Edizione 3

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indice

n. 3 - giugno/agosto 2014

09 la grande fuga

38 caccia al lusso

60 a caccia di affari in rete

06 il punto

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baby-miliardari di rete

08 EDITORIALE

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FINANZA E FISCO 38 - Carinzia, la sirena 42 - Un italiano a Ginevra 44 - Tasse di scambio 48 - Come un narcos

09 la grande fuga 09 - Fuga 14 - Manager d’asporto 19 - I 100 paesi da evitare 20 - Intervista a Paolo Crepet 24 - Laurea honoris fuga 26 - L’isola della speranza 28 - Buen retiro 31 - Esodo d’Italia

60 lo shopping sul web 60 - A caccia di affari in rete 64 - Se il design è web 66 - Quando il mondo bussa alla porta 69 - Business letter 72 - 10 regole d’oro

74 sul fronte dell’est

rubriche 90 - Books 130 - On the road 134 - Diamo i numeri 136 - Nord ovest e sud est 140 - Forrest 141 - Appuntamenti 143 - Back to the past

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contents

130 on the road

90 books

134 numbers

143 history


51 - Giannino intervista Giannino Voluntary non disclosure

76 cina da scoprire 76 cina, il nuovo mondo

76 - Sette anni in Cina 80 - Intervista ad Angelo Wu 83 - Abercrombie spopola in Cina 88 - Le cure che non ti aspetti

106 speciale savona

123 passione auto

92 SHIPPING

92 - Attacco a Tortuga 94 - 6,1 miliardi nel forziere 96 - Rotta verso il fondo 103 - La lunga guerra

100 Il califfato c’è e vince

123

passione auto 123 - Lusso: design su 4 ruote 126 - Driver: tra food e motori 128 - Rombo di desgn: gallery

132 SPORT

132 - Sport on the beach

106 savona 106 - Crociere, il bis di Savona 110 - L’orgoglio della qualità 112 - Savona cresce anche nelle auto 116 - Il gran rifiuto

gallery&news 56 - Jewels gallery 58 - Watches gallery 62 - Fashion news 68 - App news 71 - Design news 84 - Beauty gallery (Cina) 85 - Fashion gallery 120 - Beauty gallery (solari) 121 - Summer gallery

56 jewels

71 design

84 beauty

121 summer contents

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Spegnere il telefono

Il punto

N.3 - giugno-agosto 2014

A quando la prima sentenza di un Tribunale via tweet? Forse non siamo così distanti. Già oggi le sentenze sono spesso mediatiche e l’iter giudiziario si consuma in habitat virtuale svuotando di importanza quello reale. Se la politica è diventata virtuale, perché non pensare anche a una giustizia virtuale, una second court che faccia il paio con la Second life in Internet? In fondo non ci sarebbe da stupirsi più di tanto. Non solo in un paese come l’Italia che continua a bearsi degli effetti-annuncio (ultimo in ordine di tempo quello relativo a una flessibilità nel computo degli investimenti ai fini del deficit dello Stato, che l’Italia millanta, ma che l’Europa non ha mai e non può ad oggi ammettere), ma forse nel degrado globale della civiltà occidentale sempre più inerme anche di fronte a una prospettiva, specie europea, di auto-distruzione. Nei giorni scorsi è apparso paradossalmente su Facebook un filmato sulla civiltà dei social, degli i-pad, degli i-phone. Il confronto era impietoso, ma siamo sicuri non farà breccia, se non in rari casi: da un lato, la vita mediata attraverso le migliaia di amici mai visti su un social network, la vita fatta di solitudine assordante davanti allo screen acceso 24 ore su 24 di un computer o di un telefonino a chattare, tweettare, lanciare messaggi, affermare il proprio ego, raccontare a un mondo di alienati che pochi minuti prima abbiamo assaggiato una fetta di torta (rigorosamente fotografata da differenti angoli di visuale e accompagnata da un commento del tipo ahahah o gnam). Dall’altro una vita che sino a pochi anni fa si sarebbe definita normale, fatta di sguardi, di gioie, di dolori, di rapporti umani. Una vita a telefono spento, a computer utilizzato per quello che vale. Un filmato (https://www.facebook.com/photo.php?v=433811056755534&set=vb.1 00003799294705&type=2&theate) che lascia con l’amaro in bocca. Ma perché è stato postato? Chi scopre tardivamente i danni della società UN-social (quella che vive di falsi miti di socialità in rete)? A preoccupare, oltre al degrado e alla decadenza, è l’affermazione di nuovi modelli alternativi che in una gioventù fragilissima potrebbero e stanno facendo breccia. Droghe? Fede? Estremismo? Fanatismo? Distrutta la realtà, distrutto il virtuale, cosa resta?

DIRETTO DA Bruno Dardani e Oscar Giannino Pubblicità info@chlifestyle.ch Tel. +41 (0) 815110132 Con la collaborazione di Le Cromiche di De Andreis P. e A. S.n.c. STAMPA MediaPoint Sa

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AMMINISTRATORE Giovanni Parisi COLLABORATORi Luigi Perillo Flaviano Pontini MEMbro dell’associazione axis

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GRIMALDI GROUP Short Sea Services Trieste Genova Savona Barcellona Valencia

Ravenna

Ancona Livorno Civitavecchia Salerno Porto Torres Brindisi Cagliari Palermo

Tangeri

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Senza dignità L’editoriale

di Bruno Dardani C’è voluto un gesuita, un guerriero della Chiesa in modo strumentale dipinto come un francescano, per dire con chiarezza tutto quello che altri, con lunghissimi discorsi e con false promesse, evitano accuratamente di affermare: senza pane da portare a casa non c’è dignità. La frase pronunciata da Papa Francesco Bergoglio dovrebbe essere scolpita sui palazzi, i tanti palazzi pullulanti di tecnocrati e burocrati che formano la molle spina dorsale dell’Unione Europea. Ma ciò non accade e non accadrà perché anche queste parole sono già ieri, e nessuno, se non lo stesso Pontefice, le terrà in vita. La nostra è infatti diventata la società dell’oblio, la società che fa dei drammi un selfie, un’occasione contingente per costruire celebrità e comunicazione speculando sul dolore. Una società che trasforma tragedie che coinvolgono interi paesi in slogan da utilizzare strumentalmente, o che ignora

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trasformazioni epocali, specie quelle che comportano massacri di intere collettività, quando non ha interesse a farle emergere. Per anni gli intellettuali di regime hanno evocato l’incubo del grande fratello mediatico, dell’informazione omologata, per in effetti costruire pietra dopo pietra le fondamenta sulle quali oggi è solidamente edificato il grande palazzo della disinformazione. Vogliamo parlare delle 276 studentesse nigeriane rapite dal gruppo terroristico Boko Haram? Le loro tracce insanguinate si sono perse nella foresta del paese più ricco e più povero del mondo. Ma dove è finita la maglietta indossata da Michelle Obama con la scritta “Ridateci le nostre ragazze”? Il tempo di frenetici scatti fotografici e poi forse il destino di straccetto dimenticato da utilizzare nell’orto rigorosamente ecologico della First Lady? Dove è finito il dramma siriano, con migliaia di disperati in fuga tacitati con il trasbordo

da una nave all’altra (paradossalmente nel porto che gli Stati Uniti ritengono il meno sicuro al mondo, quello di Gioia Tauro) di una parte dell’arsenale letale di Assad? Non una riga se non occasionali citazioni sui media italiani. Media che riescono a entusiasmarsi per i discorsi di Renzi, rimbalzati da Bruxelles a Roma come se si trattasse di una dichiarazione di entrata in guerra, ma disattenti e svogliati nell’esaminare Isis e le lunghe colonne di jeep e blindati sventolanti la bandiera nera del nuovo Califfato islamico? Dove sono finite le notizie sull’epidemia di Ebola, la più grande sciagura sanitaria denunciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità? Non conviene parlarne. Si scoprirebbe forse che i rischi di contagio sui barconi che attraversano il Mediterraneo sono altissimi e che, forse, un caso nella Sicilia sud orientale è già stato registrato e accuratamente segretato. Dove sono finite le notizie sui piccoli imprenditori italiani che continuano a suicidarsi preda dell’angoscia e della disperazione? Non sono politically correct. I grandi quotidiani preferiscono sommergerle sotto gli eventi di cronaca nera propinando oppio al popolo e – esattamente come accadeva durante il fascismo quando si trattava di briganti, reati e suicidi – omettendo di scriverne. Dove sono finiti gli esodati della Fornero lasciati soli con le loro angosce e i loro incubi? Ma è pretendere davvero troppo in un paese che consente al miliardario commissario tecnico della Nazionale di calcio, quello che dava lezioni di morale, di lotta al razzismo, di difesa dei diritti dei deboli, di andarsene dall’Italia senza una parola di giustificazione dei suoi errori per raggiungere il buen retiro di una squadra turca che gli garantirà redditi ancora più milionari, senza pretendere neppure l’obbligo di sorrisi melliflui, renzismo da stadio e buonismo di compiacenza?


di Bruno Dardani

in fuga

Sempre più italiani scelgono la strada dell’emigrazione per abbandonare un paese che non dà speranza. Giovani laureati, professionisti, over40, pensionati; ciascuno ha un buon motivo per partire e per non tornare

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cappano tutti. Scappano i giovani che non hanno più né voglia né tempo di attendere e tantomeno di credere alle promesse di un paese che ritiene in afferente una modifica anche di un punto nelle prospezioni di crescita del Pil; scappano i professionisti e le imprese che ormai subiscono non solo una pressione fiscale superiore all’80%, ma una oppressione fiscale che sta letteralmente svuotando e azzerando intere filiere, dalla nautica all’auto, dall’edilizia residenziale al turismo, a tutto vantaggio dei paesi confinanti che crescono a due cifre e offrono agli italiani in fuga ciò che nel loro paese è diventato non solo reato, si è trasformato (o forse è sempre stato) peccato; scappano a gambe levate i pensionati che detassando pensioni mensili che in Italia significano fame ed emarginazione, riescono ad assicurarsi, anche a costo di qualche rischio, ultimi anni di vita felice; scappano gli studenti che si fidano sempre di meno del sistema formativo nazionale e sanno che comunque al momento dell’assegnazione di posti, specie nell’apparato pubblico, la loro formazione varrà meno di zero. L’esercito degli italiani in fuga da un paese in macerie, che sta soffocando la speranza e ha annientato ormai da tempo la voglia di intraprendere, si gonfia ogni giorno di più. Neppure la brezza di aspettative sollevatasi con l’avvento del nuovo presidente del Consiglio e le sue molteplici promesse è riuscita a rallentare quello che, oltre un esodo biblico, è specialmente un esodo di qualità. Secondo le più recenti statistiche dell’Aire, l’associazione degli italiani residenti all’estero, nel solo 2013 il numero degli italiani che ha abbandonato il Bel Paese ha sfiorato quota 100.000, con una crescita del 55% in soli due anni. Ma le cifre mentono. Ormai due italiani su tre se ne strafregano

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di iscriversi all’Aire anche perché pensano, a torto o a ragione, che questa iscrizione sia solo l’anticamera (come accade per oltre la metà degli espatriati) dell’apertura di un procedimento di accertamento fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate. E allora scappano (e secondo una stima più attendibile nel 2013 avrebbero fatto le valigie più di 250.000) senza lasciare traccia, con una convinzione del tutto nuova e letale per il paese: quella di non tornare. Giovani laureati, ricercatori (sui quali il paese ha investito in formazione, ben sapendo di fare un regalo alle aziende estere), scappano verso altri paesi europei, nei quali la crisi incide in modo molto minore di quanto non accade in Italia. Paesi in cui gli impiegati e i funzionari pubblici si chiamano “Civil servant” perché sono al servizio dei cittadini e delle imprese e non

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il contrario. Paesi nei quali un giovane può aprire una società con 15 sterline e sa che per tre anni nessuno verrà a bussarti alla porta ricattandoti o facendoti chiudere attraverso un perverso meccanismo di anticipo delle tasse su quanto non si è ancora incassato e forse non si incasserà mai. Paesi nei quali chi cerca il profitto non è un delinquente. Paesi nei quali non si potrebbe mai ammettere che in almeno cinque regioni su 20 (con oltre il 40% della popolazione residente) le tasse non si paghino o si evadano in massa, perché la gente è costretta a pagare qualcun altro che eroga i servizi e controlla il territorio. Non esiste un’Alsazia, un Baden Wuttenberg, un Kent o una Andalusia che non facciano parte integrante del sistema paese; non esistono in Europa regioni di Stati nazionali in cui le norme siano diverse o siano

considerate res nullius; non esistono regioni dove, come accade invece in Italia, oltre il 30% dei veicoli viaggia senza assicurazione “obbligatoria”. Di fronte a questo schifo, la reazione dello Stato ladro è stata ed è una sola: la gogna, l’oppressione fiscale, amministrativa, burocratica, giudiziaria, che comodamente si basa su statistiche di evasione che riguardano un paese diviso a metà e che colpisce con pervicacia là dove si produce e si lavora, là dove si strapaga uno Stato che non eroga servizi, per ignorare tutte le aree scomode che lo Stato non controlla più e forse non ha mai controllato e dove comunque nessuno si azzarda controllare. Non sono casuali né le destinazioni prevalenti della fuga in atto, né le Regioni che maggiormente subiscono l’erosione di cervelli, di professionalità, di imprese.


Gli italiani, specie i giovani, scappano verso quella che ritengono la patria della civiltà e della convivenza civile, la Gran Bretagna e in particolare Londra. Nel 2013 un incremento del 71,5% di iscritti Aire nel Regno Unito con una netta prevalenza nella fascia fra i 20 e 40 anni. Quasi 8.500 giovani, in gran parte laureati, molti già formati che accettano anche incarichi di basso livello pur di lacerare la cappa opprimente che incombe sulle città italiane. La maggioranza di questi nuovi cittadini del mondo proviene dalle regioni che sino a pochi anni fa rappresentavano la meta preferita di una emigrazione all’interno dell’Italia. Partono in prevalenza dalla Lombardia, dal Veneto, seguiti dal Lazio, dove forse per la prima volta si sta propagando il ragionevole dubbio che la sicurezza di un posto fisso

nell’apparato dello Stato, o nella Regione Lazio o nel munifico Comune di Roma, non sia più tale. Al quarto posto si colloca la Sicilia, seguita da Piemonte, Emilia Romagna, Campania, Toscana, Calabria. Un emigrante su due è under 40. Al 31 dicembre dell’anno scorso risultavano residenti all’estero 4 milioni 482mila italiani. Gran Bretagna e Germania sono le destinazioni preferite, seguite da Svizzera, Francia e Argentina. Quindi il Brasile, che precede gli Stati Uniti e i paesi dell’estremo oriente. Ormai, al contrario di quanto accadeva nei flussi migratori che hanno caratterizzato epoche lontane, a lasciare il paese sono indifferentemente single e intere famiglie, uomini o donne (queste ultime quasi il 44% del totale).

Le inchieste e i sondaggi a campione su chi la scelta di emigrare l’ha compiuta non si prestano a dubbi interpretativi. Rientrare in Italia? Neanche morto. E si moltiplicano i siti web ricchi di suggerimenti e di indicazioni pratiche sia per chi la scelta l’ha compiuta sia per chi è sulla lama del rasoio della decisione finale. Da Mollotutto a Italiansinfuga ai siti monotematici come australiasoloandata. com. Molti di questi siti sfociano in blog che raccolgono le esperienze vissute, ivi comprese le delusioni e le conseguenze di un approccio negativo da parte dei residenti di vecchia data rispetto ai newcomer. Nella stragande maggioranza dei casi, tuttavia, questi siti si sono trasformati in guide permanenti alla fuga. Parlano di una Londra dove i giovani aprono attività

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imprenditoriali in una settimana e sotto l’ombrello protettivo di un fisco che tutela le start up, parlano di paradisi dei mari del sud dove i pensionati da fame riscuotono le loro pensioni detassate e possono permettersi di pronunciare una parola che nelle grandi città italiane, per molti entrati nella terza età, è vietata: dignità. Le motivazioni della fuga rispecchiano i mali dell’Italia. Sono antidoti alla scomparsa di speranze, sono rimedi a una crisi economica che diventa per piccole imprese e famiglie irreversibile, sono risposta al bisogno crescente di sicurezza e di tutela, sono esodo dal fisco e dalla burocrazia che uccidono, sono anche cura contro la banalità del politically correct. Per i giovani l’Italia è diventato un paese irrespirabile. É vero. Il brain drain, la fuga dei cervelli, riguarda tutti gli Stati europei. Ma – come evidenzia Paolo Crepet – oltre frontiera esiste un fondamentale equilibrio o comunque una compensazione fra chi va e chi arriva. Ma chi arriva in Italia? Da quanti anni uno studente californiano non sceglie un’ateneo italiano? Sotto-retribuzioni, baronie, raccomandazioni continuano ad essere il driver prevalente di un paese che non riesce e probabilmente non può cambiare. Ha in parte ragione il giovane premier Renzi ad affermare che se esiste una fuga di cervelli è perché l’Italia crea cervelli da esportare. Ma dimentica di parlare a quale costo la scuola italiana e l’università formano i giovani per poi “regalarli” ad altri sistemi economici. Secondo Astraricerche, i manager che vanno via non tornano più in Italia e fra le mura amiche tende a restare anche nell’impresa quella componente manageriale, o pseudo tale, che ha bisogno di essere protetta sempre e comunque. Sono le ultime generazioni imprenditoriali che non hanno avuto bisogno di formazione perché sono subentrate a padri veri imprenditori senza alcun requisito per governare l’impresa. Un piccolo esercito di giovani, laureati, ricercatori, professionisti, famiglie, piccoli imprenditori, pensionati, anche molti single, che taglia le radici, fa le valigie e se ne va. Nella maggior parte dei casi senza rimpianti, senza suadade, senza malinconia. É un’Italia in marcia che nella maggior parte dei casi, ci ha provato, è rimbalzata per anni contro un muro di gomma e quando decide lo fa per sempre. Talora con rabbia, spesso con una gran voglia di dimenticare

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e ricostruire una vità partendo dal punto zero. Il sito Italiansinfuga conta quasi 30.000 visite al mese. E alla domanda “cosa ti trattiene in Italia”, la risposta più attesa e naturale, quella relativa agli affetti famigliari e no, è drammaticamente scavalcata dalla frontiera della disperazione: “non ho ancora messo da arte i soldi sufficienti per scappare”. E se la maggioranza – come detto – espatria in paesi europei, molti guardano con crescente interesse alle destinazioni più lontane, quelle del non ritorno certo e garantito. Il sito Australiasoloandata, pubblica cifre

sorprendenti: al 30 settembre 2013 erano presenti in Australia 18.610 cittadini italiani con visto di residenza temporaneo, pronti a giocarsi il tutto per tutto (in primis qualificazioni professionali molto richieste come couchi, barman, restaurant manager) per ottenere un non facile visto definitivo. Spopolano anche i siti e le app per imparare le lingue in tempi strettissimi e per poter affrontare conversazioni e impegni in settori specialistici. Su Fluentify si paga dai 7 ai 12 euro per una sessione di trenta minuti con tutor sparsi fra Canada, Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Sud Africa.



Manager d’asporto

Perché all’estero gli italiani sfondano e fra le mura amiche si bloccano nella palude? Gli sconcertanti risultati di una ricerca da Manageritalia e Kilpatrick, con la collaborazione tecnica di AstraRicerche

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i va all’estero per puntare a quella crescita professionale che in Italia è ormai impossibile e si tornerebbe in Italia solo per motivi personali, affettivi e famigliari, con la consapevolezza di rinunciare a un percorso professionale serio e soddisfacente per ricalarsi in una palude. E c’è qualcosa di peggio: gli stranieri verrebbero in Italia solo perché attirati dalla bellezza del Paese. Chi punta alla carriera non ci pensa neppure. I dati di una ricerca condotta mesi addietro da Manageritalia e Kilpatrick, con la collaborazione tecnica di AstraRicerche, forniscono uno spaccato devastante sulle

aspettative “manageriali” del Bel Paese. Le interviste via web (CAWI) a oltre 1.500 manager italiani espatriati, che attualmente vivono e lavorano all’estero, hanno confermato che ormai l’attrattiva dell’Italia per chi punta ai vertici delle aziende e si candida a funzioni di alta responsabilità è quasi pari a zero. Ecco le principali indicazioni:

LA SCELTA DELL’ESTERO • si va all’estero volutamente (93%), perché è oggi indispensabile per crescere professionalmente e fare carriera, ancor più in un’Italia che offre sempre meno dal punto di vista professionale


• si è molto soddisfatti (97% molto più di abbastanza, il 75% molto) della scelta fatta dal punto di vista professionale • i nostri manager espatriati sono molto apprezzati nel Paese di destinazione soprattutto per passione e impegno nel lavoro, capacità relazionali e creatività • per andare all’estero in modo vincente serve apertura al cambiamento, spirito di adattamento e voglia di mettersi in gioco e bisogna lavorare sui gap dovuti a scarsa multiculturalità, forte legame con i modelli manageriali italiani ed eccessivo richiamo alle radici

TORNEREBERO IN ITALIA A LAVORARE? • l’ampissima maggioranza (92%) tornerebbe certamente (44%) o forse (42%) a lavorare in Italia • i principali motivi del ritorno sono però affettivi: riavvicinamento alla famiglia d’origine (57%) e/o per la qualità della vita (45%) • solo un terzo (37%) tornerebbe a fronte di opportunità professionali

COME VEDONO L’ITALIA I MANAGER ESPATRIATI • è sempre il più Bel Paese dove vivere (84%), tant’è che si vorrebbe che il Paese dove si vive oggi copiasse l’Italia su questo aspetto sociale • non ha prospettive a livello economico e sociale per tornare (83%) • dovrebbe diventare a livello professionale come è oggi l’estero (77%) • è un paese corrotto (66%) e con una pessima immagine all’estero (61%)

COME VEDONO LA CLASSE MANAGERIALE ITALIANA (in patria) • poco capace e abituata a muoversi in ambito internazionale perché non va o va troppo poco all’estero (85%) • non è pronta ad affrontare le sfide globali perché non ha lo standing e la conoscenza necessaria (55%) • è comunque molto apprezzata all’estero (56%) e non riottosa a confrontarsi con i mercati globali (55%)

IL MONDO DEL LAVORO ALL’ESTERO • è più meritocratico nel lavoro e non

(86%), fortemente basato sul merito per fare carriera (79%) e usa le conoscenze per valorizzare merito ed esperienza (79%) • è più paritario con le donne perché vige il merito (68%), non le discrimina sul lavoro (64%), prevede più servizi per la famiglia e condivisione dei carichi familiari (61%)

COME SONO VISTI I MANAGER NEL PAESE DOVE SONO OGGI • sono una componente importante della classe dirigente (96%), hanno voce in capitolo nel definire le scelte economiche del Paese (65%) e sono una delle professioni più ambite dai giovani (76%) • c’è una netta distinzione tra top manager della finanza e generalità dei manager (72%) e non sempre e tutti i top manager della finanza hanno una pessima reputazione (60%) • i manager del pubblico si salvano, ma sono meno stimati (55%) • i manager in generale non hanno una pessima immagine presso la gente comune (89%)

I LORO COLLEGHI MANAGER ESTERI VERREBBERO A LAVORARE IN ITALIA? • nel 45% dei casi hanno colleghi manager che verrebbero a lavorare in Italia • ci verrebbero soprattutto perché siamo il più bel paese del mondo (90%), mentre crolla l’appeal professionale in termini di aziende (24%) e opportunità professionali (12%)

QUALE CLASSE MANAGERIALE PER L’ITALIA? • i manager italiani devono fare esperienza internazionale (100%) anche per dare un grosso contributo all’internazionalizzazione delle aziende e dell’economia italiana (99%) • l’Italia ha bisogno di maggiore presenza, competenza e gestione manageriale nel privato (87%), perché i manager sono pochi e non hanno spazio in un Paese dominato dalle piccole imprese (63%) • la classe manageriale italiana nel pubblico è inferiore a quella dei Paesi più avanzati (85%) • l manager italiani che operano nel privato non sono meno bravi di quelli dei Paesi più avanzati (66%) • grossi vantaggi verrebbero all’Italia anche dal ritorno e dall’inserimento nelle aziende italiane degli stessi manager oggi all’estero

che porterebbero aspetti positivi nel mondo del lavoro e nell’economia (66%) e capacità di guidare le aziende in modo vincente sui mercati esteri (62%)

DAL PUNTO DI VISTA PROFESSIONALE I MANAGER ITALIANI lavorano in multinazionali estere (53%), in multinazionali italiane (42%) o in aziende locali del Paese che li ospita (5%), occupano soprattutto posizioni di general management (40%), marketing, vendite e commerciale (17%), amministrazione, finanza e controllo (12%) e personale (11%). Poco più della metà è all’estero da massimo cinque anni (52%, 28% da meno di 3 anni e 24% da 3-5 anni), l’altra metà (48%) da più di cinque anni (da 6 a 10 anni 29% e oltre 10 anni 19%). Vivono e lavorano principalmente in Europa (55%), a seguire Asia (26%) e America (18%). A livello di singolo paese prevale la Svizzera (11%), su Cina (10%), Brasile (9%), Francia (7%), Germania e Hong Kong (6%), Spagna e Usa (5%), Russia (3%).

PERCHÉ SONO ALL’ESTERO I nostri manager sono volutamente a lavorare all’estero (93%), più spesso andando a cercare loro un’azienda che offrisse quell’opportunità (44%) o concordandolo con l’azienda nella quale erano in Italia (49%). Solo una sparuta minoranza (4%) ha subito questa decisione in tutto e per tutto perché pressoché obbligata dall’azienda. I motivi che li hanno spinti all’estero sono legati al lavoro: possibilità professionali più stimolanti di quelle presenti in Italia (51%), voglia di un’esperienza internazionale (38%), passaggio obbligato per fare carriera in azienda (24%). C’è anche chi è stato obbligato dal non aver trovato opportunità interessanti in Italia (27%) o da motivi personali/familiari (9%). Solo il 5% quelli che già all’estero per motivi di studio sono poi restati lì in pianta stabile.

SONO SODDISFATTI Dal punto di vista professionale la soddisfazione è plebiscitaria. Il 97% è molto (75%) o abbastanza soddisfatto del lavoro, l’87% della vita personale, l’81% delle relazioni. Ancora maggioritaria ma minore la soddisfazione dal punto di vista affettivo (62%).

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mondo globale (55%). Tutto questo anche se la maggioranza riconosce che i manager italiani sono molto apprezzati all’estero (56%) e nega che non abbiano nessuna voglia di confrontarsi con l’estero (55%).

COME VEDONO E VIVONO L’ITALIA OGGI DALL’ESTERO

LE CARATTERISTICHE SU CUI PUNTARE PER FARE CARRIERA ALL’ESTERO Per andare all’estero, dicono i manager espatriati, serve su tutto: apertura al cambiamento (72%), spirito di adattamento (71%) e voglia di mettersi in gioco (51%). Minoritarie intraprendenza (38%), umiltà (25%), visione (19%).

COSA CONTRADDISTINGUE I MANAGER ITALIANI ALL’ESTERO I manager italiani all’estero sono molto apprezzati per: passione e impegno nel lavoro (54%), capacità relazionali (45%) e creatività (32%). Seguono resistenza e capacità di affrontare situazioni difficili (30%), esperienza e capacità in settori specifici (28%), spirito imprenditoriale e visione strategica (25%). Al contrario le caratteristiche che ci penalizzano sono: scarsa multiculturalità (56%), incapacità di staccarsi dai modelli aziendali/manageriali italiani (48%), eccessivo richiamo delle radici (42%).

IL MONDO DEL LAVORO ALL’ESTERO: IT’S DIFFERENT AND BETTER Emerge chiaro e tondo e oltre ogni stereotipo che professionalmente fuori dall’Italia è “un altro lavorare”. L’ampissima maggioranza è molto o abbastanza d’accordo che c’è generalmente più meritocrazia in tutti gli ambiti (86%), è più facile fare carriera per merito e senza avere particolari conoscenze (79%) e che le conoscenze valgono e si usano in relazione al merito e all’esperienza delle persone (79%). Un altro mondo anche

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per le donne che: hanno più possibilità di fare carriera perché vige il merito (68%), non sono discriminate sul lavoro (64%) e ci sono più servizi per la famiglia e/o condivisione dei carichi familiari (61%). E qui il giudizio è unanime, seppure un poco più alto tra le stesse donne. A riprova di quanto sopra, si nega che il mito dell’estero come Eden professionale sia tutta una montatura e i problemi siano alla fine gli stessi dell’Italia (69%).

LA CLASSE MANAGERIALE ITALIANA IN AMBITO INTERNAZIONALE A detta degli intervistati la capacità della classe manageriale italiana, quella che oggi vive e lavora nella penisola, di muoversi in ambito internazionale è scarsa. Infatti, si dice che ha esperienza e frequentazione dell’estero insufficiente (85%), non è pronta ad affrontare le sfide che arrivano dall’estero (51%), non ha lo standing internazionale necessario per muoversi in un

L’Italia conferma, in chi l’ha lasciata per lavoro ed è oggi lontano, la sua immagine di Bel Paese dove vivere (84%), tant’è che si vorrebbe che il paese dove si vive oggi la prendesse ad esempio per molti aspetti della vita sociale (80%). Però l’idillio finisce qui e poi arriva una bocciatura netta e senza appello. Perché sempre una netta maggioranza afferma che: nell’Italia di oggi non ci sono prospettive a livello economico e sociale per pensare di tornare (83%), si vorrebbe che l’Italia prendesse il paese dove si abita oggi come esempio per molti aspetti della vita professionale (77%), l’Italia è un paese corrotto (66%), oggi l’Italia ha una pessima immagine all’estero (61%). A conferma di questo, minoritari sono quelli che dicono che nel loro paese attuale l’Italia ha una buona immagine (40%) e anche quelli che dicono che il crollo d’immagine sia avvenuto solo negli ultimi anni (40%). E questo giudizio è meno peggio in chi vive in America e molto peggio in chi vive in Europa. E la situazione tende a peggiorare, sempre secondo uno studio di Astraricerche per Manageritalia, la situazione all’interno delle aziende si deteriora rapidamente per cause esogene (burocrazia, oppressione fiscale, ecc), ma anche endogene. Il 71% delle aziende italiane non ha politiche di gestione del passaggio generazionale; solo il 14% ne ha e il 15% pensa di introdurle.


lifestyle

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italiansinfuga.com 37 cose che nessuno ti dice sull’emigrazione. 37 cose che dovete sapere prima di emigrare.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Quello che per me è il Paradiso per te può essere l’inferno. Una nazione che ti piace a 20 anni può non piacerti a 30.

Sarai sempre uno straniero anche quando diventi cittadino della nazione straniera. Un giorno penserai a dove vuoi essere seppellito (all’estero o in Italia).

Per i nuovi amici sarai un mago della cucina solo perché sei italiano, anche se non hai mai cucinato in vita tua. Si mangia bene anche all’estero.

I tuoi figli nati e cresciuti all’estero probabilmente non sapranno pronunciare il cognome italiano correttamente.

8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

In alcune nazioni inizierai a cenare alle 6 di sera.

Adorerai piatti delle cucina straniera che avevi giurato che non avresti mai mangiato. Conoscerai versioni ‘indigene’ di piatti italiani che ti lasceranno senza parole. Sopravviverai senza bidet. In alcune nazioni vieni osservato come un animale da circo.

La disonestà esiste dappertutto.

Puoi anche scegliere di non integrarti ma ti rendi così la vita

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escape

molto difficile.

15. 16. 17.

A volte la differenza tra il rimanere all’estero e il tornare in Italia è molto sottile. Prima o poi tiferai per la nazionale della tua nuova Patria.

Alcuni in Italia ti diranno “hai avuto fortuna” mentre tu pensi che invece ti sei fatto un mazzo così, altro che fortuna.

18.

Alcuni in Italia ti diranno “all’estero è più facile” mentre tu pensi che invece ti sei fatto un mazzo così, altro che più facile.

19. 20. 21. 22.

Apprezzerai alcuni aspetti dell’Italia più di quanto facessi in

Italia.

Odierai alcuni aspetti dell’Italia più di quanto facessi in Italia.

Alcuni in Italia ti chiameranno “codardo” per essere emigrato mentre loro rimangono lì “a lottare”. Ti passa la voglia di andare a ogni occasione vacanziera in Italia e inizierai a esplorare i lidi preferiti dai tuoi nuovi amici.

23.

Dopo alcuni anni agli stranieri che si lamentano della vostra patria adottiva ti viene voglia di dire “se non ti piace, puoi pure tornare a casa”.

24. 25.

Dovrai spiegare per decenni il perché della politica italiana ai nuovi amici. Scoprirai che non ti interessa più riempire la valigia di parmigiano

e caffè.

26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34.

Non sempre troverai la soluzione ai tuoi problemi trasferendoti all’estero, anzi. Parlerai sempre e comunque con un accento straniero. Anche dopo 20 anni ti trovi a fare cose da turista. Non conosci la lingua straniera bene come pensavi di conoscerla. É possibile che odierai intensamente la tua Patria di

adozione.

Scoprirai di essere meno tollerante di quanto pensavi. La vita degli amici in Italia continua tranquillamente senza

di te.

Non avevi bisogno di tutte le cose che avevi messo in valigia.

Dopo aver conosciuto persone provenienti da tutto il mondo ti rendi conto di quanto sei stato fortunato a nascere e crescere in un nazione sviluppata come l’Italia (quella si che è fortuna).

35. 36. 37.

Il cibo dei ristoranti italiani all’estero non è come quello dei ristoranti in Italia. Il cibo dei ristoranti cinesi in Cina non è come quello dei ristoranti cinesi in Italia. Tanti stranieri non nemmeno dov’è l’Italia.

sanno


I cento paesi da evitare Gli elementi che formano il numero indice sono: • Pressione demografica: problemi relativi alla popolazione come ad esempio scarsità di cibo, crescita della popolazione e tassi di mortalità • Rifugiati e persone sfollate all’interno della nazione stessa

Foreign Policy ha recentemente pubblicato la classifica della nazioni a rischio, ovvero dei paesi da evitare sulla base di Fund For Peace

• Tensione e violenza tra gruppi di persone all’interno della nazione stessa • Emigrazione da parte di rifugiati e di “cervelli” • Sviluppo economico irregolare all’interno della nazione stessa • Povertà e declino economico • Legittimità dello Stato

• • • • •

Amministrazione pubblica Diritti umani e principio di legalità Apparato di sicurezza Presenza di “caste” Livelli di interventi esterni da parte di altre nazioni come ad esempio l’assistenza umanitaria oppure sanzioni o un’invasione militare

Ecco i primi cento da evitare con cura se si pensa di lasciare l’Italia. Piazzamento

Nazione

Indice

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1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 19 21 22 23 24 24 26 27 28 29 30 31 31 31 34 35 36 37 38 39 40 41 41 43 44 46 47 48 49 50

Sudan del Sud Somalia Repubblica Centrale Africana Repubblica Democratica del Congo Sudan Chad Afghanistan Yemen Haiti Pachistan Zimbabwe Guinea Iraq Costa d’Avorio Siria Guinea Bissau Nigeria Kenia Niger Etiopia Burundi Uganda Eritrea Birmania Liberia Corea del Nord Camerun Mauritania Bangladesh Sri Lanka Timor Est Egitto Nepal Rwanda Sierra Leone Mali Repubblica del Congo Malawi Burkina Faso Cambogia Togo Libia Angola Iran Libano Isole Solomon Uzbekistan Zambia Mozambico

112.9 112.6 110.6 110.2 110.1 108.7 106.5 105.4 104.3 103 102.8 102.7 102.2 101.7 101.6 100.6 99.7 99 97.9 97.9 97.1 96 95.5 94.3 94.3 94 93.1 93 92.8 92.6 91 91 91 90.5 89.9 89.8 89.6 89.1 89 88.5 87.8 87.8 87.4 87.2 86.9 86.4 86.3 86.2 85.9

51 52 52 54 55 56 57 58 59 59 59 62 63 64 65 66 67 68 68 70 71 72 73 74 74 75 76 78 79 80 81 82 83 83 85 86 88 89 90 91 92 93 93 95 96 97 98 99 100

Swaziland Guinea Equatoriale Filippine Comoros Tajikistan Laos Papua Nuova Guinea Kirghizistan Gambia Colombia Madagascar Senegal Georgia Bhutan Tanzania Guatemala Israele/Cisgiordania Cina Isole Fiji Bolivia Algeria Lesotho Nicaragua Benin Turkmenistan Honduras Azerbaijan Tunisia Ecuador Thailandia India Indonesia Venezuela Giordania Russia Bosnia Maldive Moldavia Bielorussia Micronesia Marocco Capo Verde Turchia Repubblica Dominicana Arabia Saudita Perù Vietnam Gabon El Salvador

85.8 85.3 85.3 85.1 84.6 84.3 84.1 83.9 83.1 83.1 83.1 82.8 82.7 80.9 80.8 80.3 79.5 79 79 78.9 78.8 78.6 78.4 78.2 78.2 77.9 77.8 77.5 77.3 77 76.9 76.8 76.7 76.7 76.5 75.9 75.4 75.1 75 74.6 74.4 74.1 74.1 73.4 73.1 72.9 72.7 72.2 72


di Bruno Dardani

Il problema non sono quelli che partono‌

intervista a Paolo Crepet sociologo, psichiatra, scrittore



Paolo Crepet, sociologo, psichiatra e scrittore, a ruota libera sulla fuga dei cervelli: il vero problema sono quelli che restano e sono frutto di una cultura feudale che permea il pubblico come il privato e le imprese, emarginando chi avrebbe le carte in regola per rilanciare il Paese

