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Form Follows Function appunti per un’architettura naturale

Tesi di ricerca


Tesi di Laurea Magistrale a cura di Alessandro Masperi

Relatore: Prof. Ing. Paolo Foraboschi Correlatore per la parte progettuale: Prof. Arch. Stanislao Fierro

Facoltà di Architettura Corso di Laurea in Architettura per il Nuovo e l’Antico Anno Accademico 2016-2017


INDICE

Introduzione

V

Ringraziamenti

VII

1.

Rapporto con la natura

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2.

Forme della natura

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3.

Stereotomia

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4.

Poligono funicolare

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5.

Linea delle pressioni

41

6.

L’arco come forma teoricamente perfetta

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7.

Accorgimenti che fanno l’architettura

63

8.

Casi emblematici

73

8.1

Il Ponte Mosca, uno studio di Alberto Castigliano

8.2

I Rafael Guastavino, un metodo costruttivo secolare contemporaneo

8.3

9.

Da Ponte, un’ingegnosa fondazione per Rialto Conclusione, ovvero come mai i ponti affascinano

87

Citazioni

101

Testi citati in lingua originale

106

Elenco delle immagini

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Bibliografia

113

Articoli e Pubblicazioni

115

Sitografia

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INTRODUZIONE Form follows function, letteralmente La forma segue la funzione è ciò che scrive il celebre architetto americano Louis Sullivan (1856-1924) in un articolo pubblicato sul Lippincott’s Magazine nel 1896 dal titolo The tall office building artistically considered, nel quale riflette sulla nuova tipologia abitativa del tempo: il grattacielo. Il tema generale dell’articolo però non toglie la possibilità a Sullivan di esprimere la sua personale opinione sull’importanza della natura nella nuova ricerca formale, considerata come esempio di una corretta interpretazione della funzione a cui devono assolvere gli edifici. La mia personale ricerca è stata ispirata da queste parole e si è concretizzata in questo breve testo, il quale non è stato concepito con il fine di proporre una visione oggettiva di un fatto e, per quanto la stesura mi abbia coinvolto, non può essere ritenuto esauriente. Le parole che seguono potrebbero essere considerate come il risultato di un’esperienza, ma in realtà credo che siano solo l’inizio di una ricerca personale e per questo non ho la pretesa di dichiarare una verità. Esse sono state precedute da uno studio bibliografico che ha messo le basi sulle quali ho strutturato il testo, che è stato scritto con l’intento di spiegare, dal mio punto di vista, quale importanza può avere la comprensione degli aspetti naturali delle forme in architettura. Con questo scopo ho aggiunto il sottotitolo Appunti per un’architettura naturale poiché la natura è una entità onnipresente, della quale facciamo parte e soprattutto con la quale l’Architettura deve confrontarsi, sia nelle forme, sia negli aspetti costitutivi. Fra tutte le declinazioni possibili, quella di riconoscere la natura come base fisica dell’architettura, è la più diretta e intellettualmente efficace, a questa visione vorrei aggiungerne una ulteriore declinazione, più vicina alla fisica dei fenomeni naturali, che, come leggerete, è già stata più volte interpretata da grandi architetti e ingegneri nel corso dei secoli, ma a volte dimenticata. Questo tentativo di sviluppare un ragionamento, il più possibile chiaro e V


coerente, è anche stato la base sulla quale ho voluto progettare un ponte per la città di Venezia, sull’area dove attualmente sorge il nuovo Ponte Solesin, in collegamento tra la stazione di Santa Lucia e il nuovo polo della facoltà di economia di Ca’ Foscari, nel sestiere di Cannaregio. Ho scelto di escludere il progetto dalla tesi scritta poiché ritengo siano due ricerche differenti anche se consequenziali. Sebbene tutto il contenuto sia stato revisionato più volte, mi scuso in anticipo per gli eventuali errori o inesattezze.

VI


RINGRAZIAMENTI Ora che siete consci di ciò che andrete a leggere è bene che sappiate che questa tesi non è stata scritta con le mie sole mani, nemmeno a quattro mani, qui dentro ci sono moltissime mani, idee, pensieri, confronti, tutti indispensabili per la stesura di questa Tesi che spero vi interesserà. A tutte queste persone va il mio più sentito ringraziamento, con la speranza di ricambiare un giorno il loro apporto, che mi è stato essenziale. Alcune più di altre si sono distinte per costanza e gentilezza, prima fra tutte il mio relatore, il Prof. Ing. Paolo Foraboschi, al quale va tutta la mia stima e gratitudine per avermi dato questa possibilità, per avermi fatto crescere guidandomi dove non c’era una chiara via da seguire, ma soprattutto per avermi dato l’occasione di confrontarmi con le sue idee. Ringrazio anche il Prof. Arch. Stanislao Fierro che mi ha più volte ricordato l’importanza della corretta progettazione architettonica del dettaglio, e il Prof. Ing. Alberto Mazzucato, per avermi condiviso la sua ricerca sull’eccezionale forma-funzione delle fondazioni del Ponte di Rialto. Ci tengo a ringraziare la gentile ospitalità che due case mi hanno offerto in questo lungo periodo, una a Venezia nell’area di Santa Marta e l’altra nei pressi di Mestre. Sempre due, ma questa volta sono famiglie, va un immenso grazie, alla prima perché mi ha trattato come un figlio, alla seconda perché oltre ad avermi come figlio, mi ha supportato in tutti questi tre anni, dandomi la forza di arrivare fino in fondo. Ed infine ringrazio con stima ed amore la persona che più di tutte mi è stata accanto, donandomi tutta la sua benevolenza, rendendomi la persona che sono.

VII



Alle due persone piĂš longeve che io conosca, per i loro preziosi sguardi.



1. Rapporto con la natura

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gni oggetto ha una forma, ogni forma ha significato, produce sensazioni, deriva da processi formativi ed evolutivi. La Natura ha forma, è simbolo, si forma a sua volta e l’Uomo

ha passato secoli a leggerla ed interpretarla. Ogni riflessione su di essa tende a mettere in evidenza una corrispondenza tra spirito e materia. Esiste anche un rapporto Uomo-Natura ed è lo Spirito Universale (Oversoul) che Ralph Waldo Emerson (1803-1882) identifica in un sole che illumina lo spazio, creando una grande ombra la quale inevitabilmente ci segue, mai ci si può separare da essa, perché «lo spirito ama la sua antica dimora»1 come un vecchio amico. L’osservazione è la risorsa migliore a nostra disposizione per la comprensione della natura, il fascino che ci trasmette può essere la luce di una lampada che rende più chiare le scelte, guidandoci come hanno fatto le stelle per migliaia di anni e le quali, tutt’oggi, «destano una certa rilevanza perché, seppur sempre presenti, sono inaccessibili; nondimeno, tutti gli oggetti naturali suscitano un’impressione analoga quando la mente è aperta alla loro influenza. La natura non indossa mai un’apparenza mediocre. E l’uomo più sapiente non riesce a estorcerne il segreto, né perde la sua curiosità quand’anche ne abbia scoperto tutta la perfezione. La natura non diventa mai un trastullo per uno spirito saggio. I fiori, gli animali, le montagne, riflettono la saggezza della sua ora migliore così come hanno deliziato la semplicità della sua infanzia»2. 03


L’architetto per sua natura è un osservatore, attende il cambio della luce, cammina, cambia il punto di vista, esita e studia; pensa a come rubare questa preda, che però non è qualcosa di tangibile, non è neppure qualcosa di esistente, è qualcosa che deve essere creato. È un disegno una foto o ancora più semplicemente uno schizzo, è quello che la sua (mia) mente aspetta con ansia. Dall’osservazione arriva l’intuizione, il gesto adatto a siglare il segno. Studiare per capire e arricchire il contenuto intangibile della quale la nostra mente è bagaglio, malleabile e potenzialmente illimitato, perché «per occuparsi con successo di un’arte qualsivoglia, occorre farlo con gusto, con amore; e per questo bisogna averne qualche idea. Non si saprebbe amare ciò che non si conosce, ha detto un poeta, occorre sapere perché, e come farlo, in altre parole occorre conoscere il fine che questa arte si propone, ed i mezzi che deve per raggiungerlo»3. In natura il fine è adattarsi al cambiamento delle condizioni all’interno del contesto in cui si è inseriti, ed il cambiamento costante produce un’evoluzione. Le mutazioni tra una generazione e l’altra sono generalmente piccole, però il loro accumularsi nel tempo può portare ad una evoluzione sostanziale nella popolazione. «L’occhio di un’iguana di terra cubana (Cyclura nubila nubila) dà l’opportunità di comprendere un concetto base dell’evoluzione: la forma segue la necessità. Nella retina questo animale diurno ha quattro tipi di coni che gli forniscono un’eccellente visione dei colori durante il giorno. Un terzo occhio più semplice, sulla sommità del capo, percepisce la luce e aiuta nella regolazione della temperatura corporea»4. Questo rudimentale occhio è dotato di un’altra retina e di un cristallino, che non consente di vedere delle immagini, può però rilevare i movimenti -fig. 1-. Le strutture evolutive naturali hanno una loro logica, tendono ad adattarsi e quindi evolversi, in un continuo cambiamento guidato dalle leggi del luogo e dalla presenza di altre specie rivali. Da uno scopo di sopravvivenza si forma l’adattamento sia formale (inteso come sembianza) che sostanziale, quindi dall’occasione di formare ulteriori organi atti a completare o migliorare delle lacune, come nel caso dell’iguana. Similmente 04


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ha funzionato anche in architettura questa logica, perché al suo interno ha un’ossatura, che sia di acciaio di cemento o mattoni assolve sempre lo stesso scopo, quello «di coinvolgere al suolo i carichi dell’edificio. È un’azione simile a quella dell’acqua che scorre giù lungo una rete di tubature; pilastri, travi e altri elementi strutturale agiscono come tubature per il flusso dei carichi. [...] La straordinaria semplicità dei fenomeni naturali (Einstein la chiamava elegante) consente alla struttura di assolvere il suo compito mediante due azioni elementari: trazione e compressione. [...] Il responso della struttura ai carichi è governato da un’altra legge fondamentale della natura. Grazie a un giudizioso senso d’economia, o d’intelligente pigrizia, una struttura sceglierà sempre di coinvolgere i suoi carichi al suolo lungo il più facile dei molti percorsi disponibili. È il percorso che richiede da parte dei materiali strutturali la minima quantità di lavoro ed è una conseguenza di ciò che la fisica chiame “legge del minimo sforzo”. La struttura, anche a questo riguardo, si comporta come un essere umano»5, sfugge alla fatica intelligentemente, sfruttando le proprie caratteristiche. A differenza di queste strutture artificiali, che sono totalmente legate alla mano dell’uomo, le strutture naturali hanno questa capacità innata e perciò priva di vincoli intellettuali. Le forme che ne conseguono sono svincolate da scelte aprioristiche, per questo motivo, tutto quello che ne risulta è la naturale forma, quelle più adatta a seguire la necessità. Che si tratti dell’aquila nel suo volo, o della fioritura del melo, del duro lavoro del cavallo da tiro, del grazioso cigno, delle ramificazioni della quercia, del soffiare basso del vapore, delle nuvole alla deriva, su tutto il percorso del sole, la forma segue sempre la funzione, e questa è la legge. Dove se la funzione non cambia, la forma non cambia. Le rocce di granito, le colline sempre verdi, restano per secoli; la vita di fulmine, entra in forma, e muore, in un batter d’occhio. È la legge che pervade tutte le cose organiche e inorganiche, tutte le cose fisiche e metafisiche, tutte le cose umane e tutte le cose sovrumane, tutte 06


le manifestazioni della immaginazione, del cuore, dell’anima, dove la vita è riconoscibile nella sua espressione, dove la forma segue sempre la funzione. Questa è la legge6. Louis Sullivan (1856-1924) ammirava i compatrioti pensatori contemporanei come Thoreau, Emerson, Whitman o Melville, dai quali traeva importanti lezioni e modi di leggere il modo circostante. Una delle più importati questioni, e spunto di riflessioni da lui approfondite è stato il proprio rapporto con la natura. L’aspetto evolutivo e quello funzionale vengono viste da loro come un tutt’uno inscindibile nella storia e nella sostanza, dove la forma seguendo l’evoluzione, segue di conseguenza una funzione, che non è nient’altro che l’adattamento alle condizioni circostanti. Così se una nuvola alla deriva sarà inevitabilmente allungata, la grazia del cigno è inscindibile dalla sua forma altrettanto allungata, dal suo manto candido e dalle sue movenze nello stagno. Da dove si prendono questi spunti per esprimere un’idea di come è fatto il mondo, si sono apprese anche le soluzioni di alcuni problemi, ma soprattutto si è fatta ricondurre la nascita della nostra coscienza architettonica. Postulando e ricercando un sistema di regole fisse ed universali, rigorosamente fondate sulla ragione e sulla natura, Marc-Antoine Laugier (1713-1769) nel Saggio sull’architettura (1753), identifica il suo famoso paradigma della capanna primitiva, come originario nucleo generatrice di ogni magnificenza dell’architettura, archetipo di ogni progetto. Sviluppando i suoi principi fondamentali con una logica costruttiva, partendo dai principi generali e finendo con il progetto per una Parigi moderna, egli li articola progressivamente in una precisa metodologia, con notevoli intuizioni e proposte, e per molti versi anticipatrici di vedute e criteri. Riflesso critico e penetrante della cultura illuministica, l’intuizione della capanna primitiva è ben radicata nel pensiero del tempo che esprime l’inscindibile e sano rapporto Uomo-Natura del quale Rousseau (17121778) intende come depositario di tutte le qualità positive e buone. A tale principio si unisce la convinzione che l’architettura possa essere 07


interamente determinata dalla ragione. Questa doppia radice, naturale e razionale, si concretizza nell’assunto che l’architettura, per essere razionale deve essere naturale, «per questo, egli ha bisogno di principi ben stabili, atti a verificare i suoi giudizi o giustificare le sue scelte, in modo da poter affermare che una data cosa è corretta o sbagliata non secondo l’istinto, ma in funzione del ragionamento, da un uomo istruito sulle strade del bello»7. Laugier scrivendo il testo, trae una serie di conclusioni che caratterizzano ancora di più il saggio, ovvero: • che, in Architettura, vi sono qualità estetiche intrinseche, indipendenti dalle abitudini dei sensi o dalle convenzioni umane; • che la composizione di un’opera architettonica, come ogni altra opera dello spirito, è suscettibile di freddezza o vivacità, di esattezza o disordine; • che, come in ogni altra Arte, anche nella nostra vi è un genere di talento che non è possibile acquisire, una genialità elargita direttamente dalla natura; e che tuttavia talento e genialità debbono essere controllati e giudicati da norme8. Un edificio parla con eloquenza al posto del suo artefice quando il linguaggio è stato scelto con cura storica e gusto estetico. L’innovazione è sotto tutti gli aspetti legata alle precedenti esperienze dove la comunicazione del messaggio è avvenuta in maniera efficace. Di fatto, «senza una lingua, non si parla. Anzi, com’è noto, la lingua ci parla nel senso che offre strumenti comunicativi in mancanza dei quali l’elaborazione stessa dei pensieri sarebbe preclusa»9. La lingua più efficace per un architetto sono le immagini, perché nella pratica del progetto, l’idea si forma col disegno e sempre col disegno la si concretizza. Uno schizzo vale molte parole, ma soprattutto crea l’idea univoca riguardo il tema di discussione e non ammette mistificazioni. La rappresentazione è la maniera più veloce e per esprimere, prima fra tutti a se stessi, l’idea che si è formulato. 08


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La capanna primitiva disegnata nel frontespizio del Saggio sull’Architettura -fig. 2,- ha la forza di introdurre al concetto fondamentale del testo e di guidare l’immaginario verso un’idea chiara e definita. L’immagine è l’idea della parola, nonché la figurazione di un significato che noi attribuiamo ad un suono, così come il segno è quello che ne risulta quando sintetizziamo una volontà -fig 3-. Frank Lloyd Wright (1867-1959) disegnava molto ed è stato uno dei più prolifici architetti di sempre, con oltre 1000 progetti all’attivo e ben 532 dei quali costruiti, ha avuto modo di esprimere i propri ideali grazie ai quali profetizzava la progettazione di strutture in armonia con l’umanità e l’ambiente, ponendo le basi di una filosofia più tardi chiamata architettura organica. Dai suoi disegni traspare chiaramente il rapporto che si immaginava dovessero avere i suoi edifici con l’ambiente circostante. Nella sua Autobiografia parlando di Taliesin West egli afferma: «Sapevo bene che nessuna casa doveva mai essere posa “su” una collina o “su” qualsiasi luogo. La casa doveva essere “della” collina. Appartenere ad essa. Collina e casa dovevano vivere assieme, ciascuna più felice graze all’altra»10. La natura in questi disegni, così come negli altri, si esprime su molte superfici, entra a far parte nel progetto compositivo dell’opera, pende dalle grondaie, inquadra l’edificio, o nella composizione del disegno prende quasi sempre una parte paritaria al progetto. Solo nei progetti all’interno delle città perde d’importanza, ma non scompare quasi mai. «L’analisi di alcuni suoi disegni permette di scoprire ed assimilare il processo del suo fare creativo in una forma potenzialmente legata alla natura ed alla terra. [...] L’uomo sembra assorto in se stesso, isolato anche fisicamente, cerca in se stesso le forme e le soluzioni che hanno poi identificato la sua potente personalità e coerenza in tutto l’arco della sua vita»11. Tutto nell’architettura di Wright parla di natura e tutto passa dalla natura -fig. 4-, come un’ispettrice incorruttibile della quale bisogna prendere insegnamento per tendere alla verità. Emblematiche sono le esperienze meditative nel deserto di Ocotillo Camp, o della stessa scuola di Taliesin, dove l’ossessione americana della vita in mezzo alla natura, viene final10


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mente vissuta e dalla quale si può trarre emozioni ed idee, perché come scrive le stesso Wright, «nell’ossatura di pietra della Terra, nei principi che forgiano la pietra come essa giace sul terreno o si innalza per rimanere scolpita da venti e maree - li riposano forme e stili a sufficienza per tutte le epoche e per tutta l’Umanità»12.

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2. Forme della natura

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ra tutte le declinazioni possibili, quella di riconoscere la natura come base fisica dell’architettura, è la più diretta e intellettualmente efficace quando si vuole parlare di questo binomio.

