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DVORAC PETROVIĆA Centar savremene umjetnosti crne gore Centro d’arte contemporanea del Montenegro

MOSTRA ANTOLOGICA DI ROSARIO GENOVESE opere dal 1987 al 2016

PODGORICA - 2 GIUGNO / 3 LUGLIO 2016

2004

1990

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Graphic by Saverio Genovese

2014

Mostra organizzata dall’Ambasciata Italiana in Montenegro in occasione della festa della Repubblica Italiana - 2 Giugno 2016 con la collaborazione e cura artistica di Ermenegildo Frioni Testo di Francesco Gallo Mazzeo Testimonianza di Marcello Palminteri


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02 | PIeRO dellA FRANCesCA. FORlì 08 | eNNesIMA. di Silvio Lacasella

04 | sIMbOlIsMO A MIlANO di Silvio Lacasella

05 | de CHIRICO. eCHI e RIFlessI dI uN TRIeNNIO di Domenico Iaracà

06 | HAyez A MIlANO di Marica Rossi

uNA MOsTRA dI seTTe MOsTRe sull’ARTe ITAlIANA di Rossella Digiacomo

10 | AMAe. TRANsITO,

INquIeTudINe e CORPOReITà di Giuseppe Carrubba

12 | gAsTON ORellANA.

POeTA del segNO MINIMO di Antonio Vitale

15 | IMPRONTe. ClAudIA CeRvO di Ornella Fazzina

17 | uN AbRégé dI TINTOReTTO di Rocco Giudice

18 | uCHIMuRA. ‘lA MACCHINA’ di Davide Scandura

20 | MeTAMORPHINg (CAPITOlO I) di Rocco Giudice

23 | Il IbRO 24 | I 3 Cd 25 | l’ARTIsTA

l’INDICE

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l’ARTE

di Silvio Lacasella

A Umberto Eco sarebbe piaciuta molto la mostra che Forlì dedica a Piero della Francesca, negli ampi spazi dei Musei di San Domenico, visitabile sino al 26 giugno. Fu proprio lui, infatti, giusto quindici anni fa a Bilbao, nel corso di una conferenza, ad auspicare la nascita di “un museo che serva a capire e a godere di un solo quadro” così da evitare il disordine visivo che questi luoghi spesso trasmettono al visitatore. Col pensiero rivolto alla Primavera di botticelli, riteneva fosse necessario accostare a questo quadro le opere degli artisti che ispirarono il pittore con una serie di informazioni storiche sull’epoca in cui egli lavorò. Senza trascurare innesti culturali non secondari legati alla quotidianità. Eco alla fine aggiunse: “Vorrei vedere nelle ultime sale, tutto ciò che mi può dire qualcosa sull’eredità di Botticelli, sino ai Prerafaelliti”. A Forlì il visitatore non troverà antichi ricettari o stoffe del tempo. Nonostante questo, l’ossatura centrale di Piero della Francesca – indagine su un mito, voluta da gianfranco brunelli e sostenuta dalla Cassa dei Risparmi di Forlì, nel presentare un numero contenutissimo di opere del grande artista del Quattrocento, riesce a diramarsi in varie direzioni. Dopo una suggestiva e lunga rincorsa, nella quale originali, riproduzioni, documenti e fotografie, si alternano in voluto disordine temporale, il percorso espositivo s’incanala con precisione, formando tre bacini di raccolta. Nel primo troviamo coloro che a Piero indirizzarono la via: Paolo uccello, Filippo lippi, beato Angelico, Fra’ Carnevale, Andrea del A DESTRA DALL’ALTO

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Piero della Francesca

Madonna col Bambino

1432 – 1439, tempera su tavola The Alana Collection, Newark

San Gerolamo e un devoto 1440 – 1450 tempera e resina su tavola, cm 49 x 42 Gallerie dell’Accademia, Venezia

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Castagno. Artisti osservati a Firenze, dove si era recato nel 1439 a seguito di domenico veneziano, per la decorazione del coro della chiesa di Sant’Egidio, in quella che fu la sua prima vera trasferta fuori dalle mura di Borgo Sansepolcro (dove era nato attorno al 1412). A Borgo Sansepolcro, importante punto di transito commerciale tra i porti dell’Adriatico e quelli del Tirreno, Piero non mancherà di tornare alla fine di ogni importante incarico: a Urbino presso la corte di Federico da Montefeltro; a Ferrara da Leonello e Borso D’Este; a Rimini da Sigismondo Malatesta; a Roma da Pio II; ad Arezzo (1452) per eseguire il suo massimo capolavoro, il ciclo di affreschi dedicati alla Leggenda della vera Croce, nella cappella di San Francesco. Un secondo importante momento espositivo presenta coloro che, di lì a poco, ne subirono il fascino. In moltissimi gli saranno debitori, tra questi, Francesco del Cossa, ercole de' Roberti, Marco zoppo, luca signorelli, bartolomeo della gatta, Palmezzano, Melozzo da Forlì, sino a giovanni bellini, in terra veneta. Opere di assoluta qualità, scelte con attenzione, non pochi i capolavori. Tra le assenze, Pisanello e Mantegna. Il momento della riscoperta, iniziata dalla metà dell’Ottocento sino a gran parte del secolo successivo, dopo oltre duecento anni di oblìo, caratterizza l’ultima, vastissima sezione della mostra. Dai Macchiaioli, con lega, Cecioni, signorini, a Puvis de Chavannes, degas e, soprattutto, seurat. Ma l’aria sospesa e metafisica, la capacità di sintesi, gli equilibri spaziali, la purezza della linea, la solennità dei soggetti, gli armonici sviluppi prospettici presenti in tutta l’opera di Piero, posti come regola compositiva, incanteranno una larga fascia di artisti del Novecento, nel momento in cui, placati i tumulti delle avanguardie, sentirono la necessità di ricongiungersi con la grande tradizione figurativa. Ecco allora guidi, Morandi, Casorati, Carrà, donghi, Ferrazzi, sironi, Campigli, semeghini, gentilini, il periodo figurativo di Capogrossi, Felice Carena, Cagli e molti altri, sino a Hopper e balthus. Sorprende l’assenza di De Chirico. “e’ come entrare in una galleria degli specchi”, ha sottolineato enrico Paulucci, chiamato


per l’occasione alla guida di un comitato scientifico assai nutrito. Arte “non eloquente” come la intenderà nel 1950 bernard barenson, per la sua volontà di anteporre all’irregolarità degli stati d’animo l’alto valore del progetto compositivo. Dice Barenson: “Le sue figure si contentano di esistere. Esistono e basta. Non si danno nessuna pena

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di spiegare, di giustificare la loro presenza”. Con altre parole l’aveva detto vasari: “Maestro raro e divino nelle difficultà de’ corpi regolari, e nella aritmetica e geometria”. Un’avventura vissuta nella mente, dunque, seguendo un preciso progetto, fatto di pause e di trattenute accelerazioni. Cadenze scandite da ampie campiture cromatiche, inse-

rite per rafforzare l’immagine. Alla rivalutazione, nel 1927, contribuirà in modo determinante la biografia di Roberto longhi che individuerà nella sua arte la “sintesi prospettica di forma-colore” che sarà poi di Cezanne. Arcangeli farà il nome di Mondrian. “Nascondeva sotto alle apparenze chiare e ordinate, una disciplina di ferro e un ritmo infallibile” scriverà sironi. Mentre Casorati vedrà in lui “l’esempio più chiaro dell’equilibrio compiuto, offerto da una solennità spontanea e naturale”. balthus si ricorda ventenne in visita agli affreschi di Arezzo: “A quel tempo nessuno conosceva il pittore che veniva trascurato: soltanto adesso si è scoperto il suo genio”. All’improvviso, la modernità di Piero della Francesca (morto nel 1492) aveva prodotto in molti artisti la sensazione che egli fosse “ancora vivente e in grado non soltanto di riposare sul proprio passato ma anche di provvedere al proprio avvenire” (Longhi). A Forlì, proveniente dalla Pinacoteca di Sansepolcro è giunto lo scomparto centrale del Polittico della Misericordia, un prestito sorprendente. La prima grande prova documentata dell’artista (1445). Guardandola si ha la sensazione che Piero nasca già maturo. Persino il fondo oro, impostogli dalla committenza, assume una veste grafica e luminosa. Il manto aperto della Madonna si trasforma in cupola, la testa in lanterna o fulcro, le braccia in leve di una bilancia; i fedeli inginocchiati in pesi cromatici perfettamente equilibrati. Le ombre sono tenui. L’immobilità emette il suo respiro. A questo sublime capolavoro si è pensato di accostare il San Gerolamo e un devoto, proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nel cui paesaggio retrostante è possibile rintracciare punti di collegamento con le ricerche novecentesche. Non una, ma due opere, Umberto Eco avrebbe gradito ugualmente. A queste si è aggiunta una tavola raffigurante Sant’Apollonia, fatta arrivare da Washington e una Madonna con Bambino da Newark, attribuita all’artista da Roberto Longhi. La Madonna, più che distaccata e assorta sembra svagata e assente, le sue mani sono gommose e hanno qualcosa di innaturale. Il corpo del Bambino presenta sproporzioni anatomiche evidentissime e imbarazzanti. Se realmente è di Piero, pur della sua “operosità giovanile”, a noi tutti che lo amiamo immensamente non poco dispiace.

j Piero della Francesca

Polittico della Misericordia (intero e particolare) 1444 – 1464 olio e tempera su tavola, cm 273 x 330 Pinacoteca di Sansepolcro, Forlì

DALL’ALTO, SOPRA

Felice Casorati

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Ritratto di Silvana Cenni 1922, tempera su tela, cm 105 x 205 Collezione privata, Torino

Piero della Francesca

Sant’Apollonia 1454 – 1469, t. mista su tavola, cm 38,8 x 28 National Gallery of Art, Washington

PIeRO dellA FRANCesCA INdAgINe su uN MITO MuseI sAN dOMeNICO

13 febbraio | 26 giugno 2016 Piazza Guido di Montefeltro, 12 Forlì (Fc) Mostra a cura di Antonio Paolucci , Daniele Benati Frank Dabell, Fernando Mazzocca Paola Refice Catalogo Silvana Editoriale

Orario martedì / venerdì: 9.30 - 19.00 sab., dom. e festivi: 9.30 - 20.00 25 aprile apertura straordinaria chiuso lunedì

INFO tel. +39 199 15 11 34

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gennaio | aprile 2016

mostrapierodellafrancesca@civita.it www.mostrapierodellafrancesca.com


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di Silvio Lacasella Tra i movimenti artistici, il Simbolismo è forse quello che più riesce a divincolarsi dalla presa degli storiografi. Difficile conferire ad esso una data di nascita, anche se, per comodità si tende a farla combaciare con la comparsa, tra le pagine de “Le Figaro Letteraire” nel 1886, di un Manifesto simbolista scritto da Jean Meréas. Però, ad esempio, sappiamo che assai più importante di quel proclama fu la pubblicazione, una trentina di anni prima, sempre a Parigi, di Les Fleurs du Mal di baudelaire. Anche per la fine del Simbolismo, tra gli studiosi non c’è concordanza: Michel draguet la colloca nel 1905; Fernando Mazzocca alla vigilia della prima guerra mondiale, escludendo inoltre la possibilità che il sapore nostalgico presente ancor oggi tra molta arte contemporanea possa essere la prova della sua sopravvivenza. Proprio Michel Draguet e Fernando Mazzocca - curatore con Claudia zevi della mostra Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra, visitabile sino al 5 giugno 2016 a Palazzo Reale a Milano - ribadiscono le loro convinzioni nei rispettivi testi in catalogo (edito da 24 Ore Cultura). Suddivisa in diciotto ampie sezioni, l’esposizione mette in risalto il fascino e la A DESTRA, DALL’ALTO

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Fernand Khnopff La carezza | 1896 (particolare) Musées Royaux des Beaux-Arts, Belgio

giulio Aristide sartorio La sirena (o abisso verde) | 1893 Galleria d’Arte Mod. “Ricci-Oddi”, Piacenza (immagini dal web)