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interview

Per me non è allarmante; anzi, sono molto soddisfatto che nelle famiglie italiane, nella borghesia italiana, si stia facendo strada una nuova mentalità: che per i giovani il massimo delle aspirazioni e della propensione al rischio non corrispondano a un trasferimento a Milano, ma che sulle loro carte geografiche siano apparse Londra, Parigi, Amburgo, New York, e che queste destinazioni non corrispondano a un dramma sociale... ” Paolo Crepet, psicologo, psichiatra e

scrittore non esita - come sempre più di sovente gli accade - a navigare controcorrente, sino al punto di rifiutare l’affermazione stessa “fuga dei cervelli”. Non è una fuga, è una ricerca di ciò che l’Italia non fornisce da anni. “Se i cervelli fuggono - continua - ciò significa che i cervelli ci sono e che i confini sono diventati permeabili”. “Non ci trovo nulla di strano; è già accaduto, accade da anni e forse prosegue - questa emigrazione non è poi così differente da quella agricola,


povera, che spopolava le campagne italiane all’inizio del Novecento o fra le due guerre. É vero, andavano in Australia poveri contadini, ma erano quelli che avevano voglia di intraprendere, che non si rassegnavano, che sognavano”. Paolo Crepet si ferma a riflettere. “Il vero problema non sono quelli che partono - confessa quasi a fatica - ma quelli che rimangono. Oggi come allora il nostro paese tende a sedimentare il peggio ed è totalmente incapace di innescare, in un mondo senza confini, flussi in entrata. Ve lo immaginate un giovane californiano che viene in Italia a lavorare a Padova, che sogna e realizza qui i suoi sogni impiantando un’attività innovativa?” Ma via, smettiamola di parlare di fuga. É una partenza; la partenza di chi va alla ricerca di opportunità e di un suo futuro... “Non torneranno più? Probabile se l’Italia sarà ancora quella di oggi. Presto per dirlo: certo i casi di ritorno in Italia sono rari. Sono stato testimone del caso di una laureata in medicina che, dopo l’Erasmus, si è specializzata in Gran Bretagna. É tornata in Italia, ma sapete dove ha trovato posto con una retribuzione dignitosa? Non certo in una Asl gestita da un grasso presidente di nomina politica, ma nell’associazione Medicins sans frontieres che, guarda caso, riconosce le professionalità” “Sarà anche amaro – prosegue Crepet – ma esiste un parallelismo storico con la Spagna di Franco, un paese claustrofobico, gretto, chiuso, che subì inerme l’espatrio di una intera generazione di giovani di valore, emigrati in paesi europei, negli Stati Uniti, in Sud America; giovani che hanno imparato l’inglese, hanno creato reti; qualcuno di loro è tornato e ha contribuito in modo determinante a sprovincializzare la Spagna”. “Per tornare bisogna che esistano le condizioni di base per tornare e l’Italia è un paese profondamente malato non solo nella struttura pubblica, ma anche nel privato e nell’impresa. I second generation di famiglie imprenditoriali o di professionisti sono stati allevati come super-raccomandati e mandano in malora le aziende che una generazione di veri imprenditori aveva creato come pilastri della crescita italiana. Si concretizza così un doppio fenomeno: da un lato chi ha

studiato, ha buona formazione, qui non trova nulla, non ha speranza, perché a occupare opportunità che devasteranno ci sono gli altri.” “Questo sì - continua lo scrittore - è un fenomeno tutto italiano e trasversale a tutti i ceti sociali. Basti pensare alle differenze nella disoccupazione in un paese come gli Stati Uniti e la disoccupazione in Italia: in America se un’azienda chiude il 98% dei disoccupati sa che presto troverà un nuovo lavoro. In Italia esiste e si allarga un enorme parcheggio di disoccupati a vita. E non c’è nulla di casuale: tutto è frutto - afferma Paolo Crepet - della cultura dell’autonomia che in Italia non esiste; da noi le persone tendono a essere interiormente dipendenti, della mamma, della fidanzata, della città in cui vivono, delle abitudini, del posto di lavoro garantito”. “Devo garantire la nonna con Alzheimer, non un 25enne al quale non devo promettere né garantire un ingresso privilegiato o raccomandato nel mondo del lavoro. Più sono garantiti più sono dei falliti”. Il paragone di Crepet diventa graffiante: “Avete presente gli gnocchi? Quelli fatti a regola d’arte con patate buone vengono a galla e sono buoni. Questi sono i giovani che vanno via; gli gnocchi fatti con patate marce si attaccano al fondo della pentola e diventano colla, quella grande colla che è oggi l’Italia”. “Dovunque ti giri - prosegue - è colla. Vischiosa nella formazione universitaria, con atenei per anni riempiti da concorsi marci, frutto di un vero e proprio feudalesimo premiante per i vassalli meno intelligenti. Soluzioni? Ad esempio abolire i concorsi e affidare alle Università, con tutte le responsabilità che ne conseguono, il compito di scegliere i docenti. Nel settore privato migliaia di famiglie imprenditoriali insiste Crepet - hanno scelto di non avere coraggio, per paura di perdere ciò che avevano; famiglie che consideravano e considerano l’azienda come un possesso, come casa loro, quando l’azienda, come sostiene Bill Gates, è invece di chi vi lavora e non un comodo posto dove collocare i figli”. Ma tornando al tema della fuga di tanti giovani italiani all’estero, Crepet sottolinea come l’Italia stia vivendo un cambiamento lacerante, non una semplice

crisi economica. Un cambiamento che per la prima volta riguarda anche gli over 40 e non solo i giovani di valore. Per chi ha superato i 40 anni tutto è più difficile, eppure nell’Italia della stagnazione sono in molti che hanno accettato e accettano ogni giorno con coraggio la sfida di ricominciare da capo. “Non sono un patriota - afferma Crepet - e l’Italia si salva solo se lo merita. E per salvarla dobbiamo imparare a dissacrarla, ad attaccare la logica perversa del rinchiudiamoci in noi stessi, del ritorno all’antico, della polenta davanti al camino della nonna. Quell’Italia è morta, ma è rimasta la colla di un cambio generazionale dopato, di aziende che non si preoccupano di avere un sito internet, che protestano (con tanta, troppa moderazione) per i ritardi nell’agenda digitale, ma della rete digitale non avvertono realmente il bisogno”. “Dovremmo avere il coraggio rivoluzionario di dire che fra dieci anni e forse meno – sostiene Crepet – non ci sarà più bisogno di uffici pubblici, che le rendite di posizione si sgretoleranno perché non potranno essere mantenute e sovvenzionate. Per intanto chi vale e non riesce più a sopportare questo gigantesco pantano, se ne va e oggi non è così importante se fra dieci o vent’anni tornerà.” Non una fuga, ma una ricerca. Non una fuga, ma un viaggio della vita. Esiste un dato statistico sottovalutato: gli studenti che hanno aderito al programma Erasmus e che in parte si sono formati in altri paesi nel mondo, hanno il 32% di chance in più di trovare lavoro. Ma allora perché un buon genitore, in Inghilterra, in Olanda, o in Germania mette i suoi soldi sulla formazione del figlio, mentre in Italia cosa fa? Gli compra una casa, che sarà una condanna a morte, una condanna a sopravvivere in una città che non gli darà opportunità di lavoro, opportunità di vita, di crescita.” “Ricordo ancora - conclude Paolo Crepet - un mio professore a Londra che sarebbe stato proprietario ancora per “soli” 40 anni della sua casa, prima che rientrasse nelle proprietà della Corona. Alla mia domanda se non era preoccupato per i suoi figli che amava e che sarebbero rimasti senza casa, mi rispose brusco: cosa c’entro io con la loro vita?”.

interview

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Laurea honoris fuga

Quasi il 10% dei neo-laureati (il 20% dei Bocconiani) emigra verso altri lidi. Un conto salatissimo per un paese che forma a carissimo prezzo i suoi giovani e li regala ad altri sistemi economici. Il saldo negativo del Brain drain

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s

econdo Confimpreseitalia sono più di 60mila i giovani italiani che lasciano il Paese ogni anno, e il 70% è laureato. • Secondo Ance i laureati in fuga all’estero sono aumentati del 40% in sette anni. • Tasso di espatrio dei laureati italiani: era del 7% (dati Ocse del 2000 – media Ocse al 5%) sei anni fa, è balzato fra il 9 e il 10% con una tendenza a crescere ulteriormente. Nei Paesi industrializzati la “forchetta” è compresa tra il 3,5% e il 13%). Solo lo 0,7% dei laureati che emigrano nei Paesi Ocse sceglie l’Italia. • Il 20% dei laureati dell’Università Bocconi

trova lavoro all’estero. • Per Lorenzo Beltrame (autore del paper “Realtà e retorica del brain drain in Italia”) sono 410mila i laureati italiani all’estero. Il saldo netto tra “cervelli” in entrata e in uscita è sfavorevole: uno contro tre. • Secondo quanto emerso dalla trasmissione Giovani talenti su Radio24 25mila professionisti italiani occupano posizioni di alto livello negli Usa. 3500 di loro ricoprono posizioni di ricerca o docenza nelle università americane. • Il 70% dei ricercatori “under 40” intervistati mostra bassa o nulla propensione a rientrare in Italia. Per Almalaurea, oltre il


50% dei laureati italiani all’estero afferma di non pensarci proprio, a rientrare (il flusso in uscita è quadruplicato - secondo Almalaurea - in meno di dieci anni). • Sempre secondo un calcolo della trasmissione “Giovani Talenti” il capitale umano che viene perso per l’espatrio dei laureati ammonta a 851 milioni e 760mila dollari. Secondo i dati di Confimpreseitalia ammonterebbe a ben 5 miliardi e 915 milioni di dollari. • Secondo “La Repubblica”, la fuga dei talenti dall’Italia (calcolata sui dati Istat 2011) comporta un costo in termini formativi pari a otto miliardi e mezzo di euro in dieci anni, quasi un miliardo l’anno. • Secondo l’Istituto Italiano per la Competitività (ICom), i nostri “cervelli” in fuga all’estero hanno portato con sé circa quattro miliardi di euro. Si tratta del valore di tutti i brevetti da loro realizzati al di là delle Alpi, negli ultimi 20 anni. Il 35% dei migliori 500 ricercatori italiani abbandona il Paese, denuncia lo studio. Tra i migliori 100, uno su due sceglie di lavorare all’estero, mentre nei “top 50” la percentuale di fuga sale al 54%. Solo 23 ricercatori sono ancora in Italia. • Sempre per l’Icom (stima novembre 2011) il danno annuale della fuga dei ricercatori è di un miliardo di euro, cifra generata dai 243 brevetti che i nostri migliori cinquanta cervelli in fuga producono all’estero. • La fuga dei laureati italiani ha riguardato nel primo decennio del 2000 oltre il 12% dei laureati, ovvero oltre 316.000 giovani (sotto i 40 anni). La media è di 30.000 all’anno. Nel 2012 se ne sono andati addirittura in circa 50.000. Ma il numero, frutto di elaborazione dei dati Aire, è come sempre sottostimato di almeno il 60%. Il fenomeno è poi in brusca accelerazione anche perché chi parte per destinazioni come gli Emirati, la Cina, gli Stati Uniti taglia i ponti. La fuga dei cervelli ci costa quasi un miliardo di euro all’anno. É quanto emerge incrociando i dati sul costo sostenuto dallo Stato italiano per la formazione dei propri studenti e i dati Istat sulle migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, anche per scopi lavorativi. Secondo l’Ocse, sommando la spesa sostenuta dallo Stato per consentire a un giovane di raggiungere il diploma - in 13 anni di studi, nella migliore delle ipotesi - e

successivamente di laurearsi - altri cinque anni - in Italia si spendono 164mila dollari, pari a circa 124mila euro, che anziché essere utilizzati in Italia se ne vanno altrove. Sta di fatto che, moltiplicando ognuno dei 68mila laureati in fuga dall’Italia per i 124mila euro che ha speso la collettività per formarli, nell’ultimo decennio si raggiunge per l’appunto la considerevole cifra di otto miliardi e mezzo di euro. Secondo il ministero del welfare britannico, nel 2013 44mila italiani hanno richiesto il national insurance number, per poter lavorare nel Regno Unito: un aumento del 66% rispetto all’anno precedente, e soprattutto marcato tra i giovani. Questi sono solo gli ultimi dati sulla famigerata “Fuga dei talenti” o “Fuga dei cervelli”, di cui si sente sempre più spesso parlare, soprattutto con toni allarmistici e spesso confusi. Il nostro paese è diventato quindi un grande esportatore netto di talenti, incapace di attrarre ricercatori e altre persone qualificate. Il saldo netto di cervelli (laureati) entranti e uscenti dall’Italia, è negativo dal 2007. La percentuale di persone con istruzione terziaria tra gli stranieri in Italia (12,2%) è tra le più basse nei paesi OCSE, molto di sotto la media generale (23,2%) e di quella dei paesi dell’Europa (18,6%). Invece, sempre secondo l’OCSE, i diplomati universitari italiani residenti all’estero sono 400,000 (7,8%) contro 1,3 milioni (10,8%) britannici, 1,1 milioni (8,4%) tedeschi, e 590.000 (0,8%) americani. Perché molti italiani se ne vanno? Alto tasso di disoccupazione, sfiducia rispetto al sistema paese, basse retribuzioni, mortificazione delle carriere, propensione del sistema a privilegiare caste e raccomandazioni, scollamento fra università e mondo del lavoro, assenza di meritocrazia, crollo dell’immagine dell’Italia. E il dato relativo al saldo negativo del brain drain trova conferma anche in quello sugli investimenti internazionali. Il Diario della transizione del Censis mette in luce le debolezze del Paese che, pur restando la seconda potenza manifatturiera d’Europa e la quinta nel mondo, detiene solo l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8% della Spagna, il 3,1% della Germania, il 4,8% della Francia, il 5,8% del Regno Unito.

Negli ultimi sei anni gli investimenti diretti esteri in Italia sono crollati: nel 2013 sono stati pari a 12,4 miliardi di euro, il 58% in meno rispetto al 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi. I momenti peggiori sono stati il 2008, l’anno della fuga dei capitali, in cui i disinvestimenti hanno superato i nuovi investimenti stranieri, e il 2012, l’anno della crisi del debito pubblico. L’Italia si piazza al 65° posto nella graduatoria mondiale dei fattori determinanti la capacità attrattiva di capitali per un Paese (procedure, tempi e costi per avviare un’impresa, ottenere permessi di costruzione, risolvere controversie giudiziarie): per ottenere tutti i permessi, le licenze e le concessioni di costruzione, in Italia occorrono mediamente 233 giorni, 97 in Germania. In tutta l’Europa solo Grecia, Romania e Repubblica Ceca presentano condizioni per fare impresa più sfavorevoli delle nostre. Per allacciarsi alla rete elettrica servono 124 giorni in Italia, 17 in Germania. Per risolvere una disputa relativa a un contratto commerciale il sistema giudiziario italiano impiega in media 1.185 giorni, quello tedesco 394. Oltre al Censis, anche l’Aibe (associazione banche estere in Italia) aveva lanciato l’allarme a marzo sulla frenata degli investimenti, pubblicando l’Aibe index, un indice che posiziona l’Italia, in termini di attrattività dei capitali esteri, a un valore di 30 punti su una scala 100, molto indietro rispetto a Paesi come Germania e Stati Uniti. Tra il 2001 e il 2008 sono state previste risorse per il ritorno di ricercatori residenti all’estero, cui viene offerto un contratto temporaneo (da 2-4 anni) e uno stipendio particolarmente generoso. Nel 2010 è stata promulgata la Legge 238/2010 sul “controesodo”, che prevede incentivi fiscali ai lavoratori under 40 che rientrano in Italia dopo almeno 2 anni di lavoro all’estero. Sono stati lanciati anche vari progetti a livello regionale che offrono finanziamenti per attività imprenditoriali o per studiare e poi rientrare. Nonostante queste iniziative, i risultati sono stati poco soddisfacenti. L’applicazione negli anni è stata lenta e farraginosa, spesso queste leggi non sono chiare, i provvedimenti presi sono fini a se stessi e manca una strategia organica vera e propria che assicuri garanzie per il futuro.

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L’isola della speranza T-Island è la prima agenzia di collocamento di italiani sui mercati esteri. L’esperienza sul rapporto con i centri internazionali di recruitment e con i gruppi industriali stranieri dimostra che l’italianità non è affatto un valore aggiunto. Per trovare lavoro contano professionalità, conoscenza delle lingue e disponibilità a spostarsi Alberto Forchielli

s

i chiama T-Island ed è il primo esperimento di agenzia di collocamento (o di recruitment che dir si voglia) rivolta ai giovani italiani che cercano lavoro all’estero. L’idea è venuta un anno fa, nel giugno 2013, ad Alberto Forchielli, una lunga carriera professionale in mercati internazionali, amministratore delegato, presidente e consigliere di amministrazione di medie imprese italiane, ai vertici di un Fondo asiatico ed esperto nello sviluppo di affari internazionali, in particolare in Cina e in India. Insieme a Stefano Carpigiani, che di T-Island è oggi amministratore, Forchielli ha esaminato i tortuosi canali attraverso i quali chi cerca lavoro all’estero è costretto spesso a navigare a vista. Traendo alcune conclusioni, che sono state alla base del lavoro di progettazione dell’Agenzia e che sono indicative anche per sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni relativi ad esempio al valore dell’italianità come asset in più sui mercati internazionali, i fondatori di T-Island (diventata operativa di fatto dal marzo scorso, una volta esperito il contorto e lunghissimo iter burocratico italiano) hanno avviato una rete di contatti con i principali gruppi di recruitment a livello internazionale e con società industriali e di servizi presenti su più stati, arrivando a una prima conclusione. Detto che l’essere italiani non significa disporre di una marcia in più, ormai le motivazioni di assunzione si basano essenzialmente sulla conoscenza delle lingue, sulla disponibilità a viaggiare e spostarsi e sulle competenze professionali. “Proprio la complessità italiana e l’impossibilità di stabilire rapporti lineari

con i potenziali serbatoi di professionalità, atenei universitari compresi - affermano i fondatori di T-Island - sta facendo di T-Island il partner privilegiato dei gruppi esteri impegnati nello scouting di figure professionali richieste dal mercato e dai vari gruppi”. Per la neo-nata agenzia si è anche evidenziato da subito un problema. Le aziende internazionali non pagano servizi alle società di recruitment per professionalità basse o medio basse. Sono disposti a riconoscere la validità del servizio per figure che siano caratterizzate da specializzazione e un alto livello di formazione. “Ciò ha reso inevitabile sottolinea Stefano Carpigiani - una scelta di fondo. Dedicare la nostra attività a questa fascia professionale di mercato, creando il link fra gruppi esteri e soggetti formati italiani e non occuparsi invece di quella fascia scarsamente specializzata, con conoscenze linguistiche non sufficienti, che è costretta oggi a cavarsela da sola. Una categoria che comprende dal commesso al cameriere, dall’impiegato alle figure industriali meno qualificate”. “Proprio dalla constatazione di non poter far nulla per questo esercito di italiani pronti a emigrare - prosegue - è nata una seconda decisione, quella di realizzare un libro-vademecum con tutti i suggerimenti pratici necessari ai lavoratori internazionali per entrare, anche dalla porta di servizio, su mercati esteri, iniziando comunque un percorso professionale”. Se il libro dovrebbe essere pronto all’inizio dell’anno prossimo, il lavoro di T-Island sta già producendo un primo screening del mercato del lavoro internazionale accessibile a figure professionali di livello. Mercato del lavoro


in prima battuta europeo, soprattutto la Svizzera, la Gran Bretagna e la Germania, ma anche spazi crescenti nei paesi scandinavi e in Olanda. Paese, quest’ultimo, che mette in campo anche uno schema di detassazione sulle nuove attività e sui “nuovi cittadini”. In Germania si stanno affermando nei vari Land sistemi d’integrazione accelerata anche attraverso centri di insegnamento delle lingue. In questi Paesi si cercano competenze più evolute relative ad esempio a ingegneri meccanici, ingegneri elettrici ed esperti in telecomunicazioni. Secondo un recente studio pubblicato dall’Associazione Tedesca degli Ingegneri, entro pochi anni l’industria tedesca si troverà a far fronte a una carenza strutturale di personale tecnico con alta formazione. Ma in tutti i Paesi del nord Europa sono ricercati anche gli scrittori di software, in grado di costruire e adattare software e App. Esistono poi altri due macro settori che manifestano una domanda costante: il medicale, con una selezione sempre più accentuata sulla base dei titoli e dell’esperienza professionale, e il gaming, con le figure professionali dei grafici digitali e degli art director richieste in Europa, Cina, Giappone e Canada. Ma sorprendentemente fra i clienti di T-Island (e clienti sono le imprese) si sta riproponendo anche quell’automotive che in Italia è ormai da anni il regno della cassa integrazione. “Quello degli italiani in fuga - sottolinea Carpigiani - è un universo diversificato che corre lungo un solo fil rouge, la convinzione che in Italia non ci sia futuro e che questo futuro sia ancora più negativo per i figli. Di qui la scelta di accelerare i tempi, anche

Stefano Carpigiani

affrontando rischi di un salto nel vuoto. Più della metà di quelli che si rivolgono a noi sono già al di là della frontiera della disperazione: sono italiani che non sanno quello che vogliono, se non passare la frontiera. Sono italiani che riusciamo difficilmente ad aiutare perché si collocano in quella gigantesca zona d’ombra in cui la professionalità e l’esperienza non sono spendibili sui mercati internazionali, in cui la conoscenza delle lingue e anche del solo inglese è carente, in cui anche la nostra agenzia può fare ben poco”. “Esiste poi la fascia delle competenze, di professionalità talora anche elevate -

prosegue - che sono nauseate dall’habitat lavorativo, dalla pressione fiscale, dall’inadeguatezza delle retribuzioni e specialmente dal clima generale di incertezza del Paese. Questi emigranti hanno le idee chiare e chiedono un sistema di relazioni che consenta loro di concretizzarle”. Per quanto riguarda la fascia dei neolaureati, l’offerta di centinaia di qualifiche diverse genera un problema in più, “perché queste qualifiche universitarie - conclude - non trovano riscontro in nessun altro tipo di formazione universitaria, né in Europa, né in altre parti del mondo”.

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27


Buen retiro

Panama, Ecuador, Malesia e Costa Rica sono tra i Paesi al top per la qualità della vita e i servizi a basso costo per i pensionati di tutto il mondo. 473.000 gli italiani over-60 che hanno tagliato i ponti con un’esistenza di mortificazioni e rinunce, per scegliere il sole e una seconda vita

28

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s

econdo le ultime rilevazioni Istat, sono 473mila i cittadini italiani over 60 che vivono all’estero. Di loro i media si occupano saltuariamente, ma anche questo esodo è il battito di un disagio collettivo del sistema paese, che non riesce a garantire neppure ai pensionati, neppure per chi ha lavorato e pagato contributi allo Stato per oltre 40 anni, un accettabile standard di vita. Anche nel loro caso, più delle statistiche, parlano i siti, che narrano di storie di vita di chi, abbandonate le brume di Torino, il caos della periferia di Roma, o il tedio dei giardinetti in un paesino di provincia, si

è trovato proiettato in realtà solari, dove quella che in Italia è una misera pensione, si trasforma nel lasciapassare per una vita quasi agiata. Certo, una scelta che richiede coraggio, che spesso viene compiuta in coppia, talora sottovalutando alcuni fattori come quello relativo all’assistenza sanitaria. Ma ci sono Paesi dove si può vivere bene da pensionati, mentre spesso, tra affitto e spese varie, è improponibile vivere con mille euro mensili in Italia. Sì, perché il 52 per cento dei pensionati Inps percepisce un assegno mensile spesso inferiore ai 1.000 euro con una media che si attesta attorno


ai 650 euro, cifra che consente di pagare a malapena le spese primarie. L’indice Annuale del Pensionamento Globale 2014 (Global Retirement Index 2014) ha indicato alcuni posti dove la vita da “ritired” - ovvero pensionato - è il massimo: sole tropicale, spiagge meravigliose, clima migliore, piccoli e grandi lussi. Ogni anno un team di editori, corrispondenti ed esperti del luogo cresce e aggiorna la montagna d’informazioni riguardante l’indice annuale suddetto. Ci vogliono mesi per analizzare tutti i dati ricevuti, che vanno divisi sotto 8 categorie cruciali: settore immobiliare, speciali benefit per i pensionati, costo della vita, facilità di integrazione, divertimenti e attrattive, sanità, infrastrutture per pensionati e clima. Occupano le prime posizioni secondo un sistema di numeri indice i paesi che garantiscono prezzi abitativi bassi, sia per acquisto che per affitto; sconti sul sistema sanitario, servizi di trasporto pubblico funzionanti e non costosi, tasse contenute anche sull’importazione di beni. Ovviamente in considerazione è preso prioritariamente il costo della vita, con particolare riferimento al cibo. Quindi sono presi in considerazione i processi di integrazione o l’uso della lingua inglese, ma anche la gentilezza o la disponibilità all’accoglienza. Un indice speciale riguarda i divertimenti o la vita pubblica (ristoranti, locali ecc). L’attenzione è rivolta all’health care e al numero di medici in relazione alla popolazione. Nel rapporto è esaminata la qualità della strada, dei servizi, delle telecomunicazioni, di internet, e non ultime, sono fornite indicazioni relative al clima (come pioggia) ma anche relative ai rischi di disastri naturali.

i paesi migliori per trasferirsi in pensione all’estero Real

Special Cost of Ease of

Ent. &

Health Ret.

Climate Total

Country

Estate

Benefits Living

Integration Amen.

Panama

91

100

88

95

95

91

81

88

91,2

Ecuador

94

99

89

92

88

88

79

100

91,1

Malaysia

93

80

88

92

94

95

85

81

88,5

Costa Rica

88

87

87

92

94

94

75

77

86,8

Spain

91

62

82

87

96

91

93

85

85,8

Colombia

88

80

87

79

82

90

83

86

84,2

Mexico

88

75

87

92

81

93

74

84

84,2

Malta

85

84

83

100

68

88

77

88

84,10

Uruguay

79

76

64

87

94

96

82

92

83,7

Thailand

83

62

88

89

96

90

78

81

83,5

Ireland

85

76

72

97

98

89

85

61

83,0

New Zeland

71

77

77

92

88

86

86

87

83,0

Nicaragua

94

68

92

92

77

87

69

83

82,6

Italy

73

80

70

79

98

89

89

83

82,5

Portugal

85

73

85

73

70

93

95

85

82,4

France

72

84

57

70

100

97

87

85

81,5

Philippines

79

62

99

89

79

88

82

69

80,8

Honduras

78

87

86

89

79

88

82

69

80,8

Guatemala

88

62

100

57

83

86

72

81

78,8

Brazil

80

74

71

68

76

90

75

85

77,3

Chile

83

73

71

65

88

89

83

63

77,1

Belize

82

79

85

87

57

84

67

70

76,4

Dom. Rep.

85

68

72

70

74

82

75

70

74,4

Cambodia

71

57

100

70

86

63

58

80

73,2

Infra.

Ent. & Amen = Entertainment and Amenities Ret. Infra = Retirement Infrastructure Dom. Rep. = The Dominican republi

Fra i 10 Paesi migliori per trasferirsi in pensione all’estero figurano in testa alla classifica Panama, Ecuador, Malesia e Costa Rica, mentre la Spagna, con una qualità di vita alta (altissima nelle Canarie) e una “spesa cheap” specie per gli alimentari, resta la meta preferita in Europa.

PANAMA Numero uno a sorpresa nella scelte di preferenza dei pensionati all’estero. Clima: una prima notazione importante, a differenza di alcuni paesi vicini al confine USA, Panama è al riparo dagli uragani. Ha inoltre una politica dell’accoglienza e dell’immigrazione molto positiva. Il “pensionado” o programma di residenza per i pensionati http://internationalliving. com/countries/panama/visa, rappresenta in effetti la prima motivazione di acquisto. Per chiunque abbia una pensione governativa o corporativa, la residenza è quasi automatica. Non dipende dall’età. La

richiesta principale è semplice: la pensione deve essere l’equivalente di almeno 1.000 dollari al mese contati sul lordo italiano. Per chi non ha pensione entrano in gioco i nuovi visti riconducibili al programma “Amici di Panama”, un’offerta di residenza ai cittadini di oltre 40 paesi, tra cui Stati Uniti, Canada e Regno Unito. Il target sono professionisti e imprenditori, a cui è richiesto un conto bancario locale di almeno 5.000 dollari, l’acquisto di una casa e l’apertura di un’attività in loco. Con infrastrutture eccellenti anche lungo il

confine, Panama si trova ai primi posti nella regione per la tecnologia e la copertura Internet, il trasporto pubblico affidabile e l’acqua potabile pulita. Politicamente ed economicamente stabile è da sette anni nella top ten nell’Indice Globale di Pensionamento.

ECUADOR Per ottenere il visto basta dichiarare di percepire una pensione di minimo 800 dollari (circa 580 euro). Un appartamento completamente arredato nel cuore di uno

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dei più grandi centri storici del Patrimonio Mondiale costa 400 dollari al mese. Un taxi in città per soli 2 dollari. Con 1500 dollari al mese una coppia vive su standard di vita equivalenti a un reddito di 5-6000 euro al mese in Italia. Il clima nella regione della Sierra del paese registra temperature diurne in genere intorno ai 23 gradi. Lungo la costa, nonostante la posizione equatoriale, le temperature diurne raggiungono raramente i 32 gradi. L’Ecuador offre un buon sistema sanitario privato, soprattutto nelle tre più grandi città di Quito, Guayaquil e Cuenca. Per chi è over 65, è possibile usufruire di alcuni benefici per pensionati, tra cui un ritorno di denaro speso per l’IVA sui tuoi acquisti rimborsata ogni mese fino a circa 250 dollari.

MALESIA La Malesia è il posto migliore in Asia per i pensionati. Un condominio di lusso con vista sull’oceano costa 1500/1700 dollari (circa 1.200 euro) al mese. La temperatura media è di 27 gradi tutto l’anno, e vi troverete alcune delle migliori spiagge del mondo. La Malesia ha centri medici di eccellenza: uno specialista (dentista incluso) senza bisogno di un appuntamento costa 11

dollari. Internet illimitato 22 dollari al mese. Una governante 400 dollari al mese. Esiste un programma chiamato “Malesia. La mia seconda casa”che permette ai non malesi di rimanere in Malesia con un “social visit pass” per 10 anni, automaticamente rinnovabile.

Se si è in pensione, è necessario un deposito fisso di RM150, 000 (33.700 euro), e si può destinare a metà sia per acquistare un immobile o per scopi medici. Nessun vincolo all’acquisto di case. Con pranzi di buona qualità a buon mercato - si può cenare con 2 euro - la maggior parte delle persone utilizza il ristorante un paio di volte la settimana.

COSTA RICA Caratterizzato da stabilità politica e sicurezza pubblica, il Costa Rica ha una normativa facilissima per la residenza legale e offre un ottimo programma per pensionati. Il prerequisito è un reddito di 1.000 dollari (circa 730 euro) o più al mese dalla previdenza sociale, da prestazioni di invalidità, da una pensione, o una fonte simile. Il vero vantaggio del Costa Rica è il sistema sanitario pubblico, noto come Caja. Dopo un pagamento mensile in base al reddito (la maggior parte degli espatriati pagano tra 50 e 150 dollari cioè al massimo 100 euro), si ricevono la cure completamente gratis: visite mediche, test, prescrizioni, e anche interventi chirurgici importanti. Le strutture pubbliche sono tra le migliori in America Latina.

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Esodo d’Italia

Fra il 1861 e il 1970 sono stati 24 milioni i cittadini che hanno lasciato il paese per cercar fortuna all’estero: Differenze e analogie fra flussi migratori: i casi Argentina, Stati Uniti, Brasile, Australia e Canada

g

li esperti sono impegnati a evidenziare le profonde differenze fra il grande movimento migratorio italiano consumatosi fra il 1861 e il 1970 e la fuga degli italiani che è in atto; tre sono incontestabili: le caratteristiche di movimento di massa che coinvolgeva le classi sociali più deboli a fronte della attuale propensione a espatriare che riguarda la fascia più professionale e formata del paese; la speranza in un ritorno a fronte di una diffusa voglia di tagliare i ponti con l’Italia in maniera definitiva; la caduta attuale di legami ideologici o sentimentali con una madre patria che, specie negli ultimi due

anni, si è trasformata, nell’immaginario collettivo di chi sceglie di abbandonarla, nella quintessenza del sopruso, della prevaricazione e dell’oppressione. Per il resto – come sottolinea Paolo Crepet – le differenze sono marginali: sia per quanto riguarda le motivazioni, sia a maggior ragione per quanto concerne l’identikit di chi sceglie; dal bracciante agricolo all’ingegnere la disponibilità a rischiare e a mettersi in discussione rappresenta un minimo comune denominatore irrinunciabile. E proprio in questo momento in cui anche i numeri del processo migratorio in atto

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che incentivarono in modo determinante l’emigrazione dall’Italia e in particolare dal Sud.

STATI UNITI

hanno assunto dimensioni critiche che non consentono più di ignorare il fenomeno, è il caso di ricordare date e numeri della grande migrazione italiana a cavallo fra i due secoli, un vero e proprio esodo che coinvolse 24 milioni di persone. Quelle persone che oggi sono all’origine di quella comunità estesa di famiglie e di singoli di origine italiana(comunità spesso oggetto di un colpevole e stupido disinteresse da parte della madre patria) che conterebbe su oltre 120 milioni di individui. L’esodo non risparmiò, sia pure con diverso impatto e differenti caratteristiche, nessuna delle principali regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 si focalizzò sull’Italia settentrionale con tre regioni che fornirono da sole il 47% dell’intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli Venezia Giulia (16,1%) e il Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi fu la volta del sud con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia. Furono loro a mettere le radici in un’Argentina che – secondo stime approssimative – conta circa 20 milioni di cittadini di origine italiana, negli Stati Uniti (più di 17 milioni), in Brasile (27 milioni). Di quel movimento migratorio, che per circa la metà ebbe come destinazione finale paesi europei, prima fra tutti la Francia, è forse il caso oggi di ricordare motivazioni e speranze.

ARGENTINA L’emigrazione italiana verso l’Argentina ebbe una caratteristica del tutto particolare:

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fu legata infatti alle politiche che la giovane repubblica federale sudamericana concentrò per la colonizzazione agricola del suo immenso territorio. Dalla costituzione nelle zone di Corrientes fino dal 1853 di società private di colonizzazione che subaffittavano alle famiglie coloniche, al primo provvedimento della Provincia di Buenos Aires che nel 1870 assegnò a giovani coppie di agricoltori terreni gratuitamente a condizione che vi costruissero una casa e che li coltivassero, sino alla legge del 1876 per la divisione dei territori in lotti da 40.000 ettari per insediamenti urbani e suburbani, con la possibilità di assegnazioni gratuite o rateizzate. Una legge che segnò un punto di svolta e che fu seguita da altri provvedimenti relativi alla concessione gratuita di terreni

Fra il 1880 e il 1915 – ricorda in un suo studio Francesco Saverio Alessio approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l’Oceano verso le Americhe. Le cifre non tengono conto del gran numero di persone che rientrò in Italia: una quota considerevole ( 50/60%) nel periodo 1900-1914. La desertificazione industriale del sud conseguente l’invasione sabauda, l’oppressione economica, il grande terremoto di Messina, la crisi agraria figurano fra le principali motivazioni di quell’esodo. Fatti che coincidono con quel 1880 che è la data ufficiale di apertura degli stati Uniti all’immigrazione. Saranno gli anni di Ellis Island, ma anche di un processo di integrazione tutt’alro che facile nelle sempre più grandi aggregazioni urbane specie della east coast. La maggior parte di loro (più di 500 mila) si stabilì a New York che, essendo una delle città più grandi, offriva maggiori opportunità di lavoro, gli altri si divisero tra Philadelphia (90 mila), Boston (25 mila), S. Francisco (20 mila), Baltimora (20.mila) e New Orleans (15 mila). L’emigrazione di lavoro negli USA si intensificaa partire dal 1870. Nel 1881 entrano negli USA 11 mila italiani. Dopo il 1885 la media del decennio fino al 1895 è di 35 mila entrate l’anno. Nel decennio 18961905 la media annua è di 130 mila entrate


(nel 1901 superano, per la prima volta, le 100 mila unità; nel 1905 raggiungono le 300 mila e toccano l’apice di 376 mila nel 1913). Dopo il 1901, quando ogni anno espatriano mediamente 500.000 italiani, quattro partenze su dieci si dirigono negli Stati Uniti. Qui, gli emigrati si concentrano nelle zone attigue agli sbarchi (New York, Boston, Philadelphia e New Orleans) e poi si dirigono verso grandi centri industriali e ferroviari come Chicago e San Francisco nell’Ovest. La presenza italiana rimane particolarmente numerosa negli stati della costa (New York, New Jersey, Pennsylvania, Rhode Island, Massachusetts). Lo sviluppo delle Little Italies porta a privilegiare soprattutto i mestieri funzionali allo stesso insediamento come negozi, ristoranti, panifici, pizzerie.

AUSTRALIA Verso il continente più lontano l’emigrazione italiana iniziò a partire dalla seconda metà dell’800 e tutt’oggi quella italiana è la più grande comunità australiana non di lingua inglese. I primi emigranti Calabresi in Australia erano ingaggiati come i pastori, contadini, taglialegna, minatori. Molti di quelli che trovarono impiego nell’agricoltura furono in grado di compiere il salto di qualità e diventare proprietari di appezzamenti di terreno sempre più consistenti e non casualmente lo zoccolo duro della produzione vincola australiana è oggi formato da famiglie italiane. Più che altrove , il flusso migratorio fu strutturato dalla “catena” dei richiami dei parenti all’estero, al punto da svuotare intere comunità agricole in Italia.

BRASILE Secondo una stima dell’IBGE (Istituto Brasiliano Geografico Statistico) fra il 1884 ed il 1939 sono entrati in Brasile oltre 4 milioni di persone che si insediarono prevalentemente nelle regioni del sud e nelle piantagioni di Sao Paolo, tutt’oggi la città più italiana del Brasile. Grazie alla legge del Ventre Libero, che nel 1871 mise fuori legge (o quasi) la schiavitù, poi definitivamente cancellata nel 1888, gli emigranti italiani sostituirono gli schaivi di colore in condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza al punto da spingere il governo italiano a propibire nel 1902 l’emigrazione in Brasile.

Gli italiani che arrivarono a Sao Paulo all’inizio del XX secolo provenivano nella maggior parte dal Mezzogiorno con una prevalenza di calabresi. Molti di loro abbandonarono le campagne ed il sogno di diventare piccoli proprietari terrieri e cercarono fortuna nel commercio e nei servizi, nelle nascenti megalopoli brasiliane.

CANADA Altro paese non facile per i primi immigrati il Canada; gli italo canadesi si concentrano

ora nelle grandi città di Toronto, Montreal e Vancouver, e la lingua italiana è la terza lingua parlata nel paese. L’incremento più consistente del numero di residenti appartenenti alla comunità italiana in Canada si è verificato fra il 1951 ed il 1961, da cinquantamila a quattrocentomila unità. Dopo un altro decennio, nel 1971, la popolazione residente in Canada di origine Italiana risultava essere di di settecentotrentamila unità, (385.000 nati in Italia).

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di Marcello Dax

Baby-miliardari di rete La classifica di Forbes sugli under 40 più ricchi del mondo conferma nelle prime posizioni tutti i creatori della net economy; ma la più giovane miliardaria è l’erede di uno dei maggiori gruppi immobiliari di Hong Kong

u

nder 40 e già così ricchi. Forbes ha riproposto in queste settimane la sua specialissima e affidabilissima classifica degli uomini più ricchi del mondo, tracciando anche un ranking dei miliardari di età inferiore ai 40 anni. Al di là della sorpresa determinata dalla conquista della prima posizione da parte di una 24enne di Hong Kong che ha superato i maghi dei social networks, appare evidente una considerazione. Con la sola eccezione degli “inventori” di nuova offerta sul web, la stragrande maggioranza dei nuovi miliardari giovani è, utilizzando un eufemismo, figlia d’arte. Detto in maniera un po’ più aspra, i rampolli d’oro non hanno fatto nulla o quasi per meritarsi una fortuna che è frutto del lavoro, dell’ingegno o della capacità di intraprendere del babbo, del nonno o di un antenato ancora più lontano. E molto spesso queste fortune si sono sviluppate nel settore immobiliare. Come detto, continua a essere particolarmente nutrita la squadra degli uomini web, quelli che hanno inventato prodotti di successo per la rete. Nella classifica dei 1.645 miliardari di Forbes, 31 sono di età inferiore ai 40 anni. La più giovane e new entry è Perenna Kei (in precedenza si faceva chiamare Ji Peili), 24enne collocata dal padre Ji Haipeng al vertice di Logan Property Holdings con la dote da 1,3 miliardi di dollari di

una partecipazione dell’85% detenuta attraverso varie società e un trust di famiglia. Complessivamente, il manipolo di under 40 di Forbes controlla una fortuna pari a 115,7 miliardi di dollari. Un peso rilevante (pari a oltre il 40% di questo patrimonio) hanno i “figli di Facebook” come Sean Parker e Mark Zuckerberg, e di WhatsApp, come Jan Koum. Il 29enne Dustin Moskovitz, con un patrimonio di 6,8 miliardi di dollari, è stato insieme con Mark Zuckerberg il creatore di Facebook: Mark, 29 anni, con un patrimonio netto di 28,5 miliardi di dollari, sta beneficiando della crescita nel valore delle azioni della sua creatura. Ma al quarto posto fra i più giovani miliardari si solloca già un ereditiere: Anton Kathrein Jr, 29 anni, terza generazione della famiglia Kathrein-Werke AG, world market leader in antenne automotive, antenne radio e TV, antenne satellitari e sistemi di ricezione terrestri, apparecchiature per l’alta velocità di trasmissione multimediale da parte degli operatori di TV via cavo e sistemi di antenne e componenti elettronici che consentono segnali del telefono cellulare per rimbalzare in tutto il mondo. L’azienda, con 18 siti produttivi in tutto il mondo, con oltre 6.800 dipendenti e 1,8 miliardi di dollari di fatturato nel 2012, è stata fondata dal nonno.

