Lectures 2016 "Contemporary Spaces". Dialogues 5 for 10.

Page 1

Dialogues 5 for10

Contemporary Spaces

5 Architects talk with students about contemporary design approach.

AAVV - Authors, Students of: Architecture and Architectural Composition 2. (Prof. A.Trivelli) Architectural Composition Lab. 2 (Prof. L. Salmoiraghi, Prof. F. Favaron, Prof. U. Gerosa)

Politecnico di Milano Scuola di Ingegneria Edile-Architettura Polo Territoriale di Lecco



POLITECNICO MILANO 1863 Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni

2


3


Corso di architettura e Composizione Architettonica 2

Lectures 2016 “5 Dialoghi per 10 domande”

Testi a cura di Losa Francesca, Fassi Arianna, Agostinelli Andrea, Alice Dieterich , Meorali Augusto, Re Depaolini Chiara, Guerrini Elena, Barbagli Federica Andrea, Crippa Gianluca, Citterio Giulia, Papetti Gloria, Mularoni Ilaria, Boscari Licia, Anniballi Luigi, Maritano Michele, Leccardi Nicolò, Rocco Simone, Camisasca Marco, Forastiero Dario, Gaffuri Simone, Miniero Mariarosaria, Chen Xueying, Costa Luca, Cataldi Camilla, Donati Simone, Rossotti Giulia, Antonelli Federico, Barbieri Giovanni, Belloni Samuele, Bernardi Lorenzo, Bonomi Boseggia Andrea, Caputo Federica, Consonni Matteo, D’Addario Davide, Galbiati Giuseppe, Nuzzo Emanuele, Pradella Simone, Sarra Giacomo, Tagni Paolo, Gianoli Matteo, Simonetti Marco, Paitoni Federica, Brambilla Roberto, Marco Caiazzo, Albi Kafazi, Stefano Dell’Oro, Davide Arzuffi Andrea Giuseppe Di Stefano, Riccardo Finazzi, Fortunato Medici, Altobrando Simone, Bertoni Edoardo, Cassanmagnago Mario, Cavallaro Giuseppina, Cioetto Ilaria, Cirillo Maria Elena, Curmà Giorgio, Dassi Arianna, Ghisleni Mattia, Lombarda Alessandro, Mangili Luca, Saccani Niccolò, Abd El Fatah, Costa Francesco, Di Simone Joshua, Gallarà Giovanna, Grassi Sara, Hu Weiqi, Lonardi Gabriele, Massetti Pietro, Miccoli Ambrogio, Pallone Valerio, Rava Pietro, Usuelli Arianna, Caramia Martha, Galvani Laura, Persico Elena, Terazzi Matteo, Di Renzo Loris, De Angelis Eleonora, Gasperi Erica, Rusconi Alessandra Maria Emma, Calvasina Stefano, Lupoli Michele, Rigamonti Lucia, Arienti Marco, Battaglia Iuri Umberto, Bolis Samuele, Bollini Giacomo, D’angeloantonio Valerio, Dodi Davide, Innocenti Clara, La Russa Roberto, Pravettoni Cristina, Presotto Samuel, Racanelli Arianna, Tuzzeo Simone.

4


“XXXXXXXXX…….CITAZIONE……..”

Tratto 5


Indice

Introduzione

pag. 10

Architettura del Novecento: Milano che cambia – Maria Vitoria Capitanucci pag. 12 • modernità nel passato • liberty • razionalismo • dopoguerra • ipercontemporaneità • dialoghi

pag. 13 pag. 14 pag. 15 pag. 15 pag. 16 pag. 18

Lo spazio che diventa il luogo – Luca Salmoiraghi pag. 24 • la missione dell’architetto-ingegnere • il comportamento dell’individuo • elementi “soft” • tridimensionalità antiprospettica •la doppia versione del progettista • normative • dialoghi

pag. 25 pag. 25 pag. 25 pag. 26 pag. 27 pag. 27 pag. 31

Costruire nella città – Paolo Danelli pag. 36 •la chiesa di Lonate Ceppino •centro culturale Ranica, BG • residenza per brevi periodi, MI • dialoghi

pag. 37 pag. 39 pag. 41 pag. 44

Public architecture – Vittorio Pizzigoni pag. 50 • architetture realizzate dallo studio • pubblicazioni e ricerche del gruppo • dialoghi

pag. 51 pag. 56 pag. 58

6


7


Con il naso all’insù – Umberto Gerosa pag. 62 • riferimenti storici • tipologie di edifici in altezza • l’altezza e l’uomo • contrapposizione tra corrente eclettica e nezionalismo strutturale • processo costruttivo di un edificio in altezza • percezione dell’abitare in un grattacielo • dialoghi

pag. 63 pag. 64 pag. 64 pag. 65 pag. 66 pag. 67 pag. 69

Architettura razionalista – Ferruccio Favaron

pag. 84 • l’identità del luogo • italiani, fautori di San Pietroburgo • enfatizzare il passato per realizzare il nuovo • dialoghi

