Newl'ink N.22

Page 1




A Palazzo Braschi, nella scenografica Piazza Navona, sono in mostra le opere dell'artista caravaggesca Artemisia Gentileschi, da un'idea di Nicola Spinosa e curatori vari, un'antologica che intravede nell'eroina artistica del Seicento una cultura internazionale dal tema: Artemisia Gentileschi e il suo tempo. Unica figlia femmina dell'artista Orazio Gentileschi e che il biografo Baglione definì “Artemisia nominata, alla quale egli imparò gli artificj della pintura, e particolarmente di ritrarre dal naturale, sicché buona riuscita ella fece, e molto bene portossi” (dal testo critico di Judith Mann). La tenebrosa vicenda autobiografica dell'artista, le violenze subite dal suo maestro Agostino Tassi, l'avvicina all'idea dell'artista maledetto seguace del Caravaggio. In alcune sue opere si intravedono figure femminee che attraverso la narrazione di eroine bibliche traducono e denunciano l'avversità dell'artista verso la violenza e la supremazia maschile. Da Roma il padre la trasferisce con un matrimonio riparatore a Firenze dove Artemisia dipinse per la corte di Cosimo II de' Medici e per le sue capacità pittoriche fu la prima donna ad essere iscritta presso l'Accademia del Disegno fiorentina. La sua opera magistrale è sicuramente la Giuditta che decapita Oloferne, della Galleria degli Uffizi, dove emerge una donna dalla forza e dalla violenza inusuale, un forte realismo naturalistico che si evidenzia grazie alla luce radente che fa sorgere dall'oscurità caravaggesca le figure artefici del delitto, una narrazione sanguinosa e senza artefici simbolici, una spada possente che sega la testa di Oloferne e che irriga di sangue il letto del delitto biblico. Un tema ben conosciuto nel Seicento europeo, da Orazio Gentileschi a Caravaggio, che nella sua opera della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, mostra una violenza fisiognomica nel volto di Oloferne, mentre Giuditta e quasi in una posa ben studiata, meno forzuta e mascolina rispetto alla vivace energia pittorica della Gentileschi. L'esposizione romana non si identifica esclusivamente nella produzione pittorica di Artemisia Gentileschi ma mostra analogie e differenze con artisti del suo tempo e dei luoghi visitati dall'eroina dell'arte barocca, da Cristofano Allori, amico e padrino del figlio omonimo di Artemisia, a Francesco Furini e Lorenzo Lippi che nella sua Giuditta, mostra un vivace movimento e una lumeggiatura di bellezza chiaroscurale ben in linea con la cifra stilistica di Artemisia Gentileschi. La mostra e il catalogo documentano i diversi itinerari della pittrice, da Roma (J. Mann) a Firenze (F. Baldassari), da Venezia (J. Locker) a Genova (A. Orlando), da Napoli (N. Spinosa) a Londra (C. Terzaghi), dal 1593 al 1653. Un excursus che descrive anche la sua tecnica pittorica “Disegnando le attitudini con le pennellate e colori” a cura di M. B. De Ruggeri e con una scientifica Esposizione delle schede e Bibliografia delle schede a cura di V. Comoletti.

Sempre nel centro storico dell'Urbe barocca si apre un evento espositivo unico nel suo genere, nelle aule espositive delle Scuderie del Quirinale, sono ospitate le collezioni del re di Spagna: Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna, a cura di Gonzalos Redìn Michaus.

Protagonista dell'evento romano è la Salomè con la testa del Battista (1607) di Caravaggio, che coglie l'attimo successivo al martirio, dove la luce fa emergere dal buio una Salomè femminea ma insensibile all'orrore della testa mozzata. Una scena serrata che racchiude in un arco di luce una triade di volti che testimoniano l'evento biblico narrato senza o in assenza di una ambientazione spaziale, la luce radente che fa emergere i segni umani del sacro. Ma la collezione reale madrilena accoglie e mostra a


Roma opere di Guercino, Lot e le figlie, un tema biblico di grande riflessione, non lussuria, ma il desiderio delle antiche società di avere una discendenza, che muove le figlie di Lot a circuire il padre e commettere incesto o La Conversione di Saulo, opera di Guido Reni, un tema caravaggesco che si rivisita in una chiave classica e aulica, dono del principe Ludovisi a Filippo IV. Una collezione di chiara matrice barocca italiana, quella scuola bolognese presente nell'area della committenza romana. A questi si unisce La tunica di Giuseppe di Diego Rodriguez de Silva Velazquez, un'opera del Monastero Reale dell'Escorial e che traduce l'esperienza italiana dell'artista iberico, un equilibrio cromatico narrativo che coniuga l'antico con il contemporaneo secentesco. L'esposizione ispanico-barocca è un itinerario di alto valore culturale e storico, un itinerario che fa emergere la presenza secentesca della corona spagnola nella penisola italica, tanto da svelare al pubblico italiano un'opera quasi segreta e nascosta del grande ideatore e scenografo urbano della Roma barocca, il Crocifisso del Bernini, un capolavoro che riemerge dallo scrigno immaginifico delle preziosità reali di Spagna, l'Escorial.


Le fragilità e le emozioni dell'animo umano svelate in un momento in cui nel Paese convivono fervore creativo e la voglia di ricostruire ribellandosi alle violenze del regime fascista e della guerra: è questo il ‘soggetto’ della mostra "Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé" portata in luce dalla collezione di Giuseppe Iannaccone alla Triennale di Milano fino al 19 marzo. La collezione, nata nei primi anni Novanta, abbraccia un arco temporale che va dal 1920, anno del

dipinto L’attesa di Ottone Rosai, al 1945, con Il postribolo di Alberto Ziveri. La raccolta riunisce opere di artisti che hanno sviluppato visioni controcorrente rispetto alle politiche culturali di ritorno all’ordine e classicità monumentale novecentista. Il percorso si dipana tra una novantina di lavori intrisi di cultura innovatrice, di furori giovanili, di

franca opposizione al ritorno alla tradizione nazionale. Realizzate tra il 1920 e il 1945, le opere hanno fatto i conti con una cultura figurativa europea che ha riconosciuto nella forza eversiva del segno e del colore la propria identità. E lo spiegano bene le parole dello stesso Iannaccone: “Il filo conduttore della raccolta è l’espressionismo, la spontaneità, anche

nella pittura oltre che nei fatti reali della vita. I miei artisti sono liberi innanzitutto di guardare oltre al confine, all’Europa, liberi di utilizzare il colore. Il colore diventa un modo non solo per esprimere forme e figure, ma anche per rappresentare quell’emotività che l’uomo ha dentro”. A fare da collante ai lavori c’è il concetto di espressione individuale:


dalla poesia del quotidiano di Ottone Rosai e Filippo De Pisis all’espressionismo della “Scuola di via Cavour” (Mario Mafai, Scipione, Antonietta Raphaël), dal lavoro di scavo nel reale di Fausto Pirandello, Renato Guttuso e Alberto Ziveri, alle correnti tonaliste degli artisti del gruppo dei “Sei di Torino” (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio) e del “Chiarismo lombardo” (Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni), sino alle forze innovatrici dei pittori e scultori di “Corrente” (Ernesto Treccani, Renato Birolli, Aligi Sassu, Arnaldo Badodi, Luigi Broggini, Giuseppe Migneco, Italo Valenti, Bruno Cassinari, Ennio Morlotti). Una raccolta che vuole scavare nel profondo e dare una scossa al visitatore. “Ho sempre pensato che per essere vera, l’arte debba destare un’emozione unica ed essere frutto di una novità. Un’opera della mia collezione ha dunque tutte le caratteristiche per raccontare una nuova pagina della storia”, è questo il pensiero del collezionista Iannaccone.