Nella foto: Perenna Kei

billionaires

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Albert Thurn und Taxis

Scott Duncan

Al quinto posto un altro trentenne, ma in questo caso un self made man: Drew Houston (1,2 miliardi dollari), co fondatore di Dropbox, la sua creatura cloud sognata sin dall’età di cinque anni. Sesto un rampollo della nobiltà europea, Albert von Thurn und Taxis (3,8 miliardi dollari), è l’erede di una famiglia nobiliare che costruì la sua fortuna sui trasporti con diligenze. Principe, ha ereditato ufficialmente la sua fortuna nel 2001, con il compimento del 18 ° anno di età. I suoi assets comprendono beni immobili, arte e 36.000 ettari di bosco in Germania, una delle più grandi aziende forestali in Europa. Scapolo, vive nel castello di famiglia in Baviera, Schloss Emmeram, e guida auto da corsa. Al settimo posto Scott Duncan, altro baciato dalla fortuna, super scapolo texano, erede di un impero costruito sul petrolio e sui gasdotti: 6,3 miliardi dollari in costante crescita, come il valore della azioni di Enterprise Products Partners e un piano di dividendi generoso. In ottava posizione nella classifica di Forbes si colloca Eduardo Saverin, un patrimonio

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billionaires

netto di 4,1 miliardi dollari, cofondatore di Facebook. Al nono posto troviamo un’altra donna, puntualmente cinese: Yang Huiyan, 32 anni e una fortuna di 6,9 miliardi di dollari ,vice presidente del gruppo immobiliare Country Garden, costruito dal padre. Decimo è Fahd Hariri, il figlio più giovane del premier libanese Rafik Hariri, ucciso in un attentato; il suo ramo di attività è l’immobiliare. Seguono Marie Besnier Beauvalot, che ha ereditato il colosso Lactalis, Sean Parker (fondatore di Napster ed ex presidente di Facebook), Julia Oetker (un impero, quello della August Oetker KG-holding, fondato su bicarbonato e budini in polvere). Quindi Robert Pera (un altro web man con la sua invenzione degli Ubiquiti Networks). Quindi Ayman Hariri, altro figlio di Rafik Hariri, proprietario di Saudi Oger; poi Naruatsu Baba (colpol applications); quindi Yvonne Bauer, quinta generazione della famiglia che controlla il Bauer Media Group (600 riviste in 37 paesi del mondo): al 18esmo posto Lawrence Ho, della famiglia regina nel gioco d’azzardo a

Mark Zuckerberg

Macao; Yoshikazu Tanaka, fondatore e CEO della società di gioco social networking, Gree. E al 20esimo posto Alejandro Santo Domingo Davila, 11,1 miliardi dollari, colombiano, re della birra di cui è il secondo più grande produttore al mondo. Dopo la birra e i media, la classifica di Forbes torna a essere monopolizzata dagli uomini che hanno fatto la storia della rete: Jack Dorsey, creatore di Twitter; quindi Jan Koum, un’infanzia modesta in un villaggio alla periferia di Kiev prima dell’emigrazione in California dove ha creato WhatsApp; Nicholas Woodman, creatore di GoPro. Seguono Chase Coleman III, creatore dell’hedge fund Tiger Global Management, Yusaku Maezawa creatore del sito di vendita on line Zozotown; Rahel Blocher, insieme con la sorella Magdalena, maggiore azionista di Ems-Chemie, il colosso svizzero dei polimeri e della chimica; John Arnold (hedge fund Centaurus Advisors); Jon Oringer (sito web per la memorizzazione di foto Shutterstock); Liu Qiangdong (JD. com di Pechino); Ryan Kavanaugh (Ryan Kavanaugh Relativity Media).



di A.T.

Carinzia, la sirena

Tasse sulle imprese abbattute dal 34 al 25%, parchi logistici e facilità di insediamento. La regione sud dell’Austria gioca tutto sul marketing. Dall’Italia arrivano tante piccole imprese, ma solo 14 gruppi medio-grandi. Riparte la campagna pubblicitaria a tappeto per invogliare italiani sempre più nauseati dal loro paese

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è

stato scritto di tutto sul tanto discusso “fenomeno Carinzia”. Si è parlato di bluff, di fuga delle aziende verso una fatidica “terra promessa”. Ma anche di concorrenza sleale e speculazione da parte degli austriaci di fronte a un nord Italia stretto nella morsa della crisi economica. Posizioni e punti di vista estremamente differenti tra chi fonda le proprie critiche sull’incapacità del sistema Italia nel sostenere le proprie aziende, e chi invece giudica la promozione della Regione Carinzia come business location solo come una pura e semplice operazione di marketing. Il motivo di tale diatriba? I numeri. Ovvero quante aziende di casa nostra hanno scelto la Carinzia come nuovo territorio sul quale investire. Ma prima di passare in rassegna i dati, è

bene fare un piccolo accenno al fatto che l’interesse delle aziende italiane verso il land più meridionale della vicina Austria, non si sviluppa solo a causa della spirale di crisi economica iniziata nel 2008 ma, in particolar modo, grazie ad alcune politiche finanziarie che negli ultimi anni hanno fatto eco tra numerosi imprenditori del Veneto e del Friuli Venezia Giulia. Tanto per cominciare, un taglio netto del 9 per cento della Irpeg/Ires, che ha portato dal 34 al 25 per cento le imposte sui redditi delle imprese in tutta l’Austria. Un intervento che ha decretato, a partire dal 2004, un aumento delle richieste da parte degli imprenditori italiani in termini di progetti e insediamenti aziendali. I quali, oltre a una minore tassazione, possono contare sulla totale inesistenza dei tanto discussi studi di settore e su procedure


burocratiche snelle e totalmente assistite. Sempre dal 2004, infatti, i nostri imprenditori possono contare su un project management messo a punto da parte dell’Entwicklungsagentur (EAK), la società governativa della Regione Carinzia creata appositamente per il rafforzamento economico del land austriaco, la quale svolge funzioni di consulenza (completamente gratuite) per consentire agli investitori stranieri un inserimento rapido all’interno dell’economia carinziana attraverso il sostegno ai progetti, la ricerca dei siti ideali per la nascita di nuovi centri di produzione e la cura dei rapporti con le autorità locali. Tutti ottimi propositi utilizzati soprattutto dagli esperti dell’EAK come punti cardine di una campagna pubblicitaria articolata in seminari e incontri esplorativi non solo nelle regioni del Nord-est, ma anche in Lombardia ed Emilia Romagna (uno degli ultimi, dal titolo “Innovazione in Austria e Carinzia”, si è tenuto a Modena il 19 marzo scorso) e che ancora oggi proseguono in diverse delle nostre città per presentare le informazioni di quella che è stata definita dalla stessa Entwicklungsagentur “la business location dell’Euroregione”. “La promozione della Carinzia – ci conferma l’amministratore delegato di Eak, Sabrina Schuetz-Oberlaender – deve essere letta in primo luogo all’interno del progetto dell’Euroregione, che ha conosciuto negli ultimi anni la crescita di una forte collaborazione tra gli stati e le regioni non solo dal punto di vista dello sviluppo economico, ma anche per ciò che concerne quello della logistica e dei trasporti”. Un particolare riferimento va al cuore pulsante del Dreilandereck, ovvero la zona di frontiera tra Italia, Slovenia e Austria, dove si trova il centro logistico “Alplog Carinthia”, posto esattamente nel punto di intersezione tra i due grandi assi di transito del Tauri e Baltico-Adriatico e dove è possibile effettuare sia il traffico a carichi completi, sia quello combinato come il trasbordo di container, casse mobili e semirimorchi.

Insediamenti aziendali dall’Italia Bifrangi (Vicenza, Veneto) IPL Schlauchtechnik (Varese, Lombardia) Refrion Kaltetechnik (Udine, Friuli Venezia Giulia) THI Total Healthcare Innovation (Roma, Lazio) Danieli Engineerin & Services (Udine, Friuli Venezia Giulia) Europlast (Battipaglia, Campania) Fercam (Bolzano, Trentino Alto Adige) Roto-cart (Padova, Veneto) Sky Plastic Recycling and Commerce (Treviso, Veneto) Montanaro Industrial Battery Components (insediamento proveniente dal Veneto) Falkensteiner & Michaeler Tourism Group – Hotel Cristallo (insediamento proveniente dal Trentino Alto Adige) Falkensteiner & Michaeler Tourism Group – Hotel Resort Carinzia (insediamento proveniente dal Trentino Alto Adige) Nortec Sport (insediamento proveniente dal Veneto) Petraglas (insediamento proveniente dalle Marche) “In questo senso - aggiunge SchuetzOberlaender - il centro logistico si pone come punto di contatto tra tre popolazioni che in passato hanno influenzato l’area della Carinzia e che oggi si incontrano nuovamente integrando tradizioni, usi e costumi e high-tech”. Un sistema combinato dalle grandi ambizioni, dunque, pensato per dare vita a una promozione economica del territorio nel quadro allargato dell’Euroregione nel quale rientrano di fatto anche Friuli Venezia Giulia e Veneto, considerate un tempo le due locomotive della nostra economia nazionale e di cui la Carinzia, comunque, non può fare a meno (come ben dimostrano gli accordi logistici presi a fine 2011 tra le due regioni del Nord-est e il land austriaco

a sostegno del corridoio Baltico-Adriatico) per rimanere viva in Europa. Infatti, nonostante le imponenti campagne pubblicitarie portate avanti in Italia da parte dell’EAK negli ultimi anni, c’è da dire che il mito della Carinzia come “terra promessa” per i nostri investitori resta ancora lontano. Nella miriade dei dati forniti dall’agenzia austriaca (da interpretare con assoluta cautela), si parla addirittura di una media di 10 aziende all’anno fuggite in Carinzia dal 1999 a oggi, con un aumento a partire dal 2004 e un picco registrato tra il 2012 e il 2013 (21 progetti sviluppati nel primo caso, 28 nel secondo). Per un totale di oltre mille posti di lavoro (1053 per l’esattezza) creati negli insediamenti aziendali con provenienza italiana. Troppi nonostante la

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Centro logistico Alplog Carinthia: - 160 ettari messi a disposizione di aziende specializzate in logistica e trasporti - collegamento con il raccordo autostradale A2 (Italia, Slovenia, Germania, Austria) - collegamento con gli aeroporti di Klagenfurt (45 km), Lubiana (80 km) e Graz (120 km)

crisi economica che regna in casa nostra. Troppi se si prende in considerazione il fatto che ultimamente solo il giornale ufficiale della Wirtschaftskammer (la Camera dell’economia austriaca) ha reso noto ai soli iscritti i dati sulle registrazioni di partite Iva da parte di italiani in Carinzia. Troppi se si parla di veri parchi industriali con tanto di capannoni a seguito. Questi numeri potrebbero avere un altro tipo di interpretazione se nel computo delle attività in fuga si inseriscono aziende che contano meno di 10 dipendenti, singoli artigiani e commercianti, che in questo caso andrebbero a comporre la fetta più

Natascha Zmerzlikar

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grande della nuova business location carinziana. Perché, in effetti, il numero delle imprese italiane che hanno deciso di investire in Carinzia si ferma a quota 12 (che passano a 14 se si considerano anche i due Hotel del gruppo altoatesino Falkensteiner & Michaeler), delle quali solo tre superano i 50 dipendenti (Bifrangi, Europlast e Rotocart). Tutto il resto rimane nel campo del marketing pubblicitario portato avanti dall’EAK a colpi di dati gonfiati e slogan accattivanti, scambiati troppo spesso per oro colato dai nostri imprenditori. Alcuni dei quali, certo, hanno deciso di investire in Carinzia, ma che, guarda caso,


Parco industriale St.Veit: - 47,4 ettari di terreno messi a disposizione per le aziende destinate alla produzione di energie rinnovabili - dall’elenco fornito a seguito dell’articolo, solo la Petraglas risulta ubicata all’interno di questo parco

non sarebbero più disponibili a esporsi pubblicamente sullo stato dell’arte dell’attuale situazione. Il perché, in maniera alquanto imbarazzante, ce lo spiega sempre l’autorevolissima EAK, secondo la quale “ormai non c’è più nessuna azienda italiana - ha specificato Natascha Zmerzlikar, responsabile per il mercato italiano presso l’Entwicklungsagentur -che mostri interesse nel parlare di numeri e stato della produttività delle proprie aziende dopo aver deciso di investire o trasferire le proprie attività in Carinzia”. Una mossa a dir poco trasparente che non ha bisogno di ulteriori commenti del caso, ma che di

sicuro non contribuisce a sfatare i dubbi degli ultimi anni (in cui le interviste ci sono state eccome!) e solleva invece ulteriori incertezze sulla realtà economica della regione austriaca. Tutto questo però non deve far dimenticare l’importanza di alcuni validi servizi offerti dalla Carinzia (come ad esempio la burocrazia ridotta ai minimi termini e i tempi di realizzazione dei progetti estremamente celeri) i quali continuano a richiamare l’interesse dei nostri imprenditori, costretti sempre a fare i conti con un paese come l’Italia che spesso funziona al contrario, e che sin dalla notte dei tempi vede l’erba del vicino sempre più verde.

Sabrina Schuetz-Oberlaender

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Un italiano a Ginevra Luca Venturini da Lugano alla Direzione Generale della Banca Edmond de Rothschild. Una carriera lampo frutto di una capacità di gestione del business bancario, ma specialmente delle risorse umane

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taliano, una presenza consolidata su una piazza difficile come quella luganese, una propensione abbastanza rara nel mondo bancario a mettersi in gioco in prima persona e ad affrontare senza reticenze anche questioni spinose (e Dio sa quanto proprio il sistema bancario ticinese si sia trovato negli ultimi anni sulla linea del fronte). Premesse complesse ma evidentemente stimolanti visto che Luca Venturini, sino a poche settimane fa direttore generale della Banca Edmond de Rothschild di Lugano, è stato chiamato ai vertici del gruppo bancario a Ginevra, con una nomina lampo a Direttore Generale Aggiunto di Edmond de Rothschild (Suisse) S.A. In una stringata nota emessa dalla Banca, si precisa che il suo compito prioritario sarà quello di dirigere le attività di private banking in Svizzera.

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É quindi entrato a far parte del Comité Exécutif de la Banque in diretta collaborazione con Emmanuel Fievet, Directeur Général de Edmond de Rothschild (Suisse) S.A. Per Luca Venturini, 45 anni e una carriera che ha letteralmente bruciato le tappe nel mondo bancario svizzero, la nomina ai vertici del gruppo Rothschild rappresenta la conferma di scelte professionali e di un modo innovativo di affrontare la gestione di una banca, affrontando non solo le problematiche crescenti (basti pensare al Fatca o ai rischi relativi alla compliance), ma anche la gestione delle risorse umane in modo diretto. I risultati - come sottolinea la nota del gruppo - si sono visti a Lugano. Sotto la sua guida Banca Rothschild è passata da 3,6 a 5,1 miliardi di franchi, con un rafforzamento

della sua clientela e con l’apertura a nuovi mercati. Venturini, laureato in giurisprudenza all’Università di Milano, l’abilitazione alla professione forense nel 1998, un master in Arts & Management della Middlesex University Business School a Londra, vanta specifiche esperienze in Family Office e Asset Management. Ha lavorato per Credit Suisse Private Banking e per la Banca Sarasin Ltd in Svizzera, Hong Kong e Singapore. Era al timone di Edmond de Rothschild Lugano dal 2011. Un passato giovanile di tennista quasi professionista, sposato, con due figli a loro volta campioncini in erba della terra battuta, Venturini si colloca da oggi nella short list dei più promettenti manager del mercato finanziario e bancario europeo. E in Rothschild avrà da oggi bisogno di vento in poppa.



di Francesco Avella*

TASSE DI SCAMBIO

Le banche sono ormai entrate nella spirale dello scambio automatico delle informazioni ai fini fiscali. Con alcune scadenze rilevanti e adempimenti non eludibili: dal Fatca alle nuove Direttive europee, fino ai nuovi standard Ocse. Ma chi aderirà e ottempererà davvero alle regole del nuovo ordine mondiale contro gli evasori?

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o scambio automatico di informazioni tra Stati ai fini fiscali sta per diventare realtà e stanno quindi per cambiare le regole del gioco. Ciò che fino a pochi anni fa era quasi impensabile sta prendendo corpo nel giro di pochi anni, complice la crisi economica mondiale che ha ridotto considerevolmente le entrate tributarie dei paesi più sviluppati e ha portato i governi a ricercare nuove fonti di gettito, individuandole – tra l’altro – nelle imposte prelevabili sui capitali detenuti segretamente all’estero dai propri contribuenti.

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Gli strumenti normativi che daranno vita al tanto temuto scambio automatico di informazioni sono molteplici. Non sarà possibile limitarsi a conoscerne alcuni, ma sarà necessario conoscerli tutti, per evitare di essere sorpresi su un fianco scoperto da un fisco che tra pochi anni potrà vantare, nella sua già enorme banca dati, informazioni di vario genere provenienti da molti Stati del mondo. Di cosa si tratta. Lo scambio di informazioni che interessa è il cosiddetto scambio automatico. Automatico perché ogni anno l’amministrazione finanziaria italiana riceverà automaticamente (cioè senza necessità di formulare una apposita richiesta) determinate informazioni sui contribuenti italiani dalle amministrazioni finanziarie di altri Stati (e, d’altro canto, invierà automaticamente determinate informazioni in suo possesso sui contribuenti di altri Stati alle amministrazioni finanziarie di tali Stati). Il fisco italiano potrà così venire a conoscenza in modo sistematico, e senza dover condurre apposite indagini, dei capitali detenuti all’estero dagli italiani: dai conti correnti alle quote di società, dalle polizze assicurative ai trust, dalle quote di fondi comuni d’investimento ai compensi percepiti come amministratori di società. Ma allora sarà davvero impossibile detenere segretamente capitali all’estero? La risposta, per il momento, è no. Ma sarà molto complicato, e costoso; e in molti casi

anche rischioso, per la necessità di fare ricorso a paesi storicamente meno affidabili di quanto fossero alcune piazze finanziarie note agli onori della cronaca (Svizzera su tutte). Finisce insomma l’era del semplice conto segretato detenuto in Svizzera o nel Principato di Monaco, cui l’imprenditore poteva facilmente accedere con un breve viaggio. L’Europa. Innanzitutto la direttiva risparmio. Questa direttiva (2003/48/CE del 3 giugno 2003), nota per aver introdotto la cd. “euroritenuta” e aver comportato la conclusione di accordi internazionali tra l’Unione Europea e le piazze finanziarie limitrofe (Svizzera, Andorra, Monaco, San Marino e Liechtenstein), esiste ormai da circa un decennio, ma il suo ambito applicativo piuttosto ristretto l’ha resa uno strumento poco efficace nella prospettiva del fisco. Dal 24 marzo 2014, tuttavia, la direttiva risparmio è stata oggetto di una profonda revisione che ne ha ampliato in modo considerevole l’ambito applicativo, rendendola ora uno strumento davvero temibile. Strumento la cui funzione principale è, appunto, garantire uno scambio automatico di informazioni relative ai redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi conseguiti nell’Unione Europea da residenti degli Stati membri. Le modifiche in questione dovranno essere recepite dagli Stati membri entro l’1 gennaio 2016 ed essere


applicate dal 1 gennaio 2017. Dovranno, nel frattempo, essere trovati anche accordi analoghi con le piazze finanziarie limitrofe. L’arco temporale di riferimento è dunque discretamente ampio, ma le date indicate sono meno lontane di quanto possa sembrare. Vi è poi la direttiva sull’assistenza amministrativa (2011/16/UE del 15 febbraio 2011). Questa direttiva regola, tra l’altro, lo scambio di informazioni tra Stati membri dell’Unione Europea e quanto allo scambio automatico di informazioni prevede un termine molto ravvicinato: 1 gennaio 2015, a partire dal quale saranno scambiate le informazioni relative agli anni dal 2014 in avanti. Le informazioni automaticamente scambiate in base a questa direttiva sono limitate a talune tipologie di redditi e beni (redditi di lavoro; compensi per i dirigenti; polizze vita; pensioni; proprietà e redditi

immobiliari) e ciò la rende efficace solo a metà. In più, si tratta di uno strumento piuttosto involuto se paragonato alla nuova direttiva risparmio modificata nel 2014, nel senso di essere meno efficace contro talune pianificazioni fiscali internazionali. Tuttavia, anche questa direttiva potrebbe presto essere oggetto di una significativa revisione: esiste infatti una proposta di modifica [COM(2013) 348 final] che dovrebbe estenderne l’ambito applicativo ad ulteriori tipologie di redditi e beni (dividendi; capital gains; altri redditi generati da beni detenuti in un conto finanziario; altri importi, inclusi rimborsi/riscatti, per cui istituti finanziari sono debitori; saldi dei conti) sempre a far data dal 1 gennaio 2015 per le informazioni relative agli anni dal 2014. E presto la Commissione Europea dovrebbe emanare le modalità pratiche dello scambio automatico di informazioni, con le quali

non è escluso possa tentare di aumentare l’efficacia concreta della direttiva contro talune forme di pianificazione fiscale internazionale. Gli Stati Uniti. Il caso degli Stati Uniti è unico al mondo. Il sistema di scambio automatico di informazioni segue infatti il sistema cd. “FATCA”, di matrice statunitense. Quanto all’Italia, tale sistema comporterà lo scambio automatico di informazioni riguardanti i conti detenuti negli Stati Uniti da soggetti residenti in Italia e quelli detenuti in Italia da cittadini e residenti americani. I dati identificativi del titolare del conto, il numero di conto, l’istituzione finanziaria che effettua la comunicazione, il saldo o il valore del conto saranno gli elementi oggetto dello scambio di informazioni cui si aggiungeranno, dal 2015, altre informazioni, tra cui l’importo totale lordo degli interessi o dei dividendi. Le istituzioni

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finanziarie dovranno raccogliere le relative informazioni a partire dal 1 luglio 2014. Il resto del mondo. Quanto ai restanti paesi del mondo, lo strumento dello scambio automatico di informazioni è stato portato in auge dai lavori dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Dopo aver istituito il Global Forum on Transparency and Exchange of Information for Tax Purposes, dove la capacità di scambiare effettivamente informazioni da parte degli Stati partecipanti è stata messa alla prova, l’OCSE ha impresso una fortissima accelerazione proprio allo scambio automatico, pubblicando all’inizio del 2014 un modello di Competent Authority Agreement (CAA) che dovrebbe essere stipulato tra le amministrazioni finanziarie degli Stati per dare concreta attuazione alle generiche previsioni di scambio di informazioni contenute nella Convenzione multilaterale di Strasburgo sulla reciproca assistenza amministrativa, nelle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni o nei Tax Information Exchange Agreements (TIEA). Si tratta di un modello molto elaborato, chiaramente ispirato alla complessa disciplina statunitense FATCA, che promette di resistere a molte tecniche di pianificazione fiscale internazionale (anche se non a tutte…). Insieme al modello di CAA, l’OCSE ha pubblicato un articolato di regole che gli Stati dovranno imporre alle proprie istituzioni finanziarie, il Common Reporting and Due Diligence Standard (CRS), per raccogliere le informazioni che dovranno poi essere scambiate sulla base dei CAA stipulati. Si tratta di un sistema, quello creato dalla combinazione di CRS e CAA, che dovrebbe consentire ai Paesi di ottenere informazioni da banche e altri fornitori di servizi finanziari e scambiarle automaticamente con altri Stati con cadenza annuale. Quali e quanti Stati aderiranno a questo nuovo standard di riferimento non è al momento prevedibile. Tuttavia, il 6 maggio 2014, numerosi Stati hanno dichiarato (in una apposita “Declaration on Automatic Exchange of Information in Tax Matters”) di essere determinati a contrastare le frodi e le evasioni internazionali mediante l’assistenza amministrativa e in particolare mediante lo scambio automatico di informazioni e, pertanto, a implementare

velocemente il nuovo standard. Le date di implementazione non sono al momento note, anche se il 19 marzo 2014 alcuni di tali Stati si sono impegnati ad una early adoption che dovrebbe comportare la raccolta delle informazioni a partire dal 1 gennaio 2016 e lo scambio delle stesse a partire dal 1 gennaio 2017. Tra gli Stati della dichiarazione del 6 maggio 2014 si segnalano in particolare Austria, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Singapore e Svizzera (l’elenco completo degli Stati firmatari è il seguente: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cina, Cile, Colombia, Corea Rep., Costa Rica, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, India, Indonesia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Singapore, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria). Tra gli Stati che si sono impegnati ad una early adoption si riscontrano inoltre Bulgaria, Cipro, Croazia, Liechtenstein, Malta e Romania, nonché Anguilla, Bermuda, Cayman Islands, Gibilterra, Guernsey, Isola di Man, Isole Vergini Britanniche, Jersey, Montserrat e Turks & Caicos. Tra gli Stati che, pur non avendo firmato alcuna dichiarazione, potrebbero presto dichiarare di volersi allineare al nuovo standard in quanto hanno recentemente firmato e, in buona parte dei casi, già ratificato, la Convenzione multilaterale di Strasburgo sulla reciproca assistenza amministrativa, si segnalano in particolare Belize, Curaçao, San Marino e Sint Maarten. Si tratta però al momento di mere dichiarazioni di intenti. E alcuni degli Stati sopra menzionati lasciano alcune perplessità circa l’effettiva capacità di raccogliere effettivamente le informazioni da scambiare. Sì, perché l’aspetto più critico del nuovo standard non risiede tanto nella stipula dei Competent Authority Agreements (cioè gli accordi per lo scambio automatico), ma nella effettiva implementazione del Common Reporting and Due Diligence Standard (cioè il sistema di raccolta sistematica dei dati da scambiare) e nella effettiva capacità di farlo rispettare agli operatori finanziari locali.

Quanto agli Stati diversi da quelli sopra elencati, l’unico strumento a disposizione dell’amministrazione finanziaria italiana sarà in pratica il solo scambio di informazioni su richiesta – laddove esista una Convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni (si segnalano in particolare le Convenzioni recentemente stipulate con Hong Kong e Panama, non ancora in vigore, e la Convenzione da tempo conclusa con gli Emirati Arabi Uniti che, essendo abbastanza risalente, consente uno scambio di informazioni piuttosto limitato) ovvero un TIEA (si segnala quello stipulato con le Isole Cook). In tutti gli altri casi, l’amministrazione finanziaria italiana non avrà alcun diritto di ricevere informazioni sui contribuenti italiani. Sempre che, naturalmente, altri Stati decidano nei prossimi anni di stipulare Convenzioni o TIEA con l’Italia o decidano di unirsi al gruppo degli Stati che già ora si sono impegnati ad implementare un sistema di scambio automatico di informazioni, magari aderendo alla Convenzione multilaterale di Strasburgo sulla reciproca assistenza amministrativa. Conclusioni. È insomma evidente che il numero di Stati che, nel prossimo futuro, continueranno a garantire un saldo “segreto fiscale” è in netta diminuzione. Molte importanti piazze finanziarie hanno dichiarato il loro impegno ad un effettivo scambio automatico di informazioni e vi è da credere che queste stesse piazze finanziarie premeranno affinché le altre piazze finanziarie più “resistenti” facciano altrettanto. Non a caso, nella “Declaration on Automatic Exchange of Information in Tax Matters” del 6 maggio 2014, gli Stati firmatari della dichiarazione hanno esortato tutte le piazze finanziarie ad implementare il nuovo standard senza ritardi. Così, il numero di Stati “protettivi” potrebbe ulteriormente diminuire. Quali e quanti Stati resisteranno alla pressione internazionale? Quali e quanti Stati, d’altra parte, rispetteranno effettivamente gli impegni presi di uno scambio automatico di informazioni efficace? Queste e altre domande si affolleranno da ora in poi nella mente dei contribuenti italiani che detengono segretamente capitali all’estero e che non vorranno aderire alla procedura di voluntary disclosure. E solo il tempo potrà dar loro una risposta.

* LL.M. International Taxation – Dottore Commercialista in Milano e Piacenza

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R ela i s - Gou r m et - W e l l n e s s - M e e t i n g - C e r i m o n i e - Eventi Immersa nel verde di un magnifico castagneto secolare, sulle colline che circondano il lago di Como e si innalzano verso il confine svizzero, a 493 metri s.l.m., TENUTA de l’ANNUNZIATA è un country hotel di charme circondato da 13 ettari di bosco, dove potrete concederVi un momento di relax nella splendida Beauty Farm, scegliendo il percorso ideale per risvegliare e rigenerare corpo e spirito. TENUTA de l’ANNUNZIATA è la location ideale per ogni tipo di evento: meeting di lavoro, workshop, matrimoni, cerimonie e feste speciali. Una calda atmosfera accoglie gli ospiti nelle sue 22 camere, viziandoli con ogni moderno confort.

Embraced by the magnificent green of ancient chestnut trees, on top of the hills around the Lake of Como, rising towards the swiss border, at 493 meters (1617 feet) a.s.l., TENUTA de l'ANNUNZIATA a charming country hotel surrounded by 13 hectares of woods, where you will be able to enjoy a moment of relax, in the wonderful Beauty Farm, choosing the perfect path to awaken and regenerate your body and soul. TENUTA de l'ANNUNZIATA is the ideal location for any kind of event: meetings, workshops, weddings, ceremonies and special celebrations. A warm atmosphere welcomes the guests in its 22 rooms, spoiling them with every modern comfort.

TENUTA DE L’ANNUNZIATA

Azienda Agricola Via Dante, 13 22029 Uggiate Trevano Como · Tel.+39 031.949.352 · www.tenutadelannunziata.com


Come un Narcos

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Lo scontro sulle norme relative all’autoriciclaggio (che equiparano l’evasore a un trafficante di droga o a un terrorista internazionale) allunga il dibatto sulla voluntary disclosure e sul rientro dei capitali italiani detenuti in banche estere. E si rischia, a settembre, di licenziare un provvedimento sostanzialmente inefficace, che convincerà davvero pochi dei vantaggi presunti di un’autodenuncia

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li ottimisti sostengono che l’accordo fiscale fra Italia e Svizzera sia già bello e pronto: i pessimisti replicano che difficilmente, senza prima aver regolato la partita pregressa, ovvero l’emersione dei capitali italiani detenuti presso banche elvetiche, l’accordo potrà essere ufficializzato. Gli ottimisti sostengono che la nuova norma sulla voluntary disclosure porterà sino a 5 miliardi nelle casse dello Stato italiano. I pessimisti replicano che, fino a quando le norme sulla dichiarazione spontanea dei possessori di conto si accompagneranno a quelle sull’autoriciclaggio, i frutti della campagna d’autunno per recuperare soldi dai capitali all’estero saranno ben magri. Di certo (in una situazione di marasma generale in cui anche le affermazioni dell’uomo della spending review, ovvero “spendiamo soldi derivanti da incassi che sono tutti da verificare”, hanno creato un’ulteriore crepa nella credibilità dell’esecutivo Renzi), vi è probabilmente e soltanto l’allungamento dei tempi, con un varo delle norme previsto, che vada bene, a settembre. Lo scontro fra i vertici dell’Agenzia delle Entrate (i funzionari del ministero dell’Economia e l’ex PM Francesco Greco da un lato, e molti componenti della commissione giustizia, molti parlamentari,

specie PD dall’altra) è tutt’altro che foriero di facili ottimismi. Anche fra il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Economia non corre buon sangue. Si allungano i tempi per il via libera in Parlamento al provvedimento sul rientro dei capitali, anche a causa dello scontro sotterraneo in atto tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero della Giustizia a proposito del reato di autoriciclaggio compreso nella “voluntary disclosure”. I nodi ancora da sciogliere sono molti: basti pensare all’effettiva depenalizzazione dell’evasione fiscale da parte dei detentori di conti esteri che si autodenunciano. Basti pensare all’incrocio fra norme sulla voluntary disclosure e norme sull’autoriciclaggio. O ancora il rischio per il soggetto che presenta la voluntary disclosure di essere perseguito due volte sulla base delle norme relative all’autoriciclaggio. E poi che dire dei vuoti temporali della nuova norma, che non potrebbe coprire il 2014 e che quindi esporrebbe l’autodenunciante al rischio di un clamoroso autogol fiscale? E ancora che dire del rimbalzo fra la voluntary disclosure effettuata da una persona fisica e i possibili accertamenti fiscali ad esempio su un’azienda attraverso la cui fatturazione l’autodenunciante di oggi ha realizzato l’evasione fiscale costituendo le provviste all’estero? Oppure che trattamento adottare

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per gli stranieri residenti in Italia ma con doppio passaportoP Molti di loro vivono nel nostro Paese anche grazie alle rendite gestite da trust di cui non sono i soli beneficiari e sui quali nei loro Paesi d’origine hanno già pagato le tasse. Le norme sul rientro dei capitali li penalizzano e per mettersi in regola saranno costretti a pagare una tassa del 27% su un rendimento “presunto” del 5% l’anno. Lo scontro in atto non è solo tecnico, ma è anche politico. Una parte consistente della magistratura inquirente vorrebbe un’applicazione dura delle norme sull’autoriciclaggio e, attraverso queste norme, scongiurare che dietro alla voluntary disclosure si celi anche solo il fumo di un condono, magari da estendere in fase successiva alle autodenunce di capitali frutto di evasione, ma mai esportati. A insistere per norme realistiche, che consentano effettivamente di portare a casa un bottino consistente di cui le casse dello Stato hanno disperatamente bisogno, si è schierato un nutrito drappello di parlamentari del PD. Demagogia contro realismo. Specie sul reato di auto riciclaggio, riservato in altri Paesi del mondo alla caccia ai terroristi o ai grandi trafficanti di droga, si ripropone una volta di più l’eterna contrapposizione fra giustizia e politica, fra giustizialismo e realismo. Sono in molti a pensare che con un “autoriciclaggio”, che si configura già oggi come il nuovo e senza precedenti “mostro” giuridico, la voluntary disclosure si trasformerà in un clamoroso flop, facendo ricordare con nostalgia i bei tempi dello scudo fiscale. Secondo il parere di molti giuristi, proprio l’autoriciclaggio è destinato a incombere per gli anni a venire su tutte le transazioni finanziarie che riguardano l’Italia. Sino ad oggi oggetto di scarsa attenzione, la modifica di un articolo del codice penale italiano (il 648 bis) prevista nel disegno di legge (o decreto) sul rientro dei capitali dall’estero è destinato a generare una vera e propria catena di corresponsabilità giuridica; catena nella quale si troveranno

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forzatamente a far parte tutti i soggetti che, anche indirettamente e senza dolo, avranno contribuito a movimentare denaro che, anche a anni di distanza (ad esempio in seguito ad un accertamento tributario tardivo), si verificherà essere frutto di una evasione fiscale. Teoricamente, qualsiasi transazione per compra-vendita di beni potrà fare scattare il reato di auto riciclaggio (punibile con pene fra i 4 e i 12 anni di reclusione), coinvolgendo in piena correità e complicità anche il soggetto che nella transazione era ignaro dell’evasione perpetrata dalla sua controparte anni prima. E ciò con tempi di prescrizione praticamente inesistenti. Sui rapporti con banche, commercialisti, fiduciari (in Italia come in Svizzera) la nuova norma potrebbe avere conseguenze deflagranti. Ad esempio le banche (e i loro funzionari), nel momento di apertura di un rapporto con un nuovo cliente italiano (anche nel pieno rispetto delle norme vigenti, ad esempio per quanto riguarda conti italiani in Svizzera dichiarati nel modello RW delle dichiarazioni dei redditi) potrebbero trovarsi in tempi imprevedibili costretti a far fronte a un’accusa di riciclaggio che sino ad oggi era di fatto (e tale rimane negli altri Paesi occidentali) confinata nei campi della lotta alla criminalità organizzata o al narco-traffico. Sulla buccia di banana dell’autoriciclaggio potrebbero scivolare anche le norme incentivanti la voluntary disclosure: mediamente - secondo un nostro calcolo - un cittadino italiano che volesse regolarizzare i suoi capitali detenuti all’estero, nel caso in cui si tratti di una somma inferiore o pari ai due milioni di euro, si troverebbe a pagare allo Stato italiano un’aliquota omnicomprensiva fra il 12 e il 15%. Si tratta di oneri complessivamente meno pesanti di quanto previsto, e tali da teoricamente segnare una svolta nella politica italiana anche per quanto concerne i rapporti con la Svizzera. Ma c’è - come detto - un’altra faccia

della medaglia: nella stessa legge sul rientro dei capitali sono infatti contenute almeno due norme destinate a complicare tutto e a scoraggiare gran parte dei titolari di conto che volessero usufruire della voluntary disclosure. Da un lato, la già citata norma sull’autoriciclaggio, che nei fatti crea una “catena di Sant’Antonio” di responsabilità conseguenti l’utilizzo di fondi costituiti anche anni prima grazie all’evasione delle tasse; dall’altro, il mancato azzeramento dei rischi di sanzioni penali a carico di chi si autodenuncerà: un lasciapassare penale sarà infatti garantito solo alle “persone fisiche” con conti sino a 2 milioni di euro. Tutti i soggetti con responsabilità amministrative o azionarie in società (con la sola esclusione, per ora, delle Srl) oppure i professionisti (come avvocati, commercialisti, medici) tenuti a dotarsi di strutture contabili, rischieranno una condanna penale, che forse non si tradurrà in carcere, ma di certo in pesanti conseguenze professionali e amministrative oltre che di immagine. E sono molti a chiedersi quale reazione a catena potrà innescare (in termini di accertamenti fiscali) anche l’autodenuncia di una persona fisica. Sparita la norma che obbligherebbe il titolare di conto autodenunciato ad azzerare il conto svizzero e riportare i soldi in Italia (il meccanismo di condono è fra l’altro previsto anche per chi autodenuncia il contenuto di cassette di sicurezza presso banche italiane), il cittadino che compila la voluntary disclosure si troverebbe a pagare un’aliquota del 27% su un tasso di rendimento presunto del 5% del suo conto per i 5 anni dal 2008 al 2012: ovvero 1% all’anno ai quali sommare gli interessi di mora e sanzioni dell’1,25% annuo che per cinque anni fa 6,25%. A questi aggiungere la sanzione per mancata presentazione del modello RW sui conti esteri. Ed ecco che il range finale di “costo” del ravvedimento si aggirerebbe fra il 12 e il 15% a forfait. Su un conto da 1 milione di euro, il prezzo della regolarizzazione si aggirerebbe fra i 120 e i 150.000 euro. Per altro, anche sui conti superiori ai quali si applicherebbero le normali regole della tassazione sui dividendi o sul capital gain il risultato in percentuale sui 5 anni di accertamento non sarebbe molto differente anche considerando certo non facile l’andamento del mercato azionario e quindi degli investimenti nel periodo preso in considerazione.


Voluntary non disclosure

GIANNINO INTERVISTA GIANNINO

É forse scaduto il tempo per adottare un vero provvedimento di estensione della base imponibile. Sulla ragione è prevalsa la demagogia che in materia fiscale è doppiamente letale. Troppi ripensamenti e le ombre lunghe del giustizialismo sul reato di auto riciclaggio.

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di Bruno Dardani

Voluntary non disclosure Dunque, la crescita non decolla, i conti pubblici non tornano, Renzi esclude manovre aggiuntive e rinvia tutto alla legge di stabilità, ma intanto il commissario alla spending review Cottarelli è stato di fatto delegittimato. La vedo un po’ arrabbiato… Arrabbiato, no. Questa volta le risparmio che cosa penso della necessità di concentrare tutte le energie possibili sui tagli alla spesa pubblica per tradurli in cospicui e necessari sgravi d’imposta alle imprese e al lavoro, in assenza di quali non si ricostituiscono i margini per recuperare 9 punti di produzione industriale e 27 punti di investimenti persi in 7 anni di crisi. Come la pensi io su questo è stranoto, ma il governo Renzi fa un’altra scommessa. Ha cominciato con le riforme costituzionali e poi seguirà quella elettorale, mentre sull’economia è intervenuto col bonus 80 euro e il decreto Poletti sul lavoro. Buono

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quest’ultimo, mentre la prima misura era giusta socialmente per 11 milioni di italiani, ma era facile prevedere – come abbiamo fatto, inascoltati – che avrebbe smosso di pochissimo consumi e domanda interna e dunque il PIL, visto che con redditi reali delle famiglie arretrati di tanto nella crisi era ovvio che il bonus venisse destinato a ricostuirli con il risparmio, invece di tradursi in consumi. Renzi sapeva da tempo che la crescita italiana nel 2014 non sarebbe stata del più 0,8% previsto ad aprile nel DEF. Ma la sua scommessa è che l’Europa, e la nuova Commissione che sarà operativa a novembre, non sarà in condizione di rompere le scatole all’Italia sui saldi di bilancio. Vedremo se è un azzardo oppure se Renzi ha ragione, ma non voglio parlare di questo. C’è una cosa che mi ha colpito, più della marcia indietro sui prepensionamenti pubblici che il Pd si era precipitato a

introdurre nel decreto di riforma della PA, e più della vicenda-Cottarelli. Che era scontata, visto che al premier le 72 slides di Cottarelli non erano piaciute sin dall’inizio, e aveva immediatamente escluso che si potesse occupare di sanità e previdenza o di esuberi pubblici, quindi di oltre il 50% di una spesa pubblica che è più di metà del Pil e che continua a crescere… E quale sarebbe questa cosa che l’ha colpita di più? La vicenda parlamentare che si trascina da mesi dell’emersione volontaria fiscale, la cosiddetta voluntary disclosure. Oltretutto investe direttamente i rapporti tra Italia e Svizzera e ai lettori di CH interessa per forza. Ma non si tratta del nostro pubblico. Il punto è che il tira e molla della voluntary disclosure dimostra e conferma tutti i mali conclamati del sistema politico italiano: l’incapacità di avere tempi rapidi, di avere visioni condivise, di essere precisi in scelte che investono una materia intricata e folle come la legislazione tributaria italiana, di capire che ci sono occasioni da cogliere al volo perché altrimenti si mancano e non si ripresentano. Niente da fare. La voluntary disclosure poteva essere una misura essenziale per estendere la base imponibile nota al fisco italiano per molti miliardi di euro – forse anche 15 o 20 – se fosse stata adottata come si poteva fare nella forma più adeguata al fine, nell’autunno 2013, visto che era già trascorso mezzo anno dal termine dei lavori della commissione di studio guidata da Francesco Greco. Invece, niente. Il governo Letta non se la sentì.


