“Le opere incompiute stanno lì a deturpare paesaggi mozzafiato e periferie che già abbondano di cemento. Opere che in alcuni casi da sessant’anni e più sono in eterna costruzione e nel frattempo rubano pezzetti di cielo a chi in questi luoghi cresce e vive.”
Antonio Fraschilla
Indice 1. L’incompiuto. Un tema per il progetto contemporaneo
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2. Stato degli studi 2.1 Origine e sviluppo del fenomeno 2.2 I danni dell’Incompiuto 2.3 Classificazione delle opere incompiute 2.4 Incompiuto e Rovine architettoniche 2.5 Incompiuto e Forme d’Arte 2.6 Incompiuto e Associazionismo
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3. Il potenziale dell’incompiuto 3.1 Soluzioni per il recupero 3.2 Progettare nuovi stati di (In)compiutezza
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4. Il luogo del progetto 4.1. Cammarata e San Giovanni Gemini 4.2 La Pineta 4.3 Il Ponte Incompiuto 4.4 Documentazione sullo stato di fatto
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5. Sicani Living Lab 5.1 Analisi e strategie progettuali .2 Il modello Living Lab 5.3 Descrizione del progetto
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6. Bibliografia
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L’incompiuto. Un tema per il progetto contemporaneo
«Osservare i non finiti architettonici del presente ci ha fatto intuire l’assenza di futuro. Riflettere sui frammenti di bellezza del passato ci ha fatto tornare voglia di futuro»1.
Voglia di futuro e nostalgia del passato. Inadeguatezza del presente. Come in un limbo, come in attesa di qualcosa, come orfana della propria storia, l’Italia di oggi, l’Italia del presente e del recente passato, sembra essersi smarrita, sembra aver perso il controllo di sé e della sua grande bellezza. Paesaggi, storia, natura, scorci, rovine, architetture di ogni forma, di ogni cultura e di ogni epoca, spazi senza tempo e luoghi colmi di memoria, spazi abbondonati, colate di cemento, edifici mai finiti, «[…] ospedali senza pazienti, stadi senza spettatori, dighe senza acqua, rovine nate da rovine, memorie di luoghi senza passato e, forse, senza futuro»2. L’Italia che si è fatta, l’Italia che si sta facendo. L’Italia che si è fatta è quella disegnata dai greci, dai romani, dalle culture arabo normanne, è l’Italia del rinascimento e del barocco, è l’Italia fatta di stratificazioni, della commissione tra culture diverse, nei diversi luoghi e nelle differenti regioni del Paese. L’Italia che si sta facendo è quella dipinta dai politici corrotti, dalla malaburocrazia, è l’Italia degli abusi e delle speculazioni, l’Italia dei mai finiti, un paese che sembra stia cercando di trovare oggi, nell’Incompiuto, un nuovo brand. Non è un caso, al riguardo, che il gruppo di
artisti Alterazioni video propone la nascita di un nuovo stile architettonico, sostenendo che quello dell’Incompiuto Siciliano è il più importante e diffuso stile architettonico del nostro territorio, «testimonianza materiale dell’attuale contesto socio-culturale che permea la nostra quotidianità, paradigma interpretativo dell’architettura pubblica dal dopoguerra ad oggi»3. Sembra paradossale parlare di Incompiuto come linguaggio architettonico, attribuire il concetto di stile ad edifici che ci appaiono grigi, nudi, incompleti, abbandonati a sé stessi e senza nessuna funzione. Sembra paradossale perché «[…] negli edifici incompiuti leggiamo come carattere comune il senso del brutto, un’antiestetica che colpisce qualunque cittadino»4. Ma non è solo senso del brutto, i caratteri comuni sono fortemente riconoscibili, in ogni costruzione e in ogni contesto. Il colore dominante (il grigio), le caratteristiche formali (l’essere vuoti, nudi, incompiuti), le caratteristiche materiche (il cemento, il ferro) quelle costitutive (l’essere abbandonanti, e senza un apparente futuro) ma ancora, il rapporto con il paesaggio, il rapporto con il tempo, le dinamiche che hanno portato alla costruzione e all’abbandono degli stessi. Caratteri comuni, appunto, e se uno stile architettonico non è altro che l’insieme delle caratteristiche formali proprie di una costruzione, l’Incompiuto non è soltanto uno stile, ma è uno degli stili, nella storia del nostro Paese, maggiormente diffusi in Italia. Un altro aspetto interessante, e in un certo modo 11
bizzarro, che rende dell’Incompiuto uno vero e proprio stile architettonico è il suo carattere identitario e unitario, perché non solo è diffuso, ma riesce a conservare, a prescindere dal luogo in cui una costruzione nasce (e mai finisce), quei caratteri comuni che lo rendono stile. Perché se ogni regione d’Italia, nelle sua storia e nella varie epoche, è riuscita a distinguersi e conservare con se tratti particolari e speciali che la rendono parte integrante ma distinta del grande paesaggio italiano, l’Incompiuto, inteso come stile architettonico è forse l’unico stile, dopo millenni di storia, ad essere comune a tutte le regioni italiane, da nord a sud, ovunque presente, ovunque incompiuto. «Il mai finito architettonico, dunque, come l’irrealizzato eppure compiuto sogno moderno, non vanno letti come eccezioni, errori, scarti ma come la regola, o una delle regole che hanno definito la modernità. Tutto ciò non deve essere visto come qualcosa d’arcaico, al contrario: incontro modernissimo tra sviluppo e sottosviluppo, legge e corruzione, mafia e stato, dominio e rivolta, controllo, sfruttamento e abbandono»5. L’Incompiuto non rappresenta soltanto uno stile architettonico ma è la metafora perfetta della società in cui viviamo, fatta di contraddizioni e paradossi, di governi spavaldi e di leggi inadeguate. «Rassegnati ormai dalle devastazioni che ci feriscono ogni giorno, rifiutiamo di vedere quel che dovremmo: che l’anomalia sta diventando la regola, che l’eccezione si va trasformando in modello unico di sviluppo»6. Gli Incompiuti, la scelta di costruire e poi abbandonare, 12
rappresentano ormai, nelle dinamiche politiche, sociali e culturali condotte dall’Italia dell’ultimo sessantennio, una prassi consolidata per ogni singola amministrazione che governa il proprio territorio. Indebitamento, distruzione del paesaggio, consumo incontrollato di suolo, eccezioni diventate regole per un Italia che ha spesso prodotto vaste aree di abbondono, architetture obsolete e paesaggi compromessi dove risulta più economico abbandonare più che recuperare, a vantaggio di nuove occupazioni di suolo, a vantaggio di un nuovo sperpero di denaro. E poco importa se ponti sospesi nel vuoto hanno distrutto bellissimi paesaggi, se quelli che un tempo erano campi di grano adesso sono periferie straripanti di scheletri vuoti e in rovina, se milioni di euro sono stati sprecati per costruire ospedali, scuole e impianti sportivi mai aperti, e forse mai realmente indispensabili. Poco importa perché se da una parte c’è chi nell’Incompiuto ha trovato un modo per fare cassa, c’è anche un’altra parte, quella dei cittadini, quella di chi vive con gli occhi dello spettatore, quella che nell’Incompiuto legge le parole spreco, abuso, speculazione, ma che spesso, oltre alle parole, oltre alle proteste, ha come unica scelta quella di rassegnarsi. Rassegnarsi diventa una scelta, abituarsi diventa la regola, perché ormai da troppo tempo, ormai da troppi anni, opere pubbliche e private, abbandonate ad uno stato indefinito, colorano di grigio spazi che potrebbe avere una diversa funzione, o quanto meno una diversa veduta. «Le nuove generazioni che hanno
ereditato il mai finito non vedono questo tipo di edifici, nel senso che non riescono a vederli così come sono, incompleti e mai finiti, ma in quanto edifici come altri, forse addirittura appartenenti a uno stile preciso, ma a loro non noto»7. Abituati dunque all’incompiuto, perché chissà da quanto tempo, in quel parco, quei piloni sorreggono un viadotto su cui non passano mai macchine, ma solo pezzi di ferro che continuano ad arrugginirsi, perché chissà da quanto tempo in quella campagna, quello scheletro si trova lì, solitario con la natura che lo circonda, in attesa di diventare casa, e non soltanto un mucchio di travi e pilastri, perché chissà da quanto tempo e chissà in quanti luoghi le opere incompiute caratterizzano i paesaggi che quotidianamente viviamo. L’Incompiuto è diventato parte integrante della nostra quotidianità, più che come problematica da combattere, come condizione con cui convivere. «Il fenomeno acquista a volte un picco di interesse per lo più mediatico, quando è legato a campagne ambientaliste e di salvaguardia dell’ambiente, così, l’attenzione sui cosiddetti ecomostri, rende il fenomeno visibile per brevi periodi, oscurando la dimensione più diffusa e consolidata dei tanti mai finiti disseminati sul territorio»8. Si sente parlare di opere incompiute attraverso articoli di giornali, servizi e inchieste televisive, campagne di salvaguardia promosse da associazioni sparse sul territorio. Tentativi di dare spazio a una questione che per troppo tempo è stata trascurata e che ha bisogno, oggi, di essere analizzata e approfondita
in relazione a tutte le problematiche e le potenzialità che caratterizzano il fenomeno. Più che come caso mediatico, perché come già detto, offre spesso occasioni puntuali e isolate per affrontare il fenomeno, l’Incompiuto è diventato fonte di ispirazione per artisti, fotografi, scrittori, registi, collettivi vari che in questo patrimonio abbandonato trovano nuove suggestioni con cui confrontarsi. Il vasto interesse che si riscontra nei molteplici ambiti disciplinari denota, forse, una nuova e diffusa presa di coscienza sulla necessità di intervenire sul problema. I tentativi di mappatura e catalogazione costituiscono il primo passo essenziale per promuovere la riattivazione, ma ancora più necessario è un cambiamento culturale nella quale tutti, politici, architetti, pianificatori, ingegneri, ogni singolo cittadino, dovrebbero inserirsi all’interno di questo processo avviato per mettere a disposizione le proprie competenze per lo sviluppo di strategie per la riconversione di questi luoghi. «Gli edifici mai finiti, proprio perché scheletri nudi e vuoti, sono edifici totalmente o parzialmente inabitati, senza una funzione, mai entrati in un ciclo di vita, tanto meno in una economia immobiliare. Questa condizione di inutilità, se ritenuta costante o insuperabile, ostacola qualsiasi possibile evoluzione. Uscire dal circolo vizioso, inutilità permanente/mancanza di valore commerciale, significa riconoscere in questa quantità di costruito, nonostante tutto, un certo valore di patrimonio, sennonché potenziale, di energia 13
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già investita, di energia sviluppabile attraverso la trasformazione, di energia da risparmiare per operazioni di demolizione. Significa uscire da una condizione statica, sia quello delle aspettative che i mai finiti possiedono, che quello delle previsioni di fantomatici piani urbanistici di recupero, di un recupero sempre generico e senza oggetto»9. Cambiamento culturale significa allora uscire dalla condizione statica che caratterizza da anni queste opere, significa attribuire all’Incompiuto un valore potenziale, significa abbondonare (ma non dimenticare) le parole spreco, abuso, speculazione, in favore di parole e maccanismi nuovi come la valorizzazione e il riuso. Significa soprattutto considerare l’Incompiuto non come problematica, ma come possibilità per recuperare paesaggi privati della loro bellezza e oggetti privati fin dalla loro nascita di un proprio destino, per dare all’architettura e coloro che con essa operano una possibilità per rimettersi in gioco, per vedere nell’Incompiuto non un stile architettonico definito e definitivo, ma un elemento di studio su cui progettare nuovi patrimoni. Parlando un attimo di architettura, parlando di stile, l’architettura degli ultimi sessant’anni, l’architettura che nel mondo si è diffusa quando nel frattempo in Italia si diffondeva il fenomeno dell’Incompiuto, è un’architettura che si configura principalmente nell’internazionalismo. Non mancano nuovi stili architettonici, non mancano certo nuove forme e idee all’architettura, ciò che realmente manca è il carattere identitario che un tempo 16
caratterizzava un’architettura, quindi un luogo. Si assiste oggi, in maniera sempre più diffusa ad architetture senza luoghi, architetture della globalizzazione, architetture ostentate. «Mondo della ridondanza, mondo dell’eccesso, mondo dell’evidenza. Gli spazi del passaggio, del transito, sono quelli nei quali si mostrano con maggiore insistenza i segni del presente. Si mostrano con la forza dell’evidenza: cartelloni pubblicitari, nomi delle ditte più conosciute scritti a lettere di fuoco nella notte nelle autostrade che portano all’aeroporto, appariscenti palazzi dello spettacolo, dello sport, del consumo, che all’uscita dall’aeroporto si agglutinano alla citta, ne fanno cedere le difese e la penetrano attraverso varchi ferroviari, autostradali o naturali. Tutto ciò potrebbe definirsi, secondo le parole di Rem Koolhaas “generico”, il generico che sovverte la città storica, uno spazio del troppo pieno»10. L’architettura contemporanea riesce a produrre oggetti tecnologicamente sempre più avanzati, grattacieli altissimi, sbalzi un tempo impensabili, strutture di vetro che sembrano galleggiare, forme di ogni tipo, ma ha perso totalmente il contatto con il luogo in cui si instaura, creando città generiche, spazi generici. Visitando le metropoli europee nulla diventa tipico, unico, si può essere in uno dei nuovissimi e bellissimi quartieri di Londra, ma la sensazione è di potersi trovare invece che a Londra a Milano, o a Parigi, o Barcellona, o chissà anche a New York o Pechino. Quanto appena detto non vuole essere (e non potrebbe esserlo almeno in questo ambito)
una critica all’architettura contemporanea e alle sue forme di espressione, piuttosto è una forma di riflessione che coinvolge l’Incompiuto come stile architettonico da rielaborare. Si è parlato (in una forma per lo più provocatoria), infatti, dell’Incompiuto come del più grande stile architettonico italiano dal dopoguerra ad oggi, si è detto e si sa che questo fenomeno è tipicamente italiano. Quello che ancora non si è detto, quello che invece si potrebbe pensare, immaginare è un Incompiuto che diventi vero stile architettonico, universalmente riconosciuto, non come quello generatore di spazi inabitati e luoghi senza futuro, ma viceversa, uno stile che proprio su certi caratteri comuni può porre le sue basi per rimanifestarsi. È lecito pensare e immaginare a una riconversione teorica ma soprattutto pratica dell’Incompiuto. Tramite approcci e processi progettuali si possono immaginare nuovi spazi dove elementi privi di senso acquistino nuovi significati e nuove relazioni con il contesto. Viadotti sospesi nel nulla riconvertiti in mercati all’aperto, palazzetti sportivi lasciati a metà in teatri, carceri incompleti riconvertiti in musei, e così via dicendo. Il tema del recupero degli oggetti abbandonati unito a quello della grigia spettacolarizzazione di scheletri in attesa di completamento. Uno stile che si distacca dalle scenografiche architetture internazionali ma che si caratterizza dalla voglia di ripartire dai grandi scempi lasciati nel paesaggio per costruire una nuova storia e nuovi segni. Uno stile tipicamente italiano, capace di creare
architetture nel loro genere uniche, in paesaggi eccezionali, proprio come da sempre l’Italia, nella sua storia, è riuscita a fare. L’incompiuto, oggi, può e deve dunque essere visto come un’occasione per tutti, per i paesaggi che ci circondano, per le architettura e gli spazi che viviamo, per provare a dare una continuità storica, teorica e pratica al patrimonio edilizio e paesaggistico che negli anni è stato creato nel nostro Paese. Per agire sull’Incompiuto è senza dubbio necessario un approccio progettuale nella quale l’analisi e la valutazione dello stato di fatto siano solo il primo passo di un elaborato processo di trasformazione dell’esistente. «Innanzitutto bisogna sospendere un giudizio di tipo estetico. La bassissima qualità dei mai finiti, esasperata dalla loro nudità e mancanza di intere parti o strati, non contribuisce certo all’interesse verso di loro, anzi li rende oggetti da tenere lontano, almeno mentalmente. Normalmente si rimane nell’ambiguità che loro stessi suggeriscono, scambiando il loro stato di incompletezza con quello definitivo. Comprensibilmente non si riesce a vederli per quello che sono, cioè in uno stato di passaggio, che a volte dura qualche anno, a volte decenni, tanto da considerarli in una condizione perenne. Ma la loro quantità e diffusione non consente un disinteresse di questo tipo. Si tratta di un pezzo di realtà prodotta negli ultimi cinquant’anni al cui confronto non ci si può sottrarre»11. Il confronto con le opere incompiute è quanto mai necessario e le strategie percorribili sono 17
Parco Chico Mendes - Giarre
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varie e cambiano, ovviamente, caso per caso. È necessario un interesse che vada aldilà degli aspetti economici, che riesca a superare i giudizi di tipo estetico, un interesse che riguardi soprattutto la qualità degli spazi che ci circondano e che quotidianamente caratterizzano le nostre giornate. «Oggi, a distanza di alcuni decenni dalla sua costruzione il mai finito è presente ancora in grandi quantità, inevitabilmente destinato a perdurare a lungo, anche e forse proprio per le sue trasformazioni necessarie ma anche possibili. Tutti i tentativi dell’urbanistica normativa di recuperarlo non hanno portato a risultati evidenti, le norme da sole non hanno effetto, non vengono rispettate o vengono raggirate. Il grado di incompletezza del mai finito è sempre in evoluzione e, vista la sua quantità, si può tentare di vederlo come un patrimonio potenziale in ogni momento riattivabile. Dopo decenni di invisibilità, imparando a conoscere le sue caratteristiche e le sue potenzialità, senza farlo diventare un problema immediato da risolvere ma una condizione con la quale convivere, si può affrontare il fenomeno solo con un approccio progettuale. Cioè un lavoro sul campo, attraverso azioni progettuali e sperimentali, che siano esse di passaggio, di architettura, di progetto urbano o di processi dell’arte»12.
Le parole chiave, le possibili soluzioni in questa nuovo processo di riconversione sono allora
quattro: monitorare, demolire, valorizzare e riusare. Monitorare perchè il fenomeno dell’Incompiuto ha ormai raggiunto, dal punto di vista prettamente numerico, una quantità di opere mai finite quasi al limite dell’incalcolabilità. Monitorare significa portare avanti operazioni di mappatura e catalogazione che non risultino soltanto dei tentativi isolati, degli elenchi rimasti per anni aperti, e paradossalmente, anche quest’ultimi incompiuti. Risulta necessario, invece, individuare ideonei sistemi di catalogazione, diffusi con severo criterio nelle varie regioni. Monitorare significa gestire efficacemente i nuovi processi edilizi, evitando la nascita di nuove opere incompiute sparse sul territorio. Monitorare significa che politica, pubbliche amministrazioni, ma anche i cittadini acquisiscano nuove responsabilità e coscienza per una corretta gestione del territorio, significa essere in grado di attuare nuovi piani strategici capaci di recuperare i danni operati da troppi anni di sprechi, evitandone lo sviluppo di nuovi. Demolire non perché è la soluzione più semplice, né tanto meno la più economica. Demolire può rappresentare però, in taluni casi, una scelta coraggiosa e onesta. Demolire significa dare uno schiaffo morale a chi ha gettato milioni su opere inutili, significa soprattutto ridare dignità e colore a paesaggi che per anni sono stati occupati impropriamente da colate di cemento, nate soltanto per le tasche di qualcuno, qualcuno che probabilmente non è mai riuscito a cogliere 19
la bellezza che certi paesaggi meriterebbero di conservare. Valorizzare perché dietro l’Incompiuto si nasconde un potenziale patrimonio e lo dimostrano, ad oggi, i lavori fatti da artisti, registi e fotografi. Con valorizzazione si fa riferimento, in questo ambito, ad interventi che non puntino a stravolgere le caratteristiche formali dell’Incompiuto, non si parla di demolizioni, né tanto meno di riutilizzazioni, non si parla di interventi che inevitabilmente necessitano di un certo consumo di denaro. Valorizzare significa vedere le opere incompiute con occhi diversi, riuscire a leggerne tratti distintivi, adoperare processi di astrazione che diano un senso nuovi a tali contesti. In questo senso l’arte gioca un ruolo fondamentale perché con la sua capacità di nascondere o svelare nuovi significati, è in grado metterci a confronto con le opere incompiute, offrendoci visioni diverse delle stesse. Tali processi implicano un visione attenta del paesaggio e del contesto in cui le opere incompiute sono presenti. Non implicano, non dovrebbero riguardare processi ache nell’Incompiuto leggono un nuovo stato di rovina contemporanea, con il conseguente tentativo di monumentalizzazione delle stesse, «[…] non però per questioni identitarie, ma semplicemente per il fatto che un cambio di visione di questo minerebbe alla radice la potenzialità di trasformazione del mai finito, e gli leverebbe attraverso la musealizzazione conseguente, spesso mummificazione, ogni possibilità di ritrovare un senso per riattivarlo alle nuove condizioni odierne»13. 20
Riusare perché riusare significa accettare la sfida, cogliere nell’Incompiuto i segni di un passato che ha bisogno di essere riscritto. Significa essere coscienti dell’enorme danno fatto al paesaggio italiano da sessant’anni ad oggi. Riusare significa dare nuove forme di espressione all’architettura contemporanea che tramite le opere incompiute può creare spazi totalmente nuovi, dove il fascino del mai finito che tende a nuovi stati di completezza può costituire una componente in più. Riusare non deve essere soltanto un concetto, deve essere una pratica in grado di leggere architetture mai finite e contesti desolati, una lettura e una pratica che avvenga caso per caso, con l’obiettivo comune di rendere nuovamente vivibili e apprezzabili spazi che per troppo tempo sono rimasti abbandonati.
Parole chiave, possibili soluzioni, nuove idee e nuovi processi di trasformazione per l’Italia che verrà. Tutto ciò implica un grande ripensamento delle dinamiche economiche, politiche e sociali che recentemente hanno caratterizzato il nostro Paese, tutto ciò implica nuove motivazioni, voglia di riaffermarsi e soprattutto un grande cambiamento culturale. Magari ripartendo da ciò che di sbagliato è stato fatto, magari riflettendo sui frammenti di bellezza del passato. Io, nel frattempo, osservando i non finiti architettonici del presente, intuisco una speranza per il di futuro.
Note Delle Monache P., Meneguzzo M., Non-finito, Infinito, Roma 2013, p. 57. 2 Ibidem, p. 41. 4 Alterazioni Video, Incompiuto Siciliano in “Abitare”, ottobre 2008, n. 492, p. 192. 4 Fraschilla A., Grandi e inutili, Torino 2015, p. VII. 5 Licata G., Maifinito, Macerata, 2014, pp. 107-108. 6 Settis S., Paesaggio Costituzione Cemento, Torino, 2010, p.74. 7 Licata G., op.cit., p. 14. 8 Ivi 9 Licata G., op.cit., p. 20. 10 Augè M., Rovine e Macerie, Torino 2004, p. 88. 11 Licata G., op.cit., p. 15. 12 Ibidem, p. 28. 13 Ibidem, p. 26. 1
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Stato degli studi
Attraverso un’analisi a 360° della tematica affrontata, il seguente capitolo cerca di operare un’analisi critica sulle ricerche e sui principali studi condotti fino ad oggi sulle opere incompiute con l’obiettivo di delineare i principali risultati raggiunti fino ad ora. Nel primo paragrafo viene effettuata un’ampia analisi sull’origine e sullo sviluppo del fenomeno, con l’obiettivo di inquadrare quali sono stati, nel corso della recente storia, i fattori embrionali della nascita e della diffusione dell’incompiuto. Il paragrafo oltre a discutere le cause e i meccanismi che, dal dopoguerra ad oggi, hanno generato questo diffuso modus operandi tipicamente italiano, affronta, in ultima analisi, gli aspetti relativi ai dati e alle statistiche, oltre che alle recenti normative emanate, soprattutto mirate al monitoraggio delle incompiute presenti sul territorio e ai primi tentativi di recupero per le stesse. Il secondo paragrafo cerca di analizzare il fattore incompiuto come danno reale, condiviso e visibile, non solo come danno economico, ma soprattutto come danno paesaggistico e sociale, tentando di affrontare la problematica non soltanto dal punto di vista puramente statistico ma anche come questione che necessita di un’analisi a più ampia prospettiva, dove il fattore paesaggio diventa principale riferimento e punto cardine della comprensione del problema, elemento di partenza per
una possibile volontà di trovare nuove e concrete soluzioni nel prossimo futuro. Il terzo paragrafo pone invece l’attenzione al rapporto tra le rovine architettoniche e l’incompiuto, definite appunto come rovine contemporanee. La tematica è recentemente affiorata tramite la provocazione di alcune associazioni che hanno proposto questa nuova lettura per i manufatti mai finiti. Si cerca, quindi, in questo paragrafo, di delineare i punti di vista, le osservazioni e i riferimenti che hanno recentemente generato nel mondo della letteratura, dell’arte e dell’architettura questa nuova lettura, cercando di individuarne le reali potenzialità, o invece proporre strade totalmente opposte. Il quarto paragrafo affronta e ha come obiettivo il collegamento tra l’incompiuto con i vari campi di ricerca di cui, spesso, diventa fonte ispiratore. Fotografi, artisti, videomaker e professionisti di ogni campo trovano oggi nell’incompiuto una nuova fonte di ispirazione, le incompiute si trasformano in muse ispiratrici acquistando, anche se temporaneamente, nuovi valori e nuovi significati. In ultima analisi, vengono presentate le associazioni presenti sul territorio che offrono, ormai da anni, un azione di supporto che mira in primo luogo al monitoraggio, all’educazione e al rispetto, con il sincero desiderio di generare nuovi scenari e nuove possibilità per le incompiute e i luoghi abbandonati che ci circondano. 25
2.1 Origine e sviluppo del fenomeno Nel 2013 erano 692, nel 2014, ultimo dato disponibile, sono salite a 868. Le opere incompiute sono costate 4 miliardi, in media 166 euro a famiglia, e per portarle a compimento servirebbero almeno altri 1,4 miliardi di euro1. Miliardi di euro, risorse che sarebbero necessarie a rilanciare un’economia nazionale in crisi già da parecchi anni, soldi sprecati, utilizzati per strade che non portano in nessun posto perché lasciate a metà, per strutture inutilizzate a causa degli elevati costi di gestione, per porti inaugurati e mai utilizzati, per dighe progettate negli anni ’60 e poi lasciate a metà. «Il fenomeno delle opere incompiute è assolutamente trasversale: attraversa l’Italia dal nord al sud, e accomuna regioni moderne e all’avanguardia come la Lombardia e il Veneto alle aree meno sviluppate del Mezzogiorno, a dimostrazione che gli sprechi non hanno colore politico o differenze territoriali»2. Le opere incompiute sono come una grande germe diffusosi in Italia dal dopoguerra ad oggi, il simbolo negativo di amministrazioni ed enti ai vari livelli troppo spesso legati a fenomeni di malaburocrazia, speculazione edilizia, criminalità organizzata; amministrazioni ma anche cittadini che pare abbiano perso un certo senso civico rivolto al rispetto del paesaggio e dei propri luoghi di appartenenza. «Lo stato, il governo nazionale, che dovrebbero avere una visione dall’alto e stabilire cosa serve al Paese, in molti casi è diventato semplice spettatore: da tempo è venuta meno la capacità di visione unitaria delle iniziative da intraprendere per 26
sostenere lo sviluppo complessivo del Paese e nel frattempo nascevano strade inutili, aeroporti senza collegamento, palazzetti dello sport in aperta campagna, campi da polo e velodromi rimasti vuoti, ospedali doppioni e così via. Da tempo il Paese si è fermato ed è cresciuta a dismisura una struttura amministrativa e burocratica in cui un piccolo veto, anche marginale, basta per bloccare tutto. Mala burocrazia, quindi, ma non solo. La politica ha fatto la sua parte, prestando il fianco ad una logica clientelare e affaristica che ha fatto da padrone dagli anni Ottanta a oggi. Burocrazia, politica, corruzione e mafia. In questi ultimi trent’anni abbiamo assistito a una guerra per bande tra questi tre grandi mondi. E se ciò è avvenuto è anche colpa della società civile in tutte le sue espressioni. Non abbiamo alimentato alcun anticorpo di fronte a quello che stava accadendo di fronte ai nostri occhi: le incompiute stanno lì a dimostrarcelo, metafore perfette, ognuna nella sua specificità, di un al assalto al territorio e al Paese senza precedenti»3. La gestione del suolo con i fattori ambientali, paesaggisti, architettonici ad esso connesso è stata negli ultimi anni inadeguata portando troppo spesso a situazioni di controllo non più gestibili sotto diversi punti di vista. La tematica delle opere incompiute si inserisce in un quadro molto più grande legandosi a problematiche di carattere urbano particolarmente rilevanti quali le zone periferiche delle città, il recupero delle aree di scarto e di abbandono, la nuova gestione del tessuto urbano che nel passato, alla disordinata presenza di varie leggi urbanistiche, ha risposto con l’abusivismo e
il rifiuto delle regole. Le opere incompiute possono essere inserite nel grande ambito dei territori e delle architetture abbandonate, un fenomeno che, visto in un’ottica più ampia, non è segnatamente italiano. Il concetto di Junkspace come residuo della modernità che usa e getta il territorio così come qualsiasi altra risorsa a disposizione, insieme a quello della città generica, è stato ampliamente delineato da Rem Koolhaas. «La grande originalità della citta generica sta semplicemente nell’abbandonare ciò che non funziona (ciò che è sopravvissuto al proprio uso), spezzando l’asfalto dell’idealismo con il martello pneumatico del realismo, e nell’accettare qualunque cosa cresca al suo posto. La città che emerge da queste descrizioni sembra manifestare un’incapacità genetica di riutilizzare, riciclare, di rinnovare, e un rapporto fortemente conflittuale con il tempo e con la sua azione. La città generica è un inno alla città come oggetto di consumo, con un ciclo di vita simile a quello degli oggetti»4. In Italia, il fenomeno delle opere incompiute si intreccia con la tematiche dei luoghi di abbandono prodotti dalle città generiche ma trova le sue principali tessiture con le scelte politiche, sociali e culturali che dal dopoguerra ad oggi, negli ultimi sessant’anni, sono responsabili di avere provocato indebitamento, consumo incontrollato di suolo, architetture obsolete e una conseguente compromissione del paesaggio. L’incompiutezza italiana non è espressione degli atti fisici che la rappresentano ma, ancora prima, nasce nelle sue premesse ideologiche. L’Italia del dopoguerra è cresciuta in assenza di una progettualità coerente, di un sistema di urbanizzazione rivolto al controllo
di standard risultati troppo spesso inadeguati, quasi mai rivolti a costruire reali intenzioni da dispiegare nel futuro. «Una parte significativa della classe politica italiana dal dopoguerra si è identificata in sistemi viziati, clientelari che non hanno consentito l’affermazione di una concezione di territorio quale patrimonio comune, risorsa limitata e preziosa da gestire con cura. Il territorio, soprattutto negli anni del boom economico è stato considerato terreno di conquista a disposizione della speculazione privata, con scarsissima lungimiranza circa la sostenibilità ambientale, sociale ed economica di tale pratica. Dalla seconda repubblica l’auspicata alternanza al governo ha tuttavia recato una cronica assenza di visioni a lungo termine e spesso l’atto fondativo dei nuovi governi insediati consiste nella demolizione dei progetti portati avanti con fatica dal governo precedente»5. Inizia a manifestarsi una nuova classe politica che, in sistemi sempre meno efficaci e spesso illeciti, trova il proprio modus operandi. La figura dell’italiano moderno si rispecchia in quella del protagonista del film italiano Le mani sulla città del 1963 diretto da Francesco Rosi. Edoardo Nottola è un costruttore edile e consigliere comunale nelle fila della destra. Italiano medio, di cultura media e di medio ingegno, ha a cuore il denaro e si cura di farne tanto, nel modo più semplice possibile, sul filo della legalità, non ha altro fine o ulteriori ambizioni che non siano quelle esauribili nel proprio personale profitto economico. La didascalia del film recitava: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce»6. La realtà sociale 27
Stazione Ferroviaria - Matera
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descritta era (ed è) quella di una nuova classe emergente, non solo quella politica ma di un vero e proprio sistema che affonda le proprie radici in una società più propensa a lasciar andare, senza guardare le conseguenze del futuro, guardando soltanto a se stessa, alle proprie tasche e ai propri interessi. Non è possibile individuare una fase nella quale il fenomeno delle opere incompiute inizia a nascere e propagarsi ma è molto probabilmente nel dopoguerra, periodo caratterizzato fortemente dalla ripresa economica e dal boom edilizio, che inizia a manifestarsi tra gli enti pubblici un nuovo modo di operare, distaccato dalle leggi e dal buon senso, primo sintomo di questa malattia che rapidamente si è sviluppata. Proprio il settore edilizio viene considerato punto cruciale dello sviluppo dell’economia, capace di creare infrastrutture e investimenti produttivi. Ma è proprio in questa fase che si notano i grandi limiti della classe dirigente al potere. Si trattava di una storica opportunità di cambiamento e rigenerazione, legata alle esigenze di un’urgente ricostruzione delle città distrutte o compromesse dai bombardamenti, la possibilità di mettere in atto nuove idee in campo urbanistico, idee e azioni che vengono invece trasformate in un’anarchica corsa al mattone che porterà come conseguenza la nascita della città caotiche che caratterizzano il paesaggio urbano odierno. Fin dal dopoguerra, in Italia, si è costruito tanto e male. «Al boom edilizio, non è corrisposta una altrettanto formidabile crescita culturale. Almeno in questo settore, ostaggio da sempre di clientelismi e da un incerto quadro legislativo nella quale la
speculazione ha trovato il substrato ideale per coltivare sofisticate pratiche di sfruttamento dei beni comuni»7. La storia dell’incompiuto si intreccia con quella della speculazione edilizia iniziata nel dopoguerra e scandita da codici alfanumerici di leggi inadeguate che hanno determinato gli esiti attuali. Per lungo tempo l’abusivismo non viene percepito come danno alla collettività, anzi viene considerato atto lecito, risposta necessaria alla carenza di alloggi. Le leggi sull’edilizia popolare risultano inefficaci e alla crisi petrolifera degli anni settanta si associa la convinzione che l’unica formula per mettere al sicuro i propri risparmi sia la corsa al mattone. La diretta conseguenza è la nascita di autocostruzioni realizzate nottetempo e disseminate nel territorio, senza alcuna regola, e spesso senza rispetto alcuno del paesaggio. «La rivendicazione quasi eroica del diritto alla casa per autocostruzione si configura nell’incapacità dello Stato di rispondere all’esigenza abitativa di ampie fasce di popolazione, delineando cosi una morale al di fuori della legalità che perdura ancora oggi in molte aree del paese, spesso sostenuta o ambiguamente sottaciuta dalla classe politica locale e nazionale»8. Conseguenza di questo meccanismo è l’emanazione di leggi che rasentano i limiti della legalità. Gli anni ottanta, soprattutto, si caratterizzano per un diffuso spirito neoliberista, caratterizzato dal rifiuto a ogni forma di pianificazione e dalla deregulation che si trasformano in un’incontrollabile disseminazione nel territorio di colate di cemento abusivo. La Legge 94/1982 introduce il silenzio assenso nella concessione edilizia mentre è la Legge 47/1985 che introduce il 29
primo condono edilizio a cui seguiranno altri più ravvicinati. Obiettivo della legge era quello di regolarizzare, dietro corrispettivo di denaro, tutte le edificazioni abusive, indifferentemente se costruite in zone paesaggisticamente protette o a rischio idrogeologico. La logica del condono è un implicito riconoscimento da parte dello Stato della propria inefficacia e alla mancanza di scrupolo di fronte alla legge: rompe il rapporto di fiducia con le istituzioni, legittima l’illegalità e in ultima istanza, promuove la pratica dell’abusivismo. Si creò uno stato tensionale libero dalle costrizioni, dal senso della legge, dal rispetto verso gli altri, verso il nostro territorio, si guarda all’oggi, ai nostri interessi e ai nostri tornaconti, senza analisi alcuna di quelle che possono essere le conseguenza per il futuro. «Molto spesso i grandi mostri incompleti, lasciati per anni in stato di abbandono, non sono frutto dell’abusivismo edilizio dei privati, ma della politica che guarda solo all’oggi. Spesso la fama di lavoro (soprattutto in Sud) si trasforma in scusa ideale per fare arricchire pochi, lasciando a molti solo macerie, degrado, inquinamento. E senza creare nemmeno un solo posto di lavoro. In nome della fame di lavoro e dei mirabolanti progetti degli anni Settanta si sono uccisi territori dal punto di vista paesaggistico e naturalistico eccezionali»9. Il feno¬meno dell’abusivismo edilizio e del conseguente consumo del suolo è legato a doppio filo alla proliferazione di opere incompiute e non solo distrugge irrimediabilmente l’ambiente, ricchez¬za fondamentale dell’Italia, ma alimenta il giro d’affari di organizzazioni criminali e mafiose. 30
Le principali indagini riguardanti opere incompiute e cantiere bloccati hanno come principale causa l’uso di materiali non idonei per le costruzioni e nella maggioranza dei casi l’uso di cemento impoverito. «Il cemento, più di ogni altro affare, mette insieme tutto e tutti. Ed espelle i pochi corpi estranei»10. Il cemento, l’oro grigio, quello che fa tutti d’accordo, da nord a sud, dai banchieri ai cardinali, dai sindaci ai deputati sia di destra che di sinistra. Tutti vogliono solo guadagnarci così il cemento ha occupato e continua a riempire ogni angolo libero delle nostre città e dei nostri territori. Tramite questo materiali, da anni, le organizzazioni mafiose ottengono facilmente il controllo del territorio, la capacità di intimidazione, amicizie di amministratori compiacenti e appalti quasi sempre truccati. «Dagli anni Cinquanta ad oggi la criminalità organizzata ha basato la sua ricchezza sulle operazioni immobiliari e sulla costruzione di nuove case, un affare ideale per riciclare e moltiplicare il denaro sporco. Mafia, camorra e ‘ndrangheta hanno sempre puntato l’attenzione sulla produzione del calcestruzzo perché chi ha in mano le cave può controllare i cantieri, gli appalti e scegliere le imprese che potranno lavorare e quelle che saranno strozzate. Il vero affare per Cosa nostra è quello di esser riuscita ad entrare nel sistema per la produzione del calcestruzzo per creare delle entrate di denaro in nero. Perché con questi soldi possono finanziare le attività illecite. Si sono scoperti giri di false fatturazioni: da un lato la regolarità del prodotto, dall’altro ciò che dimostra che il calcestruzzo viene allungato con un maggior numero di inerti. E da qui viene ricavato il nero