Nuovi e vecchi ospiti: è con questa espressione, contenuta nelle primissime righe del catalogo, che potremmo riassumere lo spirito della mostra attualmente in corso al MART di Rovereto. Riferita in realtà agli

artisti già presenti in collezione che vengono poi affiancati da altri originariamente assenti, questa espressione può rimandare anche al rapporto che ha legato la figura di Antonio Allaria agli artisti di cui ha

collezionato le opere: non sono figure lontane ed estranee di cui si comprano le opere come investimento, ma amici, vecchi e nuovi ospiti con cui condividere anche momenti importanti della vita, sullo sfondo la

città di Cortina dalla fine degli anni '40 fino a metà anni '60. E tra questi ospiti soprattutto Sironi, conosciuto dal medico collezionista in occasione di una frattura subita dal pittore e poi frequentato continuativamente per anni. E proprio dalla frequentazione assidua, dalla stima reciproca e dal rapporto profondo nasce una collezione che copre tutti i momenti della produzione del pittore, per includerne pure aspetti privati, personali e decisamente meno noti. Ecco quindi le opere futuriste, fin dalla Testa del 1913 e il Cavallino bianco del 1915. Al 1920 risalgono invece opere come Cavaliere, esempio emblematico di quel Ritorno all'ordine che contraddistinse non pochi artisti del primo dopoguerra. Ricorrente poi il paesaggio urbano della Milano in cui si era trasferito, paesaggio che permea molte opere. L'insistenza di ambientazioni industriali ricorrono molto a lungo, fino al grattacielo che fa da sfondo alla Fuga in Egitto del 1930. Nel '22 il pittore è tra i fondatori di Novecento Italiano, movimento dalla "classicità moderna" programmatica che non esclude però, ancora nel 1926 e quindi in piena fase novecentista, opere dal marcato carattere primitivista alla Carrà e disegni su carta di giornale che rimandano ai collage delle avanguardie. Sono circa settanta le opere che ripercorrono via via tutta la produzione del pittore fino a Il mio funerale del 1960, opera dipinta a brevissima distanza dalla morte del pittore. Ma non è certo il voler tracciare un catalogo completo dell'opera del pittore lo scopo della mostra, semmai quello di mostrarcene tutti gli aspetti, pure quelli più privati. Non a caso l'esposizione si apre con l'Autoritratto contratto e cupo del 1949 seguito da quello più disteso dello stesso anno, successivo alle cure mediche e alla frequentazione del medico a cui il foglio è dedicato. Colpisce poi vedere queste due opere affiancate dal ritratto che lo stesso Sironi ha schizzato dell'amico medico: pochi tratti


ragosto, il feretro è seguito da poche persone ed è minuto contro pareti imponenti coperte da figure, forse eco degli affreschi murali tanto amati dal pittore. Interrotto così il rappporto con il pittore più rapresentato nella collezione Allaria, non si interrompe però l'amore per l'arte. Sono anche altri gli artisti che, tra Cortina, Roma, Venezia e il sud della Francia, sono frequentati dal collezionista e le cui opere confluiscono nella collezione prima e nella mostra al MART poi. Elencarli semplicemente sarebbe sterile, mentre importante è ricordare che questi sono stati artisti che stimavano Sironi fino al punto, ad esempio, di pubblicarne alcune opere a testimonianza del rapporto tra la loro pittura, come successe a Cagli. Oppure è la capacità di rappresentare la natura con lo stesso spirito quello che permette di accostare le opere di Sironi a quelle di altri artisti conosciuti successivamente. Un grande vecchio amico a cui se ne affiancarono di nuovi nella vicenda personale del collezionista e, di riflesso, vecchi e nuovi ospiti nelle collezioni del MART di Rovereto.

su carta, ma tali da delinearne comunque il carattere. E le molte opere dedicate alle montagne, così amate dal medico e presso le quali il pittore trovava sollievo dalla sua depressione visitandole spesso, sia in estate che in inverno. Un pittore, indubbiamente, ma anche un uomo con i suoi affetti. Proprio di questi sono eco i gioiosi disegni di animali a colori vivaci schizzati in occasione della nascita delle sue figlie e poi donati all'amico alla nascita della figlia di quest'ultimo. Uomo privato e uomo pubblico che torna nei cartoni de L'Italia tra le Arti e la Scienza per l'Università La Sapienza di Roma. E i ritratti di Mussolini, figura in cui aveva riposto fiducia per poi trovarsene tristemente deluso. E ancora le opere a carattere religioso, che dal '43 al '47 ci presentano dapprima un Uomo in preghiera, per poi arrivare al Nudo bianco e al Lazzaro in cui le figure sono schiacciate da un muro, da masse da cui sembra non esserci resurrezione. È Rouault l'artista che, già studiato nelgi anni '30, torna in filigrana nella produzione degli anni '50 dopo un mostra visitata a Milano: ai suoi pagliacci rimandano le Figure su fondo giallo del '54. Non mancano poi le figure femminili, dalle allieve e le figure

classiche del periodo novecentista a quelle di più marcato realismo quotidiano di metà anni '50. Quasi fosse un omaggio al luogo in cui la collezione si è formata e, poi, a quello in cui questa è mostrata per la prima volta al pubblico, il tema più ricorrente è quello delle montagne. Lontane dagli scopi realistici o puramente paesaggistici, queste appaiono più come blocchi monolitici, privi di particolari e di qualsiasi richiamo al mondo reale, sono luogo di riflessione e dell'anima più che non uno spazio geograficamente individuabile. Chiusura cupa del lungo percorso nelle opere sironiane è senza dubbio Il mio funerale del 1960, dipinto a solo un anno di disatnza dalla morte dell'artista. Quasi previsione dell'evento disertato da tutti in una Milano stretta nel caldo del fer-


A Napoli, città metropolitana del meridione italiano, si può visitare grazie ad una subway di grande sperimentazione contemporanea (vi consigliamo la stazioni di Toledo e Mater Dei) una mostra di un alto valore estetico-corporale: Helmut Newton. White Woman, Sleepless Nigth e Big Nudes. La sede del PAN (Palazzo delle Arti a Napoli) centro di attente esposizioni contemporanee ospita una ricca serie di immagini in chiaroscuro b/n e a colori che mostrano l'anima, apparentemente erotica, di un artista-fotografo che guarda al nudo femmineo come una vetrina non solo stilistica e pubblicitaria, lo specchio dell'anima di una società. Le immagini di Newton esprimono una eleganza senza tempo dove la serie White Woman, il suo primo libro fotografico, mostra un intenso dialogo tra erotismo corporale e finzione estetica, la pubblicità metropolitana della moda contemporanea. Nel suo In hotel de Passe. Self Portrait with Model (autoritratto con modella) (Parigi 1973), esprime visivamente la linea di narrazione delle sue immagini private e intime, lo spazio pubblico e privato di un hotel e la camera dove giace in un letto visto dall'alto e nel contrapposto tra la nudità della modella e il suo essere vestito. Il contrapposto è il leitmotif di tutta questa serie, nell'aristocratica Villa d'Este (Lago di Como, 1975) presenta dei diversi frammenti di realtà vissuta, una donna vestita e successivamente nuda che si specchia come una amazzone-cavallerizza, per poi vedere la sua nudità di spalle che rievoca immagini narrative della storia dell'arte, da Degas a Goya. Un evento espositivo che nella triade dei percorsi di Helmut Newton sono il chiaro disegno di una fotografia di ricerca della persona, non il puro concetto della body art, ma l'introspezione di una immagine dell'essere, soprattutto femmineo. Infatti, in Sleepless Nigths (1978) sono ancora le donne, nude e vestite, a descrivere un noir dell'immagine, l'artista di moda si trasmuta in un reporter da crimine metropolitano. Mentre in Big Nudes (1981) esprime la gigantografia corporale dell'umano, entrando come ritratti ufficiali nella gallerie e musei internazionali. Lo stesso artista dichiara che l'immagine intera, del suo modello o mo-


della, rievoca in lui quei manifesti autobiografici che la polizia tedesca diffondeva alla ricerca del gruppo terroristico della RAF (Rote Armee Fraktion). Nella vita di Newton, dalla Germania, sua terra natia (Berlino, 1920) al suo peregrinare a seguito di leggi razziali, essendo di origine ebrea, da Singapore alla prigionia in Australia, per poi giungere nel 1961 a Parigi, dove esprime una particolare visione della fotografia corporale, tra arte e moda, società e antropologia urbana. Vivian Maier. fotografa ritrovata. “Seppur scattate decenni or sono, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. E in maniera profonda e inaspettata...”.

Cosi la descrive Marvin Heiferman, una donna intima americana che in vita realizzò un vasto numero di scatti urbani senza mostrarle, mai stampate su carta e custodite in uno scrigno personale. La tata newyorchese Vivain Maier, viene presentata a Roma, con una serie di 120 immagini postume, poiché riscoperte per caso in una soffitta dopo la sua morte. La si definisce oggi, tata per mestiere e fotografa per vocazione, e questa esposizione italiana ne mostra le alte qualità intime dell'artista-fotografa, che per decenni dagli anni Cinquanta ai Settanta cattura con l’unica amica la Rolleiflex, figure di strada, accenni di vita quotidiana

nelle città metropolitane autobiografiche, New York e Chicago. L'esposizione presentata nel Museo di Roma in Trastevere a cura di A. Morin e A. Mauro mostra uno spaccato realistico e immaginario della metropoli americana, ritratti - non ritratti, che la Maier coglie e ruba al quotidiano urbano, lei stessa si coglie in una immagine quasi sempre specchiata e quindi un riflesso della realtà. Un realismo fotografico, che non denuncia cronaca e noir metropolitani, ma il vissuto umano della realtà metropolitana americana, una New York tra pubblicità e mondo operaio, luci e ombre di una società in trasformazione, gli anni della Pop Art rivisitati in chiave chiaroscurale intima e personale. Di particolare rilievo intimistico i ritratti di bambini multicolori e di diversità etnica, un omaggio alla sua vocazione di tata urbana, volti di infanti che scrutano l'osservatore e che mostrano all'obiettivo della Maier, una realtà adulta, quella vita urbana che scorre senza tempo e senza protezione ad un'infanzia serena e immaginaria. La ‘street photographer’ emerge per la sua attenta analisi al dettaglio urbano, il ritratto di una società non narrata, quelle figure metropolitana che nell'arte si esprimono come scene di genere, momenti di vita quotidiana. Grazie, al suo scrigno la Maier ha lasciato ai posteri un diverso e immaginifico punto di vista della società metropolitana americana.


