Newll'ink N.20

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Ritratti, nudi e moda: è questo il filo rosso che Matthias Harder, curatore della mostra e curatore capo della Helmut Newton Foundation di Berlino, ha tracciato negli scatti del fotografo esposti alla Casa dei Tre Oci di Venezia. Continuando una tradizione ormai ben consolidata, lo spazio espositivo veneziano torna infatti ad attrarre il pubblico internazionale che frequenta la città con una mostra dal forte richiamo e, al tempo stesso, di innegabile valore, dedicata appunto ad Helmut Newton. Dopo i grandissimi nomi di Josè Salgado, quelli delle fotografe della mostra Sguardo di donna – da Diane Arbus a Letizia Battaglia citate nel titolo, a cui si aggiungono, ad esempio, Nan Goldin e Zanele

Muholi, Margaret Bourke-White e Yoko Ono - e molti altri meno famosi ma non per questo meno interessanti, l'attenzione è caduta stavolta su vere e proprie icone del secolo da poco terminato. Immagini indubbiamente celebri ma su cui è pur sempre necessario soffermarci per coglierne gli aspetti salienti. Grazie alla guida del già nominato Matthias Harder ci accostiamo quindi al volto di Paloma Picasso. I tratti decisi, l'espressione forte connotano lo scatto come un vero ritratto in cui la nudità del seno è velata da un bicchiere stretto in mano. Lo stesso braccio ripiegato a reggere il bicchiere ci mostra i gioielli disegnati da lei stessa. Ritratti nudi e moda, dicevamo, a cui si accosta un altro dei grandi amori del fotografo, quello per il mare. Inquadrato in primo piano o presente con i suoi riflessi sulle figure ritratte, il mare è un'altra delle componenti che figurano nelle sue opere, lo stesso che incombe appena oltre le grandi finestre di questo incredibile spazio espositivo. Ecco quindi la figura slanciata di Winnie, in barca lungo la costa francese. O ancora la grande opera dedicata a Veruska in Nice del 1975: i capelli sciolti intorno allo splendido viso espressivo, le nudità che si intravedono oltre il bordo della giacca di pelle e, riflesso dalla vetrata della finestra a cui si sta affacciando, l'amato mare. Il gesto stesso di scostare le tende che separano l'in-

terno della stanza dalla terrazza da cui la scena è stata ripresa si prestano ad una duplice, intrigante lettura: si stanno chiudendo le tende per lasciar fuori chi osserva? O al contrario le si stanno aprendo in un invito ad entrare? Questo secondo scatto commentato ci presenta i personaggi preferiti del fotografo: le modelle. Oltre a Paloma Picasso, ricordiamo infatti solo due piccoli scatti del pittore David Hockney in una piscina parigina e una posa spontanea dello stilista Karl Lagerfeld che, risalendo al lontano ‘75, ce lo presenta con una lunga barba scura così diversa dalla sua immagine degli ultimi anni. E poi modelle. Sono le modelle con cui aveva lavorato fino a pochi minuti prima per scatti pubblicitari per le maggiori case di moda che, convinte dal fotografo, si prestavano a pose più libere e provocatorie. Sono le stesse con cui Newton cercava di rompere gli schemi dello stile prefissato presentando, ad esempio, nudi coperti da pellicce e, molto spesso, ottenendo rifiuti dai committenti. Sono loro ad essere ironicamente ritratte con una bistecca cruda su un occhio nel tentativo, temiamo non riuscito, di far riassorbire le occhiaie legate ai pesantissimi turni di lavoro o alle notti folli collegate alla loro professione. Sono soprattutto loro che animano le stampe di dimensioni pari al naturale che incombono dalle pareti. La mostra presenta infatti ben tre serie storiche, compresi i grandi

Big Nudes e le successive foto, sempre a grandezza naturale, della serie Naked and Dressed. Le dimensioni, inusitate fino ad allora, spostano quasi le opere dall'ambito della fotografia per riportarle a quello delle altre arti in cui tali proporzioni non sono invece rare, dalla pittura alla scultura. Ma cambia al tempo stesso la modalità con cui noi osservatori ci rapportiamo alla fotografia, dettando nuove regole. È lo stesso Harder che ricostruisce il percorso storico dei grandi nudi in fotografia e nel cinema. Se infatti l'idea di affiancare uno stesso soggetto vestito e nudo ha un grande precedente nella Maja desnuda e Maja vestida dipinte da Goya già intorno al 1800, è sicuramente a Newton che si rifanno i successivi fotografi di moda e, senza dubbio, il


regista Robert Altman. La scena finale del film PrĂŞt-Ă -porter del 1994 con modelle nude in passerella appare infatti una citazione di un fotografo che con la sua opera ha dettato legge. La mostra presentata alla Casa dei Tre Oci ha un innegabile pregio: grazie all'esposizione integrale degli scatti poi confluiti negli unici tre volumi di fotografia curati dallo stesso Newton e mai presentati insieme mentre l'artista era in vita, si presenta come un punto di osservazione privilegiato per la sua produzione grazie alla sua completezza. Una mostra imprescindibile per chi voglia conoscere Newton e la fotografia, di moda e non solo, dopo di lui.


È una mostra complessa e avvincente, quella di Pietro Ruffo alla Fondazione Puglisi Cosentino di Catania, nella quale interagiscono tanti ambiti disciplinari che forniscono una chiave di lettura alla prima personale dell’artista romano. In “Breve storia del resto del mondo” politica, filosofia, storia, antropologia, psicologia, studio del paesaggio costituiscono il palinsesto su cui poggia una narrazione che oscilla tra visione e realtà, leggerezza e tragicità dei fatti di ieri e di oggi, e che viene rappresentata per mezzo di un linguaggio artistico singolare che si tramuta in un incantamento dello sguardo. Nel suo fare arte con una tecnica meticolosa e certosina, l’occhio si perde nelle tante stratificazioni che le opere presentano per l’uso che fa della carta, fissata da spilli di lunghezze differenti, creando così un effetto tridimensionale. La carta è il materiale protagonista di questi lavori che tradiscono, volutamente, la sua formazione di architetto, insieme al disegno e ad una rigorosa e ricercata progettualità. Ruffo traduce in cifra poetica ed estetica vicende che si portano dietro una immane sofferenza in nome della libertà e dignità umana. Una libertà simboleggiata da una libellula, metafora di fragilità e precarietà. O.F. Quanto la tua formazione di architetto influenza le tue opere? P.R. Sicuramente aver studiato architettura mi ha dato diversi strumenti che uso nel mio lavoro. La prima cosa che fa un architetto per iniziare un progetto è analizzare una carta topografica del luogo per capire come inserire il proprio progetto. Questa è una pratica che uso nel mio lavoro, parto spesso da carte geografiche di vari periodi storici e le carte forniscono poi l’ispirazione per l‘opera che andrò a fare. Anche il mio studio è organizzato come un piccolo

cantiere diviso in vari settori, come l’intelatura della carta, il disegno il dipinto l’intaglio e poi l’installazione, queste diverse fasi sono organizzate con un progetto preliminare. O.F. Affrontare una condizione geopolitica internazionale in termini artistici è un compito arduo. Nelle tue opere si va dal colonialismo alla primavera ara-

appunti di un processo conoscitivo, piuttosto che una risposta o un mio parere. Chi sta davanti ai miei lavori guarda degli appunti visivi e può creare una sua opinione personale su questi temi. O.F. La trama di connessioni della storia “gioca” con la dimensione frattalica di Internet. Molte tue opere poggiano su metafo-

ba, dal fondamentalismo islamico alle rivolte dei diritti dei lavoratori in Sud Africa fino alla questione dolorosa dei migranti. Cosa ti spinge a trattare tematiche così complesse? P.R. Queste sono alcune delle tematiche che più mi appassionano, è lo studio di questi temi, come un ricercatore in biblioteca, che dà poi vita ai miei lavori che non sono altro che gli