La struttura non è un ornamento, ma come esso, ha bisogno di maestria e raffinatezza, per di più in architettura è imprescindibile. Antoni Gaudì (1852-1926) e Frei Otto (1925-2015) ad esempio sono stati due dei più grandi maestri nell’arte della struttura, dal punto di vista dell’ingegno prima che dell’ingegneria. Confrontandoli, si nota il tipo di approccio progettuale dei due; il primo attraverso forme regionali tentava di dare un riscontro poetico, per non dire mistico, al paesaggio e alla vegetazione mediterranea; il secondo vedeva struttura in ogni oggetto materiale perché ogni corpo è soggetto a forze, prima fra tutte quella gravitazionale perciò è sua natura resisterle, rimanendo in un parziale o totale staticismo. In tempi moderni la ricerca portata avanti da vari studi internazionali nel campo dei nuovi materiali sta dando risultati notevoli negli aspetti e nelle efficienze meccaniche, questo tipo di ricerca non è estranea ai principi di Gaudì e Otto, anzi è la normale prosecuzione che la tecnologia ha aiutato a creare. Interessante è la struttura a tessitura cellulare del Centro acquatico nazionale (più noto come Water Cube) costruito per le olimpiadi di Pechino del 2008 dallo studio PWT Architect, il quale, semplicemente «è basato sulla più efficiente suddivisione dello spazio 13


tridimensionale. Questo schema è particolarmente comune in natura essendo la fondamentale disposizione delle cellule organiche, la struttura cristallina dei minerali e la naturale formazione di bolle di sapone»1. Queste sono forme della natura che nascono quasi per magia dall’incontro di elementi inanimati. È come se si avvolgessero per un reciproco richiamo d’amore, ma in realtà hanno una vera e propria attrazione fisica, data dalla tensione superficiale, intrinseca nei materiali, che distende le proprie particelle secondo una legge chiamata del minimo sforzo. «Se immergiamo un telaio metallico, anche di struttura complessa, in acqua saponata, estraendolo vengono a crearsi, come di incanto, le superfici migliori possibili, per il principio di minima energia [NdA, o minimo sforzo] che la natura segue sempre. Lo stesso principio, seguito dalle api nelle loro cellette, costruite con il minimo dell’energia per comprendere il massimo dello spazio»2. La tela di un ragno che si flette sotto il peso della rugiada, la stessa acqua che pende dai vari fili che la compongono sono tutte forme che seguono una logica funzionale efficiente, antiestetica, che però ha caratteristiche estetiche notevoli -fig. 1-, e contiene le stesse logiche che, Joseph Plateau (1801-1883) ha scoperto e descritto riguardo le membrane di acqua saponata quali: • un sistema di bolle o di un sistema di membrane di sapone attaccate ad un filo metallico di supporto sono costituite da superfici piane o curve che si intersecano tra loro lungo linee con curvatura molto regolare; • le superfici possono incontrarsi solo in due modi: o tre superfici si incontrano lungo una linea o sei superfici, che danno origine a quattro curve, si incontrano in un vertice; • gli angoli di intersezione delle tre superfici lungo una linea o le curve generate dalle sei superfici in un vertice, sono sempre uguali nel primo caso a 120 °, nel secondo a 109° 28’ 3. Il secolo successivo Frei Otto userà questi stessi principi fisici per le sue leggere tensostrutture. La sua architettura è stata da sempre fortemente legata alla natura, per molte ragioni lui «è sempre stato un fervido sostenitore - e spesso pro14


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vocatore - del costruire un edificio in armonia con, e non in contrasto con, la natura. Allo stesso modo, il raffronto tra le sue costruzioni e la maggior parte delle forme “biomorfiche” dell’architettura moderna, non poteva essere più grande. [...] Come uno scienziato, Frei Otto ha trascorso tutta la sua vita studiando i processi di formazione spontanea della natura. Come architetto, ha usato questi processi per sviluppare e costruire molte strutture. Sono costruzioni che rivelano con particolare chiarezza lo svolgimento della loro creazione. I processi di formazione spontanea sono quelli che, date una serie di condizioni specifiche e seguendo le predominanti leggi della natura, danno luogo a forme e costruzioni visibili in condizioni sperimentali»4. Dato il fatto che la loro formazione avviene senza l’intervento umano, si posso definire appunto spontanei. Queste formazioni, fisiche piuttosto che biologiche, sono il risultato di comportamenti di interazione con l’ambiente circostante, del tutto simili a quei comportamenti evolutivi tipici degli organismi viventi. Il messaggio strutturale di Frei Otto è chiaro, guardando le sue architetture, si riesce ad intendere da dove provengono le forme che vediamo. Scorgiamo in quelle complesse curve una sorta di genuinità derivata da una logica che, anche se non del tutto immediata, lascia trasparire una semplicità di fondo. «La percezione visiva di strutture naturali ha svolto un ruolo fondamentale nell’estendere la nostra comprensione intuitiva delle strutture artificiali. I rami di un albero, sollecitati dal proprio peso e da quello della neve o dal vento, suggeriscono la forma e il comportamento delle mensole, con le loro dimensioni più grandi alla base e più sottili alla sommità. La forma di un tronco c’introduce alle esigenze dei carichi di gravità nei grattacieli, che si accumulano dall’alto in basso. Grazie a queste esperienze primordiali proviamo un’istintiva perplessità alla vista delle colonne cretesi, più larghe in cima che alla base, ma accettiamo come naturale la forma della colonna dorica -fig.2-. [...] Sembra dunque che il messaggio semiotico della struttura raggiun16


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Colonna cretese

Colonna dorica

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ga il profano attraverso una serie d’intuizioni ataviche e che l’accumulo di tali intuizioni abbia come risultato un insieme di reazioni estetiche»5. La semiotica (dal greco σημεῖον semeion, che significa “segno”) aiuta a comprendere il messaggio dei segni in modo che a questi corrisponda ad un significato riconoscibile, è una disciplina che considera il segno come qualcosa che rinvia a qualcos’altro, dove il contenuto è passato attraverso qualcosa di materialmente presente per comunicare qualcos’altro di assente -fig. 3-. L’architettura in questione all’interno della semiotica può essere vista come il prodotto di una volontà comunicativa da parte dell’uomo attraverso la creazione di oggetti simbolici, come per esempio sono la piazza e la finestra per Umberto Eco (1932-2016). Egli si chiede: posso godere di una finestra che è una finta finestra ache se non posso usarla, non posso affacciarmi ad essa? E si risponde: Posso anche dimenticarmi della funzione perché vedo la finestra in rapporto ad altri elementi di un ritmo architettonico così come chi legge una poesia, senza trascurare i significati delle singole parole, può lasciarli nell’ombra facendo balzare in primo piano un certo gioco formale di accostamento contestuale dei significati6. Con significati sia implicitamente che esplicitamente innovativi, l’architetto di tutte le epoche ha dato sfoggio di conoscenza e ha reso proprie delle architetture che per funzione e forma, erano comuni al tempo in cui operava. Grazie anche a questo si sono affermati i Maestri a cui oggi ci riferiamo, come Frei Otto. «L’impiego della struttura in architettura può introdurre un messaggio semiotico in due modi. Un edificio, per conseguire risultati estetici, può dipendere essenzialmente dalla sua struttura, anche se questo possa non essere evidente ai profani se la struttura è celata. D’altro canto, negli edifici in cui la struttura è quasi esclusivamente determinata dalle leggi della natura, il messaggio è strettamente legato all’azione strutturale e contiene un proprio messaggio. Comunemente si pensa che i messaggi puramente strutturali abbiano origine nella nostra comprensione intuitiva del comportamento strutturale, che deriva sia dalla nostra esperienza fisica quotidiana con le azioni 19


strutturali sia dalla nostra percezione delle forme strutturali in natura»7. Ricordiamo che dalla natura si possono prendere i principi, ma non le soluzioni finali e c’è una discrepanza fondamentale tra le strutture naturali e quelle antropiche nella concezione funzionale. «Il principio dell’inversione [NdA, di strutture sospese] è una scoperta umana. Archi e volte sono invenzioni strutturali piuttosto che il risultato immediato di un processo di ricerca formale, come invece è il caso della curva catenaria. L’inversione dalle forme appese alle forme erette, con la conseguente formazione di strutture senza momento, non si verificano in natura. Il principio è stato formulato inizialmente nel 1676 da Robert Hooke. Ci sono schizzi di Christopher Wren di catenarie usate per sviluppare la costruzione le linee di pressione per cupola della Cattedrale di St. Paul a Londra. È stato Antoni Gaudì che finalmente ha usato il principio dell’inversione come un vero e proprio metodo per ricavare la forma architettonica. Ha usato modelli tridimensionali in cui si impiega sempre elementi di trazione lineari piuttosto che reti o tessuti»8. Essendo forme astratte dall’uomo, anche le regole che le ordinano possono essere governate dall’uomo, per l’appunto, si è scoperto che negli archi catenari o funicolari della stessa lunghezza, quanto maggiore è l’altezza, tanto minore è la spinta orizzontale alla base e nella chiave dell’arco; viceversa le spinte orizzontali aumentano considerevolmente quando l’altezza diminuisce, questo comportamento avviene per ragioni di equilibrio. Gaudì era conscio di questi principi, ed essendo certo che gli archi più alti e snelli sono quelli che hanno minore spinta laterale, li impiegò maggiormente per costruire le sue meravigliose architetture. Per capirli si è valso di metodi di studio intuitivi, per certi versi comuni all’esperienza di Frei Otto, che soggiacciono alle regole della fisica, dove quindi per comprendere il loro comportamento strutturale è stato necessario studiare le caratteristiche geometriche della funicolare. Il progetto di studio per la Cappella della Colonia Güell (1898), che non fu mai realizzato, è emblematico per la maniera sperimentale che l’architetto catalano ha utilizzato. Attraverso un modello funicolare -fig. 4- composto da corde, pesi e tele 20


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è riuscito a ricercare la forma ottimale, ottenuta dai sovraccarichi, dalla stessa, invertendola, ha ricavato poi il volume esterno. «La singolarità di Gaudì consiste nell’applicare l’arco catenario anche a problemi tridimensionali»9, come nel modello per la Colonia Güell. Questo progetto fornì la base che gli consentì più tardi di trovare graficamente le funicolari della Sagrada Familia a Barcellona, egli afferma che entrambi i progetti sono uguali, che sono figli della stessa logica; logica che esprimeva così: Calcolo tutto: dapprima, ipotizzo alcuni pesi per definire la funicolare; poi verifico la funicolare ottenuta con forme e materiali, i cui pesi torno a verificare; a volte vario leggermente le funicolari. In questo modo matura la forma più logica, che nasce dalla necessità10. Il metodo empirico (dal greco, esperienza) è un tipo di ricerca che basa le conclusioni sull’osservazione di fatti. Il conseguente accrescimento del bagaglio di esperienze, basato sull’osservazione dei fenomeni naturali, è stata la risorsa per la intuizione di molti dei suoi problemi. Gaudì riusciva ad interpretare aspetti grandiosi della vita semplificandoli in maniera poetica, grazie a ciò riusciva ad intendere le sue catenarie, ed a spiegarle: «La gravità è una forza che agisce in direzione radiale (non parallela), pertanto una catenaria compressa è una curva che si chiude verso il centro della terra»11. Queste interessanti visioni delle questioni riguardanti la sua architettura sono state il perno della sua concezione. «La ricchezza dell’arte di Gaudì consiste nella riconciliazione tra fantastico e pratico, tra soggettivo e scientifico, tra spirituale e materiale. Le sue forme non furono mai arbitrarie, ma radicate nei principi strutturali e in un complesso mondo primitivo, ricco di significati sociali e simbolici. La struttura della Sagrada Familia e i progetti come quello per la cripta della Cappella della Colonia Güell, furono basati sull’ottimizzazione di forme strutturali che condussero l’architetto a variazioni sulla forma parabola [NdA, parabola e catenaria sono due forme molto simili nell’aspetto, anche se concettualmente hanno due processi for22


mativi differenti, possono essere a volte usate come sinonimi]. Gaudì fu dunque molto più “razionalista” di quanto possa far supporre un esame superficiale della sua opera e le sezioni della chiesa reggono il confronto non solo con quelle di cattedrali gotiche, ma anche con alcuni disegni di scheletri strutturali di Viollet-le-Duc. Ma neppure l’appellativo “razionalista” rende giustizia a Gaudì, uomo dalla religiosità profonda, convinto che le qualità materiali dell’architettura dovessero essere manifestazione di un ordine spirituale. Egli intuiva la presenza di questo ordine nelle strutture presenti in natura, che sentiva come un riflesso diretto della Madre Divina. Le “leggi” strutturali, quindi, non erano quelle di una materialità solamente fisica, ma evidenza del Creatore. In particolare la parabola, con la sua stupenda economia, diventava un emblema del sacro»12. La natura fisica o spirituale degli oggetti e le modalità attraverso le quali essi sono percepiti, ha trovato una relazione singolare e di interesse estetico, per cui l’oggetto snello slanciato che si sviluppa verso l’alto, diventa anche simbolo di ascensione e di elevazione dello spirito dopo la morte, come nel caso dei cipressi. Sin dal tempo dei romani, anche grazie al fatto che le radici avendo uno sviluppo a fuso sono poco invasive, ci guida lungo i viali di entrate ai cimiteri e orna gli spazi interni. Così si parla di una volta celeste quando si guardano gli astri o si fanno riferimento a forme “democratiche” come il cerchio, quando si parla di Dio o delle origini divine di qualche antica popolazione. La struttura per certi versi può dunque essere vista come una forma dell’espressione che è la necessità dell’essere funzionale dello stare in piedi, e come una forma del contenuto che è la funzione dell’edificio, il linguaggio al quale si tende. In L’architettura nel contesto della cultura (1987), Jurij Lotman (19221993) esprime sotto forma di saggio l’idea che l’architettura è immagine di se stessa e che «lo spazio architettonico è semiotico. Ma lo spazio semiotico non può essere omogeneo: l’eterogeneità struttural-funzionale è l’essenza della sua natura. Da ciò deriva che lo spazio architettonico è sempre un insieme. Un insieme è un intero organico nel quale unità 23


varie e autosufficienti intervengono come elementi di un’unità di ordine più elevato; restando intere diventano parti, restando diverse, diventano simili. Una casa (abitativa) e un tempio sono in un certo senso opposti tra loro: come il profano al sacro. La loro contrapposizione dal punto di vista della funzione culturale è evidente e non richiede ulteriori riflessioni. È più importante sottolineare ciò che hanno in comune: la funzione semiotica di ognuno di essi ha vari gradi e aumenta quanto più si avvicina al luogo della sua più alta manifestazione (centro semiotico). Allo stesso modo la santità aumenta man mano che dall’entrata ci si avvicina all’altare»13, in maniera identica a quando ci si avvicina al cuore della casa tradizionale giapponese dove viene posizionato il Toko no ma, una nicchia praticata nella stanza principale, sul muro perpendicolare al giardino. È posizionato sempre in spazi bui «in cui volta per volta si usa esporre un quadro o qualche fiore. Tali oggetti non mirano tanto a ravvivare l’ambiente, quanto ad aggiungere, al buio, una dimensione cava»14, simboleggiandone la delicatezza e la sacralità dello spazio.

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3. Stereotomia

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a struttura è semplicemente struttura, parla di se stessa e sinceramente appare sotto gli occhi di tutti, anche quando è celata da un rivestimento spesse volte è possibile intuirne i connotati.

Proprio nell’apparire esteriore sta la sua forza, al di là della forma pura è comunque il primo messaggio che ci arriva nel momento dell’osservazione. Il legame che ha con l’ornamento, infatti, è reso noto attraverso il linguaggio esplicito che entrambi hanno nel mostrarsi, essi possiedono un’identità propria, che diventa una relazione a volte potente a volte ambigua, così come le colonne della basilica di San Marco che sono una mescolanza di marmi che si portano dietro una serie di informazioni storiche, colori e significati, possono diventare perfino istruttive ai nostri occhi. Fino all’epoca moderna, la scienza dei materiali non ha mai avuto un radicale cambiamento, sino l’avvento della ghisa, la quale comunque non spodestò subito i materiali tradizionali, come mattoni e pietre per l’edificazione di nuovi manufatti. Le forme e l’estetica delle antiche costruzioni potevano essere pensate con tecniche costruttive basate sull’uso di piccoli elementi modulari, ma anche, in caso di una precisa volontà ornamentale aver disegni e dimensioni singolari per ogni elemento. La stereotomia (dal greco: Στερεός “solido” e Τομή “taglio”) basa la sua scienza sull’insieme di conoscenze 25


geometriche e tecniche tradizionali relative alla tracciatura ed al taglio dei blocchi e dei conci in pietra, con il fine di assemblarle in più o meno complesse strutture architettoniche. Per lo sviluppo volumetrico della geometria solida degli elementi, gli umanisti del tempo si sono basati sulla rappresentazione stereometrica, la quale essendo la parte della geometria che si occupa dello studio e della misurazione dei solidi, diventava il mezzo di comunicazione per l’esecuzione dei progetti. La notevole complessità di queste tecniche antiche, è basata su «tre principi-invariati caratterizzanti e imprescindibili nella definizione di architettura stereometrica: • invariante ‘prefigurativo’, ovvero la capacità di suddividere un continuo architettonico in opportune parti (apparecchiatura); • invariante ‘tecnico-geometrico’, ovvero la capacità di definizione geometrica puntuale dell’elemento concio (tecnica proiettiva); • invariante ‘statico’, ovvero la capacità di assicurare l’equilibrio meccanico del sistema architettonico giuntato a secco (meccanica dei corpi rigidi). [...] L’invariante meccanico fu enfatizzato da Charles Perrault secondo la definizione a lui attribuita, per cui la stereotomia è l’arte di servirsi del peso stesso della pietra per farla sostenere in alto dalla stessa forza che la farebbe cadere in basso»1 -fig. 1-. La sagacia di Philibert de l’Orme (1514-1570) nell’interpretare quest’arte è emblematica per apprendere la sua efficacia nel risultato finale. L’esperienza dell’architetto è fortemente legata alla esaltazione di metodi pratici ed economici per le costruzioni, infatti il culmine della carriera di P. de l’Orme arriva nel 1561, quando «su suggerimento di re Enrico II, del quale è architetto, pubblica le Nouvelle Invention pour bien bastir et à petit frais, trattato in cui descrive una tecnica di carpenteria di sua invenzione che permette, tra le atre cose, di realizzare opere di eccezionale portata servendosi di piccole assi»2. Sempre sotto l’ala dei reali di Francia, una quindicina d’anni prima, prende in mano la realizzazione del castello Anet, edificato per Diana di Poitiers, amante del re. Nonostante la scarsità di documenti relativi alle fasi della costruzione, si è certi del fat26