con il risultato che la qualità del calcestruzzo risultava alterato e di falsa qualità con importanti rischi connessi alle costruzioni»11. Al mondo della criminalità organizzata si affianca un’altra grande piaga presente nel nostro sistema, quella della corruzione negli appalti pubblici. È come se esistessero due mondi: quello reale e quello delle leggi. Sono due cose che viaggiano su binari paralleli, qui da noi in Italia non si incontrano mai. Le regole ci sono ma vengono aggirate, con la complicità di tutti. Gli effetti prodotti dalla corruzione si identificano in uno spiazzamento dell’economia pulita e nella riduzione della crescita del Paese. Un quarto del PIL italiano è, infatti, occupato da corruzione e riciclaggio. I fattori criminalità, corruzione, abusivismo e speculazione si intrecciano tra di loro creando un vero e proprio sistema che negli anni è stato in grado di gestire illegalmente vaste aree di territorio. Questi fattori sono, per altro, direttamente collegati ai vari meccanismi che hanno portato alla bolla edilizia del 2006, uno dei principali fenomeni che ha portato alla crisi mondiale che ancora adesso stiamo affrontando. Il tema delle opere pubbliche si intreccia dunque alle problematiche affrontate, diventando, anch’esso esito di una gestione limitata e limitante delle risorse pubbliche. «Un rapporto della Fondazione Italia/Decide certifica che l’Italia è la peggiore in Europa sul fronte delle opere pubbliche, dieci volte più lente e tre volte più care rispetto al resto del Continente. Stando al World Economic Forum, la nostra nazione è al cinquantaquattresimo posto per dotazione di strade, ferrovie e quant’altro. E come non bastasse, il dossier 2009 dell’Ance
(Associazione nazionale costruttori edili) sulle infrastrutture propone numeri allarmanti: dai quattro anni e mezzo impiegati in media per progettare opere sotto i 50 milioni di euro (oltre questa soglia gli anni diventano sei), ai nove mesi di ritardo medio accumulati in fase di cantiere dalle opere poi concluse, pari al 43,2 per cento del tempo contrattuale»12. La gestione delle opere pubbliche non è altro che atteggiamento comune che negli anni ha caratterizzato in Italia il campo dell’urbanistica, delle costruzione e dello sviluppo del territorio. «Ha trionfato la logica del fare per fare, sostiene Bernardino Romano, professore di Pianificazione e valutazione ambientale all’Università dell’Aquila: “Politici e imprenditori hanno raccolto finanziamenti ovunque, a livello europeo e nazionale, costruendo nel loro interesse e non in quello della collettività. Risultato, la spaventosa debolezza di progetti che franano al primo intoppo: un cambio di giunta, la crisi di un’impresa appaltatrice, il banale prolungarsi dei lavori»13. Le opere incompiute disseminate nel territorio nascono principalmente da questa forma mentis caratterizzante la classe dirigente della provincia italiana: fare per fare. Fare non perché è bello o è necessario, fare senza considerazione e rispetto dell’ambiente che ci circonda, della storia e delle tradizioni, fare in relazione al vantaggio immediato di chi le propone piuttosto che a quello futuro per la collettività che ne potrà usufruire. Ognuna delle opere incompiute presenti sul territorio meriterebbe un approfondimento riguardo le ragioni che l’hanno resa tale, ma molto spesso si scopre che i motivi che le hanno 31
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portate ad essere opere mai finite sono ripetutamente sempre gli stessi. Da una serie di problematiche legate agli appalti, ai favori, alle clientele, alla burocrazia, alla mancanza di fondi, alle battaglie giudiziarie, all’assenza di consenso, all’incapacità di pianificare e alla carenza di programmazione, all’eccessiva frammentazione, alla dilatazione dei tempi di esecuzione, alla carenze ed inadeguatezze dei controlli tecnici ed amministrativi oltre che ai fallimenti delle imprese e perfino, a volte, al mancato interesse al completamento da parte delle amministrazioni. A questo fattori se ne aggiunge un altro particolarmente simpatico, la possibilità di utilizzare un finanziamento pubblico da poter sfruttare per creare qualcosa di utile alla collettività, sfruttato invece nel peggiore dei modi. È questo il caso, per esempio, dello stadio di polo di Giarre, stadio da ventimila posti per una città di ventisette mila abitanti: opera pubblica evidentemente inutile in un territorio dove la cultura del polo non è mai esistita, dove si è costruito per costruire anche se le dimensioni di quello stadio erano palesemente esagerate per una città di poco meno di venti mila abitanti. Ma si è costruito lo stesso, serviva una buona idea per ricevere un buon finanziamento (circa sette milioni di euro) proveniente dal CONI e dalla regione Sicilia. Tutto facile: ecco l’idea, ecco i finanziamenti e, come prevedibile, ecco un’altra opera incompiuta. Molti finanziamenti, inoltre, arrivano con troppi anni di ritardo quando ormai l’opera potrebbe non servire più perché sono mutate le condizioni. Vi sono anche motivi che portano alla creazione di manufatti incompiuti che non dipendono direttamente 34
da essi e dalla loro implicita funzione. È il caso della mancanza di collegamenti tra l’opera progettata e il contesto nella quale vengono inseriti, la mancanza di opere di distribuzione, oppure il caso di opere pubbliche troppo grandi realizzate in contesti troppo piccoli. Quello delle opere incompiute è un sistema particolarmente ingrovigliato, dove trovare le cause è semplice, ciò che è diventato praticamente impossibile è trovare le soluzioni. «L’unica certezza, statistiche a parte, è che le incompiute non sono incidenti di percorso, bensì il sintomo di uno sfaldamento culturale, dice l’urbanista Vezio De Lucia, ex membro del Consiglio superiore dei lavori pubblici: La catena di controllo è saltata, degenerata. Le fresche cronache su La Maddalena e i grandi appalti testimoniano come gli appetiti privati abbiano sovrastato il pubblico interesse. Il resto viene di conseguenza: nella progressiva assenza di controlli, nazionali ma anche locali, si buttano soldi e non si terminano i lavori”. L’errore più grave, avverte Costanza Pratesi, responsabile ufficio studi del Fai (Fondo per l’ambiente italiano), sarebbe credere che le incompiute siano un problema del passato. Non è così: il vizio politico degli annunci eclatanti, delle sparate propagandistiche, genera sempre più investimenti irrazionali e abusi di territorio. Dopodiché il rischio è che manchino sia i fondi per concludere le opere, sia quelli per eventualmente abbatterle»14. Il tema delle opere incompiute non è sempre stato affrontato in maniera chiara dagli organi di informazione, in parte perché si presenta come un problema molto complicato e frammentato in una miriade di leggi e regolamenti che
spaziano dall’urbanistica all’economia, dal protezionismo di aree di interesse storico artistico alla lotta alla criminalità organizzata. Occorre allora indagare la natura del fenomeno delle opere incompiute, che pare in costante crescita, e le ragioni per le quali gli interventi sono tardivi, insufficienti o, addirittura, inesistenti. Le costruzioni abbandonate o mai completate sono senza dubbio il monumento all’inoperosità delle amministrazioni e al malaffare che approfitta del dilagante disinteresse verso il cosiddetto bene comune. I primi passi per il recupero delle opere incompiute vengono fatti nel 2011. Il Governo guidato dal Professor Mario Monti ha inserito l’articolo 44 bis nel Decreto Legge Salva Italia (DL 6 dicembre 2011, n.201) che prevedeva l’istituzione dell’Anagrafe delle Opere pubbliche Incompiute di interesse nazionale. Tale decreto è stato convertito il 22 dicembre 2011 nella Legge 214, ma divenuto operativo solo due anni più tardi attraverso l’emanazione di un altro decreto (DL 13 marzo 2013, n.42) da parte del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT). L’obiettivo della legge consiste nel rendere più trasparenti le pratiche politiche, evidenziare quindi tutte le strutture che necessitano di un intervento delle istituzioni permettendo anche un controllo dell’operato di queste da parte della cittadinanza. Il DL n.42 riconosce un’opera pubblica come incompiuta qualora non sia stata completata per uno o più dei seguenti motivi: mancanza di fondi, cause tecniche, modifica o creazione ex novo di norme tecniche o disposizioni di legge, fallimento dell’impresa appaltatrice, mancato interesse al completamento da parte della
stazione appaltante, dell’ente aggiudicatore o di altro soggetto aggiudicatore. La Legge prevede l’introduzione dell’Anagrafe delle opere incompiute che ha come obiettivo quello di valutare la presenza e monitorare le opere incompiute presenti nel territorio italiano. «Negli elenchi vengono segnalate, per ogni opera, la stazione appaltante, le risorse, la percentuale di lavori compiuti e le cause rilevanti dell’interruzione. Tra le cause per la mancata conclusione delle opere le più frequenti sono: mancanza di fondi; cause tecniche; sopravvenute nuove norme tecniche o disposizioni di legge; fallimento, liquidazione coatta e concordato preventivo dell’impresa appaltatrice, risoluzione del contratto o di recesso dal contratto; mancato interesse al completamento da parte della stazione appaltante, dell’ente aggiudicatore o di altro soggetto aggiudicatore»15. L’ultimo censimento pubblicato conta 868 incompiute, il 25% in più di quelle messe in fila nel precedente censimento. Ovviamente l’impennata non nasce da un fiorire di nuove opere, ma dal fatto che lo stesso censimento, compilato con l’aiuto delle Regioni, è rimasto fino a oggi incompiuto. Alla Sicilia va il record delle opere incompiute: 215, pari a un quarto di tutta Italia e ad un valore di 420 milioni di euro. Nel corposo elenco di incompiute siciliane figurano 8 opere completate ma ancora non fruibili mentre si contano 40 incompiute con uno stato di avanzamento lavori inferiore al 20%, come dire, incompiute in fase germinale. «Numeri che però, va detto subito, vanno presi con le pinze. Primo: l’elenco è costruito sulla base delle segnalazioni degli enti locali. 35
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E non c’è nessuna sanzione per chi non si autodenuncia. Risultato: l’anagrafe è del tutto parziale, come spiega lo stesso documento del MIT dove si rileva che non è noto il livello di copertura della rilevazione che non può comunque essere considerata censuaria. Il fatto che le eventuali denunce siano del tutto affidate alla buona volontà delle amministrazioni produce peraltro effetti paradossali. C’è poi da considerare che molte amministrazioni che avevano inviato segnalazioni negli anni precedenti, non le hanno riproposte negli anni successivi. Con un’ulteriore ambiguità nella correttezza dei numeri presentati»16. Mancano poi i dati temporali necessari per capire se l’amministrazione è ancora interessata a portare a termine quel progetto, immaginato magari 20 anni prima e oramai considerato del tutto datato o inutile. Insomma l’anagrafe va considerata solo come una base di partenza per aggredire il fenomeno. Ma è tutto fuorché un elenco di priorità. Lo stesso MIT è proprietario di alcune costruzioni non ultimate, 35 per la precisione, fra le quali figura anche la Città dello Sport di Tor Vergata, in provincia di Roma, un’imponente struttura che doveva ospitare le gare dei mondiali di nuoto tenutisi nel 2009 e che invece è ferma al 16% dell’avanzamento dei lavori di costruzione. Stando ai numeri del MIT, in alcune regioni si registra una miglioria della situazione nel suo complesso, ad esempio in Liguria si contano 7 opere incompiute in meno rispetto al periodo precedente, così come in Basilicata, nel Friuli Venezia Giulia, nelle Marche, nel territorio della Provincia autonoma di Bolzano, in Piemon-te, Toscana, Umbria e nello stesso Lazio. Nella regione 38
lombarda, invece, il totale risulta incre-mentato di 14 costruzioni, anche grazie all’area Expo. L’elenco delle opere incompiute è dunque destinato a crescere ogni mese perchè la legge che impone il censimento ha solo quattro anni e molte amministrazioni non hanno ancora comunicato le opere incompiute sul loro territorio. Per quanto embrionale il censimento è però un passo decisivo per intavolare una strategia di recupero o riconversione ad altri usi di questi monumenti allo spreco. «Ora il Ministero delle Infrastrutture sta per far partire la fase due, che prevede di stimolare la ripartenza di una parte di questi lavori attraverso sconti fiscali e cambi di destinazione d’uso semplificati per quei privati che vorranno investire per proporre interventi di recupero. Il prossimo passo prevede l’individuazione delle opere su cui concentrare le priorità. Già si è parlato di aprire una corsia preferenziale per le opere legate all’edilizia scolastica. C’è l’ipotesi di creare una cabina di regia a Roma con poteri commissariali affidati alle amministrazioni locali impegnate nell’iniziativa di recupero. Insieme agli incentivi saranno previste anche sanzioni per quelle amministrazioni pubbliche inerti che non si saranno dotate di un programma coperto da budget per portare a termine i cantieri lasciati a metà»17. Poste queste condizioni, rimane da capire se siano stati pensati degli strumenti legislativi utili a combattere l’abbandono dei cantieri e a tal proposito interviene l’Avvocato Marco Parini, presidente di Italia Nostra: «Per quanto riguarda le opere pubbliche normalmente vengono fatte delle gare d’appalto ed è previsto un termine per la consegna dei lavori e di norma sono
previste anche delle clausole penali. Tuttavia può accadere che una fra le aziende che non si vede aggiudicato il lavoro faccia magari ricorso e chieda di bloccare i lavori tramite la sospensiva dei lavori. [...] Può verificarsi anche un’altra circostanza, ovvero che l’azienda che si aggiudica i lavori finisce nei guai: fallisce, non ha più risorse oppure si trova ad affrontare grossi problemi. Quest’ultimo rappresenta uno dei casi più frequenti di interruzione dei lavori, soprattutto oggi in periodo di crisi, e in cantieri che non sono destinati alla costruzione di opere di grandi dimensioni. Infine le cause sono da rintracciare nei lunghi periodi e lunghi termini per eseguire i collaudi di questi lavori e questo è sicuramente un caso di incuria molto grave della pubblica amministrazione»18. L’azione di monitoraggio rappresenta il primo atto verso la risoluzione, quantomeno parziale, della problematica relativa alle opere incompiute. Oltre ad accertare e punire i responsabili dello spreco, resta il problema: che fare delle opere incompiute? Risale al 2011 la proposta di legge di un gruppo di deputati favorirne il recupero e il riutilizzo. Il testo prevedeva, oltre l’istituzione di un’anagrafe nazionale, aumenti di cubature fino al 30% e incentivi economici per coinvolgere i privati, introducendo il divieto per le amministrazioni di progettare nuovi edifici se prima non completano quelli precedenti. Idee alternative nascono da un progetto che ha coinvolto gli artisti e architetti del gruppo Alterazioni Video, l’Incompiuto Siciliano, raccontato nel documentario Unfinished Italy del regista francese Benoit Felici. «Cosa fare quindi di questo patrimonio che sta andando sprecato?
Per Nencini, che sta studiano delle norme per risolvere il problema, la prima cosa da fare è andare a scavare tra queste opere per decidere cosa è ancora necessario ed eventualmente modificare i progetti, per poi chiedere aiuto ai privati. Con la carenza di fondi pubblici alcune di queste opere andranno affidate al mondo privato: se non c’è collaborazione pubblico-privato non si concluderanno mai. Per agevolare questo percorso il viceministro lancia una proposta di un bonus fiscale da discutere con il Mef: si può pensare ad una primalità fiscale per i privati e non escludo la possibilità di revisione di natura urbanistica per dare ai privati la possibilità di utilizzare il bene per altri usi, con il vantaggio di evitare nuovo consumo di territorio. Tra le ipotesi sul tavolo c’è anche quella di dare incentivi alle pubbliche amministrazioni che fanno di questo tema una priorità»19. Trovare soluzioni implica una necessaria revisione del sistema burocratico e amministrativo, un sistema di informazione attivo che punti alla ricerca di un ritrovato spirito etico e civico rivolto al rispetto delle azioni per il futuro. «Per prima cosa bisognerebbe accentrare alcune competenze. Fermando i piccoli feudalismi locali, che hanno alimentato clientele infinite per favorire questo o quel politico. Non ci si può affidare a certa classe dirigente che in Italia, purtroppo, è scadente a tutti i livello. Ma almeno accentrando alcune decisioni si può sperare di avere una visione d’insieme. Occorre inoltre un sistema che tuteli un minimo gli amministratori (come ad esempio sindaci che hanno il terrore di portare avanti appalti perché temono di dover 39
pagare in prima persona eventuali intoppi), premiando un minimo quelli che realizzano cose utili. Difendendoli dalla malaburocrazia. Occorrerebbe creare un struttura unica nazionale che individui le priorità all’interno della gestione collettiva del territorio. Insomma, maggiore trasparenza, leggi più snelle per punire chi sbaglia davvero e un sistema bancario amico delle banche che hanno contratti con pubbliche amministrazioni. Poi occorre avere il coraggio di demolire le infrastrutture che non servono più o che sono rimaste incompiute. Certo questo ha un costo: ma un governo che vuole dare il segnale del cambiamento vero del paese deve avere questo coraggio. La costruzione selvaggia di infrastrutture inutili è stata un danno enorme al Paese e ha avuto un costo elevato non solo da un punto di vista strettamente economico ma ha pesato, e pesa ancora oggi, sulla qualità morale di questa nostra amata Italia. Un bambino che cresce vedendo davanti a sé opere abbandonate e cemento inutile non avrà mai una visione civica profonda del suo Paese»20. Il desiderio e la volontà di cambiare gli scenari del futuro, dare un nuovo senso alle opere incompiute inciampano però su una delle stesse problematiche che spesso ne è stata tra le principali cause, ovvero la burocrazia. La gestione delle opere pubbliche è sempre stata particolarmente complicata e, se aggiunta alla tematica dell’incompiuto, all’atto pratico diventa realmente di difficile risoluzione. «Uno dei nemici delle opere incompiute è la rigidità delle norme. Se un’opera pubblica nasce in un modo, la legge non prevede che si possa cambiare in corsa la destinazione d’uso e i 40
finanziamenti relativi. I soldi sono stati stanziati per quello scopo e non c’è verso. L’obiettivo è quello di impostare alcune norme nuove per rompere questa rigidità. Di pari passo ci vuole una norma che stabilisca una programmazione nei fondi. Per le opere pubbliche, si spenda ogni anno lo 0,3% del Pil. In questo modo si potrà programmare la spesa con un anticipo almeno triennale e potremo evitare l’altro guaio italico, ossia la fine improvvisa dei finanziamenti con l’opera a metà»21.
La soluzione al problema delle incompiute non risulta sicuramente immediata, l’applicazione di nuove leggi e di azioni di monitoraggio deve rappresentare soltanto il primo passo verso un futuro caratterizzato da un maggiore rispetto del paesaggio e strategie progettuali che evitino lo sviluppo di nuove incompiute sul territorio. Il rispetto delle regole è l’unica, vera soluzione al problema delle opere incompiute e di tutto ciò che ne consegue come l’abusivismo, il consumo del suolo, il danno ambientale, la proliferazione di organizzazioni criminali e mafiose, la negligenza e la colpevole convivenza delle istituzioni, la superficialità con la quale alcuni cittadini ignorano la questione. Non serve quindi trovare meccanismi nuovi, soprattutto quando assomigliano ad un imbarbarimento delle dinamiche politiche camuffate da idee semplificative, nemmeno l’intervento del salvatore della patria di turno. Le leggi non mancano. Manca, forse, la responsabilità da parte di tutti noi. L’esercizio costante della coscienza civica collettiva.
Stazione di San Cristoforo - Milano
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2.2 I danni dell’incompiuto Le ricerche sull’incompiuto e il desiderio di svelarne le potenzialità non possono prescindere da un’analisi critica di quello che è ed è stato, di quello che ha prodotto e di ciò che oggi rappresenta. Un danno. Un danno in termini economici, un danno in termici sociali e in termini soprattutto paesaggistici. L’aspetto economico è quello che emerge principalmente. Un miliardo, due miliardi, quattro miliardi, cifre ripetute dai media, dai giornali, dalle televisioni che trovano sempre un piccolo spazio da inserire all’interno dei notiziari per aggiornarci sull’incredibile scoperta di una nuova opera incompiuta, quindi di uno spreco, quindi nuove statistiche, nuovi numeri con cui poter fare notizia. Ogni anno il costo dell’incompiuto cresce, ogni anno scopriamo di aver speso soldi per opere mai completate, ogni anno i numeri cambiano, si scoprono all’improvviso, come se nessuno ne fosse mai prima stato a conoscenza, incompiute nascoste nella periferia nord di Roma, nel piccolo paesino in provincia di Agrigento o tra gli infiniti cantieri dell’Expo di Milano. Cambiano i numeri, ma non cambiano i fatti. La cosa più preoccupante dell’incompiuto e del sistema di informazione non sono i dati statistici ed economici, il loro susseguirsi e sistematicamente incrementarsi, il problema principale sta nel fatto che l’impressione è che il danno reale, l’unico, delle opere incompiute è il fattore economico. È indubbio che c’è, esiste, è irreparabile e 42
quei soldi spesi in opere mai finite sarebbero stati molto utili in altri ambiti, ma è anche vero che la problematica dell’incompiuto deve essere affrontata in una prospettiva più ampia mirata a discutere soprattutto i danni provocati dall’incompiuto al paesaggio, al deturpamento di coste, valli, skyline urbani e tanti altri luoghi, dei conseguenti aspetti sociali che da questo fenomeno derivano. «Le opere incompiute rappresentano piccole e grandi bombe ecologiche, piccole e grandi opere abbandonate di un’Italia che fa presto a dimenticare. Piccole e grandi, vere e proprie colate di cemento che hanno sfregiato spazi verdi senza alcun vantaggio per il territorio. Solo una grande bruttezza»22. In quanto opere pubbliche le incompiute non sono un problema di una singola amministrazione, di un singolo comune, di coloro che direttamente ne sono stati causa, in quanto opere pubbliche le opere incompiute sono un problema pubblico, di tutti e come tale deve essere affrontato. Con l’obiettivo di prendere piena conoscenza della problematica e con il desiderio di risolverla perché danno causato involontariamente da tutti e che su tutti oggi agisce. «Siamo diventati sempre più sensibili a tutte le forme di inquinamento ambientale, dall’amianto ai rifiuti, alle acque contaminate; eppure tendiamo a sottovalutare altre aggressioni alla vita quotidiana, come l’inquinamento acustico e quello visivo, contribuenti dello sviluppo di patologie psicofisiche innescate dal crescente degrado ambientale e dalle brutali trasformazioni
del paesaggio. In Italia è sempre stato difficile dissociare la natura dalla storia, e persino sottomettere la storia alla natura. È un paesaggio storicizzato, pittorico, in piena continuità con quello di quadri, affreschi, e con quello descritto ed evocato da poeti e scrittori non solo italiani. All’ispirazione naturalistica si affianca in Italia una sensibilità diversa e complementare, quella che assimila il paesaggio alle opere d’arte, facendo leva su una categoria concettuale e descrittiva, quella della veduta, che può applicarsi egualmente a un dipinto e a uno scorcio di paese come può vedersi da una finestra, verso la compagna, o da un colle, verso la città»23. Immaginate di rappresentare oggi un paesaggio italiano, in chiave contemporanea. Immaginate di trovare tra le spiagge siciliane uno scheletro di un edificio mai finito e per giunta confiscato alla mafia, immaginate di trovare un ponte il cui impalcato termine nel vuoto tra un folto bosco di alberi, immaginate di trovare una diga priva di acqua, nuda, a rivelare la sua immensa colata di cemento, poggiata tra le colline di un qualsiasi paesaggio italiano. Immaginate. Immaginate che già esiste e che in pochissimi anni l’Italia e gli Italiani sono riusciti con gesti, a volte anche piccolissimi, a creare un grande danno al paesaggio che ci circonda, il paesaggio da noi vissuto, quello di cui, da sempre, siamo fieri ed orgogliosi di vivere. «Il paesaggio vissuto va inteso in piena continuità con quello esplorato da poeti e pittori, e non ha senso ammirare e proteggere i quadri di paesaggio se non sappiamo
rivolgere eguali cure ai luoghi reali che essi rappresentano. Il paesaggio vissuto è fonte di intense esperienze etiche ed estetiche per il singolo, ma per la sua vastità e la sutura con le città implica un livello più alto, la collettività dei cittadini, e alla società il paesaggio (cioè la natura) impartisce una forte lezione morale. Perciò il paesaggio richiede di essere tutelato; la pratica dell’arte fonda la necessita di preservare la natura, arrestando la devastazione delle campagne prodotta dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione forzata. Il paesaggio riflette e determina l’ordine morale, e perciò è il luogo chiave della responsabilità sociale: in esso le istanze sociali e politiche del presente sono obbligate a misurarsi con i valori della natura, della bellezza e della memoria, ne possono rinunciarvi senza tradire se stesse. Il paesaggio è il volto amato della Patria»24. La storia del patrimonio italiano, sia esso artistico, architettonico o paesaggistico, si caratterizza non solo per l’infinita presenza di esempi ma anche per principi volti alla conservazione e al rispetto della storia, delle tradizioni e del passato. È per tale motivo che non bisogna fare l’errore di considerare le incompiute come oggetti abbandonati qualsiasi da salvaguardare così come sono, nel loro nostalgico stato di attesa. «Le opere pubbliche incompiute emanano una bellezza malinconica e struggente, evocano ciò che avrebbero potuto essere, rammentano sprechi, raccontano una amara storia d’Italia»25. Il gioco di relazioni e contrasti che si 43
Pizzo Sella - Palermo
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crea tra l’incompiuto e il paesaggio è un gioco di colori, di consistenze, di rapporti spezzati, di una mancanza di rispetto per quello che la natura ci offre e meriterebbe di essere conservato così per com’è, senza il bisogno di aggiungere nuovi elementi, nuovi gesti, nuove componenti che possono, in un modo o nell’altro, spezzare l’equilibrio. «Ci accade di contemplare dei paesaggi e di ricavarne una sensazione di felicità tanto vaga quanto intensa; più quei paesaggi sono naturali (meno essi devono all’intervento umano), più la conoscenza che noi abbiamo è quella di permanenza, di una lunghissima durata che ci fa misurare per contrasto il carattere effimero dei nostri destini individuali»26. Quello che è venuto a mancare nell’ultimo sessantennio, quello che ha generato lo sviluppo del fenomeno incompiuto è la mancanza di quel tessuto etico e civico che ha sempre caratterizzato la gestione del patrimonio architettonico e paesaggistico italiano, azioni rivolte alla pubblica utilità, al bene comune, al rispetto reciproco e del proprio territorio. «La piena integrazione tra paesaggio e manufatto è quella determinata da una natura mirata alla pubblica utilità. La piena integrazione del manufatto entro il paesaggio, anzi la natura mirabilmente artefatta del paesaggio italiano in quanto forgiato dalla mano dell’uomo; la produzione di uno spazio sociale che rispecchia secolari processi di civiltà agraria, artistica, letteraria, e in cui l’edificato e il paesaggio operano congiuntamente, e in cui l’edificato e il paesaggio operano a fini civili; infine, il
trapasso armonioso dalla campagna alla citta che pittori e visitatori d’ogni nazione avevano per secoli ammirato e registrato. Il legame fra campagna e citta, fra natura e cultura, fra il paesaggio e le antichita e belle arti sono proprio i fini civili, la publica utilitas, insomma un tessuto etico e civico sedimentato nei secoli, ed egualmente connaturato alle piazze di citta e valli e colline coperte di vigneti di ulivi, alle strade coperte di cipressi»27. Il tema dell’incompiuto come danno al paesaggio è direttamente collegato a quello dell’incessante consumo di suolo prodotto dal dopoguerra ad oggi accompagnato, tra le altre cose, da un eccessivo e, oggi, preoccupante uso del cemento. Da uno studio condotto dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale spia è emerso che dal 1956 al 2010 in Italia si è costruito mediamente ad un ritmo di 8 metri quadrati al secondo, con una accelerazione continua e progressiva. Il consumo annuo di cemento è passato da 50 kg pro-capite del 1950 ai 400 kg pro-capite del 2007. «Secondo l’Agenzia ambientale Europea, tra il 1991 e il 2011 ogni anno il territorio è cresciuto di 8500 ettari; secondo l’Istat, tra il 1990 e il 2005 il Paese ha perso 3 milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo»28. Nel 2010 ogni italiano ha perso 340mq di suolo a favore della edificazione. Il 20 per cento del patrimonio edilizio italiano è fatto di seconde o terze case, tirate su a spese della natura per restare vuote la maggior parte dei mesi l’anno. A questi dati va ad aggiungersi l’enorme quantità di manufatti edilizi rimasti 45
incompiuti che occupano e deturpano il paesaggio, in favore di una speculazione edilizia e economica che non ha portato da nessuna parte. Opere ferme inutilizzate hanno solamente prodotto un esborso di soldi e nessun guadagno. Viene dunque da chiedersi se l’Italia è ancora il Bel Paese, se c’ è ancora tempo per evitare che il degrado diventi irreversibile. Questi numeri, inoltre, sono ben al di sopra della media europea e rappresentano una criticità in quanto determinano perdite irreversibili delle funzioni ecologiche degli ecosistemi, rendendo piu fragili i territori, aumentano l’erosione ed il rischio idrogeologico, impoveriscono e compromettono il patrimonio del paese oltre a sottrarre suolo all’agricoltura: un settore strategico nell’economia italiana. «L’80% per cento dei comuni italiani sono potenzialmente a rischio dissesto idrogeologico, dopo anni di cementificazione furibonda del territorio. Secondo i dati dell’Ispra ogni anno vengono cementificati fra i 50.000 e i 200.000 ettari di territorio naturale e deteniamo il record europeo dell’impermeabilizzazione delle superfici naturali: dal 2001 sono aumentate dell’8,8%, il doppio della media degli altri paesi dell’Unione Europea. L’Italia è il paese che spende di più per emergenze dovuto al dissesto ambientale: dal 1935 ad oggi, in media si parla di cifre pari a 3,5 miliardi di euro all’anno. In 1121 centri urbani troviamo edifici in aree franose, nel 31% dei casi si tratta di interi quartieri, nel 56 per cento vi sono aree industriali, nel 26% 46
alberghi e centri commerciali. Una situazione drammatica»29. Ecco che in quest’ottica lo spreco in termini economici e in termini di risorse inadeguatamente sfruttate diventa diretta conseguenza di problemi di natura ambientale che si ricollegano al paesaggio non soltanto in qualità di bene percettivo da salvaguardare ma anche come elemento fisico, dove gli equilibri naturali sono stati spostati da interventi spesso eccessivi, spesso fatti male, spesso inutili, o spessi mai realizzati perché i soldi necessari erano già stati utilizzati per finanziare opere pubbliche che non sono mai state terminate. «Nonostante i numeri allarmanti, gli eventi disastrosi, le numerose denunce la cementificazione non è mai stata considerata come un’emergenza nazionale, tanto che il consumo di territorio sembra non esser percepito come problema. I cantieri continuano a sorgere anche in posti impensabili senza risparmiare le zone protette e sottoposte a vincoli, di natura paesaggistica, ambientale, architettonica. L’urbanizzazione si dice che porta sempre buone intenzioni, posti di lavoro, nuove strutture pubbliche a servizio della collettività, peccato che a volte queste non vengano nemmeno portate a termine. La spinta al consumo di territorio è venduta all’opinione pubblica come necessità dell’economia»30. Visto il tasso di cementificazione presente in Italia il nostro Paese dovrebbe inoltre essere tra le maggior potenze economiche d’Europa e con un alto tasso circa il livello qualitativo della vita. Non
è così. Non è così perché la pianificazione urbanistica in Italia si è dimostrata e si dimostrata ancora inefficace, difficilmente pronta a gestire le possibilità di rinascita e cambiamento, come quelle avvenute nel dopoguerra, ancora più incapace nella gestione, oggi, di un tessuto che appare sempre più complicato e fatto da stratificazione che non si riesce più a far comunicare. A tutto ciò si aggiunge un paese nella quale alle regole a garanzia dell’interesse collettivo prevalgono gli interessi di chi domina il mercato. Non bisogna dunque sorprendersi quando il consumo di suolo diventi addirittura spreco. Risultano milioni le case sfitte, i capannoni vuoti, e le opere lasciate a metà. Ad esempio, tra le abitazioni sfitte ve ne sono: 245.142 sono a Roma, 165.398 a Cosenza, 149.894 a Palermo, 144.894 a Torino e 109.573 a Catania31. Per non parlare delle o opere incompiute. I dati e le statiche sono soltanto un riassunto dello scenario caratterizzante oggi l’Italia, e i fenomeni studiati tramite nuovi indici sono elementi sfuggenti perché difficilmente si hanno banche dati aggiornate e perché difficilmente i numeri possono essere una sincera rappresentazione della realtà. Prendiamo come esempio un indice frequentemente menzionato, il PIL. «La crescita del PIL non coincide con la crescita del benessere per chi vive, perché è un indice del tutto inadatto per dirci quanto in un Paese si stia bene. Esempio: il PIL cresce se andiamo in giro in automobile e sta fermo se andiamo in bicicletta o a piedi. Il PIL cresce se facciamo una bella
colata di cemento in un campo agricolo, e si muove appena se quello stesso campo viene coltivato. Ecco quindi il prevalere degli interessi economici su quelli di benessere sella popolazione»32. Il danno delle incompiute però non ha natura soltanto economica ed ambientale, il danno dell’incompiuto si lega a un fattore in un certo modo invisibile, non valutabile tramite statistiche, rapporti, indici, un aspetto che riguarda direttamente le persone, quello sociale, quello che riguarda chi da anni è ormai costretto a convivere con le opere incompiute, chi inevitabilmente è costretto ad abituarsi, rassegnarsi al loro stato di abbandono, uno stato di assenza funzionale contrapposto a una presenza fisica e contrastante con il paesaggio con la quale sono costrette ad interagire. «Mi sono spesso domandato cosa accade ad un bambino che cresce in una periferia di opere abbozzate e abbandonate a marcire, se il paesaggio, l’ambiente, l’architettura hanno un’influenza sul comportamento delle persone. I paesaggi danno forma alle nostre vite, formano il nostro carattere, definiscono la nostra condizione umana e se sei attento acuisci la tua sensibilità nei loro confronti, scopri che hanno storie da raccontare e che sono molto più che semplici luoghi, scrive il regista Win Wenders»33. La storia ci narra di un patrimonio da sempre caratterizzato da splendidi esempi, presenze assolute di bellezza. Qualcosa negli ultimi anni è andato storto, pare che la macchina si sia inceppata, che si sia perso quel senso di splendore 47
che da sempre ci ha caratterizzato. Sembra oggi che l’obiettivo, capovolgendo le carte, sia diventato quello di distruggere tutto, di mortificare la nostra terra, e il nostro passato. È necessaria maggiore informazione, maggiore presa di coscienza, ritrovare il senso etico e civico perso, riappiopparsi dei paesaggi distrutti con l’amore che tutti, in cuor nostro, rivolgiamo per il nostro Paese. I danni delle opere incompiute sono evidenti: lo spreco e lo sperpero di risorse da poter utilizzare efficacemente, l’inquinamento ambientale, la rovina dei paesaggi che potevano fare la fortuna di un territorio e che sono stati devastati, ma anche e soprattutto un danno sociale di inestimabile portata. «L’Italia è ad un punto di non ritorno. È ancora uno dei luoghi più belli al mondo ma la colata di cemento che continua a riversarsi su di essa rischia di rovinarlo per sempre. Il danno potrebbe diventare irreversibile e definitivo, ma non soltanto per il patrimonio naturale perché il degrado ambientale si accompagna sempre a quello umano. Oggi non siamo più di fronte al bisogno di case che diede impulso alle grandi costruzioni del dopoguerra, oggi il cemento ingrossa solamente le tasche di pochi e impoverisce tutti gli altri. Il cemento è diventato il perno attorno cui ruota l’alleanza malsana tra imprenditori spregiudicati e politici pronti a tradire la loro fondamentale missione di rappresentare i cittadini. La parola ambiente, nel senso stretto di valorizzazione e tutela dello stesso, è sparita dai programmi politici, o per lo meno se 48
appare nei programmi resta una parola scritta o detta perché nell’atto pratico non viene realizzato nulla in suo favore»34. In Europa, nel mondo, le città crescono, cambiano, zone di abbandono vengono riconvertite in piazza e aree pedonali, antichi palazzi vengono recuperati o sostituiti con nuovi edifici, più efficienti e tecnologicamente avanzati. Anche qui, in Italia, si continua a cambiare, si continua a buttare cemento, si continua a creare luoghi di abbandono, spazi degradati, aree inutilizzate, le periferie delle nostre principali aree urbane crescono senza un progetto metropolitano e ambientale, di trasporto pubblico e di servizi, nelle aree di maggior pregio, tra cui le coste, una produzione dissennata di seconde case cementificato distrugge gli ultimi lembi ancora liberi di territorio e zone a rischio idrogeologico, abusivamente o con il benestare di piani regolatori. Si creano volutamente spazi senza futuro. «Interi quartieri nei quali i bambini cresceranno con davanti agli occhi brutture di cemento inutile. Come fa un bambino che vive in un quartiere difficile come Librino di Catania ad apprezzare uno Stato che non ti dà le fogne ma ti costruisce un cubo di cemento per un palazzato mai aperto? Come fa un bambino di Amalfi ad apprezzare la cosa pubblica che ti ha piantato nel cuore di un promontorio stupendo che dà sul mare un ospedale vuoto e in abbandono? E forse questo, aldilà dello spreco di denaro, il danno più grande delle piccole e grandi incompiute d’Italia»35.