re, associazioni e accostamenti. È il tuo modo di fare arte? P.R. Come altri artisti cerco dei simboli che possano fare riflettere, come la libellula simbolo di libertà, con il suo volo orizzontale in diverse direzioni, ma anche simbolo di fragilità data la sua breve vita, o come i lavori sulla primavera araba, in cui ho utilizzato un motivo decorativo islami-

co come simbolo della rete di internet che ha propagato il messaggio di cambiamento dal mondo arabo al resto del mondo. O.F. La libertà è un concetto chiave della tua produzione artistica che definisci fragile come la carta e come le ali di una libellula. Quando nasce il tuo interesse per le “libertà” e credi davvero in una libertà totale? P.R. Il concetto di libertà è forse uno dei concetti più universali, se pensiamo alla storia: quante guerre e quanti morti in nome di quest’aspirazione così alta. Il filosofo Isaiha Berlin è sicuramente stato per me un punto di partenza per studiare questo concetto così complesso, e poi Khalil Gibran e molti altri. Più indago questo tema più la sua definizione si allontana, portandomi a pensare che come società riusciamo ad assaporare pienamente il concetto di libertà solo quando ci troviamo davanti a dei nemici della stessa libertà contro i quali combattere. O.F. Puoi spiegare il concetto di stratificazioni nelle tue opere? P.R. Sono nato e vivo a Roma, una città estremamente stratificata dove ogni secolo ha divorato i simboli e le strutture di quello precedente per prendere vita. Questo organismo ha generato una città in cui gli spazi che viviamo sono un condensato di diverse storie, scritte una sull’altra. Ogni mio lavoro riporta questa sensazione, non si vede mai solo una immagine, una storia, ma diversi ‘strati’ che tutti insieme compongono un ragionamento. O.F. Leggerezza vs “pesantezza” e oppressi vs oppressori, sono opposti che convivono nei tuoi lavori. Come sei arrivato a concepire delle opere tecnicamente minuziose e piacevolissime allo sguardo pur parlando di conflitti e prevaricazioni? P.R. Penso che un lavoro visivo debba tener conto e confrontarsi con le


scoperte che altri artisti hanno realizzato, per me l’esperienza di artisti italiani come Boetti, Pascali, sono un tesoro dal quale partire per realizzare dei nuovi lavori. A differenza di un artista istintivo, il mio lavoro si basa su una pratica artigianale dell’arte cercando di utilizzare strumenti classici come la carta la

grafite, l’intaglio, per creare composizioni del tutto nuove. Lo stimolo visivo è poi quello che scatena la riflessione sul concetto del lavoro. O.F. In uno dei tuoi lavori metti al centro il coraggio delle madri in fuga dalle aree di crisi del Sud del mondo. La ripetizione seriale di piccole figure annulla la drammaticità degli eventi, reazione alla quale la comunicazione mediatica ci ha assuefatti. Attribuisci all’arte il potere di scuotere le coscienze? P.R. Gli artisti devono avere il massimo rispetto per l’intelligenza di chi fruisce i loro lavori, senza cercare scorciatoie o trovate, ma tentando di esprimere le problematiche legate alla contemporaneità con gli strumenti dell’arte realizzando delle visioni inattese che diano delle piccole scosse a chi le osserva.


Lo diceva lui stesso: “Non riesco a tenermi dentro quello che ho da dire”. Questa irrequietezza, insieme ad una sensibilità sopraffina e alla capacità di reinterpretarsi e reinterpretare la tradizione, sono i punti chiave della mostra dedicata ad Emilio Scanavino dal titolo “Scanavino. Opere 1968 – 1986”, chiusa lo scorso 1° giugno e realizzata nella galleria Dep Art di Milano. Un compendio dell’opera dell’artista, pittore e scultore eclettico, un viaggio attraverso lo spazio e il passato che diventa luogo della memoria e delle vicende, ma libero, fluttuante, suscettibile di evocazioni. Organizzata in collaborazione con l’Archivio Scanavino e con testo critico di Claudio Cerritelli, la monografica espone 25 opere datate tra il 1968 e il 1986 (anno della sua morte a Milano): tra queste Nascosto 1, rarissima tela del ‘68 che rappresenta un esempio della produzione degli anni più sperimentali di Scanavino. In questo periodo è particolarmente importante la natura dello spazio. Il vuoto inteso come campo infinito è reso tale ed esalta-

to dalla presenza di una geometria, una struttura sospesa nella purezza della monocromia del colore, in cui si annida l’espressione del linguaggio. La mostra ripercorre ed esalta il rapporto tra contenitore e contenuto che supera i confini puramente formali per diventare densamente simbolico. Il segno si fa protagonista sulla tela, di un racconto ritmato, di un tempo sospeso, di pieni e vuoti di presenze suggestive, evocate nell’ombra dello studio o nella natura. Nato a Genova nel 1922, la prima formazione dell’artista è legata ad una pittura di paesaggi e soggetti umili. Nel dopoguerra lavora come disegnatore tecnico presso il Comune di Genova. Nelle tele di questo periodo sono presenti moduli linguistici di declinazione espressionista. Ma è in Francia la svolta. Nel 1947 Scanavino si reca per la prima volta a Parigi, dove soggiorna qualche tempo e lì incontra i poeti e gli artisti Edouard Jaguer, Wols, Camille Bryen. L’esperienza parigina si rivelerà fondamentale nel suo percorso stilistico, in particolare per gli echi del post cubismo che assimila e interpreta in chiave personale fin dal 1948. Negli Anni 50 il suo linguaggio pittorico si confronterà con l’informale di matrice europea, in particolare con la lezione di Wols e con le suggestioni di Bacon e di Paolozzi. Nascono in questo periodo i primi Rituali e gli Alfabeti senza fine, i temi che ricorrono nella pittura di Scanavino, e che sono stati i fiori all’occhiello dell’esposizione milanese. La mostra si concludeva con alcuni dipinti degli Anni 80 tra cui Come l’edera. “Le opere sono esposte così come uscivano dallo studio dell’artista - spiega il gallerista Antonio Addamiano - con le cornici originali o, laddove non sia stato possibile recuperarle, del tutto uguali a quelle dell’epoca”. Un allestimento semplice e privo di fronzoli che esalta la forza e l’intensità comunicativa di Scanavino. Un modo per non disperderne l'approccio emozionale e che attraverso le opere lascia spazio alla speranza di una quiete possibile.


Se e quando incontro un uomo che rimira le stelle, per quanto scettico io sia mi ostino a ritenere che esista ancora una speranza, uno spazio di libertà, estesamente un futuro. Mi è capitato la prima volta che ho visto Melancholia di Albrecht Dürer; poi lo stralunato stupore dei gesuiti in Cina a contatto con gli astronomi della corte Ming e la loro simbologia astrale, così differente da quella dell'uomo mediterraneo an-


tico e medievale; poi nel leggere il Cyrano di Rostand; e poi, e poi. Insomma: io credo fermamente che gli uomini scrutatori dell'universo notturno siano di gran lunga migliori di tutti gli altri, forse è per questo che mi sono trovato in empatia immediata con Saro Genovese. Tu entri nel suo studio di via Plebiscito in Catania e come in un diorama settecentesco ti si rivela un microcosmo siderale affollato e

convulso, un frammento di via lattea, un pezzo d'universo dalle stelle fisse. E mentre ruoti la testa di qua e di là districandoti tra quella materia ignea e magmatica, un pezzetto d'astro ti s'è di già impigliato addosso, non ne potrai più fare a meno. Come uscire da questa dimensione poetica e ingombrante? Lo stesso autore ti guida, sciorina calcoli, muove sestanti, stabilisce su carta