Rossella Orlandi

Poi incorporò alcune norme in un decreto legge, il numero 4 del 2014, in cui la parte di emersione non sopravvisse all’esame parlamentare, visto che il governo Letta era caduto. Da allora si è ripartiti da zero alla Commissione Finanze della Camera, con il ddl 2247 che ha visto per settimane confrontarsi la proposta Causi della maggioranza e quella Capezzone per Forza Italia. Dopo mesi e mesi, si è arrivato a un testo votato e approvato in Commissione, che ora aspetta tempi migliori per poter venire calendarizzato nel dibattito d’aula, visto il treno di decreti legge da esaminare prioritariamente. Diciamolo chiaro, non se ne parla nemmeno entro fine anno, con questi tempi parlamentari. E nel frattempo il ddl è stato ritardato da quattro diversi ripensamenti. Come ripensamenti? Il governo ha sempre detto che la misura era in arrivo. Per due volte il governo era sembrato, prima e dopo le europee, propenso a un decreto legge. Poi sfumato, visti anche i richiami del Quirinale contro gli eccessi di decretazione. E soprattutto per la stessa ragione che frenò Letta: perché i governi non se la sentono di spiegare con chiarezza che le attenuazioni delle sanzioni fiscali, amministrative e penali non sono un condono, visto che si paga integralmente il debito fiscale pregresso, sia pure forfettariamente determinato. É questo il tallone di Achille: la politica resta sotto schiaffo, rispetto al giustizialismo fiscale imperante, giustizialismo demagogico che lo stesso Pd per primo ha alimentato per anni e anni

dall’opposizione. Il terzo impedimento è stato l’incrocio con l’iniziativa governativa di rinormare la disciplina e le sanzioni di reati societari e del falso in bilancio. Il quarto, di segno opposto, è avvenuto quando il ministro Guidi, visti i ritardi della voluntary e l’assenza nel testo di misure ad hoc per le imprese, ha pensato di anticipare l’emersione volontaria premiale ai fini di ricapitalizzare patrimonialmente le aziende italiane. La Guidi pensava di inserire le norme nel decreto legge competitività, ma naturalmente è stata bloccata. Ed ecco che il tempo passa, e più passa meno la norma promessa avrà efficacia, meno convincerà davvero i soggetti che detengono “patrimoni storici” non dichiarati, innanzitutto in Svizzera. Dopo il casino fatto con alcune centinaia di contribuenti che si sono fidati delle intenzioni di Stato, e hanno iniziato nel 2013 a seguire la “via amministrativa” che era stata aperta applicando la riduzione delle sanzioni intanto introdotta in legge comunitaria per poi trovarsi nella “terra di nessuno” di una norma certa che mai arrivava, sembra quasi che alla politica italiana importi pochissimo di estendere cospicuamente la base imponibile. Preferiscono sempre alzare le aliquote su chi già le paga, le imposte, nel nostro beneamato Paese... Ma almeno le norme approvate dalla Commissione ora ci sono. Non faccia il gufo, come dice Renzi. A me pare che l’era dei gufi sia finita, visto che la crescita manca. E sia ricominciata quella degli struzzi, che mettono la testa

sotto la sabbia facendo finta di non vedere e prendendosela con gli altri: l’euro, i tedeschi, la gobalizzazione, l’estate piovosa… No, guardi che anche il testo, così com’è, non aiuta proprio il successo del provvedimento che sarebbe stato possibile ottenere. Esempi? Quanti ne vuole. Cominciamo dall’autoriciclaggio, l’introduzione del nostro ordinamento all’articolo 648 bis del codice penale tanto richiesta da anni dai magistrati. L’incriminabilità di chi “ripulisce” in proprio i proventi di un reato è l’arma decisiva che l’Agenzia delle Entrate intende adoperare nella lotta al sommerso. Tuttavia “dosare attentamente” questo strumento è fondamentale, se non si vuole buttare a mare il fine della voluntary. Attualmente l’ipotesi di formulazione del nuovo 648bis del Codice penale rischia di essere sporporzionata, sommando la sanzione per il reato fiscale e quella per l’autoriciclaggio, proprio nei confronti delle evasioni appena sopra la soglia. Anche lo stesso governo, in Commissione, ha sottolineato che occorre cambiare il testo attuale, quantomeno sotto il profilo della non perseguibilità dell’autoreimpiego, come già prevedeva nelle sue conclusioni la commissione Greco. Bisogna rifarsi a come l’”autolavaggio” dei proventi da reato è stato diversamente recepito nei Paesi a economia avanzata. Altrimenti rischiamo che la durezza di una misura che nasce come strumentario antimafia (e antiterrorismo, all’estero) comprometta la limatura delle sanzioni

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Francesco Greco

previste per la pura emersione volontaria fiscale. Lo stesso onorevole Causi per il Pd ha riconosciuto con un suo emendamento che il nuovo 648bis non deve applicarsi al mero autoimpiego di capitali dopo emersione volontaria, ma ancora non ci siamo. E va bene, ma è cosa che nell’esame parlamentare può avvenire agevolmente. Ne dubito, vista l’enfasi sull’elevata pena edittale prevista per l’autoriciclaggio. Per tutti i colpevoli, compreso l’autoriciclatore, la condanna per il solo reato di riciclaggio oscillerà tra quattro e dodici anni di carcere, pena che scende tra i due e gli otto anni nell’ipotesi che il reato presupposto sia punito con pena edittale massimale non superiore ai sei anni. E dunque anche per i più gravi reati tributari, che rientrano in tale limite. Ma lei capisce bene che da una parte dire che l’autoriciclaggio non si applica alla pura voluntary, dall’altra prevedere che comunque si applica con pena tra due e otto anni per i reati fiscali, ottiene sui soggetti interessati alla voluntary un totale effetto dissuasivo. La voluntary però prevede sconti molto forti sulle sanzioni. É positivo aver previsto anche l’emersione spontanea anche per i capitali che sono rimasti nascosti in Italia. Anche per il nero nazionale la procedura è uguale a quella prevista per la disclosure dei capitali all’estero, nega l’anonimato iniziale che era invece contenuto nella prassi amministrativa 2013 e prevede il pagamento integrale delle imposte,

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attraverso un modello di dichiarazione che sarà definito dall’Agenzia delle Entrate. É positivo anche aver accresciuto lo sconto sui reati di frode fiscale (che arriverà ad abbassare le pene a un quarto dell’importo, mentre le prime ipotesi disegnavano una riduzione del 50 per cento), ma non credo che questa norma reggerà al voto d’aula. E sono positive le nuove regole per i professionisti, che non saranno chiamati a rispondere di eventuali falsi commessi dal cliente. Ma restano forti problemi per esempio sulle annualità soggette a regolarizzazione, e sul ravvedimento speciale. Cioè su pilastri essenziali di efficacia dell’emersione volontaria. Sulle annualità incide il cosiddetto raddoppio dei termini. Si è fatto un passo indietro, rispetto al testo cassato del decreto Letta. Il testo approvato a inizio luglio in Commissione alla Camera riduce gli anni da regolarizzare, escludendo il raddoppio dei termini previsto per la presunzione di evasione in paesi black list come ancor oggi resta per l’Italia la Svizzera. L’esclusione è soggetta alla condizione che ricorrano congiuntamente tre condizioni: a) gli investimenti siano detenuti in uno Stato black list che stipuli entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge un accordo che consenta un effettivo scambio di informazioni con l’Italia; b) l’autore delle violazioni rilasci all’intermediario finanziario estero l’autorizzazione a trasmettere alle autorità finanziarie italiane che lo richiedano tutti i dati concernenti le attività oggetto

di regolarizzazione; c) l’autore delle violazioni, qualora successivamente alla istanza di voluntary trasferisca le attività ad altro intermediario finanziario, rilasci, entro 30 giorni dal trasferimento, la medesima autorizzazione e la trasmetta all’Amministrazione finanziaria entro 60 giorni dal trasferimento. É ovvio che si tratta di una misura molto “conflittuale” invece che “collaborativa”, verso gli intermediari svizzeri. E che senso ha, inoltre, da un lato prevedere la non punibilità per i reati dichiarativi (e la forte riduzione delle pene per i reati fraudolenti) e dall’altro lato considerare rilevanti tali reati ai fini del raddoppio dei termini? Quanto al ravvedimento speciale, serve a evitare discriminazioni tra evasori persone fisiche che hanno commesso violazioni della legge sul monitoraggio fiscale ed evasori (anche persone giuridiche residenti o non residenti) responsabili di altre violazioni fiscali. Il nuovo ravvedimento si presta a regolarizzare, ad esempio, oltre a esterovestizioni e stabili organizzazioni occulte, la posizione di società che abbiano evaso mediante sottofatturazioni idonee a creare all’estero fondi neri nella disponibilità dei soci. In mancanza della nuova forma di ravvedimento l’emersione volontaria avrebbe infatti difficilmente interessato attività estere ricollegabili a imprese. Ma nel testo attuale non ci siamo ancora quanto a utilizzo congiunto ed efficace delle due procedure, sia riconoscendo il credito per le eventuali imposte estere sia evitando forme di


Voluntary non disclosure doppia imposizione economica qualora i redditi conseguiti all’estero, grazie alla sottofatturazione, venissero tassati integralmente, sia in capo alla società italiana (con Ires) sia in capo al socio (con Irpef ) detentore della provvista estera così formatasi. Minuzie tecniche... Ma quali minuzie tecniche! Aspetti essenziali!! Il fisco è tutto una minuzia tecnica! E si figuri le soglie di punibilità, quanto pesano sul successo di una misura che - ripeto - NON è un condono. Una misura che serviva presto e bene, per cavalcare la svolta che è in atto in tutto il sistema finanziario svizzero. E che al contrario ha visto l’Italia sinora incapace sia di chiudere l’accordo bilaterale di collaborazione, in vista dell’applicazione al 2017 della cooperazione banco-tributaria a cui la Svizzera si è impegnata in sede Ocse, sia di prevedere procedure interinali di qui ad allora: perché è su queste procedure - che mancano - che si fonderebbe la vera “efficacia svizzera” dell’emersione volontaria dei contribuenti italiani. Dunque tutto sbagliato, tutto da rifare. Lei è proprio un gufo... No, si poteva e si può far presto bene. Il problema italiano è che sul fisco vince la demagogia. Per prima la sinistra ha dimenticato quel che diceva Lenin: “i demagoghi sono i peggiori nemici della classe operaia”... Qui da noi tutti dimenticano che lo Stato è il primo a non meritare il rispetto del contribuente per ciò che gli offre in cambio dello sproposito che si prende.

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di Laura Alberti

a caccia di affari in rete

É uno dei pochi settori in crescita in Italia, quello dell’e-commerce. Cresce il numero dei compratori on-line, grazie alla sempre maggiore diffusione di tablet e smartphone, e crescono le aziende a dimensione virtuale

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a nona edizione dell’E-Commerce Forum, promossa del Consorzio Netcomm (l’unico Consorzio del Commercio Elettronico in Italia) e andata in scena lo scorso 24 maggio al Centro Congressi MiCo di Milano, ha stimato per il 2014 un +17% per l’eCommerce italiano. Percentuale che, se confermata, porterà a 13,2 miliardi di euro il valore totale del mercato. Del resto, sebbene lontani dai numeri del mondo anglosassone, da sempre più avvezzo all’acquisto on-line, i

“web shopping addicted”, in Italia, crescono ogni giorno di più. Ma cosa comprano on-line gli italiani? A dirlo, basandosi sui dati del 2013, ci ha provato eBay. Al primo posto ecco i telefonini (un acquisto ogni 4 secondi), con accessori annessi; al secondo posto i prodotti informatici, con la netta prevalenza dei tablet (un acquisto ogni 9 secondi), al terzo i dispositivi per ascoltare la musica (un acquisto ogni 10 secondi), dagli Home Theatre ai lettori mp3. Per tanti consumatori italiani che acquistano on-


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line, ci sono le tante imprese del Bel Paese che hanno capito quanto fondamentale sia attrezzarsi di un proprio e-commerce, per raggiungere quei 2 miliardi di persone che sul web acquistano prodotti delle categorie più disparate. Anche perché, lontano dall’Italia, il made in Italy è ancora un (il) valore aggiunto. Ecco quindi che l’export, nel mondo dell’eCommerce, ha segnato un +21%, nettamente trainato dal turismo e dall’abbigliamento. A determinare tutta questa sfilza di più è la straordinaria crescita del mobile commerce. Si stima che, nel 2014, il 19% degli acquisti on-line sarà effettuato mediante tablet o smartphone. Il web shopping, d’altro canto, presenta un’infinità di vantaggi per chi compra come per chi vende. Aprire un negozio online costa (relativamente) poco, è facile e si può contare sull’enorme potere del social newtork. Si può vendere nel tempo libero, lo si può fare da casa propria, si possono visualizzare – con strumenti come Google Analytics – gli oggetti più e meno visti, così da raddrizzare il tiro. Chi acquista online, dal canto suo, può farlo 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 senza muoversi da casa, spesso risparmiando (dal momento che le intermediazioni dei negozi tradizionali vengono bypassate) e ormai in tutta sicurezza. Il reso è quasi sempre gratuito, i siti mantengono criptati i dati dell’acquirente e nuove regole, dallo scorso giugno, sanciscono nuovi diritti. In tutta l’Unione Europea, salgono a 14 i giorni a disposizione per restituire un prodotto che non soddisfa le aspettative, più altre due settimane per rispedirlo al mittente. Questi, a sua volta, dovrà effettuare il rimborso entro 14 giorni. I costi di restituzione dovranno essere espressamente comunicati in anticipo dal venditore, che altrimenti vedrà addebitarsi tutti gli stessi. I numeri di assistenza al cliente non dovranno superare la tariffa base della linea telefonica utilizzata dall’impresa per essere contattata dal consumatore, non si potranno più chiedere sovrapprezzi per l’utilizzo di determinate carte di credito e neppure pre-flaggare caselle per vendere ulteriori beni o servizi non richiesti, come le assicurazioni per chi acquista un volo. Tanto impegno, da parte della legislatura, vuol dire che il futuro è uno solo. E si gioca online.

COUPON MANIA L’ultimo in ordine di tempo è Groovadia (www.groovadia.com), le cui offerte spaziano dalle ore in uno studio di registrazione alla consulenza artistica on-line per cantanti, fino a basi inedite complete con tanto di cessione dei diritti d’autore. Quello dedicato agli appassionati di musica è solo l’ultimo tra i siti di couponing, i cui leader hanno nomi come Groupon (www.groupon.it) e Groupalia (www.groupalia.it). Cene a prezzi speciali, trattamenti estetici a prezzi stracciati, vacanze, voli, avventure da brivido, oggetti delle categorie più disparate da acquistare con uno scontatissimo click: starci dietro è diventato tanto complicato che, oggi, siti come Dealrapido (it.dealrapido.com) non propongono più offerte proprie, ma fanno da semplici aggregatori di proposte top. Le aziende aderiscono con la speranza di trovare clienti da fidelizzare. I clienti, in tempi di crisi, “saltano” da un’offerta all’altra e a far ritorno non pensano (quasi) mai.

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be cool on-line

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Se il design è web

Ci sono luoghi, magari un po’ nascosti, dove il design assume quasi una dimensione trascendente. Luoghi in cui lo respiri, lo vedi, lo vivi. Tra questi, c’è il quartier generale di Lovli

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er i pochi che non lo sapessero, Lovli è un sito di shopping on line dedicato al design. Un sito giovane, pulito, vincente, che ha nel suo logo un cuore, perché a farlo sono ragazzi che il design lo amano proprio. Noi incontriamo uno dei suoi fondatori, Tiziano Pazzini (l’altro, Alberto Galimberti, è un suo carissimo amico), nel polo milanese della creatività, il Superstudio di via Forcella. Iniziamo dalle origini, con una storia che fa tanto “American dream”, ma che è 100% italiana. “Quando lanciammo Lovli, di due cose eravamo certi: il budget a disposizione era risicato e la costruzione della community doveva essere organica. Volevamo che la gente fosse incuriosita, che avesse il desiderio di entrare nel mondo Lovli e di condividere i nostri oggetti con i suoi amici”. Una community, quella di Lovli, nata con tanto lavoro e pochi soldi. Un esempio di virtuosismo raro in Italia, che procura a Tiziano moltissimi inviti da parte degli Atenei. “Quello che era un limite si è invece rivelato un vantaggio. I fondatori di Lovli, Tiziano Pazzini e Alberto Galimberti

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Siamo andate a prendere le persone, una a una. Le abbiamo incuriosite con un servizio interessante”. Tutto inizia durante il Salone del Mobile, nel 2012. “Fermavamo la gente per strada, chiedendole di scattarsi una foto con un cuore (quello che adesso sostituisce la O nel logo ndr.) e di seguirci su Facebook e Instragram nei giorni successivi. In questo modo, ancor prima che il sito fosse on-line, avevamo oltre 15.000 persone che ci aspettavano, e che si sentivano coinvolte”. Una community che è cresciuta ogni giorno di più, forse anche per la capacità che il team di Lovli ha di tenere una voce costante. Di non snaturarsi mai. “Cerchiamo sempre l’effetto wow, anche quando diamo comunicazioni prettamente commerciali come un fuori tutto o una selezione pensata per un particolare evento”, dice Tiziano. “Creare un’identità ben definita è faticoso, ma distintivo. Crediamo che nel lungo tempo paghi, soprattutto quando si valicano i confini nazionali”. Che poi è un po’ l’obiettivo di Lovli. Ribaltare la

percentuale, aumentando quel 30% di fatturato che oggi proviene dall’estero (USA su tutti, ma anche Regno Unito e Paesi scandinavi). E sì che il rischio corso da Lovli non è cosa da poco. Presentare solo aziende italiane, rinunciando ai ricavi e alle infinite possibilità di un design straniero spesso straordinario. “Se la nostra scelta per un italiano può essere come non essere un plus, all’estero ci permette di avere un’autorità ben definita”. Tra i prodotti proposti, il maggior successo lo vivono le librerie e le lampade, insieme ai marchi famosi e alle sorprese dei brand emergenti che, se vendono al giusto prezzo, hanno un grande appeal. Nomi emergenti accanto ad aziende note. Una scelta ben ponderata, perché “talvolta abbiamo bisogno di essere rassicurati da qualcosa che conosciamo, altre volte vogliamo essere affascinati da prodotti nuovi”. Sempre pensando al cliente, perché “se una cosa io non la acquisterei, quasi certamente nemmeno gli utenti lo farebbero”, confessa Tiziano. Tiziano

che, insieme al suo team, lavora con una professionalità e una passione così grandi da vedere il suo Lovli crescere giorno dopo giorno. “Il rapporto con le aziende che ospitiamo spesso cresce insieme a noi. A molte di loro curiamo tutta la strategia di e-commerce, la loro piattaforma web, il loro marketing digitale”. Ogni giorno vendiamo centinaia di prodotti, nonostante in Italia non si può certo dire che ci sia una grande cultura dello shopping on-line. “Ci sono target differenti, spiegati da diversità generazionali, ma soprattutto da abitudini diverse. C’è chi ama la comodità del fare acquisti on-line, e chi crede che un’esperienza d’acquisto possa avvenire solo all’interno di una boutique”. Ma va bene così. L’importante è che tutto stia andando come loro avevano pianificato, e che i clienti siano felici. “Quando torni dal lavoro e apri la porta di casa, sei felice. Noi vogliamo dare ai nostri utenti tutto questo, la possibilità di avere una casa che li rispecchi, che li faccia innamorare ogni giorno”. Capito perché il cuore?

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quando il mondo bussa alla porta Con una crescita straordinaria e un nuovo way to travel, Airbnb è uno dei più riusciti esempi di sharing economy. La chiave del successo? L’unicità dell’esperienza

u

n nuovo modo di viaggiare. Più autentico. Più emozionante. Più “ricco”, perché lo scambio di culture, si sa, arricchisce. È quanto offre Airbnb, piattaforma che mette in contatto viaggiatori di tutto il mondo con chi ha uno spazio da affittare, sia questo una piccola stanza, un intero appartamento o una location da favola. Il meccanismo è molto semplice. C’è l’host, l’affittuario, e c’è il viaggiatore, che sceglie, sperimenta e recensisce. Un meccanismo meritocratico, insomma, dove tutti – chi ospita e chi è ospitato – viene valutato. Un perfetto esempio di sharing economy. Noi ne abbiamo parlato con Matteo Stifanelli, Country Manager per l’Italia. “Airbnb non offre solo un’opportunità di risparmio per il viaggiatore, e non è nemmeno un semplice modo per l’host di arrotondare. Airbnb è, soprattutto, uno scambio. Si ha la possibilità di soggiornare in location autentiche, si conoscono culture e tradizioni, si chiacchiera, ci si confronta, si vive una città con gli occhi di chi la abita. E l’host, dal canto suo, viaggia senza muoversi da casa”, racconta Stifanelli. Scambio, sicurezza nel sistema di pagamento, unicità di spazi ed esperienze: il successo di Airbnb è tutto questo insieme. Lo raccontano bene i numeri. Seicentomila

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alloggi (tra cui 17.000 ville, 640 castelli, 1400 barche, 300 case sull’albero) in 192 Paesi del mondo, 1 milione di ospiti al mese in media, e una crescita spettacolare sul territorio italiano. Ogni notte, nel nostro Paese, 12.000 persone viaggiano con Airbnb scegliendo tra i 60.000 alloggi disponibili (l’Italia è al terzo posto per numero di arrivi, dopo USA e Francia ndr.). Nel 2013, il 30% degli utenti italiani di Airbnb ha viaggiato in Italia,

soprattutto al mare e in campagna. L’età media? 36 anni il viaggiatore tipo, 42 l’host. In entrambi i casi, il 56% è composto da donne. Persone che di un viaggio vogliono conoscere la sua parte più vera, lontana dai must turistici, e persone che ospitano, per il piacere di avere il mondo che ti bussa alla porta. Persone che si scambiano consigli su cosa vedere, cosa fare, dove mangiare, per quali quartieri girovagare. Amicizie che

nascono, come è successo a quell’host che, quest’estate, andrà in vacanza con il suo primo ospite. Ci salutiamo con un “test sul campo”. Lo stesso Stifanelli, grazie ad Airbnb, ha potuto godere di spettacolari location. Dal loft di una curatrice di case d’asta, a Berlino, alla villa affittata a Gallipoli con la famiglia la scorsa estate. Perché “avere una casa al mare è il mio sogno fin da bambino”, e con Airbnb è possibile. Anche solo per un po’.

Nella pagina precedente, in alto: due viste della villa con piscina a Polignano a Mare, in Puglia (cod. 663725). In basso: un rilassante appartamento tra i sassi di Matera (cod. 1366651). In questa pagina: una delle più originali soluzioni proposte da Airbnb, la TREEhouse/casaBARTHEL (cod. 1621152), nella campagna fiorentina.

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shopping app

di L. A.

APPunti per lo shopping sul web ebay

good guide

L’app per fare shopping sfrenato

L’App per acquisti consapevoli

Oltre 240 milioni di download in 190 Paesi del mondo: sono gli impressionanti numeri delle App di eBay. Numeri che, seguendo le tendenze (secondo NetComm 2014 il mobile commerce nel 2013 ha registrato un +289% rispetto al 2012), hanno determinato, nel primo quadrimestre del 2014, il 40% delle transazioni via mobile commerce. Qualche curiosità? Ogni 40 secondi viene venduto un paio di scarpe, ogni 26 secondi un libro, ogni 37 uno smartphone.

Per scovare prodotti green, etici e salutari, Good Guide è l’applicazione perfetta. Oltre 120.000 prodotti gastronomici, di bellezza e per la casa vengono analizzati con attenzione, cosicché l’utente possa avere informazioni su quanto sostenibile e “buono” è il prodotto che sta per acquistare. Fondata nel 2007 da una delle più grandi esperte al mondo di catene d’approvvigionamento globali, Dara O’Rourke, Good Guide ha l’obiettivo di rendere più consapevole il consumatore.

Android https://play.google.com/store/apps/details?id=com.ebay.mobile&hl=it IOS https://itunes.apple.com/it/app/ebay.it/id282614216?mt=8

IOs https://itunes.apple.com/us/app/goodguide/id294447660?mt=8 Android https://play.google.com/store/apps/details?id=com.goodguide.android.app

idealo

shpock

L’APP PER CONFRONTARE I PREZZI

L’APP PER L’USATO PIÚ COOL

Confrontare gratuitamente i prezzi di oltre 1.000 negozi on-line da tutto il mondo, compresi “colossi” come Amazon, eBay e Zalando: con Idealo, App nata in Germania nel 2012, è possibile. Ogni prodotto è accuratamente descritto con schede tecniche, immagini, video, test e opinioni, e al raggiungimento del prezzo desiderato l’utente viene informato mediante una notifica. Il risultato? Un risparmio fino al 20%!

Fondata in Austria nel 2012 da Armin Strbac e Katharina Klausberger, Shpock permette di scovare gli oggetti di seconda mano più fashion nelle vicinanze, o di regalare una seconda vita (con ritorno economico) a ciò che non si usa più. Dalle biciclette vintage ai vestiti firmati, dagli occhiali più originali ai pezzi di design di nomi emergenti, tutto qui rivive. “Persino anelli di fidanzamento e case di cui ci si vuole sbarazzare”, racconta Strbac.

iOS https://itunes.apple.com/it/app/idealo/id454415640?mt=8%29 Android https://play.google.com/store/apps/details?id=de.idealo.android&hl=it

iOs https://itunes.apple.com/gb/app/shpock-classifieds-yard-sale/id557153158 Android https://play.google.com/store/apps/details?id=com.shpock.android

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business letter Premiaweb è una delle più floride realtà del panorama web italiano. Ne fanno parte Agriturismo.it, Matrimonio.it e, soprattutto, Travelfool.it. A confronto con l’ingegnere Igor Toscani

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uando e come nasce Travelfool.it? “L’inizio risale al 2009, e l’obiettivo era uno solo: aiutare le migliaia di utenti che ogni giorno navigano sul web in cerca di spunti e offerte per le proprie vacanze. La nostra unicità sta nella selezione delle proposte, che viene operata dallo staff manualmente seguendo un criterio di convenienza e qualità per gli utenti. Le nostre non sono solo proposte economiche; sono soprattutto opzioni uniche, o dotate di caratteristiche che le rendono interessanti agli occhi del potenziale viaggiatore. In poco tempo TravelFool è diventato un punto di riferimento per gli amanti dei viaggi scontati. Migliaia di persone ogni giorno visitano il sito, prendendo spunto dalla Top10 e soprattutto dalla Newsletter quotidiana, inviata a oltre 200.000 persone, con le migliori proposte del web selezionate scrupolosamente dal nostro staff”. Parliamo proprio della newsletter. Quali sono i suoi punti di forza? “Il successo di Travelfool.it e il suo numero elevato di iscritti sono sicuramente merito della serietà della redazione: indipendente, specializzata e allo stesso tempo appassionata di viaggi. Questo si ripercuote sulla qualità dei contenuti, sulla loro unicità e trasparenza. Non essendo pagati per scegliere, possiamo fare la scelta giusta per l’utente”.

E il vostro guadagno? “Nella newsletter e sul sito sono presenti spazi pubblicitari e offerte sponsorizzate da tour operator e strutture ricettive. Tali spazi promozionali sono chiaramente segnalati, ma ricevono comunque molta attenzione: se le offerte promosse sono buone e interessanti, per l’utente che sta cercando una vacanza sono un valore aggiunto e non un disturbo”. Qual è l’offerta più “pazza” e imperdibile che TravelFool ha mai scovato? “Pochi mesi fa abbiamo proposto una crociera in Antartide, una meta davvero per pochi travel fool”. Un’ultima domanda sui trend di mercato. Quali sono le tre mete top per l’estate 2014? “Abbiamo da poco effettuato un sondaggio sulle intenzioni di vacanza degli italiani, chiedendo ai nostri utenti di svelarci le

mete in cui passeranno le loro vacanze estive: hanno risposto in 2576 e i risultati ci hanno mostrato una forte crescita per regioni come Emilia Romagna, Marche e Trentino, mentre in leggero calo sono apparse la Puglia e la Sicilia. Ad andare per la maggiore sono però le destinazioni straniere affacciate sul mar Mediterraneo. Questa tendenza l’abbiamo riscontrata anche nell’andamento delle offerte selezionate sul portale: le nostre proposte per Sardegna e Salento non eguagliano le offerte per la Grecia e le Baleari, che sono quelle che ci danno più soddisfazioni e per le quali riceviamo molti commenti e richieste. Molto in voga quest’anno appaiono anche Corsica e Turchia. Diciamo che le isole greche (Santorini e Kos in testa), Maiorca e la Corsica sono le 3 mete top per l’estate 2014”.

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PAY ATTENTION!

la bibbia del web: le recensioni

www.ciao.it

7 milioni di opinioni su 1,4 milioni di prodotti Si potrebbe definire una “guida allo shopping” Ciao!, l’enorme community online (sono 1.300.000 gli utenti) in cui persone di ogni estrazione sociale forniscono opinioni imparziali su prodotti di diverse categorie, cui si aggiungono informazioni aggiornate sui prezzi. C’è sostanzialmente di tutto, dai software ai libri, dal food&beverage ai prodotti beauty, dai film agli elettrodomestici, dai viaggi ai capi moda, fino ai motori di ricerca e i complementi d’arredo. Ciao! fa parte (insieme a Leguide.com, Dooyoo, Webmarchand e Choozen) dell’European Shopping Group LeGuide, che dal 1998 aiuta i consumatori on-line nelle loro esperienze d’acquisto. Nel 2006, il gruppo è approdato in Borsa.

www.tripadvisor.it

150 milioni di recensioni A fare di TripAdvisor il più grande sito al mondo dedicato ai viaggiatori concorrono i numeri: 150 milioni tra opinioni e recensioni, 4 milioni tra strutture, attrazioni e ristoranti recensiti, 260 milioni di visitatori unici al mese, per una crescita annua del 50%. Nato 14 anni fa su iniziativa di Steve Kaufer, opera oggi in 42 Paesi, Cina inclusa (con il dominio www.daodao.com). Hotel, B&B, case vacanza, ristoranti, attrazioni: nulla sfugge all’occhio e all’obbiettivo attento degli utenti TripAdvisor, che possono partecipare alle discussioni, chiedere consigli su mete&co, accedere con facilità alle maggiori agenzie di viaggio on-line. L’hotel più recensito? Il Luxor Las Vegas (13.677 recensioni), mentre la palma delle attrazioni, con le sue 24.413 recensioni, spetta alla Tour Eiffel.

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loving design

pezzi speciali a prezzi incredibili

www.dalani.it

Il primo shopping club in Italia per la casa Nel 2011, l’ex giornalista di Elle Decor Germania Delia Fischer dà vita a Dalani Home & Living. Nel novembre dello stesso anno, in Italia, Dalani prende vita per mano di Diego Palano, Mattia Riva, Karim El Saket e Margot Zanni. Tutto quanto serve a fare della propria casa una “bella casa” è qui raccolto, tra proposte vintage e capsule collection supportate da un contenuto editoriale fresco e ricco di suggerimenti. Ci sono i grandi marchi (del design e della tecnologia, ma anche della moda), le ambientazioni che ricordano film storici, i suggerimenti di personaggi del mondo arredo. E c’è persino un magazine, con approfondimenti e nuove tendenze. Dalani è presente anche in Svizzera con il marchio Westwing (www.westwing.ch) BEST SELLER La poltrona Cristel, in legno di rovere e tessuto dipinto a mano, valorizza gli ambienti ampi e luminosi con fantasia e allegria. Euro 215 SPECIAL Di Gucci, Dado è un set di carte e fiche da gioco realizzato in radica. Un divertimento, ma anche un oggetto d’arredo che rimanda agli anni Settanta. Euro 1490

special

best seller

special best seller

www.madeindesign.it

Il design democratico C’era una volta una start up, che è oggi un’eccellente realtà, quella del più grande e-shop europeo dedicato ai Maestri e ai nuovi talenti del design. È la storia di made in design, cominciata nel 1999 per mano di Catherine Colin e sbarcata in Italia nel 2010. La missione? Democratizzare il design. Oggi, 28.000 prodotti di 1.200 designer – dai brand nordici alle colorate creazioni del sud – sono esaltati da schede dettagliate, tra grandi nomi (Philippe Starck, Ron Arad) e giovani promesse come Edward Barber, rendendo made in design un “talent scout 2.0”. Capace di fare del design di qualità un’opportunità per tutti, il sito, con i suoi 800.000 visitatori unici l’anno, è in fortissima crescita in Italia. BEST-SELLER Di Constance Guisset per Petite Friture, la sospensione Vertigo, qui nella versione small, è leggerissima (500 g) e pare un cappello che fluttua nello spazio. In ferro, fibra di vetro e poliuretano, costa 690 euro SPECIAL Solo su made in design, Mister T di Antoine Lesur a 350 invece di 700 euro. Un tavolino in compensato di frassino verniciato che è anche un cuscino, un poggia-piedi e un vassoio.

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10 REGOLE D’ORO Consigli e suggerimenti per fare shopping sul web in tutta sicurezza. Perché essere diffidenti è sempre un bene

1.

Assicurarsi che il pc sia “in salute”. È necessario avere un Antivirus aggiornato all’ultima versione, che sia in grado di controllare l’affidabilità dei link sui motori di ricerca. Regola che vale anche per il proprio browser: tenerlo aggiornato significa limitarne la vulnerabilità

2.

Per iniziare a fare acquisti sul web, meglio affidarsi agli shop on line ufficiali dei grandi marchi, o alla versione web di negozi e catene d’abbigliamento celebri. Per gli store multibrand, la scelta migliore è puntare sui “soliti noti”, come Yoox, eBay o Asos. Per i siti poco conosciuti, vale invece la regola del certificato: se vi è il simbolo di Norton Secured, VeriSign Trusted o TRUSTe Verified, si può stare tranquilli

5.

Se si vuole risparmiare molto, siti in stile “temporary shop” come Privalia, Dalani o Showroomprive sono il top. Attenzione però ai tempi di consegna, soprattutto se il prodotto che si acquista è un regalo. Spesso passano anche 5 settimane prima di ricevere l’acquisto!

6.

Verificare le recensioni è sempre un bene prima di fare acquisti sul web. Che si cerchino informazioni su un e-shop o su un prodotto specifico, le opinioni degli utenti sono una manna dal cielo

Prestare attenzione alle spese di spedizione è fondamentale. Spesso sono gratuite per ordini superiori a un minimo stabilito, mentre acquistare un prodotto molto economico potrebbe costare troppo in termini di consegna. Se si acquista oltreoceano, è bene verificare anche le eventuali tasse doganali per evitare brutte sorprese

Se l’e-shop prevede un sistema di feedback (come per Amazon o per eBay), optare per il venditore con le percentuali più elevate, ma sempre prestando attenzione: una sola recensione positiva non regala alcuna sicurezza! Meglio affidarsi ai venditori che il sito attesta come massima affidabilità

Se si compra un capo di un brand che non si conosce, e la taglia è in dubbio, meglio optare per i siti che offrono il servizio di reso gratuito. Un’opzione, questa, che tutti gli e-shop dovrebbero offrire per gli oggetti danneggiati, ma che potrebbe costare in termini di spedizione qualora il prodotto non fosse di gradimento

3. 4.

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7.

8.

Se si acquista su siti poco noti, meglio dimenticarsi la carta di credito e affidarsi a una carta prepagata, da caricare con importi limitati. Altro sistema testato, rapido e super sicuro è PayPal, che permette di acquistare con la carta di credito inserendo mail e password al posto del numero. Il rischio di clonazione è così ridotto al minimo

9.

Anche l’url della pagina è una preziosa fonte di informazioni. Se compare un lucchetto seguito dalla sigla “https” significa che il pagamento su quel sito è protetto, e che i dati inviati dal browser vengono criptati

10.

Spesso acquistare sul web porta a “esagerare”. Usare la carta di credito ogni giorno, anche solo per piccoli importi, può regalare brutte sorprese a fine mese. Per scongiurare il “pericolo” è bene attivare un alert come quello offerto da CartaSi, che tiene le spese monitorate e invia un resoconto una volta a settimana


La magia delle 5 stelle nel piatto

Via Amoretti 94 Milano Tel. +39 331 136 8207 www.bistromilano.it


“Formica Atomica”

sul fronte dell’Est

Slovacchia e Romania: sulle centrali (non costruite) e sulla privatizzazione la società italiana si trova a far fronte a una spinosa inchiesta giudiziaria slovacca (con relative perquisizioni) e a una richiesta di arbitrato di Bucarest per oltre mezzo miliardo. Nel mirino le scelte industriali compiute negli anni passati

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a ZERO VARIANT (Variante Zero) slovacca di Enel, ovvero come provare a far riconoscere prima ai manager premi di produzione e sostanziose buoneuscite per poi far ricadere sugli azionisti (italiani e slovacchi) oneri aziendali con relative minusvalenze. Il 10 Luglio 2014, Enel ha ufficializzato in un comunicato l’inizio delle procedure di cessione degli asset in Romania e Slovacchia con adeguata informativa (così scrive Enel) alle competenti autorità locali ovvero agli azionisti di minoranza di tali società. La reazione del Governo Romeno è stata

quella di chiedere a Enel di adempiere alle obbligazioni a suo tempo assunte contrattualmente, saldando i residui 520 milioni di euro previsti dalle clausole di privatizzazione, mentre il gelido silenzio del Governo Slovacco è stato coperto dai clamori per una perquisizione della polizia presso vari uffici di Slovenske Elektrarne, controllata slovacca di Enel. L’indagine (che riguarda altresì le modalità di cessione nel 2006 della proprietà della medesima Slovenske Elektrarne a Enel ed eventuali possibili indebiti benefici di terze parti nell’operazione di acquisto)


è in corso da tempo, essendo legata al cosiddetto “scandalo gorilla” e alle relative intercettazioni, e ha coinvolto, in qualità di teste, diversi manager e consulenti. I magistrati slovacchi stanno anche indagando sullo squilibrio fra un asset azionario comprato per circa 800 milioni di euro (in un periodo pre-crisi globale e nei fatti permettendo a Enel di diventare il monopolista del mercato elettrico slovacco) messo oggi in vendita con una valutazione pari a diversi miliardi di euro. Slovenske Elektrarne è stata negli anni per Enel una vera “cash cow” grazie a un mix perfetto di fonti di produzione elettrica (due centrali termonucleari di tecnologia russa VVR 440, due centrali termiche a carbone e molti impianti idroelettrici di svariate taglie fra cui la Centrale di Gabcikovo, un gigante da 720 MW sul Danubio) che ha generato flussi di cassa significativi di cui il Gruppo Enel ha beneficiato (così come il suo management tramite cospicui premi legati alle performance di breve periodo) spingendo al massimo l’esercizio ma sempre con la chimera (zero dividendi per gli azionisti) di accumulare risorse necessarie al completamento di una terza centrale nucleare: la Centrale di Mochovce 3/4 (due reattori VV440 di seconda generazione per la risibile potenza di 800 MW e per un budget globale di costruzione contrattualizzato nel 2009 in 2,8 miliardi euro). Ora il budget per la costruzione di Mochovce ha raggiunto i 3,7 miliardi di euro e, secondo indiscrezioni tecniche, si parla dell’iperbolica cifra finale di 4,8 miliardi di euro, in parallelo allo slittamento dei tempi (oltre il 2017) per la messa in esercizio con strascichi polemici in Slovacchia, incentrati in queste ore anche sul ruolo di subfornitori come la società bulgara Enemona o la ceca Modranska: lo Stato Slovacco, socio di minoranza con un 34% di Slovenske Elektrarne, teme che il progetto diventi irrealizzabile, trasformando Mochovce nell’ennesima centrale nucleare incompiuta in Europa, e che, nell’illusorio tentativo di completarlo, gli ulteriori ingenti oneri ricadano in modo devastante sugli utenti/cittadini. In realtà, i problemi

di Slovenske Elektrarne non sono legati al completamento di Mochovce 3/4 o meglio, non solo a Mochovce: il parco centrali (sopratutto in un momento di significativa flessione delle richieste di energia sul mercato europeo e di contrazione dei prezzi) sta palesando i veri limiti, frutto di anni di “cost saving e cash production”. Ciò unito al contenzioso intergovernativo sulla Centrale Idroelettrica di Gabcikovo, oltre che alle problematiche produttive/ ambientali delle due vecchie centrali a carbone (il concorrente CEZ, ente elettrico dello stato ceco, ha investito, per adeguare 4 impianti di simile concezione, qualcosa come 5 miliardi di euro) rendono la Centrale Nucleare di Mochovce 3/4 parte dell’intera problematica. Da ultimo, ed è interessante notarlo, in Slovacchia (come nel caso rumeno) non si è ancora completato formalmente il processo di privatizzazione, poiché lo Stato Slovacco ritiene di avere diritto a ulteriori importi (oltre agli 800 milioni di euro già incassati per la privatizzazione) mentre il Gruppo Enel risponde di aver pagato già troppo rispetto al valore aziendale (salvo poi chiedere sul mercato, per lo stesso pacchetto azionario, importi molto più corposi) e di volersi veder restituite le somme pagate in eccesso. Le parti hanno così adito reciprocamente alla tutela legale. Tuttavia, già nel 2011, Enel aveva proposto di definire il contenzioso con un accordo denominato “zero variant” (variante zero, ovvero ciascuno si faccia carico delle proprie aspettative senza vantare nulla più dalla controparte) ma la sottoscrizione di tale contratto integrativo è pendente perchè le istituzioni slovacche sono ben lungi dall’esserne convinte. Da parte slovacca, si contesta come gli advisor (bancari e legali) già nominati e la medesima Enel possano sostenere in modo pubblico che il processo di cessione di Slovenske Elektrarne si completerà in alcuni mesi, se vi sono una serie di aspetti ostativi industriali (vedi problematiche operative sulle varie centrali e il completamento di Mochovce 3/4) e formali (vedi indagini in corso da parte della magistratura e mancato perfezionamento del processo di

privatizzazione). Forse questo è il vero concetto rappresentato nella formula “zero variant” dal management di Enel: nulla cambia e quindi i problemi (e i futuri oneri) rimangono sempre e comunque di competenza degli azionisti. Come naturale la polemica sembra oggi a Bratislava spostarsi sul management, sulle scelte tecniche/economiche che in un primo momento hanno generato benefici (subito trasformati in benefit e bonus per i manager) e nel medio periodo non si sono rivelate vincenti per gli azionisti, che nel caso Slovenske Elektrarne sono la società quotata Enel (controllata dalla Stato Italiano) e il Governo Slovacco. La soluzione alle attuali controversie e problematiche di Slovenske Elektrarne è difficilmente identificabile in una pura cessione (la cessione sarà uno degli eventuali strumenti in cui la stessa soluzione si articolerà), bensì sarà connessa a una decisione di politica industriale fra due governi. L’Italia ha bisogno che Enel riduca il proprio indebitamento e aumenti i profitti (vista altresì la necessità del Governo Italiano di un flusso di dividendi e in particolare di poter cedere sul mercato in autunno un altro 5% di Enel per incombenze di cassa). Per parte Slovacca, l’interesse è sì per i dividendi di Slovenske Elektrarne, però con un occhio alla competitività dei prezzi dell’elettricità e al completamento dell’investimento sulla Centrale di Mochovce. Alcuni dicono che il Primo Ministro Slovacco Robert Fico sia un decisionista un po’ burbero ma determinato, e ciò è molto simile a quanto altri dicono di Matteo Renzi, Primo Ministro Italiano. Da settembre, e con la Presidenza Italiana dell’Unione Europea, le occasioni di incontro fra i due saranno molteplici. Chissà, forse Robert e Matteo stanno già parlando. E lo stesso probabilmente vale per la Romania, dove la società di amministrazione e partecipazione all’energia, controllata dallo Stato, ha deciso di procedere con un’azione giudiziaria nei confronti dell’Enel presso il Tribunale internazionale di arbitrato di Parigi, sollecitando al gruppo italiano una somma pari a 521,5 milioni di euro.