Il mostro del parco - Sammezzano
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2.3 Quantificazione e classificazione delle Opere Incompiute Quante sono le opere incompiute diffuse sul territorio italiano? Può essere utile ma soprattutto è possibile operare una classificazione? Domande a cui è difficile dare una risposta perché i dati sono incerti e sempre in continuo aggiornamento. Risulta comunque utile un tentativo di classificazione delle opere incompiute perchè, oltre ad essere inquadrato come fenomeno generale su scala nazionale, l’incompiuto ha bisogno di un’analisi più dettagliata, atta a definire quali sono le maggiori criticità presenti sul territorio, quali dunque i settori nella quale siano maggiormente necessari dei provvedimenti, sia essi in termini pratici, di intervento diretto, ma anche interventi di controllo, mirati alla gestione delle opere, con l’obiettivo principale di evitare la diffusione di nuove opere incompiute. È dal 2013 che il MIT ha attivato un sistema di rilevazione nazionale per le opere pubbliche incompiute, SIMOI, il sistema informativo di monitoraggio delle opere incompiute accessibile dal sito del Servizio Contratti pubblici36 con la finalità di creare, a livello informativo e statistico, una bancadati costituita da appositi elenchi-anagrafe delle opere incompiute di competenza delle amministrazioni statali, regionali e locali. In questi anni è incrementato il numero delle stazioni appaltanti iscritte al SIMOI e, conseguentemente, delle opere pubbliche incompiute inserite nella banca dati: si è 50
passati dalle 571 opere incompiute registrate nel 2013, a 689 opere monitorate nel 2014 ed a 868 opere nel 201537. La pubblicazione di un nuovo elenco aggiornato è prevista entro il 30 giugno 2016 con le graduatorie delle opere pubbliche incompiute aggiornate al 31 dicembre 2015, secondo i criteri imposti dalla legge. Con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e delle concessioni, secondo quanto riferito dal MIT, si profila l’obbligatorietà per ogni amministrazione pubblica della ricognizione delle opere incompiute in occasione di predisposizione dei piani triennali degli investimenti. In quella occasione le amministrazioni dovranno svolgere approfondimenti sui casi rilevanti e valutare se ci sono le condizioni per procedere con il completamento, oppure l’eventuale riutilizzazione, anche ridimensionata, una diversa destinazione d’uso, la cessione a titolo di corrispettivo per la realizzazione di altra opera, oppure la vendita o, da ultimo, la demolizione. Ulteriori tentativi di monitoraggio sono portati avanti dall’associazione incompiuto siciliano. Nel sito attivato38 è infatti presente una mappatura interattiva: si può scegliere di visualizzare per regione o per singola tipologia (cultura, edilizia civile, sanità, sport e trasporti); è inoltre possibile presentare una propria segnalazione indicando luogo, foto e informazioni sulla nuova incompiuta comunicata. Numerose altre associazioni si stanno occupando del tema, con la metodologia comune del coinvolgimento della cittadinanza.
Se quantizzare le opere incompiute risulta abbastanza complicato, altrettanto difficile è operare una classificazione delle opere incompiute, individuare quali sono i casi più diffusi presenti e trovarne le cause. Una prima grande classificazione è quella tra le opere private e le opere pubbliche, quest’ultime poi classificabili ulteriormente in altre sottocategorie.
2.3.1 Opere Private Le opere private incompiute rappresentano la prima macro categoria tre le opere incompiute. Difficilmente quantizzabili perché le operazioni di monitoraggio guardano soltanto al settore pubblico, la loro diffusione è spesso legata al fenomeno dell’abusivismo edilizio. Si tratta di opere parzialmente terminate, edifici spesso abbandonati, fonte di degrado per il paesaggio nella quale sono inserite. In quanto opere private, il danno relativo a questa categoria non è di natura prettamente economica, il danno, per lo più, è in termini ambientali e paesaggistici. Nella maggior parte dei casi, tali manufatti nascono come seconde o terze case, spazi da abitare soltanto per qualche settimana all’anno, spazi che non sono mai stati completati e che ora occupano porzioni di coste, di montagne, di luoghi preziosi, danneggiati dalla presenza di uno scheletro che è in attesa di completamento e che, molto probabilmente rimarrà ancora fermo in questa condizione di attesa chissà
per quanti anni ancora. Le opere private incompiute sono frutto di un atteggiamento eticamente e civicamente scorretto di una buona fetta della popolazione italiana, frutto di un programmazione urbanistica e di un sistema legislativo incoerente, responsabile di essere stato protagonista negativo nella nascita e diffusione di questo meccanismo. «L’esplosione dell’abusivismo risale alla crisi degli anni Settanta, quando l’incertezza economica mosse una gigantesca corsa al mattone. In barba alle leggi, venne realizzato un numero impressionante di nuove unità immobiliari. Le seconde case, spesso lasciate vuote o occupate pochi giorni l’anno invasero la penisola, sorgendo senza ordine e devastando alcune delle più belle località del Paese. Ma passata la crisi invece che combattere questo fenomeno lo Stato emana una legge, la numero 47 del 1985 che consentì per la prima volta, in forma organica di regolarizzare le posizioni dei proprietari abusivi e dei fabbricati. Si disse che sarebbe stato il primo e ultimo condono. Invece fu un provvedimento che ne portò altri, una serie di condoni edilizi, sanatorie che, ripetute nel 1994 e nel 2003, in nome di un millantato introito straordinario per lo Stato hanno invece fatto incassare pochi spiccioli e premiato gli abusivi»39. Conseguenza di questo atteggiamento è l’incessante produzione di mostruosità architettoniche. Se consideriamo l’abusivismo in numeri, i dati risultano allarmanti: dal 1994 in Italia sono state costruite 362mila case abusive, 70 mila solo in Campania, tra il 2003, ultimo anno in cui si poteva presentare domanda di condono 51
Abitazioni incompiute - Spagna
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edilizio, e il 2011, è stata censita la cifra record di 258mila nuove case abusive per un giro di affari illegale che secondo Legambiente supera i 18 miliardi di euro40. «Nel paese dei tre condoni e dell’illegalità radicata, la conseguenza è stata capovolgere l’obbiettivo di sconfiggere l’abusivismo»41. L’abusivismo con tutti i mali che porta, è un fenomeno che, tra l’altro, non accenna a diminuire. Il fenomeno, come dimostrato, non muove le sue ragioni nella mancanza di abitazioni, bensì nello sfruttamento del territorio e nei vantaggi economici che ne possono derivare. Ogni anno vengono tirate su dal nulla oltre 20 mila costruzioni completamente fuori legge: senza sistema fognario, spesso in aree non indicate (o addirittura pericolose, come quelle di esondazione dei fiumi), senza attenzione alcuna alla salvaguardia del paesaggio. Sul mare, nei parchi archeologici, nelle aree protette: sono pochi gli angoli del Belpaese ad essere stati risparmiati. Sono proprio queste le opere i cui cantieri talvolta vengono bloccati, interrotti e lasciati incustoditi a deturpare il paesaggio entrando, a pieno diritto, a far parte della categoria delle incompiute.
2.3.2 Opere Pubbliche Nella categoria delle opere pubbliche sono inserite il più vasto numero di manufatti mai finiti, principale danno in termini economici, ambientali e paesaggistici. I dati relativi
all’anagrafe si riferiscono proprio a questa macro categoria che può essere ulteriormente suddivisa in: opere terminate ma mai consegnate alle Amministrazioni o ai gestori così che potessero essere fruite dal pubblico; opere incompiute nel senso letterale del termine, mai completate di cui restano solo scheletri o cantieri interrotti; opere già finanziate ma mai appaltate e iniziate, ovvero di restauri di centri storici, spazi pubblici, complessi sociali, edifici pubblici ex novo. Le grandi opere pubbliche incompiute, nel comune parlare, vengono identificati come Ecomostri. Termine coniato, insieme ad abusivismo, da Legambiente, è subito saldamente entrato nel linguaggio quotidiano degli italiani, ma intraducibile in altre lingue, a dimostrazione del fatto che si tratta di un fenomeno marcatamente italiano. Questo termine vuole proprio indicare quegli edifici o complessi di edifici considerati gravemente incompatibili con l’ambiente naturale circostante. «Il primo e più deflagrante caso, a cui venne attribuito per la prima volta il termine di ecomostro, fu l’albergo Fuenti, nel comune di Vietri sul Mare, titanico scheletro di cemento grigio incuneato nel 1971 in un insenatura di un tratto di mare blu tra i più suggestivi d’Italia. Un mega albergo sulla costiera amalfitana: 34 mila metri cubi di cemento, 24 metri di altezza (sette piani), 2000 metri quadri di superficie. Tutto questo in un’area che l’Unesco aveva dichiarato patrimonio dell’umanità. È stato definito un misfatto ecologico esemplare. Nel 2004, per fortuna, fu predisposto l’abbattimento»42. Ma 53
se alcuni casi hanno trovato soluzione con la demolizione, altre centinaia di casi aspettano ancora una soluzione. Le opere Incompiute individuate nelle varie regioni, possono essere suddivise in varie tipologie: ferrovie e metropolitane; autostrade e strade; aeroporti e porti; ponti, viadotti e tunnel; opere idrauliche; edilizia sociale e produttiva. Ognuna di questa tipologia è testimoniata dalla presenza di incompiute con una storia più o meno complessa. Tra le varie categorie, l’incompiuto italiano pare rispecchiarsi principalmente con quella delle infrastrutture. Nord o Sud non fa differenza. I cantieri-lumaca sono ovunque. Si portano dietro lo spreco di miliardi di euro di finanziamenti pubblici e lo scoraggiamento dei cittadini. In questa tipologia rientrano infatti esempi eclatanti, cantieri della durata decennale, bloccati poi riaperti e ancora nuovamente bloccati, con uno sperpero in termini economici continuamente in incremento. L’esempio più celebre è senza dubbio quello dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria, un imbuto lungo 442,9 chilometri i cui lavori iniziali si protrassero tra il 1962 e il 1974, con l’obiettivo di unire il nord al sud d’Italia. Un tracciato mai terminato che ha da sempre rappresentato una base per l’arricchimento della criminalità organizzata. La prima pietra per la costruzione dell’Autostrada viene posta nel 1962 dall’allora presidente del consiglio Amintore Fanfani il quale promette in due anni il termine dell’opera che sarà invece inaugurata 12 anni dopo, nel 1974, con un costo conclusivo di 368 miliardi di lire, oltre il 54
doppio del preventivo iniziale. I 2,3 chilometri sul Sirino sprofondano praticamente subito, mentre il resto dell’autostrada, tornata nel 2001 ad essere catalogata come una semplice strada, muore lentamente. Nel 1997 riprendono i lavori divisi, oggi, in 7 macro lotti. Costo finale previsto: 9 miliardi di euro. La data della consegna definitiva dell’opera, ovviamente non rispettata, era stata fissata al 2013. Il nuovo termine per la fine dei lavori è adesso la fine del 2016, ma anche in questo caso bisognerà aspettare per capire se si tratterà di un’ulteriore ritardo. Altro significativo esempio è rappresentato dall’idrovia Padova-Venezia, un’autostrada d’acqua pensata per il trasporto delle merci nei container. Secondo il progetto del 1964 avrebbe dovuto assorbire il traffico di 40 mila autotreni. Quarantasei anni e 75 milioni di euro dopo, ci ritroviamo con un fiume artificiale di 17 chilometri spezzato in due tronconi, al completamento mancano ancora 10 km, e dell’autostrada d’acqua non c’è ancora traccia. Quelli presentati rappresentano solo due tra i casi più eclatanti ma quello dei viadotti, dei tunnel, delle strade e autostrade mai completate è un lungo elenco che testimonia ancora una volta come il settore dei lavori pubblici in Italia sia un sistema particolarmente ingrovigliato e molto spesso inefficiente. Nel frattempo, In Europa il sistema infrastrutturale dei trasporti è in netto incremento, con risultati significatamene positivi. Nel dossier “Italia 2015”, presentato in occasione dell’Assemblea Annuale, Confindustria ha osservato che la rete autostradale italiana è aumentata del 67,5%
nel periodo 1970/2006, ma nel frattempo la Germania l’ha più che raddoppiata, la Francia l’ha aumentata di 6 volte e la Spagna di 30, a dimostrazione del fatto che nonostante il grandi investimenti fatti, l’Italia è nettamente indietro rispetto ai principali paesi d’Europa. Negli ultimi anni gli investimenti maggiori sono stati indirizzati all’Alta Velocità. Tuttavia, rileva Confindustria, quando tutti i progetti saranno completati l’Italia avrà un indice di dotazione rispetto alla popolazione pari al 60% della media Ue. Inoltre, a parte l’’atteso avvio della tratta Napoli-Bari, il Mezzogiorno rimarrà sostanzialmente escluso. Altra categoria coinvolta nel fenomeno degli incompiuti è quella degli aeroporti. Su 47 aeroporti presenti sul territorio italiano, solo 10 hanno dei terminal di ultima generazione con il rischio evidente di avere un sistema aeroportuale incapace di assecondare la futura crescita di traffico. Nonostante l’esigenza principale non debba essere rivolta alla realizzazione di nuovi aeroporti, bensì all’ammodernamento di quelli già esistenti, nuovi cantieri nascono in località sconnesse con il tessuto, con bacini di utenza che rispecchiano l’assenza di esigenze reali nella costruzione di un nuovo aeroporto. Un aeroporto, d’altronde, nelle campagne elettorali dei politici sembra sempre una buona idea. Proietta una città nel mondo, crea turismo, risolleva l’economia ma non è sempre così anzi. Vedi il caso dell’aeroporto di Comiso, in provincia di Ragusa, l’aeroporto di Taranto, o ancora i casi degli aeroporti di Taranto e Perugia, strutture realizzate, costate
un’enormità, aperte ma che registrano numeri di passeggeri troppo bassi per compensare ai costi di gestione di una struttura aeroportuale. Strutturale sì realizzate ma con un destino quasi sempre segnato, pronte dopo qualche anno ad essere abbandonate, trasformandosi nell’ulteriore scheletro in degrado dispero nel territorio. La principale problematica relativa a questa categoria è determinata dal fatto che i progetti nascono senza un preliminare e adeguato studio di fattibilità, senza nessuna analisi sul bacino d’utenza previsto, su quello che è soprattutto il sistema di connessioni tra il nuovo servizio creato e il contesto nella quale è inserito. Gli aeroporti sono sistemi che dovrebbero garantire e semplificare la mobilità a scala nazionale e internazionale ma spesso mancano, incomprensibilmente, di un sistema di mobilità interno, atto a collegare il servizio con i territori più vicini. Alla categoria degli aeroporti si affianca quella dei porti. Un esempio lampante è dato dal porto di Gioia Tauro, dotato di un sistema imponente di banchine e aree di stoccaggio, non collegato però alla rete ferroviaria. Tra le infrastrutture incompiute risultano anche le dighe. Il problema di questi manufatti è che nella maggior parte dei casi risultano opere incompiute perché mancano tutte le strutture di supporto e di distribuzione. Nel corso del XX secolo, si costruirono nel mondo più di 40.000 grandi dighe a fini di irrigazione, approvvigionamento d’acqua potabile o produzione di energia idroelettrica. A partire dagli anni ‘50, le dighe furono presentate come cattedrali della modernità, prova che 55
l’umanità poteva domare la natura. L’Unione Europea e altri finanziatori continuano e continueranno a sostenere la costruzione di grandi dighe e altre infrastrutture, anche se queste peggioreranno la qualità delle acque e non servono per perseguire una politica di soddisfazione della domanda sul lungo periodo. Un caso eclatante è rappresentato dalle 36 dighe fantasma in Calabria in costruzione da 20 o 30 anni e mai ultimate. In Sicilia un caso eclatante è quello della diga di Blufi. Costruita nel cuore delle Madonie avrebbe dovuto essere il “vaso comunicante” tra la diga Ancipa e quella del Fanaco e distribuire acqua alle province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna. Quando nell’89 si cominciò a parlare della sua costruzione, le associazioni ambientaliste e gli abitanti della zona erano assolutamente contrari prevedendo che l’impatto ambientale sarebbe stato devastante. L’investimento iniziale era di 300 miliardi. Altri 120 furono stanziati per completarla grazie a una manciata di varianti d’opera e perizie suppletive. Alcuni anni fa i lavori furono interrotti. Ciò che resta sono milioni di metri cubi di cemento inutilmente gettato, e un vastissimo territorio, senza alcun dubbio, danneggiato. Quello delle carceri è un altro settore che fa parte della grande categoria delle opere pubbliche incompiute. In Italia si è parlato molto del problema relativo alle carceri, ma forse non tutti sanno che per fare fronte al sovraffollamento carcerario ci sarebbero già 40 penitenziari pronti, che però non sono utilizzati. Tra i vari casi, quelli denunciati dalla 56
trasmissione televisiva Striscia la notizia, di un carcere nella provincia di Lecce che non aveva detenuti ma solo il personale e quello e del carcere di Irsina, In Basilicata, costato 3,5 miliardi di lire ma mai operativo. Un settore particolarmente colpito dalle incompiute è quello della sanità. Miliardi di euro andati in fumo, soldi spesi per alimentare i cantieri perpetui di ospedali che potrebbero anche non essere mai completati del tutto o mai attivati. Diversi miliardi di euro sono stati spesi nel corso di decenni per finanziare la costruzione o l’adeguamento di presidi sanitari che ora, anche a decenni di distanza dalla data di inizio dei lavori, potrebbero non venire mai terminati o si trovano in stato di parziale attivazione. Questa è la conclusione cui giunse, dopo anni di lavoro e di sopralluoghi effettuati in tutta Italia, la commissione d’inchiesta sul sistema sanitario del Senato, al termine di un’indagine sulle strutture ospedaliere incompiute svolta negli anni Novanta. La relazione finale, redatta nel 1994 dal senatore Ferdinando di Orio, coordinatore dell’inchiesta e relatore, permise, dopo sei anni di ricerche e ispezioni presso 148 strutture sanitarie di 16 Regioni, di disegnare una dettagliata mappa di sprechi e disservizi. Gli ospedali non portati a compimento erano 134, prevalentemente situati nelle regioni del Mezzogiorno. Progettati per la maggior parte negli anni ‘70-’80, tra questi una parte considerevole (65 strutture) ha visto negli anni riprendere i lavori con una netta accelerazione grazie ad una maggiore responsabilizzazione delle Regioni e ad una più attenta pianificazione dei lavori pubblici.
CittĂ dello sport - Roma
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«L’idea dell’opera pubblica come fonte di ricchezza e motore di sviluppo economico in aree a bassa industrializzazione e dell’ospedale come struttura destinata a dare prestigio e occupazione alla zona in cui viene inserito, sono tra le ragioni nobili che hanno portato alla proliferazione di interventi di edilizia sanitaria al di fuori di ogni programmazione regionale e di ogni analisi delle esigenze dei cittadini, con punte di intensa attività negli anni ‘70»43. Questi cantieri perpetui hanno costituito uno sperpero ingente di denaro pubblico, stimato in migliaia di miliardi sottraendo risorse per l’erogazione di servizi di cura e di assistenza, arrecando disagi ai cittadini e abbassando il livello della prestazione sanitaria là dove reparti operativi sono affiancati da cantieri in corso d’opera. La situazione attuale non è assolutamente cambiata rispetto agli anni Novanta. Ancora oggi, infatti, si trovano disseminati sul territorio nazionale cantieri abbandonati o addirittura strutture sanitarie completate e abbandonate, fornite di tutto ciò che gli serve per essere utilizzate ma mai entrate in funzione. Tra le tante tipologie di opere realizzate e lasciate incompiute a preoccupare maggiormente sono le opere realizzate sfruttando occasioni particolari: eventi sportivi come olimpiadi e mondiali, eventi storici con i 150 anni dell’unificazione dell’Italia, l’Expo 2015 di Milano, manifestazioni gigantesche che oltre a milioni di finanziamenti hanno sempre portato con sé l’inconveniente di lasciare sul territorio opere incompiute, e spesso anche inutili. Né sono esempio 58
le Olimpiadi di Torino del 2006, il G8 in Sardegna, le Universiadi in Sicilia del 1997, i Mondiali di nuoto svolti a Roma nel 2009, che ancora oggi, conserva come simbolo l’imponente struttura della vela progettata da Santiago Calatrava. Alta 75 metri, per tirarla su c’è voluto tanto ferro quanto nella Tour Eiffel. Per questo gigantesco monumento allo spreco i contribuenti hanno speso finora 201 milioni e per completarla ne servirebbero altri 400 almeno, per un costo totale pari a sei volte la stima fatta quando l’idea, una decina d’anni fa, venne partorita.
La classificazione e gli esempi presentati rappresentano soltanto una sintesi del complesso sistema che caratterizza il fenomeno delle opere incompiute. I tentativi di classificazione e catalogazione non possono sicuramente essere una soluzione al problema ma documentare gli errori fatti nel passato è sicuramente un operazione fondamentale non solo per inquadrare il fenomeno nei suoi aspetti statistici, in termini economici e quantitativi, ma è anche importante per diffondere un’adeguata comprensione della problematica. La speranza è che sia i cittadini, sia soprattutto gli enti preposti nella gestione delle opere incompiute possano al più presto, e con gli interventi dovuti, trovare una risoluzione al problema e, quanto meno, applicare in futuro, un controllo più adeguato delle risorse a disposizione, con l’obiettivo condiviso di realizzare, o ripristinare, opere pubbliche funzionanti e di pubblica utilità.
2.4 Incompiuto e Rovine architettoniche Etimologicamente il termine rovina deriva dal latino ruina, dal verbo ruere che significa precipitare, cadere a terra, abbattere o crollare, rimandando a una discesa, a un movimento dall’alto verso il basso. I termini rovina e rudere implicano dunque la violenza del rovinare, della tragicità del crollo, ma anche della permanenza; ciò che resta, quindi, di un manufatto che ha subito una sottrazione di materia. Tale sottrazione può essere avvenuta in vari modi: a seguito di eventi di carattere violento naturali o artificiali, in seguito all’abbandono da parte dell’uomo e della sua azione manutentrice o per semplice deperimento. La rovina o rudere è dunque il prodotto di processi diversificati ed in ciò risiede una sua prima ambiguità. Le rovine evocano in chi le contempla la contrapposizione tra la grandezza passata della civiltà che le edificò e l’ineluttabile destino di declino di quella attuale, la tensione tra passato e futuro nel presente, il contrasto tra ciò che permane e quello che si sgretola. La rovina ci affascina perché nasce dall’unione creativa tra uno stato e il suo contrario, si pone in equilibrio tra polarità simmetriche: tra passato e futuro, tra natura, cultura ed artificio, tra la malinconia introversa della memoria e la sublime immensità del tempo assoluto, tra la vita e la morta, tra creazione e distruzione. È questo gioco di contrasti che dà origine alla ricca allusività figurale della rovina, declinata di volta in volta come spunto di riflessione storicofilosofica, monito di un passato glorioso, come caducità della condizione umana o semplicemente come suggestivo fatto estetico.