Si ripete talvolta che i diversi romanzi di uno scrittore non siano altro che varianti di uno stesso testo e, spingendosi oltre, dell'autobiografia dello scrittore stesso. Parafrasando questa affermazione si potrebbe quindi dire che le diverse fasi di ricerca di un artista siano un ritratto per immagini di chi dipinge o, nel nostro caso specifico, di chi scatta fotografie. è indubbio che la produzione artistica di David LaChapelle presentata in mostra a Venezia dimostra una notevole coerenza interna e, se non proprio una autobiografia, sviluppa in diverse forme quella che appare come una costante dell'arte dello scorso secolo e che si protrae, forse ancora più insistente, all'inizio dell'attuale: l'icona. Se la definizione di società dell'immagine si attaglia benissimo ai nostri anni, è indubbio che l'icona svolge una funzione centrale. Da immagine per eccellenza, ovvero quella delle figure del sacro con tutte le norme di composizione, cromatiche e di disposizione, che le caratterizzavano, nella società laica del secolo scorso questa è passata ad indicare quelle figure che racchiudono in sé lo spirito dell'epoca. Ed è da New York, dalla New York di Andy Warhol che il movimento Pop invade il mondo. Non è quindi un caso che le foto successive all'incontro del fotografo con l'artista della Factory abbiano una svolta decisiva. Se sono presenti in mostra an-

che i primi scatti in bianco e nero o già le curatissime costruzioni di setting dei primi anni, a queste foto si sostituiscono velocemente i ritratti coloratissimi che citano chiaramente quelli riprodotti in serie da Warhol. Ecco che i personaggi della cultura Pop aumentano di numero fino ad estendersi non solo a politici, ma pure ad attori, cantanti e chiunque riempia gli schermi televisivi. Ma l'arte non cita solo il mondo circostante ma procede citando pure se stessa irridendo i canoni estetici e contenutistici della produzione dei secoli precedenti. da quelli più neutri, se possiamo dire, fino ai mostri sacri, quelli intoccabili. Si parte quindi dalle nature morte fiamminghe, dal loro insistere ossessivo sulla vanitas e quindi su fiori e frutti che, pur nel vertice della loto fioritura o maturazione, lasciano trapelare accenni di appassimento se non di vera e propria putrefazione. Il tutto, chiaramente, espresso nei canoni estetici della modernità dilagante, dove i fondi scuri se non addirittura neri dei quadri antichi sono contagiati dai colori squillanti, artificiali, dei trionfi di fiori che occupano il centro dell'immagine. Il canone artistico occidentale ha pure altre icone ed il tentativo di esprimere i concetti più diversi passa di nuovo da qui. Paradossalmente pure il tema dello sfruttamento delle risorse del continente africano, lonta-


nissimo cronologicamente e idealmente dall'arte dei secoli scorsi, viene espresso ugualemente facendo riferimento ai must, agli idoli di un' arte conosciuta e condivisa dai più. È Botticelli e il suo riposo dalla guerra a fare da stimolo per la denuncia dell'artista. la Venere del quadro originale interpretata dalla Venere nera della società dell'immagine, Naomi Campbell, e lo sfondo idilliaco sostituito in un'immagine delle miniere che crivellano il suolo del continente, terra di conquista di multinazionali straniere. Icone dell'arte rinascimentale che si inseguono, dal Botticelli già citato al Michelangelo dei nudi possenti del giudizio universale coinvolti in un diluvio contemporaneo

che trascina con sé uomini e cose. Sono nudi ostentati dalla forma curatissima che fanno bella mostra nelle ricostruzioni di ambienti e immagini dell'arte dei secoli passati. Unica eccezione sembra essere costutuita dallla serie dei Landscapes e delle Gas station, riconstruzioni di pompe di benzina fatte con oggetti di recupero e inseriti in un ambiente naturale lussureggiante che dichiara la sua potenza e la sua capacità di recuperare quanto sottrattogli con la forza miope di un supposto progresso tecnologico. Ma siamo sicuri che le icone siano estranee da questi scatti, non sono forse frammenti di computer quelli che, insieme a cartoni delle uova, vengono utilizzati

per realizzare questi nuovi monumenti contemporanei? non sono forse degli oggetti iconici, simbolo del progresso della nostra società al punto da essere utilizzati come indice dell'evoluzione di una società rispetto all'altra? Novità di spicco della mostra Veneziana è poi una versione ulteriore dell'icona, quasi un ritorno al suo significato primario, quello di immagine sacra. La nuova serie dal titolo New World si occupa del sublime e della spiritualità citando le figure centrali delle diverse religioni. Ecco Gesù e Buddha che condividono lo stesso scatto inseriti in un setting tra i più curati. O Adamo ed Eva che si rincorrono in un Eden hawaiano, sagome di negativo ritagliato e poi incollato secondo una modalità già vista nei suoi primi scatti. Libero finalmente da scopi commerciali il fotografo rinnova parzialemente i temi ma rimanendo coerente con i suoi tratti, ovvero un sorprendente nuovo ma riconoscibilissimo LaChapelle.


Maestra nell’arte del pennello e dell’inchiostro, fortemente legata alla tradizione, Fang Zhaolin, fra le più felici espressioni dell’arte cinese del XX secolo, è riuscita con una pittura sottile e delicata a creare un qualcosa di mai visto nella pittura cinese: capace di cogliere le declinazioni dell’arte occidentale e metterle al servizio di un’arte unica nel suo genere, dove magicamente si incontrano colori e calligrafia. Fang Zhaolin. Signora del Celeste Impero (Museo della Permanente di Milano, 15 giugno - 10 settembre 2017), è il titolo della prima grande retrospettiva italiana dedicata proprio a una donna eccezionale, madre di otto figli ep-


pure viaggiatrice instancabile, nata a Wuxi nella provincia dello Jiangsu nel 1914 e scomparsa a Hong Kong nel 2006 all’età di 93 anni. Organizzata in collaborazione con il Museo Xuyuan di Pechino, patrocinata dal Comune di Milano, curata da Daniel Sluse e Jean To-

schi Marazzani Visconti, la mostra ripercorre attraverso 66 opere (tutte realizzate su carta di riso con pennello intinto in inchiostro nero o in pigmenti colorati) l’intero percorso pittorico di Fang Zhaolin, erede della tradizione artistica cinese, ma capace di creare uno sti-

le che rispecchia lo spirito moderno del suo tempo. Nell’arte di Fang Zhaolin c’è spazio per l’essere umano, questo sì, ma è indubbio che i suoi dipinti siano un canto intenso alla natura. Sui paesaggi e sulle montagne della Cina verte l’intera sua opera. Una Cina popolata

da una vita intensa che anima la sua memoria e scaturisce dai pennelli di Fang Zhaolin.


Il linguaggio di Rossella Leone si presenta asciutto e incisivo nel trasporre, su diversi supporti, tracce e memorie di un vissuto legato sempre al saper cogliere di ogni cosa la pura essenza. Nel percorso espositivo che l’artista palermitana ha progettato, la sensazione è quella di immergersi in un contesto che parla del mito, della storia, di riflessioni sulla condizione dell’uomo il quale se non sarà capace di buttare fuori dalla storia la guerra, finirà che questa butterà fuori dalla storia l’uomo. È difatti una reale paura quella che si avverte osservando i suoi grandi quadri, dove la caduta nel vuoto o l’energica pennellata scura riflettono tutto l’orrore dei nostri giorni.


Questa mostra ha anche valore di documento, scorgendo dai calchi presi dai muri di monumenti di alcune città, Palermo, Damasco, Aleppo, segni di degrado o di storia oramai scomparsa. La complessità e la irrazionalità di alcuni eventi storici non immediatamente si leggono in questi lavori, poiché Rossella Leone non ostenta mai la tragedia, non è mai didascalica, anzi induce il fruitore a trovarne il significato sotteso che, una volta scoperto, schiude altri orizzonti del pensare e del vedere, rafforzando in chi guarda il senso critico sull’esistente. Le opere esposte sono di una struggente bellezza per la misurata composizione e per le tante stratificazioni cromatiche e culturali. Alcune di esse mutuano da un vocabolario iconografico classico per arrivare ad una rielaborazione personale che connota la sua cifra stilistica. Un ritmo visivo si lega ad un ritmo musicale, dando vita ad una grammatica sinestetica e polisensoriale. Slittamenti linguistici e alterazioni percettive, in altri lavori, rendono l’inganno e il depistamento protagonisti di un fare ludico e ambiguo. La natura dell’arte prende, così, il sopravvento e le carte di cotone, i marmi, i metalli, le resine e i vetri si dispongono seguendo principi di ordine, di proporzione e simmetria, rivelando nella sua pratica artistica la forma mentis da architetto. E questo rigore, misto alla freschezza creativa, caratterizza la figura poliedrica e versatile di Rossella Leone che si relaziona da sempre con i vari linguaggi, visivi, teatrali, musicali, che oltre ad avvalorare una singolare ricerca trasver-

sale, fanno della sua arte un’ opera completa dalle forti implicazioni etiche e dall’alta valenza este- tica, annoverandola tra le artiste più interessanti nell’attuale panorama europeo.