rapporti aurei tra le magnitudini stellari e le dimensioni che dovrà avere fattivamente la sua opera; allora capisci meglio che sei nel bel mezzo di un procedimento matematico, ché non è solo l'anima a segnare la strada ma sono processioni equinoziali, piani eclittici, calcoli numerici e numerologie. L'opera di Rosario Genovese ha lo stesso sentore dell'impresa di Aristarco di Samo, dei presocratici prima di lui, in quel laboratorio irripetibile che fu il Mediterraneo sud orientale prima di Platone, prima di Aristotele, prima del Cristianesimo. Allora gli astri avevano un carattere mantico e regolatore; si navigava solo quando essi erano visibili, altrimenti sotto costa, di faro in faro; nessuno si sarebbe mai avventurato in mare aperto d'inverno, nemmeno gli Argonauti o le navi di Ulisse; le stelle erano necessarie, nulla si faceva senza. Anche qui lo sono e con lo stesso significato, la stessa arcaica misura, come quelle sono popolate di sguardi che nascono nel tessimento stesso della materia. Perché gli astri di Genovese, a ben vedere, sono popolatissimi di esseri "superi", psichici e stralunati. Li diresti come dei "grilli", drôlerie medievali che lassù abitavano da tempo immemore ma nessuno li vedeva; l'artista si limita a portarli alla luce nella filigrana delle velature pittoriche con un caratteristico tratto incisorio. La critica

ha parlato di una possibile angelologia; chissà, forse è vero, o forse soltanto quei mirabilia si trovano ad essere evocati loro malgrado, come Dei oziosi di un'era lontana ed eonica. Le sue stelle non sono fatte per uno sguardo fugace, più ci torni a scrutare e più ci trovi. Sono belle anche così, addossate, accatastate, già inscatolate prima di uscire in mostra. Si pregusta il piacere contemplativo di rivederle nello spazio espositivo secondo ordine e disposizione astronomica, [...], ad esempio, nella città di Podgorica, in Montenegro. Si esce così: rinfrancati, dallo studiolo rinascimentale di via Plebiscito in Catania, con l'illusione che, fuor dal caos popolaresco e vernacolare all'intorno, si sia assistito ad un piccolo miracolo della poesia contemporanea; e questo travalica ogni disillusione mondana, come Melancholia che attenda alla sua rubedo.



Da un frammento fisiognomico degli anni ’50 è già chiara la ricerca introspettiva dell’artista di adozione etnea dove l’accenno ad un chiaroscuro delicato rende la semplice tecnica ad una elevata attenzione all’intima visione della persona, quella concezione leonardesca del “volto specchio dell’anima”. Un percorco iconografico e introspettivo che la letteratura critica ha definito “la sottile ironia e il recupero dell'arte antica sono ancora più interiorizzati dalla ripresa dello studio iconologico e antropologico dell'immaginario, generando un ordito formale e concettuale”, una ri-

cerca che Tano Brancato conduce con una certa astrazione realistica, un percorso più mentale che narrativo, dove una apparente geometria astratta ci introduce ad una tecnica incisa di alto livello ancestrale. La sua opera Ungiamo la terra con l’olio della nostra sapienza (acquaforte su carta, 1973), un messaggio apparentemente visivo che ci invita al geniu loci dell’artista, che invita ad una riflessione mentale e antropologica, una ricerca così sperimentale che invita lo spettatore a riflettere sul valore intrinseco del vissuto come valore altro e alto dell’esistenza dell’essere umano. Della sua produzione artistica molti critici d’arte, da Francesco Gallo a Italo Mussa e altri ancora, valorizzano nel nostro artista e maestro dell’Accademia di Belle Arti di Catania “un primo realismo espressionista di ascendenza simbolica ad un espressionismo di Nuova Figurazione”, un’ analisi figurativa che sicuramente esula dalla pura visione della realtà dove il particolare figurato narra un alfabeto immaginario e poetico, un artista che si descrive grazie ad un lin-


zata presso l’aulica sede del Casale Borghese di San Gregorio Etneo, curata da Giuseppe Frazzetto, critico d’arte e docente all’Accademia di Belle Arti di Catania, e presentata dal direttore, l’arch. Virgilio Piccari. Un lungo percorso creativo dove le prime e audaci fasi di produzione artistica di Tano Brancato si trasmutano in una policromia espressionistica per poi seguire una immaginifica favola dell’immaginario, un fantastico mondo tra mito e realtà.

guaggio ermetico e ad una visione non più realistica ma soprattutto simbolica. Brancato ricorda il valore familiare del padre “il primo esempio elementare di lettura delle forme l’ho appreso da mio padre, analfabeta e muratore a secco… mio padre aveva gli occhi come si vedono nei ritratti di Antonello da Messina”. In questa breve, intima verità l’artista svela il principio di una ricerca interiore, il senso di una indagine ermetica, un percorso dalle tante sfaccettature che conducono a una lettura fantastica e a volte immaginaria. E sempre il maestro afferma “l’artista è un’addizione involontaria di tutto ciò che è stato prima, che è oggi e che sarà domani”, forse è questo il filo conduttore della mostra antologica (1958-2016) realiz-


Si titola “Aldo Manuzio. Il Rinascimento a Venezia” l’evento espositivo realizzato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia (fino al 19 giugno 2016) a celebrare in laguna il geniale bibliofilo nel suo cinquecentesimo anniversario. La mostra è speculare alla raffinatezza del personaggio, dei suoi libri e di questa città allora più metropoli di adesso e come adesso punto di riferimento per la cultura del pianeta. Manuzio la elesse a sua stabile dimora per farne il centro di quell‘innovativa sua attività di stampatore ammirata da noi più che mai in un oggi sempre più attento alla scrittura grazie all’uso del computer. Ecco perché non sorprende che Guido Beltramini, curatore dell’esposizione con Davide Gasparotto e Giulio Manieri Elia, definisca il Nostro uno Steve Jobs del Rinascimento veneziano perché entrambi hanno davvero rivoluzionato i modi e i mondi del sapere e delle espressioni dell’arte. Altrettanto vero che Manuzio come Steve, oltrepassando i confini del tempo e delle generazioni, creò le condizioni per una nuova estetica contribuendo a trasformarne le prospettive, il gusto e le committenze.

È indubbia l’influenza aldina nella cultura figurativa veneziana per tutto il 1500 e anche oltre, giacché attraverso la pubblicazione di testi in volgare (specie Dante e Petrarca) emerge un nuovo modo di rappresentare il creato e i suoi umani abitatori accanto a presenze mitologiche e simboliche che riportano al culto della classicità. Apparizione inedita è in pittura la natura che si fa paesaggio divenendo specchio di quell’antropocentrismo per il quale religiosi e aristocratici vengono ritratti con in mano i libri prediletti grazie all’invenzione tascabile aldina. Ad illustrare tutto ciò la mostra espone cento opere d’arte accanto a trenta rarissime edizioni stampate tra la fine del XV e i primi del XVI testimoniando questa stagione unica e irripetibile nella storia dell’Occidente, che vide il libro trasformare il pianeta, facendo della Serenissima uno dei centri propulsivi di rinnovamento della cultura europea. Enorme la varietà di linguaggi che vanno dalla pittura alla scultura, dall’incisione all’arte suntuaria, dalla cartografia a ciò che ispirò ogni cosa: la stampa. Un sortilegio che Manuzio rese ancor più magico perché, al fine