«La rovina è il ricordo di un insieme perduto che il tempo modella, plasma e, in un certo senso, ricompone»44. Il concetto di rovina architettonica in quanto oggetto simbolo di memoria, oggetto di riflessione sociale o di studio archeologico nasce nella seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra grazie soprattutto agli studi dell’archeologo Winckelmann e le teorie John Ruskin il quale matura una posizione avversa ad ogni tipo di restauro, considerandolo una falsificazione, con particolare riferimento alla posizione antagonista di Eugène Viollet-le-Duc. Cambiano le regole, cambia il modo di vedere e di operare azioni di conservazione sulle opere architettoniche prodotte dalla storia, cambia, dunque, il paradigma interpretativo. La rovina non è più simbolo di un inquietante passato. Lo stesso Ruskin sosteneva che occorrono quattro o cinque secoli di corrosione affinché un edificio raggiunga il culmine della sua importanza sollecitando gli architetti suoi contemporanei a studiare l’aspetto delle loro architetture a distanza di tale periodo con appositi disegni di prospetti e dettagli, nonché di adoperare materiali deperibili per accelerare il degrado e raggiungere più rapidamente tale ideale estetico. Viceversa, l’Industrializzazione diffusasi pressoché nello stesso periodo, cambia radicalmente il rapporto con la materia fisica. La produzione in serie entusiasma, persino l’oggetto d’arte può essere non più un unicum irriproducibile, da conservare gelosamente, ma il semplice prodotto di una matrice, infinitamente ricopiabile, proporzionatamente alle esigenze di mercato. È proprio in questa fase, in questo rinnovato 59
ambiente caratterizzato da contrasti e da una rivoluzionaria visione che guarda con attenzione sia alla storia che alle possibilità del futuro, che inizia lentamente a diffondersi un nuovo concetto di rovina, acquisendo un significato nuovo, soprattutto nella mente dell’osservatore. «Le rovine esistono tramite lo sguardo che si posa su di esse. Fra i molteplici passati e la loro perduta funzionalità, quel che di esse si lascia percepire è una sorta di tempo al di fuori della storia a cui l’individuo che contempla è sensibile come se lo aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui»45. Diventa rovina quello che nel tempo si trasforma al punto da apparire sotto forma di traccia, senza scomparire del tutto. Come descritto da Gilles Clement, la rovina è l’essenza dell’oggetto costruito e poi abbandonato, il risultato della mancanza di cura su ciò che ne avrebbe sempre bisogno. L’Italia è un esempio di come le rovine non necessariamente suggellano l’inevitabile declino di tutte le opere dell’uomo, ma possono anche ricordarci, sempre e nuovamente, il futuro possibile che in esse ha sepolto, richiamano alle mente quanto grande fu Roma ed esercitano un impareggiabile potere sulla memoria. II ricordo di qualcosa avvenuto viene sepolto e riconvertito. Le rovine sono visibili simboli e spesso monumenti delle nostre società e delle loro evoluzioni, piccoli pezzi di storia in sospensione che vivono nel paesaggio. «Le rovine aggiungono alla natura qualcosa che non appartiene più alla storia, ma che resta temporale. Non esiste paesaggio senza sguardo, senza coscienza del paesaggio. Il paesaggio delle rovine, che non produce integralmente alcun passato e 60
allude intellettualmente a una molteplicità di passati, in qualche modo doppiamente metonimico, offre allo sguardo e alla coscienza la duplice prova di una funzionalità perduta e di un’attualità massiccia, ma gratuita. Conferisce alla natura un segno temporale e la natura, a sua volta, finisce con destoricizzarlo traendolo verso l’atemporale. Il tempo puro, è questo il tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione»46. Il fascino della rovina rimanda a eventi passati, situazioni future costruite tramite l’immaginazione. La rovina rimanda a qualcosa di nascosto, misterioso, una parta che rimanda ad un tutto ricco di significati e interpretazioni. Per questo motivo il concetto di rovina può essere esplicato tramite il concetto di sineddoche. «La sineddoche è un dispositivo della retorica in cui una parte rappresenta il tutto o viceversa. Le ruote che rappresentano una macchina nella frase ho un nuovo set di ruote sarebbe un esempio. La differenza tra l’automobile e le rovine è che, nel primo caso, la parte e il tutto esistono fisicamente, anche se altrove, mentre nel secondo il tutto rappresentato dalle parti non esiste più. Di conseguenza, se la sineddoche deve funzionare come tale, molto deve essere fatto dall’immaginazione dello spettatore. Alcune parti restanti di rovine sono abbastanza potenti per invogliare tale fantasia e impegno»47. Il termine sineddoche ci permette di discutere la natura creativa dell’oggetto più facilmente di quanto non facciano altri termini come ad esempio frammento il quale allude soltanto alla natura fisica dell’oggetto e non a quella
rappresentativa e sensazionale. La nozione di sineddoche pone infatti l’accento sulla fantasia mentre la parola frammento si riferisce alla relazione dell’oggetto con la realtà fisica a cui appartiene. Questa è una differenza significativa, soprattutto se si fa riferimento alla percezione, componente fondamentale nell’architettura. Il concetto di sineddoche, può dunque essere applicato alle rovine architettoniche, ai loro frammenti rimanenti visti appunto come sineddoche dallo spettatore, che immagina l’edificio nel suo stato primordiale e completo. La ricostruzione immaginata può o non può essere storicamente accurata, la potenza della rovina sta nella capacità di invogliare tale immaginazione, la quale risulta più importante della precisione storica. Risiede proprio nel potere dell’immaginazione e nella conseguente forza creativa lo spunto offerto da alcuni gruppi di artisti di considerare le opere incompiute come le rovine della contemporaneità. Significa cercare nell’incompiuto nuovi valori, associare alla componente dell’incompiuto, del non finito, dell’abbandonato nuovi significati. «C’è differenza tra la Sagrada Familia, esempio di opera architettonica ancora non terminata e un viadotto che si protende nel nulla di un paese siciliano dove le case non sono mai intonacate. La differenza sta nel valore simbolico di uno e nel valore d’uso del secondo. L’attitudine che si mette in campo nei confronti dell’arte, la predisposizione alla complessità linguistica che essa richiede ci consente di accettare la non finitezza di un lavoro d’arte come finitezza e non finitezza al tempo stesso, mentre la sola visione del manufatto, dell’opera pubblica,
dell’architettura non terminata e abbandonata ci impedisce ogni singola considerazione benevola, non rientrando nel linguaggio dell’arte ma in quello della realtà concretamente sfruttabile. In altre parole, il valore simbolico non viene mai meno, anzi, a volte il valore simbolico del non finito aggiunge senso all’opera, mentre nel secondo caso il valore d’uso è (quasi) tutto, e venendo meno questo, viene meno l’intero scopo del manufatto, o peggio questo diviene simbolo negativo, l’emblema tangibile di un colpevole non terminato. Eppure anche quando il non terminato si trasforma in simbolo negativo, indiscutibile dal punto di vista sociale e politico, uno sguardo raffinato può giungere a considerare quel non terminato come una rovina architettonica e a proiettarsi nel futuro attribuendo a quel manufatto un quoziente di malinconia che lo nobilita. Le opere incompiute hanno la bellezza di ciò avrebbe potuto essere, di ciò che non esiste ancora. Di ciò che forse un giorno ci sarà»48. Lo scarto creato nella nuova percezione delle rovine risiede nel valore che all’interno di esse è contenuto, il loro stato di oggetto abbandonato non è determinato dalla perdita di funzione prodotta dalla storia, ma in una storia mai esistita, una funzione mai avuta. Ciò nonostante è in questa assenza di significati che è possibile leggere un certo grado di malinconia. «Dopo tutto, le rovine non sono volutamente non finite, ma sono involontariamente distrutte. Solo nella mente di chi considera le rovine creativamente esse sono intenzionalmente (da parte dello spettatore, non il creatore) non finite (nella fantasia)»49. Il punto focale della ricerca sul rapporto tra 61
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incompiuto e rovina architettonica risiede sul rapporto tra rovina e contemporaneità, sul rapporto tra l’idea di rovina trasmessa dalla seconda metà del Settecento ad oggi, e l’idea che si vuole oggi dare alla rovina, caricandola di nuovi, creativi, significati. «Le rovine di passati distanti e altisonanti sono narrate in letteratura come veri e propri reperti di memorie il cui ruolo è fondamentalmente innescare malinconie e al tempo stesso liberare l’immaginazione; in sostanza bisogna disegnano un filo rosso nel quale la condizione del presente è strumentale solo a rimandare al passato o spostare verso il futuro. La rovina pone come la condizione al presente della materia come prettamente culturale, quasi incorporea, una sorta di ologramma che riguardato può trasportare come macchina del tempo in altre ere. In questa capacità immaginifica è riposta la sostanziale differenza tra il termine rovina e il termine scarto: se il primo fissa un preciso ambito bibliografico che ne esalta le capacità operative attribuendo agli oggetti che rappresenta un vero e proprio statuto d’identità, il secondo connota la condizione in cui versa la materia che va a rappresentare indeterminatezza e stasi, racconta resti senza tracce di un possibile nuovo significato e senza storia, o con una storia di poco conto»50. Quelle che potrebbe essere chiamate rovine contemporanee o rovine della surmodernità non si caricano di contenuti escatologici, non innescano riflessioni sul tempo né si circondano di un aura di sacralità, al contrario, suscitano quasi sempre indignazione ed il desiderio, a seconda dei casi, della demolizione o del riuso. In Comporre l’architettura, Franco Purini 64
si interroga sul futuro delle rovine prodotte dalla contemporaneità: le rovine moderne sono per lo più scheletri in cemento armato, quello che è accaduto per i ruderi romani, cioè diventare oggetto di stimolo filosofico e artistico per l’uomo rinascimentale e romantico, potrà accadere nel prossimo futuro con i ruderi moderni. Questi oggetti contemporanei, che si fanno simbolo concreto di una modernità ormai ombra di se stessa sono frammenti o resti. Rovine, resti e residui sono spazi aperti in cui quello che rimane è la memoria storia, condividendo con il presente una spinta creativa che si rappresenta nelle modalità d’uso che vengono applicate. L’arte contemporanea attiva in modi diversi processi di riuso, oggettivazione e risignificazione delle rovine. A differenza del restauro e della conservazione che trasformano la singolarità di una rovina in un’immagine da cartolina, l’uso creativo ne svela il suo carattere di dispositivo aperto e reinterpretabile. Risulta interessante capire il processo che porta alla trasformazione delle opere incompiute in rovine della contemporaneità. Si tratta di un processo creativo di astrazione che consiste nell’estinguere alcuni valori sostituendoli con altri. Dare un nuovo senso alle opere incompiute, oggetti che non solo altro che gli scarti e i rifiuti prodotti dalla contemporaneità. «La produzione dei rifiuti, d’altronde, è parte integrante del processo produttivo ed è l’effetto della costruzione di ordine basta sul principio di utilità. Gli scarti e i rifiuti indicano la contrapposizione tra qualcosa che rimane e qualcosa che se ne va perché si consuma o non serve più. Fanno riferimento a un
eccesso, a qualcosa che non si assimila, non si integra e viene ricacciata fuori. L’analogia tra il concetto di rovina con quelli affini di scarto e rifiuto è presente all’interno della riflessione benjaminiana sul metodo della storiografia materialistica secondo cui il materialismo storico lavora con il non detto e il non visibile, l’incompiuto, il sospeso e in particolar modo con quei materiali che quella stessa tradizione abbandona all’oblio e alla distruzione ritenendoli spuri e inutili»51. È proprio nel riuso e nella risignificazione degli scarti che oggi arte e architettura contemporanea trovano un grande campo di ricerca. La distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che ha valore viene annullata quando l’oggetto stesso si distacca dal suo campo di appartenenza, se ne isola, acquisendo valori in campi nuovi, diversi, più generali. Si tratta di operare approcci nuovi, considerare lo scarto come un elemento con infinite possibilità di acquistare nuovi valori. Un esempio è l’architettura parassitaria che nello scarto e nelle rovine trova terra fertile a cui aggrapparsi. «L’applicazione dell’architettura parassitaria, permettendo di far convivere diverse realtà temporali senza soluzione di continuità, viene adottata per avere nuove realtà spaziali funzionanti che implementino edifici e situazioni già in essere. Si è instaurato quindi un rapporto con il tempo non più legato alle possibili proiezioni nelle sue opposte direzioni, il passato o il futuro; il punto centrale viene a essere il tempo stesso e la sua azione. Questo ha guidato la speculazione teorica e progettuale a ri-scoprire la rovina come traduzione del senso del tempo e come risposta alla spettacolarizzazione della storia: solo le
rovine, in quanto hanno la forma di un ricordo, permettono di sfuggire a questa delusione: esse non sono un ricordo di nessuno, ma si presentano a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa. Un passato al quale egli sopravvive. Nella modalità parassitaria si attua la convivenza di tempi differenti attraverso il concretizzarsi di concezioni spaziali differentemente datate. Ma il carattere utilitaristico e anche cinico che appartiene per definizione all’atteggiamento lo allontana da possibili artifici o mistificazioni storicistiche»52. Si assiste dunque a un tentativo di risignificazione volto a scoprire nuovi contenuti. Ciò che distingue le rovine dell’antichità con le rovine della contemporaneità è la storia che le ha portato a trasformarsi in oggetti abbandonati, luoghi della memoria, spazi di contemplazione. Le rovine contemporanea identificabili nelle opere incompiute conservano il ricordo del nulla, se non il ricordo di una storia recenti fatta di sprechi e soprusi alla natura. Convivere con le rovine contemporanee, a differenza di quelle classiche, risulta intollerabile per chiunque abbia a cuore il proprio territorio, ma le risposte sul loro futuro devono giungere a seguito di attente analisi che superino la dicotomia tra abbattimento e ripristino completo, entrambe impraticabili nell’attuale sistema economico, per questo è necessaria ovviare ad altre soluzioni. Attribuire all’incompiuto un nuovo valore simbolico, memoria di oggetti che avrebbero potuto esistere, speranza di qualcosa che potrebbero rinascere significa dare nuovo senso a tali manufatti, ma bisogna 65
Edificio Incompiuto - Creta
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prestare attenzione a non confondere troppo le carte. Ecco perché il concetto di rovina si contrappone, sebbene coesistendo, a quello di maceria. L’architettura, per definizione, è il luogo dell’abitare ma anche un luogo che soffre dell’equilibrio in tensione tra uomo e natura. In questo determinato equilibrio la rovina è il giusto sopravvento della natura sull’uomo. La maceria, invece, rappresenta l’architettura separata dal suo contesto. La rovina suscita domande esistenziali, che ne sarà di noi?, mentre la maceria ci pone a una piu pragmatica presa di coscienza del tempo che passa, come ci siamo ridotti?. «La spettacolarizzazione del mondo e’, di per se, la proprie fine; in questo senso, essa vuole esprimere la fine della storia, la sua morte. Le rovine, invece, danno ancora segno di vita. Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della costruzione, che rivela la follia della storia, e il tempo puro, il tempo della rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto»53. II recente passato ha generato rovine contemporanee che non risultano piu un Iontano ricordo di quello che è stato, ma evocano un presente in cui guerra, abbandono, incompiuto e disuso sono protagonisti dell’esperienza collettiva. Questi nuovi ruderi impegnano i progettisti in una ricostruzioneinterpretazione di pezzi di citta abbandonate, degradate o distrutte dalle guerre. «Bisogna forse avere la consapevolezza che le rovine della contemporaneità sono queste e che,
nonostante si tratti di macerie, le trattiamo da rovine per potervi sopravvivere»54. Abbastanza logicamente in un’epoca che sa distruggere, e lo fa anche in modo massiccio, ma che privilegia il presente, l’immagine e la copia, alcuni artisti sono sedotti dal tema delle rovine. Non più come i pittori di rovine del Settecento, per giocare, malinconicamente o edonisticamente, con l’idea del passato che ritorna, più per rievocare passati mai esistiti, possibili, forse improbabili, scenari futuri. In un certo modo l’arte diventa una dispositivo che nelle risignificazione operata cerca di nascondere gli errori commessi nel passato, cercando di attribuire nuovi e diversi contenuti a quest’ultimi. «Questa lettura moralistica, contrapposizione assoluta e giudizio senza appello in favore dell’antico, è probabilmente la più facile, quella che anche i servizi televisivi più banali potrebbero restituire a uno spettatore tanto bombardato da immagini e commenti retorici da diventarne refrattario, ma se per un attimo riuscissimo ad abbondonare lo stereotipo ridonante, e anche a dimenticare l’intrinseca specificità, anch’essa stereotipata, dei media con cui si presentano le due azioni, per cui il video sarebbe reportage contingente e la scultura l’immagine dell’eterno, e ad estrarre le immagini dal loro significato sociale, potremmo forse vedere un’idea di futuro dove un viale interrotto vale forse il Colosseo. Vogliamo vivere in quel paesaggio? L’arte contemporanea, checché se ne dica, non ha tra i suoi compiti principali quello di essere arte consolatoria»55. Molto probabilmente, come sostiene Marc Augè, la storia passata non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo. 67
2.5 Incompiuto e Forme d’Arte Il concetto di incompiuto, di non finito, di non terminato rappresentano immagini equivalenti, elementi significativi di esperienza simili, anche se per certi aspetti profondamente diversi. Suggestivi elementi di ispirazione o, viceversa, punto di arrivo per varie ricerche operate nel mondo dell’arte. Il non finito come possibilità di infinito è un concetto abbastanza recente nella storia dell’arte occidentale, che di solito si fa risalire a Michelangelo. «Il non finito è dotato di una fisicità materiale che gli altri termini non hanno e di una sorta di robustezza persino maggiore di quanto non ne possegga il finito propriamente detto, che vive tendenzialmente di forma e solo secondariamente di materia, mentre forma e materia nel non finito sono equamente importanti e si sostengono a vicenda»56. Lo stato non finito dell’opera d’arte, sia essa di natura pittorica, letterale, fotografica o cinematografica è una componente che diventa spesso centrale tra le ricerche artistiche. A volte si parte dalla volontà, più o meno espressa, di lasciare l’opera incompleta, non perché manchi la capacità di completarla ma perché lasciare qualcosa in uno stato di non finito significa liberare l’opera stessa da significati e risposte assolute, significa lasciare la possibilità all’osservatore di completare, di immaginare, di aggiungere significati, lasciare all’opera il campo dell’ambiguo, uno stato di non infinito che si apre ad immense possibilità, trasformandosi appunto in infinito. Gli edifici e i luoghi abbandonati, degradati, privi di alcuni dei loro elementi costitutivi riescono a caricarsi di significati proprio perché 68
in assenza di taluni elementi si trasformano in oggetti ambigui, alludendo a passati e futuri che vivono grazie alla nostra immaginazione, grazie alla visione di occhi diversi. Una delle più famose e significative operazioni di astrazione operate su edifici in stato di abbandono e disuso è rappresentata dalle opere di Gordon Matta-Clark57. L’artista statunitense, entra a far parte, fin dai primi anni ’70, del gruppo Anarchitettura con cui dà una decisa sterzata al concetto tradizionale di architettura, avviando una riflessione di natura sociale riferita all’omologazione suburbana dagli anni ’50 in poi, in una New York strozzata dalla più grave crisi economica dopo il ‘29 e dalle successive speculazioni immobiliari. «Matta Clark infrange l’oggetto architettonico e mette in crisi la compiutezza aprendolo, negandone lo stato di rifugio. Le convenzioni, gli stereotipi, la statica del manufatto e suoi confini vengono posti in una condizione di crisi, crisi dotata però di una propria stabilità. Matta Clark non distrugge l’oggetto ma ne mette a nudo la natura strutturale e dimostra che questa è capace di sopportare un nuovo stato di equilibrio precario. Riecheggiano le parole di Bauman che associa la nascita della produzione moderna all’azione del togliere il superfluo impressa da Michelangelo sulla pietra e sulla sua opera enigmaticamente non finita»58. Gordon MattaClark è noto soprattutto per i building cuts con cui ha stravolto, nel vero senso della parola, l’elemento edificato, ponendolo al centro di nuove prospettive, reali e metaforiche. Tramite buchi nei pavimenti e nei solai, fessurazioni di intere pareti e squarci all’interno delle case, intacca l’idea di fissità legata a un
Building Cut - Gordon Matta Clark
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immobile, aprendolo al dialogo con l’esterno e con la luce, piegandone la struttura al volere dell’artista e trasformandola in elemento d’arte. Molti dei progetti di Matta-Clark riguardano l’inevitabile temporalità dell’architettura essendo effettivamente condotti su abitazioni in disuso in zone urbane marginali, destinate a essere distrutte. Gli interventi, tutti documentati dall’artista con fotografie, film e video, che vanno a costituire un corpus artistico a sé stante, rimangono le uniche testimonianze del suo lavoro. Gordon Matta Clark ha così rivoluzionato il mondo dell’architettura senza aver innalzato o costruito edifici, ma al contrario vivisezionando e privando parti dagli stessi. Mentre gli architetti degli anni Settanta, sorprendentemente simili ai contemporanei, erano costantemente alla ricerca di aree edificabili per elevare costruzioni e profitti, Gordon scovava aree e palazzi abbandonati per eseguire i suoi building cuts. Rivelando così al pubblico i problemi della società, lo squallore dei suburbi delle città e un legame fortissimo fra arti visive, architettura e filosofia. Lo spazio, tagliato e ricucito, diventa mentale, come fosse una manifestazione simbolica o un’anarchica architettura. Gli interrogativi sollevati dalla sua opera sono legati alla crescita esponenziale delle città, il riuso degli oggetti ed il riciclo dei rifiuti, la coincidenza tra etica ed estetica nella professione di architetto, il conseguente degrado urbano, la scarsa influenza delle autorità sui nuovi interventi pubblici, rivolta alla sola contemplazione del costruito. Il lavoro di Matta-Clark trasmette, in un certo senso, presenta gli stessi significati che si celano dietro le opere incompiute. Come gli 70
edifici squarciati dall’artista statunitense, le opere incompiute si trovano in uno stato di abbandono. In attesa di essere demolite o chissà ripristinate, si caratterizzano per il loro stato di degrado, per il loro tentativo di instaurare un nuovo rapporto di convivenza, un nuovo stato di equilibrio precario con il paesaggio nella quale sono state violentemente inserite. Questa condizione ha portato un certo interesse verso il potenziale artistico che si cela dietro a questi manufatti, rivelatrici di significati scomodi e di risposte incerte. Operare processi artistici sulle incompiute significa esercitare processi di astrazione, distaccarsi dalle ragione per la quale le incompiute si trovano in questo stato, rendere il loro stato una suggestiva condizione di attesa, ispiratrice di momenti passati mai esistiti o, ancor meglio, di possibili scenari futuri. Nell’analisi delle rapporto tra incompiuto e arte bisogna prestare attenzione alla sottile differenza tra i concetti di non finito e non terminato. «Il confronto tra non finito e non terminato è una sorte di trasposizione della dialettica tra arte e realtà, tra opera e manufatto. Il non finito riguarda l’arte, il non terminato, di solito, un lavoro pubblico. Differenza essenziale, frutto il primo della volontà sublime dell’artista, la cui opera non finita diventa infinita, grazie alla costante correlazione tra idea e materia, mentre la seconda, è inutile dirlo, è il frutto più bieco o della stupidità o della malversazione politica. Qualcuno potrebbe obiettare che non terminato è semplicemente una condizione temporanea e che la definizione si addice in maniera neutra a ogni costruzione architettonica o ingegneristica. Eppure anche
quando il non terminato si trasforma in simbolo negativo, indiscutibile dal punto di vista sociale e politico, uno sguardo raffinato (e estraneo a quella società che ha prodotto lo scempio) può giungere a considerare quel non terminato come una rovina architettonica e a proiettarsi nel futuro attribuendo a quel manufatto un quoziente di malinconia che lo nobilita. Le opere incompiute hanno la bellezza di ciò avrebbe potuto essere, di ciò che non esiste ancora. Di ciò che forse un giorno ci sarà»59. È proprio dietro questa ambiguità, questo senso perso del passato, di una condizione incerta del futuro, dietro la voglia di attribuire nuovi significati, che le opere incompiute diventano punto di ispirazioni per artisti, fotografi, registi. «Il mai finito, i suoi modi di manifestarsi, le sue motivazioni e le sue proiezioni nel futuro sono oggi oggetto di interesse da parte di chi è in grado, in diverse forme, di trasformare questa materia in riflessione. Per alcuni di loro il mai finito è ispiratore di pratiche artistiche, sia in concreto su singoli oggetti mai finiti esistenti, sia come fonte di ispirazione per operazioni ex novo. Sembra paradossale come dalla necessità dalla quale derivano molte costruzioni incomplete, si passi a elaborazioni artistiche, intorno agli stessi oggetti. Ma è forse il disinteresse dell’arte, con la sua intrinseca funzione rivelatrice e anticipatoria, a contribuire a farci vedere i nuovi paesaggi del mai finito e continuare a metterci in confronto con loro. Alcune di queste interpretazioni escono dai confini specifici delle loro arti, per diventare arte sociale, direbbe Beuys, con una forte componente critica, che mentre interpreta denuncia, sottolinea, rende evidente ciò che
si è stati in grado di produrre in termini di degrado, sperpero di denaro pubblico, ma anche, nonostante tutto, di possibilità ancora aperte»60. Quella del rapporto tra incompiuto e arte non è per niente una questione banale. È interessante capire come queste fenomeno riesca a rapportarsi alle altre discipline. La sua natura, essendo appunto incompleta nella forma, incompiuta nell’essere, si presta a ogni tipo di sperimentazione, dall’arte al cinema, dalla fotografia alle installazioni. Tramite un processo di astrazione le opere mai finite si caricano di un valore poetico, trasformandosi in materia potenziale, interpretabile, manipolabile, aperta al futuro. Uno dei casi esemplari di conversione dell’incompiuto in arte è il lavoro proposto da Alterazioni Video61, capaci di aver dato un nuovo senso, un nuovo valore simbolico alle opere incompiute. Il gruppo di artisti ha portato avanti un’operazione di capovolgimento, tentando di trasformando ciò che è brutto in bello, provando a vedere nell’incompiuto una logica nuova, un valore storico e, soprattutto, una possibilità per il futuro. Il loro lavoro risulta interessante sia in quanto operazione artistica e processo di astrazione pensato, sia perché riesce a ridare valore all’incompiuto, attribuirne un nuovo significato, costruire quanto meno l’oggetto di un nuovo dibattito, risvegliando le coscienze e il nostro sguardo verso una tematica scomoda da affrontare. L’incompiuto Siciliano, così come indicato da Alterazioni Video, viene definito, in termini quasi provocatori, come il più importante e diffuso stile architettonico del nostro territorio. 71
Framework #15 - Sam Laughlin
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Framework #19 - Sam Laughlin
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LanWei - Anothermountainman
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«A proposito di incompiuto architettonico, scartando ogni preconcetto moralistico si corre sempre un duplice rischio: di estetizzarlo oppure di esaltarne la spontaneità presunta, come fosse in sè e astrattamente, frutto di uno stile di vita più libero di quello imposto dalla civiltà moderna»62. Il rischio di estetizzare eccessivamente il fenomeno monumentalizzando le opere incompiute è più che presente ma bisogna riconoscere al gruppo di artisti il merito di essere riusciti a ridare un nuova possibilità a questi manufatti. Risulta interessante vedere come le idee, spiegate nel loro manifesto, si sia trasformino in gesti, idee e concetti reali come nel caso del Parco archeologico dell’Incompiuto di Giarre, parco di 300 ettari che raccoglie una incredibile concentrazione di Incompiute. Il lavoro di Alterazioni Video si affianca a quello del famoso fotografo italiano Gabriele Basilico63, che, in giro per la Sicilia ha trasformato le incompiuto nell’oggetto principale dei suoi ritratti fotografici. Considerando il suo lavoro non una semplice rassegna, una raccolta di scatti su oggetti simili, nelle fotografie di Basilico si coglie una certa volontà di considerare l’elemento incompiuto il padrone del contesto, dotato di una propria autonomia, di un ritrovato rapporto con la natura nella quale è stato violentemente e senza alcuna logica intromesso. Ancora nel capo della fotografia, l’incompiuto trova attenzione anche in campo internazionale. Sam Laughlin64, fotografo inglese, in un viaggio tra Italia, Spagna, Germania e Regno Unito ha trasformato le opere incompiute nei protagonisti del suo progetto fotografico
Framework, un’analisi dell’ambiente costruito contemporaneo, progetti in corso, invecchiati, alcuni abbandonati, molti pronti ad essere mai completati, sia nella forma che nello scopo. Secondo Laughlin si tratta di architetture in pausa, costruzioni cessate, dove ciò che rimane sono soltanto le ossa di uno scheletro in stasi. Il linguaggio architettonico che ne scaturisce rivela una certa somiglianza con i resti delle strutture classiche. Questi oggetti si presentano per il fotografo come dei quadri, opere rimaste incompiuti per ragioni economiche o politiche, le rovine moderne, prova di un bisogno insostenibile di costruire che nasconde la nostra sete di progresso, simbolo che nessuna struttura sia permanente o insensibile ai desideri mutevoli di una società in continuo mutamento. L’incompiuto diventa fonte di ispirazione per la fotografia anche in Cina dove l’artista Anothermountainman65, dopo sei anni di lavoro, presenta LanWei: una raccolta fotografica di edifici non finiti in Asia, il risultato della “mania immobiliare” arrivata in seguito alla crescita economica, conseguenza della bolla edilizia scoppiata negli anni novanta. La gente in Cina ha definito questi le opere incompiute LanWei: “Lan” che significa “in decomposizione”, o “marcire”, mentre “Wei” è “coda”, “fine”. Pertanto, Lan-Wei significa, più semplicemente “non finito”. Con il tempo, il concetto di Lan Wei si è esteso al di là dei progetti di costruzione. È diventato sinonimo di tutto ciò che viene interrotto mentre si trova in corso, per motivi sconosciuti. Le foto diventano tentativo per catturare le reliquie della folle corsa al mattone e, allo stesso tempo, per riflettere su come, nel 75
corso degli anni, LanWei si è manifestato non solo nei progetti di costruzione, ma anche in tutta la gli aspetti della vita. Il lavoro dell’artista riflette il suo punto di vista e la preoccupazione per la società, la cultura e l’identità, interessandosi non solo degli edifici incompiuti ma anche delle storie e delle persone che si trovano dietro di loro. La fotografia diventa mezzo fondamentale per raccontare queste storie. Gli edifici si presentano nella loro forma caratteristica, abbandonati, e spesso senza nessuna sincronia con l’ambiente circostante. Ogni fotografia si presenta come una scena diversa, attori e ballerini raccontano delle storie creando immagini squilibrate e surreali. Dietro queste opere si nasconde un tentativo di cancellare il passato e la fredda tristezza del non finito, rappresentando la percezione dell’artista verso la società, dove nella Cina attuale tutto è possibile, e anche al LanWei, al non finito, è possibile dare una nuova prospettiva di vita. Altrettanto interessante è il film documentario prodotto dal regista italo-francese Benoit Felici: Unfinished Italy66. «Il film mostra una politica che non si esaurisce in uno spazio, ma disegna un tempo storico, un’epoca: dunque un’etica, un dispositivo economico, dinamiche conflittuali, una determinata idea progettuale, che vanno guardate tutte intere e nella loro verità di fondo»67. Unfinished Italy ripercorre il lavoro degli artisti e documenta vicende che lasciano allibiti, come il dramma dell’architetto che ha progettato una piscina olimpionica sbagliando i calcoli: 49 metri anziché 50. Il film documentario racconta la storia delle incompiute, edifici in un limbo tra la perfezione e il nulla, manufatti lasciati a metà strada, caduti 76
in rovina prima che fossero mai utilizzati, e oggi parte integrante del paesaggio architettonico italiano. Unfinished Italy si propone come uno studio del valore potenziale degli edifici incompiuti in Italia e della capacità dell’uomo di adattarli alle sue esigenze di tutti i giorni. Queste rovine, il cui futuro è già passato e il cui presente porta il sapore di un’attesa eterna, agiscono come un invito a meditare sul tempo. «Il regista, intervistato in occasione del Festival Visioni di Archivio 2011, ha parlato del suo film considerandolo come un’apertura verso la realtà affermando che le opere pubbliche incompiute portano con sé un certo sapore di eternità. Infatti, sono rovine nate rovi¬ne, tracce di cemento sparse sul territorio, testi¬moni di una memoria recente. In questi paesaggi post-apocalittici si possono incontrare alcuni sopravvissuti i quali, mostrano come con un po’ di creatività ci si può reinventare questi luoghi e riutilizzarli in maniera diversa, riuscendo perfino a dare un minimo di dignità a questi luoghi nati rovina»68. Unfinished Italy si presenta, dunque, come la rappresentazione del paesaggio dell’incompiuto. È interessante riuscire a leggere, tra le varie scene, il contrastante rapporto tra natura e incompiuto. A volte assente, impossibile da instaurare, altre volte, invece, pare che si sia instaurato un nuovo equilibrio. La natura, tramite la vegetazione spontanea, pare abbia deciso di riappropriarsi degli spazi rubati, costruendo scenari di paesaggio inedito. Non moralistiche, le sue immagini, riescono semplicemente, spesso con poetica ironia, a mostrare un paesaggio e una storia. Mettono in moto un ragionamento.
Film documentario Unfinished Italy - Benoit Felici
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2.6 Incompiuto e Associazionismo Nel territorio italiano sono diffusissime le associazioni che operano al fine di difendere i diritti e la salvaguarda del Paesaggio Italiano. Tra queste Legambiente, il FAI-Fondo Ambiente Italiano, Italia Decide. Queste, come tante altre associazioni, attive da anni con la collaborazione della cittadinanza, svolgono un importante lavoro mirato alla salvaguarda del paesaggio italiano, con obiettivi che guardano anche alla rigenerazione urbana e alla riqualificazioni di spazi e manufatti in stato di abbandono. Tramite manifestazioni, inchieste, proposte, è grazie al lavoro di questi gruppi che è stato possibile salvare diversi territori da interventi, spesso squilibrati e irrispettosi dell’uomo. In questo paragrafo verranno analizzate più nel dettaglio le associazioni che si occupano direttamente delle opere incompiute e più in generale degli spazi abbandonati da recuperare. L’obiettivo condiviso è quello di offrire in primo luogo un servizio di mappatura, accompagnato a proposte mirate a dare nuove possibilità a spazi che si presentano oggi in stato di degrado e abbandono.
2.6.1 Incompiuto Siciliano Esiste un modo diverso per guardare allo scempio dell’incompiuto? Esiste un modo per rovesciare la percezione sino a farla diventare segno, e inventare categorie di giudizio estetico capaci di esorcizzare l’orrore che i 78
tanti ecomostri del nostro Paese continuano ad ispirarci? Incompiuto Siciliano è la risposta. Incompiuto Siciliano69 è un progetto ideato da Alterazioni Video, collettivo di cinque artisti composto da Paolo Barbieri Marchi, Andrea Masu, Alberto Caffarelli, Giacomo Porfiri, Matteo Erenbourg, che vivono tra New York, Los Angeles, Berlino e Milano. Questo gruppo di amici, nel 2007, durante una vacanza in Sicilia ha un incontro ravvicinato con le incompiute dell’isola. I membri del gruppo si incuriosiscono e assieme al ricercatore e artista Enrico Sgarbi e all’avvocato Claudia D’Aita decidono di indagare sul tema. Parte così una prima fase di ricerca con l’obiettivo di catalogare tutti i casi analoghi. Presto il progetto prende piede e le segnalazioni arrivano da tutta Italia, in gran parte dal Centro-Sud e in particolar modo dalla Sicilia, la regione italiana con la maggior concentrazione di opere incompiute.È per questo che il progetto prende il nome di Incompiuto Siciliano. Il gruppo di artisti considera queste strutture un vero e proprio stile architettonico per le caratteristiche comuni del materiale, della morfologia e del concepimento, una sorta di reperto storico, la testimonianza di un passato recente, un rudere della sub modernità italiana, e come tale chiedeva di venir nominato, e identificato, mediante una categoria di giudizio che ne informi su stile e morfologia. Il lavoro di ricerca sull’architettura incompiuta portato avanti da Alterazioni video affronta la tematica delle opere pubbliche incompiute in Italia, indagando in modo multi-disciplinare le relazioni tra queste opere architettoniche e il contesto nel quale sono
inserite, affermandone il loro valore artistico e proponendone una nuova definizione stilistica. L’intero sistema nazionale di opere incompiute è considerato una testimonianza materiale dell’attuale contesto socio-culturale che permea la nostra quotidianità e per tale motivo viene proposta una definizione quale nuovo stile che ne restituisca i contenuti da molteplici punti di vista. Si intende con ciò dimostrare come l’incompiuto non sia solo un’etichetta entro cui rinchiudere forzatamente un pacchetto eterogeneo di opere, quanto piuttosto un vero e proprio modello teorico, capace di riconoscere, individuare e anche in una certa misura prevedere, la configurazione di un’opera o un sistema di opere incompiute in essere o in procinto di divenire. Le opere incompiute appaiono, secondo Alterazioni Video, come luoghi di una memoria collettiva ancora da indagare, nate come rovine prodotte da un tempo compresso, architetture che danno forma al paesaggio. La definizione di uno stile architettonico proprio permette di individuare un modello teorico di riferimento in grado di fornire un paradigma interpretativo di un fenomeno presente su tutto il territorio nazionale e in particolare in quello siciliano, tipico degli anni 70/80 ma che è possibile rintracciare dagli anni 50 fino ad oggi; uno strumento per interpretare la storia recente del nostro Paese. Il progetto muove dall’idea di lavorare in primo luogo sulla percezione del fenomeno a livello mediatico con la finalità di sviluppare in secondo luogo un intervento diretto sul territorio locale.