Il sIMbOlIsMO. ARTE IN EUROPA DALLA BELLA ÉPOQUE ALLA GRANDE GUERRA PAlAzzO ReAle

fino al 5 giugno 2016 Piazza Duomo, 12 Milano

Catalogo 24 ore Cultura

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Mostra a cura di Fernando Mazzocca Claudia Zevi

Orario lunedì: 14.30 - 19.30 mar, merc, ven, dom: 9.30 - 19.30 giovedì e sabato: 9.30 - 22.30

complessità di un non-movimento sino ad oggi - e chissà per quanto ancora - tenuto in ombra dall’abbagliante luce degli impressionisti. Aiuta il visitatore un intelligente percorso espositivo, il cui sviluppo serpentino pare riprendere uno dei tanti motivi ornamentali dei quadri di Alfons Mucha, presente con una concomitante rassegna personale nello stesso Palazzo, andando così a stabilire tra le due iniziative un utile forma di collegamento: circa centocinquanta opere, tra dipinti, sculture e intensi capitoli dedicati alla grafica (“L’espressione della vita non può che manifestarsi nel chiaroscuro” dirà Odilon Redon), provenienti da istituzioni museali italiane ed europee, oltre che da numerose collezioni private. Come sempre avviene in ogni accurata ricognizione, si notano alcune assenze, anche se ci sono quasi tutti: l’andatura onirica di Fernand Khnopff; l’ispirata sospensione mitologica di Max Klinger; la forza misteriosa contenuta nelle immagini rielaborate dalla memoria e presente nelle opere di Odilon Redon; l’isolato spiritualismo di gustave Moreau (“L’eremita che conosce a memoria l’orario dei treni” dirà di lui degas che, peraltro, apprezzava molto Redon); Felicien Rops, forse il più enigmatico e misterioso; Franz von stuck, il cantore delle inquietudini sensuali, segretamente germogliate nell’ombra; l’ampio capitolo italiano, tra la Milano divisionista (in segantini, Pellizza, Morbelli e nello sfocato lirismo di Previati) e la Roma dannunziana, nostalgica di classicità e di buone maniere di sartorio e de Carolis; il decorativismo di galileo Chini e di vittorio zecchin; il caso Alberto Martini, col suo segno elegante e tenebroso, ispirato da Allan Poe e caratterizzato da una forma di trattenuto Surrealismo. Ancora più difficile è contestualizzare il Simbolismo in un’area geografica capace di motivarne l’andatura stilistica, la tecnica, le tonalità timbriche, gli influssi umorali. Mentre, è assai più semplice evidenziarne i contrasti interni e le vistose dissonanze. Simbolisti, infatti, furono böcklin, ma anche Klimt e Puvis de Chavannes, lo furono i Preraffaelliti e i Nabis, artisti tra loro diversissimi. Questo accade perché, a ben guardare, esso non fu un vero e proprio movimento, ma un dif-

fuso sentire interiore. Tant’è vero che, nato in Francia, si estese velocemente in tutta Europa come si può estendere un malessere. Più che proporre strade nuove, il Simbolismo volle essere una sorta di barriera emotiva, innalzata per ammonire un mondo che si andava trasformando con impressionante velocità, assorbito dal progresso scientifico e dall’espansione industriale. Un mondo che oggi conosciamo benissimo, tanto impegnato a raggiungere primati, quanto diffidente nei confronti di ogni percorso contemplativo, specie se avviato in direzione dell’immaginario e del sogno. Fu proprio in quel momento che gli artisti simbolisti cercarono di mettere spalle al muro la scienza ponendo una serie di irrisolvibili enigmi esistenziali. Quelli che da sempre accompagnano l’uomo: il senso della vita, il mistero, l’ignoto, l’origine delle pulsioni interiori, la morte. Dunque, pur non avendo uno stile o una tecnica unificante, il Simbolismo, attraverso una serie di rimandi visivi e allusivi, trova modo di interpretare ciò che transita o staziona nelle profondità oscure dell’inconscio (in quegli anni, con Freud, nasce la psicoanalisi). Tra decadenza e pessimismo, tra baudelaire e shopenhauer, tra Mallarmée e Wagner, la pittura entra in dialogo diretto con la poesia, la filosofia e la musica, alla ricerca di un’arte “totale”. Per i Simbolisti ogni cosa deve essere rielaborata dalla mente ed è per questo che, nell’avanzare, arretrano: Romanticismo, Rinascimento, Memling, l’elegante purezza espressiva di Botticelli. I valori di una religiosità confinante col misticismo, la forza evocativa della mitologia, le allegorie, le leggende e quanto ancora potesse veicolare questi stati d’animo. Sono gli artisti stessi o i poeti, con semplicità di linguaggio, ad illuminare i cunicoli più stretti e bui del proprio percorso, il resto lo farà il pensiero critico, col suo bisogno di consapevolezza. Leggiamo, ad esempio, cosa scrisse gaetano Previati al fratello, in riferimento alla grande Maternità, opera ch’egli espose a Milano nel 1891, accanto a Le due madri di Segantini, alla prima Triennale di Brera, provocando grande perplessità nei visitatori: “Finora non ero riuscito a mostrare sulla tela le idee che mi passano per la mente, non perché io l’idea non l’avessi chiara, ma per un erroneo criterio del fine che si deve raggiungere con l’arte […]: l’espressione di queste idee nel modo più efficace e più assomigliante alla propria impressione”. Dipingere l’idea dunque, non la realtà. In precedenza, nel 1871, Rimbaud annotò in una lettera: “Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi […] sino a giungere all’ignoto e quand’anche smarrisse l’intelligenza delle proprie visioni le avrà pur viste”. Ecco spiegato il simbolismo.


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di Domenico Iaracà

Il triennio dal 1915 al 1918 non è solo il periodo in cui l'Italia partecipò al primo conflitto mondiale ma, proprio a causa degli eventi bellici, anche l'arco di tempo in cui i fratelli giorgio de Chirico e Andrea savinio soggiornarono a Ferrara. Di ritorno da Parigi dove entrambi avevano partecipato attivamente alla vita culturale della città, la produzione di entrambi prende un aspetto particolare. Se Savinio abbandona definitivamente la musica per dedicarsi esclusivamente alla poesia, de Chirico riflette la città che lo circonda nelle proprie tele. Sono paesaggi, scorci dei suoi monumenti o delle torri bolognesi quelli che compaiono nei “quadri nei quadri” o nelle vedute che si intravedono dalle finestre che si aprono nelle stanze. E mentre gli spazi reali sono per così dire relegati ad oggetto dell'arte, gli ambienti in cui questi quadri sono inseriti sono ingombri di oggetti apparentemente senza senso o perlomeno incongrui. L'incomprensibilità degli anni che si stanno vivendo trova infatti una eco nell'accumularsi degli oggetti più disparati accostati l'uno all'altro, dai biscotti dell'infanzia alle carte geografiche mute che rimandano a luoghi altri da quelli in cui il pittore vive, dai celebri manichini alle righe e alle squadre. E mentre nei piccoli paesaggi incastonati, nei “quadri nei quadri” vige ancora una prospettiva naturalistica, spesso a volo d'uccello, le stanze presentano una prospettiva caotica, con numerosi punti di fuga che si contraddicono a vicenda. La produzione legata al contatto diretto con l'ambiente ferrarese e con la figura del giovane de Pisis trova poi un ulteriore portavoce nella figura di Carlo Carrà che con de Chirico condividerà un periodo nell'ospedale della Villa del Seminario. Ricoverati qui per ristabilirsi dalle nevrosi belliche, questi come gli altri pazienti erano invitati a tornare alle attività del periodo precedente la guerra. Per i nostri si fa quindi fitto lo scambio di idee, di temi trattati e di modalità pittoriche. È a questo stesso 1917 che appartengono sia l'Ettore e Andromaca di de Chirico sia la Penelope di Carrà, rare tele in cui compaiono figure individuabili e, non casualmente, collegate ad eventi bellici, dalla coppia definitivamente separata

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giorgio de Chirico | Ettore e Andromaca 1917, olio su tela, cm 90 x 60 Collezione privata © by SIAE 2015

giorgio Morandi | Natura morta con manichino 1919, olio su tela, cm 49,3 x 59,3 Milano, Museo del Novecento © by SIAE 2015

A DESTRA, DALL’ALTO

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Man Ray | Oggetto indistruttibile 1923-65, metronomo con ritaglio fotografico, cm 25 x 13,5 x 14 Collezione privata, Courtesy Galerie Eva Meyer

Carlo Carrà | Il figlio del costruttore 1917-21, olio su tela, cm 121 x 95 Collezione privata © by SIAE 2015

de CHIRICO A FeRRARA METAFISICA E AVANGUARDIE PAlAzzO deI dIAMANTI

chiusa il 28 febbraio 2016 Corso Ercole I d’Este, 21 Ferrara Mostra a cura di Paolo Baldacci, Gerd Roos

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AL CENTRO, DALL’ALTO

dall'ineluttabile destino di morte del guerriero, al personaggio per antonomasia incaricato di rappresentare la donna privata del suo compagno. Sono temi e modalità di rappresentazione, le loro, che non rimangono inascoltati e tra i quadri in mostra molti riportano l'eco europea riscossa da queste realizzazioni, dalle opere del giovane De Pisis a quelle dei rappresentati delle avanguardie europee con cui de Chirico intrattiene rapporti epistolari. Ecco così opere di Man Ray, Raoul Hausmann e salvador dalì che riprendono il tema dell'occhio; René Magritte, Max ernst ed ancora Salvador Dalì con loro quadri nei quadri; per poi arrivare alle figure dei manichini che, oltre alle opere dei pittori già citati, popolano pure quelle di george grosz. Una mostra con opere di indubbio valore e accompagnata da un catalogo che riporta il frutto di uno studio trentennale. La mostra è poi integrata da un percorso cittadino che coinvolge la palazzina Marfisa d'Este, con la prima rassegna dedicata al tema del manichino dall'ambito della moda a quello della scienza, per poi arrivare al Museo Civico di Storia Naturale e la mostra site specific di Mustafa Sabbagh.


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l’ARTE

Da decenni “gallerie Italia” Intesa s Paolo nei suoi palazzi gentilizi sia a Vicenza, che a Milano e a Napoli, propone eventi d’eccellenza. Mostre con reperti e tesori d’arte da Lei restaurati e opere di pittura e scultura spesso provenienti da collezioni proprie valorizzate da allestimenti straordinari e da iniziative con approfondimenti tematici e visite guidate talora precedute da stage tra cui le sezioni didattiche rivolte alle scuole. Di grande appeal è nella sede milanese in Piazza Scala l’attuale esposizione a cura di Fernando Mazzocca dedicata fino al 21 febbraio a Francesco Hayez (Venezia 1791 - Milano 1882), acceso interprete del Romanticismo e dei suoi più nobili ideali. Un artista che con la sua magistrale pittura evoca tanta parte della grande anima dell’800 ritraendo personaggi, vicende storiche del passato e figure scespiriane rivisitate alla luce del presente come i miti della classicità e quelli risorgimentali cui seppe dar volto esaltando sentimenti che contraddistinguono quegli anni effigiando ciò che emblematicamente sta a rappresentare quell’epoca. Una ricca e aggiornata monografica aperta i primi di novembre che dà conto in maniera esaustiva dell’in-

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di Marica Rossi

tero percorso dell’artista: dagli esordi neo-classici agli anni del primo Romanticismo approdando a quelli del pragmatismo positivista. Nato in seno alla Serenissima, Hayez, di famiglia poverissima e per questo mantenuto agli studi dallo zio antiquario, si forma tra Venezia e Roma. Qui sotto l’ala del Canova, al quale era stato affidato dal presidente dell’Accademia di Venezia, studia arte classica e dà prova del suo talento raggiungendo esiti notevoli fra cui il Premio dell’Accademia Brera a Milano col Laocoonte, il numero uno dei tanti vinti poi. Prima di trasferirsi definitivamente a Milano nel ‘23, è a Venezia dove dal 1818 al 1819 affresca le 14 lunette a Palazzo Ducale pure presenti in questa mostra e mai esposte prima, neanche nell’imponente monografica milanese del 1983 a Palazzo Reale. Centrale nell’iter professionale e umano sono i ritratti, sempre più richiesti grazie alla sua ‘pittura civile’ che ne fanno, come definito da Mazzini “vate nazionale e genio democratico”. Hayez ha infatti contribuito con la sua arte a creare un’identità nazionale, come Manzoni con la letteratura e verdi con la musica. Inoltre le sue doti naturali e

la sua versatilità gli hanno consentito di cimentarsi in più tecniche: dalla pittura a olio all’affresco e nei generi più disparati. Si va dall’arte sacra e patriottica a quella profana, effigiando gran dame, Maddalene e Veneri come il chiacchierato Ritratto della ballerina Carlotta Chabert mentre scherza con le colombe (effigiata nella pingue nudità ornata solo del filo rosso che sottende il legame col nobile Malfatti, il lauto committente e amante presto in rovina per causa sua). E dunque Hayez diventa, a dispetto delle critiche dei benpensanti, oltre che il longevo docente a Brera, dove ha pure ricoperta la carica di Direttore, il pittore più ambito (suo il ritratto a Francesco Giuseppe). Tra gli altri celebri, oltre Manzoni e Rossini (questo post mortem con


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ha accanto le altre due versioni nella sezione in cui è pure ritratta l’Italia ‘bella e perduta’ (dopo le disillusioni post unità) in un quadro bellissimo che reca il titolo di Malinconia. Tra le piacevolezze legate alla mostra “Hayez”, la visita offre la visione di una rassegna filmica frutto della collaborazione con Fondazione Cineteca Italiana grazie alla quale sfilano sullo schermo in una saletta allestita ad hoc alcuni classici d’autore come “Senso” di Luchino Visconti (in cui si giunge al calco cinematografico de Il bacio) e altre scene famose quali fra le altre di Mario Soldati, Franco Zeffirelli, Pier Paolo Pasolini.