di attrarre il maggior numero di estimatori, scelse caratteri che si avvicinavano il più possibile a quelli della scrittura a mano cui il pubblico dei lettori era avvezzo. Ecco allora i preziosi esemplari attribuiti all’attività di Manuzio tra cui il rarissimo Aristotele del 1496 in prestito dalle collezioni dell’Escorial o l’unico esemplare al mondo dell’Aldina non rifilata di proprietà della Morgan Library di New York. Tesori straordinari che si uniscono ai dipinti di maestri come Giorgione, Tiziano, Lotto, Cima da Conegliano e Bellini. Ma chi era Aldo Manuzio? Quali le peculiarità del personaggio creatore delle famose edizioni aldine? Aldo Manuzio (1450 - 1515) nato a Bassiano nella campagna laziale con studi umanistici romani ed esperienze di pedagogo a Carpi e Mirandola, giunse a Venezia, maggior centro editoriale dell’Europa, intorno al 1490, accarezzando l’idea di un umanesimo senza confini attraverso la stampa. Digiuno di editoria, avvalsosi dell’esperienza dello stampatore Alberto Torresano (di cui poi sposò la figlia), intraprese il suo rivoluzionario progetto di rendere accessibili classici greci e latini in formato “libro da mano”. Inventò la “Prefazione” dimostrando la volontà di instaurare con i lettori un rapporto nuovo, coinvolgente e intimo, avvicinando un vasto pubblico anche colla pubblicazione della nuova letteratura in volgare. Cura filologica, perfetta forma grafica, formato tascabile, resero dal 1501 assai celebri i volumi coll’immagine del delfino attorcigliato all’ancora presa dalla moneta donata dall’amico Pietro Bembo (simboleggiava l’equilibrio tra solidità e velocità: il ‘festina lente’ ossia, affrettati lentamente) attribuito da Svetonio all’imperatore Augusto. Marchio che Erasmo da Rotterdam giunto a Venezia e ospitato in casa Manuzio volle per la definitiva edizione dei suoi “Adagia”. Manuzio si distinse dagli altri editori anche nell’intervenire sull’aspetto del libro con modifiche che lo resero più fruibile e gradevole. Inventò il corsivo e introdusse nei testi a stampa la punteggiatura prima in uso solo negli scritti a mano. Del fervore imprenditoriale e innovativo trassero giovamento, come sopra s’è detto, pure le arti figurative coi nuovi canoni di bellezza femminile derivati da ‘le cose volgari’ di Petrarca rappresentata dalla Flora di Bartolomeo Veneto (icona della mostra),

e con l’esaltazione d’una natura che prende vita e diventa coprotagonista come nei tondi mitologici di Cima da Conegliano pervenuti dalla Galleria Nazionale di Parma. La mostra è stata promossa dal Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo, dalle Gallerie dell’Accademia e dal Comitato Regionale per il V Centenario dalla morte di Aldo Manuzio, da Regione Veneto col contributo di World Monuments Fund e Montblanc e con Fondazione Cologni Mestieri d’Arte, Save Venice INC, Venice International Foundation, Venetian Heritage, Venice in Peril. Il progetto scientifico è del Centro Studi Architettura Andrea Palladio di Vicenza e il catalogo è di Marsilio il cui presidente Cesare de Michelis al momento del taglio del nastro ha giustamente puntualizzato non trattarsi di una mostra sul libro ma di godimento estetico e compiacimento intellettuale sui doni del libro!


Si è chiusa il 22 maggio presso gli spazi dell’Associazione TheArtsBox di Vicenza la mostra “La linea d’ombra”, a cura di Marco Fazzini e dedicata all’arte del pittore e incisore bergamasco Roberto Rampinelli. Tutta giocata sul tema dello still life e dei paesaggi spogli e privi di essenze umane, ma non per questo meno affascinanti, l’esposizione ha avuto la peculiarità di mettere a confronto dieci delle trenta opere esposte di Roberto Rampinelli (tutte realizzate con colori ad acqua su tavola) con altrettanti componimenti in versi scritti da otto poeti internazionali che da marzo a giugno hanno partecipato alla seconda edizione della rassegna di poesia Poetry Vicenza: Ana Luisa Amaral, Douglas Reid Skinner, Douglas Dunn, Julio Llamazares e David Jou, Marco Fazzini, Valerio Magrelli e Ryszard Krynicki. E delle poesie scelte, una più delle altre ha espresso in maniera efficace

le atmosfere dei racconti pittorici di Roberto Rampinelli, ispirato dalla pittura quattrocentesca italiana così come dalla lirica di De Chirico, Carrà, Morandi, Kiefer, nonché affine alle emotività di scrittori come Brecht, Gozzano, Pavese, Villon, Leopardi. Si tratta della poesia “Toccare” di Ryszard Krynicki, nato nel 1943 nel campo di concentramento di Sankt Valentin in Austria, oggi fra i principali poeti polacchi contemporanei: “Toccare l’essenza delle cose. / Ho già sognato una volta / di toccare l’essenza delle cose. / Alla cieca, dal centro, / dentro al sasso”. Come le parole Krynicki, anche le opere di Rampinelli

vanno in profondità, alla ricerca del cuore. E quel senso di sospensione e silenzio che avvolge i suoi dipinti è la vera poesia della sua ricerca, perché come ha scritto Giuseppe Ardizzo “Tutto è reale nella sua pittura, ma nulla rimanda al realismo, alla concretezza di elementi rinvenibili nella fisicità del quotidiano”.


Con questi frammneti ho puntellato le mie rovine. (Waste Land) T. S. Eliot

Il rapporto tra le arti visive e la musica jazz è significativo e rivoluzionario, per il modo in cui questi due ambiti si sono influenzati reciprocamente all’interno della complessità dei fenomeni sociali e culturali del Novecento, determinando un’arte non più legata alla tradizione ed ai musei ma aperta agli stimoli della vita metropolitana e contemporanea. Il Jazz, un genere musicale ma anche una parola del genere onomatopeico in uso dall’inizio del XX secolo, ha dei campi semantici in relazione al concetto di life, energy, happiness: un concetto instabile e futurista nel quale l’effervescenza dell’essere coincide con un suono nuovo, carico di ritmo e di frizzante elettricità per definire un’epoca e lo spirito della modernità. Musica moderna, gioiosa o triste, evanescente o corposa, con il pensiero e l’improvvisazione, dal minimo al tutto, che sono liberi e complementari, per andare, come per magia, ad introdurre qualcos’altro in relazione alla vita e agli oggetti. Tutti i campi della produzione estetica, dalla pittura alla letteratura, dalla fotografia al cinema, dalla grafica ai video, portano con modalità variabili la traccia dell’influenza di questo genere musicale nel loro ambito materiale e spirituale. In questo senso il complesso circuito dell’arte occidentale, nel secolo scorso, si è nutrito di un vissuto culturale comune tra l’Europa e l’America che ha determinato questo nuovo modo di sentire e di vedere, quando l’immaginario sinestetico è stato alimentato da esperienze che si integrano e si arricchiscono attraverso una poetica interdisciplinare. Francesco Branciamore è musicista e compositore. Il jazz, le percussioni e la composizione rappresentano in toto la sua arte, una forma e un linguaggio che negli anni Ottanta, mediante la pratica dell’improvvisazione, si consolida in un progetto artistico che trae ispirazione dal Novecento, con particolari riferimenti all’arte visiva, al teatro, al cinema e alla letteratura. Nasce in questo modo un percorso personale e creativo in contesti e situazioni disparate, dove intervengono intuizioni estetiche mescolate all’anima del tempo e dei luoghi: l’arte e la vita insieme allo studio del pensiero dell’uomo come fonte d’ispirazione ed espressione estetica. Un percorso in cui il musicista sviluppa il suo tema attraverso la composizione istantanea ma anche i progetti trasversali, le sinergie artistiche e multidisciplinari che determinano il livello di una musica jazz come un’astrazione concettuale e produzione poetico-culturale. Nel 2014 la registrazione di un lavoro come Remembering B.E. A Tribute to Bill Evans diventa per