Attribuire all’incompiuto un significato artistico e architettonico significa escogitare un altro modo di leggere questi luoghi, utile per una comprensione più ampia e problematizzata dei rapporti tra il territorio e coloro che lo abitano. Le opere pubbliche incompiute sono un patrimonio artistico-culturale e in quanto tale divengono potenziali promotori di un’economica locale al pari di altri siti storici del nostro territorio. Una soluzione concreta alla sensazione di sconfitta a cui questi luoghi preludono. La spinta creativa, il desiderio di autocelebrazione e la profonda cultura, caratteri che hanno reso la Sicilia e gli Italiani famosi nel mondo, riemergono nel progetto del Parco Archeologico dell’Incompiuto di Giarre: un intervento di sviluppo sostenibile del territorio orientato alla promozione turistica, riconoscendo le opere incompiute come risorse. Alterazioni Video propone una serie di operazioni culturali e artistiche, a posteriori, che legittimano questi oggetti: film documentari, che interrogano protagonisti e utilizzatori; installazioni artistiche, che trasferiscono nell’ambito museale l’esperienza visiva e percettiva dell’incompiuto, e un’ampia opera di documentazione e archiviazione, pensata per essere arricchita dal pubblico: infatti la sommatoria di questi residui di futuri mai avvenuti è tale da rappresentare un vero e proprio stile architettonico ed estetico, che rappresenta l’Italia e l’epoca nella quale sono stati prodotti. Il progetto Incompiuto Siciliano mira dunque ad individuare e classificare le caratteristiche estetiche e formali delle architetture pubbliche 79
Mappa Parco Archeologico dell’Incompiuto Siciliano - Giarre
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incompiute disseminate nel territorio italiano. A questo scopo il gruppo ha elaborato e pubblicato un vero e proprio manifesto dello stile70. Articolato in dieci punti il manifesto rappresenta la descrizione dei suoi caratteri principali:
1. L’Incompiuto Siciliano è il paradigma interpretativo dell’architettura pubblica in Italia dal dopoguerra a oggi. La dimensione del fenomeno, l’estensione territoriale e le notevolissime peculiarità architettoniche fanno dell’Incompiuto Siciliano un pilastro portante per la comprensione della storia d’Italia degli ultimi quaranta anni. La spinta autocelebrativa delle varie comunità siciliane ha generato uno stile architettonico capace di raccontare le complesse sfaccettature della civiltà in cui si sono sviluppate. 2. Le opere incompiute sono rovine della surmodernità, monumenti messi al mondo dall’entusiasmo creativo del liberismo. In anni in cui l’entusiasmo e la crescita donavano agli italiani una tranquillità finanziaria inaspettata, la fantasia e l’esuberanza sono divenuti i motori propulsori di una riconfigurazione del territorio. Segni forti del territorio, le opere pubbliche Incompiute si distendono a partire dalla Sicilia in tutta la penisola, disegnando un’Italia non finita. 3. L’Incompiuto Siciliano si inserisce nel pasesaggio in modo incisivo e radicale. Il
processo di creazione delle opere pubbliche Incompiute celebra la conquista del paesaggio da parte dell’uomo contemporaneo. Una conquista sfacciata, determinata e vitale. Dietro l’Incompiuto non si cela un atteggiamento razionale e distaccato, ma l’esatto opposto. Soltanto un rapporto viscerale e passionale con la propria terra è in grado di dar vita a un fenomeno così variegato e magnetico. 4. Postulato dell’Incompiuto è la parziale esecuzione del progetto e il caratterizzarsi di continue modifiche nel tempo, capaci di dare origine a nuove spinte in avanti. L’Incompiutezza come processo temporale. Una danza che si ripete negli anni con modifiche e delibere che raccontano in dettaglio la generosità speculativa dei siciliani e di noi tutti. Luoghi apparentemente privi di scopo dominano il paesaggio come archi di trionfo. 5. La natura, per mezzo della vegetazione spontanea, dialoga sinesteticamente con le opere Incompiute, riappropriandosi dei luoghi e ridefinendo il paesaggio. Una comunità esuberante immersa in una natura altrettanto esuberante; da queste premesse nasce il forte legame tra le opere pubbliche Incompiute e la natura che le circonda. Fichi, gramigna, cactus, tufo, cemento, ferro: elementi apparentemente distanti divengono stilemi fondativi dello stile e ne caratterizzano la precisa collocazione nella storia e nella geografia. 81
6. Le opere Incompiute hanno nel cemento armato il loro materiale costitutivo. I colori e la superficie sono determinati dalla degradazione dei materiali causata dal passare del tempo e dall’effetto degli agenti naturali. Il cemento è materia allo stato puro, ossatura della modernità, simbolo del lavoro e della produttività.È capace di assorbire i segni del tempo arricchendosi di colori e sfumature. Una scelta forte e significativa che rende questi luoghi unici nel loro genere. 7. Nell’Incompiuto Siciliano la tensione tra forma e funzione si risolve. Ecco che il difetto dell’uso si trasforma in opera d’arte. Lo sport come sforzo mentale piuttosto che fisico, prodotto di un’immaginazione fervida e di un approccio contemplativo. Un atteggiamento che si risolve in architetture pubbliche prive di una funzionalità dichiarata ma aperte alla fantasia di chi le abita. Luoghi dell’arte e della rappresentazione, le opere pubbliche Incompiute riflettono i sintomi della società contemporanea. 8. L’Incompiuto Siciliano riassembla e raccoglie luoghi metafisici della contemplazione, del pensiero e dell’immaginazione. Una terra ricca di tradizione filosofica millenaria genera luoghi per lo spirito e la contemplazione. Luoghi dell’essere, riflessi dell’animo umano si stagliano all’orizzonte a testimoniare la nostra natura. 9. L’Incompiuto è fondato su un’etica e un’estetica proprie. In oltre quattro decenni di esistenza, l’Incompiuto si propone come 82
insorgenza da osservare in profondità. Quaranta e più anni che hanno inciso in profondità il suolo e la carne del nostro paese, ne hanno plasmato l’ambiente e la comunità. Un’etica e un’estetica con cui è necessario fare i conti fino in fondo. Un’etica e un’estetica: i pilastri su cui si fonda ogni stile. 10. L’Incompiuto Siciliano è un simbolo del potere politico e di una sensibilità artistica. Non soltanto si tratta di opere di ingegno architettonico, ma anche terminali nervosi di un organismo complesso e articolato. Le opere Incompiute nascono dall’unione tra l’esuberante creatività siciliana e l’abilità oratoria ancestrale di queste genti.Un’abilità che dai greci ai normanni, dai turchi ai garibaldini ha permesso ai siciliani di essere conquistati senza mai sottomettersi. Tale scienza è un elemento costitutivo di questi luoghi, e ne supporta la naturale spinta creativa con generosi finanziamenti.
L’opera incompiuta, nella chiave di lettura degli artisti, non va trattata dunque come un’eccezione, ma come il più importante stile architettonico italiano del dopoguerra. «Secondo Enrico Sgarbi l’Incompiuto Siciliano è un progetto di lettura del paesaggio, per ribaltare la percezione negativa delle opere incompiute, elevandole al rango di opere d’arte per farle diventare risorsa economica con un tipo di turismo responsabile»71. Per Alterazioni video l’opera incompiuta è finita
in quanto incompiuta. Secondo Andrea Masu di Alterazioni Video, queste opere rappresentano l’illusione di un progresso che non c’è mai stato e che è stato pagato a caro prezzo, bisogna riprogettare il passato per una nuova prospettiva di sviluppo, sostenibile per l’ambiente e le persone. «Il critico d’arte Rosalba Longhitano afferma: Si tratta di fare in modo che queste architetture, per noi negative, vengano percepite come nuove. [...] Non si tratta di traghettare queste opere da un limbo all’altro, ma di rivivificare queste opere pensando anche a nuove destinazioni d’uso, storicizzare un fenomeno per prendere le distanze da un passato che non ci appartiene»72. Gli intenti del progetto non sono solo di denuncia, ma intendono capire il sistema complesso che le ha originate e favorire una presa di coscienza del fenomeno. I responsabili del progetto hanno convinto Teresa Sodano, il sindaco di Giarre, la “capitale”, a indire un concorso di idee per la progettazione di un parco archeologico dell’Incompiuto Siciliano. Il gruppo Alterazioni Video si sofferma sulla città Giarre in quanto è un caso singolare ed emblematico del fenomeno. Infatti, Giarre, graziosa cittadina barocca di 30.000 abitanti in provincia di Catania, ha una straordinaria concentrazione di opere pubbliche incompiute, 9 in un territorio relativamente piccolo: il teatro nuovo (1956), il parcheggio multipiano (1987), il parco Chico Mendes (1975), lo stadio di atletica-campo da polo (1985), la casa per anziani Madre Teresa (1987), il salone polifunzionale (1987), la piscina regionale (1985), il mercato dei fiori (2000)
e la pista delle macchinine telecomandate (1981). Qui Alterazioni Video ha realizzato, con la collaborazione del Comune di Giarre, il primo “Parco Archeologico dell’Incompiuto”, distribuito su un’area di 300 ettari, con lo scopo di osservare il fenomeno dell’architettura non finita. Il Parco è il risultato di un’operazione di storicizzazione del territorio la cui identità risulta fortemente condizionata dalla presenza di opere pubbliche incompiute, e nella progettazione del parco sono stati adottati specifici criteri di sostenibilità, prevedendo un impatto minimo sugli elementi costitutivi del territorio e un rispetto delle caratteristiche stilistiche fondamentali delle architetture incompiute. «Vogliono portare Giarre e i suoi orrori edilizi alla Bit di Milano, alla Borsa internazionale del Turismo. Vogliono capovolgere tutto. Mettere in moto una piccola economia, attirare i viaggiatori. Far diventare bello quello che oggi è brutto»73. Nel 2009, in occasione di Green platform, Alterazioni Video ha tenuto un workshop durante il quale sono state raccolti delle idee per riutilizzare le strutture del parco. Coinvolgendo studenti universitari di architettura, gli artisti hanno raccolto progetti visionari per utilizzare le strutture fatiscenti senza stravolgerle, lasciando intatto l’aspetto ma trovando una nuova funzione. Così ad esempio, un ponte lasciato a metà potrebbe diventare la rampa per uno scivolo gonfiabile per bambini oppure le tribune del campo di polo un giardino pensile che per la sua estensione sarebbe il più grande d’Europa, visibile pure da Google maps, circondare l’edificio della bambinopoli del parco 83
Chico Mendez con una sorta di laghetto e monumentalizzarlo. Sono solo delle ipotesi ma rendono l’idea di cosa vuole essere il progetto del Parco archeologico dell’Incompiuto Siciliano: una nuova vita per le incompiute di Giarre in una modalità che non sia un’ulteriore beffa per la città. Il progetto dell’Incompiuto Siciliano, per la particolarità, per il suo carattere visionario e anticipatorio ha subito attirato l’attenzione dei media su scala nazionale e internazionale, diventando a volte tema di dibattito, altre volte, accolto in vari musei nazionali, occasione per creare arte. Le critiche al progetto guardano soprattutto alla volontà, seppur palesemente ironica, di attribuire all’Incompiuto un valore positivo, trasformando i mai finiti da simbolo dello spreco a rovine della modernità, simbolo di un passato recente e di un futuro prossimo. Un’ulteriore critica è quella legata al giudizio di tipo estetico. Se questa viene eccessivamente sbilanciata e forzata verso l’estetizzazione, isolando le opere incompiute, considerandoli come oggetti estratti dai loro contesti ed elaborati in processi artistici, si rischia di alterare altrettanto la realtà idealizzandola eccessivamente, di scambiare istituzioni eccezionali e significative per la normalità. Si rischia di cancellare a priori qualsiasi possibilità di rigenerazione, monumentalizzando l’incompiuto, prima ancora questo assuma il valore di monumento, attribuito non artisticamente ma come scelta operata spontaneamente dall’uomo, dai contesti e soprattutto dalla storia. «Intorno alla proposta dell’Incompiuto Siciliano è nata una polemica. Gli argomenti contro un possibile Parco erano 84
l’impossibilità di attribuire all’incompiuto un valore di Monumento, perchè farlo significava accettare il registro estetizzante verso queste costruzioni, in verità incomplete e non incompiute, figlie spesso dello spreco e del malaffare, che ciò porterebbe alla revisione dell’immagine complessiva dell’isola, come una sterminata sagra del cemento e di tondini sguainati, e ciò alla fine produce identità. Tutte motivazioni che tendono a celare una parte di identità, cioè quella che è in grado di produrre, appunto la sterminata sagra del cemento e tondini»74. Quella dell’Incompiuto Siciliano, però, è e deve essere vista come una proposta alternativa, stravagante e per certi versi surreale. Il manifesto ha l’evidente scopo di richiamare l’attenzione, provocare, far aprire occhi e orecchie al popolo siciliano e all’intero popolo italiano che per troppo tempo sono rimasti in silenzio nei confronti della tematica. È senza dubbio necessaria una lettura critica del progetto per riuscire a coglierne il senso, è necessaria una collaborazione attiva per riuscire a creare un nuovo senso. Aldilà delle critiche, aldilà di qualsiasi parere, positivo o negativo che sia, all’Incompiuto Siciliano e al suo visionario progetto artistico bisogna attribuire il grande merito di essere riuscito, tramite un processo di astrazione, a dare risalto a una problematica scomoda da affrontare e rimasta in silenzio per troppi anni. Se oggi si parla tanto di Incompiuto, se oggi esistono delle operazioni di mappatura e un embrionale desiderio di risolvere il problema è anche e soprattutto grazie all’Incompiuto Siciliano.
2.6.2 Italia Nostra. Le campagne Sbilanciamoci! e Fantasmi di Cemento Italia Nostra ONLUS75 è un’associazione di salvaguardia dei beni culturali, artistici e naturali. Nata a Roma nel 1955 e riconosciuta con decreto presidenziale nel 1958, è una delle più antiche associazioni ambientaliste italiane76. Italia Nostra fu fondata, inizialmente, per una campagna settoriale e territorialmente limitata contro lo sventramento di un isolato nel centro storico di Roma, ma presto allargò il suo campo di attività a tutto il territorio nazionale allo scopo di proteggere i beni culturali e ambientali, come da slogan associativo. All’epoca, la sensibilità verso i temi di salvaguardia artistica e ambientale non era diffusa tra i ceti comuni, essendo per lo più appannaggio di un ambiente elitario. Non a caso Italia Nostra nacque per iniziativa di un gruppo di intellettuali tra cui Elena Croce, Desideria Pasolini dall’Onda, Antonio Cederna e Umberto Zanotti Bianco, che fu il primo presidente dell’associazione. Oggi, Italia Nostra conta più di 200 sezioni distribuite su tutto il territorio nazionale ed è socia promotrice di Europa Nostra, federazione di 220 associazioni di conservazione europee. L’attività di Italia Nostra spazia dalla didattica, alla ricerca, dalla pubblicistica, al volontariato culturale, fino al suggerimento legislativo, contribuendo a diffondere nel Paese la cultura della conservazione del paesaggio urbano e rurale, dei monumenti, dell’ambiente cittadino. Da oltre quattro decenni le attività di volontariato culturale organizzate da Italia
Nostra hanno contribuito a diffondere nel Paese la cultura della conservazione del paesaggio urbano e rurale, dei monumenti e del carattere ambientale delle città. Italia Nostra, insieme alle altre associazioni culturali e di protezione ambientale, promuove da sempre un’intensa attività di suggerimento legislativo, come stimolo per la redazione di nuove norme sul patrimonio storico e ambientale italiano. Persegue un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla valorizzazione dell’inestimabile patrimonio culturale e naturale italiano, capace di fornire risposte in termini di qualità del vivere e di occupazione. Nella visione di Italia Nostra difendere il territorio significa quindi tutelare uno dei paesaggi più complessi e preziosi, come quello ereditato dalle generazioni che ci hanno preceduto e che rischiamo di non riuscire più a trasmettere nella sua integrità, alle generazioni future. Tra le varie attività, Italia Nostra ha posto poi la sua attenzione sul gravoso problema relativo ad uno alla presenza su tutto il territorio nazionale, di quegli edifici in costruzione da anni, generalmente di cemento, oggi abbandonati. Ecomostri e strutture mai portate a termine. Scheletri di edifici che deturpano il paesaggio, sia urbano che extra urbano, e fanno perdere valore al territorio. Italia Nostra fa parte delle 51 organizzazioni unite dal 2000 nella campagna Sbilanciamoci!77. La campagna Sbilanciamoci! propone ed organizza ogni anno attività di denuncia, di sensibilizzazione, di pressione, di animazione politica e culturale affinché la politica, l’economia e la società si indirizzino verso la 85
realizzazione dei principi della solidarietà, dell’eguaglianza, della sostenibilità, della pace. Nell’anno 2011 la campagna prevedeva alcune proposte, tra cui la cancellazione dei finanziamenti al Ponte di Messina, in favore di opere minori necessarie al nostro Paese e alla popolazione in primis; la riduzione degli stanziamenti alle grandi opere per cui viene proposto l’abbandono della logica delle grandi opere a favore dell’ottimizzazione delle reti esistenti e del loro uso (con i necessari adeguamenti e potenziamenti); il miglioramento della qualità della pianificazione e progettazione delle opere pubbliche basate su indagini e studi di fattibilità economicofinanziaria che consente di compiere un raffronto comparativo costi/benefici tra le varie soluzioni per scegliere quelle più efficaci e a minor impatto ambientale, economico e sociale. Tra le proposte di Sbilanciamoci! vi sono anche quelle relative agli ecomostri. È stato proposta la riattivazione del finanziamento di 15 milioni di euro istituito con la Finanziaria 2008, destinato alla demolizione degli ecomostri sorti nei siti italiani UNESCO e quello di 3 milioni di euro destinati alla demolizione delle opere abusive site nelle aree naturali protette istituito, sempre a suo tempo, dalla Legge Finanziaria del 2008. Nel luglio 2011 Italia Nostra ha inoltre lanciato una nuova campagna nazionale Fantasmi di cemento per un censimento visivo di questi mostri. Sono stati mobilitati tutti i soci e le loro macchine fotografiche per poter costruire un dossier su questo grave fenomeno. 86
Le storie di questi deturpatori del paesaggio sono le più varie, ma tutte costringono a subire le loro presenze e sfregiano le visuali sia di posti pregiati e bellissimi, sia ai lati di strade ed autostrade. Sono il frutto malefico della mala politica e del malaffare, scandaloso spreco di territorio e di denaro. Italia Nostra con questa campagna vuole mettere sotto osservazione i manufatti di cemento dismessi, degradati e poi abbandonati; le opere non finite, incompiute prima ancora di essere utilizzate e lasciate a se stesse in attesa di un possibile riuso, o una definitiva smobilitazione; opere già condannate a una demolizione che non è mai arrivata e non prevede soldi per compierla. L’obiettivo di questa campagna non è solo quello di un censimento per raccontare la storia dello spreco, di soldi e territorio, ma è anche quello di elaborare una proposta concreta per liberare il nostro paesaggio da questi piccoli e grandi ecomostri. Un Stato, come l’Italia, con un territorio ammirato e invidiato da tutto il mondo per le sue bellezze, non può permettersi di distruggerlo e farlo scomparire sotto migliaia di metri cubi di cemento e tanto meno può permettersi di far sì che questo cemento resti inutilizzato.
2.6.3 Spazi Indecisi Spazi Indecisi è un’associazione culturale che dal 2009 riflette, sperimenta e progetta interventi di riattivazione leggera e temporanea negli spazi in abbandono, promuovendo e
Spazi Indecisi - Associazione culturale
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realizzando eventi culturali di aggregazione e sviluppando campagne di comunicazione partecipata78. Vengono classificati come pazi indecisi i luoghi abbandonati, disabitati o dismessi, deantropizzati. Nonostante la loro attuale condizione di abbandono questi spazi raccontano storie, riflesso di un trascorso vitale; ove si intrecciano le vicende economiche, politiche, culturali che ne hanno determinato il decadimento e le micro storie delle persone che in quei luoghi hanno vissuto, lavorato. Questo intreccio pone interrogativi sul passato e sul presente di questi luoghi, ma soprattutto sul nostro presente e futuro. Gli spazi indecisi sono luoghi sia fisici sia della mente, che subiscono un progressivo disconoscimento del loro valore sociale, storico, ambientale, culturale ed economico. Dimenticati dall’uomo e dalla società per incuranza, in-cultura o perchè in attesa di un utilizzo migliore, si avviano inevitabilmente al progressivo deterioramento fisico dello spazio e all’oblio urbano. Rappresentano l’inconscio, la parte che si trova sotto alla città viva, della (non sempre) razionale urbanizzazione. Per estensione sono indecisi tutti i luoghi, le aree, gli spazi su cui manca una visione e un progetto. Questi frammenti di paesaggio sono elementi peculiari da valorizzare come sistema. L’associazione Spazi Indecisi nasce dunque dall’urgenza di reagire all’implacabile consumo di territorio per valorizzare gli spazi in abbandono, innescando processi di rigenerazione urbana leggera attraverso interventi che spaziano e ibridano i diversi linguaggi contemporanei. L’obiettivo è quello 88
di trasformare i luoghi di abbandono in un campo di indagine e di ricerca per artisti, fotografi, architetti, urbanisti, paesaggisti e cittadini, mettendo in relazione passato, presente e futuro e producendo una riflessione contemporanea che solo le arti (nella loro accezione più ampia) possono generare. Pur avendo una direzione, Spazi Indecisi ricerca il mutamento, coglie le opportunità che genera e si generano sul territorio, in un percorso aperto a menti e braccia che vogliono contribuire alla riappropriazione simbolica degli spazi comuni. Nel sito è già presente un servizio di mappatura degli spazi indecisi al fine di creare una memoria di questi luoghi in abbandono che rischiano di sparire senza che nessuno se ne accorga. Una mappatura open-source condivisa, organizzata per filtri e tipologie, che raccoglie fotografie, racconti, storie, video, o semplici segnalazioni di luoghi abbandonati. La ricerca è aperta a tutti e sarà sempre attiva, in quanto gli spazi indecisi cambiano al passare del tempo e dei tempi. Alle azioni di mappatura seguono e corrispondono gli interventi di valorizzazione. Spesso si tratta installazioni urbane con l’obiettivo di sviluppare una consapevolezza estetica sulla presenza di luoghi dimenticati. Case abbandonate, rotonde incolte, edifici fatiscenti e luoghi che testimoniano una presenza passata attraverso un’assenza presente, diventano sede di operazioni artistiche e ironiche che stimolano una riflessione più profonda sugli spazi indecisi favorendo nuova e diversa relazione con essi.
2.6.4 [Im]possible Living Nato nel 2011 da un’idea di Daniela Galvani e Andrea Sesta, [Im]possible Living è un sito crowd–sourced79 con l’ambizione di censire in un archivio online gli edifici in disuso grazie alle segnalazioni di utenti, che possono aggiungere scatti e suggerirne usi. L’obiettivo di Impossible Living è quello di correggere gli errori del passato, dare un contributo dal basso, fare economia di tempo e di territorio. Prima di costruire altro, è necessario gestire il patrimonio esistente ed il suolo occupato, ed è qui che si intuisce l’utilità dell’archivio online proposto da [Im]possible living. L’attenzione è rivolta sia agli spazi vuoti a bassa definizione perché diventino giardini/ orti e per eventi open air, sia a edifici e/o borghi abbandonati, pensati come ideali candidati per usi abitativi o ricreativi. Gli edifici in degrado, oltre 2 milioni in tutto il territorio, costituiscono in Italia, come in tutto il mondo, un peso morto per le amministrazioni pubbliche. Potrebbero, di contro, diventare la soluzione di richieste della collettività o carenze locali. Come suggerisce [Im]possible living, esistono vari livelli di riattivazione: l’uso temporaneo, (per es. per allestimenti o performance) l’uso di medio/breve termine (laboratori, eventi) e l’uso di lungo periodo (riconversione del manufatto). La mappatura dei fabbricati in disuso è possibile grazie all’ampia e capillare diffusione di tecnologie informatiche e possibilità di associare dati emozionali, geografici e digitali (foto, video, commenti…) con i moderni dispositivi mobili. L’accesso, la condivisione e l’interpretazione
degli stessi può avvenire in tempo reale e da qualsiasi luogo. Le operazioni di mappatura e le proposte presentate dagli utenti si trasformano in un utile supporto nella definizione nelle decisioni politiche, sociali ed urbanistiche. Gli stessi utenti, infatti, sono promotori ed organizzatori di eventi e progetti. Più che è un risolutore, [Im]possible living può essere definito un facilitatore di processi di rivalorizzazione di spazi abbandonati e un raccoglitore di esigenze delle comunità. Tramite la sito web80 e le applicazione per smartphone, sta pian piano creando un data space di edifici che meritano una seconda chance. Così l’intelligenza collettiva e la saggezza popolare possono stimolare e guidare soggetti pubblici e privati per strategie future.Tra gli interventi già realizzati grazie a [Im]possible living la riattivazione dell’ex Fornace dei Navigli durante a Milano nel 2013. «La strategia attivata da [Im]possible Living risponde primariamente all’esigenza di rivalutare il patrimonio mondiale degli edifici abbandonati, in contrapposizione al continuo e costante consumo di territorio perpetrato attraverso la costruzione di nuovi edifici destinati, già prima d’essere ultimati, a rimanere vuoti. In secondo luogo l’attivazione del pubblico attraverso un sistema di partecipazione attivo permette di sollecitare una coscienza visiva che grazie alla pubblicazione delle immagini sul sito possa diventare sistema critico. Un archivio in perpetua crescita costruito da una collettività variegata e sensibilizzata attraverso gli strumenti tecnologici del quotidiano come il web o lo smartphone»81. 89
Note Dati Codacons. Rizzardi P., Opere incompiute, Codacons: Aumentate in 2 anni da 692 a 868, costo 4 miliardi in “ilfattoquotidiano. it”, 21 Febbraio 2016. 3 Fraschilla A., op.cit., p. 148. 4 Marini S., Architettura Parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Macerata 2008, p. 114. 5 F. Marino, S. Riscino, D. Trina, Rovine Contemporanee, Tesi di laurea, Politecnico di Milano, Corso di Laurea Magistrale in Architettura, a.a. 2012-2013., p. 15. 6 wikipedia.org/wiki/Lemanisullacittà. 7 Settis S., op.cit., p. 18. 8 Marino F., Riscino S., Trina D., op.cit., p. 23. 9 Fraschilla A., op.cit., p. 47. 10 Garibaldi A., Massari A., Preve M., Salvaggiulo M., Sansa F., La colata, Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, Milano 2013, p. 26. 11 Accatini C., Il territorio sprecato. Indagini e valutazioni sulle opere incompiute in Italia, Tesi di laurea, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società, a.a. 20102011, pag. 34. 12 Bocca R., L’Italia incompiuta in “L’espresso”, 18 marzo 2010. 13 Bolzoni A., L’Italia lasciata a metà, ecco l’album dello spreco in “La Repubblica”, 27 ottobre 2007. 14 Bocca R., L’Italia incompiuta in “L’espresso”, 18 marzo 2010. 15 Marra A., Opere pubbliche incompiute, a fine 2014 sono 868 in “edilportale.com”, 18 settembre 2015. 16 Salerno M., Incompiute, buco da 1,7 miliardi in “IlSole24ore”, 1 aprile 2015. 17 Motta R., Incentivi ai privati per le opere incompiute, in”regioneemilaromagna.it”, 20 gennaio 2015. 18 Parini M., Opere pubbliche, il silenzio delle incompiute in “www.lindro.it”, 23 Luglio 2015. 19 Grignetti F., Il triste elenco delle opere incompiute in “La Stampa”, 24 luglio 2014. 20 Fraschilla A., op.cit., p. 150. 1 2
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Grignetti F., Il triste elenco delle opere incompiute in “La Stampa”, 24 luglio 2014. 22 Fraschilla A., op.cit., p. 4. 23 Settis S., op.cit., p. 75. 24 Ibidem, p. 146. 25 Salvaggiuolo G., Il Paese incompiuto in “La Stampa”, 3 giugno 2011. 26 Augè M., op.cit., p. 37. 27 Settis S., op.cit., p. 151. 28 Martelli L., Salviamo il paesaggio, Recco, 2012, p.13. 29 Fraschilla A., op.cit., p. 138. 30 Accatini C., op.cit., p. 46. 31 Dati Istat. 32 Accatini C., op.cit., p. 54. 33 Fraschilla A., op.cit., p. VIII. 34 Accatini C., op.cit., p. 76. 35 Fraschilla A., op.cit. p. 147. 36 www.serviziocontrattipubblici.it. 37 www.ansa.it. 38 www.incompiutosiciliano.org. 39 Accatini C., op.cit., p. 62. 40 Dati Cresme, Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio. 41 Berdini P., Breve storia dell’abuso edilizio in Italia dal ventennio fascista al prossimo futuro, Roma 2010, p. 27. 42 Accatini C., op.cit., p. 81. 43 Dalla relazione della commissione d’inchiesta del Senato sul sistema sanitario del 1994. 44 Delle Monache P., Meneguzzo M., op.cit., p. 9. 45 Augè M., op.cit., p. 41 46 Ibidem, p. 47 47 Handa R., Allure of the Incomplete, Imperfect and Impermanent: Design and Appreciating Architecture as Nature, London 2015, p.97 48 Delle Monache P., op.cit., p. 26. 49 Handa R., op.cit., pp. 117. 50 Marini S., Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Macerata 2010, p. 58. 51 Guida C., Rovine, scarti, ricordi. L’uso nell’arte contemporanea in Borrelli D., Di Cori P., Rovine future, 21
Milano 2010, p.181 Marini S., Architettura Parassita...op.cit., p. 125. 53 Augè M., op.cit., p.135. 54 Delle Monache P., Meneguzzo M., op.cit., p. 31. 55 Ibidem, p. 33. 56 Ibidem., op.cit., p. 21. 57 www.guggenheim.org/new-york/artists/GordonMattaClark. 58 Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 105. 59 Delle Monache P., Meneguzzo M., op.cit., p. 22. 60 Licata G., op.cit., p. 62. 61 www.alterazionivideo.com. 62 Licata G., op.cit., p. 106. 63 www.gabrielebasilico.com. 64 www.samlaughlin.co.uk. 65 www.anothermountainman.com. 66 www.unfinished-italy.com. 67 Licata G., op.cit. , p. 27. 68 Rais A., “Visioni d’archivio 2011”, Palermo 2011. 69 www.incompiutosiciliano.org. 70 Alterazioni Video, Incompiuto Siciliano in “Abitare”, ottobre 2008, n. 492, p. 192. 71 Salvaggiuolo G., Il Paese incompiuto in “La Stampa”, 3 giugno 2011. 72 Leonardi M. G., Un progetto per completare le incompiute in “La Sicilia”, 19 Settembre 2009. 73 Bolzoni A., L’Italia lasciata a metà, ecco l’album dello spreco in “La Repubblica”, 27 ottobre 2007. 74 Licata G., op.cit., pp. 26. 75 www.italianostra.org. 76 www.wikipedia.org/wiki/Italia_Nostra. 77 www.sbilanciamoci.org. 78 www.spaziindecisi.it. 79 La parola composta crowd e outsourcing indica una collaborazione su un progetto tra più utenti, in genere volontari e non organizzati, grazie ai moderni dispostivi e web. 80 www.impossibleliving.com. 81 Poroli E., [Im]possible living: mappature dell’abbandono in “www.domusweb.it”, 14 Dicembre 2011. 52
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Il potenziale dell’incompiuto
Da danno quantificato e riconoscibile a potenziale da sfruttare. Il passo è breve. Probabilmente no. Ciò che realmente dovrebbe essere considerata come un incompiuta è la storia che caratterizza questo fenomeno. Anni di sprechi, anni di abbandoni, risorse buttate e territori macchiati, quella dell’incompiuta deve necessariamente essere visto come un errore da riparare, una storia aperta con un finale imprevedibile, provando ad abbandonare i pregiudizi, le statistiche impietose, le illusioni malinconiche a condizioni mai esistite. Le opere incompiute si presentano da anni come cantieri aperti, spazi in attesa, luoghi abbandonati, nate già come rovine, illusioni che necessitano nuove trasformazioni. «I cantieri, eventualmente a costo di un illusione, sono spazi poetici nel senso etimologico della parola: vi si può fare qualcosa, la loro incompiutezza contiene una promessa. I cantieri oltrepassano il presente da due lati. Sono spazi di attesa che, talvolta un po’ vagamente, risvegliano anche ricordi. Ridestano la tentazione del passato e del futuro. Fungono per noi da rovine. Oggi queste non sono più concepibili, non hanno, per così dire, un futuro, proprio perche gli edifici non sono più costruiti per invecchiare, in conformità alla logica dell’evidenza, dell’eterno presente e del troppo pieno. La ricostruzione perfettamente identica all’originale e, più in generale, le sostituzioni sono agli antipodi delle rovine. Ricreano una funzionalità presente ed eliminano il passato»1. Il potenziale che si nasconde dietro alle opere incompiute si nasconde proprio nel loro carattere illusorio, nella promessa
mai avverata che si nasconde dietro il loro stato di incompiutezza, nella loro insita contrapposizione, memoria di un passato mai esistito, speranza di un futuro irrealizzabile. Scrivere una nuova pagina nella storia delle incompiute significa applicare una lettura reale, forse più severa, al potenziale che queste anno, abbondando, almeno per un attimo, il campo dell’illusione, considerando questi oggetti come un investimento già avviato, risorse in stato di sospensione che probabilmente, anche con un minimo intervento, potrebbero acquisire una forma compiuta. Ormai da anni sono attive operazioni di monitoraggio e di denuncia, dalle leggi statali alle numerose associazioni, ogni giorno vengono denunciati casi di uso incontrollato di suolo, di risorse sprecate, di luoghi abbandonati e lasciati in degrado. Ma le azioni di monitoraggio e denuncia sono soltanto il primo passo di un lungo meccanismo che deve ancora realmente attivarsi. Si tratta di avviare un cambio radicale nella visione della tematica, abbandonare le statistiche, abbondare le visioni illusorie, riconoscere che le opere incompiute, identificabili come scarto, si presentano oggi come un potenziale inevitabilmente da sfruttare, oggetti in uno stato di attesa, pronti a ricevere modificazioni di ruoli e di significati. «Lo scarto è ciò che ritenuto inutile; non è tale a priori, ma in base ad una parametro con il quale è stato sancito ciò che è utile e ciò che non lo è, in seguito ad un’azione in cui si opera una scelta»2. La parola scarto in inglese si traduce in waste abbracciando un campo semantico molto vasto: desolato, arido, inutile, spreco, scoria, residuo, terreno incolto. Ciò che 95
accomuna questi termini è la dimenticanza, la consequenziale perdita di ruolo e di senso di un oggetto, di uno spazio, di un’area. Gli spazi dello scarto sono gli spazi dell’abbandono, spesso anche spazi del degrado, luoghi che hanno perso la loro funzione e continuano a comportarsi come punti isolati, privi di senso. Edifici e spazi abbandonati rappresentano però materia in attesa di nuovi ruoli, di nuove procedure che invitino a riflettere su queste presenze. L’architettura, in questo senso, opera ormai da anni sul progetto di recupero, sulla riqualificazione di manufatti prodotti dal passato, consumati dal tempo, dall’uomo e dalla natura. È diffuso il concetto di no sprawl, della volontà di dire no allo sviluppo incontrollato di suolo. Si parla allora di recupero e riuso dei centri storici, si parla del riutilizzo delle ex aree industriali dismesse, di restauro e riqualificazione del costruito, si deve necessariamente e concretamente iniziare a parlare, in questa ottica, di recupero delle opere incompiute, perché non solo si tratta di manufatti mai dotati di una funzione, ma perché spesso sono responsabili della perdita di senso di vaste porzioni di territorio. Sfruttare luoghi già compromessi, già costruiti per implementarli significa dunque evitare espansioni in altri spazi integri. È proprio la mancanza di un senso compiuto (nel caso delle opere mai finite anche di una forma incompiuta) a generare nuovi campi di lettura, offrendo una libertà di reinterpretazione. Questa mancanza rappresenta però un’opportunità, una riserva da mettere in campo, da strutturare in un tempo non ben determinato. «Il mai finito come libera consapevolezza 96
nel costruire mai finiti, mettendo da parte un attimo l’aspetto improvvisato e degradato in cui si presentano, ha generato, a volte, costruzioni straordinarie e in qualche modo speciali; frammenti, per progetti, di una teoria del mai finito. Vere e proprie invenzioni tipologiche danno vita a nuove forme di aggregazione urbana, sviluppano pratiche interessanti di costruzione in diverse fasi temporali, recuperano situazioni degradate e insolute, fanno registrare nuove forme di adattamento a contesti, anche loro in continuo cambiamento»3. I luoghi generati dalle opere incompiute sono spazi inaspettati, luoghi spesso privi di regole, in grado però di generare riflessioni autentiche, visioni innovative, campo di ricerca per l’architettura sia teorica, ma soprattutto pratica, in termini di sperimentazione e in termina di sfida da vincere. Si tratta di spazi e oggetti di mezzo, territori ad oggi senza ruolo. La complessità della gestione del reale, in questo senso, pretende e può evocare margini di revisione imprevedibili. Cambiamenti repentini di ordine economico, sociale e ancora di ordine ecologico possono provocare inattesi cambiamenti di scenari, creare nuovi significati, creare nuove opportunità. È possibile rivolgere uno sguardo differente alle opere incompiute, leggerle come opportunità, come un dispositivo in trasformazione, generatore di situazioni inattese, occasione per implementare l’esistente, spesso in ombra, dimenticato. È necessario un approccio più diretto, che legga l’incompiuto per quello che è: materia informe, spesso priva di bellezza alcuna, di regole
e rapporti con il contesto, ma pur sempre elemento già costruito, dunque modificabile, occasione avviata, elemento ispiratore, oggetto a cui aggrapparsi per costruire nuovi significati. L’interpretazione dell’incompiuto deve partire da questa immagine, proseguendo non nel voler riportare l’oggetto alla sua originaria funzione ma nel cercare di capire se in questa nuova condizione, apparentemente tronca, non si celi una operatività altra. Progettare con lo scarto, con le opere incompiute significa riconoscere un nuovo ruolo all’architettura, una nuova responsabilità che è quella della massimizzazione degli spazi, della massimizzazione degli scarti insiti in luogo, evitando di utilizzare altre risorse altrove dove forse non sono ancora compromesse. Si tratta di operare su quei luoghi che alludono a possibilità di cambiamento, spazi che hanno bisogno di un intervento umano responsabile e misurato. Azioni parassitarie su quelle opere incompiute che allo stesso modo si comportano da parassite con il territorio che le ospita. Azioni in grado di rilevare nuove dinamiche, nuove connessioni, nuovi usi. «La vicinanza del termine scarto al concetto di parassita si ritrova nel pensiero contemporaneo che indaga i mutamenti in corso nella città e confluisce nella determinazione delle possibilità che si aprono oggi alla sedimentazione progettuale l’architettura parassita agisce sui cadaveri architettonici per ri-animarli o su corpi vivi che necessitano di un nuovo ruolo, di nuove funzionalità, di un nuovo significato e nuovi spazi. Questo atteggiamento verso lo scarto conduce alle attuali dinamiche di immissione dell’arte nella città; a un recupero di spazi vuoti
nei quali viene mantenuta l’identità a favore invece di una revisione delle connessioni, dei ruoli, degli usi, delle relazioni tra interno ed esterno. Non si tratta quindi di recuperare l’oggetto, di leggerlo come problema, ma di cogliere la logica esulando dai meccanismi del processo che lo ha espulso. Lo scarto può essere visto come territorio di rifugio delle diversità»4. La lettura del potenziale dell’incompiuto passa attraverso la consapevolezza del processo che è necessario avviare. Che l’incompiuto sì presenta come un problema, ma allo stesso tempo diventa occasione per proporre nuovi spazi della diversità, una nuova sfida per l’architettura, forme innovative per la vivibilità dei nostri territori. «Alle declinazioni possibili dello scarto, materia molle e debole di senso per definizione corrispondono potenzialità residue di materiali e spazi dimenticati, abbandonati o nascosti, a definire nuovi approcci progettuali, o meglio nuove prospettive che accolgono lo scarto come risorsa e come possibile materiale del progetto. Porvi attenzione significa ammettere la precarietà di un sistema, cercare di limiti che questo presenta in terni di articolazione e di risorse, cercare poi strategie che si fondino sul riciclaggio come prassi operativa. Non si tratta semplicemente di progettare forme di riutilizzo che investono la materia, il sistema propone già la reiterazione dell’uso prima del prodotto poi del suo scarto; ma di orchestrare esperienze che riciclino i significati, le storie, modulando articolati e disincantati disegni sulla linea temporale. Progettare con lo scarto implica leggere il progetto stesso come processo: ripercorrerne le fasi di costruzione, le teorie 97
che lo fondano e proiettarle oltre l’usura»5. Le opere incompiute necessitano di una strumentazione operativa di tipo archeologico, di racconti non gerarchici in grado di rilevare il proprio tessuto di equivalenze e di distanze, di possibilità; individuare simbologie capaci di significare la sospensione, la mancanza d’uso, spesso la mancanza di attenzione che li connota, ma anche le possibilità che offrono. Le opere incompiute non devono essere viste come il rifugio di qualcosa di indesiderato da eliminare, viceversa, chiedono di partecipare alla trasformazione, dialogando con il fattore tempo, con il contesto, con gli imprevedibili scenari che le azioni progettuali possono determinare. Si tratta di operare delle operazioni che agiscano attraverso il meccanismo dello straniamento, cioè la deviazione del concetto di appartenenza di forme, funzioni, colori, dimensioni. Consiste nel mostrarci un oggetto noto in un contesto, con funzioni e modalità insolite. «Per straniamento si intende il procedimento attraverso cui, con uso inconsueto del linguaggio o della tecnica descrittiva, è possibile rilevare aspetti insoliti o valori sconosciuti di qualcosa che è già noto. Si pensi alla pittura di Giorgio De Chirico, Renè Magritte, Salvador Dalì, nella quale gli oggetti di uso comune assumono un significato enigmatico, complesso e ironico perché vengono messi a reagire con un sistema di riferimento a loro estraneo. Si ha straniamento quando un oggetto viene sciolto dal legame intrattenuto con una certa catena semantica per essere introdotto in un’altra, in cui trova una nuova configurazione che ne muta il 98
senso, traslandone il significato e facendolo apparire in una veste inedita. L’efficacia dello straniamento nasce dal confronto con il contesto originario di appartenenza che è lentamente inespresso in chi contempla l’opera. Se non si conosce prima l’oggetto straniato, non c’è l’effetto sorpresa e di novità semantica. Lo straniamento, allora, si associa al concetto di appartenenza al luogo, a un sistema di riferimento, a una categoria di forme, a un principio di associazione»6. Lo straniamento insegna a guardare alle cose quotidiane, ormai scontate, con un occhio e con una prospettiva di osservazione diversi dal solito, inusuali. La decontestualizzazione implicita dello straniamento apre e amplifica il significato di quegli oggetti, di quelle architetture, di quegli elementi dell’architettura il cui significato è convenzionale, amplifica i significati del singolo oggetto, contro le letture univoche frutto di soppressioni, semplificazioni o selezioni. Un oggetto o un’architettura straniati impongono un cambiamento di senso al contesto in cui insistono, anch’esso sottoposto a nuova significazione. Per attivare il potenziale dell’incompiuto è necessario operare proprio questo cambiamento di prospettiva insito nell’operazione dello straniamento, ricercare e rilevare nuovi significati, all’opera stessa, al contesto nella quale insiste. Saper cogliere e sfruttare il potenziale dell’incompiuto, leggere la loro condizione di attesa, ritrovarne i significati. Si tratta di obiettivi definiti che devono iniziare a trovare una loro compiuta applicazione, attraverso interventi responsabili, attraverso una concreta azione progettuale.