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Sette anni in Cina

La grande muraglia cinese. Confine fra delocalizzazione e backshoring

79 aziende italiane hanno abiurato la scelta strategica della delocalizzazione per tornare a produrre in Italia. Ma, dopo la vendita dei maggiori brand del made in Italy, è ora Pechino ad attuare una colonizzazione massiccia del sistema produttivo italiano

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empre più capitali cinesi nelle industrie e nei grandi gruppi, specie pubblici, italiani. Ma, parallelamente, sempre più aziende italiane che, tentata l’avventura cinese, rilocalizzano in Italia. In entrambi i casi non si può esultare. Nel primo caso, così come già accaduto con la Grecia, la scelta degli investitori cinesi e delle Banche della Repubblica Popolare si è concentrata sul paese più debole dell’Unione Europea, quello di fatto in vendita a prezzi di liquidazione. Per quanto riguarda il processo di ritorno, il cosiddetto

backshoring, l’analisi non si può certo arrestare all’esultanza per il ritorno. Solo fra mesi sarà possibile verificare lo stato di salute delle aziende che avevano delocalizzato e che ora si troveranno a gestire un complesso processo di riposizionamento strategico e operativo. Sul fronte degli investimenti cinesi in Italia, ormai la diga sembra essersi definitivamente crepata. Dopo l’intervento di State Grid in Cassa Depositi e Prestiti Reti (di cui è stato rilevato il 35%) a cui fanno capo quote strategiche in Terna e Snam, la Peoplès Bank of China


è entrata nell’azionariato di Telecom Italia di cui diventerà il terzo azionista. Per altro, la stessa People Bank of China aveva già acquisito il 2,001% del capitale e il 2,018% di Prysmian, entrando a fine marzo in Enel con il 2,071% e in Eni con il 2,102%. Ora è nel gruppo telefonico con una partecipazione diretta del 2,081%. Dei cinesi si parla, infine, con crescente insistenza per possibili investimenti nei porti, negli aeroporti, e in aziende del settore logistico. Esattamente come accaduto in Grecia. Ma i riflettori – come detto – si sono accesi anche sul backshoring, una delocalizzazione di ritorno, che è ormai un fenomeno globale che tende a modificare in profondità la mappa e gli equilibri dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti, ogni anno venivano esportati, per delocalizzazione industriale, 150.000 posti di lavoro, creati da aziende americane in Cina, nel sud est asiatico, in sud America. La grande motivazione alla base di questo processo era da ricercarsi essenzialmente nel basso costo della manodopera e nella possibilità di realizzare catene produttive in un habitat mediamente più elastico e meno controllato (dal punto di vista normativo, sociale, fiscale, burocratico). Ma le cose negli anni sono cambiate sia su un fronte che sull’altro. Molte delle aziende che avevano delocalizzato in modo massiccio fasi o intere filiere produttive hanno affrontato crescenti difficoltà, prime fra tutte quelle relative a una cultura e a una tradizione industriale e produttiva che ad esempio in Cina, per taluni tipi di prodotto, stenta ad affermarsi. Il grande sogno dei bassi costi della manodopera (per altro in costante crescita proprio in Cina) è progressivamente sfumato, oppresso proprio da pressioni burocratiche (basti pensare all’India), dalle difficoltà nei sistemi e nelle catene di subfornitura, nei ritardi formativi della mandopera, nei costi di viaggio o di spedizione dei beni. Per altro a dare l’esempio è stata la stessa Cina, che da paese di delocalizzazione si è trasformata nell’ultimo decennio nel più grande delocalizzatore spostando la produzione in paesi ancora a bassissimo costo della manodopera, come quelli africani, ma sperimentando a sua volta tutte le conseguenze negative che già

erano emerse per le aziende americane ed europee. Se sul fronte dei paesi nei quali si era concentrato il più consistente flusso di delocalizzazione il quadro, ancorchè in evoluzione, è chiaro, ben diversa è la percezione per quanto riguarda il ritorno. Per le aziende americane un importantissimo driver decisionale è stato rappresentato dall’habitat pro-imprese generatosi in questi anni negli Usa, paese che quanto è fermo e irremovibile nei rapporti internazionali e nell’imposizione della sua etica (basti pensare al caso banche svizzere e alla facilità con cui oggi è possibile aprire un conto presso una banca Usa, mantenendo in modo quasi assoluto l’anonimato), tanto è diventato flessibile nella gestione del suo apparato economico. I risultati in termini di netta riduzione del tasso di disoccupazione sono sotto gli occhi di tutti. Ma cosa accadrà alle imprese italiane che tornano dalla Cina, dall’India o da altri paesi, e rilocalizzano in Italia, è oggi davvero difficile da prevedere. Fra il 1997 e il 2013, secondo uno studio UniCLUB MoRe Back-reshoring Research Group, sono circa 79 le linee produttive italiane che hanno fatto rientro alla base.

Su 376 casi di studio, l’Italia si colloca al secondo posto dopo gli USA ma prima di Germania, Inghilterra e Francia. Il fenomeno è infatti più consistente nei paesi con economie basate sul manifatturiero. Fra le realtà italiane che hanno attuato il back-shoring spiccano Beghelli, Bonfiglioli, Faac, Furla e Wayel, che hanno lasciato Cina, Repubblica Ceca e Slovacchia per tornare a produrre in Italia, principalmente per motivi economici: il trasferimento merci incide oggi più che in passato, riducendo i margini a causa dell’aumento dei costi. Fra le motivazioni, dunque, la logistica incide per il 92%. Le altre cause: condizioni di mercato stagnanti che costringono a tenere le merci ferme sui mezzi di trasporto con conseguente lievitazione dei costi; aumento dei costi produttivi nei paesi ospitanti; scarsa qualità produttiva; ritardo nelle consegne; incentivi al rientro produttivo in patria (in minima parte). Non da ultimo, per il ritorno in patria incide la rinnovata forza del marchio made in Italy, sinonimo di valore aggiunto. Furla (Bologna) è tornata in Italia per la scarsa qualità delle produzioni asiatiche, Nannini (Firenze) con lo stesso criterio ha abbandonato l’Europa dell’Est.

Da dove si ritorna L’esperienza delle aziende Anie

Fonte: Indagine rapida ANIE

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Gli yacht di Azimut sono tornati dalla Turchia e la Mediolanum Farmaceutici ha lasciato Parigi per concentrare la manifattura in provincia di Lodi. In qualche caso è stato necessario ristrutturare, affrontando esuberi e optando per semplificazioni organizzative, come nel caso della Bonfiglioli Riduttori. Dopo la moda, l’industria elettrotecnica ed elettronica rappresenta il secondo comparto per rimpatri produttivi. Il back reshoring, che consiste nel rientro in patria dei siti produttivi precedentemente delocalizzati all’estero, è stato al centro di uno studio realizzato da ANIE Confindustria dal quale emerge che i settori ANIE rappresentano quasi il 20% del totale del fenomeno italiano, piazzandosi in seconda posizione alle spalle solo di abbigliamento e calzature. Est Europa (38,5% dei casi) e Cina (30,8%) sono le aree geografiche da cui si ritorna di più, per un fenomeno che si origina nel 40% dei casi dalle piccole e medie imprese. Tra le motivazioni più rilevanti per il rientro, il minore controllo della qualità della produzione all’estero (“molto rilevante” per un terzo delle aziende ANIE intervistate), la necessità di vicinanza ai centri italiani di R&S (25%) e i maggiori costi della logistica (22%). Un momento magico? Si, ma – come sottolineato nello studio – solo a precise condizioni. Le aziende italiane sarebbero e forse sono pronte a tornare a produrre in Italia se si creassero le condizioni per poter lavorare: abbattimento della pressione fiscale e della burocrazia, detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e innovazione, valorizzazione del know how tecnologico e della qualità del made in Italy, promozione degli asset strategici del Paese. Dall’indagine condotta da ANIE presso le aziende associate emerge la ferma vocazione all’innovazione: il 60% delle imprese ha dichiarato di aver investito in R&S nel triennio 2011-13 una quota di fatturato superiore al 2%; ben il 40% ha inoltre segnalato un’incidenza della spesa in Ricerca & Sviluppo sul fatturato addirittura superiore al 4%. Tornare in Italia, significa controllare meglio il processo produttivo che, quando le fabbriche si trovano a migliaia di chilometri, tende a diventare terra di nessuno.

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Secondo i dati elaborati da un gruppo di ricerca sul back-reshoring, formato dagli atenei dell’Aquila, di Catania, di Udine, di Bologna e di Reggio Emilia, negli ultimi quindici anni, per l’Italia, si contano settantanove operazioni di back-reshoring: ventotto dalla Cina, dodici da Paesi asiatici (non la Cina), ventidue dall’Europa dell’Est e dalla Russia, tredici dal resto d’Europa, una dal Sud America, una dal Nord Africa e due dal Nord America. Settantanove su trecentosettantasei casi censiti da questo gruppo di ricerca, intenzionato a cogliere il profilo di un fenomeno internazionale e di sviluppare un dibattito intorno alle policy pubbliche. Per l’Italia, vanno aggiunti dodici casi di near-reshoring: la scelta di mediazione di abbandonare sistemi industriali vantaggiosi dal punto di vista dei costi ma troppo lontani, ricollocandosi dunque in Paesi più vicini al proprio. Nel 2009 i casi - sia di back che di near-reshoring - erano ammontati a diciannove. La recessione ha come congelato questo processo. Che, però, è rapidamente ripartito: nel 2012 se ne sono contati undici, nel 2013 dodici e in questi primi mesi dell’anno quattro. Fra le ragioni addotte, un imprenditore su quattro indica i costi della logistica. Costi della logistica che, spesso, superano i vantaggi comparati del costo del lavoro. Non solo: la dinamica di quest’ultimo è tutt’altro che favorevole, dato che - uno degli imprenditori su cinque - sottolinea, fra le ragioni del rientro a casa, anche quella della riduzione del gap dei salari, tendenza sempre più frequente, in particolare in Asia. Ma esiste un ulteriore quesito. C’è ancora una casa Italia? C’è ancora un forte made in Italy? Dall’industria alla moda, fino all’agroalimentare, non si contano più i marchi italiani venduti. Ultima in ordine di tempo Indesit, ceduta all’americana Whirlpool per 758 milioni di euro. Emblematico il caso della storica gelateria Fassi a Roma, rilevata dalla società coreana Haitai Confectionery and Foods Co, o del Pastificio Lucio Garofalo, in cui sta entrando in forze lo spagnolo Ebro Foods (che è anche azionista forte in Riso Scotti). A febbraio si era concretizzato l’ingresso di Blackstone, fondo d’investimento americano, nel 20% delle quote di

Operaie cinesi al lavoro

Versace, e stesso destino era già toccato a Krizia e Poltrona Frau. Nel 2013 era stata la volta di Loro Piana finire rilevata dai francesi di Lvmh per due miliardi di euro. La stessa Lvmh (che ha messo le mani su Fendi, Bulgari, Pucci e Acqua di Parma) è entrata nella pasticceria Confetteria Cova proprietaria della società Cova Montenapoleone Srl, che gestisce la nota pasticceria milanese. Ancora, la francese Ppr di Francois-Henry Pinault controlla Gucci, Bottega Veneta e Sergio Rossi. Valentino e Missoni nell’orbita del Qatar. Nell’alimentare Parmalat,Galbani, Locatelli e Invernizzi fanno parte di Lactalis. Pernigotti in mani turche (Toksoz), senza tornare indietro alla massiccia colonizzazione di altri marchi storici del settore vinicolo e agro-alimentare della tradizione italiana. Sorge spontanea una domanda: esiste ancora un’Italia che produce?



di Laura Alberti

Wu cuore di cina

Per scrivere “Italia”, i cinesi utilizzano un carattere che ha in sé il sole e il cuore. La storia di Angelo Wu, imprenditore figlio della prima generazione di cinesi in Italia, racconta come i due mondi siano sempre più vicini

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lasse 1947, Angelo Wu ha mamma italiana e un papà QinTianese, Li Siang, che fu uno dei capostipiti del 1° flusso migratorio cinese in Europa e quindi in Italia. Felicemente sposato con un’italiana, Angelo ha una figlia di 37 anni ed è di religione cattolica. “In casa si è sempre parlato italiano; ho iniziato a studiare la lingua cinese solamente all’età di 50 anni”, racconta. Curioso, carismatico e intraprendente, inizia a lavorare da

ragazzino, quando aiuta la famiglia nell’attività di pelletteria. Da lì, passando per esperienze nel campo della tipografia, dell’elettronica e dell’elaborazione dati, arriva ad avviare importanti attività imprenditoriali nel settore logistico, in partnership con aziende italiane e multinazionali. Oggi, si definisce un “Consulente dell’Organizzazione Aziendale”. Ma Angelo Wu non è solo un imprenditore.


Il suo impegno sociale, che nasce da un forte desidero di integrazione, l’ha portato a gestire un asilo nido, a essere attivamente presente nelle scuole, persino a ricoprire il ruolo di Presidente in un importante Liceo Linguistico milanese. “Credo che, nel contesto di una sempre più difficile globalizzazione, la mescolanza di razze e tradizioni divenga necessaria e far sentire la voce delle diverse etnie contribuiscea alla loro conoscenza e, quindi, a diffondere cultura”, afferma. Ma iniziamo dal principio. Cosa, oltre mezzo secolo fa, spinse i cinesi a venire in Italia, e quali differenze ci sono tra i flussi migratori di allora e quelli odierni? “Si può dire che il flusso migratorio cinese in Italia, iniziato da Milano alla fine del 1920, rappresenti uno dei più significativi esempi di immigrazione dall’estero. Tra il 1924 e il 1930 i cinesi arrivavano dalla Francia; si stabilivano in Via Canonica e facevano gli ambulanti. Il primo vero e proprio flusso si ebbe tra il 1925 e il 1945, quando dalla Cina iniziarono ad arrivare cinesi che producevano e vendevano cravatte, ma anche i primi artigiani. Milano si riempì delle loro voci, che gridavano “Clavatte una lila”. Dopo la II Guerra Mondiale, quando continuavano a venire in Italia solamente uomini cinesi che poi sposavano donne italiane, nacquero i primi laboratori di borse e cartelle e fu aperta persino una lavanderia in via Canonica. Ebbe inizio la prima generazione di figli italocinesi. Seguirono altri flussi: tra il ’50 e il ’70 i cinesi arrivavano in Italia per raggiungere i propri parenti e iniziarono le prime cittadinanze italiane. Tra il ’70 e l’80 fu la volta delle coppie, con la nascita di ristoranti cinesi, nuove attività imprenditoriali e un contatto più immediato con gli italiani. Più di recente, con l’arrivo dei cinesi più giovani, sono nati i primi supermercati e si sono intensificate la diversificazione e la multiimprenditorialità. Fino ad arrivare ai giorni nostri, con tanti cinoitaliani che aprono le loro attività in Cina, e con i cinesi che vanno e vengono”. Cosa accomuna i cinesi agli italiani e in cosa siamo invece completamenti diversi? “Per molto tempo, Italia e Cina sono state considerate mondi del tutto diversi. Finalmente oggi, anche in Italia, si sente parlare della Cina senza allegorie. Si sta iniziando a scoprire un popolo ritenuto e

sentito come lontano dal nostro modo di essere, avulso dalla nostra storia. In realtà, sin dal periodo che va dal 2° Sec. a.C. al 4° Sec. d.C., un curioso parallelismo storico vede Roma e la Cina del tutto simili: due Imperi di pari dimensione, con strutture burocratiche che parevano duplicate, con enormi strutture militari, entrambi capaci di imporre il rispetto ai popoli vicini, oppure di assoggettarli. Il fulcro di entrambi si riteneva essere al centro del mondo; Roma dell’”Orbis Terrarum” (Caput Mundi) e la Cina del “Tianxia” (tutto ciò che sta sotto il cielo). I due Imperi furono poi nel tempo travolti da invasioni di popoli che, essi stessi, consideravano essere dei barbari. L’evoluzione della civiltà cinese ha avuto continuità per oltre ventuno secoli. Nello stesso tempo, agli antipodi dell’Eurasia, Roma, nella sua epoca imperiale, rappresentava la potenza dominante a livello politico, economico e militare del mondo civilizzato occidentale, divenendo epicentro, altresì, della produzione artistica e culturale, proprio quella che oggi l’Oriente vuole venire in Italia a riscoprire. Seguì presto un intenso commercio con l’Impero Romano, con i romani innamorati della seta cinese, sebbene credessero che questa fosse ottenuta dalle piante. Si può davvero immaginare che una più concreta corrispondenza tra Roma e l’Impero Cinese avrebbe potuto sconvolgere completamente gli equilibri geopolitici mondiali, anche quelli odierni. Le immense distanze dell’Asia centrale scongiuravano infatti ogni possibile minaccia militare reciproca tra le due superpotenze che, d’altro canto, erano accomunate dall’interesse di eliminare ogni intermediario nella più importante via commerciale dell’antichità, la Via della seta appunto. È così che, se nella storia “I due Imperi” con le insegne dell’Aquila e del Dragone si sono a suo tempo confrontati, è auspicabile che oggi, anche grazie alla maggior consapevolezza e conoscenza, questi si possano invece più costruttivamente incontrare, verificando di fatto che i due popoli hanno in comune molti valori fondamentali: la Famiglia, il Lavoro, la Cultura, il Risparmio e… la buona Cucina! Al contrario, le diversità sono davvero poche: il colore della pelle, la lingua, le abitudini alimentari e, naturalmente, le tradizioni”. C’è qualcosa che della Cina dovremmo

conoscere, per comprendere più nel profondo la sua cultura? “Ancora oggi, troppo spesso, si parla della Cina senza conoscenza, magari sotto l’impulso dei media, che sino a qualche tempo fa non erano generosi verso la Cina e i cinesi. Fortunatamente c’è stata un’inversione di tendenza, grazie all’importante peso economico che la Cina riveste (e rivestirà) nel mondo intero: questo fattore così importante deve essere sviluppato e approfondito, per arrivare alle basi della cultura e della filosofia cinese di un tempo. Significativo è comprendere la successione degli Imperi, durata ben venti secoli: la costituzione della I Repubblica da parte di Mao, la rivoluzione culturale, passando per il grande Deng Xiao Ping, che ha coniato il ben noto detto “non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che dia la caccia ai topi…”, sino ad arrivare ai giorni nostri, dove assistiamo a una vera rivoluzione, non solo industriale, ma anche ambientale e sociale. La qualità della vita del popolo cinese è uno dei pilastri del rinnovato board cinese, che migliorerà redditi e tempo disponibile, anche per il turismo, considerato elemento di grande valore socio-culturale. Dovremmo anche ricordare che, nel 1978, l’Italia fu il solo paese europeo a concedere un prestito alla Cina! Le famiglie cinesi, oggi, hanno un miglior status di libertà e democrazia, con orientamento allo sviluppo economico, pur con la necessaria gradualità: ma da lontano, spesso, non si riesce a comprendere. Tra le cose più recenti che sono nel nascere qui in Italia, un’importante iniziativa vedrà a Milano, nel prossimo triennio, la 1° Scuola Internazionale Cinese (MICS), un Campus moderno ed evoluto in grado di ospitare oltre 600 studenti, favorendo la conoscenza della lingua e della cultura cinesi, oltre naturalmente all’insegnamento delle materie curricolari”. Sono di più i cinesi che raggiungono l’Italia per motivi di lavoro, o quelli che invece intendono visitarla come semplici turisti? “Ai giorni nostri, anche in Cina ci sono lavoro e sviluppo, industriale e commerciale, quindi è minore il flusso di coloro che vengono in Italia a cercare lavoro. Sussiste invece un movimento fisiologico di cinesi che vengono in Italia per valutare opportunità di acquisizione di aziende, pur incappando spesso nelle forche caudine della nostra burocrazia, che

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non ne facilita la concretizzazione. Mentre è già iniziato, da circa 5 anni, un intenso flusso turistico guidato che viene a visitare l’Italia. Ci si deve preparare al grande esodo di oltre 100 milioni di cinesi che usciranno dalla Cina per visitare turisticamente il mondo… Di questa massa importante, si auspica che nel 2015 arrivino in Italia oltre 3 milioni di cinesi, almeno un terzo dei quali per visitare l’Expo”. Cosa cerca un turista cinese in Italia e quali sono le mete predilette? “I nuovi cinesi in arrivo vorranno visitare le principali città artistiche, storiche o culturali italiane: Venezia, Milano, Pisa (per la Torre Pendente), Firenze e Roma saranno le mete primarie. Naturalmente, la selezione è anche direttamente collegata al tempo a disposizione del turista cinese, oggi ancora assai limitato: ecco che vorrà fare veloce, comodamente, concretamente e senza intoppi il suo tour italiano, senza trascurare il tempo da dedicare allo shopping. Il Made in Italy rappresenta sempre un grande valore aggiunto”. Ci sono accorgimenti che un albergo o un ristorante dovrebbe adottare per accogliere al meglio la comunità cinese? “I cinesi in Italia ben presto si sono adeguati alle strutture italiane. A tal proposito, addirittura, il portale Vendereaicinesi.it, in rete su internet sia in italiano che in cinese, da due anni sta facilitando l’acquisto da parte loro di attività, bar, ristoranti, negozi e tintorie che gli italiani vogliono dismettere… Ecco quindi che riaprono bar oggi quasi del tutto chiusi, attività del tutto decadenti che vengono risollevate, esercizi commerciali che vengono rivitalizzati. Diverso è invece per i nuovi turisti in arrivo dalla Cina. Per loro sono nate tante iniziative destinate a gestire questi flussi turistici: notevole il valore aggiunto apportato dal portale turisticinesi.it, corredato di una specifica APP (China to Italy). All’interno del portale bilingue, tutti gli Operatori italiani che sanno di avere strutture e servizi di eccellenza potranno proporli ed esibirli, riportandoli immediatamente all’attenzione dei turisti cinesi che potranno leggerli e apprezzarli, del tutto interessati, nella loro lingua. Nel portale sono evidenziate le abitudini, le aspettative dei turisti e anche tutto ciò che può essere utile per meglio favorire

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gli Operatori italiani, informandoli e addestrandoli per un più adeguato accoglimento. Con una serie di minifiction, viene spiegato e raccontato quali sono le loro abitudini e, in abstract, la loro cultura. La complementare e potente APP, addirittura, prevede una serie di audioguide in cinese a fronte delle eccellenze artistiche e culturali italiane. Si è infatti spesso rilevato che, in molti musei, non esisteva la guida, nemmeno scritta, in cinese”. E un turista italiano in Cina, invece, cosa dovrebbe assolutamente visitare? “Reciprocamente, anche l’italiano che decide di visitare turisticamente la Cina segnerà le sue tappe nel percorso classico: Pechino per la Città proibita e la Grande Muraglia, Shanghai per vedere i fasti di un tempo e quelli di oggi, la rivoluzione immobiliare e la capacità architettonica, Xian per ammirare l’esercito di terracotta e, probabilmente, la formicolante Hong Kong (oggi regione a statuto autonomo) per lo shopping, e Canton, ben nota per essere stata la porta di ingresso della Cina, da Sud, da dove velocemente si può visitare Makao, dove cinesi con gli occhi a mandorla curiosamente usano l’idioma portoghese. Per coloro che invece non sono al primo viaggio, moltissime sono le mete, ricche di storia e di cultura, della grande Cina: basti pensare alla città di HangZhou, che Marco Polo definì il Paradiso su questa terra, oppure alle zone dell’entroterra, verso Ovest, ricche di vestigia e, al tempo stesso, con i contrasti della modernità”. Cosa sogna per il futuro della comunità cinese in Italia? “Il mio sogno, un pensiero che elaboro da tempo, è quello che le nuove generazioni, i figli dei nuovi cittadini italiani, possano finalmente vivere una vita sociale del tutto integrata, dove la mescolanza delle razze, delle religioni e delle tradizioni si coniughi in un meraviglioso e ricco mix, che sia un nutrimento efficace per il pianeta. Molti giovani cinesi in Italia sono ormai laureati, hanno una preparazione scolastica e sociale di elevato valore, tale da permettergli di dare il via a un processo di ulteriore diversificazione delle attività dei cinesi in Italia: quindi, se un tempo si aveva il commercio ambulante, poi la ristorazione, quindi la produzione,

oggi si ha il trading e domani potranno essere il terziario, i servizi, la consulenza, non solo per i cinesi. Per facilitare tutto ciò, naturalmente, devono cambiare in meglio anche le relazioni e le politiche degli stati, attraverso scambi culturali oltre che commerciali. E, ancora, i giovani devono iniziare a occuparsi di politica, non quella dei furbetti, ma quella che si occupa di polis civica. Ogni azione, ogni intervento della comunità devono essere l’occasione per porre le solide basi di un futuro di crescita, da costruire insieme alle istituzioni, con la diretta partecipazione della popolazione tutta, all’insegna di una civile e serena convivenza, sociale, commerciale e multietnica. La stessa che i cinesi, non solo di Milano ma in tutto il mondo, hanno dimostrato di saper concretizzare”. Un’ultima domanda. Vista la crisi, non le è mai venuta voglia di lasciare il nostro Paese? Come sarebbe stata la sua vita se invece che in Italia fosse nato in Cina? “Spesso, di fronte a difficoltà di lavoro diffuse, oppure per l’ottusità della nostra burocrazia, delle lente Istituzioni nostrane, vien voglia (ma non solo ai cinesi) di andar via, convinti che in ogni altra parte del mondo sia meglio! Il che potrebbe essere, ma sappiamo che la crisi è internazionale e abbraccia ogni angolo del pianeta e anche che, con fatica e sforzi, ci si sta lentamente risollevando dappertutto. Poi ci sono politiche diverse, tra stato e stato, tra unioni di stati, spesso tra regioni dello stesso stato… Ma siamo tutti convinti che i governi si stiano sforzando di marciare verso indirizzi di comunanza e condivisione. Certo è che, in ogni caso, dove i Paesi sono in via di sviluppo, le opportunità per i giovani sono più ampie: occorre coraggio, volontà e determinazione, ma i risultati sono garantiti. Per quanto mi riguarda, sono nato in Italia, la mia famiglia è italiana, le mie abitudini anche, pur conservando in parte quelle delle mie radici. Spesso dico che Wǒ de tóu shì yìdàlì rén, dàn wǒ de xīn shì zhōngguó rén ( 我的頭是意大利 人,但我的心是中國人 ): la mia testa è italiana, ma il mio cuore è cinese. Infine, non possiamo dimenticare che, in Cina, per scrivere Italia ( 意 大 利 - Yìdàlì ) si usa per primo un carattere che, al proprio interno, sopra ha il Sole e, sotto, il Cuore!”.


La via della seta di Abercrombie Il brand principe dei teenager va male in Occidente, ma sfonda in Cina. In America si programma la chiusura di 60 negozi, mentre in Oriente ogni mese si moltiplicano le nuove aperture

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ella vecchia Europa divampano le polemiche. La taglia XXXS e le rimozioni delle XL e XXL dal reparto femminile dimostrano che Abercrombie & Fitch è una marca selettiva che esclude i poveri e le persone in sovrappeso. Tuonano gli intellettuali parigini e non bastano le rassicurazioni del gruppo americano circa il ritiro della taglia “anoressica”. Ma, in fondo, ad Abercrombie & Fitch, protagonista di un’affermazione miracolosa nel mercato dei consumi e diventato il grande brand di riferimento dei giovani, interessa poi così tanto l’Europa? E, altrettanto, interessano gli Stati Uniti? La risposta è no. Nel vecchio e nel nuovo continente non è un problema di taglie, è un problema di età. L’invecchiamento

medio della popolazione rende poco appetibili le felpe attilate e le tutine del marchio che quotidianamente mettono in coda centinaia e centinaia di aficionados davanti ai suoi store in tutto il mondo. Agli intellettuali non piacciono neppure i modelli dai muscoli scolpiti che evocano immagini di uomoprodotto. Ma alle ragazze cinesi (per altro anche alle giovani europee e americane) piacciono eccome. E piacciono anche le taglie striminzite che mettono a dura prova le asole ma che fanno sembrare più magri e più... in tiro. Abercrombie & Fitch, dopo un anno horribilis in cui i suoi risultati di bilancio hanno denunciato un crollo di circa il 30% nel fatturato, si è rilanciato alla grande proprio grazie allo sviluppo del mercato cinese, dove

ha recentemente annunciato l’apertura di altri quattro store. Con gli adolescenti americani ed europei (fra i principali clienti del gruppo) a corto di moneta a causa della crisi economica e della nuova propensione ad acquistare in internet, Abercrombie ha messo in preventivo la chisura di una sessantina di negozi negli Stati Uniti, ma in Cina sta accadendo l’esatto contrario. Idem a Dubai, dove Hollister, marchio fratello di Abercrombie, è al momento il brand di maggiore successo. Per altro, i classici della moda giovane in Cina stanno tutti producendo fatturati e utili da capogiro, con una conseguente moltiplicazione anche dei punti vendita di grandi catene come Wallmart. E, aldilà della Grande Muraglia, la taglia XXXS va alla grande.

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É l’anno del cavallo in Cina, moda e design si adeguano

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cina da scoprire le cure che non ti aspetti

Cupping

Coppette di 3000 anni Il cupping è una terapia cinese vecchia di 3000 anni, sempre più in voga tra le star di Hollywood che ne esibiscono i segni sul corpo, da Gwyneth Paltrow a Jennifer Aniston. Il nome deriva dagli strumenti utilizzati: delle coppette dal diametro di circa 5 cm, applicate sulla pelle delle spalle e della schiena in punti ben precisi, spesso coincidenti con quelli dell’agopuntura. Oggi, le coppette sono di plastica e di vetro, hanno soppiantato le coppettine in ceramica, bronzo e corno, oppure le tazze di bambù della pura tradizione cinese. Come funziona? Prima dell’applicazione, all’interno delle coppette deve essere creato il vuoto, o attraverso il calore di una fiamma (nella coppetta è introdotto un fiammifero acceso per alcuni decimi di secondo, in modo da determinare la fuoriuscita dell’aria formando appunto un vuoto, dopodiché si applica immediatamente la coppetta sulla cute) o mediante un’operazione meccanica. In questo modo, con un’analogia con le sanguisughe della vecchia medicina, viene stimolato il flusso sanguigno del paziente alleviando i dolori, riducendo lo stress, incrementando i livelli di energia, aumentando la fertilità e aiutando a perdere peso. E, mentre fioriscono in occidente i centri specializzati, anche studi scientifici dimostrerebbero che il rimedio funziona per l’artrite del ginocchio e per il tunnel carpale.

MOXIBUSTIONE

Fiamma di artemisia Un paziente in tutti i sensi cinese si sottopone a una seduta di moxibustione nell’ospedale di Jinan, per curare una paralisi facciale. La terapia prevede l’utilizzo di speciali sigari confezionati con artemisia seccata avvolta nella carta, che vengono accesi e avvicinati alle zone di agopuntura. Il principio terapeutico è quello del calore: per questo motivo la moxibustione, utilizzata nella medicina tradizionale cinese da più di 3000 anni, è praticata ancora oggi in tutti gli ospedali del Paese per trattare problemi articolari, lombari e anche legati alle malattie da raffreddamento. La moxibustione avviene bruciando sopra o in vicinanza della cute della polvere di artemisia (Artemisia vulgaris), al fine di ottenere una calorificazione della cute e, di riflesso, di strutture sottostanti e interne. L’artemisia è un vegetale che cresce in tutto il pianeta e viene colto per tradizione il 21 giugno. Per l’uso esterno, questo viene lavorato in modo tale che al termine rimanga della polvere lanugginosa da impiegare per l’effettuazione della moxibustione, che può essere eseguita utilizzando la semplice polvere manipolata per confezionare dei piccoli coni, oppure viene impiegata confezionata in lunghi sigari. L’artemisia irradia, quando è incandescente, un calore da 500 a 600° e uno spettro infrarosso, che si è dimostrato molto efficace terapeuticamente.

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Zuo Yue Zi

Quarantena dopo parto La Zuo Yue Zi, nell’antichità, era una sorta di quarantena postpartum per evitare complicazioni, ancora oggi diffusa in molte culture asiatiche e sudamericane. In Cina, secondo le teorie umorali su cui si basa la medicina tradizionale, è necessario un intero ciclo lunare per ristabilire l’equilibrio tra le componenti calde e fredde destabilizzatesi all’interno dell’organismo nel corso della gravidanza e dopo il parto. Se osservato alla lettera, il mese post-partum della Zuo Yue Zi si trasforma in un periodo di inattività totale per la neomamma che non può uscire, è sottoposta a una dieta particolare e deve evitare di lavarsi per non disperdere il calore che il suo corpo sta recuperando. La neo mamma deve evitare cibi freddi, aumentare il numero di pasti fino a 6-7 al giorno, non lasciare l’abitazione, evitare i lavori di casa, riposare sempre a letto, evitare rapporti sessuali e ricevere meno visite possibile; fare la doccia esclusivamente quando è necessario (o non farla affatto), lavarsi i denti meno frequentemente (o non lavarli affatto), ovviamente lavare e medicare perfettamente e ogni giorno la “zona parto”. Si crede che se la Zuo Yue Zi non viene effettuata, in futuro la mamma potrà contrarre malattie ed eventualmente passarle alla prole.

Post mortem

Massaggi al caro estinto Massaggi ai piedi dei morti, per aiutarli a rilassarsi e metterli in condizione di compiere il lungo viaggio che li attende. É il nuovo service che un’agenzia cinese di pompe funebri, la Chongqing, diventata famosa grazie alla saga di Bo Xilai, offre ai suoi “clienti”. Il “Chongqing Funeral Management Centre” – così si chiama l’agenzia - ha creato una vera e propria Spa interna in cui offre al caro estinto due trattamenti finalizzati alla vita nell’aldilà: il lavaggio “profumato” dei capelli e il massaggio ai piedi. C’è anche una formula a forfait che prevede entrambi i servizi a prezzo fisso “ossequio al rispetto del corpo”. Incomprensibile? Assurdo? No. Per il misticismo cinese, il confine tra la vita e la morte ha un significato molto differente rispetto a quello della cultura occidentale. Da sempre, gli antenati vengono omaggiati nei templi con frutta, dolci e ciotole di riso oltre che con l’incenso. Accadeva anche con i lari o i penati nell’antica Roma. Accadeva in Egitto. In Cina, ad esempio, è conservata la tradizione di bruciare insieme ai corpi riproduzioni di carta degli oggetti che si desidera donare ai propri cari. Vestiti, cibi, elettrodomestici, ma anche autovetture sportive, gioielli o borsette firmate, tutto rigorosamente di carta. Ma anche soldi, ovviamente finti, che il caro estinto potrà utilizzare nell’aldilà per comprasi ciò che gli aggrada.

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letture che aprono la mente Sociologia

Euro 18,50 - n. pagine 240

LA CINA IN DIECI PAROLE

Yu Hua - Feltrinelli Editore

Il cinquantaquattrenne Yu Hua, diversi libri all’attivo di cui uno trasposto in film da Zhang Yimou (Vivere!), torna con un nuovo capitolo della sua bibliografia cinese. “La Cina in dieci parole” (traduzione di Silvia Pozzi) parte da 10 parole chiave – dall’antica “popolo” alla modernissima “taroccato” – per raccontare quel che si nasconde dietro e all’interno di una società cresciuta troppo velocemente e troppo sbilanciata. Duecentoquaranta pagine in cui si passa dalla sofferenza all’esaltazione, dalla grandezza dell’uomo fino alla sua meschinità. Ogni evento rilevante è scandagliato con occhio critico, sia questo il fallimento delle Olimpiadi di Pechino, la tragedia dei venditori abusivi o l’orrore delle demolizioni forzate. E poi ci sono loro, i cinesi, le cui vite Yu Hua le racconta con un mix di sentimenti che va dall’ironia alla commozione. Ci sono i bimbi delle campagne che non conoscono il calcio, ci sono genitori che si suicidano perché non possono comprare una banana al figlio, o il piccolo che chiede alla polizia di liberare i suoi poverissimi rapitori. Perché anche tutto questo, oggi, vuol dire “Cina”.

Psicologia

Euro 13,00 - n. pagine 200

LA MENTE ORIENTALE

Christopher Bollas - Raffaello Cortina Editore “Psicoanalisi e Cina”: è il sottotitolo del volume firmato Christopher Bollas, psicoanalista e scrittore classe 1943. Un libro costruito sul dualismo Oriente / Occidente, sui suoi incontri e i suoi scontri. Psicoanalisti occidentali da un lato, filosofi orientali dall’altro. Ne consegue un riuscito collegamento tra la pratica psicoanalitica di Donald Winnicott e Masud Khan e la poetica taoista, entrambe grandi estimatrici della comunicazione non verbale e dalla capacità di stare da soli. E, ancora, ecco che Bollas associa l’etica di Confucio, con il suo accento sulla dimensione collettiva della mente individuale, alle idee di Jung, Bion e Rosenfeld. Il pensiero orientale e il pensiero occidentale tornano a incontrarsi, dopo la divisione ideologica che migliaia di anni fa interessò la cultura indoeuropea. Dalle differenze alle convergenze, con quel punto di incontro che la pratica psicoanalitica ha il potere di generare.