Branciamore la partitura ideale per una performance fondata sulla cooperazione di elementi plastici, visivi e sonori, che entrano in relazione, come avveniva in un happenig o un event negli anni ’50 e ’60. Da questo concetto ha origine il progetto Aisthetikòs, curato da Ornella Fazzina al Teatro di Donnafugata di Ragusa Ibla, il 9 agosto 2014, che ha riguardato tre eventi artistici e performativi nei quali la ricerca plastica di Paolo Greco e le sculture-installaoni di Vincent Pirruccio hanno dialogato con la musica di Remembering B.E.. La poetica del materiale in Paolo Greco, lo scarto industriale che diviene metafora esistenziale e concettuale, insieme alle sculture di Vincent Pirruccio, tra serialità geometrica e astrazione costruttivista, in rapporto allo spazio urbano o paesaggistico, hanno rappresentato l’immaginario visivo di riferimento per sottolineare l’importanza che la cultura d’avanguardia ha avuto dagli anni Cinquanta e Sessanta fino ad oggi. Da Fluxus al Nouveau Réalisme, dal New Dada alla Pop Art, si è prodotto un grande mutamento che ha consolidato tutti quei processi di trasformazione sociale e culturale basati sulla condivisione di ambiti disciplinari differenti. Francesco Branciamore recupera Bill Evans e si collega alla cultura di quegli anni per creare un canovaccio sonoro di astrazione e tradizione, in un registro linguistico condiviso legato al concetto di atonalità, scomposizione e semplificazione. Remembering B.E., pubblicato dalla Caligola Records, alterna un mood crepuscolare e malinconico a momenti più vigorosi nei quali il bop sa giocare con gli archi ed i fiati e con il pianoforte che ripensa e alimenta la melodia. Il sottobosco è quello della tradizione, noti standard e due brani inediti, coniugato ad un arrangiamento unico e originale con il pianoforte che segue le trascrizioni originali di Evans, mentre tutti gli altri strumenti si sovrappongono secondo una composizione ed un arrangiamento specifico, in cui l’intenso lirismo diviene uno stile innovativo che trae forza dagli incatenamenti armonici per raggiungere soluzioni melodiche ariose e libere. Sempre attraverso questo filo rosso che coniuga le arti visive con la mu-

sica e che crea un rapporto dialogico tra immagine, colore e suono, risulta particolarmente sintomatico il progetto Water compositions, una rappresentazione visivo-musicale dove il musicista ha scritto quattro composizioni per quattro rispettivi video sul tema dell’acqua. In questo lavoro il video Vincent waves rende omaggio a Vincent Van Gogh. La sua pittura a vortici, morbida e veloce, si presta alla similitudine del movimento dell’acqua, tema caro agli impressionisti, secondo un gioco elettronico di coincidenze. La musica si muove così all’interno di relazioni sinestetiche che collegano il suono alla sensibilità del pittore, al movimento delle immagini e dell’acqua. Il progetto, finalista al Premio Nazionale delle Arti 2007 a Sassari, è stato presentato nello stesso anno al Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina e l’anno successivo al MACC di Caltagirone, oltre ad essere selezionato, sia per originalità compositiva sia per la trasversalità dei linguaggi artistici per l’EcoArt Project 2010. La pittura ritorna nel percorso artistico di Branciamore quando nell’autunno del 2007 compone la musica per la mostra di Michele Ciacciofera, curata da Ornella Fazzina. Il lavoro viene pubblicato in I luoghi dell’assenza. Prigionieri e deserti, di Michele Ciacciofera e Francesco Branciamore, un DVD prodotto da Erre Produzioni. Una pittura, quella di Ciacciofera, che contraddice se stessa nell’annullamento e nella cancellazione, mentre dall’altra parte la produzione del suono di Branciamore è ricerca alchemica del lato oscuro che alberga in ogni essere umano. La lacerazione, la rottura, la ferita, rispetto alla ragione, alla tradizione e all’ordine, rappresentano la metafora formale e sonora in una

partitura che sta dentro un’esperienza che si libera, attraversa lo spazio mentale, con le note basse, le pause, le vibrazioni e i dinamismi che si alternano nella ripetizione differente. C’è l’eco del Novecento; da un lato si produce una concezione del suono che in alcuni momenti recupera variazioni timbriche squisitamente mistiche, con sviluppi etnico-mediterranei, dall’altro lo sviluppo delle percussioni, del ritmo lieve e dilatato, introduce il gusto del citazionismo: brandelli di atonalità e di minimalismo con variazioni impreviste ed aleatorie. L’improvvisazione anticipa la formazione di un pensiero concreto; è l’inconscio che ci parla traducendosi in energia, così il nostro sistema nervoso partecipa e vibra alla vita raccontata, alla tragicità di un corpo significante o di uno spazio che anticipa il vuoto: il deserto dell’anima. Il Jazz ha evidenziato insieme al cinema, alla danza e al teatro, l’energia, la vitalità e l’intensità di un processo in divenire, in maniera più evidente rispetto alle arti plastiche, nelle quali invece prevale la riduzione all’oggetto fisico, e si è affermato quindi come un’arte temporale con la predisposizione all’impulso creativo e all’imprevedibilità attraverso l’improvvisazione e la relazione. Il dialogo di forme e dinamiche sonore differenti è il tema di TWO FOR THREE, il nuovo progetto di Elio Amato e Francesco Branciamore. Elio Amato, trombone, e Branciamore, batteria, danno vita ad una prospettiva musicale in cui l’alternanza nel timbro e nella composizione è rinforzata dalla condivisione del pianoforte, nel quale i due musicisti si danno il turno per spaziare nei suoni della tradizione del jazz e della cultura europea, con citazioni illustri che vanno da Monk a Coleman insieme ai suoni originali delle loro rispettive composizioni. Lungo questo percorso è possibile affermare che il jazz in Francesco Branciamore è una scuola di civiltà che nasce dall’incontro e dalla contaminazione, in un continuo dialogo tra tradizione ed improvvisazione che si orientata verso il recupero del patrimonio popolare e della musica da camera, tra citazione colte e seduzioni melodiche polimetriche. Lo sviluppo delle sue partiture rappresenta la sopravvivenza delle idee, una forma identitaria che definisce un paradigma, un’autobiografia in musica dove il valore viene stabilito dalla durata come forma di resistenza. L’improvvisazione, la tradizione, le citazioni, le collaborazioni e le interazioni con l’immagine artistica, pittorica, cinematografica e teatrale, i live set di suoni e le percussioni fino ad arrivare a vere e proprie composizioni, rappresentano la memoria di una storia e del proprio atto creativo. Nel modo che si vede è proprio la memoria il punto di partenza della creazione, come nel secolo scorso ci hanno indicato l’arte e la scienza, perché non esiste sentimento senza il presupposto di un ricordo come non esiste l’uomo senza una memoria che agisce.



Il primo tuffo a due anni, uno scivolone dentro il laghetto del centro sportivo a Roma, un segno del destino per Tania Cagnotto. Diciotto medaglie sulle venti a disposizione tra Europei e Mondiali dopo le lacrime di Londra 2012: 11 ori, 5 argenti, 2 bronzi (i “non podi” sono un quarto e un quinto posto); questi i successi della tuffatrice, solamente negli ultimi quattro anni. Basterebbero i freddi numeri per descrivere la grandezza di un’atleta del genere, per la settima volta negli ultimi otto anni campionessa europea nel tuffo da un metro. E non è un caso se una delle serate più belle ed emozionanti della storia recente dei tuffi italiani sia stata vissuta nel maggio scorso proprio a Londra. C’era un conto aperto e per l’ennesima volta la fuoriclasse bolzanina l’ha saldato, adesso anche il London Aquatics Centre è marchiato dai successi sportivi di Tania. Quelli di una rimonta che dopo l’errore nella seconda serie, un brutto doppio e mezzo avanti carpiato abbondante, sembrava utopia pura. Due ori singoli, nel metro, appunto, e nei tre metri, un argento condiviso con Maicol Verzotto in un sincro misto onorato da fuoriclasse vera nonostante la stanchezza della gara precedente, ed un altro oro, stavolta nel sincro femminile ottenuto con l’amica Francesca Dallapè, ottavo titolo europeo consecutivo per la coppia più forte e longeva di sempre dal trampolino 3 metri; da Torino 2009 ad oggi nessuna ha fatto meglio di Tania e Francesca che si sono aggiudicate l’ennesimo titolo con una solidissima prova da 327,81 punti. Una marcia che non poteva che essere regale dunque, quella della Cagnotto nella terra della regina Elisabetta, una scia di successi quella ottenuta in ambito europeo, salita a quota 20 ori e 29 medaglie totali nella manifestazione, nuovo record assoluto. Trionfi che nascono da abilità atletiche e competitive ereditate senza dubbio dall’incredibile combinazione di geni; il padre, Giorgio Cagnotto, quattro medaglie olimpiche; la madre, Carmen Casteiner, è stata per ben otto volte campionessa italiana partecipando anche alle Olimpiadi del 1976. Dopo essersi imposta a livello giovanile tra il 1999 ed il 2003 con quattro titoli europei e due mondiali, comincia ad affermarsi a livello assoluto ottenendo un argento ed un bronzo agli Europei di Berlino del 2002 a 16 anni, nel mezzo anche la partecipazione alle Olimpiadi di Sydney che la vedono sfiorare la finale nonostante fosse l'atleta più giovane con soli 15 anni. Qualche anno dopo comincia ad allenarsi negli Stati Uniti agli ordini della tuffatrice russa Julia Pakhalina, nel 2009 cominciano poi i successi a raffica ottenuti in campo europeo ma mai bissati