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to che P. de l’Orme iniziò ad interessarsi al castello nel dicembre 15473. Il progetto è l’applicazione di una serie di esperienze maturate nel corso degli anni della personale formazione accademica. Uno degli esempi più immediati della sua ampia conoscenza della materia, è il frontespizio del corpo principale del castello che «trae origine dagli studi dedicati da P. de l’Orme l’architettura del rinascimento italiano maturo. Il termine di paragone più prossimo può essere individuato nel campanile della chiesa di San Biagio a Montepulciano, di Antonio da Sangallo i Vecchio»4. Il tema estetico del frontespizio è utilizzato su tutto il castello e si basa sull’attento progetto di studio stereometrico. Quasi ogni singola parte è composta da pietra tagliata stereotomicamente, così da formare delle superfici uniche e pregevoli alla vista, così la cappella di Anet diventa «una delle invenzioni più ingegnose e più riuscite di Philibert de l’Orme. Si tratta di uno spazio centrale rotondo, cupolato, circondato da un portico di accesso e da tre cappelle identiche, i cui perimetri esterni stanno su una circonferenza concentrici a quella della cupola. [...] La struttura della cupola è una semplice semisfera, dotata di un’apertura circolare alla sommità come la cupola del Pantheon, ma coronata da una lanterna. La disposizione dei costoloni diviene occasione di ingegnose sperimentazioni»5, la pietra in questo caso diventa allo stesso tempo disegno ornamentale e strutturale, qui le due funzioni convivono in una splendida armonia architettonica e nonostante la complessa geometria, l’effetto d’insieme dello spazio interno rimane volumetricamente semplice. Forse però, il migliore esempio di architettura stereotomica viene dalla trompe del cabinet du Roy -fig. 2- ed «è una delle invenzioni di cui l’architetto si mostra più fiero. Costruita sul fronte verso il giardino, nell’angolo formato dal corpo principale del castello e dal padiglione che sporgeva all’estremità est, consentiva l’accesso diretto al cabinet della stanza del re collocata nel padiglione. L’incisione che illustra la trompe giustifica il rammarico di P. de l’Orme per l’incapacità degli incisori, ma le tavole che ne illustrano il metodo di costruzione sono molto precise, e non forniscono solo informazioni generiche, ma mostrano esattamente la maniera nella quale ciascuna pietra dev’essere tagliata. La trompe va 29


considerata come il massimo esempio dell’abilità di P. de l’Orme come tagliapietre fedele alla tradizione francese tardomedievale»6. La base materiale di tutto ciò risiede nell’impiego del cuneo. Questo prisma elementare ha attributi tali da essere la base fondante delle architetture autoportanti di P. de l’Orme, prima fra tutte le trompe. Essenziale nella forma e nei meccanismi di funzionamento, il cuneo è una delle più efficaci macchine semplici al servizio dell’uomo. Questa forma basilare è chiamata così perché non la si può scomporre in macchine ancora più elementari, inoltre il suo meccanismo di trasferimento delle forze è una delle tecnologie più antiche mai intuite e sviluppate dall’uomo. Utilizzando il peso stesso della pietra, la forza di gravità e la giusta forma, si viene a formare un gioco di incastri che porta ogni elemento a spingersi l’un l’altro, sorreggendosi in un sottile equilibrio quasi irreale. Come dice Francesco Defilippis (1966), «la forma e il peso sono i fattori che, grazie alla forza di gravità, fanno si che tutti i conci di una struttura siano coesi e solidali fra loro garantendone l’equilibrio. L’interpretazione più efficace del ruolo meccanico del concio all’interno delle strutture archivoltate è quello del cuneo. Il principio del cuneo, che oppone vittoriosamente la forma alla forza, è conosciuto fin dall’antichità: notevole convergenza della fisica e della geometria, della natura e dell’arte, ha permesso la costruzione di strutture complesse»7. Nello studio e applicazione di questa macchina «Philippe de la Hire (1640-1718) fu il primo che si accinse con successo a dare un’interpretazione statica dell’arco e il modello meccanico da lui scientificamente assunto per giustificare tale interpretazione è proprio il cuneo: la parte superiore dell’arco preme sulle inferiori così come il cuneo usato dai cavapietre per fendere un masso preme sulla superficie dello spacco. L’utensile di cantiere viene conciò incorporato nella costruzione e continua immobile a operare in essa, nel contrasto delle pressioni fra i letti dei giunti. [...] L’arco, in tutte le sue varianti geometrico-formali, è l’elemento portate orizzontale costitutivo del sistema murario continuo. Si tratta della forma naturale a cui tende la muratura quando si presenta la necessità 30


di superare un vuoto; per questa ragione arco e muro sono elementi legati da un rapporto di necessità costruttiva nonché di coerenza formale. L’arco in pietra, come la lama arcuata di una balestra, è da sempre unito all’idea di uno sforzo resistente, di un balzo per superare la distanza. Per tale motivo, l’arco è stato scelto quale monumento atto a proclamare gli onori del trionfo. Dal punto di vista costruttivo l’arco è, dunque, una struttura curva destinata al superamento di un vuoto, costituita da conci cuneiformi tenuti insieme dal loro peso e dalla forma dell’arco stesso»8. Tra le numerose variazioni di forma dell’arco, un caso limite è rappresentato dalla piattabanda, una sorta di architrave che conserva la struttura radiale dell’arco a cunei, ma che scarica tutte le forze di compressione nella medesima maniera. Il suo comportamento ha delle caratteristiche paradossali molto interessati, infatti se studiato applicando la teoria della linea delle pressioni (vedi cap. 5), si appura che è una struttura teoricamente perfetta, priva di possibilità di collasso, dove quindi la forma del cuneo non è base solo per una coerente architettura nella quale la forma estetica segue la funzione pratica. Si giunge alla conclusione che, «essi cederanno soltanto quando i carichi che portano vengono incrementati fino a raggiungere lo schiacciamento complessivo (uno schiacciamento locale può essere tollerato), o in alternativa se una delle pietre slitta al di fuori della costruzione»9, rendendo di fatto queste strutture infinitamente resistenti10, ma soprattutto, rendendo il cuneo un elemento autosufficiente che vive solo di un’azione elementare: la compressione. La trattazione di De la Hire è l’inizio di una chiave di lettura che basa la sua forza sul «riconoscere nell’arco la presenza di qualche macchina semplice»11. Il modello di questo solido euclideo pesante12 è di base nello studio del comportamento dell’arco intesa come struttura elementare che segue perfettamente il binomio forma-funzione, e da esso si si può partire per svilupparne l’aspetto formale. La presa di coscienza sull’efficacia di questa semplificazione è la base di un’invenzione dell’ingegnere francese, d’origine marsigliese, Joseph Abeille (1669-1752). Il brevetto che fu pubblicato nel 1699 nel trattato 31


Machines et inventions approuvées par l’académie Royale des Sciences è una delle ricerche più semplici ed efficaci allo stesso tempo sull’autoportanza di elementi tagliati modularmente in pietra. Da questo trae spunto “Stone Matters” un progetto dello studio AAU Anastas che coniuga l’antico processo palestinese di taglio della pietra e con le modalità contemporanee di costruzione dell’architettura. Il progetto si basa su un principio costruttivo innovativo che permette forme inusuali per questo tipo di costruzioni. L’innovazione architettonica nasce dalla forma della struttura e dalla stereotomia, tanto è vero che l’intera struttura è realizzata con 300 pietre dalla forma identica, che si supportano reciprocamente -fig. 3-. Tuttavia uno dei risultati più notevoli, che mette assieme la semplicità del cuneo con la stereotomia, la ricerca estetica con le nuove conoscenze strutturali e possibilità tecnologiche, è la Armadillo Vault, la pionieristica volta costruita dal Block Research Group, utilizzando superfici parametriche modellate a computer e nessun tipo di altro materiale se non la pura e semplice pietra. La volta offre una riflessione sulle soluzioni tecnologiche e sulla ricerca di forme espressive innovative re-interpretando i principi delle strutture storiche, come le volte di Rafael Guastavino (1842-1908) e metodi grafici per l’analisi strutturale. Emblematico è il titolo dato alla mostra della quale la volta è il progetto principale Beyond Bending ovvero “Oltre la Flessione”, infatti la volta è composta da 399 conci di pietra saldati tra loro solamente mediante le forze di compressione -fig. 4-. Tagliati singolarmente uno ad uno, si innestano lungo tutto lo sviluppo della superficie, riducendo il materiale impiegato, quindi il peso complessivo dell’opera. Pregevole è anche l’idea di continuità materica nell’intradosso, che viene creata grazie al tipo di taglio scelto in funzione di un’ottimizzazione dei tempi di produzione (il progetto è stato compiuto in soli 5 mesi), che ne avrebbero impedito il montaggio alla Biennale di Architettura di Venezia 2016. I ricercatori del BRG combinano il processo ideativo digitale e lo studio delle tecniche e dei metodi tradizionali delle architetture del passato, sperimentando soluzioni possibili per la realizzazione delle volte. In questo modo rinnovano la conoscenza delle 32


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architetture del passato applicando le tecnologie attuali alla ricerca di forme e soluzioni tecnologiche, per la definizione di strumenti innovativi al servizio della progettazione architettonica. La componente innovativa del progetto risiede nel processo più che nella tecnica, la sua potenzialità è nella capacità di verifica statica sul modello digitale delle superfici tridimensionali e sulla possibilità di controllo formale attraverso la simulazione computerizzata. Forma, peso e forza di gravità, sono dunque gli ingredienti della stereotomia, che esiste grazie alla semplicità del cuneo e la sua efficace geometria. Aggiungendo a tutto ciò lo studio delle forme arcuate si riescono a ricavare delle strutture sorprendentemente leggere, dove lo sforzo dei materiali viene meno, lasciando spazio a un’eleganza che oltre a connotare esteticamente l’architettura, è essenza stessa del semplice funzionamento del progetto.

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4. Poligono funicolare

L’

intima natura delle architetture finora trattate è legata alla logica statico-meccanica della loro concezione originaria. Le preziose soluzioni riguardanti l’equilibrio delle costruzioni in

pietra o delle tensostrutture, derivano direttamente dallo studio di alcuni scienziati della seconda metà del XVII secolo1 che hanno fatto della composizione delle forze e dei movimenti, la base di una nuova meccanica. «La svolta che si è verificata è stata veramente radicale, benché, in ultima analisi, non riguardasse l’introduzione di nuove travolgenti verità, ma una diversa organizzazione di concetti più o meno noti, più o meno presagiti. Ne è nata infatti una nozione più astratta e generale di forza, interamente affidata alla sua descrizione geometrica: [...] fintanto che la forza esprime semplicemente la descrizione o la misura di un fatto fenomenologico, essa resta confinata al rango dei modelli concettuali con i quali la fisica riveste la realtà, traendo pur sempre dall’esperienza le indicazioni necessarie per connotarli. Ma nel momento in cui la forza viene immediatamente associata a opportune regole che ne governano la composizione e la decomposizione, essa diventa il possibile termine di un linguaggio in certa misura autonomo o automotivato. Ossia il concetto di forza si distacca quasi dalla realtà fisica che lo ha prodotto e comincia a vivere di una vita propria, essendo identificata»2. Negli autori seicenteschi si possono rintracciare le basi di questo nuo35


vo linguaggio, in particolare Gilles Personne de Roberval (1602-1675) e Pierre Varignon (1654-1722). Quest’ultimo con il fondamentale trattato Nouvelle Mécanique, uscito postumo nel 1725, sviluppa decisivamente il concetto associato alla regola di composizione delle forze, di tradizione classica, e la corrispondente regola del parallelogramma per la determinazione della forza risultante: Quale che sia il numero delle forze o delle potenze, dirette in modo qualunque, che agiscono insieme sullo stesso corpo, o questo corpo non muoverà per niente, o non seguirà che un solo cammino e seguendo una linea che sarà la medesima che si sarebbe avuta se questo corpo, invece d’essere così spinto, pressato o tirato dalle forze agenti contemporaneamente, fosse sollecitato, seguendo la stessa linea o lo stesso senso, da una sola forza o potenza equivalente o uguale alla risultante del concorso di tutte.3 La composizione delle forze ha le sue prime applicazioni attraverso metodi grafici ad inizio ‘800 negli studi di geometria proiettiva di Jean Victor Poncelet (1788-1867). Egli ne riconobbe la validità nel campo del dimensionamento delle varie parti delle costruzioni per velocità di analisi e affidabilità nell’approssimazione. Questi metodi, detti grafici, applicati alla teoria delle volte e dei muri di sostegno, furono pubblicati nel trattato di Poncelet Memorial de l’officier du génie (1840) e da questo punto in avanti si inizia a definire tutta quella analisi e progettualità disegnata, che già era conoscenza applicata, ma alla quale mancava una precisa dimostrazione e definizione. «Alla base di tutta la statica grafica sta l’identificazione della forza con un segmento orientato»4 e Karl Culmann (1821-1881) ne è il padre fondatore -fig. 1- ; ha il merito di averla condotta ad un livello di perfezione attraverso lo studio della geometria e di aver posto le decisive basi per una rivoluzione linguistica anche grazie «la prima tavola della statistica grafica a scopo di progettazione strutturale, che gli ingegneri del 1900 hanno applicato al disegno strutturale di reticolari, travi e archi»5. 36


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«Che molte questioni statiche potessero trovar soluzione in qualche costruzione geometrica era cosa nota sin dal tempo degli schizzi leonardeschi»6, ma il passo essenziale che ha condotto Culmann è stato identificare e confinare la forza ad un piano bidimensionale, rendendo la sua analisi molto semplificata, in quanto questa, disegnata su un foglio di carta, simboleggia realmente la forza (peso) di un corpo e quindi è interagibile con altre di verso e direzione differente. Grazie a ciò si riesce a definire a definire una risultante e mediante questa sintesi ad avere una fedele astrazione di un corpo. Essa è l’insieme di tutte le forze che compongono il sistema statico e da questo momento è identificabile facilmente, diventa pertanto ancora più facile ricavare da quella misteriosa regola del parallelogramma, che è base del poligono delle forze (kräftepolygon) e del poligono funicolare (seilpolygon), una soluzione strutturale. Ricavare la dimensione risultante delle forze è la costante ricerca di questi metodi, l’armonia che la proiezione sul foglio rende alla costruzione di questi disegni, restituisce un quadro generale del tutto unico del sistema di forze concorrente su un oggetto effettivamente reale. Nei modelli con figure geometriche astratte si posso trovare costruzioni grafiche spedite e particolarmente comode, dove concretamente tutto quello che viene rappresentato diventa sorprendentemente accurato e conforme alle realtà dei fatti. Il poligono funicolare che rappresenta la flessione di un cavo reale (ovvero gravato solo dal peso proprio), è composto da una serie di triangoli tanto più acuti, tanto più il numero delle forze è maggiore. Il suo svolgimento in poligono delle forze diventa emblema del disegno stesso che rappresenta perché raffigura l’esatta e migliore disposizione della linea di carico derivata dal peso proprio del cavo. La caratteristica più interessante di questo disegno sta nel fatto che il poligono delle forze specchiato rispetto ad un asse di simmetria orizzontale prende il nome di antifunicolare dei carichi. In esso le forze di trazione pura, che avevano formato la geometria, si tramutano in forze di compressione pura. Per tale motivo l’antifunicolare è la forma più adatta per creare le strutture con materiali non resistenti a trazione, come quel38


le in muratura e in pietra. «Le strutture nelle quali la resistenza viene ottenuta dando al materiale una forma adatta al carico che debbono sostenere si chiamano strutture resistenti per forma [NdA o forma-resistenti]. Le membrane portano il carico per effetto della loro curvatura; esse appartengono perciò alla categoria delle strutture resistenti per forma, nelle quali la forma consente di portare i carichi per trazione. Una membrana progettata per resistere a trazione a certi carichi e sottoposta capovolta ad essi diventa l’antifunicolare bidimensionale relativa a quei carichi, cioè una struttura resistente per forma in cui si sviluppano solo tensioni di compressione. [...] L’efficienza dei gusci sottili dipende dalle curvature e dalle torsioni in essi presenti; per comprendere il loro comportamento strutturale è necessario innanzitutto studiare le caratteristiche puramente geometriche»7. La forma geometrica delle strutture assume un carattere fondamentale quando si parla di oggetti di grandi dimensioni. L’aspetto estetico spesso gradevole, è solo una delle conseguenze di un pensiero che ha le sue radici nell’efficenza strutturale. Queste strutture possono assumere forme estremamente varie e con grandezze altrettanto varie, perché non è importante la quantità di materiale utilizzato o la funzione che gli si vuole far adempiere, quello che ne determina l’aspetto è il tipo di sollecitazione che gli si vuole far sopportare. Così si intuisce che un foglio di carta comune, se preso in mano da una estremità, si affloscia sotto il proprio peso, mentre lo stesso, se è arcuato leggermente verso l’alto, riesce a sostenere non solo il proprio peso, ma anche quello un oggetto estraneo. La similitudine con le strutture reali è totale. Se si associa il medesimo foglio di carta alle tribune per l’ippodromo De la Zarzuela a Madrid, progettate dall’ingegnere spagnolo Eduardo Torroja (1899-1961) negli anni ’30, si nota l’estrema somiglianza di forma e spessore. La capacità portante della copertura non è data dal materiale impiegato, bensì dall’opportuna forma. L’incurvatura con la concavità, in questo caso, verso il basso, aumenta la rigidezza e la capacità portante del cemento armato in quanto sposta una certa quantità di materiale rispetto all’asse neutro, in modo che la rigidità a flessione della copertura, considerata 39


come una trave semplice, risulta notevolmente accresciuta. Tutto il peso viene scaricato sui due appoggi sulla quale ciascuna vela poggia, e viene ripartito in egual misura attraverso la semplice forma ad archi della sezione trasversale, la quale, complice la simmetria, fa anche in modo di distribuirlo in maniera uniforme su tutta la superficie della copertura. Questa può considerarsi una ricerca di minimo perso, che è appunto il tema caratteristico dell’ottimizzazione strutturale. Ovviamente arricchendosi di nuovi aspetti tecnologici e materiali innovativi, le possibilità di migliorare il risultato finale si sono ampliate fino a spingere al massimo i limiti di resistenza. Mirabile è il Cosmic Ray Pavilion di Félix Candela (1910-1997) costruito nel 1951 per l’università UNAM di Città del Messico, che nonostante le discrete dimensioni di base, ha un guscio hypar (paraboloide iperbolico) di copertura spesso solamente 15 millimetri nella parte più alta8. La statica grafica è quindi la base per immaginare gli effetti della forza di gravità, di come questa scorre all’interno del materiale. I limiti espressivi legati alla tecnologia possono essere sempre trascesi, mano a mano che la comprensione di queste forme accresce. Il disegno e la geometria descrittiva diventano qui elementi fondativi dello studio formale essendo il disegno il metodo migliore per sublimare un’immagine, qui si possono rintracciare le basi per creare un corrente progetto, prodotta da quelle stesse linee che sono sia la più efficiente formula meccanica sia una armonica architettura.