Stazione San Cristoforo - Milano
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3.1 Soluzioni per il Recupero Le analisi operate sul fenomeno dell’incompiuto, l’individuazione delle origini e dei motivi dello sviluppo, il confronto con il mondo delle rovine, il loro intrecciarti con il mondo dell’arte e dell’associazionismo risultano un fase fondamentale di ricerca. Questa deve comunque risultare mirata alla determinazione di azioni atte al recupero delle opere incompiute, con l’obiettivo di assegnare un nuove valore, non solo simbolico, ma anche in termini diretti e reali a questi manufatti. «Ma come si esce da questa situazione? Cosa si fa con le opere incompiute che in molti casi soffocano territori da un punto di vista naturalistico eccezionali? Per prima cosa bisognerebbe accentrare alcune competenze. Fermando i piccoli feudalismi locali, che hanno alimentato clientele infinite per favorire questo o quel politico. Non ci si può affidare a una certa classe dirigente che in Italia, purtroppo, è scadente a tutti i livello. Ma almeno accentrando alcune decisioni si può sperare di avere una visione d’insieme. Occorre inoltre un sistema che tuteli un minimo gli amministratori (come ad esempio sindaci che hanno il terrore di portare avanti appalti perché temono di dover pagare in prima persona eventuali intoppi), premiando un minimo quelli che realizzano cose utili. Difendendoli dalla malaburocrazia. Occorrerebbe creare un struttura unica nazionale che individui le priorità all’interno della gestione collettiva del territorio. Insomma, maggiore trasparenza, leggi più snelle per punire chi sbaglia davvero e un sistema bancario amico delle banche che hanno 100
contratti con pubbliche amministrazioni»7. È necessario, come primo atto, accertare e punire i colpevoli dello spreco, attuare una politica di controllo su tutti i livelli, dallo stato alle regioni, dalle provincie ai comuni fino ai singoli cittadini. Le prime azioni per risolvere, quanto meno in parte, il fenomeno delle opere incompiute sono dunque legate all’attuazione di un nuovo sistema di controllo che eviti il verificarsi di nuovi casi. Sono necessarie delle leggi, delle operazioni di monitoraggio, ma è soprattutto necessaria la diffusione di una nuova responsabilità etica e civica insita tra i cittadini. «I cittadini possono essere al tempo stesso gli interpreti della conoscenza locale e i guardiani della sua conservazione. Possono sapere meglio di chiunque altro perche vale la pena di tenere bene in vista alcuni punti di riferimento, alcune coordinate chiave della loro vita. Possono sapere in che cosa, o fino che punto, il loro paesaggio può sopportare modificazioni senza perdere la propria anima. L’attività del vivere e del conoscere uno spazio è un tipo di attività cognitiva, anzi è il centro stesso dell’attività della mente. Il processo di adattamento di un individuo, di un gruppo e di un luogo genera una forma di territorialità umana che ha a che fare con la sopravvivenza sociale e culturale oltre che fisica con l’apprendimento e la cognizione. Solo se, pur facendo mente locale luogo per luogo, vorremo agganciare le singole percezioni a una visione più ampia e garantita, legata a un sicuro sistema di valori»8. Controllo e monitoraggio rappresentano operazioni fondamentali e necessarie ma si presentano soltanto come la fase zero. Risulta infatti
necessario individuare strategie e soluzioni in grado di proporre interventi adeguati, capaci di ridare nuovo significati alle opere incompiute, ridare dignità ai paesaggi interrotti che ne sono stati la conseguenza. «Nessuna operazione è esclusa, dallo spostamento degli insediamenti alla demolizione, dagli accorpamenti alle separazioni e alla densificazione, compreso il ripristino dei luoghi originari. Tutto ciò è potenzialmente agevolato dalla tipologia costruttiva dei mai finiti, spesso riconducibili a scheletri Dom-ino, e dalla natura imprevista delle aggregazioni urbane che producono, riportabile a modelli informali aperti a essere continuati. Più che una legge e nuovi piani costrittivi e normativi, servono operazioni di apertura e di mediazione, che propongano nuove motivazioni per azioni progettuali, speciali modelli economici, strategie di autocostruzioni, completamenti temporanei o definitivi. Tutto ciò sempre a partire dall’incontro tra le esigenze odierne e attuali con le nuovi condizioni materiali e immateriali prodotte dal mai finito»9. Le soluzioni al problema attraversano dunque più livelli, ognuno legato a determinate strategie. Dalla demolizione al riuso, passando per la valorizzazione, ogni azione deve prevedere un certo livello di sperimentazione. Le parole chiave diventano flessibilità e reversibilità, possibilità di trasformazioni determinate spontaneamente dal fattore tempo. L’architettura contemporanea soffre del suo attuale ritardo epistemologico che deriva dal fatto che essa continua ad attribuire alla funzione figurativa il suo ruolo urbano e civile. Essa non riesce a immaginare se stessa come una realtà astratta, immateriale,
sensoriale, flusso di funzioni e informazioni, che non hanno una relazione diretta con la forma delle strutture, ma con la condizione metropolitana contemporanea, che non è rapportabile a questioni formali, ma piuttosto a questioni fisiologiche, genetiche, prestazionali dell’organismo urbano. L’architettura contemporanea, infatti, attribuisce ancora il proprio fondamento all’attività di building, di costruttrice di spazi visibili, di metafore formali, ancora limitate al singolo edificio e alle singole tipologie, e non coglie l’opportunità di rappresentare una condizione urbana dispersa, introflessa, reversibile, provvisoria, immateriale, ma estremamente reale. «Si tratta dunque di immaginare un’architettura non impegnata a realizzare progetti definitivi, forti e concentrati, tipici della modernità classica, ma piuttosto sottosistemi imperfetti, incompleti, elastici, tipici della modernità debole e diffusa del XXI secolo»10. È necessario operare azioni imprevedibili, frutto di un attenta analisi, caso per caso, dell’oggetto e del contesto sul quale si sta operando. Liberi da leggi e regole severe, liberi da preconcetti assoluti. Le norme urbanistiche e fiscali, i piani particolareggiati e le varie sanatorie hanno dimostrato, negli anni, di fallire nel tentativo di recuperare dagli errori fatti. Risulta allora necessario, e forse l’unica soluzione, il lavoro sul campo, tramite le azioni progettuali, tramite un’attenta lettura delle condizioni locali, tramite la previsione di nuovi usi plausibili. Interventi che non siano necessariamente esagerati, anzi interventi misurati, adeguati, sufficienti a ritrovare il controllo. «Meno enfasi e meno effetti speciali, meno retorica e meno orpelli, 101
meno scarto e meno spreco; meno; meno per scelta o per destino, per tornare a considerare esigenze fondamentali e forme essenziali»11. Le soluzioni passano dunque dalla capacità degli operatori, passano dalla voglia e dall’interesse dell’architettura contemporanea, che nell’incompiuto può trovare un nuovo campo di ricerca e, come già detto, nella sperimentazione una valida strategia di intervento. «Sperimentazione, come suggerito recentemente da Judith Revel, deve essere il nostro metodo: la sperimentazione è precisamente questa questione del campo attuale dei possibili. Ben lontana dall’utopia, che lavora all’interno del già-dato alle cose presenti, essa tenta la scommessa al contempo dell’analisi di ciò che è, e della sua trasformazione radicale. Non si tratta né di ridursi alla mera registrazione della necessità di un mondo subito né di sognare un altro mondo, bensì di cambiare questo mondo qui. La sperimentazione chiama, inoltre, quest’ultima parola, trasformazione»12. In questo ampio quadro analizzato fino ad ora le responsabilità e i compiti per la risoluzione della problematica interessano tutti, cittadini, amministratori, architetti, ingegneri e pianificatori, artisti e visionari. È necessario trasformare la ricerca e le analisi operate in azioni di rigenerazione nella quale tutti siano partecipi. Sotto questo punto di vista, le possibili soluzioni individuate in questa nuovo processo di riconversione sono quattro: monitorare, demolire, valorizzare e riusare. Di seguito ognuna della categorie sarà analizzata nel dettaglio e correlata da esempi nella quale l’azione progettuale è divenuta atto reale di trasformazione. 102
3.1.1 Monitorare La prima soluzione proposta è quello del monitoraggio. Monitorare diventa soluzione indispensabile perché il fenomeno dell’Incompiuto è ormai divenuto occasione più che diffusa sul territorio, numeri spropositati che possono essere gestiti soltanto portando avanti operazioni di mappatura e catalogazione che non risultino soltanto dei tentativi isolati di elenchi rimasti per anni aperti, e paradossalmente, anche quest’ultimi, incompiuti. Le operazioni di monitoraggio possono essere suddivise in due categorie: la prima azione guarda al passato, alle opere incompiute già realizzate, la seconda azione guarda al futuro, interventi atti ad evitare una nuova diffusione di manufatti mai finiti sul territorio. Nel primo caso, quello che riguarda le opere incompiute già diffuse, monitorare significa individuare idonei sistemi di catalogazione, diffusi con severo criterio nelle varie regioni. Monitorare non significa,però,soltanto mappare e catalogare, individuare dove e quante sono le opere incompiute presenti. Monitorare significa scavare fino in fondo, capire come e perché si è arrivati a questo punto, studiare attentamente il fenomeno al fine di evitare un ulteriore sviluppo dello stesso. Le operazioni di monitoraggio, in questo senso, sono già avviate dal 2011 tramite l’istituzione dell’Anagrafe delle Opere pubbliche Incompiute di interesse nazionale con il DL 6 dicembre 2011, n.201, divenuto però operativo solo due anni dopo tramite l’emanazione del DL 13 marzo 2013, n.42 da parte del Ministero delle Infrastrutture
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e dei Trasporti (MIT). L’ultimo censimento pubblicato dal SIMOI (Sistema Informativo Monitoraggio Opere Incompiute) conta 868 incompiute, il 25% in più di quelle messe in fila nel precedente censimento. Il netto incremento constatato è simbolo di una gestione ancora poco efficace della questione. Ci si ritrova spesso nel caso di piccole amministrazione che decidono di non pubblicare le proprie opere incompiute perché costrette successivamente a respingere le accuse dei media. Decidere di denunciare un’opera incompiuta significa spesso diventare la regina di turno delle incompiute, essere accusati di sprechi causati, chissà da chi, anche più di 20 anni fa. Ecco che spesso si decide di non denunciare, ecco perché i dati pubblicati dal SIMOI sono inattendibili. Ecco perché è necessario accompagnare alle operazioni di mappatura operazioni che mirino alla sensibilizzazione e all’informazione sulla tematica. Nascondere un’incompiuta non può e non deve essere la soluzione, e per questo tutti devono essere a conoscenza del fenomeno, dagli operatori delle amministrazione ai singoli cittadini. Sarebbe inoltre probabilmente doveroso instituire delle premialità per chi denuncia, premialità da destinare al recupero delle stesse opere incompiute. D’altronde, come più volte detto, la fase di mappatura e catalogazione è il prima fase prevista per il recupero dei manufatti mai finiti. La seconda categoria delle operazioni di monitoraggio guarda invece a una più innovativa ed efficace gestione dei nuovi processi edilizi, evitando la nascita di nuove opere incompiute. Il monitoraggio, in questo senso, deve essere inteso come un controllo 104
preventivo e continuativo imposto sulle opere pubbliche e sulla gestione delle totalità delle fasi realizzate, dai bandi di concorso alle fasi di studio preliminare e di progettazione, dall’ottenimento dei finanziamenti alle fasi di costruzione e collaudo. «Un controllo iniziale sulla vera utilità dell’opera, sugli studi e le verifiche necessarie da effettuare prima della stesura di un progetto, per determinare l’effettiva fattibilità in quel preciso punto, dell’opera che si vuole realizzare. Un monitoraggio sulle opere incompiute impostato come quello dell’Agenda 21, un programma d’azione che andrebbe a costituire una sorta di manuale su come agire per non far diventare l’opera un’incompiuta»13. Interventi intesi come controllo dello stato di avanzamento dell’opera, sin dalle prime fasi, imponendo regole e scadenze ben precise da rispettare categoricamente. A queste operazioni è possibile legare l’istituzione di piattaforme web visibili e accessibili da tutti, professionisti, tecnici, enti, istituzioni e singoli cittadini, una gestione trasparente delle risorse pubbliche dove tutti possano praticare il loro interesse nella corretta gestione delle fasi realizzative. Si tratta in ogni caso di operazioni che, in un’Italia in cui la burocrazia crea spesso percorsi ad ostacoli, siano in grado viceversa di alleggerire l’intero sistema, studiando percorsi di azione innovativi che puntino alla qualità. Azioni di monitoraggio di questo tipo devono in ogni caso guardare non solo alle costruzioni ex novo ma anche al caso degli interventi di riqualificazione e cambiamento di destinazione d’uso per edifici esistenti. Monitorare significa dunque che politica, pubbliche amministrazioni, ma anche i cittadini
acquisiscano nuove responsabilità e coscienza per una corretta gestione del territorio, significa essere in grado di attuare nuovi piani strategici capaci di recuperare i danni operati da troppi anni di sprechi, evitandone lo sviluppo di nuovi. Non sono più giustificabili intoppi dovuti alla scarsa attenzione delle regole imposte e alla mancata analisi delle specificità dei luoghi. Lo sperpero di risorse e denaro pubblico non sono più azioni ammesse in un’Italia che da troppi produce territori grigi e desolati, dimenticandosi della sua storica bellezza.
3.1.2 Demolire La seconda soluzione proposta è quella della demolizione. Demolire non perché è la soluzione più semplice, né tanto meno la più economica. Demolire può rappresentare però, in taluni casi, una scelta coraggiosa e onesta. «Occorre avere il coraggio di demolire le infrastrutture che non servono più o che sono rimaste incompiute. Certo questo ha un costo: ma un governo che vuole dare il segnale del cambiamento vero del paese deve avere questo coraggio. La costruzione selvaggia di infrastrutture inutili è stata un danno enorme al Paese e ha avuto un costo elevato non solo da un punto di vista strettamente economico ma ha pesato, e pesa ancora oggi, sulla qualità morale di questa nostra amata Italia. Un bambino che cresce vedendo davanti a sé opere abbandonate e cemento inutile non avrà mai una visione civica profonda del suo Paese»14.
L’Italia del malaffare ha costruito, negli anni, ovunque, disattendendo sistematicamente i vincoli idrogeologici e paesaggistici e gli stessi rischi sismici, di tutto il territorio. Molto spesso l’azione necessaria non può che essere la demolizione dei manufatti, almeno di quelli abusivi, per liberare le aree e renderle disponibili a progetti alternativi, ecocompatibili e di utilità pubblica. Demolire significa, dunque, dare uno schiaffo morale a chi ha gettato milioni su opere inutili, significa soprattutto ridare dignità e colore a paesaggi che per anni sono stati occupati impropriamente da colate di cemento. La demolizione si presenta come la soluzione più immediata che viene in mente quando ci si chiede che cosa farsene delle opere incompiute. Ma non è così. Demolire non è un’operazione semplice e neanche meno dispendiosa di altre soluzioni. Un territorio compromesso da un opera incompiuta resterà compromesso anche dopo l’abbattimento di questo. Perché è difficile ripristinare le situazioni esistenti in un luogo prima dell’apertura e l’avvio di un cantiere. È per questo motivo che la demolizione deve essere individuata come soluzione ultima, bisogna sempre valutare operazioni di valorizzazione e riuso che possano creare fenomeni di rigenerazione per l’incompiuto e l’area in cui è inserita. La demolizione diventa atto dovuto nei casi in cui si ha una forte compromissione del paesaggio, nei casi in cui bisogna recuperare l’errore fatto dell’uomo ripristinando luoghi e spazi che hanno il diritto di essere belli così come sono, senza il grigio che li ha sfregiato. Ma come si fa a demolire un’immobile? La strada è ovviamente molto più semplice nel 105
caso delle opere private, ancora di più se si tratta di abusi edilizi. In questo caso è la stessa legge a prevedere la demolizione. Dopo 90 giorni dalla scoperta dell’abuso, sia l’immobile sia l’area nella quale è stato edificato diventano proprietà del comune, che deve provvedere, a meno di un interesse per la riqualificazione per uso sociale, all’abbattimento a spese dei titolari dell’abuso. L’intervento di demolizione di norma viene affidato, anche con semplice trattativa privata, a un’impresa. In taluni casi si procede con mezzi e a spese della pubblica amministrazione e nei casi in cui il Comune è a sua volta inadempiente, subentra la Regione che allerta anche l’autorità giudiziaria per verificare l’esistenza di eventuali reati. La procedure è differente nel caso in cui la demolizione sia predisposta tramite sentenza. L’esecuzione, in questo caso, deve essere seguita dal pubblico ministero che entra in contatto con l’amministrazione comunale solo al momento finale dell’esecuzione della condanna. I casi di abbattimento per sentenza sono però un’esigua minoranza poiché spesso i tempi processuali sono lunghi e conseguentemente il reato va in prescrizione. A questi fattori si aggiunge, in molti casi, l’effettiva volontà di reprimere i reati edilizi con i Comuni che non danno seguito alle ordinanze, adducendo a problemi burocratici di vario tipo o, più spesso, alla mancanza di fondi per coprire le spese di demolizione. Nella migliore delle ipotesi si tratta di sindaci che non vogliono perdere il consenso elettorale, altri, invece, sono addirittura interessati agli affari legati alla speculazione edilizia. 106
Se per un’opera privata la strada della demolizione è relativamente semplice, non si può dire lo stesso nel caso delle opere pubbliche dove la questione è parecchio più complicata. Anche in questo caso ci si imbatte con una certa indifferenza da parte delle amministrazioni che vogliono evitare l’uso di risorse per operazioni di demolizione. È per questo che le opere di abbattimento sono spesso promosse da associazioni come Legambiente, attive da anni per i diritti e la salvaguardia del territorio. Le opere pubbliche, inoltre, se pur incompiute sono comunque realizzate con soldi e risorse pubbliche ed è per questo che ci si aspetti da esse un riutilizzazione finalizzata alla pubblica utilità. Pensare alla demolizione, in questo senso, significa utilizzare nuovamente soldi pubblici per le operazioni di abbattimento, risorse che potrebbero invece essere investite in progetti di recupero e riqualificazione, atti a ripristinare il manufatto, rendendolo utile alla popolazione e alle comunità locali che vi abitano intorno. La demolizione si presenta dunque come una soluzione tanto onesta quanto costosa, in termini oltre che monetari anche di carattere amministrativo e decisionale. Anche la demolizione così come qualsiasi altro intervento necessita di un approccio progettuale che guardi non soltanto all’atto finale ma a tutti gli aspetti ad esso connesso. È necessaria un’attenta valutazione dell’opera oggetto di demolizione ma anche e soprattutto del luogo nella quale si inserisce, al fine di operare una corretta previsione delle prospettive di quel luogo, con o senza demolizione avvenuta. Di seguito verranno presentati dei casi in cui
la demolizione diventa atto dovuto, scelta inevitabile per riparare ad inopportune azioni dall’uomo, intervento necessario per ristabilire l’equilibrio perso dal paesaggio. Amalfitana Hotel - Fuenti L’Hotel Fuenti15 (il cui vero nome sarebbe dovuto essere Amalfitana Hotel), è stato uno dei più noti edifici abusivi italiani. L’hotel sorgeva a Vietri sul Mare, in località Fuenti sulla costiera Amalfitana arroccato su una scogliera di tufo a picco sul mare in cui sorgeva una cava di pietra calcarea, a poca distanza dalla storica Torre di Bassano. La sua posizione e le sue immani dimensioni portarono all’attribuzione, da parte di Legambiente, del soprannome di ecomostro, definizione poi estesa ad altri edifici dalle caratteristiche simili ed entrata nel gergo comune italiano. Oltre ad essere stato il primo edificio ad essere definito ecomostro, fu anche il primo ad essere, anche se parzialmente, abbattuto. L’Hotel Fuenti venne edificato a partire dal 1968 per volere della famiglia Mazzitelli. La concessione iniziale riguardava una struttura alberghiera da 34 000 metri cubi di cemento, un edificio lungo 150 metri e alto 7 piani, con 2000 metri di superficie calpestabile. Nonostante l’area su cui sarebbe dovuto sorgere l’edificio fosse soggetta a vincolo ambientale, la proprietà dell’albergo riuscì ad ottenere la licenza edilizia comunale e il nulla-osta paesaggistico del sovrintendente regionale. La costruzione durò tre anni per concludersi nel 1971, e fu accompagnata da aspre critiche e da azioni legali per impedire la distruzione della zona di scogliera su
cui si arroccava la costruzione. Durante dei sopralluoghi, furono rilevate forti differenze tra il progetto depositato e l’effettiva costruzione. Questi abusi portarono dapprima alla revoca del nulla osta regionale, ed in seguito, ma solo nel 1977, alla perdita della licenza comunale. La regione Campania già nel 1980 si pronunciò in favore dell’abbattimento ma passarono anni, ricorsi e vane richieste di condono prima di avviare le operazioni di demolizione. Queste si resero possibili solo grazie all’introduzione della legge 426/98 la quale rendeva più facili le procedure atte a concludere in tempi brevi le opere di demolizione degli edifici abusivi in aree protette, dando al ministro la possibilità di procedere direttamente, se necessario, scavalcando le competenze delle autorità locali, facendo uso dei mezzi dell’esercito e garantendo un consistente fondo per il pagamento diretto dei lavori necessari. Va rilevato che il disegno di legge era stato stilato appositamente per risolvere il caso del Fuenti e per la costiera amalfitana, ed era stato supportato da diverse associazioni ambientaliste per limitare il dilagare degli abusi nei parchi naturali ed archeologici. I lavori di demolizione cominciarono il 23 aprile 1999 e si protrassero (intervallati da un ulteriore ricorso al TAR) fino a giugno con la demolizione dell’Ala Est, quella più visibile dal mare. Tuttavia, ci si limitò ad un intervento parziale che lasciò una parte delle strutture cementizie ancora erette e soprattutto l’intervento risparmiò il pesante basamento della struttura. Nonostante tutto, l’area rimase di proprietà della famiglia Mazzitelli, che approfittando della permanenza del basamento avanzò un primo progetto di 107
Amalfitana Hotel - Fuenti
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Ecomostro della Scala dei Turchi - Realmonte
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Demolizione edifici Zona Treppiedi Nord - Modica
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sfruttamento dell’area tramite la costruzione di diverse strutture, più piccole, con un teatro, una piazza, un bar, un ristorante, una palestra con piscina, negozi e un piccolo albergo. Nel 2004 l’area è stata destinata a parco, e sulle macerie la società Turismo Internazionale (di proprietà di Maria Teresa Mazzitelli) ha costruito un Giardino mediterraneo. È stato ridotto di un terzo il volume cementificato, sono stati impiantati alberi, vigneti, uno stabilimento balneare e un piccolo porticciolo turistico, oltre ad altri servizi aggiuntivi tra cui un ristorante e un parcheggio. La ricostruzione, oltre ad essere in linea con le normative vigenti, prevede un’edificazione decisamente meno invasiva e si propone più armonizzata rispetto al contesto naturale in cui si trova. L’intervento è stato tuttavia criticato dalle associazioni ambientaliste. Ecomostro Scala dei Turchi - Realmonte L’ecomostro della Scala dei Turchi era un gigante di cemento costruito nel 1989 a due passi dalla splendida scogliera di marna bianca di Realmonte, lungo la costa della provincia di Agrigento. La struttura venne realizzata da un gruppo di imprenditori che avevano come obiettivo quello di realizzare un complesso alberghiero di lusso. Le prime denunce furono presentate da Legambiente già nel 1990 e negli anni successivi ci fu prima il blocco dei lavori, poi un’inchiesta giudiziaria che è culminata con l’arresto di diversi ex amministratori. Le varie vicende che hanno portato alla demolizione del manufatto si completano nel giugno del 2013, dopo oltre venti anni nella quale quello scheletro ha deturpato uno tra
i paesaggi più belli della costa meridionale della Sicilia. L’iter amministrativo si era in realtà concluso nel marzo del 2011 con il no definitivo alla richiesta di sanatoria del fabbricato e la richiesta di una immediata demolizione. Ma quel provvedimento rimase nei cassetti per un anno e mezzo fino a quando, nell’ottobre del 2012, non è intervenuta la Procura di Agrigento che ha ordinato l’abbattimento minacciando, in caso di ulteriori ritardi, conseguenze penali anche per gli amministratori. La demolizione dello scheletro diventa il simbolo di tanti anni di battaglia perché, come sostiene il presidente regionale di Legambiente Mimmo Fontana, oltre a restituire tutta la sua bellezza a una spiaggia meravigliosa, quanto accaduto oggi è sintomo di una cultura che, piano piano, sta finalmente cambiando. L’abbattimento di questa struttura incompleta e abusiva è diventata così simbolo della difesa del patrimonio naturale e paesaggistico, vero motore di sviluppo, se non vilipeso e abbandonato, del nostro Paese dove ancora troppi scempi deturpano le coste e più in generale il paesaggio. Strutture edilizie in Zona Treppiedi Nord Modica Il terzo esempio presentato è quello di tre palazzi edificati nella Zona Treppiedi Nord di Modica, cittadina in provincia di Ragusa. I tre edifici furono costruiti durante il periodo di incontrollata crescita edilizia degli anni ’70 dall’istituto Autonomo Case Popolari. L’abbattimento avviene invece nel settembre del 2011 tramite l’adozione di cariche esplosive che in meno di quattro secondi hanno buttato 111
giù gli ecomostri. L’aspetto più interessante e curioso che si lega a questo intervento di demolizione è come questo sia diventato occasione per un lavoro artistico portato avanti da Loredana Longo16, artista siciliana operante sia in Italia che all’estero. Demolition#1 Squatter è il nome del progetto, inserito nella più ampia serie Explosion, da lei firmato. L’artista siciliana affronta da alcuni anni il tema che lei stessa definisce l’estetica della distruzione, attraverso cui ha voluto riconsiderare la visione estetica classica, partendo dal presupposto che l’esposizione mediatica a eventi come le guerre e le devastazioni abbiano mutato la nostra percezione delle cose. La demolizione dell’opera incompiuta viene trasformata da mera operazione edilizia e distruttiva a evento pubblico collettivo e forse anche costruttivo. Il progetto dell’artista ha previsto la chiusura di una piccola parte di spazio localizzata al secondo piano di uno dei ruderi, simulando una costruzione abusiva da parte di un vagabondo, un intruso, uno squatter appunto. I materiali utilizzati per allestire quest’angolo, cartoni, stoffe, plastiche, finestre rotte, materassi, hanno avuto lo scopo di dare l’idea che qualcuno si sia impadronito in modo illecito di questa parte dell’edificio per farne la sua momentanea abitazione. A questo si legano le riprese video realizzate prima, durante e dopo il crollo. «La registrazione del crollo dello scheletro è solo una parte di un progetto e di una sequenza di azioni e operazioni che si muovono nel tempo e intrecciano pensiero e materia, quello che c’è e quello che non ci sarà più, in un vero processo di trasformazione»17. Il progetto dell’artista passa dalla visione, cioè dall’attribuzione di un 112
valore libero di qualsiasi pregiudizi a un edificio mai finito e mai abituato, all’azione, attraverso l’occupazione di una parte dello scheletro, fino alla registrazione, atto conclusivo, dove la demolizione diventa la testimonianza ultima di un passaggio di stato, materia di costruzione per altro. La registrazione e gli scatti diventano strumenti per il fissaggio di un evento unico e non ripetibile. Il suo lavoro non si pone infatti come modello da imitare, in quanto avvenuto in seguito ad un abbattimento diventa irriproducibile, autentico, e in quanto tale opera d’arte. Il suo valore più importante risiede nell’essere riuscita a cogliere in qualcosa di tecnicamente brutto, inutile e in stato di morte un materiale potenziale, da trasformare e fare diventare altro, un’opera d’arte, appunto.