del tutto in ambito mondiale e olimpico. L’ottavo posto di Atene, il quinto di Pechino e il quarto di Londra rimangono quindi l’ultimo frammento da correggere in una carriera fantastica. Proprio con la manifestazione olimpica infatti Tania ha sempre avuto un rapporto difficile dovendo confrontarsi con le fenomenali tuffatrici cinesi che troppe volte le hanno sbriciolato il sogno. Lo scorso anno (luglio 2015) però, qualcosa sembra essere cambiato, la Cagnotto infatti è riuscita a vincere l’oro ai mondiali di Kazan, seppure dal trampolino da un metro (specialità non olimpica), superando per la prima volta le tuffatrici dagli occhi a mandorla Shi Tingma ed He Zi; in Russia quindi ha raggiunto il primo obiettivo con la conquista di un oro che mancava al palmares di Tania dopo i tre argenti ed i sei bronzi conquistati negli anni precedenti. La prima medaglia d’oro mondiale femminile dei tuffi italiani che ha fatto risuonare l’inno di Mameli in una rassegna iridata quarant’anni dopo Klaus Dibiasi. Adesso, alla sfilza di successi della Cagnotto mancherebbe solamente la medaglia a cinque cerchi dunque, una medaglia inseguita da tutta una vita con il ricordo ancora vivo dei due quarti posti ottenuti nel 2012 a Londra, nel sincro con la Dallapé e nella prova individuale dove il podio le era sfuggito per appena 20 centesimi di punto a favore della messicana Sanchez. Tuffatrice e anche scrittrice, qualche settimana fa è uscito infatti il suo libro “Il pinguino che non voleva tuffarsi“, una fiaba per bambini che spinge a superare le più grandi paure e trasformare le debolezze in punti di forza; lo stesso dovrà fare lei ai Giochi di Rio. La prima donna italiana ad aver conquistato una medaglia mondiale nei tuffi, l'unica ad aver vinto una medaglia d'oro, la prima tuffatrice, la seconda in assoluto dopo Dmitrij Sautin, ad aggiudicarsi tre ori in una sola edizione dei Campionati europei, la tuffatrice europea con il maggior numero di podi in carriera. Sicuramente già la più grande tuffatrice italiana di tutti i tempi, è attesa adesso dall’ultima grande prova, dato che si ritirerà subito dopo; la storia è fatta per essere vissuta al meglio e Tania Cagnotto sta riuscendo persino a scriverla, decidendo di modellarla a propria immagine e somiglianza, con la prepotenza di chi sa di essere forte e di poter vincere.


regorio si era appena allontanato da quel luogo che gli offriva gratuitamente l’opportunità di sperimentare di giorno in giorno l’attesa inutile di un lavoro come uno degli obblighi derivanti da un’occupazione come un’altra, quando si sentì battere su una spalla: le ali ne risentirono e ancor di più, il suo orgoglio. Ma, giratosi, ecco il padrone di casa, grande come una casa, imponente quanto gli arretrati della pigione di un edifico condominiale, tetragono come un palazzo ben saldo sulle gambe: con sua grande sorpresa, tale da paralizzarne ogni reazione, ma molto meno di quanto non lo sconcertasse vedere quell’uomo sorridergli, cosa che il Commissario non si era mai consentito con lui, lo sentì parlargli in un modo che non sembrava il padrone di casa o che la persona da cui provenivano quelle parole, con quel tono bonario e negli occhi una luce di fiduciosa benevolenza che si riverberava in un sorriso appena ansioso di mostrarsi sereno, fosse la stessa che non avrebbe voluto incontrare: “Dove va così di fretta? Se cerca riparo in un giorno piovoso,” ora, piovigginava, infatti, ma, dal tono del Commissario, sembrava piovesse apposta, come per una cortesia dovuta a chi si apprestava a farne una a vantaggio di chi non si aspettava né la pioggia né il profluvio di parole né l’invito che stava per ricevere “conviene starsene al chiuso, non crede? Allora, su! Venga, venga con me! Posso offrirle la colazione? Anzi: voglio offrirle qualcosa, quindi, per favore, non mi dica di no, caro signor Massa, non si sogni nemmeno di dirmi di no, non rivolga a me nemmeno dentro se stesso questo monosillabo a decorso offensivo immediato, glielo proibisco!” Solo quest’ultima frase rientrava nel repertorio, ma detta come per scherzo, per dire che, sì, dopo tutto, era sempre lui, il Commissario, ma che si poteva fingere di scordarsene, per quello che valeva e per la fatica che costava al titolare per primo lo sfoggio di orgoglioso rigore con cui lo si identificava. E senza dargli modo di rispondergli,

il padrone di casa, come fosse padrone anche di colui cui aveva concesso tanto generosamente di pagargli l’affitto da poter trascurare, poi, di riscuoterlo, afferrò Gregorio per un braccio, ma senza arroganza, trascinandolo verso un bar come per vincerne la ritrosia fuori luogo, senza mai smettere di parlargli con quel tono affabile, confidenziale, amichevole, perfino e poi, gioviale, festoso che sembrava quasi frivolo in un uomo che doveva a una serietà così a lungo coltivata e al distacco dal prossimo perfezionato con gli anni tutta l’autorità e la distinzione che la sua persona esprimevano in un modo tanto convincente e irresistibile. A un certo punto, mentre sorseggiavano il caffè, al padrone di casa scappò detto: “E il lavoro?” Gregorio si irrigidì: eccoci al dunque!, pensò. Ma il Commissario smentì subito quei timori: “Ah, non mi dica! So, so: vuole che non sappia? Proprio io, dico!... Le difficoltà, i problemi che sorgono, l’impossibilità di trovare lavoro adeguato e adeguato compenso!” Sembrava ubriaco. Fu solo dopo che uscirono dal bar, consumati caffellatte e brioche, dal padrone di casa pagati con un’euforia che rincuorava e faceva sperare nella bontà dell’animo umano in preda alla follia, che, sull’onda di tanto entusiasmo umanitario, il padrone di casa permise a Gregorio di dire la sua: “Una cosa, però, se posso. Mi scusi, ma… Come posso dirglielo? Mi chiedo se… Se lei è davvero lei, ecco. Vorrei esserne sicuro. Di certo, avrò sbagliato a giudicarla, in precedenza. Mi aiuti lei. A capire.” Era una frase di sorprendente audacia, ma che Gregorio dovette dire per il timore che, a tenersela dentro ancora un minuto, sarebbe esplosa con lui, con conseguenze traumatiche e forse, tragiche anche all’esterno. Tanto che non si aspettava nemmeno che una frase così assurda potesse meritare una risposta: né che esistesse una risposta in grado di dargli una soddisfazione maggiore di quella costituita dal dire quanto gli era affiorato in un modo così meravigliosamente spontaneo alle labbra, come un soffio che lo restituiva alla vita, anche se era pur sempre la sua. Ma il Commissario era proprio in vena di rivelazioni, quel giorno: e mutò di colpo atteggiamento: come