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5. Linea delle pressioni (o linea di spinta o curva delle pressioni)

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er ciascun insieme di carichi, distribuiti o concentrati, simmetrici o asimmetrici, esiste una particolare forma di arco per la quale l’intera sezione è completamente soggetta a compressione, la

cosiddetta forma funicolare. Con un carico simmetrico e uniformemente distribuito, la sagoma che prende quest’ultimo è detta catenaria perché è la curva che assume una catena quando, legata alle due estremità, viene lasciata libera di pendere. Flettendosi sotto il proprio peso, si adagia disegnando una linea che oltre ad essere esprimibile matematicamente attraverso il coseno iperbolico, è anche facilmente intuibile e progettabile in termini plastico-estetici. Il poligono delle forze, descritto nel capitolo precedente, è anche la rappresentazione grafica della linea delle pressioni che agisce sulla struttura la quale in questo caso assume la medesima forma funicolare. Questo fatto la rende essa stessa la forma più efficiente per antonomasia, essendo che tutti gli sforzi prodotti vengono trasmessi per trazione all’interno della sezione del materiale. Inoltre ha un’altra importante caratteristica, se invertita diventa l’antifunicolare che perfettamente assorbe e scarica i pesi ad esso applicati attraverso la pura compressione. Robert Hooke (1635-1703) aveva per primo intuito la relazione esistente tra una catena in equilibrio sotto carichi assegnati ed un arco soggetto agli stessi carichi avente forma identica ma rovescia. Sono importanti 41


a riguardo i suoi studi sulle curve catenarie e sulle linee delle pressioni condotti a partire dal 1676, dei quali si può trovare un esempio della loro applicazione nelle tre cupole della cattedrale di St. Paul a Londra -fig. 1-. «Si dice linea delle pressioni (o linea di spinta o curva delle pressioni) l’insieme delle rette d’azione delle successive forze risultanti che agiscono su una struttura, o meglio, che agiscono come reazioni vincolari»1, per tracciarla è sufficiente un’elementare costruzione geometrica costruita a partire dalla determinazione del poligono delle forze delle forze passante per tre punti: il punto C in chiave, il punto A e il punto simmetrico B posizionati agli estremi dell’elemento studiato. Le strutture si possono classificare in due gruppi a seconda di come esse reagiscono alle azioni esterne: un primo gruppo funziona per massa, un secondo gruppo per forma. Appartengono al primo gruppo per esempio, le travi che rispondono alle sollecitazioni in relazione al valore del momento d’inerzia della sezione, o i muri che reagiscono con il proprio peso. Gli archi le volte le cupole, invece, appartengono al secondo gruppo, sopportando i carichi esterni per opera della loro forma geometrica. A questo stesso gruppo fanno parte anche le travature reticolari, che pur apparendo formalmente come una trave, hanno comportamenti simili alle prime. Una delle caratteristiche delle strutture che lavorano per forma è che sono strutture ottimizzate, esse difatti tendono a lavorare solo a sforzo normale centrato (trazione o compressione pura), e questa loro caratteristica consente l’ottimizzazione del materiale, a differenza delle strutture inflesse. L’efficienza della struttura è massima quando essa è soggetta solo a queste due forze elementari, ossia quando la linea dell’asse della sezione coincide con la linea delle pressioni generata dal peso proprio e sovraccarichi eventuali. «A meno che non si sia ingegnosi quanto la natura, progettare strutture in trazione è un’attività piena di difficoltà complicazioni e trappole insidiose per gli incauti. [...] Per questa ragione i nostri antenati evitavano in genere il più possibile le strutture in trazione e cercavano di usare costruzioni in cui tutto era in compressione. Il modo di gran lunga più antico e più soddisfacente di fare ciò consiste 42


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nell’usare la muratura. L’immenso successo delle costruzioni in muratura è stato in realtà dovuto a due fattori. Il primo è quello ovvio di evitare gli sforzi a trazione, specialmente nelle giunzioni; la seconda ragione è forse meno ovvia ed è che la natura dei problemi connessi con la progettazione di grandi costruzioni in muratura è singolarmente adatta ai limiti di menti che si trovano a uno stadio prescientifico»2. Nella ricerca scientifica riguardo la comprensione del comportamento degli oggetti e delle relazioni che si instaurano tra essi, Isaac Newton (1642-1727) fu il primo a dire che l’azione e reazione sono uguali e contrari, in altre parole la forza non può andare persa e quindi non può far altro che scorrere lungo una linea all’interno del materiale. Ciò è implicito nella terza legge del moto: Per ogni forza che un corpo A esercita su di un altro corpo B, ne esiste istantaneamente un’altra uguale in modulo e direzione, ma opposta in verso, causata dal corpo B che agisce sul corpo A. Dalla quale si intuisce che «il peso del mattone, come il peso della mela di Newton, è dovuto alla unione della gravità terrestre sulla sua massa ed esercita continuamente una spinta verso il basso. Se si vuole che il mattone non cada, esso dovrà essere sostenuto nella sua posizione a mezz’aria da una forza verso l’alto, o trazione, nello spago, che sia continua, uguale e opposta. Se lo spago è troppo debole, così da non riuscire a generare una forza verso l’alto uguale al peso del mattone, allora lo spago si romperà e il mattone cadrà a terra - ancora una volta come la mela di Newton»3. Una sorta di equilibrio estatico, dove nulla accade per caso, tutto si trasforma, e soprattutto dove il controllo della forza gioca la singolare funzione di tracciatrice delle forme. Charles Augustin de Coulomb (1736-1806) nell’Essai sur une application de maximis et minimis a quelques problemes de statique, relatifs a l’Architecture pubblicato nel 1773, affronta il problema dell’equilibrio delle volte prive d’attrito e dotate di attrito e coesione, dove per la prima volta l’obiettivo è la determinazione delle sollecitazioni che insorgono in una 44


volta di assegnate dimensioni e sagoma. Il problema fondamentale che Coulomb si pone è questo: In una volta per la quale siano assegnate la curva interna AB e la curva esterna ab, sono dati anche i giunti Mm perpendicolari agli elementi della curva interna: si richiedono i limiti della forza orizzontale S che sostiene questa volta, supponendo che essa sia sollecitata dal proprio peso, e sia trattenuta dalla coesione e dall’attrito.4 -fig. 2Per lo studio della volta, Coulomb considera le quattro situazioni limite che precedono la rottura: lo scorrimento relativo tra le facce nelle due direzioni e l’apertura del giunto per rotazione all’intradosso e all’estradosso -guardare fig. 2-. Per la sicurezza delle volte, questi quattro casi non devono accadere e per questo vengono identificati massimi e minimi limiti entro i quali la forza P (spinta orizzontale) in relazione con la Q (peso proprio della volta), verificate lungo tutta lunghezza e quindi variabili al variare di φ in P sen φ e Q cos φ, sarà sufficiente a sostenere tutta la volta senza romperla. I valori massimi e minimi di P vengono ricercati al variare della posizione φ del giunto critico sull’arco, però dopo l’analisi, Coulomb scopre e accetta l’indeterminatezza del problema dimostrando che in un certo intervallo ammissibile tutte le soluzioni sono ugualmente accettabili. Il suo lavoro combinato ai chiari principi espressi in questa teoria con le nozioni riguardanti la linea delle pressioni e i meccanismi di collasso, danno un’estesa base dalla quale iniziare un’analisi, valida per tutte le strutture arcuate e attuale anche per la progettazione. Più tardi, le sue convinzioni, verranno espresse nell’idea che ci sono parecchie linee delle pressioni che esprimono un singolo carico e bisogna averne, per ogni variazione, almeno una all’interno della sezione della volta, se no si formerà un meccanismo di collasso. Un ammirevole esempio che sfrutta i principi di questa teoria è il restauro della Cupola di San Pietro condotto da Giovanni Poleni (1683-1761), 45


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straordinario non solo per il manufatto in questione, ma soprattutto per il periodo storico nel quale viene formulata la soluzione. Infatti tutto l’apparato teorico a supporto della tesi di Poleni si basava su conoscenze empiriche ancora in via di sviluppo. Nel 1743 fu consultato da Papa Benedetto XIV, assieme all’architetto Luigi Vanvitelli, per il restauro della cupola, allora fessurata, e per determinare se fossero pericolose o meno. Il procedimento di indagine eseguito da Poleni consistette innanzitutto nell’immaginare una cupola ideale costituita di un materiale cui attribuì una densità media uniforme per compensare pieni e vuoti. In seguito determinò la configurazione di equilibrio di un filo sottoposto a 32 carichi, proporzionali ai pesi dei vari conci in cui aveva suddiviso lo spicchio di cupola, che aveva ottenuto dividendo in 50 parti l’intero angolo giro (formando così 25 archi quasi bidimensionali) -fig. 3-. La lunghezza del filo era stata fissata in modo che le sue estremità passassero, da un lato, per il baricentro della sezione d’imposta dello spicchio, il tratto centrale per il baricentro dell’anello terminale di chiave, in corrispondenza dell’innesto della cupola nel cupolino, rovesciando la curva di equilibrio del filo così determinata. Verificò poi che la suddetta curva era tutta contenuta all’interno dello spicchio considerato. La linea delle pressioni nella cupola, pur passando in chiave ed all’imposta per il baricentro delle relative sezioni dello spicchio, si discostava però dall’asse. In definitiva questa avrebbe dovuto avere una sagoma ancora di più ogivale. Ciononostante, l’equilibrio al suo interno, che poteva sussistere in presenza di sole sollecitazioni di compressione, era ammissibile essendo che la linea era contenuta all’interno della sezione e quindi la cupola venne cerchiata solo per aumentarne la stabilità. In parole più semplici, nei materiali continui soggetti a sforzi esistono una serie di tensioni che dal punto di applicazione si scaricano fino a terra, il precorso che compiono è semplificabile con delle linee. In riferimento ad una struttura se ne possono identificare di due tipi: • La linea di spinta passiva5. Questa è la linea di spinta che risulta dal peso della volta stessa e di tutte le cose che vi sono perfettamente col47


legate, come per esempio il muro che sostiene. • Le linee di spinta attive6. Queste sono le linee di spinta che risultano non solo dalle parti permanenti della costruzione, ma anche da tutti i carichi transitori che possono esservi applicati dalla pressione del vento o dal peso di cose quali la pioggia, la neve, i macchinari, la gente, e così via. La forma delle varie linee di spinta attive determina il modo in cui una struttura in muratura può essere sollecitata da un carico, senza pericolo. «Heyman è stato il primo a riconoscere chiaramente la portata del lavoro di Coulomb sotto questo aspetto, pur attribuendo a Poleni e a Gregory una sorta di priorità del concetto di linea delle pressioni e di sicurezza dell’arco quando questa linea sta tutta interna alla sezione della muratura. [...] Gregory aveva infatti dimostrato, come riconosce Coulomb, che la catenaria era la stessa curva che avrebbe fatto una volta formata da una infinità di elementi di spessore costante ed infinitamente piccolo ma aveva anche aggiunto, in un corollario, che per l’equilibrio gli unici fornici od archi compatibili sono quelli della curva catenaria e se un arco di qualsiasi altra forma si sostiene, ciò è per il fatto che nel suo spessore è inclusa una qualunque catenaria. Se è vero che la catenaria rovescia ha anticipato il concetto di linea delle pressioni, in quest’ultima osservazione pare effettivamente espressa l’intuizione che questa linea possa rimanere indeterminata, purché interna l’arco. La teoria della catenaria, già ripetutamente evocata nello studio delle volte prima dell’applicazione di Poleni, era dunque inadeguata a interpretare le loro reali condizioni di equilibrio; quando lo studio cominciò a interessare le volte con giunti di dimensioni finite e in presenza di attrito ciò apparve più chiaramente, e nella seconda metà del secolo XVII la teoria della catenaria fu progressivamente abbandonata, mentre quella di Coulomb, prima teoria completa ed esatta, apparve troppo in anticipo sui tempi e passò, come si è detto, sostanzialmente inosservata»7. Per spiegare meglio quanto questa linea sia autonoma ed importante 48


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per la reale stabilità, è utile analizzare l’esperienza occorsa a Isambard Kingdom Brunel (1806-1859), che costruì un ponte sul Tamigi, vicino la città di Maidenhead, fatto di due archi di mattoni, ciascuno con la luce di 39m e con una freccia soltanto di 7m. «Tanto il pubblico quanto gli esperti ne furono inorriditi, e i giornali pullularono di lettere al direttore che profetizzavano che il ponte non si sarebbe mai retto in piedi. Per tener viva la corrispondenza e la pubblicità, e forse per sollecitare il proprio senso dell’umorismo, Brunel rimandò il momento di togliere l’armatura di legno su cui erano stati eretti gli archi. Naturalmente si disse che aveva paura di farlo. Quando, un anno dopo, la centina fu distrutta da una tempesta, gli archi rimasero perfettamente in piedi. Allora Brunel rivelò che la centina, in effetti, era stata staccata di qualche centimetro dagli appoggi poco dopo aver completato la muratura di mattoni e che era stata completamente inoperosa per molti mesi. Il ponte è ancora lì, e vi passano treni circa dieci volte più pesanti di quanto avesse previsto Brunel»8. Di fatto, come osserva Heyman, è molto più difficile progettare un arco che crolli per davvero. Questa impresa fu, in effetti, compiuta da William Edward (1719-1789) a Pontypridd nel 1751. Le vicissitudini di questo ponte, però, sono state oggetto di sfortuna oltre che degli errori di progettazione di Edward, infatti, le prime due versionI sono state entrambe spazzate via dall’impeto del fiume Taff, la prima dopo pochi anni dalla realizzazione e la seconda quando nemmeno era completato. Il terzo progetto si impostò sulla base del secondo, ovvero con un’unica campata che avrebbe ovviato ai problemi di piena del fiume che aveva già causato il crollo del primo, ma l’eccessivo peso delle spalle ne causò il fallimento, con un cedimento per la formazione di un cinematismo. Il quarto e ultimo ponte -fig. 4-, è diventato memorabile come gli altri, ma questa volta non a suo discapito, bensì perché l’arco con la sua ampiezza di 43 metri, al momento dell’inaugurazione era uno dei maggiori archi della sua epoca e consacrò il successo del progetto e il progettista.

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6. L’arco come forma teoricamente perfetta

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i sono varie modalità per porre in essere l’efficacia di queste strutture, dalle semplici volte a botte alle più complesse superfici parametriche. Tutte le strutture forma-resistenti hanno

intrinseca una logica di equilibrio, regolatrice di dimensioni e proporzioni. La lista di queste è variegata sia per tipologia che per periodo di costruzione, ma in tutte si possono trovare elementi in comune sia nella nella perizia sia nel pensiero illuminato che le ha create. Se si vuole indagare meglio la tecnica, intesa come mezzo per arrivare, attraverso la conoscenza, alla creazione, bisogna porsi nella condizione precaria in cui fragilità e delicatezza sono le ipotesi per arrivare ad una migliore e raffinata estetica e composizione del manufatto. «L’architettura è l’arte dell’equilibrio?»1 Si chiede Roberto Secchi (1945),

docente alla Università La Sapienza di Roma, «eludiamo la prima e la più radicale delle domande presupponendo che si possa definire l’architettura un’arte - questione tutt’altro che risolta -, e attestiamoci sulla definizione classica di ars come abilità. Cosa che rimanda decisamente alla figura dell’architetto come faber, costruttore di spazi. Dunque, l’architettura sarebbe l’arte dell’equilibrio, ovvero chi la pratica avrebbe a che fare con l’equilibrio, dovrebbe essere dotato dell’abilità di far valere l’equilibrio»2. Detto ciò, ci si trova davanti ad un problema di definizione degli aspetti propri della questione, in altre parole è necessario definire una serie di 51


limiti dove il pensiero possa porsi in relazione con questo equilibrio. È possibile riconoscere nell’architettura due tipi di equilibrio, che sono in funzione alla misura della intensità delle forze che agiscono sulla costruzione; e alla proporzione tra le parti e gli elementi di un’opera, esteticamente legate all’idea di concinnitas, ovvero l’idea che le cose abbiano tutte una forma e un ordine. Per capire la prima affermazione è bene porsi nella condizione che «ogni oggetto ha una sua struttura che lo mette in grado di sussistere in uno stato di quiete secondo le leggi della fisica. Si potrebbe dire, semplicemente di esistere: un uovo, come un sasso, come un albero - forme naturali -, una colonna, come un arco, come una casa - forme architettoniche. Le diverse forme nelle quali gli oggetti si costituiscono devono tutti rispondere a tale requisito. Possiamo quindi immaginare le forme nelle quali si presentano ai nostri occhi gli oggetti architettonici come attraversate da sollecitazioni. Queste sottopongono a vari generi di sforzi le parti più intime delle materie di cui sono costituite. Lo studio della forma in architettura include pertanto la sua idoneità a resistere alle sollecitazioni e, poiché è soggetta innanzitutto alla gravità, a scaricarle al suolo. Nel segno delle leggi delle fisica, il raggiungimento dello stato dei equilibrio è la condizione della staticità dell’oggetto architettonico. [...] In riferimento alla seconda figura si possono ricordare la tradizione dell’estetica classica che indica nel raggiungimento dell’armonia conferita al prodotto lo scopo dell’arte e l’idea stessa di composizione come conclusione all’unità indistinta degli elementi e delle sue parti componenti. In architettura diceva André Wogenscky, - celebre collaboratore di Le Corbusier - “uno più uno fa uno”. La famosa triade vitruviana di firmitas, utilitas e venustas non ammette la prevaricazione di una categoria sulle altre ma prescrive il conseguimento del loro giusto equilibrio»3. La Hemeroscopium house -fig. 1-, costruita a nord di Madrid nel 2008 in una cittadina nella periferia, alle pendici del Parco Regionale De la Cuenca alta del Manzanares, è un’abitazione che ostenta equilibrio, dove la pesante struttura è disposta in modo che “la gravità modifichi lo spazio”. «Per i greci, Hemeroscopium è il luogo dove tramonta il sole. Una 52


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allusione ad un posto che esiste solo nella nostra mente, nei nostri sensi, che è in continua evoluzione e mutamento, ma che è comunque reale. È delimitato dall’orizzonte, dai limiti fisici, definito dalla luce e che muta nel tempo»4, il progetto è un gioco sapiente di forze che opportunamente dosate danno l’equilibrio necessario affinché un masso di granito di 20 tonnellate si stagli al di sopra di tutto e diventi la guglia più alta della costruzione. Tutto questo artificio è fine a se stesso, immagine di una forte volontà di stupire mettendo in soggezione i sensi, che turbati, si trovano in difficoltà nel capire se l’edificio è veramente in equilibrio, e se si, quanto. Indubbiamente la proporzione, intesa come composizione, è tema essenziale del progetto. Gli aspetti formali della Hemeroscopium house regolano l’ordine degli spazi, le gerarchie generali, dando il carattere al manufatto. Anche se i formalismi sono l’antitesi della corretta composizione, perché alla pesata unione si sostituisce la cieca ricerca di una forma che porta a distorcere gli scopi della creazione dello spazio, in questo caso sono coerenti con il concetto del progetto ed assumono un’importanza essenziale per comprenderlo. L’accostamento equilibrato di forme, colori e materiali è il meccanismo per il quale si può progettare uno spazio ben riuscito dal punto di vista funzionale, dove la forma segue lo scopo per la quale è stato progettato e per assurdo può essere cambiata seguendo il variare delle necessità. Così fa OMA per il progetto Tranformer (2009), pensato per Miuccia Prada in occasione di una serie di eventi organizzati dal marchio di moda a Seul. Il progetto architettonico-compositivo è, ad ogni modo, il risultato di una attenta mescolanza, che come i colori riesce ad arrivare al tono giusto, equilibrato, attraverso una giusta sintesi; infatti la gamma cromatica è immensa, nonostante lo spettro luminoso visibile dall’uomo abbia un intervallo limitato. «Il colore è il luogo dove s’incontrano il nostro cervello e l’universo dice Cézanne in quell’ammirevole linguaggio da artigiano dell’Essere che Klee amava citare»5 e meravigliosamente, tutta questa potenza espressiva ha modo di essere regolata. 54