La Natività di Caravaggio, rubata nel 1969 all’Oratorio di San Lorenzo, a Palermo, è una fra le opere più preziose dello speciale capitolo dell’arte mondiale: l’arte trafugata. Un gaglioffo o giro di gaglioffi d’alto bordo e l’organizzazione criminale che ha fatto da modello con copyright siciliano a quelle sorte in tutto il mondo con l’imprinting cinematografico o formatesi come spin off dalla mafia siciliana, si mobilitarono per un colpo grosso che mette di fronte al crimine, innanzi tutto, dell’incuria delle pubbliche autorità e della società nei confronti dei suoi stessi beni in ordine al valore civile della Bellezza. Viene da pensare, a parte polemiche e recriminazioni, che tutta l’arte di Caravaggio sia arte trafugata: nel senso di arte trafugata alla vita, rescissa con forza dai limiti che la escludevano allo sguardo dell’arte: la pittura di Caravaggio è rapinosa perché fuori dei confini che le erano prescritti: un’arte a mano armata, una profanazione vistosa dei codici in uso. I visi, i corpi, le figure, le cose sono rubate, riscattate a caro prezzo alla vicenda umana che le reclama come sua proprietà e dispone per ciascun aspetto della realtà la parte che gli tocca nella storia, nella cronaca, nella vita di ogni giorno, nel giudizio e nella cura di cui ognuno che vi partecipi si fa carico, incarnandole in profondità, anche più che la carne sopporti. L’Incarnazione è l’origine e lo specifico cristiano dell’arte di Caravaggio come lo è della storia che Ne è seguita, facendo da motore mobile di tutta l’azione che il movimento storico genera, fino a esserne travolto. L’arte è un momento di quell’opera

(e di quella gloria) cui nessuno è estraneo: l’Incarnazione - e così l’arte - ha scandalosamente a che fare col vizio e con la virtù, con la violenza e con la pietà, con la miseria e con la sublimità, interamente ricomprese, transustanziate nella santità di una Grazia che ha tutta la gravità della carne che Dio è venuto a abitare e glorificare. L’arte non è l’illustrazione che permetta di leggere in trasparenza il reale quasi esso fosse allegoria e andasse depurato da qualcosa - meglio se bella, meglio se aggraziata - con cui quell’Evento con cui nulla ha da spartire, ma l’immagine, l’ombra del divino che avviene, si mescola per sempre all’umano che ne è illuminato. Con un movimento opposto, non potendo trasformarsi in cloni di Caravaggio, lo si è preso a modello, a pretesto, a focolaio di contagio: e non potendosi limitare a rendergli omaggio, lo si è fatto a brandelli, lo si è trafugato, depredato, profanato, oltraggiato, fosse pure: l’amore non ha prezzo, perché conosce solo estreme conseguenze sacrificali. Lo ha inteso in tal modo Michelangelo Finocchiaro, che Della Natività trafugata a Palermo sembra cogliere, scippare di mano lo spunto - del resto, l’angelo tuffatosi e (potremmo dire, se l’angelo non fosse tutto e solo puro alito divino mosso dall’energia di quel soffio) trattenendo il fiato, sprofondato nell’aria che respiriamo, sceso in picchiata dall’alto dei Cieli con una gestualità da staffetta di una piscina olimpionica, mentre tende una mano verso l’alto, con un gesto che, insieme, indica la sede di Chi gli ha commesso quel mandato,

tiene aperto il contatto, il flusso propulsivo della spinta che lo ha mosso, anche a conferma di non avere sbagliato persona, recando l’aureola del martirio che attende San Matteo. San Lorenzo ha portato come dono profetico per il Bambino la graticola su cui sarà arso: San Francesco, che il Presepe lo ha inventato rivoluzionando l’arte e propiziando l’Umanesimo, è piuttosto affranto anche nella condizione che lo vede beato ricoprendolo di panneggi da borghese gentiluomo dopo il matrimonio morganatico con Madonna Povertà, regina o ancella di ogni virtù; il Santo è dolentemente pensoso come lo è l’uomo vecchio convocato all’Annuncio, un San Simeone che, impaziente e sopraffatto, vede in anteprima il Salvatore; San Giuseppe è di spalle, piegate come a reggere su di sé il peso della Croce che graverà sul Bambino Che la prenderà su di Sé, così come il padre putativo regge gli sguardi di tutti coloro il cui volto si rispecchia in questo suo celarsi per essere rivolto solo a Dio che lo conosce, giovane uomo cui la chioma bionda splende come un’aureola, accettata per la parte che gli è chiesta e fa anche di lui un angelo; e la Madonna, che contempla il Figlio giacere in una Deposizione prefigurata, esprime tutt’altro che felicità -: per riportare quel dipinto al senso nascosto e drammatico che esso proietta oltre di sé e prima di sé, laddove l’Annuncio della Natività, insieme a quello della Passione, vengono adombrati da Caravaggio in modo più visibile: cioè, nel Sacrifico di Isacco, patriarcale immagine dell’arcaico potere di vita e di morte sul Figlio.

Là, l’urlo di Isacco sembrava sgorgare dalla bocca della Medusa, come per sottolineare quanto di inorganico abbia quella pietrificata maieutica di terrore cosmico e di protesta inerme: sentiamo quel grido farsi quasi bestiale, ripreso dalla bocca del capro in quella del ragazzo: e in questo scambio delle parti lo sentiamo risuonare nella cavità del mondo che attende la salvezza come per misurare la vastità del nostro silenzio, come il grido del banditore/profeta o un jingle tragico di un testimone colpevolizzato che apre la strada all’Annuncio dell’Evento inatteso. Lo strumento che troncherà ogni equivoco sull’onnipotenza del Signore e sulla libertà dell’uomo, per saldarle nello stessa scelta e nello stesso atto, è a portata di mano, la lama del coltello che sembra tagliare verso l’osservatore uno spazio che è tutto sbilanciato sull’ineluttabile geometria del destino cui il Patriarca adempie con la follia di un carnefice che anticipa, come in una sfida, la follia divina del Sacrifico che attende Cristo. Questa trasfigurazione e transustanziazione è rappresentata nel dipinto in maniera ‘scandalosa’: l’immagine di Cristo nel dipinto sembra adombrata meno in Isacco e nel suo ideale gemello angelico che nel capro, che ha un’espressione sovrumanamente umana e perturbante. Come a offrirlo al Patriarca, l’animale tende il capo, staccato, nel quadro, dal resto del corpo, da cui lo ha vivisezionato il corno ricurvo che sembra prolungare la lama impugnata da Abramo per ‘ritorcere’ in simbolo di pace, grazie all’innocente che ne subisce l’urto, quello strumento di violenza. Quel colpo lo sentiamo vibrare ancora nei tagli di Burri, la stessa lama che fa dell’arte il capro espiatorio da cui ci aspettiamo la salvezza, in un passaggio di consegne che Michelangelo Finocchiaro afferra a volo nelle sue installazioni zoo-meccaniche, àugure o esegeta dell’arte aruspicina dei voli delle sue chimere, di cui ci racconta la storia naturale, che si direbbe atterrate da un passato più antico di questa terra. Michelangelo Finocchiaro ci ha stupito, a suo tempo, con quelle creature uscite, espiantate, anzi, trafugate al Paleozoico per librarsi in spazi che parevano anch’essi fossilizzati con loro. Quel mondo che è diventato il nostro non lo è stato per sempre e non lo è, nostro, in tutto: dobbiamo cedergli qualcosa e il nostro immaginario è più saggio delle pretese accampate dalle leggi dell’evoluzione. L’aria che accoglie gli strepiti che ci sono familiari o il silenzio di adesso ne sostengono le parabole, come ne citassero pagine, del resto, indecifrabili. Michelan-


gelo ne ausculta i messaggi iscritti. Ne sentiamo i rumori di fondo, i disfatti clamori atrofizzati alle misure di una distanza incolmabile, trafiggere il muro del suono e del tempo. Ruderi dei tonanti annunci ovvero dei vagiti dell’Eurasia nascitura. Echi di Lemuria. Riflessi sonori di Gondwana. Superstiti fantasmi pleistocenici assemblati in fatiscenti, invulnerabili orchestrature di quartetti d’archi regrediti a pentagrammi da cui risalire a genealogie musicali perdute per sempre. I paleontologici silenzi dei deserti di Pangea, che continuano attaccati alle ossa, tramandati come un segreto di famiglia dalle pietre, per sentirli risuonare nell’occipite, nell’arido polo del gomito,