se la personalità di quell’uomo si fosse mostrata in modo che non poteva esserne contraddetta o ritrattata l’autenticità che quella naturalezza veniva a protocollare: “Si vede?” chiese sottovoce, con un senso di allarme, il Commissario. “Si nota?” Gregorio non capì. La domanda fu inutilmente posta ancora e poi, di nuovo: finché, rassegnato, il Commissario chinò il capo: “Vabbe’. Tanto, è una cosa che si risaprà.” E senza indugi, guadagnando l’androne di un vecchio palazzo disabitato, il Commissario si scoprì il collo riscaldato da una sciarpa di shantoosh leggero come schiuma: “È qualcosa che capita a altri, in verità, anche se nessuno ne parla.” Gregorio notò solo, in prossimità della nuca, due nèi, non più grandi di quelli che il Commissario teneva appuntati, rispettivamente, sotto un occhio, come un organo supplementare della vista e sotto la bocca, come una nota a margine del detto o un tappo con cui abbottonarsi nelle labbra il non detto. “No, no! Dove guarda? Qua! Qua!” disse il Commissario, un po’ seccato, battendosi una mano sul lato sinistro del collo. Solo quando la mano fu tolta Gregorio vide, sotto l’orecchio del Commissario, come una fessura: non una ferita o una piaga riapertasi: era proprio una sorta di taglio, ma che fendeva una barretta di metallo: con attaccati un paio di… Sì, tasti. Erano tasti. O lo parevano. “Prego” lo esortò il Commissario, come a invitarlo a verificare la natura di quell’innesto a carne viva. Verso cui, a dire il vero, Gregorio non provava alcuna curiosità, scoraggiata da una certa ripugnanza e del resto, anche di ritegno. Sarebbe stato strano procurarsi ulteriori ragioni di perplessità, quando non era ancora in grado di comprendere ciò che era capitato o stava capitando a lui. “Allora? Che ne dice?” Il Commissario sembrava diviso fra ansia di sapere, speranza di indovinare, terrore di sbagliare e voglia di infischiarsene. “Non dice niente, Massa?” Gregorio avrebbe voluto dire che aveva fretta; che, sicuramente, quella strana escrescenza o mostruosa fistola sarebbe scomparsa dopo qualche giorno - era quello che, in cuor suo, sperava anche dei suoi arti supplementari -, riassorbita dall’organismo o legittimata dalle leggi dell’evoluzione, pur senza riguardi per la biologia; che il problema si sarebbe risolto da solo, insomma, come avveniva sempre in

questi casi: e dopotutto, non era neppure detto fosse un problema. Riconoscendo, tuttavia, che il Commissario voleva sentirsi dire dell’altro, ma non sapendo decidersi fra consolazione e indifferenza, scetticismo e cinismo secondo tutte le regole di scuola, Gregorio fece spallucce: “Si è fatto visitare da un dottore?” Parole che fecero scoppiare in lacrime il Commissario. Ma, pochi istanti dopo, quella quercia d’uomo passò dal pianto al riso come stesse continuando uno scherzo che non si capiva diretto a chi o volesse dimostrare un’abilità che pochi intenditori potevano apprezzare: “Ma certo che mi sono fatto visitare e non da un solo medico! Due, tre, quattro: ho perso il conto! Solo che non è servito. I dottori sono alle prese con centinaia, forse, migliaia, di casi così” e dicendo ciò, afferrò amichevolmente per le spalle Gregorio, scotendolo con tutta l’amabilità che aveva nelle braccia robuste, quasi non solo lo perdonasse di un’impertinenza, per giunta, banale, ma lo rincuorasse dell’insensibilità di cui Gregorio aveva dato prova con parole scelte senza troppa cura. La foga era tale che quell’uomo fuori di sé non s’accorgeva, né a occhio nudo né al tatto, di nulla di difforme dal solito come pure dall’anatomia umana nell’interlocutore cui rivelava così tanto di sé: “Poveri dottori! Non fanno in tempo a registrare una stranezza che non sanno come fronteggiare, che, subito, si imbattono in cento altre, di cui nessuno vuole o ha interesse a parlare! Le vittime, per vergogna; i medici, per una vergogna ancora maggiore, venuta meno in loro ogni fiducia nella scienza che rappresentano e nei fondamenti su cui ripongono la propria credibilità.” Quella notizia, il Commissario non poteva saperlo, era un invito a negare ogni importanza alle ali che incombevano sulla vita futura di Gregorio: questo, se la notizia era vera. Se falsa: be’, se falsa, Gregorio aveva altro di cui preoccuparsi. Quindi, era il caso di optare per la franchezza più spiccia: “Chi può fare qualcosa dove anche la scienza sembra arrendersi e arretrare?” E per non arretrare lui, vedendo il Commissario riprecipitare a forza di propulsivi singhiozzi nel pianto, passò oltre e imboccò l’uscita dall’androne per scambiare quelle lacrime imbarazzanti con la pioggia petulante, spettegolante che ne accompagnò i passi fino alla casa di Zita.




Le commemorazioni legate a occorrenze cronologiche assolvono a necessità più o meno autenticamente sentite dalla società civile o intellettuale, senza che misurino o ricalchino necessariamente i termini della grandezza reale su quella percepita di un fatto storico come di un personaggio pubblico. Il senso delle distanze è, d’altra parte, soggetto a brusche variazioni, a repentine correzioni di calibro o di rotta, che, talvolta, incidono sui valori presi in esame: e i vent’anni trascorsi dalla morte di Gesualdo Bufalino sono un periodo così gremito di mutamenti, che non si è ancora in grado di valutare appieno la portata di molti di essi anche solo in ambito letterario. Tanto più se si tratta di un autore che rivendicava come titolo di merito o semplice evidenza empirica il proprio “eburneo inattualismo”: così da commisurare, semmai - come sperimentato nel pregresso per Tomasi di Lampedusa, fatte salve le specificità di vicende editoriali e quanto mutati contesti -, su quella intempestività, un ritardo storico meno imputabile all’autore che veniva allo scoperto che non alla cultura che ne prendeva atto come di un indice di differimenti o deroghe al mainstream letterario. Causerie tutt’altro che di rito e di circostanza: perché va rapportata alla evoluzione, se c’è stata e per quello che è stato frattanto, dell’attività letteraria secondo i contorni con cui Bufalino si affacciò, già avanti negli anni, nel panorama editoriale, inatteso e con i crismi del caso: non nuovo, viste le origini e dati i precedenti siciliani da outsider, oltretutto, senex e a denominatore regionale, così come era stato per Lucio Piccolo e Tomasi di Lampedusa, per dire i più celebri (e dirompenti) irregolari: ma senza rientrare nei termini di una tradizione che inanella Verga-De Roberto-Pirandello-Brancati-Sciascia-Lampedusa, con altri, Quasimodo-D’Arrigo-Consolo su tutti, sulla stessa linea d’onda o a latere, a lambire Sicilia e sicilitudine. Anche nell’autonomismo letterario della regione d’origine e d’elezione scrittoria, Bufalino era ed è un caso a sé. Sicilia e sicilitudine, rovello ereditario metafisico-esistenziale o questione nazionale etico-politica che assegnava d’ufficio a uno sfondo ben definito - quello di un codice siciliano all’interno del Canone italiano -, emergenti, sommersi e sal-