Questa possibilità di combinazioni pressoché infinita ha per base un semplice trinomio di colori: giallo-rosso-blu, più bianco e nero per la luminosità. Come per i colori c’è un “livello base” anche per studiare la tecnica dell’equilibrio è bene porsi in queste condizioni, che sono più adatte a far emergere le virtù di quello che si vuole capire. Le forme circolari, triangolari o esagonali, sono molto presenti in natura e forse sono anche le più basilari per raggiungere questo scopo. L’arco segue una logica di gravità, di infinita attrazione verso il centro o un punto centrale, sia esso la Terra o il centro della propria circonferenza. Questa irresistibile attrazione produce una necessità di spostamento che conduce, paradossalmente, alla stabilità. Ogni elemento vuole arrivare al punto d’origine, ma siccome la fisica non permette discriminazioni, tutti gli elementi simili hanno la stessa attrazione e quindi la stessa precedenza ad arrivare per primi, così si incastrano in una forma perfetta. Il ponte a conci, sia che essi siano di pietra, mattoni o altro, ha la giusta combinazione di questi pregi e difetti, così anche per Jacques Heyman (1925) che nella loro essenzialità e intuibilità, ha trovato il giusto mezzo da studiare per capire meglio le leggi naturali che regolano le forme arcuate. «Una virtù dei ponti è che sia la struttura sia il modo in cui esso funziona possono essere visti chiaramente da tutti»6. Il ponte è limpido, non può mentire. Se non fosse così, crollerebbe sotto la propria attrazione verso il centro di gravità che ne conferisce la forza, la struttura e la sagoma. Più in generale anche l’architettura, «per sua stessa natura, non mente. Non può mentire. [...] Quando l’architettura è cosa formata, quando non appartiene più alla dimensione dell’idea o del linguaggio o del pensiero astratto, quando appare nella solitudine delle sue forme costruite, pur apparendo fisicamente isolata, è essenzialmente connessa con il pensiero che l’ha pensata. Questa qualità innata a non mentire la possiamo definire, almeno provvisoriamente, la sua intima virtù»7. Per sincerità, equilibrio, fragilità, il ponte è l’architettura che meglio segue la funzione e la sua instabilità necessita di una attenta gestazione 55


prima di poter essere dichiarata risolta. La progettazione è permeata dalla sua natura e porta con se una serie di caratteristiche peculiari. Il ponte sul Clare a Cambridge, per esempio -fig. 2-, è visivamente incurvato al centro a causa del movimento della spalla. È così da molto tempo, ed è perfettamente sicuro. L’unico difetto e anche la caratteristica più evidente, è questo scivolamento della chiave verso il basso, che mette in mostra e sotto gli occhi di tutti queste innate virtù di sincerità. Di conseguenza se non si vuole rischiare un errore probabilmente fatale alla costruzione, bisogna definire accuratamente le proprietà materiali della muratura in un arco a conci per offrire la parte delle reazioni necessarie alla stabilità teorica dell’azione strutturale. Per questa ragione Heyman pone tre ipotesi chiave regolatrici: • Non si verifica collasso per slittamento. Si assume che l’attrito è sufficientemente elevato fra conci, o che altrimenti, le pietre siano efficacemente bloccate tra loro, in modo che non possano scorrere l’una sull’atra. Si scopre che questo è un presupposto perfettamente ragionevole, anche se è certamente possibile occasionalmente trovare prove di slittamento in una struttura in muratura; • La muratura non ha resistenza a trazione. Sebbene la pietra abbia una resistenza a trazione definitiva, i giunti tra conci possono essere a secco o fatti con malta debole. L’ipotesi implica che nessuna forza di trazione può essere trasmessa all’interno della muratura. In accordo con il senso comune, e con i principi della teoria di plasticità, questa ipotesi è ‘sicura’; potrebbe esserlo troppo, se per esempio l’unione tra le pietre impedirebbe di assorbire anche i colpi degli utensili trasmessi localmente; • La muratura ha una resistenza a compressione illimitata. Questa ipotesi implica che le sollecitazioni sono così basse nella muratura che non c’è alcun pericolo di cedimento del materiale. Il presupposto è ovviamente ‘non sicuro’, ma non essendolo, è irrealizzabile. Si è constatato che, per una vasta gamma di ponti del tipo che qui è considerato [NdA in conci di pietra o muratura], le sollecitazioni medie sono 56


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effettivamente basse; chiaramente calcoli di controllo devono essere effettuati per qualsiasi struttura data.8 L’immagine risultante della muratura composta da pietre tagliate e assemblate, col fine di creare una forma strutturale coerente con il volume, viene portata ad un livello tale di equilibrio, da essere mantenuta assieme dalle medesime forze di compressione trasmesse e prodotte all’interno della massa stessa del materiale. Date queste tre ipotesi, che non sono nient’altro che il risultato di una serie di esperienze, iniziate con le prime volte romane e tutt’oggi oggetto di affinamento, si può dire che la forma ad arco è una struttura apparentemente autosufficiente, dove la forma segue la funzione pedissequamente, ed il ponte inteso come oggetto con identità propria, l’architettura visibile chiaramente da tutti per antonomasia. Robert Maillart (1872-1940) è stato uno dei massimi “espressionisti” dell’arco, se così si può definire. Ha applicato i principi che hanno ispirato la postulazione di queste ipotesi, ben prima che fossero scritte. Anche se le forme da lui create avevano una componente funzionale molto importante, i suoi archi sono sorprendentemente leggeri, raffinati ed eleganti, si gettano nel vuoto non curanti della gravità, quasi fossero stati disegnati dalla traiettoria di una freccia scagliata da un arco. «Maillart era un grande inventore e un tecnico, ma la sua vera forza è stata quella di sfruttare le possibilità tecniche fino al massimo limite, i suoi ponti soprattutto superano la sfera della mera realizzazione tecnica. Sono certi di una tale provenienza audace e senza compromessi che sorgono al di sopra della visione puramente tecnica a favore di una genuina visone artistica. Maillart ha avuto il potere creativo di un artista che evoca sempre qualcosa di nuovo attraverso i mezzi di espressione del suo tempo e facendo uso di tutte le nuove possibilità a sua disposizione»9. Sostiene che l’innovazione, soprattutto per i ponti, non viene dai laboratori, ma dagli uffici di progetto e dal cantiere. Per progettare un ponte l’ingegnere deve fare molto più del calcolo, deve immaginare come i 58


pesi ed i carichi si trasferiscono dalla carreggiata ai supporti, come le strutture dovranno essere costruite e come si comporteranno in servizio. L’apparenza è per lui responsabilità dell’ingegnere, ed uno degli aspetti di un buon progetto, l’eleganza si emana dalla struttura e non da un’idea estranea di bellezza. Pensava che l’arte delle strutture la si imparasse con lo studio e l’osservazione delle opere costruite, ma prima di tutto, che essendo le leggi naturali a permettere il funzionamento dalle strutture, esse dovevano anche stare alla base del pensiero ingegneristico contemporaneo. Alla fine dell’800, quando Maillart aveva iniziato a consolidare il suo studio e la sua carriera, aveva anche ufficialmente preso piede un nuovo materiale: il cemento armato. Ancora molto ignoto, destava interesse per le proprietà plastiche e meccaniche e quindi veniva sempre più considerato nelle nuove costruzioni. La rivelazione del nuovo conglomerato avviene specialmente nei primi due decenni del XX secolo, con l’adeguamento delle forme ortogonali e quelle curve alle sue nuove sorprendenti caratteristiche plastiche ed estetiche. «I ponti di Maillart tendevano a poggiare su esili supporti curvi, piastre o travi sottili; le sperimentazioni di Maillart, che contribuirono a emancipare il cemento armato dall’influenza della tradizionale muratura, entravano tuttavia in conflitto anche con quella parte dell’ingegneria che insisteva sui calcoli a discapito di un’economia concettuale e formale. Il suo ponte Tavanasa (1905) sul VerderRhine in Svizzera -fig. 3- impiegava un arco a tre cerniere, al fine di consentire la dilatazione e la compressione. Fu il modo cui gli sforzi strutturali vennero concentrati direttamente nel materiale impiegato, con un completo senso di coerenza formale, che elevò questa rigorosa ingegneria a livello di arte strutturale. I dettagli netti della soletta mettevano in risalto le ombre e fornivano vettori per lo sguardo. Il livello stradale veniva espresso come un sottile piano, dotato di vita indipendente dalla effettiva struttura di sostegno. Le curve sottostanti erano smaterializzate anche attraverso un attento e dettagliato tratta59


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mento dei bordi e delle sporgenze. Era percepibile soprattutto le sensazione di forze intersecati e in opposizione tra loro nello spazio. Linee e superfici che sembravano essere in sospensione»10. Gli archi come forma teoricamente perfetta, espressi da Maillart erano ridotti alla loro essenza strutturale e assottigliati nella forma complessiva, trasparivano un calmo equilibrio tra mezzi e finalità, tra forma estetica e forma funzionale. Il ponte Salginatobel (1930) -fig. 4-, è forse il suo più espressivo progetto, nato con l’esperienza del primo, attraversa leggero un burrone della Svizzera orientale con una nitida campata di oltre 90 metri, la perfetta ottimizzazione delle conoscenze maturate con osservazione e lo studio anche dei più antichi ponti in conci di pietra e muratura, che sono alla base tecnica e teorica delle sue splendide realizzazioni. Qui l’equilibrio, la raffinatezza, la delicatezza e la sincerità dell’arco vengono alla luce del sole, cristalline e pure. Non c’è spazio per le menzogne, «se non precipita, un ponte, una volta che è stato costruito, non può smettere di essere un ponte»11.

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7. Accorgimenti che fanno l’Architettura

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l linguaggio è il mezzo per parlare di architettura, il pensiero astratto dopo essere stato espresso deve essere vincolato alla realtà dai fatti della costruzione. L’architettura che rimane su carta può avere molte

qualità, tra le tante può essere manifesto di grandi pensatori, o linea guida che definisce i futuri sviluppi teorici, ma l’architettura vera è quella costruita, non quella che rimane sotto forma di idea, come disse uno dei più grandi architetti di sempre l’architettura si cammina, per questo non si può prescindere dal costruirla. Nella storia, molti accorgimenti che hanno fatto l’Architettura sono stati semplici intuizioni che hanno risolto di enormi problemi e si sono posti come novità in continuità o in rottura con il pensiero del tempo. In ogni caso, queste le soluzioni sono diventate spesso chiavi di volta che hanno sorretto il discorso architettonico dei decenni o addirittura dei secoli successivi. L’età moderna iniziò con un’invenzione delle più magnifiche e importanti che alla civiltà abbia mai giovato, tanto significativa da essere studiata ancora oggi a distanza di sei secoli. Alla fine del ‘300 il mondo rinacque grazie allo stupore, quando Filippo Brunelleschi (1377-1446) riuscì a risolvere l’enigma che per più di un secolo attanagliava gli umanisti del suo tempo ovvero il completamento della Cattedrale di Santa Maria del Fiore con la costruzione della cupola a copertura della crociera. Il grande problema che poneva la questione era un rompicapo che non 63


riusciva ad esser risolto perché mancavano le tecnologie ed i mezzi necessari. Vennero proposti più progetti, ma tutti rimasero su carta, senza vedere mai la luce. Anche il tamburo con l’imposta vennero realizzati, «infatti l’organismo edilizio era già determinato dagli interventi di Francesco Taleni, che nel 1360 fissa la pianta definitiva ampliando quella di Arnolfo, e di Giovanni Lapo Ghini che verso la fine del ‘300 decide di alzare l’imposta della cupola di circa 13 metri sopra la copertura della navate con gli occhialoni»1, ma l’avvincinarsi al completamento della fabbrica non porta alla soluzione tanto bramata dai fiorentini. Certamente Arnolfo di Cambio (1232-1302), doveva averlo previsto se aveva immaginato la conclusione del suo edificio con una cupola, e così pare se si guarda il noto affresco di Andrea Bonaiuti -fig. 1-, che si può ancora oggi ammirare nel Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella. Un organismo ben diverso e ben più ampio del tradizionale tiburio delle cattedrali medievali perciò era già stato pensato quando il progetto di rinnovamento era stato proposto, ma l’architetto non aveva trovato una soluzione fattibile. Giorgio Vasari (1511-1574) racconta nel suo Le Vite (1550) come questo dilemma provvedesse a creare soluzioni alquanto bizzarre: «e non mancò chi dicesse che sarebbe stato bene empierla di terra e mescolare quattrini fra essa, acciò che volta, dessino licenzia che chi voleva di quel terreno potessi andare per esso; e così in un subito il popolo lo portasse via senza spesa»2. La soluzione la si trovò nel 1418, quando l’Opera del Duomo bandì un concorso pubblico per la costruzione della cupola, in seguito al quale Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti (1378-1455) furono nominati capomastri. Nel 1420 ebbe inizio la sua costruzione, che fu completata fino alla base della lanterna dopo 16 anni -fig. 2-. I fatti storici sembrano dire che lo stile gotico di questa cupola derivi dalla precedente progettazione di Giovanni Lapo Ghini e che Brunelleschi non ridefinì il progetto preliminare avvicinandolo allo stile contemporaneo anche perché la cupola doveva adattarsi allo stile gotico della chiesa stessa e del tamburo ottagonale, ma «contrariamente a quanto 64


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dice la storia dell’architettura, Brunelleschi ha mantenuto la progettazione preliminare perché era la soluzione a tutti i problemi che avrebbe dovuto affrontare e superare. In particolare, Brunelleschi sapeva che un minore ribassamento e costolonature più deboli agli angoli non avrebbero fornito alla cupola una resistenza adeguata contro il meccanismo di collasso dell’imposta. Questa inadeguatezza sarebbe stata enfatizzata dalla pesante lanterna che Firenze voleva come coronamento della cupola (non ancora progettata). La cupola fiorentina si assottiglia di spessore lungo l’arco, dall’imposta alla corona. [...] Questo disegno non è casuale, ma è il risultato di alcune decisioni precise fatte da Brunelleschi. Da un lato, minore è lo spessore della corona minori sono le pressioni all’imposta; dall’altro, però, una cupola semisferica con una corona molto sottile può non sopportare il proprio peso, a meno che non sia sormontata da una lanterna pesante. Brunelleschi conosceva gli aspetti empirici di tali norme; di conseguenza, ha evitato tutto il peso che non era strettamente richiesto dalla cupola per prevenire il collasso della muratura degli otto spicchi in costruzione, innescabile perché la cupola non aveva ancora la lanterna in sommità. A tal fine, il grado di rastremazione non fu notevole alla corona. In tal modo, la cupola resistette alla modalità di collasso degli picchi; inoltre, la spinta minima necessaria per impedire la modalità di collasso della cupola fu ridotta al minimo. Brunelleschi sapeva che la sua cupola sarebbe stata in equilibrio rispetto ai meccanismi di collasso con l’imposta fissa non solo senza la lanterna, ma anche senza la corona, perché pensava che la cupola non si sarebbe divisa in elementi monodimensionali verticali durante i lavori di costruzione. Fu sulla base di questa convinzione che propose di costruire la cupola senza ponteggi temporanei (senza centine). In particolare, Brunelleschi decise di porre i mattoni lungo i paralleli, piuttosto che lungo i meridiani. Questa tecnica costruttiva implicava la costruzione della cupola in anelli successivi dal tamburo alla corona, piuttosto che archi in successione dalle costole di supporto alle nervature centrali. I lavori di costruzione delle vele furono completati nel 1436. La lanterna 66


è stata posizionata nel 1471, dopo la morte di Brunelleschi»3 e la cupola si spicchiò secondo le previsioni dell’architetto rimanendo intatta fino ai giorni nostri perfino senza rovinare gli affreschi del giudizio universale dipinti dal Vasari. «La forma della struttura resistente dipende da come la cupola si divide in archi. La divisione della cupola è dettata dalla forza di tensione della muratura, che non dipende dalle caratteristiche meccaniche dei materiali nei quali la muratura è composta, ma invece dallo schema dei mattoni (pietra). In particolare, la tessitura dei mattoni (o della pietra) determina lo spessore degli archi nei quali la cupola divide, e quindi determina lo spessore del sistema resistente. A seconda della forma del guscio (emisferica, semisferica), il sistema di resistenza può anche includere la lanterna, mentre negli altri casi la lanterna deve appartenere al sistema di carico. Normalmente, nel primo caso, la lanterna è pesante»4, come nel caso di Santa Maria del Fiore. Il ruolo strutturale della pesante lanterna e della orditura a spina di pesce per anelli paralleli sono gli accorgimenti principali che hanno reso possibile il completamento e la longevità del Duomo, contribuendo così alla spinta vitale che ha fatto diventare Firenze la prima capitale del mondo moderno. Questo fatto introduce ad un concetto interessante, ovvero che il peso in una struttura non è sempre nocivo alla sua stabilità, difatti già gli antichi sapevano che gli archi più erano pesanti più erano sicuri. Da qui si può intendere ancora una volta che ci sono dei comportamenti che dipendono dalla forma dell’oggetto e non dalla resistenza del materiale di cui è composto, in caso contrario non si avrebbero tutte le strutture massive che abbiamo ereditato dai romani. «È probabile che il peso in cima cresca la stabilità del muro e che riporti una linea di spinta vagabonda più o meno dove dovrebbe stare. Un modo di fare ciò consiste semplicemente nel costruire il muro più alto di quanto non sia effettivamente necessario e, in aggiunta, sono utili anche cose come le balaustre o le cimase. Se lo stile della costruzione lo permette e se si hanno soldi per farlo, una 67


fila di statue gioverà sempre. Questa è la giustificazione strutturale dei pinnacoli e delle statue sulle chiese e sulle cattedrali gotiche. Essi stanno veramente lassù a fare sberleffi a coloro che credono nella funzionalità e a tutte quelle persone tetre che piagnucolano troppo a proposito dell’efficienza»5. Oggi sappiamo con certezza che la condizione fondamentale per la sicurezza della muratura è che la linea delle pressioni sia sempre abbondantemente all’interno della superficie di un muro o di una colonna, ma soprattutto che i veri eroi delle cattedrali sono probabilmente le statue6 -fig. 3-, il cui peso, poggiato in cima ai pinnacoli e agli archi rampanti, tiene stabili queste linee. «Una delle famose dispute della storia dell’architettura dei primi anni del XX secolo, riguardò il funzionamento e la modalità di azione dei pinnacoli posizionati sui contrafforti del Gotico Francese [...].La disputa dalla relazione contro il razionalismo, attribuito a Viollet-le-Duc all’insieme della struttura gotica: ogni elemento della struttura deve avere uno scopo, che sia di tenere l’edificio assieme o di consentire all’acqua piovana di defluire»7. Abbiamo coscienza che questa logica è corretta e che l’effetto principale di un pinnacolo è localizzato in cima al pilastro, prevenendo il collasso per slittamento della parte sommitale del contrafforte, dove l’arco rampante scarica le spinte delle navate -fig. 4-. L’esistenza del pinnacolo ha dunque un’apparenza estetica preponderante, apparentemente sembra la ragione per la quale questo elemento esiste, ma in realtà nasce da una necessità pratica. I muratori delle cattedrali non pensavano o progettavano nel modo scientifico, queste persone non facevano altro che costruire qualcosa di molto simile a quanto era stato costruito in precedenza, quindi la sua continua presenza è sintomo di un effettivo funzionamento pratico. «Sebbene alcune opere degli artigiani medievali siano di grande effetto, la base intellettuale delle loro ‘regole’ e dei loro ‘misteri’ non era molto diversa da quella di un libro di ricette»8, con l’esperienza avevano maturato la consapevolezza che il suo peso avrà effetti trascurabili sulla resistenza complessiva della muratura su cui si appoggia, ma esso comporterà un effetto benefico sulla 68


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stabilità di quella muratura. Per questo le esili architetture gotiche sono ammirabili tutt’ora con il loro delicato equilibrio. Un’idea puramente geometrica scaturita dalla necessità di limitare le tecnologie d’assalto moderne, è invece il motivo delle forme che Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) ha pensato per le sue architetture civili. «I progetti di Francesco di Giorgio Martini e di Dührer, la fantastica Sforzinda del Filarete, le invenzioni di Leonardo da Vinci, elevarono l’ordine geometrico a ideale di sintesi di bellezza e razionalità»9. Camminare nelle roccaforti di Federico da Montefeltro o tra le stesse mura di Urbino ci evoca sensazioni di sicurezza, la massività imponente delle fortificazione è sublime agli occhi di noi visitatori ed esprime chiaramente il messaggio di fortezza. «Tra tutte le fortezze realizzate su progetto di Francesco di Giorgio, la rocca di Mondavio è quella più completa e in migliore stato di conservazione. Costruita per Giovanni della Rovere come pure la rocca di Mondolfo, la rocca Riverisca di Mondavio esemplifica nel modo più completo la strategia difensiva adottata per i centri marchigiani, nel contesto della politica esercitata a Federico da Montefeltro e dai suoi alleati»10. Il razionale baluardo difensivo si presenta come una vera e propria macchina da guerra derivante da schemi antropomorfi (simbolici, distributivi, proporzionali), in cui ogni forma e struttura sono state studiate per resistere agli attacchi sferrati con le armi dell’epoca, sia quelle a getto (catapulte) sia con quelle da fuoco, che cominciavano a diffondersi in quegli anni. La presenza del mastio (torre principale) -fig.5- domina l’intera struttura sia per le sue dimensioni che per la particolare forma ottagonale. Le sue facce complesse ed irregolari, i suoi prospetti sfuggenti e spigoli affilati creano un effetto di avvitamento elicoidale dal basso verso l’alto creando un suggestiva sensazione di imponenza, accorgimento che associato alla sapiente progettazione delle mura ha reso questa rocca particolarmente efficiente ad assorbire i colpi dell’artiglieria. Alcune forme esistono per risolvere problemi di natura pratica, si vedano appunto le fortificazioni, dove l’aspetto esteriore non aveva altra utilità se non quella di rispondere con efficenza agli attacchi esteri e 71


agevolare, con la medesima efficenza, gli spostamenti difensivi. Altre forme nascono invece come risposta a problemi tecnici, come pinnacoli che, oltre a dare il giusto tributo agli edifici sacri, diventando i punti piÚ alti e riconoscibili della costruzione in piÚ stabilizzano tutte le strutture sottostanti. L’immagine compatta o slanciata di questi esempi, pur presentando una varia articolazione e un’attenzione verso il dettaglio architettonico, non sono percepiti in maniera ridondante, anzi, con il loro equilibrio sono a volte essi stessi la bellezza e la forza del progetto. Il reale funzionamento elastico di queste architetture diventa secondario ai nostri occhi, queste forme riescono ad attrarci al punto tale da interrogarci sulla loro reale natura, facendo passare in secondo piano il fatto che la loro forma in realtà segue la funzione.