per avvertirne le vibrazioni di rumore di fondo/silenzio originario nell’anima da cui la violenza della storia caverà socraticamente l’urlo. Come uno strumento passato di mano che attua uno sfondamento dell’arte che, da Burri in poi, straborda e si ‘incarna’ nello spazio d’esperienza per non uscirne più, quell’arma da taglio tiene aperto il varco verso l’opera perduta di Caravaggio. Michelangelo Finocchiaro porge all’osservatore il pugnale in una sorta di confezione-regalo, con il sontuoso rivestimento in velluto rosso dell’astuccio in cui seppellirlo, elegante oggetto da collezione o accessorio per una scena in costume, disinnescando la minaccia dell’arnese da bassa macel-

leria, la funzione di rozzo strumento sacrificale, in una stilizzata aerodinamica da innocuo calco di una inafferrabile traiettoria metaforica, gestuale o biologica. Estrema reductio ad unum di tutto il lavoro di Michelangelo Finocchiaro, non solo quello di scultore, delle sue installazioni aggressivamente protese ad arpionare lo spazio prima della materia e la materia prima della forma, sottratte entrambe ai condizionamenti del peso, al pedaggio esoso del mondo fisico, alla dura lex dei corpi, ai protocolli inattaccabili della gravità: che nel Sacrificio di Isacco corrisponde allo scambio del ruolo di vittima in cui il Padreterno risparmia il sacrificio al Patriarca che Ne ha riconosciuto e ac-

cettato la Signoria, a un passaggio di consegne nell’atto in cui una mano ferma l’altra e afferra, per ritorcerlo sulla Vittima, il coltello. Nello stesso tempo, in quest’arma rarefatta, regredita a utensile da vetrinetta, destituita di ogni funzione pratica, si coglie l’estrema condensazione dei segni in cui, nei suoi disegni e pitture, Michelangelo Finocchiaro scontorna i personaggi di un universo parallelo a fumetti con l’acuminata tensione che intaglia nel vuoto figure, poi, forbite da un di più di plastificata, cartoonizzata morfologia sterilizzata e crudelmente anestetizzata. Figure percorse da una vertigine in cui quei numi deposti si ritrovano ibridi, tra la favola ineffabile, smarrita o archiviata, la proiezione fantastica che riporti all’immagine paure oltre l’immaginabile, la leggenda mutila come lo sono i personaggi che ne interpretano o attestano l’inadempienza, con la perdita di consistenza, non di spessore drammatico, delle creature che la popolano. In modo tale che le vediamo stagliarsi come le riproduzioni di statue desunte o poste sul frontespizio d’un orizzonte sguarnito di astri, di telamoni cui basta una nuvola per evocare il cielo in rovina che puntellano, torsi sbalzati da una nicchia sfitta, mezzibusti adontati, erme asteniche, cammei, però, di trequarti o frontali, la cui fisionomia è pietrificata come contrappasso al non offrire asilo che a un solo pensiero, a un sentimento di sé rimesso agli altri, prismi ridotti a una sola sfaccettatura, a un lato nascosto: la cui mancanza, come la rinuncia alla carne che ne rivestiva le fattezze, si riflette in una dubbiosa, inconfessabile malinconia: tutti isolati in una tranche de vie onirica. Così vorremmo fosse anche per questo pegno all’arte di Caravaggio: ninnolo per farsi perdonare ogni sacrilego accostamento alla sua arte. Ma viviamo tempi in cui il sacrilegio è riproposto nelle sembianze di un sacrificio abramitico restaurato fin nelle città d’Europa: e vengono in mente le parole con cui Anthony Burgess chiude l’ultimo romanzo da lui pubblicato prima di morire e con cui suggella la narrazione con il timbro inequivocabile della fine che sentiva su di sé: prendo in prestito quelle parole: “… la luce che acceca non sembra essere monopolio del sole. Quel pugnale continua a spezzare e non sarà mai spuntato.” 1 1 In Un cadavere a Deptford, Anthony Burgess, Garzanti, 1995, pag. 317.



Giovane, bella e sorprendentemente vincente; a soli 17 anni la pattinatrice su ghiaccio russa Evgenia Medvedeva continua a stupire collezionando un record dopo l’altro e sapendosi confermare, solamente negli ultimi quattro mesi, campionessa europea e mondiale in carica. Nata a Mosca nel 1999, sul ghiaccio dell'età di tre anni, la Medvedeva debutta ai Campionati russi junores nel 2012. Il debutto internazionale arriva però nella stagione 2013-14 e nella categoria juniores è subito un trionfo con gli ori nelle tappe di Riga e Gdańsk, in Polonia ed il terzo posto nella finale che le vale il primo bronzo in carriera. Nella stagione 2014-15 arriva il primo record mondiale di 67,09 punti per il programma corto nella categoria juniores donne e vince così Grand Prix Junior e Mondiali Juniores. Intanto ai Campionati Senior Russi del 2015 si classifica terza ottenendo così la sua prima medaglia nazionale. Una stagione fenomenale nella quale a soli 15 anni non registra nemmeno una caduta sul ghiaccio durante tutto l’arco della stagione. L’anno seguente raggiunge l’età per partecipare ai campionati senior e competere così con le migliori del mondo. La stagione 2015/16 comincia col trionfo al Grand Prix. A dicembre vince i campionati nazionali russi, stabilendo i nuovi record in tutti e tre i segmenti della gara. Nel gennaio del 2016 Medvedeva partecipa per la prima volta ai Campionati Europei di Bratislava e la medaglia d'oro è sua. A marzo poi, bissa il successo continentale conquistando la medaglia d'oro ai Mondiali di Boston durante i quali stabilisce il nuovo record mondiale di 150,10 punti nel programma libero. Dopo aver vinto il titolo Junior nel 2015, diventa così, a soli 16 anni, la prima ad aver vinto Mondiali Junior e Campionati Mondiali. La stagione seguente comincia con un altro successo al Grand Prix 2016 nel corso del quale si classifica prima in entrambi i segmenti stabilendo il nuovo primato mondiale nel corto (79,21) precedentemente detenuto da Mao Asada. Nel dicembre 2016 difende il titolo nazionale ai Campionati russi, poi le tappe che la consacrano nell’olimpo del pattinaggio su ghiaccio mondiale, con ancora tutta una carriera davanti. Ai Campionati Europei di Ostra-

va, difende il suo titolo europeo ottenendo il miglior punteggio sia nel programma corto che nel libero, raccogliendo nel contempo altri record nel libero con un punteggio di 150,79 e nel punteggio totale combinato femminile (229,71), precedentemente detenuto da Kim Yuna. Il tempo per riposare però non è ancora arrivato e dopo soli due mesi, il 31 marzo trionfa ancora anche ai Campionati del Mondo di Helsinki, ribadendo la superiorità imbarazzante con un libero magistrale;

per il secondo anno consecutivo centra così l’accoppiata tra titolo europeo e titolo mondiale dimostrando ancora una volta la sua supremazia rispetto alle avversarie, andando a stabilire due nuovi primati assoluti: 154,40 punti per il programma libero, con 78,27 punti di technical elements e 76,13 punti di program components, per un totale di 233,41 punti. Evgenia diventa dunque la prima donna a superare la soglia dei 230 punti nel totale (il suo punteggio complessivo è stato di 15,28 pun-

ti in più rispetto alla medaglia d'argento Kaetlyn Osmond). Come se non bastasse ad aprile gareggia con la nazionale al 2017 World Team Trophy tenutosi a Tokyo, in Giappone, l’ultimo appuntamento internazionale del pattinaggio di figura per questa stagione. La rassegna si è conclusa con il programma libero femminile, che, come da pronostico, ha visto la vittoria della Medvedeva che, anche qui, stabilisce l’incredibile punteggio di 160,46 punti, battendo il record mondiale di 154,40 punti con il quale aveva vinto i Mondiali, ottenendo 82,40 punti di technical elements e 78,06 punti di components. Stabilisce così ancora un record mondiale di 241,31; diventando anche la prima pattinatrice donna a rompere muro dei 240 punti nel punteggio complessivo. Ma quello che rende Evgenia grande non è semplicemente la sua tecnica o la sua capacità di massimizzare ogni elemento dei suoi programmi; è la sua determinazione e capacità di credere ed immedesimarsi in ogni personaggio che porta sul ghiaccio; ogni sua interpretazione la rende speciale, tutta da guardare, come ha fatto ultimamente portando sul ghiaccio perfino Sailor Moon (sua eroina manga). In ogni suo movimento, ogni salto, ogni flip o lutz, riesce sempre a massimizzare il sistema di giudizio guadagnando bonus da parte dei giudici e lasciando ammirato chi la osserva; frutto di una conoscenza tecnica, della fiducia in se stessa e da un’espressività innata che la rendono senza dubbio una delle migliori pattinatrici della storia. La leggerezza e la grazia, la perfezione delle sue prestazioni ed il suo dominio la portano ad essere la favorita per le Olimpiadi del 2018. Gli undici record fin qui stabiliti non sono altro che l’inizio per un’artista del ghiaccio come lei. Dopo il biennio di supremazia che nel pattinaggio donne non si vedeva dai tempi di Katarina Witt (anni '80) il prossimo sarà un anno tutto da vivere per un’atleta in cerca della consacrazione definitiva con ancora tanto da scrivere sulle piste di tutto il mondo.