3.1.3 Valorizzare La terza soluzione proposta è quella della valorizzazione. La valorizzazione si affianca in un certo senso al riuso perché come quest’ultimo mira alla riattivazione dell’opera incompiuta ma, a differenza di esso, si distingue per le modalità di intervento. Con valorizzazione si fa allora riferimento, in questo ambito, ad interventi che non puntino a stravolgere le caratteristiche formali dell’Incompiuto, non si parla di azioni che inevitabilmente necessitano di un certo consumo di denaro e/o dell’allestimento di cantieri interminabili. «Per leggere, capire e di conseguenza progettare con lo scarto, con i luoghi rifiutati, marginali, abbandonati, è necessario cercare
tra le pieghe del sapere, accogliere sguardi trasversali che ragionano nel campo dell’arte o delle scienza»18. Valorizzare significa, dunque, vedere le opere incompiute con occhi diversi, riuscire a leggerne tratti distintivi, adoperare processi di astrazione che diano un senso nuovi a tali contesti, d’altronde basta una ricollocazione a modificare il ruolo dell’oggetto in termini paradossali restituendone nuove significazioni. «Il mai finito, i suoi modi di manifestarsi, le sue motivazioni e le sue proiezioni nel futuro sono oggi oggetto di interesse da parte di chi è in grado, in diverse forme, di trasformare questa materia in riflessione. Per alcuni di loro il mai finito è ispiratore di pratiche artistiche, sia in concreto su singoli oggetti mai finiti esistenti, sia come fonte di ispirazione per operazioni ex novo. Sembra paradossale come dalla necessità dalla quale derivano molte costruzioni incomplete, si passi a elaborazioni artistiche, intorno agli stessi oggetti. Ma è forse il disinteresse dell’arte, con la sua intrinseca funzione rivelatrice e anticipatoria, a contribuire a farci vedere i nuovi paesaggi del mai finito e continuare a metterci in confronto con loro. Alcune di queste interpretazioni escono dai confini specifici delle loro arti, per diventare arte sociale, direbbe Beuys, con una forte componente critica, che mentre interpreta denuncia, sottolinea, rende evidente ciò che si è stati in grado di produrre in termini di degrado, sperpero di denaro pubblico, ma anche di possibilità ancora aperte, nonostante tutto»19. Opere incompiute, luoghi e manufatti degradati, spazi abbandonati dalla pianificazione. In attesa della determinazione
di un nuovo ruolo, divengono oggetto spontaneo di sperimentazioni dell’arte, dell’architettura e del planning. In questo senso l’arte gioca un ruolo fondamentale perché con la sua capacità di nascondere o svelare nuovi significati, è in grado metterci a confronto con le opere incompiute, offrendoci visioni diverse delle stesse. «Sebbene contaminata quotidianamente dai media, dallo spettacolo e dalla routine, l’arte può essere uno degli ultimi canali di comunicazione diretta (non mediata). L’arte è in grado di approfondire argomenti che sono o stanno diventando dei nuovi tabù nella società contemporanea. L’arte può essere uno spazio di incontro all’incrocio di ambiti, discipline e temi diversi che nella vita reale non si incontrerebbero mai, ne trarrebbero beneficio gli uni dagli altri»20. La valorizzazione, qui intesa, passa attraverso l’atto artistico in grado di rivelare significati nascosti, anticipare nuove funzioni d’uso, creare rigenerazione, spontaneamente, libera da regole e pressioni. La valorizzazione e la rigenerazione passano attraverso l’arte e un esempio è la Farm Cultural Park21, galleria d’arte e residenza per artisti situata a Favara in provincia di Agrigento. Fondata nel giugno del 2010 dal notaio Andrea Bartoli e dalla moglie l’avvocato Florinda Saieva, sorge all’interno del Cortile Bentivegna, un aggregato a sua volta costituito da sette piccoli cortili che ospitano piccoli palazzi di matrice araba, situati nei pressi del centro storico di Favara. Il progetto Farm si mostra in poco tempo vincente, illuminante esempio di come l’arte, le idee, e la voglia di cambiare possano in poco tempo trasformare 113
Farm Cultural Park - Favara
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un borgo abbondonato e degradato in una delle maggiori attrazioni turistiche di un’intera regione. Le pratiche di sperimentazione artistica sono sempre più diffuse e abbracciano vari campi, dalla fotografia alla produzione cinematografica, dalle arti visive alle applicazioni. L’incompiuto tramite i progetti portati avanti da Alterazioni Video con il Parco Archeologico dell’Incompiuto si è reso già protagonista attiva di un nuovo processo di valorizzazione. Si tratta di scovare nell’incompiuto le parti mancanti, senza la paura di confrontarsi con quel colore grigio e quella sconfortante storia che li caratterizza. Liberarsi dai pregiudizi e provare a dare un senso nuovo a queste opere. Di seguito vengono proposti tre progetti nella quale tramite minime operazioni progettuali è stato possibile riconvertire le incompiute in nuovi spazi pubblici. L’incompiuto diventa un’occasione per la realizzazione di uno nuovo progetto. Non si palesa un tentativo di nascondere lo scheletro di queste opere, viceversa, questo diventa tema caratterizzante, ritrovando armonia con il contesto e con gli spazi che ospita. El faro de oriente Localizzato a Iztapalapa, una delle aree più povere e controverse di Città del Messico, l’edificio viene costruito negli anni novanta come sede distaccata degli uffici governativi ma ben presto viene abbandonato conservando con sé lo stato di opera incompiuta. Non essendo completa, l’intera area si trasformò
ben presto in una zona degradata e di discarica. È nel 2000 che nasce El faro de Oriente, un’istituzione del Dipartimento della Cultura del Governo della Città del Messico, grazie all’iniziativa di un gruppo di intellettuali che propose alla nuova amministrazione un progetto di recupero e bonifica dell’intera area e la trasformazione dell’edificio in un centro di produzione artistica per la comunità. Per coinvolgere la popolazione il Dipartimento propose il progetto di un murales lungo il perimetro dell’edificio, coordinato dal gruppo Neza Arte Nel. La realizzazione del murales ha dato il via alla rifunzionalizzazione e l’uso dello spazio che in breve tempo è diventato un luogo di incontro e di produzione creativa. L’edificio è oggi dotato di una gallerie d’arte, una biblioteca, sale giochi, cineforum e un forum panoramico per le arti dello spettacolo e attività culturali; Inoltre offre workshop gratuiti su arti e mestieri. Il progetto culturale è diventato, nel caso del Faro, un dispositivo per dare centralità all’area marginale, e contemporaneamente ha permesso agli abitanti di Iztapalapa di esprimersi in modo artistico, dando loro l’opportunità di apprendere mestieri, di formarsi e di inserirsi in circuiti artigianali, artistici e culturali. E’ una opera di trasformazione architettonica e sociale avvenuta attraverso un processo graduale. Viadotto dei presidenti Il progetto tenta il recupero del viadotto dei presidenti di Roma, una delle tante opere incompiute italiane, con l’intento di provocare 115
una vera e propria rigenerazione urbana. Un gruppo di sei giovani architetti, conosciuti come G124, sotto la guida di Renzo Piano si sono dedicati a trasformare gli spazi vuoti, trascurati e dimenticati, per stimolare l’economia locale attraverso il design. L’iniziativa ha portato il gruppo a trasformare un’area abbandonata sotto un cavalcavia nella zona nord di Roma. Il progetto, intitolato “Sotto il viadotto”, fa uso di materiali riciclati per creare uno spazio invitante per la comunità. Contenitori verdi ricevono gli eventi organizzati nella zona, offrendo spazi più laboriosi per i residenti locali. Inoltre, l’area è punteggiata da mobili realizzati con pneumatici riciclati, e con varie installazioni artistiche realizzate, con materiali trovati. Il riutilizzo rende lo spazio economico, producendo un carattere distinto solo quando si usano materiali indossati per nuove applicazioni. L’approccio del G124 è quello di lavorare a stretto contatto con le organizzazioni locali e le autorità pubbliche, ricevendo feedback per meglio adattare i loro progetti alle esigenze delle diverse comunità. La riqualificazione è ad uso temporaneo come stimolo per la rigenerazione di uno spazio degradato. Palais de Tokyo Costruito nel 1937 per l’esposizione nazionale, Palais de Tokyo è un centro di arte contemporanea ubicato al numero 13 di avenue du Président-Wilson nel XVI di Parigi. Dal punto di vista architettonico il vecchio edificio sembra pervaso dal pathos del linguaggio propagandistico dell’epoca, 116
comune tanto sia all’Italia fascista che alla Russia comunista. L’intervento oggetto di interesse è il restauro condotto tra il 2002 e il 2012 dallo studio parigino Lacaton & Vassal. Lontani dalla ricerca di una forma di perfezione estetica e dall’architettura-spettacolo spesso ricercata da altri musei in giro per il mondo, Lacaton & Vassal hanno saputo riattivare le qualità originarie di un edificio per molto tempo poco amato. L’intervento ha saputo gettare uno sguardo nuovo, privo di pregiudizi, sulla complessità, sulle incongruenze della sua architettura e sulle grandi potenzialità di ri-utilizzo. Restituendo i volumi del Palazzo alla loro trasparenza originaria, ha rivelato allo stesso tempo l’ampiezza e la complessità labirintica dei sui spazi. Il progetto segna la ricerca del senso del “non finire”, concetto ormai più che diffuso nell’architettura pubblica. Gli spazi disegnati da i due architetti francesi sono conseguenza di questa architettura non finita, non sono statici ma segnati da oggetti mobili. «Il progetto mette a nudo la propria intromissione temporanea in uno spazio già esistente, cha ha subito molteplici cambiamenti nel tempo; e in un seconda battuta annulla il conflitto secolare tra opera e museo»22. L’intervento realizzato da Lacaton & Vassal si presenta come brillante esempio di come l’incompiuto può, in taluni casi, esistere così com’è, nella forma in cui ci appare. Può essere sufficiente realizzare piccole operazioni di completamento e adeguate riorganizzazioni dello spazio per ri-attivare luoghi in attesa di ri-significazioni.
El Faro de Oriente - CittĂ del Messico
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Viadotto dei Presidenti - Roma
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Palais de Tokyo - Parigi
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3.1.4 Riusare Quarta e ultima soluzione proposta è quella del riuso. Riusare perché riusare significa accettare la sfida, cogliere nell’Incompiuto i segni di un passato che ha bisogno di essere riscritto. Significa essere coscienti dell’enorme danno fatto al paesaggio italiano da sessant’anni ad oggi. Riusare significa rendere le opere incompiute utili e fruibili per la comunità, riuscire a determinarne una nuova integrazione con il paesaggio che le circonda. Riusare significa evitare consumo di suolo e risorse altrove, significa decidere di non abbattere accettando una nuova collaborazione con l’incompiuto che proprio attraverso l’azione progettuale si rende attiva. «Spesso, la decisione di non abbattere, quando pure è possibile, e ricostruire ex-novo l’edificio viene condizionata da logiche economiche e non da una volontà di confronto con l’esistente. Presa la decisione di mantenere l’oggetto, questo, si legge, diventa fonte di riflessione: non si tratta semplicemente di concepire un’architettura isolata ma di innescare e costruire connessioni, di sistematizzare lo spazio trovato colmandone le lacune e sfruttandone le opportunità. Lo scarto quindi si fa dispositivo di implementazione dell’urbano e contemporaneamente materia per nuove architetture senza implicare revisione linguistiche, confermandosi anzi proprio come residuo, semplicemente reimmesso nello spazio come anamnesi»23. Il tema del riuso, interesse di luoghi abbandonati, manufatti e centri storici ma anche di periferie, non è certo un forma di operare di recente diffusione. 120
Dopo la frenesia da intasamento, con eccessivo consumo di suolo degli anni ‘80 è arrivata la preoccupazione dello smaltimento, cosa fare con il vecchio, come integrarlo con il nuovo, come riutilizzarlo, come riciclarlo. «Il riuso è una via eticamente, politicamente ed ecologicamente sostenibile. La varietà di condizioni giuridiche e materiali in cui versa il nostro patrimonio costruito abbandonato obbligano ad una riflessione articolata e puntuale. Per la proprietà pubblica è determinante la capacità delle amministrazioni locali di saper leggere il proprio territorio e mettere in relazione energie latenti nel tessuto sociale con le occasioni di rigenerazione urbana, il riuso temporaneo ad esempio ha solitamente un basso profilo commerciale, e può alimentare nicchie di mercato sperimentali o marginali in cerca di affermazione. Investimenti più importanti possono invece essere erogati in project financing con partner privati. Parte del riuso, invece, non può che essere ispirato da una logica alternativa a quella della crescita economica, incorporando nelle scelte valutazioni del tipo ecologico e sociale a lungo termine. Il riuso può consistere in una crescita in termini economici ma un evoluzione delle coscienze nei riguardi del proprio territorio e del benessere sociale»24. Il riuso si pone dunque come una delle forme più sofisticate e attuali della ricerca espressiva degli architetti contemporanei. L’idea del riciclo appare come una specie di forma omeopatica della modernità, capace di assorbire il passato, il contesto, le identità preesistenti senza imitarle e senza lasciarsene sopraffare, andando tuttavia verso il futuro.
Riusare nell’ambito dell’incompiuto significa dunque dare nuovi stimoli, nuove forme di espressione all’architettura contemporanea. Significa riuscire a leggere il fascino del mai finito, il quale tramite l’azione progettuale può rinnovarsi, diventando nuovamente (in) completo, completandosi volta per volta. Riusare non può e non deve essere considerato soltanto un concetto, deve diventare pratica comune, azione in grado di leggere i contesti desolati che accomunano le opere incompiute. È necessaria un’analisi a 360° perché se le opere incompiute conservano caratteri molto simili tra loro, ognuna di loro ha bisogno di una lettura più intima e personale, una lettura che riesca a determinare le opportunità offerte da quella incompiuta, in grado di cogliere connessioni, potenzialità inespresse, scenari nascosti dietro ferri arrugginiti e masse di cemento grigio e invecchiato. Verrà in seguito proposta un’azione teorica e strategica, che non pretendere di essere modus operandi assoluto, ma si presenta come riflessione comune, azione progettuale in grado di leggere il carattere principale dell’incompiuto, cioè il suo stato di mai finito, con l’intenzione di esasperarlo, renderlo vivo e attivo, espressione di un linguaggio comune. Progettare stati di (In)completezza diventa proposta progettuale, possibile soluzione per il riuso delle opere incompiute. Di seguito vengono presentati tre progetti esemplificativi di come l’incompiuto diventa suggestione per l’azione progettuale, occasione per il riuso, potenzialità trasformabile in progetto reale, spazio rigenerato, fruibile e utilizzabile dalla comunità.
Scalo di San Cristofero Primo esempio proposto è il recupero dello Scalo San Cristoforo a Milano su progetto dello Studio Albori. La struttura progettata da Aldo Rossi e Gianni Braghieri come ampliamento dello scalo di San Cristoforo è un’opera incompiuta, mai completata ed abbandonata da circa venti anni. Il progetto prevede la rifunzionalizzazione a complesso residenziale, favorito dalla vicinanza ad altre aree urbane con alta densità abitativa e dalle linee di trasporto pubblico. Alla base dell’intervento vi è l’aspetto sostenibile in quanto viene prevista la riutilizzazione della struttura esistente e l’uso di scarti della stessa per un risparmio di risorse costruttive ed energetiche. L’incremento degli orti e dei giardini che lo circondano, così come l’utilizzo di energie rinnovabili (solare termica, fotovoltaico e pompe geotermiche) avvicinano l’opera verso i cosiddetti edifici a bilancio energetico nullo. Dal punto di vista architettonico, la forma generale viene mantenuta ma al suo in-terno vengono inscatolate diverse forme e colori che rappresentano la diversità delle possibili tipologie residenziali con l’intento di rispondere alle diverse necessità degli abitanti e alle eventuali future modifiche. Ogni casa è differente l’una dall’altra e ognuna interagisce con l’ambiente e la struttura preesistente in maniera diversa a seconda della posizione, dell’orientamento e dell’affaccio. Il plastico presentato rende più percepibile l’accostamento dei vari componenti all’interno dello scheletro abbandonato. Inoltre l’approccio è legato al regolamento e alla legislazione prevedendo l’abbattimento 121
Stazione di San Cristoforo - Progetto di riqualificazione Studio Albori
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Squelettes Ă habiter - Coloco
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Vakko Fashion and Media Center - Istanbul
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di barriere architettoniche e non prevede l’utilizzo dell’automobile come mezzo di trasporto privato quindi dei parcheggi residenziali i quali vengono sostituiti con parcheggi per biciclette. Nell’edificio trovano posto anche laboratori, un asilo, un bar, un ostello e un piccolo teatro. Squelettes à habiter Squelettes à habiter è un progetto che nasce dalle ricerche e dalle sperimentazioni dello studio di progettazione Coloco25, il quale ha cercato di individuare e sviluppare sette prototipi di habitat collettivo nella quale instaurare progetti di costruzione collaborativa. Fondato nel 1999, Coloco è un gruppo architettonico francese che si concentra sull’identificazione e sul riuso di strutture e scheletri abbandonati. Il collettivo offre, tramite i progetti sviluppati, una reintegrazione urbana di queste strutture abbandonate attraverso l’autocostruzione da parte degli abitanti, spesso senza tetto, all’interno delle stesse strutture, per permettere costi di accesso minimi alle abitazioni. Il prototipo è stato progettato per i centri delle grandi città dell’America Latina. Esso obbedisce alle norme in vigore nella legislazione brasiliana che per l’edilizia sociale è di 32 metri quadrati per unità abitativa. I livelli intermedi possono essere realizzati consentendo un raddoppio dello spazio abitativo. La struttura è in cemento armato. Il sistema incorpora un sistema di riciclo delle acque grigie, della pioggia e un circuito di riscaldamento solare tubolare. Squelettes
à habitar si pone dunque come progetto fondatore del collettivo. Esplorazione di edifici incompiuti e/o abbandonati, cornici scultoree, espressione del ready-made urbano, oggetti spesso recuperati spontaneamente da una vegetazione sorprendente. Questi edifici non obbediscono alle categorie classiche, diventano occasione di pratiche marginali, a volte anche dimore di fortuna. Parendo da queste basi, Coloco sviluppa una lunga serie di ricerche, azioni e sperimentazioni progettuali che invita spontaneamente ad abitare. Vakko Fashion and Media Center Altro esempio proposto è il Vakko Fashion and Media Center di Istanbul, progettato dallo studio di-REX Architecture P.C. e realizzato nel 2010. Il progetto mostra una possibile soluzione al riuso di un edificio incompiuto. La struttura, pensata originariamente come un hotel, cambia nella forma e nella funzione, al fine di ottimizzarne i tempi di realizzazione e l’uso del suolo. Travi e pilastri in calcestruzzo già esistenti non vengono abbattuti, al contrario la struttura viene mantenuta e rafforzata, integrandola nel nuovo pro-getto con una nuova struttura in acciaio e vetro. Il vuoto centrale della vecchia struttura è indipendente dal nuovo ed è racchiuso da una parete vetrata perimetrale che conferisce la forma scatolare. Il progetto prevede la sede centrale per una casa di moda turca, con uffici, showroom, sale conferenze, auditorium, sale da pranzo, studi televisivi, impianti di produzione radio e sale proiezioni. 125
3.2 Progettare nuovi stati di (In)compiutezza Esiste un approccio progettuale comune per le opere incompiute? Può essere determinata una teoria di intervento che investe tutti i manufatti mai finiti, li considera come oggetti generali e li ripropone come elemento assoluto di trasformazione? Come più volte detto, ogni opera incompiuta ha la necessità di essere studiata come elemento singolo perché ognuna conserva con sé caratteristiche proprie, ognuna instaura con il paesaggio nella quale è inserita personali connessioni e ognuna può trasmettere differenti potenzialità. Ciò nonostante l’analisi e le ricerche sull’incompiuto trasmettono la possibilità di affrontare e proporre un approccio unico che coinvolga tutte le incompiute, non in termini funzionali, non in termini formali. Un approccio di tipo teorico, concettuale e strategico. Progettuale nuovi stati in (In)compiutezza diventa risposta alle analisi operate, approccio generale per la risoluzione dell’incompiuto, definizione e accettazione della componente principale delle opere incompiute, il loro stato di non finitezza. «Pensare l’architettura e la politica del mai finito significa innanzitutto operare uno scarto teorico rispetto all’idea che il progetto moderno vada portato a termine: no esso si è compiuto non realizzandosi. Il confronto con il mai finito è possibile solo se si presuppone l’accettazione della non interezza e della incompiutezza come condizioni aperte»26. La prima condizione assoluta da accettare, da 126
trasformare in componente prima del progetto è proprio la condizione di incompiuto. Queste opere sono tali proprio perché non finite, perché hanno perso la loro funzione iniziale, perché le componenti formali alla base del progetto iniziale diventano adesso elementi astratti, dispersi nel paesaggio, privi di relazioni. È impossibile pensare che un ponte incompiuto ritorni ad essere ponte, è e rimarrà un insieme di pilastri e piloni a sorreggere un impalcato proiettato sul vuoto; è impossibile pensare che uno scheletro di ferro e cemento si trasformi nel teatro o nel palazzato per cui era stato pensato. È impossibile perché sono cambiate le dinamiche, sono cambiate le esigenze, le aspettative, i bisogni. Perché bisogna accettare il ciclo di vita delle incompiute, essere consapevoli che questi oggetti sono spesso nati come oggetti morti, ma ciò nonostante nascondono all’interno di sé possibilità nuove, vita nuova, funzioni nuove. Su questi aspetti bisogna operare, ricercare nuove stimoli e idee, proposte che si confrontino con la contemporaneità, elaborare nuove aspettative. Progettare nuovi stati di (In)compiutezza significa operare uno scarto con il passato, riconoscere le nuove esigenze, lavorare con il fattore tempo. «Ritornare sull’opera non più conclusa in sè e immettere quindi nel progetto componenti altre come il tempo, i fattori economici e sociali, senza travalicare le competenze, ma traducendole in prospettive di trasformazione spaziale. Considerarle come lo scenario aperto di
questa tangenza trasformazione/tempo. E’ sempre grazie alla riscoperta del “tempo” che si guarda al progetto architettonico non più con una semplice istantanea ma con una sequenza filmica»27. Tra tempo e frammento si instaurano le nuove relazioni, le nuove connessioni che ridanno vita all’incompiuto. Oggetti del passato, frammentati, desolati, abbondati, privi di ordine e funzione, oggetti che invece si proiettano al futuro, proprio perché frammentati chiedono di essere ricomposti, non nel loro stato primordiale, non come elementi del passato, viceversa come elementi che guardano al futuro, alle nuove esigenze, a nuove opportunità. «Attraverso la forma del frammento bisogna pensare di poter nuovamente immaginare il futuro: l’incompiuto come qualcosa di vivente, come lo è il seme, che è un frammento dell’albero che sarà, un progetto lunghissimo che un giorno arriverà alla bellezza inseguita»28. Non finite, frammentate, abbandonate. Questo stato di eccezione che assume l’incompiuto viene letto concedendogli una nuova possibilità di significato. Viene considerato come una alterità capace di sollecitare il sistema verso nuovi stati di equilibrio. L’incompiuto diventa quindi il pretesto. Il tempo diventa la guida. Ne traccia le nuove connessioni, ne rileva nuovi significazioni, nuove utilità. Nuovi pretesti, nuovi stati (in) compiutezza che ne determinano forme nuove. Leggere l’incompiuto come risultato di un processo di qualificazione può significare in termini progettuali agire su questi elementi
con previsioni a lungo termine, proiettarle non semplicemente alle necessità dell’oggi ma ad un futuro che chiede spazi da attrezzare, o ancora una natura in evoluzione ma sostanzialmente rifiutata da questo grande artefatto, brandelli di lagunarità che potrebbero diventare bacini preziosi di fronte a scenari profondamente mutevoli. «Il tempo si fa materia di progetto nonché strumento vero e proprio sia nella costruzione del paesaggio sia nella determinazione della fine del ciclo vitale di un oggetto. Il tempo segna una distinzione netta tra progetto architettonico e progetto di paesaggio: se il primo tende ad un instante preciso di realizzazione dell’opera, il secondo si attua con un percorso nel quale insistono anche momenti di casualità, o casualità altre che definiscono l’esatto tracciato processuale. In questa particolare accezione interessa sottolineare come tempo e perdita di ruolo agiscano a significare lo scarto come azione di un dimenticanza, di un abbandono. Mentre nel caso precedente processi d’ordine declassavano parti della materia al ruolo di resto e questo, classificato, elencato, riportato nella sua ripetitiva presenza poteva essere letto come spazio di riserva per altre configurazioni, l’azione del tempo può mettere lo scarto nella condizione di aprire prefigurazioni per un domani che sembra particolarmente distante»29. L’architettura che cerca di dialogare con l’incompiuto si fa inquieta, travagliata dal fatto stesso di non proporsi come finita e 127
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chiaramente griffata ma disponibile alla modificazione di chi la usa, di chi la abita, dalle trasformazioni del contesto. È necessario assumere nei confronti dell’incompiuto un atteggiamento parassitario, considerarlo realtà contemporanea fatta di stratificazioni, innesti e trapianti, relazioni complesse, cadaveri che non muoiono del tutto e corpi nuovi che da soli non riescono a vivere. Come descritto da Sara Marini nel suo testo Architettura Parassita. Architettura e paesaggi dello scarto, la strategia del parassita ricerca limiti, luoghi da interpretare come una trama in cui cogliere occasioni. Tale azione adottata per rileggere e amplificare gli spazi esistenti attraverso un procedimento incentrato sul linguaggio architettonico e sulle metafore, intesa come risposta alle necessità dell’ordinario e plasmata su linguaggi e trasformazioni dettati dal quotidiano. L’adozione della strategia parassita è strumentale a una sovrascrittura dell’esistente, un commento a latere, come le citazione all’interno di un testo che possono raccontare una storia differente, una propria storia. Si tratta di un modello di stratificazione che nel proprio principio costitutivo e compositivo si differenzia dal riuso e dal restauro degli edifici. Possibilità di convivenza tra differenti identità, differenti temporalità e differenti modi d’uso, questo atteggiamento, permette di mantenere immutati il senso e l’immagine dell’oggetto o del cadavere architettonico con la quale interagisce. Il termine parassita non è semplicemente utilizzato come metafora, è 130
anche e soprattutto chiamato a rappresentare un’arte della contingenza propria degli stati di necessità, un modo per rispondere alle esigenze dell’oggi e subito, senza mediazioni, mettendo in essere, dando fisicità ai conflitti e alle contraddizioni che attraversano la città. In questa concezione l’architettura si apre alla partecipazione e soprattutto include l’indeterminazione. I parassiti mostrano un modo di lavorare diverso, capace di inserire nei corpi latenti oggetti carichi di senso proprio e di trovarne uno nuovo, in una nuova forma data dall’addizione dei due soggetti. Così facendo ci rendono evidente un’identità di seconda natura che molto spesso caratterizza il paesaggio costruito, indirizzandoci a una strategia di intervento volta a conservare la memoria e le tracce della loro storia. L’opera architettonica incompiuta è per sua natura non finita ma anche il suo progetto deve essere pensato come un sistema non finito. Un progetto in grado di ricevere modificazioni, dimostrarsi reversibile e flessibile, disponibile di fronte le casualità, aperto alle esigenze degli utenti che non possono sempre essere determinate apriori, esigenze che hanno bisogno di riflessioni mirate alle azioni e alle trasformazioni del tempo. «Il problema è ragionare proprio costruendo il progetto non staticamente ma esattamente come un gioco nel quale la componente temporale è evidente ed anche sottolineata dall’interazione con il campo e gli altri giocatori. Questa struttura aperta viene contemplata dalla regola che non tutti i progetti siano vincenti, che un percorso
possa ad un certo punto interrompersi: il tutto senza modificare la gestione del gioco ma semplicemente cercando di relazionare la struttura del percorso»30. L’ideale sarebbe che la probabilità di vita di una struttura corrispondesse alla sua probabilità in uso. Cercare di realizzare qualcosa componendola per parti: alcune di lunga durata, altre facilmente sostituibili, rimodellabili per nuovi usi. Progettare nuovi stati di (In)compiutezza significa allora partire dalla condizione di incompiutezza dell’opera, renderla assoluta, comunicando e collaborando con essa per determinare nuovi azioni progettuali. Significa realizzare progetti che si realizzino per fasi, significa dialogare con il fattore tempo, con le aspettative e i desideri, significa dotare l’opera di un nuovo significato che risulta sempre aperto a modificazioni. La componente di innovatività operata da questo approccio consta nella capacità di individuare stati di (in)compiutezza con la quale il progetto si compone. Fissare una fase iniziale che determini le possibilità di riattivazione e rigenerazione dell’opera, determinare fasi successive che ad ogni intervento comportino per l’opera un nuovo stato di compiutezza. L’opera rimane sempre (in)compiuta perché conserva all’interno della sua memoria la sua natura, ma si costruisce nel tempo (in) completandosi e completandosi nello stesso tempo. Si tratta di un approccio di natura teorica e concettuale, un approccio anche e soprattutto
di natura strategica. Pensare a un progetto che si compone per nuovi stati di (in)compiutezza significa soprattutto determinare una strategia di intervento, realizzare un progetto che possa realizzarsi per fasi, a distanza di anni, secondo uno schema prefissato ma variabile. A una fase zero di attivazione, possono seguire infinite altre fasi. Tramite questo approccio è possibile determinare una gestione più libera nel completamento dell’opera, diventa garanzia di progetti in-finiti, non per mancanza di soldi o competenze, ma per una scelta assegnata apriori. Significa dare possibilità alle amministrazioni o ai privati che vogliono ripristinare un’incompiuta di gestire l’opera nel tempo, ri-costruendola un passo per volta, riuscendo a leggere in ogni fase le reali esigenze, valutando reali possibilità e guadagni nel raggiungimento di uno nuovo stato progettuale. Valutare eventuali modifiche, inserire elementi nuovi in grado di collaborare con il paesaggio, con il contesto, con gli utenti, in grado di dialogare e rinnovarsi nel tempo, (in)completandosi volta per volta. Non si tratta di realizzare progetti diversi, si tratta di realizzare un unico progetto suddiviso in stati (in)compiuti plurimi. In questo senso, l’incompiuto diventa azione progettuale, scelta preordinata. L’opera si realizza raggiungendo un nuovo stato di (in)compiutezza, tende al finito, ma non lo raggiunge mai, perché l’opera, nonostante riviva nuovamente, è pur sempre un’opera incompiuta, proprio così com’è nella sua natura. 131
Note Augè M., op.cit., p. 91. Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 48. 3 Licata G., op.cit. p. 25. 4 Marini S., Architettura Parassita...op.cit., p. 106. 5 Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 175. 6 Zambelli M., Tecniche di invenzione in architettura. Gli anni del decostruttivismo, Venezia, 2007, p. 69. 7 Fraschilla A., op.cit. p.150. 8 Settis S., op.cit., p. 299. 9 Licata G., op.cit., p. 29. 10 Zambelli M., op.cit., p. 198. 11 Marini S., Architettura Parassita...op.cit., p. 209. 12 Licata G., op.cit., p. 108. 13 C. Accatini, op.cit., p. 38. 14 Fraschilla A., op.cit., p.153. 15 www.wikipedia.org/wiki/Hotel_Fuenti. 16 www.loredanalongo.com. 17 Licata G., op.cit., p.114. 18 Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 11. 19 Licata G., op.cit., p. 62. 20 Marini S., Architettura Parassita...op.cit., p. 97. 21 www.farm-culturalpark.com. 22 Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 110. 23 Marini S., Architettura Parassita...op.cit., p. 35. 24 Ciorra P., Senza architettura. Le ragioni di una crisi, Roma, p. 57. 25 www.coloco.org 26 Licata G., op.cit., p.108. 27 Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 23. 28 Delle Monache P., Meneguzzo M., op.cit., p. 57. 29 Marini S., Nuove terre...op.cit., p. 57. 30 Ibidem, p.78. 1 2
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Il luogo del progetto
4.1 Cammarata e San Giovanni Gemini Situato nell’alta valle del fiume Platani, alle pendici del versante orientale del monte omonimo, alto 1578 metri, Cammarata è l’ultimo paese dell’agrigentino nord-orientale. Un punto dello spazio geografico isolano in cui si toccano le province di Agrigento, Caltanissetta e Palermo. Posto in un territorio ricco di boschi, ad un’altezza di circa 700 metri sul livello del mare, nella zona più elevata dei monti Sicani, Cammarata è un comune di 6.267 abitanti della provincia di Agrigento. Esteso su una superficie di 19.203 ettari con una densità abitativa di 958 abitanti per chilometro quadrato, dista 51 km da Agrigento, 81 da Caltanissetta e 83 da Palermo. I suoi confini sono delimitati a sud dal vallone del fiume Turibolo ed a ovest dal Monte Cammarata. Il territorio del comune di San Giovanni Gemini è completamente incluso all’interno del territorio di Cammarata, di cui costituisce dunque una exclave. Il nome Cammarata deriva probabilmente dal greco bizantino Kàmara e significa stanza a volta. Reperti archeologici trovati in tutto il territorio di Cammarata testimoniano che esso era abitato anche in epoca romana e addirittura preistorica. Probabilmente l’attuale struttura si è sviluppata durante il periodo normanno, quando il territorio ed il castello vennero donati dal Conte Ruggero d’Altavilla alla sua consanguinea Lucia De Camerata, che insieme al figlio Adamo li possedette fino al 1154. Dopo la loro morte la città appartenne probabilmente al regno demanio per circa un secolo, sino a quando venne concessa dal Re Manfredi a
Federico Maletta. In seguito e fino all’abolizione della feudalità, per la ricchezza e vastità del territorio, Cammarata è ambita e dominata da diversi nobili famiglie: i Vinciguerra, i Moncada, gli Abatellis, i Branciforti. Il centro storico conserva ancora oggi tracce del passato, offrendo al visitatore una fitta rete di vicoli, scalinate dalla tipica pavimentazione in ciottoli e i caratteristici pati, archi arabo-normanni che mettono in collegamento fra loro le strette vie. Passeggiando per le stradine si incontrano le tipiche case, strutturate in modo da conformarsi all’orografia del terreno, i palazzi nobiliari e le numerose chiese e cappelle che raccontano la storia di Cammarata. La strada principale del centro storico è la strada carrozza, una delle poche vie pianeggianti e carrozzabili, che dal municipio porta al Castello, antica residenza dei Signori di Cammarata. Il territorio di Cammarata può essere considerato un paese che per la sua struttura urbanistica si presenta costituito da quattro paesi, corrispondenti ai quattro principali quartieri: Santa Maria e Mmastìa; San Vito e Porta Gagliarda (nella parte alta); Chiazza; Gianguarna (nella parte bassa). Ai piedi del Monte Gemini, posto a 672 metri sul livello del mare, sul versante orientale del Monte Cammarata, erge la cittadina di San Giovanni Gemini, comune italiano di 8.087 abitanti della provincia di Agrigento, delimitata a Nord da un’ampia fascia di verde pubblico detta la Pineta ed è separata da Cammarata dal fiume Turibolo. Il territorio comunale è interamente circondato da quello del comune di Cammarata, del quale è pertanto un’enclave. L’origine del territorio di San Giovanni Gemini 137
risale al 1451, anno in cui Federico Abatellis, conte di Cammarata, ottenne dal re Ferdinando, tramite lo ius aedificandi, il privilegio di edificare nei suoi feudi. Nel 1507 fu concessa la licentia populandi che i Conti esercitarono in un luogo pianeggiante vicino Cammarata, al di là del fiume Turibolo. Una spiegazione possibile circa le origini di San Giovanni Gemini riguarda la frana avvenuta nel 1537, anno in cui, a causa di un terremoto, franò la collina dove sorgeva il castello di Cammarata. Il castello fu riparato ma le abitazioni sul ciglio della rupe crollarono, è quindi possibile che le famiglie, che subirono le perdite peggiori, abbiano ottenuto dal Conte il permesso di costruire sul piano di San Giovanni che si estendeva dall’attuale chiesa di San Giuvannuzzo al viale Dionisio Alessi. Le prime case del nuovo centro, inizialmente chiamato San Giovanni di Cammarata, si edificarono intorno alla chiesa di San Giovanni Battista (oggi chiesa del Carmelo) costruita nel primo decennio del 1500 dagli stessi Conti di Cammarata. Solo un secolo dopo, San Giovanni Gemini, a seguito delle discordie sorte tra i residenti delle due zone che popolavano il Monte Cammarata, ebbe una propria autonomia. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1879, per volere di alcune famiglie nobiliari, il nome di San Giovanni di Cammarata venne mutato in San Giovanni Gemini. Oggi, pur essendo due comuni diversi, Cammarata e San Giovanni Gemini sono due paesi che condividono la loro quotidianità: feste, tradizioni e storia e sembrano aver dimenticato gli attriti che inizialmente li hanno coinvolti per abbracciare una vita comunitaria in contatto con la natura. 138
4.2 La Pineta La pineta si estende lungo il corso del torrente Turibolo a nord di San Giovanni Gemini e sembra quasi voler dividere l’abitato di questa cittadina da quello di Cammarata. Venne creata nel 1936 in seguito al contratto stipulato dai proprietari Salvatore e Teodoro Viola con l’Azienda Foreste Demaniali per poterlo rimboschire. L’idea del rimboschimento riscosse l’approvazione dei due comuni che vedevano in questo modo risolto il grave problema del consolidamento idrogeologico della zona, la quale, per le sue caratteristiche franose, aveva messo in pericolo la stabilità di una parte dell’abitato. La Pineta si inserisce dunque come un cuneo tra San Giovanni Gemini e Cammarata, lambendo le frange dei due centri e demarcandone i confini. Si estende per circa otto ettari e accoglie pini d’Aleppo, cipressi, rubini ed eucalipti, rappresentando una straordinaria area di verde pubblico, potenzialmente utile per i cittadini, parte integrante da più di cinquant’anni del paesaggio urbano sangiovannese. Tranne per piccole porzioni di terreno, tra le quali un ex vivaio dell’estensione di circa 2000 metri quadri e qualche limitata fascia alla periferia dell’impianto silvano, la pineta si presenta ancora omogenea ed in buono stato vegetativo. Nell’ambito dell’area boschiva non esiste la presenza di elementi architettonici significativi, se non per una nivera, antico deposito di neve che trasformatosi in giacchio veniva commercializzato ed esportato nel
periodo estivo. In seguito ad un progetto di restauro, operato fin troppo liberamente, che ha previsto anche la realizzazione di un annesso slargo attrezzato, la nivera ha in parte perso le sue caratteristiche formali, presentandosi oggi come un tronco di piramide concavo, a base ottagonale, rivestito in pietra. L’amministrazione sangiovannese predispose un primo un progetto per la trasformazione in parco comunale della pineta nel 1970 con l’obiettivo di mantenere e potenziare l’area, come mezzo naturale di consolidamento dell’abitato, polmone verde ed elemento paesisticamente e turisticamente pregevole per l’abitato, da sistemare e adattare a luogo di riposo e di svago. Il progetto, realizzato alla fine degli anni ottanta, aveva come scopo quello di privilegiare dunque la conservazione e il miglioramento dell’impianto boschivo esistente mediante operazioni di recupero e ripristino nelle zone in degrado, la realizzazione di percorsi pedonali, slarghi, fontane, un anfiteatro e zone di relax. La pineta si trova oggi in stato di abbandono, e nonostante il progetto del parco urbano realizzato non è oggi neppure frequentata dai cittadini, se non per sporadiche presenze di gruppi di associazioni che, tramite attività varie, ne tentano un difficile ripristino. L’amministrazione ha tentato il recupero dell’area tramite nuovi progetti, mai completamenti realizzati. Le zone pedonali e i servizi realizzati nel progetto degli anni ottanta si trovano oggi in stato di degrado, abbandonati e privi di funzionalità. Un nuovo tentativo di recupero dell’area è
ritenuto doveroso al fine di salvaguardare un’area che oltre a rivestire un’importante ruolo di consolidamento per l’abitato, è ormai diventata immagine simbolo del paesaggio urbano di Cammarata e San Giovanni Gemini. Il parco inserito all’interno della pineta, così come il ponte, può ritenersi un’opera incompiuta e nonostante rappresenti un grande potenziale per il miglioramento della qualità della vita dei cittadini locali non sembrano essere presenti in atto, ad ora, reali tentativi di recupero dell’area. Il ponte incompiuto può forse diventare occasione per una nuova trasformazione dell’intera area della pineta.