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8. Casi emblematici

1. Il Ponte Mosca, uno studio di Alberto Castigliano

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arlo Bernardo Mosca (1792-1867), ingegnere formatosi a Parigi e protagonista della rivoluzione industriale del Piemonte pre-unitario, e Carlo Alberto Castigliano (1847-1884), laurea-

to in ingegneria civile nel 1873 alla Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Torino, sono state due figure rilevanti per l’impegno sul perfezionamento del pensiero di base della progettazione strutturale di ponti a conci in pietra. Il ponte in pietra ad arco ribassato sulla Dora Riparia, a Torino, comunemente conosciuto come Ponte Mosca e progettato dall’omonimo ingegnere -fig. 1-, è stato il primo ad essere dimensionato con un calcolo lineare e «rappresenta certamente, come è stato unanimemente riconosciuto, un’opera di avanguardia e, al tempo stesso, un punto di arrivo nella storia della costruzione dei ponti in pietra. Ciò non solo per l’arditezza nella scelta delle dimensioni e della configurazione geometrica di insieme (luce 45m, saetta 5,50m, ribassamento pari a 1/8,2 non ancora realizzato su una luce così cospicua) ma anche soprattutto per il carattere delle disposizioni progettuali e costruttive»1.

Questa ardita opera in pietra di Malanaggio inaugurata il 15 agosto 1830 trae la sua forza nulla risoluzione dei problemi di contatto, nello specifico trattasi nel contatto tra conci in pietra attraverso i giunti di collegamento, 73


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che in un arco con queste caratteristiche geometriche erano la variabile di maggiore importanza. Nel 1878 Alberto Castigliano pubblica, per conto dell’Ufficio d’arte delle Ferrovie Alta Italia, il volume Applicazioni pratiche della teoria sui sistemi elastici, in cui oltre all’esposizione del teorema delle derivate del lavoro, si esponevano ed illustravano numerosissime applicazioni dell’effetto dei giunti cuneiformi di malta, tra cui quelle utilizzate per il ponte Mosca. L’analisi viene compiuta attraverso un metodo iterativo -fig. 2- nel quale attraverso l’analisi sistematica si arriva a concludere che il valore totale della pressione normale all’imposta «non sarebbe eccessiva pel granito del Malanaggio impiegato nella costruzione della volta, vedesi che questa avrebbe potuto essere costruita con sufficiente solidità»2. I precedenti che vengono normalmente presi a confronto sono costituiti in particolare dalle realizzazioni e dai progetti di Jean-Rodolphe Perronet (1708-1794). Carlo Mosca trae ispirazione soprattutto dalle ultime, e più innovative realizzazioni del costruttore francese, tra queste in particolare il ponte di Nemours, portato a termine nel 1805 da Louis Charles Boistard, che presenta arcate fortemente ribassate (1/14,8), seppure ancora di modesta luce (16,23m) e il progetto per i due ponti uguali mai realizzati sulla Senna a Melun, al tempo stesso di grande luce e fortemente ribassati (luce 48,7m, saetta 4,5m, rilassamento 1/10,7). «Nella fattispecie si constata come dai progetti di Perronet per Nemours e Melun il Mosca derivi l’impostazione dell’arcata, che costituisce l’elemento strutturale principale in un’opera di questo tipo, assumendo per la curva di intradossi la configurazione di un unico arco di cerchio di grande raggio (48,773m con un angolo al centro pari a 54° 56’ 42’’) spiccato dalle spalle a partire dal livello di massima piena (+3m rispetto al livello di agra, e pertanto senza alcuna riduzione della sezione idraulica al variare del livello delle acque) e adottando per l’arcata stessa uno spessore uniformemente presente dalla chiave (1,5m) alle imposte (2m circa per i conci interni con un profilo all’estradosso assimilabile a un arco di raggio di 55,102m)»3. Il lavoro dell’ingegner Mosca pone l’accento sull’artificio costruttivo che 75


ha reso celebre quest’opera che riguarda la realizzazione di giunti in malta limitatamente alle imposte e alla chiave. Più in particolare l’impostazione innovativa del Mosca si fonda sui seguenti criteri: • realizzazione di una centina più rigida possibile, modificando lo schema della centina di Perronet attraverso l’adozione di sostegni infissi in alveo; • taglio di grande precisione dei conci secondo le sagome derivanti dalla scomposizione in figure geometriche parziali fra loro a contatto, della sagoma complessa dell’arcata di progetto; • realizzazione della centina con una contromonta di limitata ampiezza (25cm pari allo 0,6% della luce); • posa dei conci in fase di costruzione sulla centina rialzata, praticamente a diretto contatto fra loro per gran parte dell’arcata, con l’eccezione di zone di limitata ampiezza in prossimità delle imposte e della chiave, per le quali era previsto un divaricamento dei conci in senso opposto all’andamento delle deformazioni in tali sezioni e allo scopo di favorirle; tali soluzioni di continuità fra i conci erano rese possibili dalla differenza di sviluppo dell’arco rialzato di posa rispetto all’arco di progetto e ne era previsto il riempimento con la malta prima del disarmo4. La lungimiranza e la sensibilità è stata quella d’immaginare il ponte come una colonna vertebrale, che si flette e adagia seguendo gli spostamenti degli appoggi. La struttura composta da elementi rigidi collegati con giunti flessibili di malta rende possibile questi movimenti grazie alla forma dei conci che singolarmente reagiscono alla sollecitazione muovendosi e ruotando (in maniera impercettibile) nei punti di contatto. L’allungarsi e l’adattarsi alle varie sollecitazioni è lo scopo delle strutture ossee che trasportando il peso proprio hanno una concreta necessità a modificarsi per non rompersi ad ogni urto. Il ponte, in tal senso, è uno scheletro di pietra che dinamicamente si adegua alle condizioni del contesto come se fosse vivente, cosa che di fatto è se si tralascia la mancanza di una reale coscienza che lo spinge a muoversi. A differen76


za dello scheletro umano quello del ponte non presenta giunture molli o cartilagini, e le “vertebre” si muovono ruotando su delle facce piane, senza l’incastro semicilindirico, proprio delle nostre vertebre, che ne assicura la stabilità. Il ponte Mosca sulla Dora è emblematico perché unitamente al fatto che è stato una linea guida per i successivi sviluppi ingegneristici, coinvolge tutti questi significati e accorgimenti all’interno del progetto rendendolo di fatto un traguardo per la storia dei ponti e un punto di vista fondamentale se si vuole sviluppare un pensiero accorto e innovativo.

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2. I Rafael Guastavino, un metodo costruttivo secolare contemporaneo

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l sistema a bóvedas tabicada è «un metodo tradizionale di costruzione, originario della Catalogna, ha prodotto per secoli ogni genere di sottili strutture curve senza mai usare ponteggi complessi o cassa-

forme grazie all’impiego ingegnoso di mattonelle [NdA tavelle] e malta. Per esempio, per costruire una cupola i catalani iniziano a poggiare l’anello (di mattonelle piatte) più basso e più esterno su corte nervature in legno aggettate e a questo primo strato cementato un secondo strato di mattonelle mediante una malta a rapida presa. Una volta che questo primo anello è completato e la malta ha preso -in meno di 12 ore- i muratori possono erigere l’anello successivo posandolo sul primo e aggiungendo via via gli strati necessari a completare la luce della cupola: usualmente non più di 3 strati»5. Con lo stesso sistema si sono costruite scale a chiocciola, volte a crociera, a botte e perfino solai. Grazie «all’assemblaggio di elementi staticamente definiti e correlati mediante vincoli di tipo monolatero»6 questo sistema permette di avere coperture snelle, capaci di sopportare notevoli carichi grazie alla coesione tra tavelle e cemento. «Il temine costruzione coesiva, coniato per la prima volta da Guastavino nella conferenza al MIT, è in prima istanza assoggettabile al concetto di 78


costruzione muraria in cui la presenza del legante, a base di cemento, e il tipo di apparecchio costruttivo impiegato, consentono di ottenere forme strutturali con capacità di resistenza agli stati tensionali di trazione per flessione»7. Alla fine dell’800 questa tecnologia ha portato Rafael Guastavino padre (1842-1908) e figlio (1872-1950) una grande fortuna oltreoceano. Depositari di numerosi brevetti e fondatori della Guastavino Fireproof Construction Company, i Guastavino fin dai primi lavori in terra americana, specialmente nella città di New York -fig. 3-, si sono rivelati ottimi costruttori di queste strutture e innovatori nel capo della resistenza, durabilità ed economicità del tempo di costruzione, riscuotendo molto successo. È del 1893 la pubblicazione che Guastavino padre ha edito col titolo Essay on the theory and history of cohesive construction, dove vengono descritte le esperienze e le osservazioni da lui condotte sui sistemi ad archi volte e cupole e resistenti al fuoco. Non si tratta soltanto di edificare un muro o un arco su un centro solido, dove un mattone viene posto su un altro mattone, una pietra su un’altra pietra, e dove, qualunque difetto riscontrato, può essere corretto o cambiato, ma di rendere una struttura composta da elementi modulari una struttura unica, come fosse fatta da un unico pezzo. La costruzione coesiva si basa sulle proprietà di coesione di alcuni materiali, i quali, tramite la costruzione, finiscono per assomigliare ai conglomerati naturali, infatti «il termine coesivo può essere interpretato come sinonimo di monolitico, ovvero come espressione del concetto di monoliticità strutturale»8. «In realtà, le volte di Guastavino si comportano come tutte le volte tradizionali in muratura. A causa del loro peso minore, le volte a tavelle hanno una spinta orizzontale inferiore rispetto alle murature in pietra convenzionali, ma esercitano comunque spinta sui loro supporti. Il materiale è fragile: forte in compressione e debole nella tensione. Come per la costruzione in pietra tradizionale, la sicurezza dipende dalla forma geometrica e non dalla forza del materiale. Se i supporti si muovono, la muratura si fessura in risposta. Le volte a tavelle sopravvivono perché la forma è corretta e grazie alla 79


capacità del materiale di assorbire le tensioni»9. L’autorevolezza di questo metodo andava via via sempre più affermandosi in terra americana, anche grazie agli inconvenienti che gli capitarono nel corso degli anni di carriera. «Mentre proseguiva la costruzione della Boston Public Library, si è verificato un incidente che ha rafforzato il mito della volta di Guastavino. Una pietra da 2 ton (1800 chili) è caduta da diversi piani di altezza e ha bucato una volta. La pietra fece un buco tondo attraverso la volta e non causò il crollo di archi o volte adiacenti»10. La struttura fu prontamente riparata senza nessun problema e lo stesso ingegnere passò i successivi anni ad usare la fotografia dell’incidente -fig. 4- come manifesto per gli annunci pubblicitari. Le strutture di Guastavino non possono essere capite con i metodi convenzionali che l’ingegneria usa per verificare le strutture, il caso più interessante è dato dalle scale elicoidali che a dispetto degli spessori minimi e di un apparente sbalzo, hanno resistito a collaudi con sovraccarichi estremamente più elevati di quelli reali di esercizio. In sostanza il successo dell’opera dei Guastavino è effettivamente ed essenzialmente rappresentata dal fatto che la specificità delle bóvedas tabicada è principalmente individuabile sotto il profilo della tecnica, ovvero nella possibilità di essere costruita senza impiego di centine fisse, ma solo di dime di controllo geometrico, «infatti, giudicandolo dall’economia dei materiali e della velocità di costruzione, il sistema dei Guastavino ha superato le grandi strutture dell’Europa. Ad esempio, la cupola della Basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze di Brunelleschi, pesa dieci volte più della cupola di Guastavino Jr. di St John the Divine e richiese quattordici anni di costruzione, rispetto alle quindici settimane di Guastavino Jr.»11. Nell’America di inizio ‘900 alla ricerca di miti ai quali guardare, il loro metodo divenne fin da subito popolare e il loro declino avvenne soltanto dopo l’affermazione del movimento moderno e dell’affermarsi di nuovi materiali e nuovi metodi più rapidi ed economici di costruzione.

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3. Antonio Da Ponte, un’ingegnosa fondazione di Rialto

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e fondazioni del ponte di Rialto a Venezia sono l’essenza stessa del ponte, la loro peculiare disposizione ha un’importanza fondamentale per l’equilibrio dell’intera arcata, sotto certi aspetti sono

perfino più significative dello stesso arco in pietra o delle ripercussioni storiche che ha prodotto. Dopo il crollo del vecchio ponte in legno nel 1444 molti architetti importanti come Sansovino (1486-1570), Palladio (1508-1580) e il Vignola (1507-1573) presentarono progetti di approccio classico, con diverse arcate, che non furono giudicati adatti alla situazione, addirittura nelle fasi di formulazione del concorso anche Michelangelo Buonarroti (14751564), che in quel momento si trovava nella città, studiò una soluzione. Dopo l’esame di varie proposte formulate in più concorsi, il vincitore a sorpresa della competizione fu Antonio Da Ponte (1512-1597), probabilmente per l’idea di presentare un ponte ad una sola arcata, ma soprattutto perché le soluzioni tecniche permettevano la realizzazione di un ponte così pesante su un terreno molto cedevole come quello lagunare veneziano. L’architetto Antonio Da Ponte convinse i giurati della realizzabilità concependo le sue strutture di fondazione «come dispositivi che avrebbero ridotto gli spostamenti orizzontali che, compatibilmente con le tecniche 82


costruttive dei tempi, avrebbero sfruttato meccanismi cinematici simili a quelli delle fondamenta moderne, [...] mostrò il funzionamento delle fondazioni, illustrando come la presenza dei contrafforti assorbisse le spinte orizzontali e come i collegamenti delle stesse agli edifici vicini avrebbero funzionato. Il risultato dell’indagine della commissione fu a favore di Da Ponte, che nel gennaio del 1592 completò il nuovo ponte in pietra sul Canal Grande»12 -fig. 5-. La pregevole qualità del ponte di Rialto sta anche nel fatto che è un ponte che unisce13, è il primo in pietra e il più importante della Serenissima, dopo il completamento diventò l’esempio da seguire per comunicare tutto l’insieme di isolette che compongono quel magnifico pesce che è il centro storico. In aggiunta, oltre ad essere il centro geografico di Venezia, Rialto è pure abitato (da negozi), fatto che lo rende ancora più importante al collegamento delle due parti cittadine, cuori commerciali e vetrina scenografica della magnificenza ducale dell’isola. Grazie ad esso, la gente del mondo vivendo il luogo diventa metaforicamente ponte tra le due culture (quella veneziana e quella “foreste”), tra le due parti di città divise dal Canal Grande e simbolo dei due elementi che hanno la hanno forgiata: terra e acqua. «Doppio è tutto il senso della vita [...] ora intreccio di strade, ora di canali, così che essa [NdA Venezia] non appartiene né alla terra né all’acqua: e ogni volta seduce, come un corpo vero, quello che appare dietro l’abito proteico di Venezia. Doppio è il senso degli stretti e bui canali, le cui acque scorrono incessantemente, eppure non se ne affretta la direzione, come esse fossero sempre mosse e mai mosse verso qualcosa»14. L’arditezza e l’importanza di questo progetto posero in difficoltà i costruttori del tempo, tanto che fu considerato fin troppo audace porre anche il porticato con i negozi lungo tutta la lunghezza. I problemi principali da risolvere erano derivati dalla conformazione del luogo stesso, in particolare dalla stratigrafia del terreno, «composto da uno strato superiore di più o meno recenti materiali di riporto, spessi 2-3 metri. Sotto sono principalmente strati coesi, di consistenza morbida e media, talvolta con terreno morbido, compressibile e organico. Questi 83


strati sono seguiti da alternanza di argilla compatta o medio-consistente con sabbia sabbiosa e sabbia fine. Talvolta si trovano strati di argilla sedimentata (chiamati caranto) sovraconsolidati. [...] Sono stati analizzati i verbali della commissione d’inchiesta del 1588, in modo da poter fare una ricostruzione dettagliata delle fondazioni del Ponte di Rialto. In particolare, sono state evidenziate le operazioni di consolidamento del terreno nei pressi delle spalle e dei rinforzi delle fondazioni degli edifici vicini come il Palazzo dei Camerlenghi e la Drapperia, per contrastare la spinta orizzontale del ponte. Lo stesso criterio costruttivo è stato adottato anche per le fondazioni sul lato di San Marco. Al fine di evitare danni alle fondazioni della Drapperia e del Palazzo dei Camerlenghi, è stato costruito anche un muro di sostegno»15. In questo accorgimento il progetto rende manifesta l’ingegnosità di Da Ponte che con una intelligente accortezza riesce a cambiare la statica dell’intera struttura compensando anche il fisiologico abbassamento della chiave derivante dallo spostamento orizzontale delle spalle, che in un ponte di tale peso e con un tale terreno, sarebbe stato cospicuo se non addirittura disastroso. Il cinematismo innescato da questa accortezza è tanto semplice quanto efficace: l’abbassamento verticale che la spalla di fondazione produce, causato dalle spinte verticali associate a quelle orizzontali, favorisce una rotazione sullo spigolo interno della stessa fondazione, mentre vincolando la spalla ad un muro questo abbassamento viene contrastato e favorito nello spigolo opposto -fig. 6- favorendo un sorta di implosione del ponte con il conseguente innalzamento della chiave. «In altre parole, la struttura del ponte e l’arco in pietra seguirono i movimenti verticali delle fondazioni, mentre le sollecitazioni orizzontali non erano particolarmente elevate. In effetti, in ogni punto appartenente alla volta, la differenza dei movimenti orizzontali è di circa 0,1 cm e i movimenti orizzontali di tutta la fondazione sono circa 1 cm. I risultati dell’analisi mostrano come la struttura scelta da Da Ponte fosse cinematicamente in grado di associare i movimenti verticali dei 84


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pilastri con lievi rotazioni mantenendo così l’arco sotto la compressione e evitando i pericolosi spostamenti orizzontali previsti da alcuni tecnici del tempo»16. I maestri veneziani del ‘500 e ‘600 conoscevano molto bene l’arte del costruire le strutture in pietra e come esse si sarebbero mosse causando cedimenti che potevano arrivare fino al collasso, la loro maestria è stata riuscire (empiricamente) a prevederli e a volte, come nel caso di Da Ponte, addirittura a trarne vantaggio.