LE OPERE

SOPRA, IN SENSO ANTIORARIO

Il bacio

hL Francesco Hayez

1859, olio su tela, cm 112 x 88 | Pinacoteca di Brera, Milano

Il bacio 1861, olio su tela, cm 127 x 95 | collezione privata Il bacio 1867, olio su tela, cm 110 x 88 | collezione privata

HAyez

gAlleRIA d’ITAlIA Chiusa il 21 febbraio 2016 Piazza della Scala, 6 | Milano

Mostra a cura di Fernando Mazzocca

f Francesco Hayez Ritratto della cantante Matilde Juva Branca 1851, olo su tela, cm 121 x 95 Civica Raccolte d’Arte. Galleria d’Arte Moderna, Milano A SINISTRA

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l’aiuto di due fotografie), Cristina Trivulzio Belgioioso, Federica Mylius, Francesca Mainoni. Particolare è stata poi la vocazione per gli autoritratti che ci restituiscono la sua immagine nelle diverse età di una vita lunga e appassionata. Ma è certo che momento clou per il visitatore della mostra è l’incontro col noto “Bacio” nelle tre versioni mai viste prima tutte insieme. Una di queste è venuta da New York, dalla collezione di un ex regnante. Ed è la terza versione delle tre finora note (1859, 1861 e 1867). Questa, arrivata d’oltreoceano, è del 1867 ed è stata realizzata dall’artista per l’Esposizione Universale di Parigi (reca in più il dettaglio di un velo bianco lasciato scivolare sulle scale). Quest’opera in particolare Hayez la volle tenere sempre con sé, finché alla sua morte fu venduta dagli eredi alla Granduchessa Elena di Russia. Poi per via dinastica giunse in un’altra famiglia di stirpe reale. Ma al di là di tutti i significati patriottici di cui il bacio fu rivelatore proponendosi in primis quale inno alla nuova Nazione che abbraccia la Francia alleata nella lotta di liberazione contro l’Austria per la seconda guerra di indipendenza, l’opera giunse all’epoca quale portatrice di una piccola grande rivoluzione dei costumi. Mentre oggi quel bacio ci appare del tutto realistico così com’è dipinto, allora quel naturalismo conclamato era di un’impudenza di cui mai prima s’era osato in arte. Quello del 1859, esposto il più possibile e assurto a icona nella memoria collettiva, stavolta

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j Francesco Hayez Ritratto di Alessandro Manzoni 1841, olo su tela, cm 118 x 92 | Pinacoteca di Brera, Milano A PAGINA 6, A IN ALTO A DESTRA


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di Rossella Digiacomo

Ospitata fino al 6 marzo 2016 presso La Triennale di Milano Ennesima a cura di vincenzo de bellis, “una mostra di sette mostre sull’arte italiana” che raccoglie 170 opere di oltre settanta artisti. Sette progetti espositivi interdipendenti e che allo stesso tempo dialogano tra loro intrecciandosi, per abbracciare la grande complessità del panorama artistico degli ultimi cinquanta anni in Italia. Sette come un numero magico, come le mostre che la compongono, sette interpretazioni, sette paradigmi sull’arte contemporanea per conoscere e confrontare le diverse espressioni artistiche, i diversi mezzi utilizzati e i diversi formati espositivi. E infine, sette come le tele dell’opera di giulio Paolini, Ennesima (appunti per la descrizione di sette tele datate 1973), che dà titolo e tono alla mostra sotto la direzione artistica di edoardo bonaspetti. “Una mostra di mostre” verrebbe da dire, dalla personale all'installazione sitespecific, dalla collettiva tematica a quella cronologica, dalla collettiva su uno specifico movimento a un particolare medium fino alla mostra di documen-

tazione. Il percorso di Ennesima inizia così con la prima mostra tematica dal titolo Per la scrittura di un'immagine. La collettiva è focalizzata sull’analisi della centralità dell’iconografia nella produzione artistica italiana dagli anni Sessanta a oggi, mettendo insieme artisti di ambiti diversi, dall'Arte Povera di luciano Fabro al Neo-Concettuale di lara Favaretto, studiando in particolare il rapporto con la tradizione e la sua eredità di tempi recenti. Segue la collettiva dedicata a uno dei più significativi movimenti artistici del secondo Novecento, la Poesia Visiva, intitolata L'immagine della scrittura: Gruppo 70, poesia visuale e ricerche verbo-visive; si parla di artisti che rifiutano la comunicazione di massa, ritenuta stereotipata e banale, e utilizzano collage di parole per una sorta di sistema contro-informativo. Efficaci in tal senso sono le opere di gianni emilio simonetti, giuseppe Chiari e giulio Paolini. Quasi a metà del percorso ci s’imbatte in una mostra personale, Alessandro Pessoli: Sandrinus, il tutto prima delle parti, la prima dell’artista in un’istituzione pubblica italiana. Snodo centrale è invece la rassegna collettiva su un medium, La performance dal tempo sospeso: il tableau vivant tra realtà e rappresentazione, che si concentra sulla performance, in particolare sul sottogenere del tableau vivant, in altre parole quel tipo di performance che implica non la narrazione, ma la creazione di un'immagine, non il movimento, ma la fissità. Da gino de domincis, a vettor Pisani o Fabio Mauri, ci sono artisti che hanno segnato con le loro rappresentazioni tra finzione e realtà, un'epoca, rimessa in questo luogo, al centro dello sguardo. Penultima mostra è L’archivio corale: lo Spazio di via Lazzaro Palazzi, l’esperienza dell’autogestione e AVANBLOB, mostra di documentazione che a venticinque anni di distanza rende omaggio alle attività del gruppo di

artisti attivi a Milano proponendo un primo tentativo di storicizzazione. Allievi a Brera di Luciano Fabro, questi artisti rappresentano la cesura tra un'idea di arte tutta mentale con la piacevolezza del fare, il recupero di alcune tradizioni stilistiche e soprattutto l'affermarsi di una microgenerazione.

SOPRA, DA SINISTRA

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luciano Fabro Due nudi che scendono le scale ballando il Boogie-Woogie, 1989

Fabio Mauri | Senza Ideologia 1975, Elia Kazan, “Viva Zapata!”, proiezione su uomo; vista dell’installazione a P.zzo delle Esposizioni, Roma 1997 Courtesy © Eredi F. Mauri e Hauser&Wirth Photo: Claudio Aba


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Conclude il percorso 2015: tempo presente, modo indefinito, che ruota attorno a una selezione di artisti nati tra la metà degli Anni Settanta e Ottanta. Il fattore temporale qui fornisce le coordinate per tracciare una mappatura, seppur parziale, dello stato atDALL’ALTO IN SENSO ORARIO

P

Paola Pivi Senza titolo (asino) 2003, stampa fotografica montata su lastra Dibond, cm 180 x 224 Collezione Giuseppe Iannaccone, Milano

luca vitone Crêuza 2000, legno, mattoni, pietre, cm 360x120x830 Courtesy dell’artista e Galleria Pinksummer, Genova Photo: Giulio Buono gino de dominicis I Gemelli 1973

liliana Moro Aristocratica 1994, still da video Courtesy Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (TO) (acquistato con il contributo di Compagnia di San Paolo, Torino)

tuale della ricerca artistica in Italia. Ne emerge un’evidente eterogeneità; in contrasto con gli artisti del passato, tra gli artisti di questa mostra affiorano più le diversità che le interdipendenze, precludendo qualsiasi possibile categorizzazione. L’intero allestimento è infine costellato d’interventi site-specific in punti cruciali del percorso espositivo, raccolti sotto il titolo di Qui, ora e altrove: Site- Specific e dintorni, che s’inseriscono in maniera trasversale rispetto alle altre sei mostre. Ennesima è dunque una piattaforma di confronto in progress tra presente e passato, tra maestri riconosciuti, artisti emersi a cavallo degli anni Novanta e i primi Duemila e i giovani delle generazioni più recenti. La mostra alla Triennale pone le basi affinché il dialogo paritario realizzato in ambito critico, tra le visioni di ieri e le versioni alternative di chi non c’era e ora dice la sua, possa innescarsi anche a livello artistico, agendo da sbloccante di un sistema dell’arte apparentemente in stagnazione o comunque imploso su se stesso.

eNNesIMA

TRIeNNAle dI MIlANO Chiusa il 6 marzo 2016 Via Emilio Alemagna, 6 Milano

A cura di Vincenzo De Bellis

Catalogo Mousse Publishing Info www.triennale.it

INF O

vettor Pisani L’eroe da camera. Tutte le parole dal silenzio di Duchamp al rumore di Beuys 1972, persona vivente, cavo d’acciaio, carrucola, catena, collare di cuoio, orologio, dimensioni variabili Collezione Mimma Pisani Courtesy Archivio Elisabetta Catalano, Roma Photo: Elisabetta Catalano

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di Giuseppe Carrubba

Vi sono in effetti, da secoli, uomini la cui funzione è giustamente quella di vedere e farci vedere ciò che noi non vediamo naturalmente. Sono gli artisti […] L’arte servirà dunque a mostrarci che un’estensione delle facoltà di percepire è possibile. Henri Bergson

Il nostro corpo e le cose che ci circondano agiscono determinando forma e sostanza di ciò che accade dentro e fuori di noi, in rapporto a sviluppi personali, identitari e sociali. Il corpo come texture autobiografica, all’interno di un processo in divenire, rappresenta la poetica performativa di AMAe, un collettivo artistico Italolondinese che mescola pratiche tribali di iniziazione a perturbanti teorie sociali e filosofiche, per un’azione politica di liberazione mentale dell’identità di genere che ponga l’attenzione al ruolo delle strutture sociali nella formazione dei concetti, relazionali, sessuali e normativi. AMAE e la cultura Queer, che mettono in discussione il corpo e traggono ispirazione dalla critica femminista, ricorrono alla forma relazionale psicoanalitica ed all’approccio decostruzionista per una trattazione della norma insieme ad una sua possibilità di trasgressione, mostrando le diverse coniugazioni del desiderio e dei suoi oggetti. L’azione artistica si afferma nella sua funzione sovversiva rispetto ad un ordine socialmente codificato, per dare voce alle altre identità e interagire con i codici ed i simboli delle categorie sessuali come esercizio di critica e riflessione sul potere. Il corpo diviene oggetto di indagine e soggetto da decostruire, all’interno di un processo di analisi, in una linea di confine in cui la materialità, il linguaggio e la destabilizzazione del modello normativo provocano meccanismi di esclusione o abiezione sociale. Riflettere sul binomio maschile-femminile vuol dire comprendere le relazioni di potere ed i conflitti radicati nella cultura occidentale, e come la vita e la legittimità dei desideri siano condizionati dalla