vati, non lo toccavano, se non per ragioni eminentemente autobiografiche, biologiche o biomorfiche, si vorrebbe dire. La Sicilia ritornava in Argo il cieco ovvero i sogni della memoria come in Tommaso e il fotografo cieco e nei saggi raccolti in Museo d’ombre, Cere perse, La luce e il lutto, permeando una sensibilità di scrittore che attingeva a un retroterra meno circoscritto. Vissuta al di fuori di un rapporto privilegiato o speciale con i model-li reperibili lungo quella genealogia o diceria ideale: e l’autore era riconosci- bile, vorremmo dire, senza intermediari fra quei majores, senza chiamate a carico o discolpa del tributario e senza preminenze o valenze assolute, universa-li, addirittura, rispetto all’esperienza personale: e perciò, sempre in bilico, Bufalino fuori spartito, sull’orlo, si disse e ancora si dice e si racconta, del bozzettismo, dell’aneddoto erudito e delle spigolature rimesse al cultore della materia, benemerito delle Lettere locali nonché dilettante di genio. Così, reso il dovuto omaggio allo scalatore dell’olimpo dei best-seller, i conti con la vera gloria erano regolati prima di farli. Altri erano i paradigmi cui Bufalino attingeva: immaginario, lingua, stile; non convergevano su appartenenze esclusive, non avocavano ascendenze dirette, non assolvevano ufficio di rappresentanza onoraria di variabili personali a geografie letterarie fisse, tanto meno quelle dichiarate o ostentate in un gioco a nascondere, così apertamente che la malizia non si sapeva se era più da parte dello scrittore in quanto tale o del lettore da cui lo scrittore era indissolubile. Perciò, la letterarietà, anzi, la iper-letterarietà di Bufalino: ma senza le sofisticatezze del decostruzionistico smontaggio della macchina narrativa o del sabotaggio/aggiustaggio della lingua d’uso (compromessa, servile, ‘mercificata’, mercenaria… Quante gliene hanno detto, povera lingua italiana!) o della koiné a uso scrittorio (con, in sottofondo o pendente sul capo, la formula perfida per cui la letteratura è altro dalla scrittura: incompatibilità evocabile a piacer vostro). E dilettante di genio e di spiccato gusto antiquario rimane Bufalino agli occhi di maestri e maestranze della letteratura/scrittura, anche se raffinato - pur sempre virtuosismo manierista, il suo -; e quand’anche colto ma non senza civetterie da parvenu. A dispetto del post-moderno incombente, sullo scorcio degli anni Ottanta e del meta-romanzo, non del tutto fuori servizio attivo e d’altra parte, passato anch’esso in giudicato senza pubblico processo, con il discorso sul Canone intentato a ridosso del Secondo Millennio per essere proscritto fra le americanate ricorrenti - tranne che per le lezioni profetizzate da Italo Calvino, che, apocalittico integrato nell’industria culturale a trazione pressoché integrale d’egemonia di Partito, cavalcò tutte le mode senza inventarne alcuna -, ecco a voi lo squisito cesellatore, il provinciale attardato, l’epigono compiaciuto di una tradizione esaurita ben prima che Bufalino la scoprisse e se ne adornasse più che non illustrarla. Tanto è vero che, si vorrebbe dire, sì, il barocchismo, la levità che si cimenta con gli spettri evocati per farsene seduttore, il sublime (ri)facitore di magie e malie verbali, il tessitore di squisite orditure preziosistiche, il confezionatore di calembour sciorinati a dirotto e agudezas sgranate a catena, è anch’esso come uno dei rinomati prodotti di nicchia del Ragusano dove Bufalino visse, appartato e felice degustatore di prelibatezze da serra a tenuta stagna dalla “glaciazione neorealista” e dai rigori éngagé e fattori ‘climatici’ della letteratura di età torride di fervore passionale e politico come della temperie immediatamente a seguire. Bufalino non doveva giustificarsi con i lettori cui rendeva giustizia: Diceria dell’untore, la sua, come diceria dell’autore che non deve rinnovare sperimentando quello che è già codificato e dichiarato: nell’ambientazione, non certo nello stile; e nel sistema delle parti in commedia che incardina i personaggi allo Zauberberg cui, all’uscita del romanzo, recensori a

prima vista vincolavano il romanzo (se remake, il film era un altro), facendo il gioco depistante dell’autore, non quanto alla consistenza in un récit che non si lascia comprimere negli archetipi in cui si inscrive. Ma nel gioco di specchi dell’autore che, direbbe René Girard, rivaleggia col lettore di tous les livres, è nella poesia di Bufalino la scaturigine e il termine a quo della sua prosa. È nelle poesie che, poi, saranno raccolte ne L’amaro miele l’incunabolo di Diceria dell’untore (stesso discorso può farsi per il secondo romanzo, Argo il cieco, che se ne avvolge a festoni): tanto che Bufalino confesserà di aver pensato a un prosimetro, a un’alternanza di versi e prosa per quello che diventerà il suo romanzo d’esordio e il suo capolavoro: sostenuto e alimentato da quella attitudine primeva, persistente e vitale. È nella poesia che sentiamo tutta l’ispirazione, la cultura, l’opulenza dei suoi cromatismi sonori, tutta la sua musica dalle estensioni armoniche screziate, eppure, così densa, stretta ai suoi motivi di fondo come alle partiture di un’interiorità dissolta nelle modulazioni verbali liriche, ilari, enfatiche, parodistiche, patetiche: “Venire nel tuo povero reame / quest’inverno, senza rumore, / sentendo d’un tratto nel cuore / la morte come una fame.” In essa sentiamo non un’eco e ben più che un annuncio o un presentimento della sua prosa, ma l’autentico dispiegarsi del respiro di quella voce che corre a specchiarsi nel narcisismo primario di ogni poeta al di là di distinzioni e gerarchie di genere: un poeta che è tale per grazia né ricevuta né contesa a modelli e idola. E che fa di Gesualdo Bufalino un estraneo, tanto più nell’odierno caravanserraglio di signorine buonasera e giovin signori di ‘dammi tre parole’ dell’italiano-standard.


Un’occasione unica per definire e comprendere meglio il rapporto fra “Musei e Paesaggi Culturali”, tema della 24^ Conferenza Generale ICOM che si è svolta dal 3 al 9 luglio a Milano, che torna così al centro dell’attenzione internazionale dopo il semestre Expo che, al di là di ogni polemica, ha indiscutibilmente migliorato l’offerta culturale e turistica della città. Per sette giorni i musei di tutto il mondo si sono incontrati a Milano per un programma fittissimo di appuntamenti che ha offerto la possibilità di confrontarsi e scambiarsi idee ed esperienze, costruire progetti e reti di collaborazione, creare relazioni, portare all’attenzione del mondo museale internazionale, ma non solo, nuovi modelli, nuove idee, nuove visioni. E non è un caso che proprio in Italia si sia deciso di affrontare un tema delicato come “Musei e Paesaggi Culturali”, visto che in Italia sono presenti 3.847 musei, 240 aree e parchi archeologici, 501 monumenti e complessi monumentali: tutti inseriti in paesaggi culturali che dialogano inevitabilmente con essi. Come sottolinea Hans-Martin Hinz, Presidente ICOM: “i musei da sempre si sforzano di ridefinire il proprio ruolo e la propria posizione riguardo alla loro comunità, rispettando il patrimonio culturale che si trova al di fuori delle loro mura. Milano offre una piattaforma per la condivisione e il dialogo su progetti che coprono numerosi campi d’interesse grazie alla presenza di partecipanti provenienti da diversi orizzonti culturali e linguistici e che appartengono al patrimonio culturale in senso lato”. Infatti a Milano non erano previsti

solo i professionisti del patrimonio culturale museale, ma tutti coloro che ogni giorno lavorano in prima linea alla difesa del patrimonio culturale. Non a caso in Italia i musei, gli archivi e le biblioteche dal 2011 hanno deciso di unire le proprie competenze per dare vita al coordinamento MAB, così da rinsaldare il fronte dei professionisti della cultura presentandoli alle istituzioni politiche come un soggetto unitario in grado di offrire proposte concrete e propositive, come ha precisato anche Enrica Manenti, presidente AIB: “ci deve essere un’unione di intenti e di azioni fra le associazioni del patrimonio culturale, partendo anche da un’offerta formativa congiunta per rendere il futuro di archivi, musei e biblioteche più stabile”. Alla Conferenza Generale di Milano, che quest’anno è coincisa con il 70° anniversario dell’organizzazione internazionale, nata nel 1946, c’è stata inoltre la possibilità di ascoltare fi-

gure d’eccezione come l’artista Christo, il premio Nobel Orhan Pamuk, l’economista David Throsby, l’architetto Luigi De Lucchi e una leader culturale come il Ministro per le Parità di Genere in Zambia Nkando Luo. A loro il compito di raccontare un punto di vista differente ma interculturale, che può essere formativo e illuminante per il mondo museale nel rendere reali gli obiettivi futuri. (Per informazioni: http://network. icom.museum/icom-milan-2016)


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