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9. Conclusione, ovvero come mai i ponti affascinano

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra risponde Marco, ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: Perché mi parli delle pietre? È solo l’arco che importa. Polo risponde: Senza pietre non c’è arco.

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tutta questione di forma! Il comportamento delle strutture in muratura, in particolare quelle arcuate, che emerge da questa discussione è fermamen-

te basato sulla geometria, ovvero la stabilità della struttura è assicurata principalmente dalla sua forma e solo marginalmente dalla resistenza del materiale costituente. Assunte le tre ipotesi semplificative di Heyman «la sola condizione di stabilità di un arco, necessaria al variare delle condizioni di carico, è che la linea delle pressioni cada sempre interna alla sezione dei giunti, mentre la sola modalità di collasso possibile è il distacco con rotazione fra due conci congiunti intorno al loro spigolo comune su un numero di 87


giunti sufficiente a creare un meccanismo»1. Il ponte, come detto, è l’architettura più essenziale per testare l’efficacia di queste parole, esso non crolla se non intervengono fattori esterni straordinari che ne destabilizzano l’apparente aura di quiete che lo circonda, lo slancio dell’arcata non viene mai meno al suo compito e quando questo accade scompare sotto quello stesso peso che gli conferiva potenza e stabilità (ponte emilio roma detto ponte rotto), perciò « ci sono i ponti che fingono il crollo, il ponte “Ruinante” di Gian Lorenzo Bernini a Palazzo Barberini in Roma, che finge teatralmente, da grande macchina scenografica barocca, di crollare sotto i nostri occhi»2, perché non ha altro scopo che quello di stupire romanticamente l’ignaro spettatore. «La natura ben conosce il principio di resistenza mediante curvatura e lo usa ogni volta che può nel migliore dei modi. L’uovo è robusto rifugio per il pulcino che sta sviluppandosi, nonostante il suo guscio non pesi che qualche grammo. La conchiglia protegge il mollusco dai suoi nemici e può inoltre sopportare la pressione delle acque profonde grazie alla sua superficie curva. La stessa protezione è fruita dalle lumache e dalle tartarughe, dalle testuggini e dagli armadilli, dai quali i nostri cavalieri medioevali possono avere copiato le armature curve e relativamente leggere»3, invece nel caso del ponte, inteso come forma di comunicazione, è l’uomo l’assoluto scopritore visto che non sono presenti esempi che funzionano similmente nel mondo naturale ne vegetale ne animale, solo in geologia ci sono delle forme arcuate che lo ricordano , anche se i principi di resistenza sono ben diversi da quelli dell’uomo -fig. 1-. «Il Ponte è prima di tutto un’infrazione all’ordine costituito per natura, un artificio potenzialmente dissacrante»4, anche per una città come Venezia dove la natura e l’artificio sono in una sinergia unica ed irripetibile. Il ponte segue la forma che funziona meglio per unire due parti diverse di uno stesso percorso, ha lo scopo di portare oltre, verso un luogo accogliente o non, una città o un’oasi, in tutti quei posti nei quali smarrirsi alla ricerca di qualcosa; un ponte è il mezzo più adatto per soddisfare le nostre esigenze comunicative che hanno per dogma la praticità e l’efficienza, anche in Venezia. 88


È indubbio che le forme di questa città sono per così dire naturali, se fosse questione solo del 900 si direbbero organiche, ma vista la sua fondazione più che millenaria, l’aggettivo organico è quantomeno riduttivo. Qui non esistono piazze o strade ma campi e calli perché la linea che le disegna non è quella dell’uomo, bensì quella della natura (acqua e terra) e non a caso luoghi con nomi diversi quali Piazza San Marco (e pochi altri) hanno una chiara struttura geometrica riconoscibile nel tessuto cittadino. La nascita di Venezia è opera divina (altro aspetto innaturale), il Suo mito si basa sulla credenza che la città sia stata fondata il 25 marzo 421 e la paragona alla figura della Vergine Maria, perfetta così com’é, per questo, «Venezia non ha un linguaggio se non nella propria irripetibile struttura ed organicità»5 che creano questa continua ambiguità tra naturale e antropico, organico e disorganico, dove una confusione apparente regna sovrana, fa perdere le genti che hanno avuto l’idea di intraprendere una passeggiata al di là delle solite strade percorse, ma che allo stesso tempo trasuda di ordine e logica, perché ogni singola pietra di questo luogo incantato ha una ed una sola collocazione, esatta, perfetta. Il mito e perfezione della città, derivano appunto dalla bellezza intrinseca nella Vergine. Venezia ha orrore delle novità, non necessita di cambiamento, infatti storicamente non è avvezza al cambiamento e le sue forme sono per così dire primordiali, legate all’origine naturale delle cose. «Di fronte agli ostacoli naturali, quelli che noi percepiamo come interruzioni del nostro cammino, gli uomini hanno dovuto fin dall’inizio immaginar un “legame” (dal sanscrito sêtu come ci insegna Dona Luisa Coomaraswamy), che fosse un tronco, una lastra di pietra, una serie di sassi posti uno accanto all’altro ad una certa distanza, o una corda tesa tra due alberi, non importa. Di questo ponte “originario” Lequeu ce ne dà l’immagine definitiva col suo ponceau -fig. 2-, qualche ramo curvato e semplicemente appoggiato a tronchi tagliati a mo’ di piloni-forcelle ci troviamo di fronte al ponte rustico che, come nel caso della più famosa 89


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cabane dell’abate Laugier, mostra che i materiali dell’artificio architettonico primitivo sono già tutti dati dalla Natura (la mimesis è all’origine dell’architettura): perché, oltre ai rami - l’impalcato e il corrimano del ponte - e ai tronchi - i piloni-forcelle -, l’idea generale del ponte è già presente in Natura nell’immaginario dell’arcobaleno»6. Molti di questi ponti “spontanei” se ne sono sicuramente costruiti e perse le tracce, la loro natura grezza e atta soltanto a siglare questo “legame” -fig. 3- esalta la reale funzione di questi oggetti, privandoli di significati simbolici e facendoci apprezzare come la forma arcuata pura, maturata dall’esperienza dei costruttori, sia la migliore a soddisfare lo scopo per il quale sono stati pensati. La fede, nel senso di ciò che è prima di ogni posizione percettiva, ci guida nelle scelte ed è costruita sulle basi della nostra personale esperienza, è così che intuitivamente scegliamo di arcuare delle esili canne per costruirci un passaggio sul fiume. Ci è ancora oscuro il reale comportamento che spinge a preferire un cosa piuttosto che un’altra, forse la fede ne è la chiave, «noi vediamo le cose stesse, il mondo è ciò che noi vediamo»7 e nonostante questa apparente democrazia, ognuno trae considerazioni diverse osservando lo stesso ambiente, come di fronte alla ricerca di una verità del testo scritto. Le ricerche teoriche che 40 anni or sono si sono sviluppate (compresa quella di Umberto Eco) attorno a questo argomento, si sono concretizzate indicando che «il testo non esisteva e che esistevano solo le sue infinite interpretazioni, che la verità del testo mutava ogni volta che esso veniva letto, o proferito»8. Si potrebbe quindi vedere la catenaria che forma un ponte, sintetizzata in una collana di perle, che a seconda del peso di ciascuna di esse, si deforma -o meglio si forma- su collo di una bella donna, ornandole il corpo. Dello stesso bianco, i ponti sagomati dalla Pietra d’Istria di Venezia ricuciono, come fossero un filo, l’arcipelago di terre che la compongono, ne cingono il corpo e impreziosendolo, uniscono quello che la natura ha creato e l’uomo ha raffinato. Ogni ponte in pietra è collana del rio che attraversa ed è simbolo gentile di ricongiunzione tra due luoghi che la natura ha anticamente pos91


seduto. La forma “naturale” dell’arco esprime appieno la delicatezza di questa città ed è il giusto connubio tra le forme della natura e l’ingegno dell’uomo. Il bianco della pietra ci accompagna anche lungo tutte le fondamenta di Venezia, ne segna i contorni anche dove i rii sono scomparsi. È ornamento di queste vie di comunicazione così come lo è per i gradini e i corrimano dei ponti o gli spigoli dei palazzi. La gradevolezza e lo status symbol che questo materiale ha acquistato nel tempo, giustifica un uso così peculiare ed estremamente definito, che si è costantemente fatto fino ad oggi. Girando per i campi della laguna, qualche volta si riesce a sentire la vitalità che questi spazi offrono, quando, magari nelle giornate calde di primavera, si riempiono di bambini che corrono in lungo e in largo, non badando ad altro se non alla palla che rimbalza; e allora nelle giornate in cui il sole è arrivato tardi, dopo la pioggia, è facile sentire “Ocio, piera bianca culo nero!”; perché la Pietra d’Istria è una di quei lapidei che i romani avrebbero chiamato marmo per il fatto che è lucidabile, infatti la continua usura la rende liscia e nelle giornate piovose molto scivolosa, fatto che dovrebbe limitarne l’utilizzo come rivestimento di luoghi esterni e frequentemente utilizzati -fig. 4-. L’intera laguna è come se fosse disegnata da questa pietra, ne delimita i bordi, apparentemente in controsenso con la propria natura scivolosa, perché proprio il bordo di un gradino, di una fondamenta o di un campo rialzato, sono i punti più pericolosi, dove è bene non mettere una pietra del genere. Il motivo per il quale si è continuata ad usare per secoli è molto semplice forse, e sta nel suo colore candido, infatti è plausibile che nelle notti buie, senza elettricità, che hanno smesso di accompagnarmi solo dall’800, la Pietra d’Istria guidava i passanti lungo le fondamenta e i ponti, dando una precisa informazione di limite, oltre il quale si cadeva in acqua a volte. Questi ultimi argomenti apparentemente esulano dai temi trattati nei capitoli precedenti, ma in realtà il filo conduttore di tutta la Tesi attraversa la fascinazione che tema dopo tema mi ha fatto progettare un ponte per la città di Venezia. La ricerca è stata cercare e dimostrare, pri92


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ma di tutto a me stesso, che la forma segue sempre la funzione, ora posso asserire con certezza that form ever follows function come Sullivan scrisse più di un secolo fa con mille sfaccettature e altrettanti significati. Non è il dogma da seguire e non lo si è seguito sempre, però accade e quando questo binomio non viene disatteso il risultato architettonico si arricchisce di possibilità. La forma segue la funzione quando l’intento da perseguire è manifesto; la forma segue la luce; la forma segue l’aspetto; la forma segue la fantasia; la forma segue il mito, rincorre se stessa e parla di se stessa; la forma è inseguita; la forma è bramata; la forma è mistificata; ma la forma rimane sempre forma, fino a quando non gli diamo dignità con un gesto ricco di significati. La funzione è logica, rappresenta un bisogno, sia che esso sia determinato dall’evoluzione, sia che venga umanamente concepita. La funzione può essere quella di stupire, quella di essere comodi, quella di essere antifunzionali, ma comunque rimarrà il motore che produrrà domande. Il fatto che la natura segua sempre la funzione e che noi possiamo far seguire alla forma architettonica la funzione che preferiamo, ci porta a capire quanto questo rapporto possa assumere caratteri notevoli. «Da quando i filosofi greci hanno definito l’arte una imitazione della natura, i loro successori non hanno cessato di confermare, negare o precisare questa definizione»9, questo costante rapporto Uomo-Natura rende innegabile che le nostre vicende sono legate indissolubilmente al mondo naturale e che da esso possiamo solo trarne proficui insegnamenti fintanto che questo ordine non venga dissacrato attraverso un gesto potente e semplice come una linea -fig. 5-. Il ponte, che irrompe nell’ambiente, 94


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valorizza la natura creando un nuovo punto di vista su di essa. Dalla natura prende le forme migliori e a volte ne imita i comportamenti perché tanto più un oggetto è delicato, soggetto alle forze naturali, tanto più deve lasciarsi plasmare da queste stesse forze. Come mai i ponti sono così enigmatici e allo stesso tempo limpidi? Come mai leggiamo in loro una potenza compositiva così forte? Probabilmente in loro risiede un simbolico ideale di tensione verso il futuro o il divino che ci ha da sempre attratto. Anche se questo non spiega come mai i ponti affascinano, forse possiamo attaccarci a queste sensazioni per trovare la risposta che esaudisce la domanda. I ponti sono portatori di messaggi ricchi di informazioni naturali e antropici, simboleggiano la grande capacità dell’uomo di imparare dalla natura a come pensare le forme, a come esse reagisco all’ambiente circostante. Dopotutto rimaniamo osservatori e nomadi in costante ricerca di benessere e questo ci spinge ad inventare nuovi strumenti per andare sempre più alla scoperta dell’avvenire, di luoghi inesplorati e moderne nozioni. «Non siamo mai stanchi finché possiamo guardare abbastanza lontano»10; finché possiamo guardare al di là del ponte dove destino e speranza degli uomini s’incontrano.

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Study nature, love nature, stay close to nature. It will never fail you. F.L.W.



CITAZIONI

CAPITOLO 1

1 - Ralph Waldo Emerson, Natura, Donzelli editore, Roma, 2010, Natura (1844), p.75 2 - Ralph Waldo Emerson, Natura, Donzelli editore, Roma, 2010, Natura (1836), pp.21-22 3 - Jean Nicolas Louis Durand, Lezioni di architettura, Clup, Milano, 1986, p. 181 4 - http://www.nationalgeographic.it/wallpaper/2016/02/01/foto/vedere_la_luce-2953980/1/ 5 - Mario Salvadori, Perché gli edifici stanno in piedi, Bompiani editore, Milano, 1990, pp.54-55 6 - Louis Sullivan, The tall office building artistically considered (1896) all’interno di Robert Towmbly, Louis Sullivan: The public paper, University of Chicago Press, USA, 1988 p.111 7 - Marc-Antoine Laugier, Saggio sull’architettura, Aesthetica Edizioni, Palermo, 1987, prefazione, p.39 8 - Marc-Antoine Laugier, Saggio sull’architettura, Aesthetica Edizioni, Palermo, 1987, prefazione, p.41 9 - Bruno Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura, Einaudi, Milano, 1973, premessa 10 - Frank Lloyd Wright, Una Autobiografia, Jaca Book, Como, 1998, p.152 11 - Camillo Gubitosi, Alberto Izzo, Frank Lloyd Wright: disegni 1887-1959, Catalogo mostra palazzo Reale di Napoli, 9 dicembre 1976-10 gennaio 1977, Firenze, 1976, p. non data 12 - Frank Lloyd Wright, stratificazioni rocciose: The meaning of materials stone, Architectural Records, 63 aprile 1928, pp.350-356

CAPITOLO 2

1 - Michele Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, cit Tesi di laurea in Didattica della Fisica, Sara Pennuti, Università degli studi di Firenze, pp.21-24 2 - Idem 3 - Michele Emmer, Minimal Surfaces and Architecture: New Forms, Università di Roma “La Sapienza”, Roma, 2012, p.234 4 - Rainer Barthel, Natural forms-Architectural forms, all’interno di Frei Otto complete works, Lightweight construction natural design, Brikhäuser, Basilea, 2005, p.17 5 - Mario Salvadori, Perché gli edifici stanno in piedi, Bompiani editore, Milano, 1990, pp.337-341 6 - Pierluigi Cervelli, Franciscu Sedda, Forme architettoniche e forma di vita, p.188 all’interno di Roberto Secchi, Il pensiero delle forme tra architettura e scienza della vita, Officina Edizioni, Roma, 2005

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7 - Mario Salvadori, Perché gli edifici stanno in piedi, Bompiani editore, Milano, 1990, pp.337-341 8 - Rainer Barthel, Natural forms-Architectural forms, all’interno di Frei Otto complete works, Lightweight construction natural design, Brikhäuser, Basilea, 2005, p.24 9 - Daniel Giralt Miracle, Gaudì-La ricerca della forma, Jaca Book, Spagna, 2003, pp.97-99 10 - Idem 11 - Idem 12 - William J. R. Curtis, L’Architettura Moderna dal 900, Phaidon, Londra, 2006, pp.61-62 13 - Jurij Michajlovic Lotman, L’architettura nel contesto della cultura, 1987 14 - Jun’Ichirō Tanizaki, Libro d’ombra, Tascabili Bompiani, Bologna, 2011, p.42

CAPITOLO 3

1 - Claudio D’Amato Guerrieri, Giuseppe Fallacara, Architetture stereometriche, Marsilio Editore, Venezia, 2006 all’interno del catalog Città di Pietra, 10. Mostra Internazionale di Architettura, 2006, pp.318-319 2 - Maria Rita Campa, Le Nouvelles inventions di Philibert P. de l’Orme, Aracne editrice, Roma, 2009, p.10 3 - Anthony Blunt, Philibert P. de l’Orme, Electa, Milano,1997, p.33 4 - Anthony Blunt, Philibert P. de l’Orme, Electa, Milano,1997, p.34 5 - Anthony Blunt, Philibert P. de l’Orme, Electa, Milano,1997, pp.42-47 6 - Anthony Blunt, Philibert P. de l’Orme, Electa, Milano,1997, p. 58 7 - Francesco Defilippis, Architettura e stereotomia, Gangemi Editore, Roma, 2002, pp.59-61 8 - Idem 9 - Jacques Heyman, Lo scheletro di pietra, EPC Editore, Roma, 2014, p. 24 10 - Idem 11 - Edoardo Benvenuto, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Edizioni di storia e letterature, Roma, 2006, p.326 12 - Idem

CAPITOLO 4

1 - Edoardo Benvenuto, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Edizioni di storia e letterature, Roma, 2006, pp.66-68 2 Idem 3 - Idem 4 - Edoardo Benvenuto, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Edizioni di storia e

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letterature, Roma, 2006, p.751 5 - John Ochsendorf, Guastavino vaulting, the art of structural tile, Princeton Architectural Press, New York, 2013, p.162 6 - Edoardo Benvenuto, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Edizioni di storia e letterature, Roma, 2006, p.750 7 - Mario Salvadori, Le strutture in architettura, ETAS Kompass, Milano, 1964, pp.305-306 8 - Maria Moreyra Garlock, David Billington, Félix Candela Engineer, Builder, Strutural Artist, Princeton University Press, USA, p.88

CAPITOLO 5

1 - Alberto Carpinteri, Scienza delle costruzioni Vol 1, Pitagora Editrice, Bologna, 1993, p.116 2 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, p.140 3 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, pp.26-27 4 - Edoardo Benvenuto, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Edizioni di storia e letterature, Roma, 2006, p.362 5 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, nota p.149 6 - Idem 7 - Vittorio Nascé, Donato Sabia, Teoria e pratica nella costruzione dei ponti in muratura fra XVIII e XIX secolo, p.35 all’interno di Carlo Bernardo Mosca-Un ingegnere architetto tra Illuminismo e Restaurazione, Edizione Angelo Guerini 8 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, pp.167-168

CAPITOLO 6

1 - Roberto Secchi, L’architettura è l’arte dell’equilibrio?, Aperture 29, 2013, pp.1-3 2 - idem 3 - idem 4 - https://www.ensamble.info/hemeroscopiumhouse 5 - Maurice Merleau Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989, p. 48 6 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, p.166 7 - Renato Rizzi, L’inconsapevolezza: forma della dimenticanza, pp.15-16, introduzione a Emanuele