on ricordava dove si erano conosciuti; dove si erano visti l’ultima volta, aveva preferito dimenticarlo. Si riparava dietro l’ombra dell’altro, con la scusa di non essere degno di quella luce. Ora che non poteva più essere lui, non potendo più, solo per questo, nemmeno immaginare di poter diventare migliore di lui a forza di desiderarlo come omaggio reso alla memoria del fu, poteva credere che dovergli tutto fosse un privilegio più grande che essere stato uno dei pochissimi ‘qualcuno’ per una persona che era stata tutti o di tutti. Quando descriveva l’amico perduto, però, era evidente che non perdonava a nessuno dei due la scarsa somiglianza reciproca sotto qualunque riguardo: e l’amicizia condivisa, che pareva scaturita e infine, dovuta a un fatto così banale: e aveva come conseguenza (lo sapeva bene proprio perché scontare la mancanza di affinità era anch’essa una questione di talento) il fatto che qualcuno avrebbe dovuto pagare per questa mancanza di tatto e l’altro avrebbe accettato l’umiliazione, che avrebbe patito senza reagire. Essere importuno a chi gli era caro non lo avrebbe sopportato quanto essere tollerato da uno migliore di lui e così delicato, da farne il confidente per punire ogni consapevolezza della superiorità rispetto all’altro. No, si era detto più volte, no: sarebbe stato preferibile morire prima di conoscere un uomo tanto dabbene o in mancanza di alternative migliori, diventarne davvero amico: ciò che era avvenuto. Dal momento che uno dei due era morto prima, come c’era da aspettarsi senza arrivare a tanto, non c’era né ci sarebbe stato bisogno di prendersi tanto disturbo con i propri scrupoli. Dal canto suo – sempre parlando con la modestia dovuta all’argomento strettamente personale e con la ritrosia indispensabile in questi casi, dove le confidenze vengono fatte a proposito di persone che non ci sono più –, lui non aveva mai avuto bisogno, insisteva, di scrutarne i gesti lenti, gli occhi fissi, a volte, penetranti, ma sempre evasivi, lievemente arrossati agli orli:

fatti, come certi occhiali, per essere visti più che per guardarci il mondo – il più delle volte, indegno anche d’uno sguardo di sfuggita. Ma, riconosceva, l’amico dimostrava in questa noncuranza una convinzione indefettibile, una determinazione coerente come poche: perfino un coraggio che l’amico non aveva, ma che trovava in nome di una lucidità di giudizio cui sarebbe stato più eroico, forse e da insetto (non essendo angelo altrimenti che tornando larva: non potendo essere uomo se non diventando Dio) rinunciare. Da come si esprimeva nei confronti dell’amico che non c’era più, sembrava che morire dovesse essere stato meno tragico che sopravvivergli - cosa cui per primo il mor-to non avrebbe creduto e che, cer- to, non avrebbe voluto: ma, perciò, sarebbe stato sicuramente dispo-sto e anzi, più che sollecito a conso-lare chi era rimasto in vita a pian- gerlo così. Anche perché, essendo sempre stato uomo noto se non con un senso di vergogna - che era la vera ragione, poi, per cui aveva bisogno di amici -, la cosa avrebbe dovuto essergli più facile del compito di essere ricordato da uno fra i più fidati di loro, forse - anzi, quello di cui si fidava di più di ogni altro, in qualità di rappresentante ufficiale del defunto presso la posterità. Era la sua stessa delicatezza, aggiungeva a scapito di equivoci, che, quando era vivo, imponeva al grande estinto la mancanza di pudore, quando gli altri gli confidavano i loro tormenti: li ascoltava e poi, voleva essere pregato per dire la sua. E quando si esprimeva, lo faceva come dovesse dissimulare anche questa virtù - che merito c’era nel rinunciare a un diritto che non gli spettava?, questo sembrava dire il superstite del duo con una reticenza che imitava anche così gli scrupoli dell’altro, semmai, andando un po’ oltre di essi, tanto per dimostrare fin dove si poteva arrivare continuando su quella strada maestra: come se, non osando accusarlo neppure quando sarebbe stato sacrosanto, volesse portare lui la croce che aveva premurosamente sistemato fra le scapole dell’amico come un magnifico mantello. Era sempre la stessa, proseguiva, sempre quella, la sua dolcezza, sempre incontenibile e esaltata e dunque, un poco aliena: quando, finalmente, inaspettatamente, esplode-

va - cioè, l’amico si abbandonava a qualche gioia con la consapevolezza di perdere così la compostezza che tanto amava, di cui nessuna ansia poteva privarlo né qualsivoglia dolore defraudarlo. Quanto a una certa sua asprezza, che veniva fuori d’un tratto e quasi, all’insaputa di lui stesso, così inattesa, ma così assai bene intonata al resto che poteva sfuggire ai più, a meno di non essere molto, molto attenti: ebbene, era come una canzone che affiochisca la voce dai toni sempre più acuti, perché il de cuius non amava che ci si lasciasse intenerire da quella che poteva essere scambiata anch’essa per una prova di abilità o richiesta di comprensione in casi particolarmente difficili. Senza dimenticare, poi, la sua allegria, futile come la risata, che non arrivava a essere stridula perché ripiegava sulla nota che la troncava, gettando addosso alla gioia come alla serietà altrui tutto il peso dell’umana inconcludenza. Quel che le impressioni lasciavano filtrare non aveva bisogno, del resto, di molte prove. Dapprima, non era stato facile immaginarlo, ma prima che diventasse un’abitudine, ecco, il ricordo aveva fatto il suo dovere puntualmente, sollevandolo da una cosa tanto imbarazzante. L’immagine dell’amico - raccontava con una enfasi tormentosa, esitante, strozzata da una intensa trepidazione la sentiva rivivere dentro con una scioltezza che non ricordava di aver provato, allora, sul momento: di non averla, anzi, neppure vagamente ipotizzata - vivere, vivere davvero, era un fatto profondamente comico, cioè, spirituale. Dentro l’emozione (e il vuoto) che aveva lasciato, quel fantasma s’era ambientato subito. Si vedeva che si trovava perfettamente a proprio agio a corrispondere mentalmente all’immagine dell’amico come in vita non era stato sempre possibile. Ora, invece, era più libero. E si capiva perché. Non essendo chiaro a chi spettasse porre condizioni in merito all’essere se stesso, quell’amico, così unico, impareggiabile, così particolare, avrebbe potuto approfittarne per avere tutto, essere il più alto concentrato delle migliori qualità richieste dal vivere in società molto più evolute di chiunque osasse muovere obiezioni: ma, ecco il punto: cos’era, in fondo, quell’uomo eccezionale, quel genio senza pari in un

così speciale campo di attività? Una persona! Perché questo era. Era questo. Non di più. Alla fine, diventato una leggenda in un mondo mortalmente malato di quella letteratura che non era più interessata alla vita così come, bene o male, aveva sempre fatto, l’amico caro che non c’era più a aiutare a reggere l’impaccio di sopportare se stessi, aveva trovato la dimensione in cui giovare a tanti - fra i classici in edizione economica, perché tutti dispongano di un po’ di apologhi misteriosi e di aforismi di riserva. Così, sembra che il mondo e gli uomini, tutti troppo impegnati a disperarsi troppo per potersi permettere davvero di soffrire o di riconoscere a quell’inquietudine che nessuna sofferenza artificialmente indotta sapeva rimpiazzare, facciano di tutto per essere degni di colui per non vanificare crudelmente i suoi incubi pietosi, il fatto imperdonabile di non somigliare a nessuno di essi, cosa di cui nessun orrore potrà mai fare ammenda e che profana ogni pietà. Non l’avremmo spuntata, insomma. Non così facilmente avremmo potuto farcela lo stesso - acquisire, di soppiatto, lo status di peccatore, meritare il pentimento, dare una chance alla Grazia che ci è fatta rinnovando ogni giorno la promessa che vincola a un patto che Altri per noi ha sottoscritto, sicché il peggio è un trucco per aver fortuna. Così, insomma, ci hai pensato tu ad addossarci l’onta. La metamorfosi che ci è toccata, certificata da una lettura autografa – ipocriti, eppure complici nell’arte di resuscitarlo nel rimorso che tu non provavi, che tu, blasfemo d’un iscariota, non potevi provare in quanto Giuda che pretendeva di salvare il suo Cristo tradendolo, tradendo la Sua parola come la propria, attraverso la propria: e magari, proprio a causa di questa tua intangibilità, non sei diventato neppure uno dei personaggi di quel delirio. E dunque, perché mai dovremmo noi benedirti o con diritto biasimare te per il tradimento postumo consumato in danno al santo? E d’altra parte, perché, ora, dovremmo sentirci a spese d’altri tue - buoni? Perché sentiamo d’esser grati anche a te, seppure non grazie a te? Dovevi rifiutare. Non l’hai fatto e hai sbagliato, caro Max. Che Kafka FINE ti perdoni.