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politica e dalle istituzioni, dal controllo da parte di queste del corpo maschile e femminile, all’interno di strutture materiali e mentali di spazializzazione delle relazioni sociali e sessuali. Il discorso psicoanalitico diventa uno strumento di critica del conformismo culturale e di comprensione della sessualità, in tutte le sue forme reali o immaginifiche, in quanto parte importante della relazionalità umana insieme alla dimensione fantastica che costituisce un aspetto di base dell’esperienza di un corpo sessuato. Questo ha permesso di concettualizzare il genere indagando il psichico ed il sociale nelle sue forme di seduzione e punizione, nel rapporto tra repressione e identità, di esseri umani esposti alla colpa ed al debito, all’autopunizione ed alla disciplina, secondo la prassi dell’imprigionare ed identificare l’anima ed il corpo corrispondente. La soggettivazione moderna, l’esigenza di liberazione insieme al desiderio di condivisione hanno creato i preIMMAGINI SOPRA, IN SENSO ANTIORARIO

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Amae. Mybodyisyourbodyproject

Transgenital panic Performance Post gallery Kaunas, Lithuania, 2015 Foto Marco Berardi I will jump first. Non official shot Foto Amae

A PAGINA 10 DA SINISTRA IN SENSO ORARIO

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Amae. Mybodyisyourbodyproject

Transgenital panic digital painting, 2015

The otherselves series Act. 1: Indelible Performance Space, London 2013 Foto Paul Robinson

Transgenital panic Performance Post gallery Kaunas Lithuania, 2015 Foto Marco Berardi

Marina Abramović Action Pants: Genital Panic, 2005

valie export Action Pants: Genital Panic, 1969 (in <http://who-wore-itbetter.tumblr.com/post/70554523454/v alie-export-action-pants-genitalpanic>)

supposti per la critica dell’identità di genere, resa praticabile dallo spirito del tempo. Il corpo fisico, politico, tecnologico, biologico, emozionale e mentale, rappresenta l’interfaccia ideale, reale o virtuale, per raccontare il suo cambiamento attraverso i concetti di transitorietà e alterità, all’interno di un’indagine che da personale si trasforma in modello estetico sociale, in rapporto a processi di percezione e conoscenza sensoriale. La fenomenologia dell’eccentrico e della devianza ha prodotto resistenze sociali e connotazioni negative, perché destabilizzava la cultura egemone con sconfinamenti e violazione delle regole del mondo borghese, istituzionale e patriarcale tra Ottocento e Novecento. L’omofobia contemporanea è così storicamente connessa alle trasformazioni culturali del secolo scorso in rapporto alle necessità di costruire una mascolinità forte e virile, come modello culturale, e quindi un codice di comportamento dentro limiti identitari molto precisi di regolazione maschile ortodossa e aggressiva. valie export racconta con una foto la storia di una performance Action Pants: Genital Panic del 1969. L’artista è seduta su una sedia a gambe aperte mentre tiene un mitra tra le mani, i pantaloni hanno un taglio sull’inguine e i genitali sono bene in vista. L’arte interviene e rivoluziona il corpo insieme ai codici sociali determinando una rivoluzione culturale per uscire fuori dagli schemi: la lotta femminista entra nell’arte contemporanea. Transgenital Panic (Lituania, giugno 2015) è una perfomance di AMAE che nasce e si ispira, anche in forma critica, all’azione di Valie Export ed alla rivisitazione della stessa da parte di Marina Abramović, che, nel 2005, nel tentativo di appropriarsene fisicamente, e così monumentalizzare e musealizzare l’opera, rinnova l’azione performativa con il fucile ma l’obiettivo non è più il conflitto ma la ripresa della sua dimensione estetica e metaforica. Un documento ritenuto una pietra miliare del genere all’interno di un’opera più ampia Seven Easy Pieces1. La leggenda vuole che Export si sia recata in un cinema porno armata di fucile, con i pantaloni aperti esibendo

i genitali. La foto che documenta il gesto lo amplifica e lo rende verosimile, amplificandolo nel racconto mitico, in questo modo l’immagine diviene un’icona delle azioni femministe, in cui il simbolo fallico del fucile è strumento e metafora del conflitto tra i sessi. Con AMAE il corpo maschile si mostra in tutti i suoi aspetti transitori, con codici e simboli disegnati all’interno di un’estetica del caos, frutto di un pensiero fluido e ambivalente, dove in questo caso viene mostrato un pene con le ovaie tatuate su di esso, in cui il sesso reale e immaginato diventa metafora esplicita del conflitto tra i generi. Il fucile è la pistola da tatuaggio che, rivolta contro lo stesso corpo che la controlla, diventa elemento di definizione e determinazione del sé e dell’identità di genere. La rappresentazione del corpo contemporaneo si afferma nella messa in scena di un’azione che è critica ed investigativa per la costruzione di un discorso visivo potente, messo appunto proprio per sovvertire il senso economico e produttivo del corpo sociale. Sapere e potere svelano la loro immanenza mettendo in campo la sessualità, dispositivo di base delle politiche produttive e delle sue molteplici strategie. La visione performativa del corpo, in uno spazio delimitato, si afferma dentro una poetica dell’autoreclusione, come reazione viscerale e istitutiva del controllo, del supplizio e dell’incarcerazione. La cultura delle periferie e del clubbing, prigioni o spazi di liberazione, espongono i corpi al viaggio infinito, alle veglie, alla disfunzione elettrica e cardiaca, alla soglia del limite sonoro, per perdersi e ritrovarsi, nell’evanescenza delle ore, dell’alterazione spaziale e percettiva con l’obiettivo di rinascere ancora. La cultura della frammentazione postmoderna ha prodotto un corpo ostentato e parcellizzato, ridefinito da pratiche sociali, culturali, economiche e tecnologiche che hanno relativizzato il soggetto in rapporto al contesto di riferimento. Il perturbante ed il disagio nell’azione ritualistica sono in relazione al livello di angoscia esistenziale, definiscono la persistenza del gesto, necessario e catartico, come affermazione dell’Io, per attivare processi di equilibrio, tollerabilità e pacificazione del Sé, all’interno di un’operazione artistica sociale e contestuale. A Kaunas, in Lituania, il corpo collettivo di AMAE è quello di un performer che si muove prima nello spazio vuoto di un magazzino e poi in una Galleria d’Arte, il pubblico è assente mentre l’azione viene documentata dal fotografo Marco berardi che ha chiesto di scegliere un proverbio di William Blake come riferimento concettuale e poetico, un elemento di sintesi, visivo e mentale: The nakedness of a woman is the work of God. La citazione è esplicita ma anche ironica e contraddittoria; con i pantaloni aperti il performer mostra i genitali

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maschili con il disegno della vagina, che mediante l’auto-tatuaggio viene trasformato in una forma astratta, libera e non pianificata. La relazione tra gli opposti e il loro possibile conflitto viene annullato dalla ricerca di una forma alternativa simbolica, in cui la contaminazione del corpo, la sua elaborazione e lo sviluppo rappresentino momenti di un percorso sciamanico che possa sublimare, attraverso l’atto performativo come scrittura epidermica, la trasformazione materiale e spirituale.

Seven Easy Pieces nasce nel 2005 quando Marina Abramović decide di proporre cinque performances compiute dai suoi maggiori predecessori: Vito Acconci, Joseph Beuys, Valie Export, Gina Pane e Bruce Nauman. L’artista a queste cinque re-interpretazioni ne ha aggiunte due del proprio repertorio. Ogni perfomance si è svolta dal 9 al 15 novembre 2005 presso il Solomon R. Guggenheim Museum di New York per la durata di sette ore continue con la regista Babette Mangolte che ne ha filmato alcuni passaggi determinando così l’opera. 1

AMAE http://www.amae-art.com/

NOTE

Transgenital Panic Performance - Kanas 2015 June 11, 2015 / mybodyisyourbodyproject https://mybodyisyourbodyproject.wordpress.com/2015/06/11/transgenitalpanic-performance-kaunas-2015/

VALIE EXPORT Action Pants: genital Panic, 1969 https://www.instagram.com/p/5pHDX2 Ny8P/ MARINA ABRAMOVIĆ seven easy Pieces, 2005 http://www.coldbacon.com/art/artforum/abramovic-burton.html

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H. Bergson, La percezione del mutamento, in “Pensiero e movimento”, trad. italiana di F. Sforza, Bompiani, 2000 Milano. J. Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, 2014 Milano. M. Casanova, Il Corpo del Reato. La Reclusione, CACT Publications, 2008 Switzerland. M. Foucault, Potere e strategie, Mimesis, 1994 Milano

BIBL IO G R AF IA


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di Antonio Vitale

È sempre interessante avvicinare e conoscere un artista sia personalmente che attraverso le sue opere, ma quest’incontro diventa vibrante e lascia un segno quando lo sguardo si posa sul lavoro artistico di colui il quale è considerato, per voce di acclarata critica internazionale, uno dei più interessanti ed intensi artisti spagnoli del dopoguerra: gastòn Orellana. Nato in Cile più di ottanta anni fa da antica famiglia spagnola, diventa, a partire dagli anni ’50, cittadino del mondo tra Sud America, Spagna, Stati Uniti ed Europa. La sua vita sin da giovane respira dell’amicizia con il poeta Pablo Neruda, che di lui scrive: “Quello che c’è nella pittura di Gaston Orellana è vivo come una vita, così sicuro come un oggetto, tanto misterioso come una pietra. Forse la sua Arte è incarnata in un’estensione dell’anima, ma così materiale, tattile, rugosa e fertile come l’involucro di un frutto. Questi gusci del mistero o vestimenti del sogno si possono toccare e cantano, si possono percorrere nell’ardente lavoro della sua geologia personale”. È proprio Neruda colui il quale, nel 1954, gli consiglia di allontanarsi dalla sua terra natale per sottrarsi al clima pesante instaurato dal regime cileno, che additava gli intellettuali e gli artisti che accarezzavano idee filo-comuniste. Nel 1959 a Madrid fonda il “grupo Hondo”, quale prima esperienza in Spagna della cosiddetta “Nueva Figuraciòn”, che, ponendosi contro una supposta perdita di contenuti dell’Arte Astratta, persegue il valore di un’iconicità interpretata attraverso uno stile figurativo neoespressionista. Con quest’idea, che alimenta ed è alla base della forza della sua etica del fare, Orellana colleziona centinaia di mostre nel mondo tra prestigiosi spazi pubblici ed importanti realtà artistiche private. Partecipa alla mostra “The New Images of Man” al MOMA nel 1959,

OPERE SOPRA DALL’ALTO, IN SENSO ORARIO

gaston Orellana

Luna y sonrisas Arrodillado

El paraguas y la luna

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è invitato alla Biennale di Venezia del 1970 e del 1995, organizza sue personali al “Museo Español de Arte Contemporaneo” a Madrid nel 1986 e al “Taipei Fine Arts Museum” a Taipei nel 1993, è inserito nella collezione dei Musei Vaticani dal 2005 con la sua opera Crucifixion 1 e annovera tante altre prestigiose presenze fino ai nostri giorni.