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Severino, Tecnica e Architettura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003 8 - Jacques Heyman, The masonry arch, Ellis Horwood Limited, Gran Bretagna, 1982 p.30 9 - Max Bill, Robert Maillart: bridges and constructions, Frederick A. Praeger Publisher, New York, 1969, p.31 10 - William J. R. Curtis, L’Architettura Moderna dal 900, Phaidon, Londra, 2006, pp.81-82 11 - Franz Kafka, Il ponte e altri racconti, Edizioni Via del Vento, Pistoia, 2005, p.3

CAPITOLO 7

1 - Leonardo Benevolo, Storia dell’architettura del rinascimento, Laterza, Roma, 2008, p.28 2 - Giorgio Vasari, La vite de’ più eccellenti architettori (1550), Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 1984, p.173 3 - Paolo Foraboschi, Resisting system and failure modes of masonry domes, IUAV, 2014, pp. 325-327 4 - Paolo Foraboschi, Resisting system and failure modes of masonry domes, IUAV, 2014, pp. 335 5 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, pp.149-150 6 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, p.318 7 - Jacques Heyman, Lo scheletro di pietra, EPC Editore, Roma, 2014, pp.92-93 8 - James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi, Mondadori, Milano, 1979, p.21 9 - Jurij Michajlovic Lotman, L’architettura nel contesto della cultura, 1987 10 - Francesco Paolo Fiore, Manfredo Tafuri, Francesco di Giorgio Martini architetto, Electa, Milano, 1994, p.294

CAPITOLO 8

1 - Maria Alberto Chiorino, Giuseppe Andrea Ferro, Il Ponte Mosca: Analisi di un’opera di avanguardia con l’ausilio delle moderne tecniche di moderazione strutturale, p.119 all’interno di Carlo Bernardo Mosca-Un ingegnere architetto tra Illuminismo e Restaurazione, Ediz. Angelo Guerini 2 - Carlo Alberto Castigliano, Applicazioni pratiche della teoria sui sistemi elastici, 1878, conclusioni 3 - Maria Alberto Chiorino, Giuseppe Andrea Ferro, Il Ponte Mosca: Analisi di un’opera di avanguardia con l’ausilio delle moderne tecniche di moderazione strutturale, pp.119-120 all’interno di Carlo Bernardo Mosca-Un ingegnere architetto tra Illuminismo e Restaurazione, Ediz. Angelo Guerini

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4 - Maria Alberto Chiorino, Giuseppe Andrea Ferro, Il Ponte Mosca: Analisi di un’opera di avanguardia con l’ausilio delle moderne tecniche di moderazione strutturale, p.121 all’interno di Carlo Bernardo Mosca-Un ingegnere architetto tra Illuminismo e Restaurazione, Ediz. Angelo Guerini 5 - Mario Salvadori, Perché gli edifici stanno in piedi, Bompiani Editore, Milano, 1990, p.230 6 - Riccardo Gulli, La costruzione coesiva, l’opera dei Guastavino nell’America di fine 800, Marsilio Editore, Venezia, 2006, p.20 7 - Riccardo Gulli, La costruzione coesiva, l’opera dei Guastavino nell’America di fine 800, Marsilio Editore, Venezia, 2006, p.44 8 - Riccardo Gulli, La costruzione coesiva, l’opera dei Guastavino nell’America di fine 800, Marsilio Editore, Venezia, 2006, p.44 9 - John Ochsendorf, Guastavino vaulting, the art of structural tile, Princeton Architectural Press, New York, 2013, p.58 10 - Idem 11 - John Ochsendorf, Guastavino vaulting, the art of structural tile, Princeton Architectural Press, New York, 2013, p.126 12 - Andrea Dei Svaldi, Alberto Mazzucato, Foundation analysis of the Rialto Bridge in Venice, Atti dell’International Symposium on Studies on Historical Heritage, IUAV, 2007, pp.1-8 13 - Alberto Giorgio Cassani, Figure del ponte, Pendragon, Bologna, 2014, cap IV 14 - George Simmel, Venedig, cit. Alberto Giorgio Cassani, Figure del ponte, Pendragon, Bologna, 2014, p.211 15 - Andrea Dei Svaldi, Alberto Mazzucato, Foundation analysis of the Rialto Bridge in Venice, Atti dell’International Symposium on Studies on Historical Heritage, IUAV, 2007, pp.1-8 16 - Andrea Dei Svaldi, Alberto Mazzucato, Foundation analysis of the Rialto Bridge in Venice, Atti dell’International Symposium on Studies on Historical Heritage, IUAV, 2007, pp.1-8

CAPITOLO 9

1 - Vittorio Nascé, Donato Sabia, Teoria e pratica nella costruzione dei ponti in muratura fra XVIII e XIX secolo, p.32 all’interno di Carlo Bernardo Mosca-Un ingegnere architetto tra Illuminismo e Restaurazione, Edizione Angelo Guerini 2 - Alberto Giorgio Cassani, Ponti che crollano, Gizmo, 24 luglio 2015 3 - Mario Salvadori, Perché gli edifici stanno in piedi, Bompiani editore, Milano, 1990, pp.211-212 4 - Marco Biraghi, Necessità dei ponti, Gizmo, 20 maggio 2015 5 - Manfredo Tafuri, La dignità dell’attimo, Grafiche veneziane, Venezia, 1994, p.18 6 - Alberto Giorgio Cassani, Figure del ponte, Pendragon, Bologna, 2014, p.17 7 - Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1994, p.31 8 - Pierluigi Cervelli, Franciscu Sedda, Forme architettoniche e forma di vita, p.187 all’interno di Roberto Secchi, Il pensiero delle forme tra architettura e scienza della vita, Officina Edizioni, Roma, 2005

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TESTI CITATI IN LINGUA ORIGINALE

CAPITOLO 1 6 - Whether it be the sweeping eagle in his flight, or the open apple-blossom, the toiling work-horse, the blithe swan, the branching oak, the winding stream at its base, the drifting clouds, over all the coursing sun, form ever follows function, and this is the law. Where function does not change, form does not change. The granite rocks, the ever-brooding hills, remain for ages; the lightning lives, comes into shape, and dies, in a twinkling. It is the pervading law of all things organic and inorganic, of all things physical and metaphysical, of all things human and all things superhuman, of all true manifestations of the head, of the heart, of the soul, that the life is recognizable in its expression, that form ever follows function. This is the law. 10 - No house should ever be on a hill or on anything. It should be of the hill. Belonging to it. Hill and house should live together each the happier for the other.

CAPITOLO 2 3 - To be precise, the three experimental rules that Plateau discovered about soap films are: • a system of bubbles or a system of soap films attached to a supporting metallic wire consists of surfaces flat or curved that intersect with each other along lines with very regular curvature; • surfaces can meet only in two ways: either three surfaces meet along a line or six surfaces that give rise to four curves that meet in a vertex; • the angles of intersection of three surfaces along a line or of the curves generated by six surfaces in a vertex are always equal in the first case to 120°, in the second to 109° 28’. 4 - He had always been a staunch advocate - and often a provocative one - of constructing building in harmony with, rather than in opposition to, nature. At the same time, the contrast between his constructions and most of the “biomorphic” shapes of modern architecture could hardly be greater. 8 - The principle of inversion [a suspended shape, such as a catenary,] is a human discovery. Arches and vaults are structural invention rather than the immediate result of a form-finding process, as is the case with the catenary line. Inversions of hanging states into standing states, resulting in a zero moment structure, do not occur in nature. The principle was first formulated in 1676 by Robert Hook. There are sketches by Christopher Wren first formulated in which he used thrust lines to develop the dome construction for St. Paul’s Cathedral il London. It was Antoni Gaudì who finally used the principle of inversion as a true form-finding method in his architecture. He used three-dimensional hanging models in which he always employs linear tension members rather than nets or fabrics.

CAPITOLO 4 5 - Karl Culmann created the first board overview of graphic statics for the purposes of structural design, and by the 1900 engineers raillery applied it to the structural design of trusses, beams and arches.

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CAPITOLO 6 4 - For the Greek, Hemeroscopium is the place where the sun sets. An allusion to a place that exists only in our mind, in our senses, that is ever-changing and mutable, but is nonetheless real. It is delimited by the references of the horizon, by the physical limits, defined by light, and it happens in time. 8• Sliding cannot occur. It is assumed that friction is high enough between voussoirs, or that the stones are otherwise effectively interlocked, so that they cannot slide one on another. It turns out that this is a perfectly reasonable assumption, although it is certainly possible in practice to find occasional evidence of slippage in a masonry structure • Masonry han no tensile strength. Although stone itself has a definite tensile strength, the joints between voussoirs may be dry or made with weak mortar. Thus the assumption implies that no tensile forces can be transmitted within a mass of masonry. In accordance with common sense, and with the principles of the plastic theorems (which are discussed below), this assumption is ‘safe’; it may be too safe, that is, unrealistic if, for example, the interlocking of the stones with prevents sliding also enables utensil forces to be transmitted locally. • Masonry han infinite compressive strength. This assumption implies that stresses are so low in masonry construction that there is no danger of crushing of the material. The assumption is obviously ‘unsafe’, but it is not, in fact, at all unrealistic. It is found that, for a wide range of bridges of the type considered here, mean stresses are indeed low, clearly check calculations must be made for any given structure. General implication of this assumption are pointed out below 9 - Maillart was a great inventor and technician, but the very fact that he exploited the technical possibilities to the upmost limit, his bridges above all reach beyond the sphere of merely technical achievement. They are convinced in such a daring and uncompromising spring that they rise above the purely technical to genuine artistic vision. Maillart had the creative power of an artist, who always conjures up something new through the means of expression of his time and by making use of all the new possibilities at his disposal.

CAPITOLO 7 3 - Contrary to what history of architecture tells, Brunelleschi maintained the preliminary design because it was the solution to all the problems that he had to face and overcome. In particular, Brunelleschi knew that a lower rise and weaker ribs at the corners would have not provided the dome with adequate strength against the mechanism where the springing parallel opens. This inadequacy would have been emphasized by the heavy lantern that Florentine wanted to crown the dome (not designed yet). The Florentine dome tapers in thickness over the span, from the springing to the crown. This research found that the virtual work done by the shell (i.e., without the lantern) for the mechanism with fixed springing parallel is negative, although the crown is thinner than the springing section. This behavior did not happen by chance, but it was the result of some precise decisions made by Brunelleschi. On one hand, the less the crown thickness the less the springing thrust; on the other hand, however, a domical dome with a very thin crown cannot bear its own weight, unless it is topped by a heavy lantern. Brunelleschi knew the empirical aspects of these rules; consequently, he saved all the weight that was not strictly required by the dome to prevent the failure mode from

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triggering when the dome did not have the lantern yet. To this end, the degree of taper was not pronounced at the crown. In so doing, the dome resisted the failure mode; moreover, the lower thrust necessary to prevent the failure mode from triggering was reduced to the minimum. Brunelleschi knew that his dome would have guaranteed the equilibrium against the mechanism with fixed springing not only without the lantern, but also without the crown, because he thought that the dome would not have split into vertical one-dimensional elements during the construction work. It was on the basis of this conviction that he proposed to build the dome without temporary falsework (without centering). In particular, Brunelleschi decided to lay the bricks along the parallels, rather than along the meridians. This construction technique implied to build the dome in subsequent rings from the springing to the crown, rather than in subsequent arches starting from the ribs and ending with the webs. The construction work of the shells was completed in 1436. The lantern was positioned in 1471, after the death of Brunelleschi. 4 - The shape of the resisting structure depends on how the dome splits into arches. The splitting of the dome is dictated by the tension strength of masonry, which does not depend on the mechanical characteristics of the materials that masonry is made of, but instead on the brick (stone) pattern. In particular, the brick (stone) pattern dictates the thickness of the arches that the dome splits into, and therefore it dictates the thickness of the resisting system. Depending on the shape of the shell (hemispherical, domical), the resisting system may also include the lantern, while in the other cases the lantern must belong to the load system. Usually, in the former case, the lantern is heavy.

CAPITOLO 8 9 - In reality, Guastavino vaults behave like all traditional masonry vaults. Because of their lighter weight, tile vaults have lower horizontal thrust than conventional stone masonry, but they do exert thrust on their supports. The material is brittle: strong in compression and weak in tension. As with traditional stone construction, the safety depends on the geometrical form, and not on the strength of the material. If the supports move, the masonry will crack in response. Tile vaults survive because the form is correct, and because of the tension capacity of the materials. [...] As the construction of the Boston Public Library continued, an accident occurred that reinforced the mythology of Guastavino vaulting. A 2-ton (1800 kilogram) stone fell several stores and punched through a completed tile vault. The stone made a clean hole through the vault and did not precipitate the collapse of any adjacent arches or vault. 11 - In fact, judged by economy of material and speed of construction, Guastavino’s system outperformed the great structures of Europe. For example, the dome of Basilica di Santa Maria del Fiore in Florence, by Brunelleschi, weight over ten times more than Guastavino’s dome for St. John the Divine, and required fourteen years to build, in comparison to Guastavino’s fifteen weeks. 12 - as devices which could reduce horizontal displacements which, compatibly with the building techniques of the times, involved mechanisms similar to those of modern foundations.[...] Da Ponte showed how the foundations worked by illustrating the presence of buttresses to absorb horizontal thrusts, and the links of the foundations with nearby buildings. The result of the commission’s inquiry was favourable to Da Ponte, who finished the new stone bridge over the Grand Canal in January 1592. 15 - is composed of a top layer of more or less recent man-made material 2-3 metres thick. Underneath are mainly cohesive layers, of soft to medium consistency, sometimes with soft, compressible, organic soil. These layers are followed by alternating compact or medium-consistency clay

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with sandy silt and fine sand. Overconsolidated silty clay layers (called caranto) are sometimes found. [...] The minutes of the commission of inquiry of 1588 were analysed, so that a detailed reconstruction of the Ponte di Rialto foundations could be made. In particular, operations to consolidate the soil near the abutments and reinforcements of the foundations of nearby buildings such as the Palazzo dei Camerlenghi and the Drapperia, to contrast the horizontal thrust of the bridge (figures 5, 6, 7), were highlighted. The same constructive criterion was also adopted for the foundations on the San Marco side. In order to avoid damage to the foundations of the Drapperia and the Palazzo dei Camerlenghi, a retaining wall was also built. 16 - In other words, the bridge structure and the stone arch followed the vertical movements of the foundations, whereas horizontal stresses were not particularly high. In effect, at every point belonging to the vault, the differential of horizontal movements is about 0.1 cm, and horizontal movements of the whole foundation about 1 cm (figure 9). Results of analysis show how the structure chosen by Da Ponte was kinematically capable of associating the vertical movements of the abutments with slight rotations, thus maintaining the arch under compression and avoiding the dangerous horizontal displacements foreseen by some technicians of the time.

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ELENCO DELLE IMMAGINI

CAPITOLO 1

1 - Occhio di una guana di terra cubana (Cyclura nubila nubila) 2 - Frontespizio di Essai sur l’Architecture, Marc-Antoine Laugier, Parigi, 1755 3 - Schizzo per il MUBE, Paulo Mendes da Rocha, Brasile, 1988 4 - Disegno per The Donahoe, Frank Lloyd Wright, USA, 1959

CAPITOLO 2

1 - Tesa di un ragno che si flette sotto il peso della rugiada 2 - Rappresenazione di una tipica colonna cretese e di una tipica colonna dorica 3 - Copertina di Supplemente al dizionario italiano, Buruno Munari, Milano, 1963 4 - Modello funicolare di studio per la Cappella della colonia Güell, Antoni Gaudì, 1898

CAPITOLO 3

1 - Tavole del Premier livre, Jean Errard, Parigi, 1584 2 - Incisione della Trompe del cabinet du Roy, Philibert de l’Orme, Anet, 1547 3 - Stone matters, AAu Anastas, Gerico, 2017 4 - Armadillo vault-beyond bending, Block Research Group, Biennale di Venezia, 2016

CAPITOLO 4

1 - Tavole del Die graphische Statik, Karl Culmann, Zurigo, 1866

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CAPITOLO 5

1 - Studio delle catenaria per le cupole di Saint Paul, Robert Hooke, Londra, 1697 2 - Meccanismi di collasso di un arco, Edoardo Benvenuto, Roma, 2006 3 - Studio per la Cupola di San Pietro, Giovanni Poleni, Roma, 1743 4 - Ponte di Pontypridd, William Edwards, Pontypridd, 1756

CAPITOLO 6

1 - Emeroscopium house, Ensamble studio, Madrid, 2008 2 - Clare College Bridge, Thomas Grumbold, Cambridge, 1640 3 - Ponte sul VerderRhine, Robert Maillart, Tavanasa, 1905 4 - Ponte Salginatobel, Robert Maillart, Salginatobel, 1930

CAPITOLO 7

1 - Dettaglio del Cappoellone degli spagnoli, Andrea di Bonaiuto, Firenze, 1367 2 - Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze, 1471 (completamento) 3 - Guglie del Duomo di Milano, Milano, 1386 (inizio) 4 - Meccanismo di funzionamento dei pinacoli, Jaques Heyman, Londra, 1982 5 - Rocca Roveresca, Francesco di Giorgio Martini, Mondavio, 1492

CAPITOLO 8

1 - Ponte Mosca, Carlo Bernardo Mosca, Torino, 1830 2 - Studio sul Ponte Mosca, Alberto Castigliano, Torino, 1878 3 - City hall underground station, Rafael Guastavino, New York, 1904 4 - Boston Public Library, Rafael Guastavino, Boston, 1889 5 - Il Canal Grande con il Ponte di Rialto e il Fondaco dei Tedeschi, Giovanni Antonio Canal, 1750 6 - Rotazione delle fondazioni del Ponte di Rialto, Andrea Dei Svaldi e Alberto Mazzucato, Venezia, 2007

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CAPITOLO 9

1 - Monument valley, Arches National Park, USA 2 - Le ponceau de la grande ravine, Jean Jacques Lequeu, Parigi, 1795 3 - Sconosciuta 4 - Corrimano del Ponte di Rialto, Antonio da Ponte, Venezia, 1592 5 - Le pont d’Héraclyte, René Magritte, Parigi, 1935

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BIBLIOGRAFIA

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ARTICOLI e PUBBLICAZIONI

• Marco Biraghi, Necessità dei ponti, 20 maggio 2015, Gizmo • Carlo Blasi, Paolo Foraboschi, Analytical approach to collapse mechanisms of circular masonry arch, Journal of Structural Engineering, vol.120, 1994 • Alberto Giorgio Cassani, Ponti che crollano, 24 luglio 2015, Gizmo • Carlo Alberto Castigliano, Applicazioni pratiche della teoria sui sistemi elastici, 1878 • Andrea Dei Svaldi, Alberto Mazzucato, Foundation analysis of the Rialto Bridge in Venice, Atti dell’International Symposium on Studies on Historical Heritage, IUAV, 2007 • Michele Emmer, Minimal Surfaces and Architecture: New Forms, Università di Roma “La Sapienza”, Roma, 2012 • Paolo Foraboschi, Resisting system and failure modes of masonry domes, IUAV, 2014 • Roberto Masiero, Domus, 1011 marzo 2017, Milano, 2017 • Roberto Secchi, L’architettura è l’arte dell’equilibrio?, Aperture 29, 2013

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SITOGRAFIA

• https://www.architectural-review.com • http://www.block.arch.ethz.ch/brg/ • https://www.dezeen.com • https://divisare.com • http://www.domusweb.it • https://www.ensamble.info/hemeroscopiumhouse • http://www.gizmoweb.org • http://www.nationalgeographic.it • http://www.treccani.it • https://it.wikipedia.org • https://it.wikiquote.org

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Finito di stamapre a Venezia, 2017 Per informazioni: alessandro.m.visia@gmail.com




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