pag. 85 pag. 86 pag. 88 pag. 90

Riflessione metodologica tra nuovo e presistente – Filippo Pagliani

pag. 94 • refurbishment • headquarters • l’effimero • dialoghi

pag. 95 pag. 97 pag. 99 pag. 101

8


9


Lectures 2016

Questa elaborazione di testi è realizzata dagli studenti del corso di Architettura e Composizione architettonica 2 della Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano, sede di Lecco; vuole sintetizzare un percorso di conoscenza dell’architettura moderna e contemporanea anche attraverso la restituzione del testo, della narrazione del processo progettuale. Gli invitati alle Lectures sono docenti e professionisti italiani che affrontano i temi progettuali con diversi punti di vista e approccio autorale evidenziandosi all’interno del contesto della produzione di architettura contemporanea per la qualità delle opere e dei progetti. Unitamente ai relatori invitati esterni al corso, alle Lectures hanno dato il loro contributo i docenti del Laboratorio del corso. Agli studenti, divisi per gruppi di lavoro, è stato chiesto di studiare i singoli relatori e di preparare 10 domande da porre al termine della lezione al proprio relatore, 8 domande frutto dell’analisi preliminare del lavoro dei relatori e 2 da preparare durante la lezione. Il risultato, qui raccolto, è quindi un lavoro originale degli studenti partecipanti al corso, che riassume il percorso di avvicinamento all’architettura, dapprima letta, studiata e guardata nelle immagini e successivamente incontrata attraverso il racconto degli autori per poi essere esplorata, rivista e ri-letta a seguito della Lecture e della discussione con gli autori.

I Relatori che hanno partecipato alle Lectures sono: Maria Vittoria Capitanucci, storica dell’architettura; Paolo Danelli, DAP Studio; Gino Garbellini, Più ARCH; Filippo Pagliani, PARK Associati; Vittorio Pizzigoni, Baukuh; e i docenti del Laboratorio: Luca Salmoiraghi; Umberto Gerosa; Ferruccio Favaron a cui vanno i miei ringraziamenti per la partecipazione.

Alessandro Trivelli Giugno 2016

10


11


Maria Vittoria Capitanucci

Lecco

1/04/2016. Architettura del Novecento: Milano che cambia.

12


Maria Vittoria Capitanucci, 44 anni, critico e storico dell'architettura per il Politecnico di Milano ci presenta in questa Lecture l’evoluzione storica della città di Milano; partendo da alcune architetture emblematiche della città seguiremo il filo della modernità sempre presente nell’architettura milanese per analizzare con particolare attenzione il periodo moderno e contemporaneo.

MODERNITA’ PASSATO

NEL

“Questa città ha sempre avuto una vocazione spinta verso una certa modernità e originalità, una vocazione che possiamo far partire già dal 1300, quando vengono chiamate proprio delle maestranze (tra l’altro dalla Germania e dalla Francia) per realizzare il Duomo, che noi diamo come edificio scontato, assolutamente simbolo della milanesità, ma che effettivamente già allora aveva un linguaggio assolutamente internazionale”. Con questa frase comincia l’intervento della storica Capitanucci che poi prosegue: “Questo edificio sostituisce infatti le due chiese precedenti di Santa Maria Maggiore e di Santa Tecla, una minore e una maggiore, che sono state “sacrificate” per questo gesto di modernità: una modernità di materiali, dimensionale, compositiva, con una struttura molto innovativa”. Altro esempio che Milano inseguirà come sogno utopistico all’insegna dell’innovazione è la “Sforzinda”, città ideale per gli Sforza pensata dal grande Antonio Averluino, detto Il Filarete. Siamo alla metà del ‘400 quando si ha appunto la realizzazione di uno di questi edifici sognati dal Filarete: l’Ospedale Maggiore di Milano, il primo degli ospedali moderni in Europa. Presenza piuttosto importante nel panorama cittadino è inoltre il Castello Sforzesco; la sua storia è fatta in particolar modo di rapporto con il verde: non è il castello che è nel parco, ma è il parco che era preesistente e che viene poi ridisegnato nell’800 per diventare un parco pubblico. Il vuoto disegnato, progettato non diventa più perciò assenza, ma presa di coscienza, in netto contrasto con i pieni evidenti del tessuto urbano. L’innovazione ci porta poi nell’800 quando la Galleria Vittorio Emanuele viene ricoperta con una cupola fatta in ferro e vetro. Questa tecnica strutturale, che ha fortemente caratterizzato le maggiori infrastrutture del tempo nelle principali città europee, diventa una nuova opportunità per la borghesia che inizia ad appropriarsene e a farla divenire un proprio linguaggio. La presenza di questo segno nella città è perciò anche emblema sociale: l’architettura del ferro e vetro diviene così il nuovo modo borghese di esprimersi. Gli edifici bancari assumono inoltre uno stile eclettico: gli elementi caratteristici dell’architettura aristocratica si mescolano con riferimenti al mondo naturalistico; si inizia una ricerca verso decorazioni che non hanno solo un rimando alla storia dell’architettura precedente, ma anche al mondo naturale con fiori, foglie, fiori della primavera, animale, farfalle. Con queste premesse storiche ci avventuriamo perciò alla scoperta del Primo Novecento e dell’epoca attuale tenendo sempre presente il vero carattere della città: una città che non ha mai temuto di far dialogare momenti diversi della sua storia e che perciò è fatta di tante storicità differenti (dalla casina settecentesca allo stile Revival neo-medievale del Museo della Storia Naturale, dall’edificio in Corso Italia del grande Luigi Moretti alla torre Velasca dei BBPR solo per citarne alcuni).