Tutto il clamore che la pittura di Orellana riesce a suscitare trova le sue ragioni nella sua poetica espressiva, la quale incarna il sentimento “dell’attimo perenne”, per opere sempre narrate nella temporaneità, fioca o abbagliante, di una luce lunare e nelle quali il maestro mirabilmente inciampa nei suoi formali confini neoespressionistici definendo, in tal mo-

do, ad ogni passo compiuto dalle sue visionarie creature, una struttura segnica dalla statura totemica e per questo indefinita nel tempo. Per Orellana si può ben parlare di un inesauribile orizzonte poetico che non conosce mai nella fitta narrazione delle sue opere una caduta di tensione emotiva, per opere che vivono il buio della notte, la compagnia della Luna, ma anche il dramma e la vertigine della vita. Nella sua serie di opere incisorie degli anni settanta dal titolo “Il mio mondo”, il maestro spagnolo racconta tutto il suo pensiero declinandolo in venti differenti scene, rappresentando molti dei suoi protagonisti in ginocchio, attribuendo per tale comune geografia del corpo una motivazione e quindi un significato variamente differente, ma in tutte finitamente espresso: la sua preghiera laica. Ecco in alcune di queste opere uno sguardo contemplativo, come accade in Dos hermanas e Pa jaro, sognante in Tres figuras, trascendente in Elevado, ironico in Salto Alto, drammatico in El hijo. Tutti questi orizzonti,


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che hanno un proprio specifico sentimento, vengono da Orellana portati al limite di una corporeità segnica, quasi volesse proteggere ciascuna scena rappresentata nell’ombra polverosa di neri, mai nebbiosi, spesso interrogativi, sempre indagatori. In tal modo egli opera una precisa scelta stilistica che sposta la carne di una pennellata nello scheletro di un segno che ci appare per questa sua natura come scrittura e per questo ontologicamente depositaria di un messaggio. Questa segnica esplicita o ermetica che ritroviamo nelle sue opere definisce un territorio plastico unico, aperto al dialogo con le proposte dei surrealisti e capace di condurre l’ansia di deformazione della figura umana alla più alta dose di espressione ed inquietudine dell’arte contemporanea. Orellana gioca con mente sottile ad assassinare l’ovvio, il consolidato, divenendo in tal modo interprete originale di un nuovo linguaggio, di una possibile strada, di un inedito binario del tempo lineare, di una, infine, personale estetica di un inviolato cosmo fatto da creature mai viste che si muovono in paesaggi antigravitazionali al limite dello spazio fisico. Questo gioco della vita e dell’arte è il lavoro della vita, della sua vita, costa fatica, impegna il fisico e la mente, induce a cercare senza sosta e, quando sembra aver trovato, deve intraprendere una lunga ed estenuante sedimentazione ed elaborazione, imbrigliare l’idea, delineare un progetto per giungere infine alla sua realizzazione. Opera su opera ci parla della vita quotidiana, dello specifico tempo in cui avviene un’osservazione, della storia fatta non solo di vita propria ma anche della vita degli altri, di sogni oscillanti tra picchi e baratri,

k gaston Orellana | Dos hermanas

mediante un esitato modus espressivo che si presenta ai nostri sguardi intimo e profondo. Questo rapporto di complicità tra ciò che viene guardato e chi guarda rivela il timbro ricercato e trovato da Orellana, di una pittura mai urlata nel virtuosismo di forme o nell’arroganza di colori, ma che identifica come “sacerdote” ogni sua opera che con laica vocazione ha l’alto compito di offrire la chiarezza di un messaggio, duro o sognante, che mai inciampi nella distrazione da un Senso. Un cammino dai

MARCO STEFANUCCI

Metamorphóō 30 aprile | 14 maggio 2016

a cura di

Calusca

in collaborazione

Galleria Lomabardi, Roma Media Partner

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molti passi tra catarsi, presentimento e sentimento, per una moltitudine di opere che parlano sussurrando e facendolo esprimono quell’intensità che solo la poesia è capace di restituirci e che ha significato, anche, il perché dell’amicizia di una vita con “Mi chiamo Pablo, l’uccello, l’uccello di una sola piuma, il volatore d’ombra chiara e di chiarezza confusa, le ali non mi vedono […] così vengo e me ne vado, volo e non volo, ma canto: sono l’uccello furioso della tempesta tranquilla”.

CICCIARELLO / IOZZIA

a cura di

21 maggio | 24 giugno 2016

Media Partner

Segni del visibile

Piero Zuccaro Catalogo

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Ufficio Stampa

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lunedì / sabato: 10 - 13 / 16,30 - 20,30 | domenica e festivi chiuso | Dir. Maurizio D’Agata | P.zza Porta Cusmana n. 10/11, 95024 Acireale (Ct) | + 39 095.604917 | info@arteingalleria.com | www.arteingalleria.com

LucascanduraDesigner

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Cantunera Srls via G.Di Vita,17 | 97013 Comiso (Rg) Tel. +39 329 141940 info@cantunera.com www.cantunera.com Aperto tu( i giorni 11.30 ‐ 14.00 |19.00 ‐ 24.00 Chiusura se(manale Martedì

Cantunéra‐Tipicamente Sicilia Cantunéra Tipicamente Sicilia Cantunéra Tipicamente

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È così che vogliamo accogliervi nella nostra piccola bo'ega. Con il saluto più importante, più rispe'oso e solenne del siciliano, al quale si rispondeva: Cantunéra, nel cuore del centro storico della nostra ci'à, Comiso, nel sud‐est della Sicilia, tra gli Iblei ed il Mediterraneo, è la nostra bo'ega di pas&cceria ar&gianale dolce e salata &picamente siciliana che nasce dalla passione di Alessandro Pace per la professione di pas&ccere, dall'impegno di tu'a una vita e dalla voglia di risca'o per la nostra Terra, per la nostra generazione che ha bisogno di riscoprire salubrità e genuinità in ciò che mangia. Cantunéra è una scommessa sulla Sicilia,Terra di sole, di mare, di mandorli, carrubi ed agrumi, di bella gente, di buona musica e di o(mo cibo. Ogni nostro prodo'o (arancine, cannoli, bisco(, cassate ed altri dolci tradi‐ zionali) viene realizzato con cura a'raverso l'u&lizzo di materie prime locali di prima qualità sapientemente selezionate, viene lavorato ar&gianalmente con me‐ todi tradizionali e viene servito freschissimo e fragrante al cliente che ne sarà de‐ liziato, coccolato ed inebriato al tempo stesso. Ogni alimento prodo'o nel nostro laboratorio è sano e genuino, di alta qualità, senza conservan&, senza grassi idro‐ gena&, senza coloran&; è lo stesso prodo'o che diamo alle nostre figlie. Il ri‐ spe'o per il consumatore è la nostra parola d'ordine, la loro fiducia è la nostra conferma.


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l’APPUNTO

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di Ornella Fazzina

Scrutare la realtà per intercettare l’essenza delle cose celate dietro i veli dell’apparenza, risulta essere la cifra stilistica che Claudia Cervo (Trieste, 1964) utilizza per indagare la complessità dell’animo umano, attraverso un meticoloso e sofferto lavoro di “scavo” che l’ha portata a presentare la mostraVeli allo spaziotrart di Trieste (12 dicembre 2015 - 27 febbraio 2016). Da anni la sua ricerca si affranca da orpelli per sondare la profondità dei soggetti che tratta, i quali principalmente rappresentano la figura femminile. Le tracce antropomorfe che si percepiscono o emergono dalla superficie si muovono in un’altra dimensione spazio-temporale e assurgono a protagoniste impersonali, isolate, non definite, non collocate in un margine protettivo e per questo prive di riferimenti abituali. La volontà di una rilettura intimistica crea un percorso di riflessione che esplora temi quali la solitudine, l’incomunicabilità, la perdita, il ritrovarsi. Si innesta nel suo lavoro una trama narrativa punteggiata da elementi che anelano alla ricostruzione di una comunicazione con se stessi, troppo spesso interrotta e per questo da recuperare. Nell’affondare le radici nelle consapevolezze più segrete o nei dubbi più ancestrali, le opere della Cervo, realizzate con diversi materiali ravvivati da una continua sperimentazione, instaurano delle relazioni percettive tra opera e osservatore capaci di generare significati. E in questa operazione

di velare per svelare ciò che in noi c’è di essenziale e di più nascosto, si avvia un processo di delocalizzazione dello spazio fisico e mentale dove l’oggetto rappresentato ci spinge ad una riconsiderazione del nostro stare nel

mondo, aprendosi ad una dimensione intima e tuttavia universale. Dallo sfondo affiorano sagome che restituiscono tutta la forza di un segno originario capace di scagliarci in un luogo possibile dove solo un lento, coraggioso e faticoso lavorio interno con noi stessi può farci tornare all’essenza più luminosa del nostro essere. Lo smembramento di un corpo pittorico o materico non vuol dire dissezione del soggetto, ma verifica delle componenti strutturali dell’opera per costruire un nuovo oggetto significante. La Cervo, affascinata dalla dialettica tra il controllo del processo e l’imprevedibilità delle reazioni scaturite dall’uso di vari materiali, fa emergere un gioco interessante di materia/ luce/trasparenza reso possibile con la carta velina giapponese su tela di juta

o di lino, oppure su garza di cotone, in alcune opere arricchite da resina e pastelli, dove è proprio la materia che ha il ruolo principale nel diventare al tempo stesso significante/significato, nel comporsi e scomporsi, nel velarsi e svelarsi, in una incessante azione di costruzione/decostruzione che si muove sempre all’interno di una logica del frammento e del disfacimento della forma per crearne una nuova. I suoi lavori sono impronte di una memoria della pittura nella storia dove è la stessa immagine a suggerire lo sviluppo della ricerca, partendo da un azzeramento e approdando a un modello evocativo di superficie. Vi sono tensioni cromatiche che traspaiono da una stesura uniforme e il supporto diviene il campione virtuale dello spazio su cui si compie il processo di una sottrazione che giunge all’orditura della tela o ad una sovrapposizione materica tesa a realizzare la crescita tra mezzo e gesto, tra formazione della superficie e procedimento operativo. DAL CENTRO, IN ALTO E IN SENSO ORARIO

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Senza titolo | 2015, velina su juta, cm 65 x 87 Senza titolo | 2015, velina su juta, cm 114 x 63 Senza titolo | 2015, v. su juta, cm 135 x 80 (part.)


EDILIZIA E DECORAZIONI info: +39 349 0727633 | info@iltintoretto.com


gennaio | aprile 2016

di Rocco Giudice

L’importanza di un’opera d’arte può dipendere, a volte, non tanto dalla qualità intrinseca, neppure dall’intenzione che la anima, ma dallo svelare un metodo che porta a esiti più lontani dello scopo consapevole dell’autore. Sovviene un dipinto di Jacopo Robusti, alias Tintoretto, all’Alte Pinakothek di Monaco, dove non mancano capolavori da ammirare: Venere, Vulcano e Marte: e in questo quadretto boccaccesco, che fa della mitologia l’archetipo anche dei drammi da boudoir, ritroviamo qualcosa che è meno frequente nel Tintoretto più magniloquente. In cui lo spazio è inteso come movimento e l’azione è al suo culmine, mentre qui la scena impatta toccando l’epilogo: e come la sua pittura va oltre ciò che si pone di fronte o cui mira percorrendo con lo sguardo lontananze precipitose e le cose sembrano reali nell’atto di immaginarle, prima che in quello di dipingerle, così assistiamo al dramma vero per cui il dramma trapassa nel comico o nel pirandelliano umoristico - il comico alla luce dell’assenza (tragica) del tragico. Il vuoto è sotto il naso, come Marte sotto il letto: Vulcano mostra le spalle allo specchio, dato che non sa guar-

l’INTUIZIONE

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darsele: e il dio della guerra si rispecchia nella bellicosità del cane da guardia di cui riceve in faccia i rimbrotti. In Tintoretto, l’azione è sempre drammatica in senso etimologico, in quanto azione scenica, che si propaga e coinvolge nella sua energia cinetica quanto ha attorno, quasi coinvolgesse lo spazio, che non è semplice recipiente di un fatto, ma parte di esso. Ma qui, in Venere, Vulcano e Marte, è una sorta di paralisi a contagiare e a pesare anche sulle cose inanimate, replicandole, bensì a rovescio, come fa lo specchio in cui l’osservatore è invitato a contemplarsi; la vetrata della finestra si duplica e rifrange, degradata, nel pavimento; la boccia di vetro dà una misura vuota o forse, colma della inutilità beffarda di un simbolo di purezza che ha sbagliato altare; Eros il pargolo fa da contrappunto tutt’altro che innocente al vegliardo in cerca di un colpevole; il cane da guardia, che non ha assolto il suo compito, si adatta, a cose fatte, all’ufficio di spia emettendo gemebondi guaiti d’allarme di circostanza e a tempo scaduto. Le figure, in Tintoretto, sembra vogliano venire fuori dallo spazio in cui sono collocate fisicamente, perché l’azione, quand’anche interrotta o sospesa, è l’elemento di cui esse consi-

stono: mentre qui sembrano regredire per trovarsi altrove: e ognuno dei personaggi è qualche altro: lei ricorda la Venere urbinate di Tiziano, ma la superba maestà divina è, qui, pudore o meglio, scrupolo che non sa rinunciare alla civetteria di una passività ammiccante irresistibilmente seduttiva come ha vittoriosamente rinunciato alla castità. E c’è un Vulcano, nerboruto, ma piegato da tutt’altro che difetto di nascita, per effetto dell’età o professionalmente deforme causa fatica da lavoro alla fonderia: e si riporta, per la struttura tendenzialmente oblunga, che non sa stare in sé dall’ansia o dallo slancio dell’atto, a un altro Jacopo, il Bassano: ma la posa appare quella, remissiva e umiliata, di chi si scopra a rifare il gesto di un amante colto sul fatto cui s’accorge, nello stesso istante, di voler porre riparo, quasi se ne stesse rendendo complice, più che agire da adirato consorte che debba bruscamente mettere l’adultera di fronte alle prove della colpa di cui si è coperta - la bellezza esposta alla dissolutezza: accusa che si ritorce contro chi è stato tradito. Insomma, un perfetto compendio degli equivoci e inganni della commedia dei sentimenti. E fin qui, tutto rientra nel canovaccio. Ma, appunto, come