La mostra Scultura come il tutto, curata da Mercedes Auteri, dal 19 febbraio al 2 aprile 2017 al MiDeC di Laveno Mombello (Varese), ha messo in dialogo le opere di due artisti contemporanei: Pino Deodato (‘50) e Filippo La Vaccara (‘72). Entrando nella suggestiva struttura che ospita la mostra, il MiDeC, Museo Internazionale del Design Ceramico, ci si accorge subito di trovarsi dentro a un piccolo gioiello che si affaccia sul Lago Maggiore. Salendo le scale interne e giungendo al primo piano del porticato che dà sul chiostro, è possibile scorgere l’azzurro del lago e del cielo dalle finestre della facciata principale, mentre all’interno delle sale si riscopre la lavorazione della terraglia, un’arte oramai abbandonata ma sulla quale un tempo si basava l’economia di quel territorio. Essa rispecchiava al meglio il paesaggio circostante: il blu sevres è infatti ciò che caratterizza la produzione delle ceramiche e che richiama il colore del lago, come avviene per esempio nel servizio reale creato appositamente per casa Savoia che si può osservare nella sala n.3. Al piano terra, nei locali recentemente restaurati per ospitare mostre temporanee, è facile percepire l’intento di armonizzare l’allestimento dell'esposizione Scultura come il tutto con il luogo,

come avviene con i busti di Deodato nella prima sala, illuminate dalla finestra sul lago; con le teste della seconda sala di La Vaccara, sistemate su un supporto appositamente colorato di blu dall’artista; con le due opere pittoriche rappresentanti due finestre che si aprono, ancora una volta a sottolineare la presenza dell’acqua a pochi metri di distanza. Le teste coinvolgono direttamente lo spettatore poichè sono poste alla stessa altezza del suo sguardo, interrogano e incuriosiscono: invitano chi guarda a camminare intorno all’installazione

per poter cogliere tutte le sfumature dei volti animali e umani. È stretto il contatto non solo tra le opere scultoree dei due artisti, anche nell’attraversamento delle sale si ha una sensazione di continuità̀ e omogeneità degli spazi: niente appare schiacciato da altri elementi e anche laddove si trova un’opera che già fa parte dello spazio espositivo, come accade nella sala 3, dove era già presente l’opera L’Orfeo incanta gli animali con la musica di Angelo Biancini, non viene stravolto e, anzi, tanto la Pecora nera e il Gatto nero, quanto il Vestito dell’arte, coesistono e completano L’Orfeo, modello per il pannello a muro della Società̀ Ceramica Italiana di Laveno. La decisione di porre l’esposizione in un palazzo storico, ospitante una collezione permanente, permette di riscoprire il luogo, di essere di nuovo partecipi di una tradizione dimenticata. Un nuovo impulso viene dagli artisti che si adoperano per rivalutare il patrimonio laddove non arriva la politica: è lodevole l’idea di esporre opere d’arte contemporanea presso il MIDeC, senza per questo stravolgere la sua anima, ma anzi portando nuova ricchezza, economica e culturale. Questo è ciò che fa la mostra Scultura come il tutto e l’auspicio è quello di un proseguimento in tale direzione.


L'occasione della mostra Pino Deodato - Filippo La Vaccara. Scultura come il tutto, ospitata dal Museo Internazionale del Design Ceramico di Laveno Mombello, è stata un'opportunità per scoprire gli universi immaginifici paralleli di due artisti contemporanei, di generazioni differenti ma con una sensibilità comune. Le vicende che da quasi mezzo secolo legano il cinquecentesco Palazzo Perabò alla ceramica risalgono all'istituzione della Civica Raccolta di Terraglia nata con lo scopo di riunire le collezioni lavenesi che, sin dalla fine dell'Ottocento, grazie alla produzione dell'Industria Ceramica Italiana che qui aveva sede, diventano tra le più importanti d'Italia. In un dialogo costante con l'acqua e la terra, Laveno ospita due scultori legati alla tradizione artistica e artigiana italiana che attinge dal linguaggio popolare, semplice ma non per questo privo di profondità nascosta nelle piccole ed essenziali cose. Deodato (Nao, Vibo Valentia, 1950) e La Vaccara (Catania, 1972) hanno lastricato il loro percorso pittorico e scultorico di rivelazioni, sapienza, dettagli. Unici nel panorama italiano, esprimono attraverso uno stile figurativo onirico e cristallino, l'importanza della mano artefice, con fare antico e sguardo contemporaneo, presentando qui alcuni lavori emblematici. Alcuni video sugli artisti a corredo dell'esposizione aiutano il visitatore a conoscerli meglio. Deodato e La Vaccara devono molto alla tradizione della scultura italiana: allo stiacciato di Donatello e alla forza espressiva delle rifiniture dei Della Robbia, il primo; alla classicità dei busti di Laurana e alla plasticità di Arturo Martini, il secondo. Sposano felicemente l'idea di un'arte che nasce dal lavoro costante e minuzioso per svelare attraverso metafore ed allegorie storie minimali e intime, impregnate di magia e miraggio. "È difficile essere semplici", diceva Raymond Carver cercando di spiegare la natura dei suoi racconti. La lingua di cui Deodato fa uso è, come quella di un

racconto di Carver, quella con cui la gente parla abitualmente ma, al tempo stesso, è anche una prosa che va sottoposta a un profondo lavoro prima che risulti trasparente. Si tratta di un processo di revisione e, ad ogni nuova scultura, il racconto cambia. Le opere di La Vaccara, in questo gioco letterario a cui la mostra ispira, sono come brevi haiku, antiche poesie giapponesi di tre versi. Lo spunto immediato è sottoposto ad una lunga rielaborazione comune ad ogni lavoro di creazione artistica e parte da un evento casuale che risulta spesso essere, in qualche modo e misura, perturbante. Si determina a volte una progressiva destabilizzazione capace di generare una riflessione lenta o un'illuminazione improvvisa a seconda dell'esperienza del lettore. Come nei versi di Mizuta Masahide, "Il tetto s'è bruciato – / ora / posso vedere la luna" avviene un cortocircuito, ironico ma mai sarcastico, dolce ma mai fragile, anzi, portatore di una forza misteriosa. Il San Tommaso apostolo rappresentato da Deodato richiama al più rivoluzionario tra gli evangelisti non ufficiali, il più artistico forse, colui che vuole vedere per credere, colui che è ricercatore di verità e stupore. "Coloro che cercano, cerchino finché troveranno. / Quando troveranno, resteranno commossi. / Quando saranno turbati si stupiranno, e regneranno su tutto", ha scritto nel suo vangelo apocrifo. Poi ha lasciato la sua terra per andare in India come gli aveva detto Gesù. Il Tommaso contemporaneo di Pino Deodato cammina, viaggia, vola. Sono uomini assetati di sapienza e spesso sommersi nei libri, quelli delle sue sculture, a volte costretti dentro a uno stiacciato in basso rilievo, altre volte pronti ad oltrepassare la cornice per conquistare la terza dimensione, gettando curiose ombre sulle pareti in cui scivolano, planano, scalano. E dall'India anche Filippo La Vaccara trarrà ispirazione, come racconta in uno dei video girato durante uno dei suoi viaggi, con suggestioni che accompagnano il visitatore. Tra le sue Teste un Krishna blu, qualche viso orientale, molti animali. Un bestiario che aggiorna quotidianamente, avendo raggiunto ormai più di cento teste plasmate dall'argilla, che sorgono dalla ter-

ra riconciliando l'uomo alla natura e al creato. Durante l'allestimento si è scelto di mettere in evidenza la relazione tra il lago, il museo e gli artisti, creando un filo immaginario che leghi gli spazi espositivi temporanei alla collezione permanente. La maggior parte delle opere del MIDeC provengono dalla raccolta della Società Ceramica Italiana Richard-Ginori, dalla donazione ScottiMeregalli, dalla donazione Franco Revelli e altre donazioni private; si annoverano artisti come Giò Ponti, Guido Andlovitz, Antonia Campi, Biancini, Melandri, Gariboldi. L'Orfeo incanta gli animali con la musica (1939) di Angelo Biancini, modello per un pannello a muro che la Società Ceramica Italiana di Laveno realizzò in materiale ceramico e in serie limitata, recentemente restaurato, è presente nello spazio centrale della galleria espositiva al piano terra e dialoga con un vestito bianco vuoto, in ceramica invetriata, di Deodato, ad evocare come nel mito greco la perduta Euridice, e una grande scultura di animale in cartapesta, anch'essa stregata da Orfeo, di La Vaccara. Procedendo dalla prima all'ultima sala è possibile scoprire alcune note opere di entrambi: i busti delicati e simbolici di Pino Deodato, le sue sculture da parete, alcuni bronzi; le teste di Filippo La Vaccara, omaggio alla ritrattistica antica rivisitata in chiave moderna, i suoi animali umani e celestiali allo stesso tempo, e due grandi tele pittoriche che ripetono il motivo della finestra, quasi a volere sfondare la parete nell'incontro con il paesaggio circostante, il lungolago, l'oltre. I personaggi di Deodato sono in apparenza uomini comuni, in abiti scuri da lavoro o nel pigiama elegante appena stropicciato dopo un sogno, e costellano le sue sculture portatrici di messaggi mai scontati, ironici, sofisticati a volte. Più sibillini i ritratti a engobbio di La Vaccara. Nei suoi lavori la risposta ultima non è mai evidente, né nel titolo dell'opera, né nel primo sguardo ma sempre e solo nel secondo, nell'osservatore capace di riconoscere somiglianze o fare associazioni. Frammenti: di storie, di racconti, di poesie, di uomini, animali, luoghi. Una sineddoche della scultura capace di rendere il tutto attraverso una parte, essendo essa stessa in ogni suo frammento un linguaggio completo, un universo complesso, integro, intero. La scultura come il tutto.