4.3 Il Ponte Incompiuto Il ponte incompiuto oggetto di studio si inserisce ai margini dell’area boschiva, in corrispondenza del vallone Turibolo (oggi completamente intubato), interessando un tratto di circa 150 metri, a ridosso della zona dell’ex vivaio. Nell’area nella quale si erge oggi il ponte, a pochi metri dalla chiesa di San Domenico sorgeva un antico lavatoio, mentre ancora più a valle veniva festeggiata la famosa fiera del bestiame, adesso non più celebrata. Il progetto di questo tronco stradale risale al 1975 ed aveva come oggetto la realizzazione di un raccordo collegante la via Libertà con il lotto a fondo cieco della vecchia circonvallazione. Il primo finanziamento ha 139
consentito la costruzione della spalla prossima alla via Libertà e di tre piloni su pali trivellati del viadotto di scavalcamento del torrente Turibolo. La strada avrebbero poi dovuto penetrare frontalmente nella zona rimboschita, con una profonda trincea ed uscire quindi sulla sinistra a mezzacosta, sempre tra gli alberi, per raccordarsi all’esistente tronco a fondo cieco della vecchia circonvallazione. Un secondo lotto, appaltato nell’anno 1989 ha consentito la costruzione di altri tre piloni e di parte dell’impalcato del viadotto iniziato oltre un decennio prima. Il viadotto avrebbe dovuto fare parte del più ampio progetto della Circonvallazione Sud, che aveva come obiettivo quello di smaltire il traffico interno dei due abitati, ponendosi come soluzione ai gravi problemi provocati dall’incremento della motorizzazione e dal traffico più intenso e pesante. Le strade interne del comune di Cammarata si presentano infatti, nella maggior parte dei casi, anguste e tortuose, caratterizzate dalla presenza di sezioni eccessivamente ristrette, numerose strozzature, strettoie e curve planimetriche di raggio assolutamente inadeguate al passaggio degli automezzi più ingombranti, rendendo pressoché impossibile il posteggio e l’incrocio dei veicoli anche di modeste dimensioni. La realizzazione del viadotto su pile aveva, inoltre, un importante come obiettivo: insieme alla Pineta circostante avrebbe dovuto assolvere la funzione di consolidamento dell’area nella quale insiste, fungendo da 140
stratagemma per evitare l’insorgere di frane. Un successivo progetto realizzato in due varianti tra il 1989 e il 1990 dall’ingegnere Trajna, ma mai realizzato, prevedeva la realizzazione della strada di collegamento tra la via Libertà e la strada provinciale Scalo Ferroviario. Utilizzando al meglio quanto esistente dei pregressi tentativi di realizzare la circonvallazione di valle, sempre auspicata e mai completamente realizzata, il nuovo progetto prevedeva l’integrazione del tratto terminale della strada ricalcando il tracciato dissestato ed in atto abbandonato del vecchio tronco stradale. Oltre il completamento e il collegamento con le opere già realizzate, era prevista anche la realizzazone di opere ex novo costituite da brevi viadotti, ubicati in prevalenza nella depressione costituita dal letto dell’ex vallone Turibolo. Sfruttando le opere prima realizzate, si cercò, in questo secondo tentativo, di armonizzare e rendere fra loro compatibili progetti diversi e incompleti, mirando ad un risultato globale che sarebbe stato sicuramente a vantaggio della viabilità dei due paesi. Il progetto, principalmente a causa della mancanza di finanziamenti, non venne più completato e da allora nessun tentativo è stato fatto per il recupero dell’opera. Il ponte, incompiuto ormai da più di quarant’anni, si presenta come elemento caratterizzante di una zona, oggi, totalmente abbandonata. Il fascino dell’incompiuto e il paesaggio naturale circostante sono fattori suggestivi, elementi di partenza per un necessario e totale ripensamento dell’area.
La struttura del ponte è caratterizzata dalla presenza di un impalcato, inclinato nella prima parte, con pendenza del 4%, piano nella parte conclusiva. La prima parte è sorretta da quattro piloni dispositi a una distanza di quattordici metri l’uno dall’altro. La parta piana è invece poggiata su colonne (raggio 0,5 metri) disposte a distanza reciproca di un metro. Ne sono presenti cinque sui due lati, quattro sul fronte. In prossimità del ponte sono, inoltre, presenti elementi svincolati alla struttura principale. Tra questi, tre piloni disposti a destra e a sinistra rispetto al ponte e varie colonne, alcune delle quali caratterizzate dalla presenza di capitelli di forme geometriche trapezioidali.
141
4.4
Documentazione dello stato di fatto
Documentazione fotografica e cartacea storica
©Famiglia Trajna
©Famiglia Trajna 144
©Famiglia Trajna
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Documentazione fotografica sulla Pineta
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Documentazione fotografica sul Ponte Incompiuto
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Documentazione fotografica sul Ponte Incompiuto
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Planimetria
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Planimetria
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Prospetto Sud
Prospetto Nord
Prospetto Est
Sezione Sud
Sezione Nord
Sezione Est
5
Sicani Living Lab
5.1 Analisi e strategie progettuali Il progetto elaborato per il ponte oggetto di studio tenta di sfruttare al meglio le potenzialità del viadotto incompiuto il quale diventa occasione per il recupero non solo del manufatto in se, ma si presenta anche come pretesto per la riqualificazione di un’intera area. Tra parco e città, tra area urbana e paesaggio, il progetto proposto tenta di legare questi aspetti. Il ponte diventa elemento di unione, occasione ritrovata per rendere più armonico un disegno urbano fino ad oggi sconnesso. Risultano di fondamentale importanza le fasi preliminari alla progettazione, la ricerca e le riflessioni sul tema dell’incompiuto, successivamente le analisi e le strategie progettuali sull’area in cui intervenire. La conoscenza del territorio risulta, per altro, aspetto fondamentale per azioni progettuali di questo tipo. Molte delle opere incompiute sono frutto di valutazioni preliminari sbagliate, o a volte anche assenti, per questo operare e progettare l’incompiuto significa conoscere bene il tema e il contesto nella quale il manufatto è inserito, coglierne e valutarne attentamente le potenzialità al fine di rendere nuovamente fruibili oggetti mai utilizzati e abbandonati. La prima fase si presenta essenzialmente come un analisi di tipo urbanistico. Oggetto di studio è infatti la posizione del ponte rispetto al contesto. Situato a ridosso di via Libertà il ponte assume una posizione abbastanza particolare. Collocato ai margini della pineta si presenta come elemento di s-connessione tra il parco stesso e la città. L’intorno si presenta come un’area particolarmente vissuta.
Praticamente attaccato ad esso si hanno i locali del Liceo Scientifico di Cammarata e la chiesa di San Domenico, a pochi passi la Scuola media Dante Alighieri, alcuni uffici del Comune di Cammarata, diversi servizi come banche e poste, a cui bisogna ovviamente aggiungere il tessuto residenziale. A ciò si lega l’essenziale presenza della pineta, e del vivaio. La presenza di questi elementi si presenta come primo spunto progettuale. Non si tratta di un’area desolata, tutt’altro. Risulta inevitabile un intervento di natura urbanistica che miri a capovolgere il senso del ponte, da elemento di s-connessione, rudere abbondato, a nuovo elemento di connessione tra parco e città. Dal punto di vista strategico, dunque, il ponte diventa elemento chiave, punto nodale per il ripensamento dell’intera area. Infatti, oltre al recupero del ponte, in fase strategica vengono proposti diversi interventi. Tra questi si ha il recupero degli orti del vivaio in condizione di semi abbandono, i quali possono rappresentare un’ulteriore elemento valorizzante, dal punto di vista sia paesaggistico che urbano, la realizzazione di un parcheggio in prossimità del ponte e il completamento della vecchia strada della circonvallazione, da anni rimasta, anch’essa, incompleta. Quest’ultima si insedia all’interno della pineta, rappresentando però un importante intervento per la viabilità dei comuni di Cammarata e San Giovanni Gemini. Alle analisi di tipo urbanistico si aggiungono le riflessioni e le ricerche operate con il fine di determinare il tema di recupero, ovvero la nuova funzione da attribuire al ponte tramite l’azione progettuale. Il recupero del ponte incompiuto non può, per ovvie ragioni, 167
prevedere il completamente dell’antico tracciato proposto nei progetti precedenti. Risulta necessario, invece, un intervento che conferisca al ponte un nuovo senso, capace di creare nuove forme e nuovi spazi. Emerge, dunque, in primo luogo, un approccio di tipo più urbanistico, volto a rafforzare il rapporto parco-città, conferendo al parco la funzione di elemento di unione tra i due. L’impalcato esistente non subisce modificazioni particolari, trasformandosi semplicemente in giardino pensile, piazza aperta a tutti, punto di vista e elemento unificatore. Ad esso si aggiunge la realizzazione, ex novo, dei collegamenti verticali, tramite scale, ascensori e passerelle che hanno come obiettivo quello di legare il ponte al parco, eliminando qualsiasi tipo di barriera e rendendo unico il disegno urbano. Il ponte (in)compiuto diventa, dunque, luogo quotidianamente vissuto ma non solo sopra, non solo attorno ma anche dentro. Sfruttando la struttura esistente il progetto propone la creazione di nuovi spazi volti al potenziamento delle attività dei due paesi. Le riflessioni condotte sulle funzioni da attribuire ai nuovi spazi risulta di fondamentale importanza, soprattutto quando si lavora in piccoli contesti come appunto Cammarata e San Giovanni Gemini. Il desiderio di inserire all’interno del territorio spazi e funzioni mancanti è inevitabile ma si rischia sempre di realizzare progetti che, per via della piccola realtà nella quale si insediano rischiano di non decollare mai, producendo, come sovente accade, progetti incompiuti e/o manufatti abbandonati. Il settore più diffuso, non solo storicamente, a Cammarata e San Giovanni Gemini, ma 168
anche nel territorio circostante, è quello dell’agricoltura. Per tale motivo si è ritenuto opportuno la realizzazione di un progetto nella quale proprio la tematica dell’agricoltura diventasse punto cardine. L’idea è quella di fornire spazi destinati all’innovazione agricola puntando dunque al potenziamento di un settore già fortemente presente sul territorio. Il progetto prende il nome di Sicani Living Lab poiché si presenta appunto come il principale centro per l’innovazione agricola per l’intera area dei Sicani. Il progetto si basa sul modello Living Lab, il quale sarà con attenzione spiegato nel successivo paragrafo.
5.2 Il modello Living Lab Il modello Living Lab nasce per dare risposte alla moderna economica agricola e alimentare. In questo, come in svariati ambiti, l’informazione e l’innovazione diventano fattori competitivi e determinanti. Sotto questo punto di vista, il living Lab è un laboratorio nella quale le tematiche affrontate sono svariate. Si può fare riferimento alla sostenibilità alimentare, allo sviluppo di un determinato prodotto, di un particolare fertilizzante, all’agricoltura a traffico limitato, ai sistemi di codifica e gestione aziendale, etc. Il contesto economico del settore agroalimentare è molto dinamico, guidato da esigenze diverse e mutevoli dei consumatori e della società. Cibo e industria agricola passano oggi da un insieme di aziende indipendenti verso una rete correlata di enti. Allo stesso
tempo, l’economia agro-alimentare si concentra sulla realizzazione di risposte alla domanda dei consumatori. Il consumatore deve avere la possibilità di fare delle scelte, sulla base di attributi come la sicurezza alimentare, la qualità e la sostenibilità. Questo sviluppo fa sì che le aziende partecipano sempre più in reti globali dinamiche che richiedono processi di business complessi e flessibili, con la capacità di visualizzare una grande varietà di complesse relazioni. La produzione è sempre più guidata dalla domanda, deve essere trasparente e deve soddisfare gli standard di qualità e ambientali. Diversi incidenti negli ultimi decenni (tra cui l’afta epizootica, la peste suina, la contaminazione da diossina) hanno fatto della sicurezza alimentare uno dei temi principali. I mercati agricoli diventano più volatili e sono costantemente sotto pressione a causa dei prezzi elevati della terra e del lavoro, a cui si combina l’aumento della concorrenza a causa della globalizzazione. Quindi, è necessario lo sviluppo di una produzione più basata sulla conoscenza. Sotto questo punto di vista, le informazione sull’economia alimentare e sull’industria agroalimentare diventano sempre più importanti per una buona prestazione delle reti e delle aziende partecipanti. Le informazioni diventano inoltre sempre più digitali, memorizzate e scambiate utilizzando soluzioni ICT (tecnologie dell’informazione e della tele comunicazione). Per tale ragione, Il coinvolgimento e l’impegno di tutte le parti interessate sono cruciali. Vi è la necessità di integrazione le informazioni. Tale aspetto non si presenta affatto semplice poiché l’integrazione dei dati comporta lo studio di diversi aspetti, sono necessarie diverse
competenze per risolvere tali problemi, i quali, per altro, potrebbero non sempre essere ben definiti e descritti in anticipo. A causa di ciò, le soluzioni non possono essere trovate da una singola organizzazione, ma solo attraverso la cooperazione. In Europa, attraverso l’Agenda di Lisbona, è stata definita una delle principali risposte a tutti questi sviluppi, ovvero l’obiettivo di innovare verso una produzione basata più su una conoscenza guidata dalla domanda, dove i prodotti di alta qualità giocano un ruolo centrale. Il concetto di open source e del cosiddetto approccio Living Lab sono considerati come un passo importante nella soluzione di questo problema. Si richiede l’applicazione, la conoscenza e il coinvolgimento di vari istituti di ricerca e delle varie tecnologie innovative. In relazione a questo sviluppo, lo scambio di informazioni tra i diversi soggetti all’interno della rete gioca un ruolo cruciale. L’azienda, che si presenta come il luogo di produzione primaria, svolge un ruolo centrale in questo perché molte informazioni vengono generate e combinate proprio all’interno di essa, ma queste informazioni hanno l’esigenza di essere comunicate e condivise anche in ambiente esterni, appunto attraverso i Living Lab. Ciò significa che diversi tipi di sistemi di informazione devono comunicare tra loro attraverso sistemi informativi flessibili ben coordinati, tra cui per esempio l’applicazione di validi e riconosciuti standard (protocolli, messaggi, etc.) che garantiscano il corretto scambio di informazioni. Agricoltura, cibo, energie rinnovabili, nuove tecnologie digitali utilizzate per intraprendere questa ricerca, hanno un carattere che a prima vista sembra 169
porli ad enorme distanza. Eppure, se ci fermiamo a riflettere sul significato vero e profondo di parole apparentemente distanti tra di loro come natura, agricoltura, tecnica, digitale, informazioni, ci rendiamo conto che c’è un filo comune che le lega, una visione all’interno della quale trovano una sinergia profonda e la necessità d’essere l’una per l’altra inscindibile. La grande sfida per i partecipanti di questa economia è quello di gestire le informazioni in modo ottimale, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo. La caratteristica più importante di un Living Lab è che l’innovazione, dall’inizio alla fine del processo, diventi elemento guida delle varie fasi. Lo scopo è quello di facilitare un ambiente strutturale e indipendente open source dove varie società possono incontrarsi e collaborare tramite l’integrazione delle informazioni. Il Living Lab è facilitato da un ambiente ICT sulla base dei sistemi informativi e delle applicazioni attualmente disponibili. Il Living Lab si presenta come un nodo, una rete tra studenti, insegnanti, uomini d’affari e scienziati, università e altri istituti di ricerca e istruzione. Diverse parti cooperano al suo interno, tutti lavorano insieme per lo sviluppo della conoscenza. I business partner agroalimentari forniscono i casi aziendali, i partner di ricerca portano nei loro modelli le loro conoscenze e una panoramica sul dominio oggetto di studio. I progetti di ricerca e altri progetti sono eseguiti in collaborazione con tutti i partner del progetto, che portano alle innovazioni. Tutti i partner insieme approfittano dei risultati, e ogni utente ha il suo profitto individuale. Esempi ben noti dell’approccio open source sono il sistema 170
operativo Linux, l’enciclopedia Wikipedia e vari servizi di Google come Google Maps che tutti possono implementare creando componenti e applicazioni proprie. L’iPhone di Apple con il suo app store può anche essere visto come una sorta di ambiente open source in cui, entro certi limiti, chiunque può creare una propria applicazione e venderla attraverso lo store. In questo modo gli sviluppatori di applicazioni in gran parte si basano sulle infrastrutture di base della Apple, solo aggiungendo ad esso nuove funzionalità specifiche. Soprattutto quest’ultimo esempio mostra come l’open source presenta una base commerciale molto forte. I vari utenti partecipano all’attività solo se, nel corso del tempo, possono ottenere un profitto commerciale, riuscendo ad ottenere inoltre dei risultati e dei vantaggi anche nell’ambito indagato. Questo crea una situazione win-win, dove tutti possono trarre il proprio vantaggio. Aspetto fondamentale, come già detto, è la condivisione delle conoscenze, considerata come un fattore chiave per l’innovazione. Studenti, docenti e ricercatori insieme lavorano per lo sviluppo della conoscenza, preferibilmente in collaborazione con i partner di business agroalimentare e ICT. Gli istituti scolastici possono utilizzare il Living Lab nel loro programma di formazione per acquisire le conoscenze teoriche e l’esperienza pratica, stimolando gli stessi studenti a fare uso di esso in seguito. In questo modo, gli istituti di ricerca diventano più coinvolti all’istruzione. Il Living Lab può essere utilizzato per collegare domini diversi, ma affini nella risoluzione di problemi dell’integrazione e della gestione delle informazioni. Il modello Living Lab promuove un
171
paradigma di innovazione alternativa: si sposta il ruolo dell’utente finale da oggetto di ricerca a una posizione pro-attiva, in cui le comunità di utenti sono co-creatori di innovazioni di prodotti e di servizi. Nei Living Lab, gli utenti e gli sviluppatori cooperano in uno spazio aperto con il fine di sviluppare idee innovative. Ogni giocatore può utilizzare le innovazioni ottenute al fine di sviluppare applicazioni private o commerciali. In questo modo, lo sviluppo di innovazioni dovrebbe essere accelerato sulla base di un investimento comune, la condivisione dei costi di investimento iniziali e dei rischi. Un fattore chiave di successo, che attualmente non è ancora soddisfatta, è la creazione di una potenziale massa critica sufficiente a favorire lo sviluppo e la creazione di un sistema di auto-miglioramento. A differenza di un tradizionale ambiente di progetto, inoltre, i partecipanti, sia dal lato del richiedente, sia da quello dell’esecuzione non sono fissi, gli utenti sono a volte gli sviluppatori e viceversa. La caratteristica più importante di un Living Lab è dunque che l’innovazione viene incorporata dall’inizio alla fine ogni processo tramite la continua interazione tra utenti finali e sviluppatori. Per l’organizzazione e l’integrazione delle informazioni nello specifico settore agro-alimentare viene sviluppato un particolare metodo che combina i vantaggi degli approcci sequenziali e iterativi e assicura la partecipazione degli utenti attivi durante l’intero processo. Una caratteristica chiave è una combinazione di un complesso sviluppo di prototipazione incrementale. Sono presenti quattro fasi successive fondamentali: analisi, progettazione di base, implementazione 172
iterativa, prototipizzazione. Nella fase di analisi viene indagato lo stato attuale delle informazioni. Nella fase di progettazione di base, la struttura di base è progettata assicurando la coerenza di specifiche implementazioni pilota. Ulteriori sviluppi delle informazioni pilota portano ad implementare una parte del disegno di base le quali vengono eseguite nella fase di attuazione iterativa. In questo stadio i risultati pilota sono astratti ad un generico modello integrato, comprendendo una base di conoscenza sulla progettazione generica e un infrastruttura che supera il livello dei singoli piloti. La fase di progettazione di base comprende l’architettura tecnica concettuale, il modello di informazioni su riferimento generico, la struttura di comunicazione tecnica e l’incorporamento istituzionale. La fase finale prevede la prototipazione, la validazione e la presentazione delle soluzioni, continuamente in evoluzione rispetto ai contesti di vita reale. Per organizzare questo tipo di sviluppo, l’approccio Living Lab è inevitabilmente basato sull’open source, elemento vitale di un economia basata sulla conoscenza. Questo approccio aperto all’innovazione sfrutta fonti e idee interne ed esterne. Successivamente, i processi di innovazione nel settore delle imprese sono sempre più caratterizzati dalla cooperazione dei diversi enti partecipanti, prevedendo un maggiore coinvolgimento degli utenti nello sviluppo di nuovi prodotti e servizi. L’innovazione aperta richiede principi organizzativi di collaborazione per la gestione della ricerca e dell’innovazione. Il modello Living Lab è dunque un modo di attuare il metodo open source/innovation.
5.3 Descrizione del progetto Il progetto proposto si articola seguendo il modello teorico del Living Lab. Gli spazi interni sono dunque pensati per ospitare i laboratori e le varie attività previste seguendo comunque un approccio nella quale tutti gli spazi, sia quelli interni sia quelli esterni, si configurano essenzialmente come spazi pubblici, fruibili dall’intera cittadinanza. Come brevemente descritto nel primo paragrafo, la parte superiore dell’impalcato viene trasformata in giardino pensile, spazio aperto, piazza pubblica accessibile a tutti e punto panoramico. Ci si ritrova, infatti, proiettati all’interno della pineta, con la possibilità di apprezzare l’intero paesaggio sicano e scorci di Cammarata e San Giovanni Gemini. Caratterizzata dalla presenza di una nuova pavimentazione, da sedute ed elementi verdi, la nuova piazza si configura, inoltre, come punto di accesso per il Sicani Living Lab. L’ingresso all’edificio è garantito tramite tre blocchi (due per le scale e uno per l’ascensore) i quali, come dei parassiti, si agganciano al ponte e alla nuova struttura. Il progetto si configura tramite due livelli: il primo, realizzato tramite una struttura appesa all’impalcato la quale si sviluppa per la sua intera lunghezza, e il secondo con unico sviluppo tra il terzo e il quarto pilone. Il primo livello è composto da 4 ambienti principali, scanditi dalla stessa struttura del ponte. Tra il secondo e il terzo pilone è presente l’ingresso, punto di informazione e all’occorrenza foyer nel caso in cui l’auditorium si trova aperto per le attività. Quest’ultimo si trova invece tra il primo e il secondo pilone ed ha una capienza di 154
posti. L’auditorium rispecchia pienamente la logica degli spazi presenti nell’edificio. Potenzialmente utile per le attività del Sicani Living Lab, può comunque essere utilizzato per spettacoli e conferenze, sia dagli studenti del Liceo (il quale non è fornito di aula magna), sia per eventi destinati alla cittadinanza (dato che i due comuni di Cammarata e San Giovanni Gemini non sono dotati di spazi di questo tipo). Tra il terzo e il quarto pilone sono presenti gli ambienti destinati alle principali attività del Sicani Living Lab. Nel livello più basso si articolano infatti i quattro laboratori i quali, pensati seguendo il modello del Living Lab, sono destinati rispettivamente alle attività di analisi, progettazione di base, implementazione iterativa e prototipizzazione. Ai laboratori si aggiungono i servizi e una piccola sala riunioni. Nella stessa posizione, al primo livello, si ha la presenza uno spazio flessibile, destinato ad usi diversi: presentazione ed esposizione dei risultati condotti tramite le ricerche, vendita dei prodotti, workshop e corsi. L’ultimo ambiente del Sicani Living Lab, è il bar caffetteria posto nella parte conclusiva del primo livello. Lo spazio è chiuso da un lato dall’ultimo pilone e sui restanti tre lati dalle ampie colonne. L’ambiente è pensato per fungere sia da bar caffetteria sia da ristorante. Lo spazio si configura, infatti, come un vero e proprio Food Lab dove è possibile, oltre che mangiare, assistere o partecipare a spettacoli e/o corsi di cucina. L’intero livello si caratterizza per la presenza di una facciata continua realizzata con pannelli forati secondo un pattern che riprende la trama dei rami degli alberi, cercando di relazionarsi, in questo modo, con il paesaggio circostante. 173
Masterplan Strategico
Planimetria
177
Pianta -4,50
179
Pianta -7,50
180
181
Pianta -12,00
183
Prospetto Sud
Prospetto Nord
Prospetto Ovest
Sezione Sud
Sezione Nord
Sezione Ovest_Hall/Foyer
Sezione verticale
Scala 1:50
192
Il progetto per il Sicani Living Lab viene realizzato sfruttando in gran parte la struttura in cemento armato già esistente, a cui viene agganciata la nuova struttura in acciaio realizzata tramite travi IPE di diversa grandezza, utilizzate nei due livelli progettati, e un profilo scatolare saldato a C. I solai vengono realizzati tramite la lamiera grecata, con completamento in cls, la rete elettrosadata, il massetto e la pavimentazione in resina. Il profilo scatolare a C oltre a sostenere la parte a sbalzo del solaio del primo livello ha l’importante funzione di fare da supporto per la struttura della facciata continua realizzata in vetro (temprato e stratificato) e pannelli forati. L’impalcato esistente del viadotto si trasforma nella nuova copertura dell’edificio diventando giardino pensile e passeggiata panoramica fruibile a tutti. Alla struttura esistente si aggiunge la lamiera grecata con completamento in cls, la rete elettrosaldata, gli strati di barriera al vapore e isolamento, il massetto e la nuova pavimentazione in pietra. Le parti ai bordi si caratterizzano per la presenza di vegetazione diffusa. Agli strati precedentemente elencati si aggiungono gli strati di drenaggio e impermeabilizzazione e lo strato di terra coltivata a prato. Il giardino pensile viene completato con il parapetto in acciaio inox il quale funge da elemento di protezione.
Sezione verticale, Nodo A
Scala 1:20
Legenda 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22
-
S.E.O./V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.I.O. P.I.O. P.I.O. P.I.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. C.O.P. C.O.P. C.O.P. C.O.P. C.O.P. C.O.P. P.E.V. P.E.V.
-
Elemento portante: Profilo scatolare saldato a C in acciaio, 300x100x5 mm Strato di finitura: Pannello tipo Alucobond, 1800x1000x10 mm Strato di finitura: Pannello forato in acciaio, sp. 2 mm Struttura di supporto: struttura di supporto pannelli forati Elemento di collegamento: Sistema di ancoraggio pannelli forati Elemento di supporto: Montante in alluminio, sp. 10mm Struttura di supporto: struttura di supporto controsoffitto Elemento di collegemato: Sistema di ancoraggio pannelli controsoffitto Strato di finitura: Pannello in cartongesso, sp. 2 mm Strato di livellamento: Massetto in cls, 60 mm Elemento di collegamento: Piastra in acciaio, 100x100x5 mm Elemento portante: Lamiera grecata zincata, sp. 10 mm Strato portante: Soletta di completamento in cls, h. 120 mm Elemento di irrigidimento: Rete elettrosaldata, sp. 5 mm Strato di finitura superiore: Pavimento in pietra, sp. 25 mm Strato di impermeabilizzazione, Foglio di cartonfeltro bituminato, sp. 5mm Strato di isolamento: Lana minerale, sp. 20mm Strato di barriera al vapore: Foglio polimerico Strato termoisolante/di finitura: Terra coltivata a prato Elemento di protezione: Scossalina in alluminio, sp. 15mm Elemento di protezione: parapetto in acciaio inox Elemento di supporto: sistema di ancoraggio parapetto 193
Sezione verticale, Nodo B
Sezione verticale, Nodo C
Scala 1:20
Legenda 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
194
-
SE.O./V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. S.EO. S.E.O S.E.O. P.I.O P.I.O S.S.A. S.S.A. S.S.A.
-
Elemento portante: Profilo scatolare saldato a C in acciaio, 300x100x5 mm Strato di finitura: Pannello esterno tipo Alucobond, 800x500x5 mm Strato di tamponamento: Vetro temprato e stratificato, 5+5+5 mm Strato di finitura: Pannello forato in acciaio, sp. 2 mm Struttura di supporto: struttura di supporto pannelli forati Elemento di collegemato: Sistema di ancoraggio pannelli forati Elemento di supporto: Montante in acciaio, sp. 10mm Elemento portante: Lamiera grecata zincata, sp. 10 mm Strato portante: Soletta di completamento in cls, h. 120 mm Elemento di irrigidimento: Rete elettrosaldata, sp. 5 mm Strato di livellamento: Massetto in cls, 70 mm Strato di finitura superiore: Pavimento in resina, sp. 15 mm Strato di isolamento: Lana minerale Strato di finitura: Pannello esterno tipo Alucobond, 800x500x5 mm Elemento di collegemato: Sistema di ancoraggio pannelli esterni
Sezione verticale, Nodo D
Sezione verticale, Nodo E
Scala 1:20
Legenda 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22
-
S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O. S.E.O./V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. P.P.V. S.S.A. S.S.A. P.I.O. P.I.O. P.I.O. P.I.O. P.I.O.
-
Elemento portante: Trave IPE 500 Elemento portante: Trave IPE 450 Elemento portante: Trave IPE 400 Elemento portante: Trave IPE 360 Elemento di collegamento: Piastra in acciaio, 100x100x5 mm Elemento portante: Lamiera grecata zincata, sp. 10 mm Strato portante: Soletta di completamento in cls, h. 120 mm Elemento di irrigidimento: Rete elettrosaldata, sp. 5 mm Elemento portante: Profilo scatolare saldato a C in acciaio, 300x100x5 mm Strato di finitura: Pannello esterno tipo Alucobond, 800x500x5 mm Strato di tamponamento: Vetro temprato e stratificato, 5+5+5 mm Strato di finitura: Pannello forato in acciaio, sp. 2 mm Struttura di supporto: struttura di supporto pannelli forati Elemento di collegamento: Sistema di ancoraggio pannelli forati Elemento di supporto: Montante in acciaio, sp. 10mm Strato di isolamento: Lana minerale Strato di isolamento: Schiuma poliuretanica Struttura di supporto: struttura di supporto controsoffitto Elemento di collegemato: Sistema di ancoraggio pannelli esterni Strato di finitura: Pannello in cartongesso, sp. 2 mm Strato di livellamento: Massetto in cls, 70 mm Strato di finitura superiore: Pavimento in resina, sp. 15 mm 195
6
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