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per l’arte di Tintoretto, bisogna andare un po’ oltre la cornice del dipinto, spingersi almeno alle soglie e immediate adiacenze del testo visivo: e tenere conto che il dipinto faceva da soprapporta, cioè, da elemento decorativo di una porta, sormontando l’architrave di una camera da letto. Forse, un messaggio involontario, quasi soprappensiero o un pegno nascosto, oltre che un monito scaramantico: per dire al committente e ai fruitori che si entra e si esce dal gioco delle parti: e che la parte che appassiona di più non è che una recita come le altre: cui prestare la maschera che si adatta al disegno di ogni fisionomia e fa di essa il segno di un decoro da lasciare all’ingresso in quello che W. H. Auden chiamava l’antro delle nudità: per uscirne, però, abbigliati secondo l’esito, l’exit imprevedibile dei casi amorosi che nessun intreccio può mutare: ciò che è, insieme, regola del gioco e segreto di tutto il divertimento, se non della felicità, che la commedia può dare. L’OPERA

SOTTO

i Tintoretto (Jacopo Robusti) Venere, Vulcano e Marte Alte Pinakothek, Monaco

(immagine da web)



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l’AZIONE

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di Davide Scandura

Nei momenti di difficoltà il mondo cerca sempre il suo supereroe; era il 2011 quando il Giappone trovò il suo "Superman" rivestito in abiti rossi e bianchi stretti; un supereroe guizzante che fluttuava nell’aria compiendo sorprendenti movimenti e sfidando la gravità; 160 centimetri di uomo per sconfiggere gli avversari e riportare qualche sorriso. Ampiamente considerato il più grande ginnasta del mondo, Kohei uchimura è una vera e propria superstar sportiva nel paese del Sol Levante, un’ascesa nata in parte dopo il terremoto che nel marzo del 2011 uccise quasi 16.000 persone; una tragedia che guidò l’allora ventiduenne Uchimura verso uno dei suoi più grandi momenti sportivi, la conquista della medaglia d’oro olimpica a Londra nel 2012. Kohei nasce a Kitakyushu, prefettura di Fukuoka, da una coppia di ginnasti, appunto; vive e cresce in una palestra, diventare un atleta non gli risulta quindi difficile iniziando ad allenarsi a soli 3 anni. Già da adolescente è tra gli astri nascenti della ginnastica giapponese, ma nonostante il talento i risultati faticano ad arrivare, si trasferisce dunque a Tokyo per allenarsi con il campione olimpico Naoya Tsukahara. I frutti arrivano un paio di anni dopo: nel 2007 conquista il bronzo al volteggio alla Coppa del Mondo di Parigi. Nel 2008 vince l'oro al corpo libero in Coppa del Mondo, poi vince un altro argento ai Giochi Olimpici di Pechino. Nel 2009 trionfa anche ai Campionati Mondiali nel concorso individuale. Nel 2010 e nel 2011, bissa il titolo diventando il primo ginnasta uomo ad aver vinto tre concorsi individuali e il primo ginnasta in generale ad averne vinti tre consecutivi. Ossessionato dagli errori che gli costarono la medaglia d'oro alle Olimpiadi del 2008, a Londra nel 2012 dà il massimo per regalare una piccola gioia al popolo giapponese, fermo davanti agli schermi a tifare per lui; e dopo 28 anni di attesa è proprio lui a riportare la medaglia d’oro olimpica in Giappone dominando la finale del concorso individuale, poi conquista anche un argento a squadre ed uno al corpo libero. La ginnastica è tutto quello che ha, dice lui, e la visita fatta a Tohoku, il centro del disastro del 2011, lo ha reso ancora più consapevole della propria forza, responsabilizzandolo ulteriormente verso quello che lui stesso rappresenta per il paese: vincere per dare gioia, vincere per far dimenticare, se mai fosse possibile anche solo per qualche attimo, un disastro dalle proporzioni enormi. Nel 2013 e nel 2014 vince altri due mondiali, poi lo scorso ottobre con una facilità pressoché disarmante conquista anche il sesto titolo mondiale consecutivo, vincendo, convincendo, dominando e definendo nuovi limiti di eccellenza umana. Uchimura però non è solo numeri, il suo talento non si può rinchiudere in un record: alle parallele per esempio, non è quasi mai quello che prende il punteggio più alto, ma è sempre il più applaudito perché oltre alla difficoltà tecnica il “Samurai” giapponese riesce a esaltare la linea e l'ampiezza dei movimenti con una naturalezza inimitabile. La cronaca della sua ultima vittoria mondiale diventa quasi superflua: basta una partenza solida a corpo libero e cavallo per tarpare le ali al rivale ucraino verniaiev, che proprio sulle maniglie compie un doppio errore pesantissimo; la gara prosegue e per le medaglie rimangono in corsa il cinese deng e il 18enne cubano larduet, che infila una gran sequenza ad anelli, volteggio e parallele, a vincere però è sempre sua maestà Uchimura che alla sbarra si permette anche il lusso di semplificare l'esercizio. Finisce quindi con il giapponese ancora una volta lassù, sul gradino più alto del podio. Come se non bastasse il talento nipponico trascina poi anche la squadra giapponese verso uno storico oro dopo 2 bronzi e 4 argenti ottenuti nelle ultime sei edizioni. Un doppio trionfo meritatissimo che con-

ferma sia le aspettative degli addetti ai lavori, sia quelle di chi, in tempi non sospetti (la nascita, addirittura!?!) ne scelsero il nome (i genitori) chiamandolo "Kohei": “bambino che cresce fino a essere grande e attraversa l'Oceano Pacifico”; ci avevano visto proprio lungo… I suoi avversari lo chiamano “la macchina” per la perfezione dei suoi esercizi, ma lui preferisce ispirarsi ad un manga "ganba! Fly High", già un cartone animato, uno di quelli che parla di ginnastica come “Holly e Benjy” parlava di calcio o “Mila e Shiro” faceva con la pallavolo, scritto dal campione olimpico del 1984 Shinji Morisue. Uno sport affascinante, la ginnastica artistica, fatta di volteggio, corpo libero, cavallo, anelli, sbarra e parallele; non una ma ben sei discipline che lo impegnano ore ed ore ogni giorno alla costante caccia della perfezione per creare, come ama dire lui stesso “una bellezza che nessun’altro può esprimere”. Lo scorso 3 aprile intanto è tornato a trionfare ai campionati giapponesi vincendo il nono campionato nazionale consecutivo, altro record che lo proietta già verso i prossimi obiettivi, le Olimpiadi di Rio de Janeiro dell’estate prossima, e quelle, seppur ancora troppo lontane del 2020 che proprio Tokyo ospiterà per la prima volta dal 1964. Un’ulteriore motivazione a continuare nonostante l’età (avrebbe 31 anni) perché per Kohei Uchimura non si tratta solo di storia, si tratta di orgoglio nazionale; la ricerca perpetua della perfezione di chi, con 5 medaglie olimpiche e 18 medaglie mondiali è già, semplicemente, il miglior ginnasta di tutti i tempi. SOPRA

jJ Kohei Uchimura in azione a Londra (immagini dal web) f A PAGINA 18 | Giovanni Iudice Uchimura, 2016, matite colorate su carta, cm 40 x 30


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l’IDEA

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di Rocco Giudice

el cuore della notte, come gli avveniva spesso, Gregorio Massa si svegliò di soprassalto. Non per il caldo che avvertiva sotto la coltre di coperte e capi di vestiario che si era buttato addosso: o per un’improvvisa folata di freddo che in quelle notte invernali veniva spesso a scuoterlo sul più bello, trovando il varco fra gli infissi che avrebbero dovuto essere riparati da tempo e profittando dell’umidità che impregnava le pareti. No. Era stato un sogno, di cui nulla ricordava, se non che, in mezzo a avvenimenti o troppo strani anche per un sogno o troppo banali anche come replica onirica della veglia, si era addormentato: e quella circostanza così insolita lo aveva svegliato bruscamente. Un attimo dopo, era già troppo tardi: quel risveglio cui il sogno lo aveva chiamato ne stroncava sul nascere dubbi e stupori: e il peso insolito e la calura che l’assaliva alle spalle avevano un nome, se non una spiegazione: ne ebbe piena contezza prima di toccare per sincerarsi della sensazione che lo aveva afferrato così perentoriamente: quelle che sentiva pesargli su scapole e clavicole erano ali. Quattro, non ricordava in conformità a quale ordine delle gerarchie celesti. Non grandi, non voluminose: ma erano ali. Piumose, quanto al tutto; soffici, quanto al giusto: e accesa la torcia elettrica che teneva a portata di mano sul comò e aiutandosi con lo specchietto tondo appeso al muro, s’avvide ch’erano lucide e policrome: bianco avorio, verde smeraldo, azzurro mare, cremisi e argento. Quella perfetta corrispondenza ai cliché iconografici era una conferma: le ali erano vere, erano spuntate sulle sue spalle come un pollone da un tronco, erano incontestabilmente sue. Se ne sentiva tradito. Ma, fortunatamente, questo pensiero ridestò in lui i suoi acuti sensi di l’ILLUSTRAZIONE