L'arte ha da sempre subito la fascinazione per la guerra, proprio esprimendo bellezza là dove c'è orrore. Per spiegare come può il più tragico degli eventi umani essere "bello" si tenta una risposta ideologica per la quale l'artista può asservirsi a un potere e mettere a disposizione di questo e dei suoi scopi il proprio genio. In questa forma di “inganno” capace di rendere bello ciò che è brutto, quindi guardare più all’estetica che all’etica o alla politica, ci si addentra in uno spazio di indagine più misterioso e incerto: la mente e l'opera dell'artista che si è lasciato influenzare e ispirare dalla guerra. Lo spettacolo teatrale "I sogni del terzo piano" (2016) è la seconda opera del regista ucraino Georghyi Biloshytsky incentrato sulle drammatiche vicende attuali che sta attraversando l’Ucraina. La guerra non riconosce i volti, non osserva condizioni e regole, non rispetta il diritto di ognuno di vivere e condurre una vita felice, la guerra ammazza il corpo e l’anima delle persone mettendole a dura prova, alcune delle quali non si fanno mortificare mentre altre falliscono e non danno prova di una forza spirituale interiore. Il conflitto militare imposto all’Ucraina dalla Russia nella regione del Donbass, nella parte ovest dell’Ucraina, è il tema di questa coinvolgente sceneggiatura teatrale, i cui protoganisti sono giovani attori di 11-14 anni di Aggigento, laboratorio psico-teatrale "Imagine" di Vinnyt-

sya, Ucraina. Il tutto si è reso possibile grazie alla disponibilità di Mikhail Baydyuk, direttore del Teatro Accademico dei Pupazzi di Vinnytsya, luogo dove si è svolto lo spettacolo. Dal 2014 fino al 2017 nel conflitto militare a Donbass sono stati uccisi più di 10.000 ucraini, tra cui più di 500 bambini di diverse età. La sceneggiatura "I sogni del terzo piano" è stato il risultato del viaggio di G. Biloshytsky, in qualità di regista-documentarista nella zona di Donbass, di una visita all’orfanotrofio della città di Vinnytsya nel 2014. Da alcuni giorni era scoppiato il conflitto militare ed erano stati già uccisi a Donbass 52 bambini ucraini. Così è nata l’idea di scrivere la sceneggiatura rivolta ai bambini uccisi durante i primi giorni del conflitto. I protagonisti sono 7 alunni della scuola-istituto per gli orfani della città di Vinnytsya i quali sono stati lasciati al terzo piano in una classe chiusa aspettando l’evacuazione imprevista a causa del bombardamento da parte dei separatisti militari. La storia, proposta da attori non professionisti, alunni delle scuole di Vinnytsya, rivela i primi sentimenti come l’amore tra Alina 12 anni e Yuri 14 anni, alunni della stessa classe, la gelosia, il panico, la paura della morte, la forza inaspettata da parte dei ragazzi che viene fuori al momento di salvarsi e salvare i compagni della classe e la maestra che è tornata nel tentativo di salvare i suoi alunni. Lo spettacolo dura 40 minuti, ed è un crescendo di tensione ogni minuto che passa, circondati da una stretta mortale. Chiusi in attesa della salvezza, i ragazzi ricordano il passato, sognono il futuro pur trovandosi di fronte alla morte. Tra gli alunni c’è anche una ragazzina cieca che spera di essere operata e che, essendo terrorizzata, viene calmata dai compagni che le raccontano i loro sogni e speranze per il futuro; ci sono Alina e Yuri che si rivelano il proprio sentimento e parlano d’amore sotto le esplosioni e gli spari. - Yuri - dice Alina - ti voglio dire una cosa che non ho mai detto prima a nessuno... ti voglio tanto bene... Stringendosi a Yuri, Alina chiede: - Ma che cosa è questa? La guerra, Yuri?... - Ma no.... che guerra - risponde calmandola Yuri - È... E non finisce la frase perché sono gli spettatori che devono rispondere al posto di Yuri che cosa è questa guerra che continua già da tre anni: il gioco dei politici, un con-

flitto, la guerra che per molti anni ha separato due popoli slavi che avevano rapporti amichevoli e fraterni. Yuri e la maestra vanno a cercare l’autobus nel cortile della scuola abbandonata per sfuggire dall’inferno militare. Si sentono degli spari fuori che indicano la loro morte. Nel finale, rimane da sola sul palcoscenico la ragazzina cieca, abbandonata in una scuola quasi distrutta. Gli altri compagni sopravvisuti sono stati portati via dai separatisti nelle zone occupate da quest’ultimi, lontano dal territorio controllato dall’autorità ucraina. Lei rappresenta, così, il simbolo dell’Ucraina abbandonata dall’Europa davanti all’aggressore più atroce e imprevisto, dopo la seconda guerra mondiale. La bambina cieca comincia a ballare poiché sogna di diventare una ballerina dopo l’intervento agli occhi. - Ballerò, farò la ballerina lo stesso... farò la ballerina - queste sue ultime parole non lasciano indifferenti gli spettatori. Lo spettacolo finisce con una scena triste e allo stesso tempo piena di ottimismo per il futuro, per la vittoria della giustizia, della fraternità. Al momento del saluto finale, gli attori lanciano delle colombe di carta nella sala, come richiesta agli adulti di cessare la guerra, di difendere i valori della pace, i loro desideri e speranze, “i sogni del terzo piano". Lo spettacolo, dedicato ai bambini di Donbass, è praticamente la prima opera drammatica sugli avvenimenti tragici dell’ovest dell’Ucraina rappresentata nei teatri ucraini professionali e amatoriali. Nel maggio 2016 lo spettacolo è stato presentato al festival ucraino dei teatri amatoriali ad Irpen (Kyiv, Ucraina) ricevendo il Diploma di merito. L’opera teatrale intrisa di immaginazione intrecciata alla realtà dei fatti, ha ricostruito il comportamento degli alunni in una situazione critica e di forte stress, dove dietro il velo di un’alta poeticità si cela un orrore che mai potrà essere del tutto narrato. Ma, come ci ricorda il regista:

“l’arte non ha il diritto di rimanere passiva di fronte al male, ma ha il dovere di reagire sempre e farci riflettere”.


Filippo La Vaccara (Catania, 1972) si diploma in Scultura all'Accademia di Belle Arti di Catania nel 1994 e ottiene l'abilitazione all'insegnamento nel 2007 presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. La sua carriera artistica inizia nel 1998, con la personale a cura di Francesca Pasini in Viafarini a Milano. Nel 1999, scelto da Angela Vettese e Giacinto di Pietrantonio per il Corso Superiore d’Arti Visive alla Fondazione Antonio Ratti di Como, partecipa ad uno stage con Haim Steinbach. Nel 2002 risiederà per alcuni mesi come Artist in Residence presso la Fondazione Orestiadi di Gibellina, dove esegue cinque grandi dipinti poi esposti nella mostra Laboratorio a cura di Achille Bonito Oliva e attualmente parte della collezione del museo. Nel 2015 due sue grandi opere, proprietà della collezione di Mario e Bianca Bertolini, vengono acquisite dal Museo del 900 di Milano. Nel 2016 riceve la menzione d'onore del Focus-Abengoa International Painting Prize, presso la Fundacion Focus-Abengoa di Siviglia che acquisisce la sua opera. Nello stesso anno realizza un libro monografico (Allemandi Editore) finanziato con un grant concesso all'artista dalla Pollock-Krasner Foundation, INC di New York).

Vishka (Mashad) la più grande (realista) è nata in Iran nella città di Mashad. All'età di 13 anni, incoraggiata dai suoi genitori, si scrive ad un corso di pittura e dopo all’Accademia d'Arte nella quale avvia la sua ricerca artistica vera e propria. Il suo interesse per la filosofia e la letteratura dell'ottocento l'hanno indirizzata su argomenti di tipo sociali, quali le donne, rappresentate nella maggior parte delle sue opere. L'uso delle tecniche, le diverse tonalità di colori e le creazioni di stili diversi, caratterizzano le sue pitture. A causa dei limiti sociali e terrirtoriali, in particolare in riferimento alla sua visione dell'arte e le tematiche affrontate, non ha mai voluto esporre le sue oper in Iran ma queste sono comunque al centro dell'attenzione e richieste di diversi collezionisti internazionali.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.