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Attacco a Tortuga

Per la prima volta la Casa Bianca vara un piano anti-pirateria, che prevedere anche incursioni militari contro le basi in cui vengono organizzati gli attacchi. E dove spesso vengono tenuti prigionieri gli ostaggi

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a pirateria internazionale è un male che va estirpato alla radice. Altrimenti, nonostante i risultati positivi conseguiti nel 2013 grazie alla presenza di guardie armate a bordo delle navi mercantili (il caso dei due marò italiani in carcere in India dovrebbe far riflettere l’intera comunità internazionale) e alle misure di sicurezza e sorveglianza messe in atto da alcuni paesi particolarmente vulnerabili, i danni che provocherà all’interscambio mondiale saranno sempre maggiori. Per la prima volta la Casa Bianca ha preso nettamente posizione sul tema della pirateria marittima, per altro correlata in molte aree come la Somalia e il sud est asiatico con il terrorismo

integralista di matrice islamica. E lo ha fatto presentando un documento che non esclude azioni militari anche con massiccio utilizzo di forze aero-navali, per distruggere le basi dei pirati. A scuotere il presidente Obama sarebbero state in particolare le parole di Richard Philips, il capitano americano famoso per essere stato prigioniero dei pirati, immortalato anche in un film con protagonista Tom Hanks, che ricostruisce le drammatiche tappe di quella prigionia su una lancia di salvataggio. Membro della International Organization of Masters, Mates and Pilots, Philips aveva rivelato come tutte le misure adottate per


combattere la moderna pirateria si siano rivelate inefficaci e come gran parte dei paesi che “ospitano” basi dei prirati nella maggior parte dei casi non controllino realmente grandi porzioni del loro territorio nazionale e siano comunque incapaci, o per debolezza militare o per mancanza di fondi, di sferrare un’offensiva contro la pirateria. Di qui l’idea di un “attacco a Tortuga” che cessa di essere una fantasia per diventare un’opzione militare seria. Secondo Philips è indispensabile distruggere i nidi e procedere a una occupazione militare degli stessi, dotando in parallelo i tribunali di poteri speciali. Secondo lo United States Counter-piracy and Maritime Security Action Plan, la catena logistica che consente ai pirati di approvvigionarsi di armi, di nascondere le navi sequestrate, e di tenere in ostaggio in luoghi protetti i membri dell’equipaggio, in attesa che venga pagato il riscatto, è il fulcro di queste organizzazioni che devono essere quindi colpite nelle basi operative. Risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite conferiscono al governo americano e ai governi alleati l’autorità di prendere tutte le misure necessarie per porre fine alla pirateria, comprese le operazioni sul territorio e sulle coste, specie in Somalia. Estrema ratio visto che comunque la Casa Bianca ha ribadito la necessità di porre in atto misure di intelligence e diplomazia e di

cooperazione internazionale, rafforzando anche i governi locali. I nuovi hotspot pirateschi sono nello Stretto di Malacca tra la Malaysia e Singapore e nello Stretto di Makassar tra Indonesia e Malesia dove, solo il mese scorso, i pirati nella regione hanno dirottato tre navi. Già nel 2007, il presidente George W. Bush aveva varato un documento strategico dal titolo “Politica per la repressione della pirateria e di altri atti criminali di violenza in mare” nel quale si precisava che “La pirateria minaccia interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e la libertà e la sicurezza della navigazione marittima in tutto il mondo, mina la sicurezza economica, e contribuisce alla destabilizzazione del governo degli Stati più deboli. La combinazione di attività illecite e di violenza in mare potrebbe anche essere associata al contrabbando internazionale (ivi comprso quello di essere umani), e al terrorismo. “ Di nuovo nella ancora timida strategia di Obama ci sarebbe solo l’opzione militare contro i covi i pirati. Per altro sarebbe il caso di ricordare che nel 1801, il presidente Thomas Jefferson dichiarò guerra al Nord Africa Barbary Coast (Algeri, Tripoli e Tunisi), i cui membri avevano sequestrato navi americane e ridotto in schiavitù gli equipaggi. Fu il primo attacco della US Navy a un paese straniero attraverso l’uso delle truppe scelte di Marines.

Un focus particolare si sarebbe acceso sulle modalità di pagamento dei riscatti. Le compagnie di assicurazione chiamate a coprire il costo del riscatto verserebbero la somma (svariati milioni) presso banch compiacenti dell’Estremo oriente. A ritirare queste somme in contanti procederebbero poi i rappresentanti di onlus internazionali in cambio di un royalty. Nel 2013, secondo le stime prudenziali della International Organization of Masters, Mates and Pilots, il fatturato della pirateria sarebbe ammontato a 30 miliardi di dollari l’anno, al netto delle spese che sostengono le marine militari (inclusa quella italiana) per presidiare le rotte strategiche e scortare i convogli. Secondo i dati del Crime Sevice Bureau della Camera di Commercio Internazionale, nel 2014 sono già stati registati 107 attacchi dei pirati contro navi della marina mercantile di tutto il mondo. Nel 2013 gli attacchi erano stati 264: più di 300 persone sono state prese in ostaggio in mare l’anno scorso e 21 sono rimaste ferite. 12 navi sono stati dirottate, 202 sono state abbordate. Un terzo degli attacchi dei pirati si sono verificati al largo della costa dell’Africa occidentale con conseguente aumento dei costi di assicurazione per le imprese di trasporto. Nell’area dell’Asia-Pacifico gli attacchi sono aumentati del 300 per cento.

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di Marta Bo

6,1 miliardi nel forziere Pirateria: a tanto ammontano i costi sopportati dalla comunità marittima internazionale in seguito agli attacchi dei nuovi fratelli della costa. Arrembaggi in lieve flessione nel 2013 grazie alle nuove misure di sicurezza e alle guardie armate sulle navi mercantili

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ottanta per cento del trasporto di merci avviene via mare, coinvolgendo più di 112.000 navi e più di 1 milione e mezzo di personale di bordo. Tra il 2000 e la fine di maggio 2013 un totale di 4.759 attacchi di pirateria e armed robbery at sea ha colpito la comunità internazionale minacciandone gravemente uno dei suoi capisaldi: la sicurezza della navigazione. Le aree maggiormente colpite nel 2013 sono state il Mar Cinese Meridionale, l’Africa occidentale e l’Oceano Indiano, seguiti dal Sud America, i Caraibi e il Mar Mediterraneo. Seguendo la tendenza nel 2012, il numero di incidenti in Somalia è ulteriormente sceso a 20, nettamente inferiore ai 78 incidenti segnalati nel 2007 quando la pirateria somala ha iniziato a prendere piede. Più in generale, nel 2013 si è registrata una diminuzione nel numero di attacchi del 12,6% rispetto al 2012 riconducibile,

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da un lato, all’effetto deterrente derivante dall’impiego di personale armato a bordo e dalle missioni militari (navali e terrestri) anti-pirateria, come quella istituita dall’UE nel 2008 (cd. ‘Atalanta’) e, dall’altro, al maggiore impegno assunto da parte degli Stati delle aree maggiormente colpite che hanno rafforzato i loro apparati di sicurezza marittima, intensificato la cooperazione e che sono stati destinatari di specifici programmi di capacity-building. La recrudescenza del più antico dei crimini internazionali è ricollegabile proprio alla incapacità di taluni Stati costieri, tra cui Stati ‘falliti’ come quello somalo, di sorvegliare le proprie coste e governare il proprio territorio. Secondo stime riportate dall’organizzazione Oceans Beyond Piracy, i costi sopportati dalla comunità internazionale nel 2012 ammontano a una cifra che va dai 5,7 a 6,1 miliardi di dollari, in relazione alla sola

pirateria in Somalia. Tali cifre riguardano: pagamenti di riscatti e operazioni di recupero delle navi sequestrate, operazioni militari, apparati di sicurezza e guardie armate, re-routing, procedimenti penali a carico di pirati, costo del lavoro che aumenta in relazione all’equipaggio di navi transitanti in aree a rischio e al permanere dell’obbligo di retribuzione anche in caso di sequestro, costi associati alla necessità di aumentare la velocità di navigazione nelle aree a rischio, assicurazioni, e costi correlati a ONG che si occupano di pirateria. Sebbene nel 2012 anche i costi siano scesi in modo corrispondente al calo degli attacchi e quindi vi sia spazio per un ragionevole ottimismo, sono ancora molti i problemi da risolvere. Tra questi si annovera il cd. catch and release, ricollegato alla riluttanza di molti Stati a procedere all’arresto e all’esercizio dell’azione penale, prassi di cui i pirati sono a conoscenza essendosi più


pirateschi, per esempio, atti di violenza commessi a bordo da passeggeri o membri dell’equipaggio contro beni o persone presenti sulla stessa nave, oppure il sequestro della nave operato da passeggeri o membri dell’equipaggio. L’elemento che ha negli ultimi anni presentato profili particolarmente problematici è il requisito dell’alto mare. Infatti, in base ai dati forniti dall’IMO, la maggior parte degli incidenti si verificano nel mare territoriale o in aree portuali: nel 2013 il sessanta percento e nel 2012 il quarantaquattro percento degli attacchi sono stati realizzati o tentati in aree portuali. Da ciò deriva un forte ridimensionamento dei poteri universalmente conferiti agli Stati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul “diritto del mare del 1982”. In deroga al principio di esclusiva giurisdizione dello Stato della bandiera, la Convenzione conferisce a tutti gli Stati il diritto di visita e di cattura di navi pirata e di esercizio dell’azione penale nei confronti dei soggetti trovati a bordo (art. 105 e 110). I diritti di visita e cattura sono esercitabili esclusivamente nei confronti di imbarcazioni che si trovano in alto mare. Per ovviare ai limiti in termini di law enforcement derivanti dal requisito dell’alto mare, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dal 2008, tramite varie risoluzioni relative alla pirateria in Somalia, ha esteso al mare territoriale somalo i poteri repressivi garantiti agli Stati dalla Convenzione. È necessario sottolineare

che, oltre ai limiti dell’attuale quadro giuridico che regola la lotta alla pirateria, valutazioni in termini di costi/benefici da parte di Stati non direttamente coinvolti impediscono un efficace funzionamento delle norme della Convenzione. Infatti, sebbene la Convenzione autorizzi tutti gli Stati a intervenire, quando questi non sono direttamente colpiti essi non sono incentivati ad attivare costose procedure di cattura e di giudizio in nome della lotta alla pirateria o della sicurezza della navigazione. La soluzione deve essere pertanto cercata nel rafforzamento dei sistemi governativi e degli apparati giudiziari degli Stati costieri ove la pirateria trova terreno fertile per prosperare. I più recenti sforzi della comunità internazionale sono infatti diretti verso il capacity-builiding. Iniziative in tal senso sono volte, tra le altre cose, al rafforzamento di maritime capacities e governance (EUCAP NESTOR e Contact Group on Piracy off the Coast of Somalia - CGPCS), al supporto nell’adozione di appropriate legislazioni penali, al miglioramento delle condizioni dei centri detentivi e all’assistenza nella conduzione dei processi penali nei confronti di pirati (United Nations Office for Drugs and Crime Counter-Piracy Programme - UNODC CPP), che in molti Stati solleva seri quesiti in merito alla compatibilità con i diritti umani che il diritto internazionale garantisce indistintamente agli accusati e imputati in procedimenti penali, inclusi i pirati.

Marta Bo Sta completando un dottorato di ricerca in diritto internazionale presso l’Università di Genova con una tesi in materia di pirateria, attualmente è visiting reseracher presso l’Amsterdam Center for International Law e ha ottenuto un Master of Laws (LL.M.) in diritto internazionale pubblico dall’Università di Leiden.

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viewpoint

volte fatti vanto, nel corso di interrogatori, di non temere né l’arresto né procedimenti penali a loro carico e di conoscere il diritto internazionale e i suoi limiti. I presunti limiti delle norme internazionali in materia di pirateria riguardano l’art. 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul “diritto del mare del 1982”, che qualifica come pirateria esclusivamente atti di violenza commessi per (1) fini privati, (2) contro un’altra nave, (3) in alto mare. Sulla base di tale norma, la dottrina maggioritaria ha escluso che atti commessi per finalità di stampo politico, ovvero attività terroristiche, possano essere ricompresi nella nozione di pirateria. Sebbene collegamenti tra pirateria e gruppi terroristici non siano ancora stati provati, questa potrebbe diventare una possibilità in molte regioni. In taluni casi i pirati hanno dichiarato di agire per finalità politiche ben consapevoli di sfuggire così dall’ambito di applicazione della Convenzione. Atti di pirateria inoltre, sebbene non direttamente tesi al raggiungimento di obiettivi politici, potrebbero costituire un mezzo per finanziare gruppi terroristici. È evidente inoltre come l’accertamento dei motivi sottesi alla condotta, specialmente quando non univoci, sia un’operazione particolarmente delicata durante il giudizio penale. In secondo luogo, atti di pirateria debbono essere sferrati da una nave «contro un’altra nave». Non sono qualificabili come atti

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Rotta verso il fondo

I trasporti marittimi nell’occhio del ciclone di una crisi finanziaria senza via d’uscita: con noli in calo, fondi di investimento costretti ad alimentare le nuove costruzioni, una overcapacity generalizzata, si punta (specie nei container) sulle alleanze. Per non colare a picco

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anjin. É questa l’ultima vittima illustre di un’epidemia finanziaria che si sta abbattendo su tutto il mondo dei trasporti marittimi, trascinando verso il baratro grandi gruppi internazionali, rendendo obbligatorie alleanze sino a ieri impensabili, spingendo sull’orlo del crack banche (specie in nord Europa) che da secoli finanziano il settore e – ed è questo l’aspetto più grave – facendo accelerare la spirale perversa che trova nei finanziamenti facili (alimentati da equity funds americani e asiatici, e nella costruzione low cost di nuove navi destinate ad alimentare per anni a venire lo squilibrio fra domanda e offerta di trasporto marittimo) il vero fattore di destabilizzazione dell’interscambio

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marittimo via mare. Le previsioni formulate dal professor Sergio Bologna alla recente assemblea dei Federagenti, tenutasi a Trieste, stanno trovando in queste settimane drammatica conferma. Non solo nell’andamento di un mercato dei noli marittimi - che, dai container alle navi cisterna, passando per le bulk carriers, tende a essere, nonostante i tentativi anche di rianimazione forzata, sempre più depresso, - ma anche nelle cure d’urto che vengono adottate per quantomeno procrastinare il crollo di una diga nella quale si stanno aprendo crepe sempre più profonde. Come detto, l’ultimo grande nome a entrare nella spirale della crisi è quello del gruppo coreano Hanjin, nel quale è in atto un tentativo di salvataggio guidato

dal chairman della compagnia Cho Yangho. La mossa per guadagnare tempo e tamponare la crisi finanziaria è quella consueta: vendita per 1,5 miliardi di dollari di tutte le attività di trasporto bulk a un fondo di private equity. In parallelo, cessione del 28,41% della raffineria S-oil’s, etentativo di salvataggio della Korean Air line, che era stata costretta a rifinanziare le perdite della componente shipping, in passivo dal 2011. Si tratta solo del più recente o non certo dell’ultimo tracollo in un mondo dello shipping che, anche sulla spinta dei soggetti finanziari e dei fondi che sono subentrati alle banche nella gestione del debito e che hanno rilevato quote consistenti di capitale delle principali


compagnie di navigazione, continua a ordinare navi a cantieri che le offrono a prezzi di liquidazione e alimentano l’overcapacity. Nel settore delle navi Panamax – secondo gli ultimi dati resi noti dagli analisti – il calo dei noli anno su anno ha superato il 14%. Nel settore dei container ogni settimana va peggio, con tagli nelle quotazioni del freight markets che superano il 5% ogni sette giorni. Oggi, per trasportare un container dall’Asia al Nord Europa, si pagano meno di 1200 dollari, e il leggero rialzo “dopato” di inizio anno si sta annullando. Lo stesso accade sulle rotte del transpacifico dove, secondo un rapporto di TSA, il cartello che controlla di fatto i traffici su questa direttrice, solo un

incremento di 600 dollari per container da 40 piedi, sulla rotta Asia-West Coast Usa, consentirebbe alle compagnie di non navigare sotto costo e non accumulare ulteriori passivi. E allora si tenta disperatamente la strada delle alleanze. Bloccata dall’antitrust cinese la P3, ovvero l’alleanza che avrebbe dovuto consentire ai tre primi armatori del trasporto container di unire le forze su tutte le rotte del mondo, si profilano adesso due gruppi contrapposti, uno certo, l’altro in fase di studio. La danese Maersk, numero uno del trasporto container e protagonista di un “miracoloso” bilancio in utile, ha deciso di allearsi con Msc di Ginevra (la compagnia che fa capo all’armatore italo-svizzero Gian Luigi Aponte) per operare uniti su

ben 21 rotte strategiche fra Europa, Asia e Stati Uniti. “2M” – come è stata battezzata l’alleanza fra il numero uno e il numero 2 del mercato - lascia teoricamente a terra Cma-Cgm (il gruppo francese guidato dalla famiglia siro-libanese di Jacqeus Saade). Cma-Cgm proprio in queste ore starebbe trattando una possibile alleanza con la saudita Uasc e con China shipping. Secondo le ultime classifiche pubblicate da Alphaliner, APM-Maersk movimenta 2.760.000 container teu sulle rotte dell’interscambio mondiale con una quota del 15%; è seguita a ruota da MSC con un traffico di 2.846.000 container teu (pari al 13,5%). Cma-Cgm si colloca al terzo posto, seguita dalla taiwanese Evergreen e dalle cinesi Cosco e China shipping. B.D.

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Tutte compagnie che sono impegnate in un ulteriore piano di potenziamento delle loro flotte. Msc ha ben 40 navi nuove in costruzione, seguita da Cma-Cgm con 39. Nella follia collettiva che sembra aver contaminato tutti i settori dell’attività marittima emerge un’ulteriore analisi, pubblicata da Forbes sul tema della crescita esponenziale di fallimenti nel mondo dello shipping internazionale. Con la sentenza Dejulemar (il gruppo napoletano protagonista di un crack tradottosi in condanne penali per 86 anni a nomi notissimi dell’industria armatoriale partenopea) ancora calda, l’analista finanziario George Schultze esamina gli aspetti comuni ai fallimenti di grandi gruppi del comparto marittimo e armatoriale come Excel Maritime Carriers, Overseas shipbuilding Group, Stx Pan

Ocea, Genco, B&H Ocean Nautilus. Per tutti la causa principale della crisi va ricercata nell’eccesso di indebitamento nel momento di euforia del mercato, l’impossibilità di farvi fronte a causa del costante calo dei noli e, infine, la condanna a perpetuare l’errore e a riprodurre lo stesso schema sotto la spinta speculativa di equity funds e hedge funds, diventati in molti casi azionisti di riferimento delle compagnie. Recente il caso della Danske Bank, entrata in crisi proprio per i crediti erogati al settore marittimo. Ne scaturisce il quadro di un mercato dopato, in cui i veri numeri, ma forse (in alcuni casi) le attività borderline che consentono a gruppi del settore di sopravvivere non vengono mai a galla. Secondo un recentissimo studio di AlixPartners, l’industria del trasporto

marittimo container è sull’orlo del fallimento dal 2010 e la situazione tende a peggiorare ogni giorno di più. Considerando che nel 2009 e nel 2010 tutti i grandi gruppi in testa alla classifica del trasporto container avevano denunciato passivi vicini o superiori al miliardo di dollari (la sola Maersk aveva annunciato pubblicamente un rosso di 961 milioni), non si capisce come, in un mercato dei noli da allora in costante flessione, di fronte a un fattore di riempimento delle navi in calo, e di fronte a oneri finanziari crescenti per l’acquisto delle nuove navi giganti entrate in servizio, i bilanci possano essere stati risanati. Per altro i primi dati sull’utilizzo delle mega navi di portata superiori ai 10-12.000 teu non starebbero fornendo indicazioni confortanti. Secondo il report di Drewry

Le rotte dove sbarcano i giganti

LB/OAK

NY SAV CHA NFK PM

Asia-USEC (Suez) 8,000+ teu Maersk 9 MSC 13 CMA CGM 8 NYK 1 HL 4 APL 4 OOCL 2

CMA CGM 3 MSC 5 Hanjin 2 Cosco 3 Zim 1

Asia-USWC 10,000+ teu Più grandi navi sulla rotta Asia-Europa

Nuovi arrivi – CSCL Spring (10,036 teu) to AAC, calling LAX, OAK Cosco Fortune (13,092 teu) to SEA, calling LB, Prince Rupert

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Nuove navi in arrivo entro il 2016 Teu 1,800,000 1,600,000 1,400,000 1,200,000 1,000,000 800,000 600,000 400,000 200,000 0

Il portafoglio ordini evidenzia 3,8millioni teu (53.2%) di navi sopra i 10.000 teu di capacità; l’82.3% del portafoglio è per navi sopra gli 8.000 teu

2014 2015 2016

i 15 maggiori gruppi di trasporto container fra il 2007 e il 2012 hanno subito perdite superiori al miliardo di dollari. Le grandi navi spesso non rispettano gli orari previsti, non viaggiano mai a pieno carico, e solo la riduzione della velocità di esercizio ha provocato, e sta provocando, sensibili risparmi nei costi di gestione. E drammaticamente l’unico appiglio di speranza (in un quadro contradditorio dell’economia mondiale che certo incide negativamente sui quantitativi dell’interscambio via mare) sembra concentrarsi sulle alleanze e sulla capacità di realizzare quindi economie di scala derivanti anche dall’uscita dal servizio delle navi in eccesso. Ma allora perché costruirne ancora di nuove?

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Il Califfato c’è e vince L’avanzata in Iraq, l’esodo dei cristiani da Mosul, le torture, le lapidazioni. In Siria lo scontro con gli altri jihadisti… e il disegno di una conquista dentro i confini dell’Europa

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rano 300 mila quattro anni fa. Sono poco più di 30.000 oggi. Sono i cristiani, i Nazarat che l’avanzata dell’esercito dell’Isil sta espellendo casa per casa. Il messaggio è quello di sempre. Conversione o, in alternativa, un futuro di schiavitù sotto il giogo di una tassa che colpisce chiunque non segua i dettami del Profeta: da Mosul caduta nelle mani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, o meglio, del nuovo Califfato, sono arrivate testimonianze choc. Ma non sono le prime, anche se l’occidente preferisce voltarsi dall’altra parte e pensare che non sia un problema suo. Centinaia di soldati regolari in Iraq e in Siria, mutilati, torturati, crocefissi e bruciati vivi. Interi villaggi e città rasi al suolo.

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Donne chiuse nelle case o lapidate per strada previa applicazione letterale della Sharjah. Questo è l’Islam di Abu Bakr al-Baghdadi, questo è l’Islam che avanza in Iraq, in Siria, guarda alla Turchia e sogna la restaurazione del grande Califfato d’Oriente. Le mappe nere diffuse sulla rete non si prestano a euqivoci. Laddove gli americani volevano esportare la democrazia, eliminando pericolosi dittatori in grado comunque di tenere a freno l’integralismo e tutelare anche le comunità non islamiche, il fuoco sacro dell’Islam è deflagrato. Sulle case dei cristiani di Mosul un segno rosso, la lettera noun a significare Nazarat, cristiano, e l’ordine di sequestro con la scritta “immobile di proprietà dell’Isil“. A Mosul, nel

nord dell’Iraq, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) hanno marchiato le porte e i muri delle case dei cristiani iracheni che non hanno voluto o non sono riusciti a fuggire dalla città occupata ormai da più di un mese. La storia volta pagina e al posto, o a fianco, delle stelle di David, appare la N di Nazarat. Nulla è cambiato se non la magnitudo di una minaccia che l’Europa si è portata in casa con la leggerezza e il pressapochismo del politically correct. Ma alla porte di Vienna non è schierata la cristianità e neppure i pallidi eredi dei principi del Baden e di Sassonia, i Wittelsbach di Baviera, dei signori di Turingia e di Holstein, del generale italiano conte Enea Silvio Caprara né tantomeno del principe Eugenio di Savoia.


danger

quello che gli altri non dicono Ebrei da Parigi a Tel Aviv e ritorno PARIGI — In più di 5000, nel solo 2013, erano scappati da una Francia dove i rigurgiti neonazisti, sommati alla diffusione crescente dell’intolleranza islamica presso le comunità di immigrati magrebini, stanno ricreando un clima pesante. Erano approdati a Tel Aviv opzionando l’acquisto di appartamenti in città e diventando, sulla base della legge del ritorno (Aliya), di cittadinanza israeliana. I missili da Gaza hanno rovesciato il quadro, annichilito le aspettative, azzerato le speranze. Molte opzioni di acquisto di unità immobiliari sono state cancellate e si prepara l’ennesima diaspora. Ora stanno preparando un’altra fuga, un altro esodo

alla ricerca di un angolo di mondo dove vivere. La Francia conta la terza più grande comunità ebraica, dopo Israele e gli Stati Uniti: 500.000 francesi di origine ebraica che stanno soffrendo anche pesantemente di un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 35% rispetto all’11% di Israele, e di una pressione fiscale che a Parigi e dintorni è ormai giudicata insopportabile. Almeno da 5 anni, un migliaio di giovani ebrei francesi frequenta vacanze di studio in Hertz Israel. Di questi circa il 70% decide di non fare ritorno in Francia e si integra in Israele.

Le nuove Soweto sono bianche Soweto? I nuovi ghetti in Sudafrica sono bianchi. Quando in Sudafrica è stato realizzato un sistema di azioni positive (‘AA’, sistema di pari opportunità che prevede l’inserimento in tutti i livelli aziendali e organizzativi di una certa quota di persone di colore), i bianchi qualificati e specializzati hanno cominciato a essere scartati in favore dei lavoratori neri. Ma non si può dire. Come non si può dire che il tasso di aspettativa di vita in Sudafrica è precipitato. O che la corruzione è diventata un male nazionale. Secondo un consulente del SA Institute of Race Relations (SAIRR), John Kane-Berman, (lo dice in una sua newsletter di questa settimana), i manager pubblici sono incoraggiati a mantenere i posti vacanti, piuttosto che affidarli a bianchi. Così si è sviluppata Coronation Park , una bidonville di Krugersdorp, Sudafrica, dove la popolazione bianca è la maggioranza. L’area di Coronation Park era stata originariamente utilizzata dagli inglesi come campo di concentramento per gli Afrikaner durante la guerra anglo-boera, all’inizio del XX secolo. Ora è sede di circa 400 bianchi abusivi che vivono in tende e roulotte

angusti e condividono un solo blocco comune di servizi igienici. Secondo StatsSA, le stime demografiche a metà 2013 hanno registrato 4.602.400 bianchi in Sud Africa, e 42.284.100 neri - sono il 79,8% della popolazione totale, quasi 10 volte il numero di bianchi. I meticci erano 4.766.200 (si qualificano anche loro come candidati per azioni positive), e gli indiani erano 1.329.300 (fino a poco tempo fa erano anche loro inseriti in AA). Così il numero totale dei cittadini qualificati per il sistema AA era di 48.379.600 nel 2013. E da allora il numero è cresciuto ancora. Gli annunci di lavoro riportano chiaramente ‘AA’, la società è alla ricerca di candidati solo neri e i bianchi non solo vengono allontanati, ma si dice apertamente che gli viene negata ogni possibilità, perché non sono neri. L’Institute of Race Relations (IRR) ha dichiarato che «le azioni positive uccidono i bambini». Nel report, si legge che le politiche basate sulla razza sono usate come un velo per nascondere la corruzione e l’incompetenza e molte comunità vulnerabili pagano per questo un prezzo mortale.

islam

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La lunga guerra di Bono


Chi è l’uomo guida che ha portato Fincantieri in Borsa, ha riconquistato un cliente come Msc e si prepara a garantire pieno impiego a 21.000 addetti? Eppure, Giuseppe Bono dieci anni fa perse lo scontro per Finmeccanica 2 al punto che molti lo davano fuori gioco: con tenacia ha vinto la guerra, e oggi il gruppo cantieristico italiano è pronto per lo shopping sui mercati

u

na maxi commessa da oltre due miliardi per la costruzione delle più grandi navi passeggeri mai realizzate in Italia, 350 milioni di soldi freschi in cassa grazie a uno sbarco in Borsa sofferto ma efficace, specie in prospettiva futura. Pieno impiego degli stabilimenti italiani, in cui operano 7700 addetti, e del gruppo che, fra Italia ed estero, dà lavoro diretto a 20.000 addetti più 80.000 nell’indotto. Senza contare il varo del più grande suyperyacht del mondo. I 70 anni di Giuseppe Bono non avrebbero potuto essere festeggiati in maniera migliore. Da 12 ai vertici di Fincantieri, anche se non lo confessa apertamente e se giustamente da nuovo comandante costretto da sempre a reggere il timone in un mercato a dir poco tempestoso - esalta i risultati positivi, un po’ di rammarico ci deve pur essere. Rammarico in particolare per quella scommessa sulla Borsa che la sua Fincantieri avrebbe potuto vincere dieci anni addietro, se il progetto di Fineccanica 2 (una holding che gestisse tutte le attività civili di Finmeccanica,

Giuseppe Bono e Gianni Onorato

Fincantieri e Ansaldo), sostenuto con forza da Bono, non si fosse arenato nel 2004 sulle secche delle lobbies incrociate e delle guerre fra boyardi dello Stato. Bono, in quella battaglia che avrebbe dovuto traghettare Fincantieri verso la Borsa affrancandola anche dalla dipendenza talora imbarazzante dallo Stato, si era speso eccome, rischiando non poco nel confrontoscontro con Finmeccanica, la holding in cui, nel 1983, aveva iniziato la sua carriera di manager pubblico. Poco propenso alle luci della ribalta, Giuseppe Bono la sua battaglia l’ha vinta con la tenacia, passo dopo passo, continuando a negoziare anche con chi non sembrava dargli speranza. É accaduto con Gianluigi Aponte, il potentissimo padrepadrone del gruppo Msc che l’aveva giurata a Fincantieri, rea di avergli cancellato uno slot per la costruzione di navi da crociera, per privilegiare il cliente Carnival (Costa Crociere), con cui il gruppo cantieristico italiano aveva stabilito un rapporto duraturo di collaborazione. Ad anni di distanza dallo scontro con Aponte, Bono è riuscito a recuperare terreno, complice anche la crisi della cantieristica francese e dei Chantiers de l’Atlantique (sotto controllo del gruppo coreano Csx), dove tradizionalmente Msc ha realizzato tutte le sue navi da crociera. Ma a parlare sono i fatti: 8 miliardi per due navi, le due più grandi che Fincantieri abbia mai costruito, più un’ulteriore unità in opzione. Una commessa che produrrà per il sistema Paese, anche attraverso l’indotto, circa 8 miliardi, mezzo punto del Pil. In Borsa lo sbarco è stato più difficile, ma per Bono, calabrese della provincia di Cosenza, tenere i piedi per terra è più che una regola. É una legge di vita. E ben vengano i 350 milioni di euro di liquidità che la Borsa ha garantito a Fincantieri, anche in presenza di un disinteresse degli investitori istituzionali. Quella prua che spuntava da piazza Affari, e che ha rappresentato il clou della campagna di promozione dell’Ipo, ha fatto comunque breccia in molti risparmiatori. Ed era giusto quello che Fincantieri si proponeva come obiettivo di una politica industriale che ha dato i suoi frutti e che ha consentito al gruppo, sino a ieri controllato al 97% da Cdp, di veleggiare fuori dai confini dell’industria di Stato, facendo fruttare il “coraggio” – come lo definisce lo stesso Bono – di essere gli unici a quotare in Borsa


Le nuove navi giganti per MSC

un’azienda industriale. E pensare che l’anno scorso di Bono si era tornati a parlare come di un possibile candidato alla poltrona di Finmeccanica, che fu del suo “rivale” storico Pier Francesco Guarguaglini. Dicono i suoi amici che ci abbia pensato per giorni, sino a optare poi per la scelta di “non abbandonare la nave” e di puntare tutte le sue carte su Fincantieri e su un piano industriale che prevede, da un lato, il ritorno al pieno impiego di tutti gli stabilimenti sparsi per l’Italia (incluso quello di Genova-Sestri verso il quale è stata dirottata la commessa per la nave da crociera Seven Seas Explorer); dall’altro, per ripartire con la politica di acquisizioni internazionali e di alleanze che ha consentito, ad esempio, a Fincantieri di partecipare al progetto europeo Orizzonte, per la progettazione e la costruzione delle fregate europee di nuova generazione. «Al di là delle polemiche - ha dichiarato a caldo Bono - ho visto in questi giorni spirito di squadra; tutta l’azienda per la prima volta condivideva gli obiettivi». Quanto all’operazione in Borsa, «siamo soddisfatti - ha detto - di aver portato alla società 350 milioni, che non sono una bazzecola». Fincantieri userà questi soldi «per far crescere il valore dell’azienda, che era considerata da tutti fallita due anni fa, e noi l’abbiamo portata tra le prime al mondo». Dal 2009 al 2012, Fincantieri ha

dovuto navigare a vista in un mercato che si era totalmente bloccato non producendo più commesse neppure in quel settore delle crociere di cui è leader mondiale. Il nuovo piano industriale e relativo assetto organizzativo per l’Italia (con 1.700 esuberi, già realizzato senza alcun licenziamento per circa il 60%), insieme all’apertura del fronte internazionale con acquisizioni nel segno della diversificazione del catalogo, hanno prodotto il miracolo di consentire il galleggiamento del mastodonte cantieristico italiano. Negli Stati Uniti, all’inizio del 2009, è stata rilevata Marinette, specializzata nella progettazione e costruzione di navi sia mercantili che militari per la US Navy e la Guardia Costiera, e da ultimo quest’anno la STX OSV, ribattezzata Vard, società norvegese quotata alla Borsa di Singapore, leader mondiale nella costruzione di mezzi di supporto alle attività di estrazione di petrolio e gas naturale. C’è chi sussurra che nel mirino potrebbero entrare proprio quei cantieri francesi (ora sotto controllo coreano) che più di ogni altro hanno tentato di insidiare la leadership italiana nelle navi passeggeri. La riapertura dei rapporti con Msc (abbozzata con una commessa da 200 milioni allo stabilimento di Palermo per l’operazione “Rinascimento” di ristrutturazione di 4 navi Msc esistenti e decollata con la maxi commessa per

le nuove navi giganti da 8 miliardi) rappresentano un bel viatico. Rispetto a pochi anni addietro, il portafoglio ordini che sembrava essere monopolizzato dal gruppo Carnival risulta profondamente diversificato. E questo non è un risultato da poco, per un gruppo che si è anche lanciato, con la stessa vocazione all’eccellenza e alla leadership, nel settore dei mega-yacht: quello in costruzione al Muggiano (a La Spezia) sarà il più grande al mondo a scendere in marevnel corso di quest’anno. Per Giuseppe Bono - un inizio carriera in Fiat, quindi in Efim, poi il Spal, prima di approdare in Finmeccanica e diventarne nel 2000 amministratore delegato e direttore generale - la parola “rilassarsi” non esiste. Succeduto in Fincantieri a super-tecnici di valore internazionale come Enrico Bocchini, a personaggi ad altissima capacità commerciale come Corrado Antonini, con il quale ha convissuto per anni, per Bono, che è oggi anche presidente di Confindustria Friuli Venezia Giulia, non è possibile abbassare la guardia, specie se le cose vanno bene. Per intanto annuncia che Fincantieri non distribuirà dividendi per i prossimi tre anni. Tutte le risorse servono per allargare il mercato, crescere e anche affrontare quelle fluttuazioni cicliche del mercato marittimo che – come Fincantieri ha sperimentato sulla pelle – sono sempre dietro l’angolo.

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Crociere, il bis di Savona

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Conto alla rovescia per l’entrata in servizio del secondo terminal passeggeri di Costa Crociere. Traffici in crescita e ricadute sempre piÚ consistenti per il territorio. Con il satellite il porto ligure annienta anche gli ultimi scettici

Savona

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uando le prime navi Costa erano entrate nel ristretto specchio acqueo del porto storico di Savona, molti avevano arricciato il naso, pronosticando un rapido “ravvedimento” e un ritorno a Genova. Non solo così non è stato. Costa Crociere e il gruppo Carnival hanno investito pesantemente nel porto del ponente ligure e ora è scattato il conto alla rovescia per l’entrata in servizio di un secondo terminal destinato a breve ad affiancare il Palacrociere. Il secondo terminal, ormai pronto, ha un’area complessiva di 3.500 mq. Si tratta di una struttura “satellite”, funzionalmente collegata alla stazione marittima esistente, con la possibilità, quindi, di utilizzare i servizi già presenti nel Palacrociere, ma in grado di operare come terminal autonomo, con aree di attesa e di transito e aree bagagli indipendenti. Autonomo sarà anche il servizio di controllo, con una postazione per Polizia, Guardia di Finanza e Agenzia delle Dogane. Già il primo terminal Palacrociere,

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Savona

inaugurato a fine 2003 e gestito direttamente da Costa Crociere, era stato studiato e realizzato appositamente per garantire servizi di alta qualità: l’innovativa concezione è in grado di ridurre al minimo i tempi di attesa, rispettando il massimo del comfort e le esigenze della sicurezza. Questi requisiti sono valsi al Palacrociere la certificazione B.E.S.T. 4 (Business Excellence Sustainable Task), un articolato sistema che certifica il raggiungimento dei maggiori standard in tema di Responsabilità Sociale, Ambiente, Sicurezza e Qualità. I lavori per il suo raddoppio erano partiti ufficialmente il 5 giugno 2012. Messi a punto gli ultimi dettagli operativi, l’Autorità portuale di Savona ha consegnato in concessione l’area dove è in fase di realizzazione la struttura, per la quale Costa Crociere investirà circa 9 milioni di euro. Per motivi di sicurezza, il cantiere è stato separato con recinzioni dal resto dell’area dedicata alle crociere, mentre la grande tensostruttura, utilizzata in presenza di tre navi contemporaneamente, è stata

spostata sul lato opposto alla banchina del terzo accosto. La presenza delle navi Costa genera un impatto economico importante sul territorio. Secondo uno studio del MIP, la Business School del Politecnico di Milano, il valore dell’indotto generato da Costa Crociere nel 2010 nel porto di Savona e, più in generale in Liguria, è stato rispettivamente di 5,5 milioni di euro e di quasi 230 milioni di euro, in gran parte, questi ultimi, rappresentati da lavori eseguiti sulle navi della flotta. Nel caso strettamente specifico di Savona, che di Costa Crociere è home port, lo studio effettuato dal SITI di Torino – Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione - e commissionato da Confcommercio Savona, ha permesso di evidenziare, attraverso un singolare monitoraggio che ha coinvolto i crocieristi in transito, che la ricaduta economica ogni 230.000 ospiti sbarcati si aggira intorno agli otto milioni e mezzo di euro. A promuovere inoltre il porto di Savona a


Crocieristi 2013 Paesi di provenienza Ingressi registrati 68.164 Cartine distribuite 21.562 Non crocieristi 458, savonesi 156.

polo crocieristico nazionale di primaria importanza per rilevanza di flusso turistico sul territorio ha contribuito non poco il nuovo deployment navi predisposto dalla Costa per il 2013, con 239 scali previsti e l’arrivo delle cugine spagnole Grand Holiday e Grand Celebration della flotta Iberocruceros, sempre a marchio Costa. Le due sister ships, completamente rimodernate rispettivamente nel 2010 e nel 2008, 46mila tonnellate di stazza lorda e 22 metri di lunghezza, possono ospitare fino a 1600 passeggeri e 670 persone di equipaggio ciascuna. Il nuovo terminal sarà anche la base per concretizzare gli obiettivi dell’intesa tra Autorità Portuale di Savona Vado, Provincia, Comune e Camera di Commercio di Savona, e quindi il Progetto Accoglienza ha reso istituzionale una collaborazione ormai consolidata tra gli Enti partner ed è finalizzato a mettere in comune idee e risorse rivolte ad attività di

promozione nei confronti dei flussi crocieristici generati dal porto, rendendo interessante la permanenza a Savona di chi sbarca e valorizzando il territorio con la proposta di itinerari, visite guidate e degustazioni di prodotti tipici. Nel 2013 il numero dei passeggeri nel porto di Savona è aumentato del 15,9%, totalizzando 939 mila crocieristi (129 mila in più del 2012). Circa un terzo sono italiani, ma è stata forte la presenza di francesi, spagnoli e tedeschi; gli americani rappresentano ancora una minoranza, con poco più di 9 mila unità, ma è una nicchia da coltivare, come i crescenti arrivi dall’Est Europa. Il dato più significativo emerso lo scorso anno è il vero e proprio boom dei passeggeri in transito, ovvero di quei crocieristi che non si imbarcano o sbarcano a Savona, ma arrivano e ripartono. Da 171 mila del 2012 sono saliti a 269 mila lo scorso anno.