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Manlio Sacco | Ala

2015, china e matita su carta, cm 29,5 x 20

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colpa: e questo ritorno al più antico sentimento che conosceva lo rassicurò. Il sonno se lo riprese placidamente. Il mattino dopo, uscì presto. Non voleva che il padrone di casa lo trovasse nel monolocale che gli aveva affittato in cambio di una modesta pigione, di cui si erano perse le tracce da mesi senza che l’uno, molto discreto al riguardo, avesse notizie da fornire all’altro, che non concedeva all’ansia più confidenza di quanta non ne pretendesse un inquilino moroso. Gregorio affrettò il passo nel timore di incontrarlo, anche se il padrone, presidente di una Commissione pubblica, non era tipo da tendere agguati. Ma non si poteva mai sapere: era il genere di persona che si dice di carattere, ci teneva a incutere timore, non per nulla ricopriva mansioni direttive in un importante organismo amministrativo di diritto pubblico: rigoroso, intransigente: e già due volte aveva dimostrato comprensione per Gregorio, che non si era rivelato degno di quella fiducia; la pigione che Gregorio gli doveva era reclamata dal proprietario non per bisogno, né per avidità, ma per pignoleria, per un senso di giustizia che aveva del superstizioso attaccamento alle regole e alla parola data. Anche solo l’idea di imbattersi in quell’uomo serio e posato, i cui pensieri non si vorrebbe mai conoscere, le cui preoccupazioni non si vorrebbe mai condividere e che, certo, andavano ben al di là delle responsabilità di cui era ufficialmente investito, atterriva Gregorio, che sentiva, perciò, le ali ai piedi, anziché sulla schiena artigliata da quel peso morto. Non gli passò neppure per un attimo dalla testa il ghiribizzo di volare: e se lo spioncino del suo bugigattolo non permetteva di tentare l’impresa aviatoria, Gregorio non se la sentì neppure di salire sul terrazzo e provare a gettarsi da lassù per sperimentare l’affidabilità dell’apparato alare e sparire tra le nuvole. Non avendo dove andare, Gregorio Massa cercò rifugio da sua madre, che viveva ancora nella vecchia casa, poco distante dal buco

in cui lui se ne era andato a vivere. Non lo aspettava e fu sorpresa della visita: “Torna domani, non ho i soldi” gli disse non appena lui mise piede in casa. Questo fece sentire Gregorio nei panni del padrone di casa: era troppo, per uno che tutto quello che aveva davvero di suo erano solo due paia di ali sul groppone. Sua madre notò che aveva le spalle chine o piuttosto, rigonfie, parevano: “Che c’è? Che ti succede? Quelle spalle… Che nascondi? Che mi hai portato?” Gregorio la disilluse con un gesto perentorio: scoprì le spalle: e le ali erano lì, tanto più orrende perché manifestamente inette a reggere il peso di un uomo, per di più, inetto a stare al mondo. Allora, sua madre scoppiò in lacrime: “Non ne hai mai combinata una giusta! Tuo padre è morto per causa tua! E ora, quest’infamia!” Gregorio se ne dovette andare in un giardino pubblico, in attesa che aprisse l’Ufficio di Collocamento, dove, sperando inutilmente di trovare un ingaggio, trascorreva molte delle sue mattine e dove, fra l’altro, lavorava Zita, la sua ragazza. Faceva freddo, non si capiva se era giorno o sera, ma non pioveva. Aveva fame, ma la fame era giunta allo stadio in cui si prova nausea, una nausea indeterminata: del cibo, di sé, del mondo. Ora, aveva un vero problema a assillarlo e a fargli mettere in secondo piano le altre avversità, cui aveva, del resto, fatto l’abitudine: le ali: e le toccava, come per trarne il gramo conforto di non essersi immaginato tutto. Siccome non gli era mai piaciuto attirare l’attenzione del prossimo, per quella stranezza che gli era capitata rinunciò alle solite spiegazioni, anche se questo significava precludersi la possibilità di cercare una benché provvisoria soluzione: inquinamento, radiazioni, mutazioni genetiche, esperimenti segreti su campioni ristretti della popolazione. No: erano tutte stupidaggini. Quello che capita a uno solo non ha bisogno di contare su regole certe, nemmeno di quelle che circostanze tanto particolari verrebbero a violare. Lo stesso anche a considerarle benevolmente come un preavviso, dal momento che si trattava di un fenomeno più unico che raro, che aveva tutte le apparenze della fatalità al di sopra di ogni circostanza usuale

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per prestarsi a fare da premonizione. Peggio per lui: o meglio per lui: o così così per lui, dal momento che non si può nemmeno dire che essere un’eccezione sia una cosa tanto rara, in un’epoca come la nostra, pensò. L’individuo è la cellula di quella metastasi planetaria che è l’umanità: questo lo aveva letto o sentito non ricordava dove né da chi, cosa priva di qualunque importanza per capire che non si trattava di una di quelle osservazioni oziose o che chiunque può fare. Ma avrebbe voluto fosse stata una canzone: allora, si sarebbe ricordato dove, quando e chi. E avrebbe dimenticato, per il tempo di una strofa o due e del ritornello, ciò che gli era capitato. Invece, si erano fatte le 8,30 e a quel punto, si recò all’Ufficio di Collocamento, dove i suoi compagni di attese inutili, accalcati in mezzo a una corte dei miracoli che non ci saranno, lo scrutarono cercando di capire che aveva: perché, avere, sembrava che avesse qualcosa. Sulle spalle. “Ti sta spuntando la gobba, manco lavorassi più di quanto piacerebbe a tutti noi” lo accolse uno, meno allegro del solito grazie al mal comune della mancanza di lavoro. “Sembra proprio che tu stia andando o tornando dall’inferno!” disse un altro, nemmeno dei più spiritosi. Gli altri, per non sentirsi soli o stupidi, risero come tanti dannati. “Una gobba portafortuna, non mi sembra una cattiva idea” disse un terzo di quella eletta compagnia e che, data la familiarità che c’era fra tutti loro, tentò di accertarsi personalmente protendendo una mano. “Non mi toccare!” lo ammonì Gregorio schivando il gesto e svincolandosi dal tentativo degli altri di trattenerlo. Non aveva tempo da perdere e sgusciando tra la folla, scorse un dirigente dell’Ufficio uscire avviandosi con passo sicuro a fare colazione. Subito, lo avvicinò e gli chiese di Zita. “Non è venuta, stamattina.” Il dirigente fece per allontanarsi: ma, poi, si girò verso Gregorio e toltasi la sigaretta ancora spenta che gli pendeva dalle labbra, gli disse: “Sarà ammalata, ma è strano. Non è mai mancata, al lavoro, che io ricordi”. (FINE PRIMO CAPITOLO)


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CONVERSAZIONI di Iosif Brodskij Adelphi | 2015 | pp. 314

Nella moderna società dell’informazione in tempo reale, l’intervista si configura come un estremo esito dell’arte del dialogo. Il ruolo del maieuta spetta, stanti i protocolli socratici, all’intervistatore: la democrazia accredita il ruolo e così, il pubblico potrà secolarizzare l’idolo cui tributa l’atto di culto. Nel caso della letteratura, le interviste fanno dell’autore, non importa se narratore o poeta, un personaggio, che parla di sé come staccato dall’aura, sacrale o mediatica, che lo circonda per diventare una delle controparti o parte del discorso, verrebbe da dire citando una delle raccolte (e poesie: “Di tutto l’uomo non resta che una parte/del discorso. In genere, una parte. Parte del discorso”1) di Iosif Brodskij. In queste interviste, selezionate da e a cura di Cynthia l. Haven e tradotte da Matteo Campagnoli, Brodskij fa da testimone del proprio lavoro e di se stesso nel rispetto delle prerogative del lettore e sempre in relazione alla poesia, mai al mito letterario che tiene la quota giusta per volare all’altezza della fama: sposta la voce al di qua della pagina, senza che il poeta e il saggista cedano al personaggio più di quello che filtrava da versi e prosa2. È già tutto lì. Il resto, è dato in sovrappiù di lucidità, intelligenza, ironia, di un acume che rende più sottile una certa spigolosità che, del resto, appare disarmata di fronte alle pretese e curiosità (“Vorrei chiederle di lei e Shakespeare.” “Di me e Shakespeare? Sì, io e Dio. Prego”, pag. 197) del lettore o dell’interlocutore che ne fa le veci, se la delega non fosse assol-

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ta dall’intervistato - già: che nessuno ostacoli o ponga limiti alla mia adorazione, neppure quando si va oltre di essa, per accogliere qualche rilievo che non riduce, accresce quella grandezza, ora che, in Russia come in America, qualcuno, fra i più accesi ammiratori della prima ora e promoter entusiasti e perfino, fra i vecchi amici del poeta, ci ripensa3. Mentre Brodskij risponde a domande che tendono a ripetersi, il sipario della pagina si solleva - mai più su dei versi come dei saggi di Brodskij - lasciando al centro della scena il lettore alle prese con quello che credeva di trovare così da riconoscere nell’autore l’immagine o l’ombra che si era costruito intanto che sperava di averne conferme o di saperne di più. E quello che aggiungono i retroscena o lo sfondo biografico, le incursioni o gli inviti a sbirciare nell’officina o nel retrobottega del poeta per carpire alle parole dell’intervista quello che restava inespresso o ancora da decodificare interamente nelle poesie, sulle ragioni profonde e i motivi per cui e i segreti che, forse, sono segreti per lo stesso autore a un livello quasi medianico4 -, non fa che riproporre su un altro piano la sfida di chi vuole provare da sé a comprendere o divinare quanto i versi nascondono meglio dell’autore che dichiara passioni, influenze, somiglianze, consonanze, predilezioni. I classici, con Ovidio e Orazio in testa; Dante, Donne, Cvetateva, Achmatova, Auden, Frost, Kavafis, Hardy, Pašternak, Milosz, vertici di un pantheon poetico piuttosto affollato; Eliot, Yeats, Herbert, un po’ più giù; e intorno, altri, tanti altri. Ma con l’occasione di tornare su qualche punto controverso, come l’apprezzamento contundente, l’omaggio ambiguo reso a solženicyn, “Omero del regime sovietico” 5, che deplorò quella di Brodskij come una poesia freddamente intellettualistica e nel suo affidarsi come nello sfidare i poteri che gli sono rimessi a partire dal metro e dalla forma chiusa, poesia colpevolmente estranea all’esperienza vissuta dai connazionali: “La poesia di Brodskij non ha mai toccato il vasto suolo russo!” Certo, non si poteva pensare - e Brodskij non lo pensava, certamente - a Solženicyn come alla figura dell’esule che scrocca solidarietà, appannaggi e favori al pubblico e alla critica: Solženicyn, che

visse in un angolo isolato dell’America come nella prigionia di una sorta di esilio volontario ancora più oppressiva in terra libera dopo la reclusione impostagli in patria dal regime comunista, si alienò ben presto, con i suoi giudizi sul conto della società occidentale, le simpatie dell’intelligencija e dell’establishment liberal e anche dei colleghi meno inclini a fare da sponda al radicalismo (illuminanti le riserve espresse da saul bellow): che, viceversa, accolse Brodskij come uno dei suoi e lo celebrò e coccolò più di quanto Brodskij gradisse: “Joseph, come ti spieghi il modo in cui il mondo ha abbracciato non solo te, ma anche Solženicyn?” “Il mondo mi abbraccia?” “Direi di sì. Il tuo nome è conosciuto ovunque.” “Ma io non sono il mio nome”; pag. 87: che è come distinguersi da un altro, più che dal pubblico (dal “mondo”), delle cui stranezze si è chiamati a rispondere e di cui nulla si vuole sapere. Ci si può chiedere se questa riluttanza a corrispondere alla mitologia - dissidente: ma Brodskij non fece mai attività politica, mai firmò appelli, non disturbò mai neppure con un epigramma le cariatidi del Politburo: si riteneva un “attivista della poesia” (cfr p. 214) dell’esule come del genio e il rifuggire dalle insidie di quella che Brodskij definiva “la volgarità del cuore umano”, cioè, il divagare del sentimento nelle forme liriche, manifestasse una ‘reazione’ difensiva o costituisse una risposta da pari a pari al mondo: o se fosse intrinseco all’atteggiamento, alle ragioni fondamentali della poesia: se l’ironia nasceva, insomma, da una disposizione o necessità cui facevano da esca - assai puntuta - le circostanze esteriori. Nell’U.R.S.S. da cui Brodskij fu espulso, il poeta doveva resistere o anche solo convivere con e entro un sistema che sorvegliava a vista la parola; nell’Occidente che lo accolse, la pressione era quella centrifuga di una società dove la parola non era (non è) considerata tanto importante da essere oggetto di speciali attenzioni, se non da parte di chi si trova a sentirla risuonare e esercita il diritto costituzionale di ridire. Per reazione, dunque, alla censura (ideologica), prima, alla irrilevanza (pubblica), poi, l’ironia di Brodskij era un antidoto alla incompatibilità o inassimilabilità della poesia ovvero un modo per corrispon-

l’APOSTROFO

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di Rocco Giudice

dere all’ordine come al disordine del mondo e alla storia. Ma come l’orizzonte della poesia non era segnato dall’esilio, al contrario, il verso segnava, per Brodskij, i confini del mondo. Se la poesia ha a che fare con la civiltà e con il livello di evoluzione della specie; se è la poesia a dare il senso della civiltà e così, a dare senso (e/o anche solo espressione) alla civiltà che non è una forza del tutto benevola, che molto chiede all’individuo, che deve venirci a patti e stare al gioco -, essa non è, tuttavia, la sorella minore di Clio. Per Brodskij, la poesia non era solo una forma di adattamento o una strategia di sopravvivenza della sensibilità e dell’intelligenza o anche, un modo come un altro di vivere: era una (la) forma di vita superiore, suprema dello Spirito, ovvero della Lingua: cioè, di tutto quello che ci distingue dagli altri animali e fa di noi la specie destinata a dare un nome a ogni cosa e una voce alle stelle. Dunque, più che appartenere alla storia, visto che hanno una storia anche i ciottoli e le montagne, la poesia è il destino cui siamo chiamati, di cui sappiamo grazie a essa e che essa adempie per tutti: anche per i ciottoli, anche per le montagne: come, diciamo pure, per tutte le cose visibili e invisibili: “Se capiti d’un tratto fra erbe di pietra,/più splendenti nel marmo che nel verde,/e se vedi una ninfa inseguita da un fauno,/felici entrambi più nel bronzo che nel sogno”6. 1 2

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Cfr in Poesie, Adelphi, 2006, pag. 75.

