia nell’incantata Guardialfiera. A Campobasso c’è l’università. “Il Fleming del Molise”, come è stato recentemente ribattezzato il virologo Vincenzo Tiberio, fu il primo a scoprire le proprietà battericide di certe muffe. Campioni sportivi di fama mondiale furono lo schermidore Antonio Masciotta, il pallavolista Pasquale Gravina, il calciatore del grande Brasile di Pelè ma di origini molisane Roberto Rivelino. Tra i 52 Places To Go del “New York Times” del 2020 pre-Covid c’era il Molise. Allora, il Molise non esiste? Riguardatevi il film di Zalone (che fa anche ridere).



Aurelio Cavalleri Fabio Rapizza Paolo Durando Alberto Sana


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