NAZIONALITà SPAGNA FRANCIA ITALIA GERMANIA INGHILTERRA RUSSIA ARGENTINA USA OLANDA PORTOGALLO MALTA AUSTRIA BRASILE CINA ISRAELE CANADA SVEZIA SVIZZERA GIAPPONE DANIMARCA MESSICO INDIA AUSTRALIA BELGIO POLONIA ROMANIA NORVEGIA SERBIA SUD AFRICA UCRANIA TURCHIA VENEZUELA LIBANO IRLANDA, CIPRO, GRECIA, EGITTO, UNGHERIA, SLOVENIA, VIETNAM, ARABIA, SUD COREA,IRAN.

Savona

20.702 14.874 13.919 4.584 2.210 1.086 529 521 473 352 327 286 258 253 233 211 207 191 114 101 93 88 88 88 84 65 53 50 50 49 48 42 40

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L’orgoglio della qualità

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Il presidente del porto di Savona, Gianluigi Miazza, sottolinea le caratteristiche positive e la solidità del legame che si è rafforzato anno dopo anno con Costa Crociere e con l’intero gruppo Carnival

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interview

ianluigi Miazza, presidente del porto di Savona, non parla dei progetti che vorrebbero il porto del ponente ligure destinato a una fusione (secondo i savonesi, un assorbimento) con il porto di Genova. Proprio nelle crociere Savona ha conquistato un ruolo importante in seguito a un autogol dell’eterno rivale, il porto di Genova, entrato anni addietro in rotta di collisione con quel gruppo Costa - Carnival che ha eletto Savona suo home port nell’alto Tirreno. Dell’andamento delle crociere all’ombra del forte Priamar, simbolo del porto di Savona, parla, eccome. “Un bilancio 2013 - afferma Miazza sicuramente positivo, con una crescita costante, sfociata in un incremento del 16%, che ha consentito a Savona di avvicinarsi allo storico traguardo del milione di passeggeri: 940.000. Un obiettivo, quello del milione, solo rinviato di un anno visto che alla luce delle prenotazioni e dei programmi Costa, Savona dovrebbe crescere ulteriormente con un target di 293 navi previste attraccare nel corso di questo 2014”. Ma Gianluigi Miazza non perde l’occasione anche per commentare positivamente la conferma di un rapporto tutto particolare fra Costa Crociere e il porto di Savona. “Costa Crociere - sottolinea Miazza - non ha solo incrementato il numero degli attracchi delle sue navi nell’home port Savona, ma specialmente ha confermato di credere nel nostro porto e nell’area di Ponente della Liguria: lo dimostra il deployment per l’anno in corso e la previsione di arrivare, finalmente, al traguardo del milione di passeggeri. Altro fattore importante: è la crescita nella consapevolezza di Savona,

porto e città, circa la strategicità della presenza nel mercato crocieristico”. Miazza ricorda come gli enti locali savonesi abbiano dato vita a un progetto che punta a unire le diverse forze per promuovere una rinnovata accoglienza turistica ai crocieristi. Così Camera di Commercio, Comune, Provincia e Autorità Portuale, a fine 2013, hanno firmato un protocollo d’intesa per mettere a disposizione di chi arriva a Savona il maggior numero di informazioni su escursioni, manifestazioni ed eventi, e creare le basi per ulteriori sinergie tra il territorio e Costa Crociere, in modo da offrire al cliente Costa un’ampia gamma di offerte, “fidelizzandolo” a Savona e a tutta la provincia. Il Presidente di Savona accende i riflettori anche sulla realizzazione della stazione marittima satellite decisa da Costa Crociere. Il cantiere per la stazione satellite è partito nel giugno 2012, Costa Crociere ha investito circa 9 milioni di euro per realizzare una nuova struttura che si estende su 3000 mq coperti, con 500 posti a sedere, scale mobili, terrazze e ascensori panoramici. La nuova stazione marittima è stata progettata rispettando le caratteristiche della principale, firmata dall’architetto catalano Bofill e operativa dal 2003, per un utilizzo indipendente secondo i criteri di massima efficienza ed elevato comfort che caratterizzano quella in attività oggi. Si amplieranno ulteriormente i servizi offerti al passeggero rendendo il nostro scalo ancor più confortevole. La nuova struttura sarà collegata a quella principale attraverso un “bridge” situato al primo piano, quello d’imbarco. Gianluigi Miazza esprime anche un suo


giudizio su un mercato delle crociere che per Savona è di fatto mono-cliente. “Il nostro rapporto con Costa Crociere - afferma - è sempre stato ottimo e costruttivo e continua ad esserlo. Basti pensare all’ormai lontano 1996, quando una nave Costa, la “Riviera”, attraccò alle banchine savonesi. Ebbene dai neanche 100.000 passeggeri del 1997, con una crescita costante, possiamo dirci pronti a tagliare il nastro del milione di croceristi. Costa Crociere a Savona è stata certamente una scelta premiante per entrambi; anche l’ultimo investimento in atto realizzato dalla società è testimonianza che la partnership tra il nostro Porto e la compagnia armatoriale ha portato e porterà una crescita che valorizza entrambi. Anche sull’utilizzo del terminal crociere da parte di altri brand crocieritici il presidente del porto non si tira indietro. “Ad oggi - sottolinea Miazza - le compagnie di crociera che hanno attraccato a Savona oltre Costa Crociere fanno comunque parte della stessa casa madre, Carnival, Aida e Iberocruceros; quest’ultima, nel 2013, ha fatto registrare 37 toccate. Ovviamente saremo ben lieti di ospitare altri marchi, ma sempre in pieno accordo con Costa Crociere che, ripeto, ha scelto Savona come uno dei suoi home ports. Sull’andamento del comparto traghetti, il presidente del porto riconosce il calo fisiologico a causa del mancato rinnovo della linea per la Sardegna, comunque con

un traffico di 341mila passeggeri, risultato di tutto rispetto. “Con questo risultato – afferma - ritorniamo sui valori storici fatti registrare dalla compagnia Corsica Ferries che, ricordo, ha il suo terminal nel bacino di Vado Ligure. Se poi pensiamo che i traghetti insieme alle crociere portano a Savona e Vado circa 1,3 milioni di passeggeri, ci rendiamo conto di quale opportunità ciò rappresenti per la provincia e la regione”. Infine Miazza sottolinea come la posizione geografica del porto di Savona presenti indubbi vantaggi. “Savona - conclude il presidente del porto - gode di una posizione privilegiata, vicina alle grandi città del Nord Italia, si trova a pochi chilometri da località turistiche di grande prestigio come Sanremo, Alassio, Monaco o Portofino. Inoltre la vicinanza all’aeroporto di Genova e a quello di Nizza la rendono una meta facilmente raggiungibile. L’aumento di crocieristi di nazionalità spagnola, portoghese oltre a quelli che provengono da Francia e Germania, sono la riprova della centralità del porto di Savona. Vado Ligure, dal canto suo, con il bacino portuale decentrato rispetto al nucleo urbano, offre vie di comunicazione scorrevoli che permettono in pochi minuti di raggiungere dall’autostrada l’approdo dei traghetti. Posizionata a cavallo tra il NordOvest Italiano e la Costa Azzurra francese Vado Ligure rappresenta una situazione

strategica ideale, capace di raccogliere un ampio bacino di utenti interessati a scoprire la Corsica. Un’ultima considerazione relativa all’indotto economico e occupazionale del traffico crocieristico. Sul piano occupazionale sono circa 200 gli addetti impegnati attraverso il Consorzio Savona Crociere nel comparto dei servizi crocieristici. Poi c’è da considerare anche l’indotto quantificabile in altri 50 addetti. Si va dalla gestione di sbarchi, imbarchi e approvvigionamenti delle navi fino a comprendere conducenti di autobus, taxi, fornitori di provviste o di servizi vari. Senza dimenticare i servizi che la città offre agli ospiti. Ad esempio, nell’anno 2011 preso in esame da uno studio di SITI (Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione), i crocieristi in transito a Savona sono stati circa 250 mila e hanno effettuato pro capite una spesa media di 37 € circa. La ricaduta economica generata sulla città è stata di circa 8 milioni e mezzo di euro. Se si aggiungono le spese dirette nei confronti di fornitori e distributori, le spese generali per gli approvvigionamenti e le spese di manutenzione delle navi, nonché i servizi portuali, le compagnie di crociere lasciano annualmente sul nostro territorio regionale circa 230 milioni, secondo dati elaborati dal MIP (Business School del Politecnico di Milano). Per Savona si parla all’incirca di 5 milioni di euro.

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Ma Savona cresce anche nelle auto

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on il voto unanime del Comitato Portuale, il parere favorevole per avviare le procedure relative a due progetti infrastrutturali nel bacino di Savona: il primo riguarda la realizzazione di un fabbricato di tre piani adiacente l’esistente Multipiano in concessione alla Savona Terminal Auto srl, che movimenta autoveicoli e rotabili. Con un traffico relativo alle auto più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno, con un ampliamento delle proprie attività, la Savona Terminal Auto ha richiesto quindi maggiori spazi per lo stoccaggio dei rotabili movimentati. Il secondo progetto è stato presentato dalla Savona Terminals Spa e prevede la

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costruzione di un nuovo capannone di 3800 metri quadrati presso la zona 32, lungo la Darsena Alti Fondali, laddove è in funzione il terminal per le merci forestali “MLM”. L’investimento rientra nell’ambito di un riordino e potenziamento delle attività del Gruppo Campostano, che a inizio anno aveva perfezionato la fusione tra Savona Terminals Spa e Must Spa, proprio nell’ottica di una definizione di nuove strategie finalizzate al consolidamento dei traffici non solo del comparto forestale ma anche in quelle delle merci varie. Via libera del Comitato Portuale anche alla richiesta da parte di Colacem Spa del rilascio della concessione ventennale

per la gestione nel bacino di Savona del terminal situato presso il Molo Boselli che, oltre a cereali, farine e similari e a prodotti cementizi, amplierà la propria attività con un traffico di allumina dopo alcuni investimenti per adeguare gli impianti. Sempre in ambito demaniale, semaforo verde anche alla domanda, avanzata dal Consorzio Savona Crociere, di poter disporre di una porzione di area demaniale marittima, nella prosecuzione della banchina di attracco delle navi Costa, per installare un gazebo dedicato ad accogliere i crocieristi, utenti del “trenino turistico” messo a disposizione per le visite a Savona e Albisola.


SeaTrade Med Barcellona 16 settembre 2014


viewpoint UNO SCALO IN COSTANTE CRESCITA PORTO DI SAVONA - VADO LIGURE L’ambito di competenza dell’Autorità Portuale di Savona comprende due bacini portuali: Savona e Vado Ligure, distanti fra loro circa 4 chilometri, che si caratterizzano per gli elevati fondali naturali (oltre 18,5 metri). I due scali ospitano 16 terminal privati in grado di gestire ogni tipo di traffico, merci e passeggeri, e costituiscono una ideale porta di accesso ai mercati del sud Europa, cui sono collegati da efficienti canali di comunicazione. Oggi il porto movimenta in media 13,5 milioni di tonnellate di merce e 80.000 Teus (ma anche 1.300.000 passeggeri): questi numeri vedranno una crescita fortissima con l’entrata a regime della piattaforma multipurpose, oggi in costruzione, che costituisce l’elemento cardine dei piani di sviluppo dello scalo savonese e il più importante progetto di potenziamento in corso per la portualità nazionale.

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Savona

Il porto di Savona

Il porto di Vado Ligure

Nel porto di Savona numerosi terminal sono dedicati alla movimentazione delle diverse merci secche alla rinfusa: Terminal Rinfuse Alti Fondali (carbone e coke), BUT (rinfuse polverose e fertilizzanti), Colacem (cemento e cereali), Monfer (cereali e sfarinati) e Buzzi Unicem (cemento), mentre Depositi Costieri Savona movimenta rinfuse liquide vegetali. Per quanto riguarda il comparto General Cargo, Savona Terminal Auto offre servizi specializzati per il settore automotive e autostrade del mare, mentre Savona Terminals si occupa di prodotti forestali, siderurgici e merci varie. Nel settore passeggeri, Savona è homeport della compagnia Costa Crociere, che gestisce direttamente i 3 accosti dedicati e la stazione marittima, dove ogni anno transita circa un milione di turisti. L’offerta di servizi per le crociere sarà ulteriormente migliorata nel corso del 2014, con l’inaugurazione della seconda stazione marittima. La produzione e l’assistenza alle grandi imbarcazioni da diporto è assicurata da aziende internazionali leader nel settore quali Mondomarine, Azimut e W Service.

Il porto di Vado è il principale scalo nel Mediterraneo per le importazioni di frutta destinata ai mercati europei: Reefer Terminal movimenta ogni anno oltre mezzo milione di tonnellate di prodotti, distribuiti in tutta Europa; il terminal gestisce anche traffici container Lo-Lo (grazie a quattro quay cranes) e Ro-Ro (servizi della compagnia Grendi per la Sardegna). Il terminal Ro-Ro, gestito dalla società Forship e dotato di quattro accosti, ospita collegamenti ferry per la Corsica (oltre 300.000 passeggeri durante la stagione estiva) e servizi di short sea shipping intra-Mediterraneo. Terminal Rinfuse Italia gestisce il pontile per lo sbarco del carbone destinato all’alimentazione della locale centrale elettrica. In rada sono presenti anche diversi impianti dedicati al settore petrolifero: il campo boe Sarpom, dove le grandi tanker sbarcano il greggio destinato via pipeline alla raffineria di Trecate (No), e i pontili di Esso, Eni-Petrolig e TotalErg per l’approvvigionamento degli stabilimenti costieri dove vengono


preparati i prodotti finiti (carburanti e lubrificanti). Alle spalle dello scalo si trova l’interporto VIO (Vado Intermodal operator), nodo intermodale core della rete TEN-T, che dispone di un’area di 232.000 mq, con magazzini per 60.000 mq. La struttura, oggi dedicata in prevalenza allo stoccaggio e alla lavorazione del caffè, di cui costituisce uno dei primi centri in Italia, avrà un ruolo fondamentale nell’offerta di servizi ai container in arrivo al nuovo terminal dedicato, oggi in costruzione. Lo sviluppo Nel 2017 si concluderanno i lavori per la costruzione della nuova piattaforma multipurpose, realizzata in project financing da Autorità Portuale di Savona e APM Terminals (gruppo Maersk), che costituirà il volano dello sviluppo del Porto di Savona Vado, movimentando a regime sui suoi 210.000 mq circa 800.000 TEUs. Il nuovo impianto andrà a rafforzare il sistema dei porti liguri, completando l’offerta disponibile con un terminal gateway adatto a ospitare le nuove

generazioni di navi, di dimensione sempre crescente, in termini di fondali (un accosto a 22 m e uno a 15 m) e produttività di banchina, e proiettato verso il mercato del sud Europa attraverso un efficiente e indipendente servizio ferroviario. Ciò consentirà in una prima fase di recuperare parte del traffico che oggi passa attraverso i porti del Nord Europa pur essendo destinato all’Italia Settentrionale e, successivamente, di estendere il raggio di competitività del sistema ligure alle regioni d’oltralpe. Il progetto introduce una serie di temi trasversali correlati (di carattere logistico, trasportistico, urbanistico e ambientale), oggetto dell’Accordo di Programma stipulato nel settembre 2008 da Regione, Autorità Portuale, Provincia di Savona e Comune di Vado Ligure. Gli interventi previsti (raccordo in sovrappasso all’Aurelia, terminal ferroviario, ricollocazione dei pontili e degli impianti petroliferi, spostamento della diga foranea, riassetto della viabilità retroportuale e nuovi varchi doganali, realizzazione di un nuovo svincolo autostradale con area di sosta dei veicoli pesanti, masterplan

della fascia costiera di Vado) puntano a garantire l’efficacia operativa della nuova struttura e la sua integrazione ottimale nel contesto territoriale di Vado Ligure e dell’area circostante. Le iniziative dell’Autorità Portuale riguardano anche l’integrazione intermodale dei bacini con i mercati interni, con l’obiettivo di inoltrare il 40% della merce su ferro. A tal fine, l’Autorità Portuale ha messo a punto un sistema autonomo per la gestione del servizio di navettamento ferroviario tra il porto e i centri intermodali di riferimento sfruttando linee secondarie sottoutilizzate e utilizzando 6 locomotive elettriche appositamente acquistate. Sono in corso di valutazione diverse opzioni alternative relative alla tecnologia del terminal ferroviario che sarà realizzato alle spalle della piattaforma, comparando dal punto di vista della produttività e dell’affidabilità sia impianti tradizionali che soluzioni innovative: tra queste il sistema “Metrocargo”, che permette di prelevare le unità di carico dai trailer e caricarle sui carri ferroviari con modalità orizzontale.

Savona

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Il gran rifiuto

La Costa Pacifica è diventata un laboratorio in mare aperto per sperimentare nuove tecniche di smaltimento e di riciclaggio sulle navi passeggeri. Imballaggio, biodegradabili e carta i primi tre obiettivi indicati dalla Direttiva europea

l

a “cavia”, o meglio, il laboratorio in mare aperto per sperimentare tecniche e metodologie innovative di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti prodotti dalle navi da crociera, sarà una delle più importanti unità della flotta Costa Crociere, la “Costa Pacifica”. È proprio a bordo di essa che da oltre due anni si lavora all’implementazione della direttiva europea sui rifiuti (Dir. 2008/98/EC), che ha tra i suoi principali obiettivi quello di sostenere misure volte all’applicazione della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti” (waste hierarchy). Direttiva, questa, che prevede 4 azioni elencate in ordine di priorità: 1) prevenzione: prevenire e ridurre la produzione di rifiuti; 2) preparazione per il riutilizzo: offrire ai prodotti una seconda vita prima di trasformarli in rifiuti; 3) recupero: ogni attività di recupero attraverso la quale riciclare i rifiuti

trasformandoli in nuovi prodotti, compreso il compost; 4) smaltimento: in discarica, in inceneritore, per pirolisi o gassificazione. Il progetto fa inoltre riferimento alla direttiva 2000/59/EC, relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi. E proprio il porto di Savona potrebbe in questo campo, in quanto home port della Costa Pacifica, recitare un ruolo importante. Il punto di partenza delle azioni previste dal progetto è la consapevolezza che i rifiuti sono una risorsa che, se opportunamente valorizzata, comporta vantaggi importanti dal punto di vista ambientale - con la riduzione dei rifiuti portati a smaltimento -, economico - con un risparmio per chi li gestisce in termini di costi e tempi - e sociale, contribuendo a rendere più sostenibile l’intero settore.


I risultati previsti: percentuali di recupero o riuso delle tre tipologie di rifiuti

I risultati previsti Più concretamente “Sustainable Cruise”, in relazione alle tre tipologie di rifiuti oggetto della sperimentazione, si propone di: • Recuperare il valore economico di 1.700 m³ di rifiuti biodegradabili l’anno (il 90% del cibo scaricato in mare da Costa Pacifica). • Definire un piano per il recupero o il riuso del 30% degli imballaggi. • Definire un piano per il recupero o il riuso del 40% della carta. Per raggiungere questi ambiziosi obiettivi e renderli “esportabili” e applicabili al settore marittimo in generale, occorre coinvolgere tutta una serie di soggetti che partecipano alle attività di approvvigionamento e smaltimento dei rifiuti. Questo è uno degli obiettivi “trasversali” di “Sustainable Cruise”, che si propone di diventare lo strumento utile a realizzare una rete

euro-mediterranea di porti dedicata alla cooperazione nel campo della gestione dei rifiuti che vengono sbarcati in porto. Una gestione efficiente e sostenibile dei rifiuti a bordo non è infatti sufficiente, ma necessita di essere integrata con attività di coordinamento che coinvolgano anche le strutture a terra. Inoltre, attraverso il progetto, i partner si propongono di porre le basi per la definizione di una nuova metodologia di monitoraggio, in grado di quantificare la riduzione di emissioni (in termini di CO2) derivanti da una gestione sostenibile dei rifiuti a bordo, quale primo passo per definire e applicare gli obiettivi di Kyoto al settore, e di realizzare un piano per la definizione di una nuova tipologia di certificazione che possa anticipare e orientare la normativa europea per il settore. Costa Pacifica, in servizio dal 2009, è,

insieme a Costa Serena, la più grande delle navi della flotta di Costa Crociere: è in grado di ospitare fino a 3.780 passeggeri e 1.056 componenti dell’equipaggio. Ha una stazza di 114.288 tonnellate per 290 metri di lunghezza e 35 di larghezza e al suo interno ospita 1.504 cabine, 13 ponti e una molteplicità di servizi come ristoranti, bar, piscine, ecc. È di fatto una piccola città e produce di conseguenza una quantità importante di rifiuti solidi assimilabili ai rifiuti urbani (non speciali), che possono essere stimati in circa 155 m³ alla settimana. All’interno della nave vige già da tempo un sistema di approvvigionamento, stoccaggio e smaltimento ben definito. Dall’analisi approfondita e dettagliata di questo sistema parte l’attività di “Sustainable Cruise”, con l’obiettivo di apportare modifiche e innovazioni utili a


BIODEGRADABILI Il prototipo di turboessicatore VOMM è stato montato a bordo della nave pilota Costa Pacifica. È inoltre stata completata la prima fase di analisi dell’acqua proveniente dal sistema di de-watering del pulper da parte di Contento Trade. Il trattamento in laboratorio di tale acqua, realizzato allo scopo di isolarne le diverse componenti (residuo secco, residuo liquido, oli e grassi), ha mostrato come gli oli e i grassi derivanti dal trattamento (circa 1,9% del totale) costituiscano di fatto un materiale ricco di qualità e potenzialmente riutilizzabile in diversi ambiti: aggiunto al combustibile della nave o sbarcato può essere venduto. Tali ipotesi di utilizzo di queste sostanze potenzialmente miscelabili al combustibile andranno però verificate dal punto di vista normativo prima di qualunque altro passo.

renderlo ancora più sostenibile riducendo gli sprechi e incrementando la quota di rifiuti riutilizzati o riciclati. Il progetto “Sustainable Cruise”è articolato in una serie di azioni. Le tre principali sono dedicate ai flussi di altrettante categorie di rifiuti a bordo della nave pilota: imballaggi, rifiuti bio e carta. Altre tre azioni sono trasversali e si concentrano sui temi della gestione dei rifiuti una volta sbarcati in porto, sulla riduzione di emissioni derivanti da una gestione sostenibile dei rifiuti e, infine, sullo studio di una possibile certificazione volontaria sul tema del trattamento dei rifiuti a bordo delle navi. Ulteriori cinque azioni agevolano invece lo sviluppo tecnico del progetto e la sua disseminazione con attività di formazione, di comunicazione e informazione, di networking con progetti analoghi e, naturalmente, il monitoraggio di tutte le attività e la valutazione del loro impatto. IMBALLAGGI L’analisi sulla Costa Pacifica del flusso degli imballaggi ha evidenziato 2 scenari principali per ridurre il quantitativo di imballaggi presenti a bordo e il loro impatto ambientale. 1. Sostituzione delle bottiglie di acqua in vetro con bottiglie di plastica PET: la

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Savona

sostituzione del vetro con la plastica è stata sperimentata sulla nave pilota del progetto, Costa Pacifica. Il vetro, infatti, viene prodotto con un processo altamente “energivoro”, ovvero con un ingente consumo energetico per effetto delle alte temperature di fusione delle materie prime. Inoltre, è un materiale di imballaggio molto più pesante della plastica e crea quindi maggiori problemi per lo stivaggio a bordo. In termini di contributo all’effetto serra, passare dal vetro bianco alla plastica PET permette già una riduzione dell’impatto ambientale del 50% e 120gr di CO2 in meno al giorno per ciascun passeggero. Il passaggio dal vetro alla plastica PET è solo una fase intermedia nel processo complessivo di riciclo delle bottiglie consumate a bordo. È previsto, infatti, che la plastica sia poi avviata a rigranulazione per diventare una nuova materia prima completamente riutilizzabile. Una trasformazione che sarà operata attraverso un trattamento innovativo attualmente in fase di studio nell’ambito del progetto. 2. Introduzione di dispenser per lo yogurt: é stata completata l’analisi di questo scenario, la cui attuazione è legata a verifiche di tipo sanitario e commerciale, attualmente in fase di studio.

CARTA Sono state completate le attività di analisi e studio relative al flusso della carta a bordo da parte del Ce.Si.S.P. e sono state realizzate le prime attività di sensibilizzazione dedicate al personale di bordo di Costa Pacifica e ai suoi passeggeri. Nel mese di settembre 2013 sono state completate le Linee Guida sull’uso consapevole della carta, successivamente sintetizzate in due brevi testi: uno dedicato all’equipaggio della nave pilota e a tutto il personale di terra di Costa Crociere, l’altro dedicato invece ai passeggeri di Costa Pacifica. Il materiale realizzato per il personale Costa è stato caricato sulla rete intranet Costa Planet, collegato a un banner ad hoc in home page, divulgato sotto forma di mail settimanali e utilizzato per realizzare etichette che sono state affisse in prossimità delle fotocopiatrici sia a bordo che in tutti gli uffici Costa in Italia e all’estero. Il materiale dedicato ai passeggeri è stato caricato sulla piattaforma Virtual Plaza accessibile dai totem digitali presenti a bordo. I passeggeri di Costa Pacifica sono stati inoltre coinvolti, a partire dal mese di ottobre, nei Laboratori Creativi realizzati a bordo e dedicati al tema del riuso della carta, e in Quiz sui temi della riduzione, riuso e riciclo dei rifiuti.



sun bath

per difendersi dal sole

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SISLEY Indicato per tutti i fototipi grazie ai due livelli di protezione (SPF15 e SPF30), Sunleÿa G.E. è waterproof e contiene nuovi attivi anti-età che combattono i radicali liberi, proteggono il DNA e contrastano le rughe. www.sisley-cosmetics.com

JANE IREDALE Per il viso e per il corpo, Golden Shimmer è una lozione illuminante e idratante che favorisce il ringiovanimento cutaneo grazie agli estratti di piante botaniche. La polvere di diamante esalta l’effetto luminoso. Euro 38 www.intertradeurope.com

BIOMED Della linea Sun Shine Biomed Tweet, l’Olio Protettivo Capelli protegge tutti i tipi di capello da sole, sale e cloro. I filtri UV e gli oli di macadamia e Argan hanno effetto protettivo e idratante. In vendita dal parrucchiere a 16.90 euro www.biomed.it

HELIOCARE Fotoimmunoprotettore giornaliero colorato, l’Heliocare Gelcream Color SPF50, disponibile in tonalità Light e Brown, protegge la pelle dalle radiazioni UV e le dona una colorazione naturale. In vendita in farmacia a 20.77 euro www.heliocare.com

WELEDA Per rigenerare i capelli sfibrati dal sole, l’Avena Shampoo Ristrutturante, con olio di jojoba bio ed estratto di salvia, deterge delicatamente, rinforzando la superficie del capello e riducendo rotture e doppie punte. Euro 11.90 www.weleda.it

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beauty


summertime idee sfiziose per l’estate

kasanova Cosa non può mancare durante un pic-nic? Sicuramente una coloratissima ciotola refrigerante per pinzimoni e stuzzichini! Nello scomparto sotto si inserisce il ghiaccio, nella parte superiore tanta, tantissima fantasia. www.kasanova.it

bedding italia Perfetto per non annoiarsi durante i lunghi spostamenti in auto come in aereo, T-Jack è un mini guanciale con sistema audio integrato (0.05 i watt di potenza). In MemoryBed auto modellante e traspirante, regala comodi riposi a ritmo di musica, senza disturbare chi vi sta accanto. www.bedding.it

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stickhouse Se il gelato è un must di ogni estate che si rispetti, un gelato 100% naturale è quasi un sacrilegio non gustarselo! Questo, firmato Stickhouse, ha un nome romantico (Cupido) e un guscio al sorbetto di frutta, che racchiude un cremoso ripieno. Disponibile in diversi gusti, costa 2.50 euro www.stickouse.it

lavazza EspressGo è la prima macchina espresso da viaggio con sistema A Modo Mio. Grande quanto una bottiglietta d’acqua, può essere usata in auto, in barca o dovunque ci sia un’alimentazione da 12 V. Solo 50 ml d’acqua e una capsula per un ottimo espresso! www.lavazza.it

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summer

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di Laura Alberti

Eccellenza sul mare A Golfo Aranci, l’Hotel Gabbiano Azzurro è un gioiello dell’ospitalità sarda guidato dalla famiglia Da Tome, che intende regalare ai suoi ospiti la gioia di tornare

i

l primo “pezzetto” di storia risale al 1969, quando Tullio Da Tome acquista all’asta un rustico per farne un lussuoso albergo, sebbene lui, quel sogno, non lo vedrà mai realizzarsi. È il suo secondogenito Sergio – affiancato successivamente da moglie, figlio e dal fratello Marco - che, nel 1975, riprende in mano il destino della struttura. Il risultato è un gioiello dell’ospitalità sarda, un quattro stelle splendido in una location già magica di per sé, quella di Golfo Aranci, in provincia di Olbia-Tempio. Sarà la spiaggia bianca, o quel mare così trasparente, saranno il ristorante Blù Restaurant con vista mozzafiato o le tante attrattive dei dintorni (dal lungomare di 5000 mq al MuMart, il Museo Marittimo d’Arte), fatto sta che nel 2013 l’Hotel Gabbiano Azzurro ha registrato un +5% rispetto al 2012, con 23.000 presenze totali. L’80% è composto da clientela straniera, inglese e francesi su tutti. La posizione, in effetti, è invidiabile.

Il borgo di Golfo Aranci a due passi, l’Isola di Tavolara di fronte, l’Aeroporto Internazionale di Olbia “Costa Smeralda” a 18 chilometri, Porto Rotondo, Porto Cervo e il campo da golf “Il Pevero” facilmente raggiungibili. All’interno, esclusivi comfort, dalle vasche idromassaggio Jacuzzi delle camere Superior e della Suite Cala Moresca alla piscina privata, dalla TV con abbonamento Sky alla connessione wifi, fino alla spiaggia attrezzata. Ci sono gli habitué, che qui vi venivano da bambini e ora tornano con le loro famiglie; ci sono gli ospiti internazionali, e vecchi e nuovi amici che ogni anno arrivano a godersi questo angolo di paradiso. Senza dimenticare l’atmosfera di puro romanticismo del Blù Restaurant. Con le luci dei pescherecci di fronte e lo chef Daniele Sechi in cucina, vista e gusto sono appagati. In tavola? Pasta con ingredienti tipici, scorfano e fregula sarda, esaltati da un sapiente uso dell’olio extravergine di oliva.


luxury room

la stanza delle notizie più lussuose

Il mondo dei motori “contamina” i settori più diversi, dando vita a oggetti un po’ sportivi un po’ eleganti che anche i meno avvezzi alle quattroruote non possono non amare

luxury news

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Bentley

Firma con stile Tutti i valori Bentley, tradotti in formato “pocket”: è la GT Collection della linea Tibaldi for Bentley, collezione di penne dall’anima insieme sportiva ed elegante. Materiale di partenza l’ottone rodiato, robusto e d’impatto come la carrozzeria di una Bentley. Il corpo, parzialmente laccato, presenta sui lati una sofisticata texture stratificata, facendo della penna un elegante gioiello. È possibile scegliere tra tre modelli della GT Collection - stilografica, roller e biro -, nelle colorazioni Beluga Black, Silverlake Blue, St James Red e Silver Tempest, le tinte più amate dai proprietari di Bentley. Pennini in oro 18 ct fanno delle stilografiche un oggetto da collezione. www.tibaldi.it

Maserati

Motori e gare

QUATTROPORTE fashion

Circuiti da indossare

Nata dalla collaborazione tra la Maison italiana e Maserati, la nuova Quattroporte Ermenegildo Zegna sarà prodotta in soli 100 esemplari in tinta Platinum Silk, realizzata con finissimi pigmenti d’alluminio. All’interno, i toni caldi del Moka e del Greige, la preziosità della pelle e il tocco inedito della fibra di seta jersey. Per i sedili, la trama chevron 100% seta unisce alla piacevolezza tattile la sensazione di un abito prezioso, a dimostrazione che tutto è curato nei minimi dettagli, come tipico del più eccellente made in Italy. I pochi eletti che acquisteranno la vettura riceveranno un Owner’s Collection Kit, 19 articoli frutto di una partnership d’alta classe.

Tutta l’adrenalina e la storia del circuito di Montecarlo, racchiuse in un portachiavi in oro giallo 750ct con diamante allo start. È solo una delle numerose creazioni di Circuiti, brand italiano sul mercato dal 2002. Con passione e abilità, l’orafo valenzano Gianfranco Quartiroli rende omaggio al mondo dello sport con piccoli capolavori di gioielleria. Come piccoli gioielli possono talvolta essere le componenti dei motori delle due e delle quattro ruote. L’anello Gabbia, ad esempio, prende spunto dalla gabbia a rullini. Realizzato in oro giallo 750ct con rulli in oro bianco, è adatto agli uomini come alle donne. Lusso, velocità e un tocco d’ironia, ed ecco che anche un oggetto meccanico può diventare prezioso.

www.zegna.com www.circuitigioielli.com

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luxury news


Fiat

Mercedes-AMG

Passeggino da gara

moda sui pedali

Ultraleggero e sportivo, con un tocco di eleganza: è Pliko Mini 500, il nuovo passeggino che Peg Perego ha realizzato in collaborazione con Fiat. Dotato di cestello, portabibite, poggiagambe e schienale reclinabile a 150°, è adatto anche ai neonati più piccini ed estremamente pratico. Per chiuderlo bastano pochi movimenti, le sue dimensioni ridotte (94 cm di altezza, 34 di larghezza e 32 di profondità) permettono di inserirlo in qualsiasi bagagliaio e, una volta chiuso, sta in piedi da solo. Pliko Mini 500 può essere arricchito di tanti utili accessori, dal parapioggia alla zanzariera, dalla borsa da viaggio per il trasporto in aereo fino alla copertina per i mesi più freddi. Il prezzo? 169 euro.

Scarpe per lo sport e il tempo libero, nate dalla collaborazione tra Santoni e Mercedes-AMG: è la collezione Santoni for AMG. Una linea nata per regalare a chi guida pieno comfort ed elevate prestazioni. Tra i modelli in catalogo, quelli FIA Approved – leggeri, ignifughi e con suola in carbonio per una completa aderenza al pedale – sono dedicati alla guida professionale, come il polacchino in suede e tela blu elettrico, con dettagli in materiale tecnico argento. Per chi, invece, l’auto la guida da “comune mortale”, ecco le sneaker nere in suede e pelle traforata con fondo in gomma, o la sneaker alta dall’aspetto vintage, omaggio all’ultima Mercedes-AMG, l’A45.

www.pegperego.com

www.santonishoes.com

Zagato

Passione motori Mille Miglia Zagato: è il nome dell’esclusivo orologio che Chopard ha realizzato con la carrozzeria di lusso Zagato. Cronometrista ufficiale della Mille Miglia da 25 anni, la Maison svizzera ha dato vita ad un cronografo automatico con cassa in acciaio antigraffio da 42.5 mm, total black o bicolore, con lunetta in oro rosa 18 ct con inserto rosso. Il cinturino è in puro stile Zagato, con l’impuntura rossa della pelle e i volumi scavati con solco centrale, a ricordare il tetto a “doppia bolla” del carrozziere. Prodotto in soli 1000 esemplari (500 in acciaio DLC nero, 500 nella versione bicolore), il Mille Miglia Zagato è venduto nelle boutique Chopard e nello showroom Zagato di Rho (MI). www.chopard.it / www.zagato.it

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di Laura Alberti

Driver, tra food e motori

A Como, Driver è la nuova mecca per gli appassionati di motori. Tra simulatori, piste per i kart e ristoranti all’insegna delle quattro ruote, il divertimento qui è assicurato 7 giorni su 7

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li amanti dei motori, da oggi, hanno un indirizzo in più da segnare in agenda. È il DRIVER Indoor Park, 8000 metri quadrati in via Pasquale Paoli, a Como. Un paradiso per grandi e piccini, che il designer Ennio Trezza ha progettato prestando attenzione a ogni minimo dettaglio. Ce n’è per tutti i gusti: pista indoor per i kart, area gioco per i più piccoli, lounge bar, pizzeria, steak house e persino un’area polifunzionale con catering a disposizione delle aziende. Al centro di tutto ovviamente troviamo i motori, a partire dal maxi casco che, all’ingresso, dà il benvenuto agli ospiti. Tutto, qui, è a ingresso gratuito, si

paga solamente ciò che si consuma. E già questa è una novità rispetto alle strutture “concorrenti”. C’è poi la ristorazione, tributo ai mezzi americani degli anni Cinquanta e Sessanta, con tanto di Truck (iconico camion a stelle e strisce, di quelli che si vedono nei film) al centro dello spazio, sedie vintage-style e 250 posti a sedere per gustarsi un’ottima carne americana. O una pizza che si voglia, perché l’importante è riempirsi la pancia, magari dopo una sfida sui kart con gli amici di sempre. Se il lounge bar - con la sua atmosfera raffinata, le fotografie con auto che paiono venire dal futuro e il bancone costruito con una


concept car – è adatto a un cocktail prima di cena, il pub è invece un omaggio, goloso, al mondo delle gare. La sua specialità? Gli enormi hamburger che escono dalla cucina, nascosta dalla riproduzione di un’automobile Nascar Truck Series a mo’ di bancone da bar. Tutto intorno, i maxi schermi trasmettono in tempo reale eventi sportivi o le sfide in corso sulla pista. Pista su cui girano 10 kart alla volta che, non avendo alcuna componente “sporca”, non richiedono l’utilizzo di una tuta. Se capita quindi di vedere un manager in abito

scuro, con casco e volante in mano, non c’è da preoccuparsi! Chi preferisce invece i simulatori, può optare per le 8 postazioni collegate – con la possibilità di scegliere tanti circuiti e tante auto diverse, dalla 500 Abarth alla Formula 3 - e la solitaria della Formula Uno, per provare il brivido di un’auto da pista. E mentre i papà tornano bambini, i bimbi tra i 4 e gli 11 anni possono sfruttare i 1000 mq a loro dedicati, con tanto di pista per coloratissime 500 Cabrio. Per imparare le regole della strada tra risate e un pizzico di adrenalina.