Per quanto Brodskij poco condiscendesse, nel suo statuto autorale, con la prosa: “Io la odio, la prosa. […] È una forma di prostituzione”, pag. 229.

Al confronto, fa quasi tenerezza, così da suonare più sferzante, la flebile, ma limpida recriminazione di Evgenij Evtušenko: “Si vendicò di Brodskij con mente acuta/dall’esilio, con una lettera, avendolo salvato”, Il mio epitaffio, in Romanzo con la vita, traduzione di Evelina Pascucci e nota introduttiva di Giovanna Ioli, Interlinea, 2007, pag. 29. Cfr. pag. 193.

Con annesso riferimento shakespeariano, altrettanto cifrato: “Credo che in lui il potere russo abbia trovato il suo Omero, per il modo in cui è riuscito a rivelare le cose, in cui ha spostato il mondo fuori dal suo asse”, pag. 134..

Torso, in Poesie italiane, Adelphi, 2004, pag. 11.

NOTE


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l’ASCOLTO

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Il disco diventa l’impeccabile colonna sonora a tutto questo e allo stesso tempo espressione urlata, nella sua estrema pacatezza, di tutto quello che per Meli (e per molti che si ritroveranno in certe atmosfere) è fondamentale e vitale.

STEFANO MELI

mento del disco si ha la minima sensazione di un calo di ispirazione. At The Moonshine Park With An Imaginary Orchestra è un album ricchissimo di idee, di atmosfere, di fantasia e di stravaganza, mai sopra le righe. Sultano crea, attraverso le proprie musiche, ambientazioni irreali e sospese, un po' come facevano i beatles (qualcuno oserebbe dire), nel periodo di maggior creatività psichedelica. Ed è proprio la psichedelia, quella a cavallo tra folk e (soprattutto) pop (il pop serio di una volta), che dà caratterizzazione a tutto il disco, creando un equilibrio tra reale e fantastico, tra luce ed ombra, tra sensazioni claustrofobiche e idea di grandi spazi che alla fine ti lasciano felice.

Ghostrain

É un disco che non vuole confondersi con la massa quello di stefano Meli, già chitarrista di la Casbah e Caruana Mundi. Ghostrain è un lavoro intenso e denso di emozioni, che evoca una miriade di immagini non confinabili in luoghi e spazi ma che corrono su binari corrosi e logori lasciandosi scie polverose e fumose alla spalle. Su un’ideale vecchia locomotiva a vapore, Meli attraversa in solitaria percorsi che man mano diventano reali e cangianti nella mente di chi ascolta il disco. Meli lascia parlare gli strumenti che tante volte sono più espressivi delle parole, come nel caso di Ghostrain. Un intimissimo percorso, condiviso con pochi, fatto di flash istintivi e pieni di emozioni che rimangono scolpite. Il blues profondo si mescola al country, al folk e a lampi di suoni dal mondo, così da annullare le distanze enormi di traccia in traccia. Ghostrain non racconta di paesaggi urbani, al contrario di immense campagne uggiose immerse nel nulla, perfetto luogo per potersi rifugiare dalle assurdità della quotidianità e ritrovare se stessi riappacificandosi con la natura, godendo della sensazione familiare di pace.

MUSIC FOR ELEVEN INSTRUMENTS At the Moonshine Park with an Imaginary Orchestra

Music For eleven Instruments a distanza di sei anni dal disco d'esordio, che aveva ben presentato la bravura compositiva di salvatore sultano nonché la sua istrionicità, ritorna con un nuovo lavoro che conferma la fantasia straripante di MFEI. At The Moonshine Park With An Imaginary Orchestra, è un lavoro caleidoscopico che al suo interno contiene una creatività esplosiva come poche volte si trova in un disco dei giorni nostri. É impossibile etichettare la musica di Sultano proprio perché il musicista siciliano fa dell’imprevedibilità la sua forza principale; e lo fa con disinvoltura spiazzante, mettendo insieme, traccia dopo traccia, un collage ambizioso ma davvero incantevole, in un crescendo di melodie e suoni che si confondono diventando tutt'uno. In nessun mo-

MAMASUYA & JOHANNES FABER Mexican Standoff

Qualcuno dice (forse semplificando eccessivamente) che esistono fondamentalmente due tipi di musica: quella bella e quella brutta. Aggiungerei che esiste anche quella musica che non rientra tra le due categorie, quella che sta lì, in un ideale promontorio, da sola, che guarda il resto da una posizione distaccata. Quella musica si riconosce subito e non si confonde mai con il resto; la musica fatta oltre che col cuore e la passione anche con grande competenza, fatta da artisti che sono musicisti prima di tutto. É il caso dei Mamasuya & Johannes Faber, che con il loro secondo disco, Mexican Standoff, ci regalano una gemma strumentale di rara bellezza.

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In un mondo musicale in cui sentiamo sempre le stesse sonorità e vediamo sempre i soliti ignoti, il disco dei Mamasuya & Johannes Faber appare come un alieno che scende in terra a rompere gli schemi. Certo quando si parla di musica di un certo spessore, per forza di cosa si rientra in una nicchia e in un genere particolare che non facilmente riesce a fare breccia su un vasto pubblico, perché può apparire non di immediato impatto (e chi se ne frega verrebbe da dire). Eppure i Mamasuya & Johannes Faber si discostano leggermente da questa regola non scritta perché riescono con il loro disco a creare, tra le altre cose, atmosfere variegate e più di una volta abbastanza orecchiabili, pur rimanendo musica adatta solo ad orecchie raffinate. Mexican Standoff è un intrigante connubio di sonorità senza confini: si passa dal funk meno puro al jazz, al rock con varie venature psichedeliche, fino a toccare lo spaghetti western, con momenti che ricordano i film di sergio leone ma più in generale sonorità molto cinematografiche. Alta sperimentazione ma ragionata, che non va mai fuori dalle righe. Un tappeto di suoni che dall'inizio alla fine si sviluppa senza apparente continuità. É un viaggio con vari sussulti quello dei Mamasuya & Johannes Faber. Si sale su fino a toccare la vetta più alta per poi tornare giù a forte velocità. Da The Driver (che ricorda tanto le musiche di telefilm anni '70, vedi “Starsky e Hutch”) alla psichedelica e acida Mexican Standoff, passando per l'irrequietezza di Sakura e per la delicata Amore Mio, è un'esaltante cavalcata cangiante che trascina in un vortice sonoro dal quale si esce purificati e divertiti.

testi di Sisco Montalto

l’ASCOLTO

Rubrica a cura di Clap Bands Magazine

gIbellINA Il MuseO dA vIveRe Racconto di un'esperienza

Autore: Giuseppe Maiorana Editore: LSC edition | Newl’ink | ISBN: 978-88-940792-2-7 Collana: L’Utility | Volume n. 2 | Anno 2016 Testi: Giuseppe Maiorana, Rosaria Mencarelli Genere: saggistico / didattico / divulgativo Lingua: italiano | Pagine: 64 | Prezzo: € 11,00

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NEW | IN USCITA


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LETTURA Manlio Sacco

È nato a Palermo dove vive e lavora. Insegna tecniche dell’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro e Disegno per l’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo. La sua ricerca si muove fra la pittura, il disegno e la stampa d’arte. Fra le varie mostre va ricordata la personale del 2014 dal titolo Pitture presso la Galleria Quam di Scicli a cura di Antonio Sarnari con testo critico di Aldo Gerbino e Vito Chiaramonte. Info: manliosacco.tumblr.com

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gennaio - aprile 2016

Progetto editoriale, Concept, Direzione creativa Luca Scandura Hanno scritto e collaborato in questo numero

G. Carrubba, R. Digiacomo, O. Fazzina, R. Giudice, D. Iaracà, S. Lacasella, S. Montalto, M. Rossi, D. Scandura, A. Vitale

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Direttore Responsabile Michelangelo Barbagallo Editore di Luca Scandura via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) lsc.edition@libero.it Redazione via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) redazione@new-link.it Progetto grafico LucascanduraDesigner Stampa Modul Motta S.r.l. Zona Industriale III fase - V.le XVII, 22 97100 - Ragusa È vIeTATA lA RIPROduzIONe ANCHe PARzIAle ALL RIGHT RESERVED

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COVER 19 SPORT

L.S.+ Giovanni Iudice 19 anno V

l’ARTISTA

La COPERTINA di questo numero di Newl’ink prosegue il ciclo di Cover realizzate dalla nostra redazione attraverso la diretta collaborazione e sinergia con l’operato dell’artista invitato a realizzare l’opera che interpreta il tema sportivo del bimestre. Il nostro Direttore Creativo è intervenuto, manipolandola, sull’immagine di un altra opera fornita dallo stesso artista per dare a questa ultima un ulteriore significato rendendola immagine di una nuova libertà oltre che espressione della Nostra attualità.

giovanni Iudice (1970). È un artista autodidatta. Nasce a Gela dove ha vissuto la sua infanzia. Presto, grazie alla sua precocità nel disegno e nella pittura inizia a farsi notare dalla critica e partecipa in numerose mostre in Italia sin dal 1992. Fra le più importanti mostre ricordiamo: 1998, De Methaphisica, Milano, a cura di Maurizio Fagiolo dell'Arco; 2007, Arte Italiana, Palazzo Reale, Milano, a cura di Vittorio Sgarbi; 2008, Nuovi Realismi, Padiglione Arte Contemporanea, Milano, a cura di Vittorio Sgarbi; 2007, Crazy Boys, collettiva al Palazzo Ducale di Terni, a cura di Santaniello e Achille Bonito Oliva; del 2009 è la mostra antologica alla GAM di Palermo, curata da Francesco Gallo Mazzeo e Elena Pontiggia; 2010, personale al Festival dei Due Mondi di Spoleto e al Castello Svevo Normanno di Salemi, a cura di Vittorio Sgarbi; 2011, 54^ Biennale di Venezia - Padiglione Italia, nel 2011 (con la recensione nella prima pagina del “The art news papers” di Londra in cui si esplora la ricerca artistica di Iudice - in particolare l'opera Clandestini - ed in

(l’artista di Newl’ink) cui si afferma che l'autore “è una della gemme nascenti dell'arte italiana, tra 230 partecipanti”). Di recente è la mostra itinerante (Favignana, Palermo, Catania) Artisti di Sicilia. Da Pirandello a Iudice, curata da Vittorio Sgarbi (catalogo Skira). Giovanni Iudice attualmente vive a Gela in Sicilia e collabora con gallerie italiane ed estere. SOPRA, DA SINISTRA, IN SENSO ORARIO

Famiglia clandestina 2007, olio su tavola, cm 50 x 60

giovanni Iudice

Solaris 2015, matita su carta, cm 150 x 110 (OPERE SCELTA PER LA COVER N. 19)

Clandestini 2007-2008, olio su tela, cm 170 x 210 (OPERE SCELTA PER LA COVER N. 19)

L’ultima spiaggia 2015, olio su tela, cm 30 x 30

(OPERE SCELTA PER LA COVER N. 19)

k giovanni Iudice Uchimura 2016, matite colorate su carta, cm 40 x 30 A DESTRA

(OPERA REALIZZATA PER LA PAGINA SPORTIVA)

j Manlio sacco Senza titolo 2015, china e matita su carta, cm 29,5 x 20 (particolari) NELL’ANGOLO A SINISTRA IN ALTO E SOTTO

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