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rombo di design

Arredi e complementi ispirati al mondo dei motori

ALTREFORME In serie limitata di soli 1003 esemplari, lo specchio Monza di Valentina Fontana rende omaggio al celebre circuito di Formula 1 www.altreforme.com aston mArtin INTERIORS Per la linea V010, la poltrona in alluminio mat dal design essenziale è rivestita in Nabuk color Smog. Adatta a un uso residenziale, come ad un ufficio o uno spazio contract, fa parte di una linea completa di arredi all’avanguardia che vedono l’utilizzo di carbonio, superfici composite e metalli leggeri www.formitalia.it

e-my Perfetta come idea regalo, la USB Hub Car è una ciabatta USB multiporta da 4GB, disegnata da Enrico Azzimonti e utilizzabile con qualsiasi chiavetta. Euro 17.90 www.e-my.com

LITTLE TIKES distribuito da SELEGIOCHI Sembra un’auto da corsa, ma è un divertente lettino per bimbi dai 15 mesi ai 5 anni, basso e con i bordi arrotondati www.selegiochi.com

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design

MERCEDES-BENZ STYLE MBS012 è una poltrona girevole in pelle e alluminio satinato, con struttura 3D in legno e poggiapiedi coordinato. Il lusso e la raffinatezza della casa automobilistica vengono tramutati in oggetti d’arredo dal design dinamico, fatto di forme arcuate, materiali pregiati e attenzione ai dettagli www.formitalia.it


bel&bel Una Seat 600 diventa un comodo sofà, con tanto di minibar ricavato dal vecchio bagagliaio. Con frecce e fanali ancora funzionanti, monta la tappezzeria di un altro modello storico, la Seat 124 www.belybel.com

tonino lamborghini CASA Fibra di carbonio lucido, pelle carbon steel e stemma stampato sui lati per Office Performance, la scrivania che pare venire dal futuro. Un complemento robusto come tutta la collezione, che trae ispirazione dagli stilemi meccanici: cuscinetti, bielle, pistoni, tubi di scarico, fari, griglie di aerazione. Il tutto, tradotto con materiali d’ultima generazione www.formitalia.it

ting Ting Home è una collezione di oggetti per la casa (nella foto l’amaca, i pouf e, in secondo piano, i maxi cuscini) realizzati con vecchie cinture di automobili poi tinte in tante diverse colorazioni. L’amaca, in grado di reggere fino a 120 kg, costa 650 dollari, il pouf 245, i cuscinoni (56x56 cm) 115 www.tinglondon.com

riva1920 Dedicata ai bambini, la R 313 è un “tronco a rotelle” cavalcabile, disegnato da Luca Pegolo e ricavato da un tronco di cedro www.riva1920.it

MAISONS DU MONDE Circuit è un attaccapanni per bambini che, al posto dei classici bracci, monta divertenti cartelli stradali. Euro 78 www.maisonsdumonde.com

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un bel viaggiare

Arriva a fine estate la nuova Audi RS 7 Sportback. Coupè 5 porte dall’innata sportività, sa essere elegante anche nei confronti dell’ambiente

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otente, intelligente, e con un look accattivante. È la nuova Audi RS 7 Sportback, sul mercato italiano da fine estate. Una coupé cinque porte che è un “gioiello di sportività”, per dirla alla Ulrich Hackenberg, membro del Board di AUDI AG per lo Sviluppo Tecnico. Un’automobile prestante, che oggi si rifà il look. C’è il motore 4.0 TFSI con 560 CV e 700 Nm di coppia massima, che si accompagna a un consumo di 9,5 litri per 100 km (nel ciclo combinato). E c’è l’innovativo design dei fari a LED, ancor più esclusivi se si sceglie per i proiettori il forte potere oscurante della tecnologia Matrix LED. Che la RS 7 Sportback sia la quintessenza della sportività è peraltro evidente già al primo sguardo: cofano motore lungo, posteriore scolpito, single frame nero a nido d’ape ancor più pronunciato, paraurti con prese d’aria. Il tutto, da mixare a piacere con i

pacchetti look opzionali (alluminio opaco, nero lucido e carbonio), per un piacere alla vista che si accompagna al piacere di guida. La tecnologia Cylinder On Demand del 4.0 V8, la trazione quattro e i materiali leggeri danno l’impressione di volare. Sul fronte dei colori, le novità rispondono ai nomi di Argento Floret metallizzato, Bianco Ghiaccio metallizzato, Nero Mythos metallizzato e Blu Sepang perla, mentre i cerchi di serie da 20 pollici, fucinati e leggeri, possono essere sostituiti con i più grandi 21 pollici in tre diverse tinte. Doppia scelta anche per i dischi freno autoventilanti: design Wave, dal peso ridotto, o in ceramica rinforzati in fibra di carbonio. All’interno vince il total black, perfetto per far risaltare i sedili sportivi e la nuova strumentazione. Senza dimenticare la tecnologia, quella del sistema di navigazione MMI plus con MMI touch,


il cui nuovissimo pianale modulare di infotainment vanta il potente processore grafico Nvidia. Ma passiamo ora al motore. Con 4.0 TFSI e 560 CV di potenza, la nuova RS 7 Sportback sviluppa una coppia massima di 700 Nm tra i 1.750 e i 5.500 giri. Sebbene sia in grado di raggiungere i 280 km/h (o i 305 km/h se si sceglie il pacchetto dinamico più “hard”) e passi da 0 a 100 km/h in 3,9 secondi, la coupè 5 porte di casa Audi, con il suo V8 biturbo, consuma nel ciclo NEDC solamente 9.5 litri di carburante per 100 km (con emissioni di CO2 pari a 221 g/km), grazie al sistema Cylinder On Demand che disattiva quattro cilindri a regimi transitori. Massima sportività anche per il cambio, con l’ottava marcia dal rapporto lungo che combina la potenza dell’otto cilindri alla trazione integrale permanente quattro. L.A.

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SPORTS ON THE BEACH le attività dell’estate

Power Walking

Nella sabbia con brio “Power Walking”: letteralmente camminata “potenziata” sia in termini di velocità che di sforzo, pensata per mantenere sano il sistema cardiovascolare. Il potenziamento può essere ottenuto in vari modi: con l’applicazione di pesi (wogging), con terreni particolari (ad esempio sabbia) e con ritmi e movimenti sostenuti. Il jogging prevede l’utilizzo di pesi sia mantenuti in mano che applicati alle caviglie. Impugnando piccoli manubri o utilizzando polsiere di peso modesto, viene sollecitata (e potenziata) la muscolatura del busto e delle braccia, aumentando anche il carico alle gambe e l’effetto dell’allenamento. Applicando i pesi alle caviglie si potenzia la muscolatura delle gambe e delle articolazioni. Ma chi non sa dosare pesi e sforzo, potrebbe rischiare il muscolo. Alla portata di tutti è invece il power walking sulla sabbia. Nato sulle lunghissime spiagge della California, consiste nel camminare a grandi falcate sulla sabbia, a piedi nudi. Anche in questo caso se lo si effettua senza un po’ di riscaldamento si rischia di mettere sotto pressione l’apparato muscolare, con strappi e stiramenti dietro l’angolo. Essenziale è una postura corretta, rilassata e senza contratture. I maggiori benefici vanno alla muscolatura delle caviglie, normalmente trascurate anche dai joggers più incalliti.

Carro a vela

Vento di terra Si chiama carro a vela, ma più che un carro è una vera e propria imbarcazione a vela destinata a solcare le onde della sabbia. Consiste in uno scafo dotato di ruote su cui viene montata una vela. Uno sport adatto a tutti, ideale come allenamento per velisti ma anche per avvicinarsi agli sport della vela senza rischiare un tuffo non gradito. É anche divertimento allo stato puro. Il carro a vela spopola sia nei paesi europei sull’Atlantico che nei deserti del Nord America. Prerequisiti irrinunciabili: sabbia compatta e tanto vento. In Europa, le spiagge con bassa marea di Bretagna, Francia, Olanda e Belgio. Sono previste diverse specialità: si passa dalle prove di velocità pura a vere e proprie regate. I limiti di velocità che possono essere raggiunti sono abbastanza alti: il record è di oltre 200 Km/h. Le caratteristiche del carro cambiano in base all’uso dello stesso. Lo scafo è montato su 3 ruote, che a seconda degli usi, gare di velocità o regata, possono essere montate perpendicolari al suolo o leggermente aperte. Le vele usate variano dai 2 metri quadrati ai 5,5 metri. Come ci si ferma? Niente freni. Ci si ferma solo manovrando l’albero. Per i mezzi utilizzati su erba oppure su asfalto sono disponibili dei kit freni da montare sulla ruota anteriore, necessari a causa delle minori superfici di frenata a disposizione. Oltre alle versioni con ruote, sono disponibili anche carri a vela adeguatamente attrezzati per la neve, ove al posto delle ruote vengono montati dei pattini che permettono al mezzo di scivolare su manti ghiacciati.

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Ecco una carrellata di sport, quasi estremi, da praticare, quasi da professionisti, su spiagge un po’ particolari. Richiedono spazi, vento, sabbia particolare…. e una buona dose di coraggio Woga

Meditazione acquatica Fare ginnastica in piscina è ormai molto più che una moda. Le navi da crociera e gli stabilimenti balneari pullulano di squadre di vacanzieri convinti di potersi rimettere in forma in due settimane, grazie anche all’acqua alla quale sembrano attribuirsi capacità taumaturgiche. Poi in acqua è finito anche il pilates, e quindi la tecnica si è affinata. Ora è la volta dello yoga. O meglio, del Woga, che, ça va sans dire, sarebbe il water yoga. E anche il Woga arriva dall’America e più precisamente dalla patria del fitness e del benessere, la California. Lanciato da un terapista americano, Harold Dull, il Woga sarebbe da ricondurre allo yogi Matsyendra, noto come l’”uomo-pesce”. Si narra che Shiva insegnasse in riva al mare le tecniche Yoga alla moglie, la dea Pârvatî, che però si mostrava poco interessata, contrariamente a un pesce che osservava incuriosito gli esercizi. A quel punto Shiva, resosi conto del particolare interesse che il pesce aveva per lo Yoga, decise di spruzzarlo d’acqua facendogli assumere immediatamente sembianze divine. Da lì il nome Matsyendra, il Signore dei Pesci. Gli esercizi di Woga sono eseguiti in piedi, seduti sul fondo della piscina ma anche in galleggiamento, con l’ausilio di particolari supporti. L’acqua rende possibili posizioni impossibili a terra e favorisce il rilassamento. Lo Yoga più adatto a diventare woga è l’Hatha Yoga. Alle posizioni consuete dello Yoga, il Woga affianca non poche varianti.

Slacklining

Sospesi fra cielo e spiaggia Avete provato a camminare a occhi chiusi? Molto probabilmente sbandereste, rischiereste persino di cadere. Perché negli anni il vostro corpo ha assunto posizioni viziate, che incidono sull’equilibrio. La risposta, un po’ rischiosa, è lo Slacklining, che consiste nel camminare sospesi su una fettuccia ancorata a due pali senza alcun sostegno o appiglio, esclusivamente attraverso il controllo del proprio equilibrio. Disciplina da svolgere tanto indoor quanto all’aria aperta, e dunque a contatto con la natura, magari su una spiaggia che assicuri un atterraggio morbido, lo Slacklining consente al praticante di sfidare la gravità, ma anche di scoprire tecniche che consentono di stare in equilibrio. La sfida si chiama “bilanciamento dinamico”. Nato negli Stati Uniti come allenamento per gli appassionati di arrampicata, lo Slacklining si è diffuso anche in Europa. Nessun bastone da equilibristi e neppure fili in acciao: lo si pratica su una fettuccia piatta tenuta volutamente “lasca” e legata a due sostegni, a una distanza compresa tra i 5 e i 30 metri e a un’altezza che, misurata da terra, può variare dai 50 cm per i principianti fino a 1 metro e più in caso di praticanti esperti. Ovviamente, dalla riscoperta del punto di equilibrio si è passati a sport agonistici come il Trickline e il Longline (con un record di 494 metri percorsi sulla fettuccia), sino all’Highline, non consigliabile visto che si cammina anche a 80 metri di altezza.

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8,9 mld $

120mld $ Secondo un recente rapporto della International Energy Agency (IEA), nel 2020 lo spreco di energia sfonderà quota 120 miliardi di dollari. Nello specifico, i 14 miliardi di dispositivi elettronici collegati in rete, a causa di inefficienze tecnologiche, producono uno spreco energetico sempre più consistente che nel 2013 è ammontato a 80 miliardi di dollari. Lo spreco principale è dovuto al “network standby”: si mantiene una connessione di rete anche quando il dispositivo è in standby, perciò l’apparecchio è di fatto acceso, collegato a una presa elettrica, anche se non funzionante. Si stima che circa 400 TWh, cioè l’equivalente dell’elettricità consumata ogni anno da UK e Norvegia, è stata sprecata a causa di tecnologia inefficiente.

BNP Paribas - la più grande banca francese, che in Italia controlla la banca BNL - si è dichiarata “guilty” davanti a un tribunale di New York per due capi d’accusa: falsificazione di documenti aziendali e collusione. BNP Paribas, che opera negli Stati Uniti con una licenza e non dovrà quindi affrontare un processo, è accusata di aver fatto transazioni per miliardi di dollari con il Sudan, ma anche con l’Iran e Cuba, violando l’embargo statunitense e cioè l’International Emergency Economic Powers Act, legge americana del 1977 che autorizza il presidente degli Stati Uniti a limitare le relazioni commerciali con alcuni paesi: tra questi, anche quelli con cui BNP ha avuto relazioni in questi anni. A causa del grande volume di transazioni sotto accusa – 190 miliardi dollari (139 miliardi di euro) – la banca francese dovrà pagare una multa di 8,9 miliardi di dollari, la più alta mai comminata a una banca. Il record in precedenza spettava alla Standard Chartered, che nel 2012 fu accusata di avere fatto affari con l’Iran – paese sotto regime di sanzioni sia internazionali che statunitensi – e fu multata di 500 milioni di euro.

-40% Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università Statale di Milano ha presentato il nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani con l’Associazione EvK2CNR e il Comitato Glaciologico Italiano. I dati sono allarmanti: in 30 anni superficie ridotta del 40%. Ciò significa che entro un secolo, o anche meno, i ghiacciai alpini saranno estinti. Secondo la lunga ricerca che ha portato alla compilazione del Catasto, oggi sono 896 mentre negli anni ‘50 erano 824: i ghiacciai italiani sono aumentati di numero ma questa non è una buona notizia. Risalgono al 1962 e al 1984 i precedenti catasti, realizzati dal Comitato Glaciologico Italiano e, rispetto ai dati rilevati allora, risultano visibili gli effetti e l’impatto sui ghiacciai italiani del cambiamento climatico in corso: aumento del numero, sensibile riduzione della superficie e del volume, cambiamento della morfologia stessa del cuore freddo delle Alpi. In gran parte i ghiacciai italiani risultano essere di piccole dimensioni, con un valore areale medio di 0,4 km2.

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-34%

La Slovacchia è il paese che ha compiuto i maggiori progressi nel periodo 20102013 verso il raggiungimento dell’obiettivo UE di dimezzare le morti sulle strade entro il 2020. Lo ha affermato l’European Transport Safety Council (ETSC) in un rapporto pubblicato il 18 giugno, che ha mostrato come i morti per incidenti stradali in Slovacchia siano diminuiti del 37% nei quattro anni in esame. Seguono la Slovacchia, con riduzioni di oltre il 30%, la Spagna, la Grecia e il Portogallo; risultati che hanno reso possibile un abbattimento del 18% nella media delle vittime della strada in Unione Europea. Solo due dei paesi membri UE – Estonia e Malta – hanno invece mostrato nel 2013 un leggero aumento di vittime per incidenti stradali rispetto al 2010. L’Italia non può certo evidenziare risultati entusiasmanti: è 15esima in classifica, con incidenti diminuiti di oltre il 2%, ma i feriti (-2%), come in ogni altra parte d’Europa, restano sempre una criticità che non segue il trend dei morti (-6,9%) in costante discesa. Secondo il rapporto, 26.025 persone sono morte in incidenti stradali in tutta l’UE nel 2013 e altre 199 mila sono state gravemente ferite. Tuttavia, il numero di automobilisti feriti gravi non sta scendendo così velocemente come il numero totale di vittime.

400 km

Circa 1,5 miliardi di persone nel mondo vivono in terre che si stanno degradando. Lo ha affermato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in occasione della Giornata Mondiale contro la Desertificazione. Secondo le Nazioni Unite, circa due miliardi di ettari potrebbero essere recuperati. In questo senso, paesi da cui prendere esempio sono il Burkina Faso, il Mali e il Niger, dove sono stati risanati 5 milioni di ettari con misure per combattere la desertificazione. Ma per l’INEA – Istituto Nazionale di Economia Agraria – anche l’Italia rischia grosso: il 50% del territorio nazionale è potenzialmente a rischio. Intere regioni lo sono: Sicilia, Sardegna, Calabria, Basilicata, Puglia e Campania. Il 4,3% dell’intero territorio italiano (1,2 milioni di ettari) è già sterile, mentre il 4,7% (1,4 milioni di ettari) ha già subito fenomeni di desertificazione.

72

Secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia internazionale per l’energia nucleare (Iaea), nel mondo sono in costruzione 72 nuovi reattori per la produzione di energia da materiale fissile. La statistica comprende anche due reattori a Taiwan che hanno trovato conferma recente. Cina e India guidano la classifica relativa allo sviluppo dell’energia nucleare rispettivamente con 28 e 10 nuove centrali. Seguono India, Korea e Stati Uniti. Ma anche i paesi europei o quelli molto vicini all’Europa, quelli che in caso di incidente impatterebbero in modo pesante anche sull’Italia, non stanno alla finestra. Reattori sono in costruzione in Francia, Ucraina (il paese di Chernobyl), Slovacchia e Bielorussia.

144 mld €

Secondo uno studio Bnl-Bnp Paribas, degli 11 gruppi bancari nel 2009 al vertice del sistema bancario tedesco (tutti con attivi superiori a €175 mld), ben 7 hanno dovuto richiedere un intervento statale. In due casi (WestLB e Hypo Real Estate) l’intervento non è stato comunque sufficiente a evitarne la liquidazione. La Germania è il paese europeo che nel periodo 2008-12 ha attuato il più esteso programma di sostegno patrimoniale al settore finanziario mediante interventi sia di ricapitalizzazione (€ 64 mld) sia di presa in carico di attività deteriorate (€80 mld). Nel complesso si tratta di €144 mld (il 5,5% del Pil tedesco), quasi un quarto degli interventi di questo tipo realizzati nei paesi della Ue-27 (€592 mld).

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NORD OVEST Firenze Tempo di fusioni nel sistema aeroportuale italiano. Corporacion America, che si è aggiudicata il controllo di Pisa e Firenze, sta lavorando al piano della fusione dei due scali con l’obiettivo di presentarlo a ottobre per poi completare il ciclo formaleistituzionale entro l’anno. Aria di fusione, o almeno, di integrazione anche sui due aeroporti piemontesi, quello torinese di Caselle e quello di Levaldigi-Cuneo. Qui è sceso in campo il Sindaco di Torino Piero Fassino che, rispondendo all’appello del presidente di Unioncamere Dardanello, ha sottolineato l’esigenza di un’alleanza tra Torino e Cuneo per creare un aeroporto che il ministero dei Trasporti riconosca strategico. Dardanello, da sempre grande sostenitore di Levaldigi, vuole anche assicurare un futuro allo scalo cuneese dopo la doccia fredda della gara per la cessione del pacchetto di maggioranza della Geac, la società che gestisce lo scalo, andata deserta. Laddove l’integrazione fra scali è già realtà, le cose sembrano andare bene: il sistema aeroportuale, dopo la flessione del 2013, ha invertito il trend negativo nei primi sei mesi di quest’anno. Rispetto allo stesso periodo del 2013, il numero di arrivi e partenze nei due scali di Bari e Brindisi fa registrare un + 2,9%: 2.670.224 i passeggeri nel 2014 a fronte dei 2.594.401 dell’anno precedente.

Miami Barriere coralline presto estinte: inquinamento, temperature che aumentano, notevoli sbalzi termici, intensificarsi degli uragani e aumento della durata delle ondate di calore ne mettono a rischio la sopravvivenza. Lo afferma un rapporto dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, secondo il quale le barriere coralline dei Caraibi stanno scomparendo a ritmi sempre più rapidi. Dal 1950 a oggi l’estensione delle barriere coralline nell’area caraibica si è ridotta del 50%, e a questo ritmo saranno sufficienti appena 20 anni affinché l’ultima barriera corallina dei Caraibi scompaia. Secondo il rapporto le prime misure da prendere sarebbero relativamente semplici: fermare la pesca dei ricci e dei pesci pappagallo nelle zone dove ci sono barriere coralline, oltre che creare aree davvero protette.

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Roma

Negli ultimi 10 anni le tariffe dei principali servizi pubblici in Italia hanno subito aumenti record: l’acqua dell’85,2%, i rifiuti dell’81,8%, i pedaggi autostradali del 50,1% e i trasporti urbani del 49,6%. Secondo la Cgia di Mestre, che ha preso in esame l’aumento delle tariffe fino al 2013, l’inflazione nello stesso periodo è cresciuta del 23,1%. Considerando il rapporto con l’inflazione le assicurazioni sui mezzi di trasporto sono salite del 197,1% (4 volte in più dell’inflazione), i pedaggi autostradali del 62,7% (1,7 volte in più), i trasporti ferroviari del 57,4% (1,7 volte in più), il gas del 53,5% (2,3 volte in più), mentre i servizi postali hanno subito un incremento del 37,8%, pressoché uguale a quello registrato dall’inflazione. Solo i servizi telefonici hanno subito un calo dei prezzi: -18,8%, contro un aumento dell’inflazione del 38,5%.

Boston

Pilota automatico sulle auto. Un gruppo di ingegneri del Massachusetts Institute of Technology è riuscito a realizzare un apparecchio denominato “PR-1” per la società Cruise, che permette all’auto di procedere senza che alla guida ci sia nessuno. La Cruise ha quindi battuto la concorrenza del colosso Google da anni impegnato in una ricerca sullo stesso tema. Nel 2015 il kit sarà in vendita, ma già ora può essere preordinato, in modo da poter trasformare delle semplici auto in supercar. Saranno prodotti 50 esemplari di “PR-1” per i modelli Audi A4/S4, che però potranno essere utilizzati anche in auto di altre

marche. Il prezzo di acquisto sarà di circa 10 mila dollari, compresivi di manutenzione del Kit “PR-1” fino al 2017, che dovrà essere effettuata tassativamente in America a San Francisco. “Abbiamo deciso di annunciare il prototipo con molto anticipo rispetto al lancio – ha spiegato il fondatore della Cruise – così da avere il tempo di vincere la diffidenza degli utenti e conquistare la loro fiducia”. Per prenotare altri pilota automatici saranno necessari però almeno mille dollari. Il sogno della supercar sarà realizzabile soltando in California visto che in Europa, e quindi anche in Italia, le norme vigenti ne vieterebbero l’utilizzo.

Montreal Fincantieri ha varato il primo traghetto a gas naturale mai costruito nel Paese. Innovativo e poco inquinante, navigherà in acque canadesi. Battezzato “F.-A.-Gauthier”, è stato realizzato negli stabilimenti Fincantieri di Castellammare di Stabia e verrà consegnato a fine anno all’armatore, la Société des traversiers du Québec. In Nord America, sarà l’unico mezzo navale spinto da un propulsore a gas liquido. Lungo 133 metri è in grado di trasportare oltre 1.000 persone anche in condizioni climatiche particolarmente rigide (grazie a uno scafo progettato e brevettato da Fincantieri, in grado di fendere lo strato

di ghiaccio superficiale che si forma in mare); la nave è infatti dotata di 4 gruppi di propulsione ibridi dual-fuel, capaci cioè di funzionare sia bruciando diesel-oil che Lng. Utilizzando questa seconda modalità è possibile azzerare le emissioni di ossido di zolfo (SOx) e ridurre sensibilmente quelle di ossido di azoto (NOx) e di anidride carbonica (CO2). Performance che consentiranno al “F.-A.-Gauthier” di navigare senza problemi nelle zone ECAs, quelle in cui, in base a una convenzione internazionale, a partire dal 1° gennaio 2015 le emissioni navali di zolfo non potranno superare la soglia dello 0,1%.

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sud eST Pechino Entro il 2050, le città avranno 2,5 miliardi in più di nuovi abitanti: lo afferma un rapporto Onu che sottolinea come il 54% della popolazione mondiale viva oggi in aree urbane, con la massima concentrazione in alcune “megacittà” con oltre 10 milioni di abitanti. L’11 luglio 1987 fu una data storica: l’umanità superò la soglia dei 5 miliardi di individui. Due anni dopo, il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione fissò l’11 luglio come Giornata Mondiale della Popolazione. Oggi siamo oltre 7 miliardi sulla Terra e si stima che il 16 giugno del 2025 raggiungeremo quota 8 miliardi, 9 miliardi nel 2043, 10 nel 2083; dati che emergono dalle stime annuali di crescita della popolazione, valutate anno per anno a partire dal 20 ottobre 1959, quando sulla Terra c’erano 3 miliardi di persone. Entro fine secolo, la popolazione mondiale supererà gli 11 miliardi di unità, circa 800 milioni in più di quelli stimati in precedenza dai ricercatori dell’Università di Washington, che ha eseguito il calcolo per le Nazioni Unite. A far impennare la crescita sarà soprattutto l’Africa dove i tassi di natalità sono più alti. Di contro, l’Europa continuerà a vivere un graduale declino a causa del basso numero di nascite. Calo che interesserà anche la Cina, che passerà da 1,4 miliardi a 1,1 nel 2100.

New Delhi New Delhi, seconda metropoli più popolosa al mondo con 25 milioni di abitanti secondo le Nazioni Unite, è sull’orlo del collasso per gli enormi problemi causati dal sovraffollamento in termini di inquinamento, trasporto urbano inadeguato, scarsità idrica e assenza di pianificazione urbanistica. Con 80 milioni di veicoli circolanti e mille nuove immatricolazioni ogni giorno, la rete stradale è inadeguata; l’inquinamento atmosferico è destinato a raddoppiare entro il 2020. È allarme rosso anche per il trattamento delle acque, dato che il 46% delle case non ha le fognature. Negli ultimi dieci anni, è raddoppiato il consumo di energia elettrica che continua ad aumentare del 10 -15% all’anno.

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Bangkok “Il cambiamento climatico frenerà in modo significativo la crescita globale nei prossimi anni. In base alle proiezioni diffuse oggi dall’Ocse, entro il 2060, a politiche invariate o inefficienti, i gas serra saranno raddoppiati rispetto al 2010 e i danni ambientali causati dalla minore produttività agricola e dall’aumento del livello dei mari arriverà a pesare per -1,5% sul Pil mondiale. L’impatto sarà ancora più negativo, arrivando a quasi -6%, per l’Asia meridionale e del Sud-Est. Tali stime – precisa il rapporto – non includono l’aumento dei costi sanitari e le perdite di produttività causate dall’inquinamento locale in molti Paesi. Aumenterà inoltre il rischio di eventi catastrofali.

Tokyo

In tutto il mondo, le persone vivono più a lungo. La buona notizia arriva dalle Statistiche Sanitarie Mondiali 2014 pubblicate dall’OMS. I report statistici annuali dell’OMS evidenziano che i paesi a basso reddito hanno fatto registrare i progressi maggiori, con un aumento medio dell’aspettativa di vita di 9 anni dal 1990 al 2012. I sei paesi nei quali l’aspettativa di vita è aumentata di più sono stati la Liberia, con un incremento di 20 anni (da 42 anni nel 1990 a 62 anni nel 2012), seguita dall’Etiopia (da 45 a 64 anni), le Maldive (da 58 a 77 anni), la Cambogia (da 54 a 72 anni), il Timor-Leste (da 50 a 68 anni) e il Ruanda (da 48 a 65 anni).

Penang

I ponti più lunghi del mondo sono ormai di fatto un’esclusiva asiatica, con Malesia e Cina in posizione leader. Con i suoi 2 km di lunghezza, e un’altezza di 84 metri, il Ponte di Brooklyn a New York non regge il confronto con il Penang Bridge: il ponte malese che collega George a Seberang Prai, aperto al traffico il 14 settembre 1985, è lungo 13,5 km. Ma, soprattutto, non c’è storia con il il ponte della Baia di Tsingtao, il più lungo del mondo; lungo 41,58 km e inaugurato nel 2011, collega la città di Tsingtao con l’isola Huangdao. E, con le sue 6 corsie, consente la circolazione di 85.000 vetture al giorno. Il ponte cinese è lungo quasi due volte e mezzo il ponte più lungo d’Europa, il portoghese Vasco da Gama, che collega il fiume Togo a Montijo e Sacavém. Realizzato nel 1998, è lungo 17,2 chilometri (composto

da 12.345 metri di lunghezza più altri 4.840 metri di viadotti). 26 km di lunghezza per un altro “mostro” cinese: il Binhai Mass Transit, il ponte ferroviario di Tianjin. Tengono il passo, negli Usa, l’Atchafalaya Swamp Freeway, un ponte lungo 30 chilometri sul fiume Atchafalaya, e l’Interstate Highway 10, in Louisiana. Il Donghai Bridge si trova invece in Cina e collega Shanghai al porto di Yangshan. Inaugurato alla fine del 2005, è lungo 32,5 km e si trova sul mare, ma possiede un’altezza dalle acque ridotta; solo in alcuni punti si alza fino a raggiungere un’altezza complessiva di 420 metri, permettendo il passaggio delle navi. Sempre negli Usa e sempre in Lousiana, il Lake Pontchartrain Causeway, che collega la città di Mandeville con la città di Metairie, è lungo 38,40 km.

Il Giappone presenta l’aspettativa di vita più alta del mondo per le donne (87 anni), seguito da Spagna, Svizzera e Singapore. L’aspettativa di vita per le donne nei paesi classificatisi ai primi dieci posti è di 84 anni o più. L’aspettativa di vita per gli uomini è di 80 anni o più in nove paesi; la più alta si registra in Islanda, Svizzera e Australia. All’altro estremo, l’aspettativa di vita, sia per le donne che per gli uomini, è tuttora inferiore ai 55 anni in 9 paesi dell’Africa sub-sahariana: Angola, Repubblica Centrafricana, Ciad, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Mozambico, Nigeria e Sierra Leone.

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italia

gli appuntamenti da non perdere 1

sana 6-9 settembre bologna

L’unica fiera aperta esclusivamente ai prodotti alimentari biologici certificati e ai cosmetici biologici e naturali. Nel settore alimentazione saranno ammesse a partecipare esclusivamente aziende che espongono prodotti biologici certificati. La partecipazione nel settore benessere è riservata alle aziende produttrici di cosmetici biologici e naturali, integratori e trattamenti naturali e prodotti e attrezzature per la cura della persona. Il settore degli altri prodotti naturali ospita le aziende produttrici di tessuti naturali e altri prodotti naturali per tempo libero e hobby, e proposte alternative per l’abitazione ecologica.

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FRAGRANZE 12-14 settembre firenze Fraganze è il paradiso dei “nasi”: un incontro unico nel suo genere, organizzato da Pitti Immagine. Marchi di profumi, ma anche fornitori di essenze da tutto il mondo. Fragranze attira gli estimatori del profumo di nicchia, e diventa a ogni edizione l’appuntamento più importante a livello internazionale per l’intero settore. www.pittimmagine.com

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www.sana.it

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expobici 20-22 settembre padova Quasi un’estasi per i patiti del pedale. ExpoBici è l’appuntamento italiano con la Bici e il suo mondo, un momento fondamentale per tutte le aziende che sono protagoniste del mercato nazionale e internazionale e per tutte quelle che vogliono crescere e diffondere l’uso e la cultura del ciclo. www.expobici.it

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FORUM BANCA 30 settembre milano 7^ edizione di Forum Banca, evento di riferimento a livello nazionale focalizzato sulle aree di innovazione tecnologica e di processo nel mondo bancario. 8 gli eventi del programma della giornata: in primis la Premium Conference “Come creare valore nella sinergia tra IT e linee di business”. www.forumbanca.com

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milano unica 9-11 settembre milano Milano Unica, la manifestazione tessile internazionale organizzata in Italia, è nata dall’esperienza, dalla qualità e dalla tradizione di quattro marchi della rappresentanza fieristica tessile italiana: Ideabiella, Ideacomo, Moda In, Shirt Avenue. É un progetto organizzato e composito che propone in due edizioni annuali (febbraio – settembre) il top di gamma della produzione tessile italiana ed europea. Il nome Milano Unica richiama le tre caratteristiche intrinseche alla manifestazione. UNICA è infatti sinonimo di Singolarità, Esclusività, Unificazione. www.milanounica.it

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Corri Forrest, corri...

Chissà se volo?

... eccomi qua... sempre di corsa... di nuovo, penserete voi... ebbene si... di nuovo e sempre di corsa. Ma ecco che ancora una volta Forrest sarà costretto a raccontarvi come può essere complicato spostarsi e non di corsa... ovviamente... La mia mamma... tutti voi sicuramente lo ricorderete... mi ha sempre detto che “stupido è chi lo stupido fa”... anche se a volte a forza di farlo... Esiste un “luogo” che sarebbe bellissimo utilizzarlo per correre correre correre... ma invece... serve per partire... facendo finta di avere le ali... Jane mi ha insegnato che si chiamano aerei ma a me interessa poco... molto poco... ma torniamo a noi... Ero... nella citta eterna... e dovevo volare via... quindi... si entra... il nome ricorda un fiume... molto piccolo... piccolissimo, anzi piccolino... un fiumetto... ops un fiumicino ... Tutti dovrebbe funzionare al meglio... da manuale... fai guardare le valige... passano sotto una macchina che vede tutto... anche i miei cioccolatini... ma ecco che trovi subito un signore che urlando mi dice, anzi, mi urla, di spingere la mia valigia perchè udite udite “la valige non

camminano da sole vanno spinte” proprio così mi ha detto... Forrest... o mi ha preso per stupido o... stupido è chi lo stupido fa... ma a forza di farlo... Forrest non conosce nessuno che pensa che una valigia cammina... Jane cammina... Forrest corre ma le valige no... Perchè mi urla: “Signore??? Qual è il suo problema???” Credeva forse che la valige camminavano e si è arrabbiato scoprendo di no... Jane mi dice che il signore è solo maleducato ma Forrest pensa che forse no... pensava alle gambe delle valige e si è trovato solo le ruote... Comunque Forrest continua il giro dentro al fiume piccolino e scopre che l’aereo è molto molto in ritardo... nessuno però lo dice e rimane scritto boarding alle 14.05 ma partenza 15.45...

Perchè Forrest deve stare seduto tutto il tempo dentro all’aereo???.... ma no non è così... nessuno cambia il boarding perchè dipende da Fumicino... ah e allora??? Siamo a Fiumicino o no... si ma qualcuno deve avvertire e nessuno lo fa... chiamo io??? No non preoccuparti... e intanto tutti si domandano quello che si domanda Forrest... e il tempo passa e nessuno dice niente... Forrest sa che è sufficiente dire .... ma se nessuno dice... e intanto Forrest pensa alle sue scarpette... ma ecco che forse qualcosa si muove e forse si parte... forse però.. nel frattempo io mangio cioccolatini... e offro cioccolatini svizzeri però.... ps sapete che il fiume piccolo è il punto di arrivo e partenza della città più eterna che c’è???

Forrest

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mondo

gli appuntamenti da non perdere 1

viscom 9-11 settembre parigi

Anche quest’anno, Viscom è l’evento più atteso nel mondo della comunicazione visiva. La mostra presenta dipinti, pubblicità, ambiente, la segnaletica per le imprese e luoghi pubblici, POS, display e molto altro. Viscom è un vero e proprio display 3D dell’offerta sul mercato, è la possibilità di vedere, capire e riprodurre i nuovi media e il supporto informativo. Giunto alla 26esima edizione, si terrà alla Port de Versailles e farà scoprire tutte le soluzioni e le innovazioni in termini la comunicazione. www.viscom-paris.com

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ARTCAR FEST 25-28 settembre san francisco Mezzo km di automobili pazze, veri e propri urban graffiti su 4 ruote che percorrono le strade di Berkeley. Musica assordante, una pazza sfilata di moda e divertimenti per tutti. Dal lussuoso al gotico, dal surreale al fantascientifico, connubio perfetto tra l’ossessione americana per l’auto e l’amore per la libera espressione della propria personalità.

5 GALWAY INTERNATIONAL LUCERNE FESTIVAL OYSTER FESTIVAL 4 fino al 14 settembre 25-28 settembre Kind und Jugend lucerna GALWAY 14-15 settembre Nel cuore della costa “Estate” occupa i mesi di colonia atlantica dell’Irlanda, nella agosto e settembre con cittadina di Galway, ogni anno l’ultimo week end di settembre si svolge la tre giorni dedicata all’apertura della stagione delle ostriche, in cui si mangiano queste deliziose prelibatezze del mare, si beve buona Guinness, si balla e si ride all’insegna del craic irlandese!

Kind und Jugend è la fiera leader per il mondo del bambino e del neonato solo per visitatori specializzati. Punto di incontro globale per l’industria del settore, un migliaio di aziende da 41 Paesi presentano i loro prodotti di punta e le loro ultime novità.

http://galwayoysterfestival.com/

www.kindundjugend.com

www.artcarfest.com

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circa 30 concerti sinfonici e 60 ulteriori eventi musicali. Orchestre celebri a livello mondiale e importanti maestri hanno contribuito a perfezionare la reputazione di Lucerna come luogo esclusivo per i festival fin dall’inizio. Il Lucerne Festival si articola ogni anno in tre eventi: «Pasqua», «Estate» e «Piano». Pasqua è il festival che rappresenta un’occasione in cui musica vecchia, nuova e sacra si confrontano. Durante il festival «Piano», che si tiene ogni anno in novembre, propongono famosi pianisti dai differenti stili musicali, dal classico al contemporaneo, fino al jazz. www.luzern.com/it/

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sulla rotta di Morgan Diciassettesimo secolo, epoca d’oro per i pirati dei Caraibi. Henry Morgan e i liberi fratelli della costa, guidati da William Walkerla, la facevano da padroni. Per la città spagnola di Granada (affacciata sul lago Nicaragua, il Cocibolca in lingua Nahuatl, che significa “mare dolce”), il 1650 doveva rivelarsi un anno fatale. Risaliti dal Mar dei Caraibi su lunghe canoe in grado di navigare in perfetto silenzio nelle acque del fiume San Juan, i pirati di Henry Morgan presero di sorpresa la guarnigione spagnola della “perla” fra le colonie spagnole del centro America, diedero alle fiamme tutte le imbarcazioni e scapparono, alleati con la tribù indios locale, con un bottino di 500.000 sterline d’argento. Queste acque, entro pochi anni, potrebbero non consentire più “sorprese” protette dai

silenzi della foresta. Proprio di fronte alla vecchia fortezza di Granada dovrebbero transitare le gigantesche portacontainer che sceglieranno il canale del Nicaragua al posto di Panama. Canale che il gruppo cinese HK Nicaragua Canal Development Investment (HKND), siglando l’accordo con il presidente nicaraguense Ortega, si è impegnato a costruire entro il 2020 investendo qualcosa come 40 miliardi di dollari. Fra i giganteschi squali di acqua dolce che popolano il lago Nicaragua si dovrebbe quindi generare una rotta commerciale di interesse primario, che sfrutterebbe per il suo tracciato il letto del fiume che unisce il grande lago Nicaragua al mare dei Caraibi. 278 chilometri: questa la lunghezza complessiva del canale. Obiettivo: concludere le opere entro il 2019 e aprire

al traffico interoceanico nel 2020. La via di navigazione tra i due oceani, che taglierà il Nicaragua, sarà alternativa a quella di Panama. Tre volte più lungo, questo canale avrà una larghezza tra gli 83 e i 520 metri e una profondità di 27 metri, dicono gli ingegneri cinesi. Molto più spazioso di quello di Panama (che nel frattempo è in fase avanzata di ristrutturazione), potrebbe permettere il passaggio di super portacontainer. Nulla a che vedere con le agili canoe di Morgan, prestate ai pirati dagli indios della tribù Miskito. Ma anche dopo la scomparsa di Morgan (nella stampa intento a selezionare la sua ciurma) il lago restò un buen retiro per i pirati. Nel 1670 il pirata Captain Gallardito conquistò Granada e ne fece il suo quartier generale, alzando sulla fortezza il vessillo dei fratelli della costa.

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R e l ai s - Gou r m e t - W e l l n e s s - M e e t i n g - C e r i m o nie - Eventi Immersa nel verde di un magnifico castagneto secolare, sulle colline che circondano il lago di Como e si innalzano verso il confine svizzero, a 493 metri s.l.m., TENUTA de l’ANNUNZIATA è un country hotel di charme circondato da 13 ettari di bosco, dove potrete concederVi un momento di relax nella splendida Beauty Farm, scegliendo il percorso ideale per risvegliare e rigenerare corpo e spirito. TENUTA de l’ANNUNZIATA è la location ideale per ogni tipo di evento: meeting di lavoro, workshop, matrimoni, cerimonie e feste speciali. Una calda atmosfera accoglie gli ospiti nelle sue 22 camere, viziandoli con ogni moderno confort.

Embraced by the magnificent green of ancient chestnut trees, on top of the hills around the Lake of Como, rising towards the swiss border, at 493 meters (1617 feet) a.s.l., TENUTA de l'ANNUNZIATA a charming country hotel surrounded by 13 hectares of woods, where you will be able to enjoy a moment of relax, in the wonderful Beauty Farm, choosing the perfect path to awaken and regenerate your body and soul. TENUTA de l'ANNUNZIATA is the ideal location for any kind of event: meetings, workshops, weddings, ceremonies and special celebrations. A warm atmosphere welcomes the guests in its 22 rooms, spoiling them with every modern comfort.

TENUTA DE L’ANNUNZIATA Azienda Agricola Via Dante, 13 22029 Uggiate Trevano Como · Tel.+39 031.949.352 · www.tenutadelannunziata.com


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