Maria Vittoria Capitanicci, ph. Crippa Gianluca

13


LIBERTY

Ca Brutta Giovanni Muzio 1922, Milano (www.wikipedia.it)

L’innovazione introdotta nella Galleria di Vittorio Emanuele porta alla diffusione nel panorama milanese del movimento Liberty, che nasce dall’internazionalissima tendenza dell’Art Nouveau. Questo stile coinvolge tutta l’Europa differenziandosi geograficamente: in Austria assume connotazioni più geometriche; in Francia è molto legato alla linea che evolve; in Belgio il linguaggio è più organicista (il concetto al quale si vuole giungere è quello di arte totale). Il rinnovamento di linguaggio si ricollega anche alle grandi scoperte antropologiche, dell’anatomia e dell’archeologia del tempo. Casa Milà di Gaudì ad esempoi ha alcuni elementi che ricordano la schiena di un grande dinosauro o la sagoma di un teschio nella balconata. Esempio milanese è un progetto del Campanini, in cui ritroviamo rimandi all’arte francese con le decorazioni floreali o riferimenti alla secessione viennese tramite l’uso della maiolica di Wagner, declinata alla maniera italiana con figure più morbide (in contrapposizione a quelle allungate presenti in Klimt). Un altro architetto attivo nel periodo è Augusto Wildt, il quale, partendo da visioni naturalistiche, giunge alla dinamicità delle forme e diventerà il grande ispiratore, nonché maestro dei primi artisti legati al mondo del futurismo come ad esempio Boccioni. Dall’ulteriore necessità delle borghesia di avere qualcosa di ancor più rappresentativo nasce anche il movimento del Futurismo, che sarà più artistico e letterario che architettonico, ma che avrà anch’esso una sua sete di modernità che si osserverà anche negli edifici pubblici. Il progetto della stazione centrale di Milano ha infatti inizio durante il periodo Liberty e finirà nel 1931 (per questo l’edificio è da molti considerato fascista). In questo modo la stazione diventa anello di congiunzione tra l’epoca in cui nasce e l’architettura del Ventennio. Parallelamente emerge un’altra tendenza che nasce dalla necessità di trovare nuovi linguaggi e ha riferimenti nell’antico classico e essenziale. Il “Novecento Milanese” è infatti un movimento artistico, letterario, architettonico, che si è venuto a creare a Milano con delle caratteristiche molto lombarde intorno agli anni Venti, attraverso un personaggio femminile di grandissima importanza che era Margherita Sarfatti, donna di grande cultura, grande potere non soltanto economico ma soprattutto culturale perché diventa la consulente prima degli aspetti culturali per Mussolini. Molti artisti vi aderiscono in particolare modo sottolineiamo a figura di Giovanni Muzio, autore della Ca Brutta (1922). Questo edificio si chiama così perché quando è stata scoperta dalle impalcature i Milanesi l’hanno trovata orrenda e soprattutto troppo inusuale per il linguaggio a cui erano abituati. Esso presenta infatti un’articolata composizione di nicchie, colonne o altri elementi che sembrano quasi tatuati al di sopra di un apparato molto moderno e urbano; la curva dell’edificio è un modo di ridisegnare la piazza e l’accesso alle altre strade. E’ proprio di questo periodo la nascita artistica di Gio Ponti, di cui citiamo schematicamente alcune opere sottolineandone i caratteri essenziali: Casa per se stesso, 1925

14


Siamo nel pieno del momento Novecentista: il mondo della natura e del floreale ed il mondo classico, dai tratti più lineari e geometrici, in questo esempio vengono sapientemente fatti dialogare. Lo stile che ne deriva è comunque di grande modernità. Il riferimento al mondo classico è legato alle ville venete di Palladio e di Scamozzi del tardo Rinascimento, scoperte dall’architetto nel periodo di guerra sul fronte austriaco. Edificio residenziale, 1928-‘30 Traspone l’idea della residenza piccolo borghese con dettagli moderni che Ponti aveva, presentando elementi classici che però diventano sempre meno spesso pure citazioni del passato. L’angolo della residenza richiama in particolar modo la lanterna di Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini. Torre Branca, 1932-’33 Opera realizzata interamente con materiali metallici in occasione della quinta triennale. Casa Marmont, 1934-‘36 Il riferimento al classico avviene con la riproposizione del tema della serliana. La “villa sospesa” all’ultimo piano dove i padroni dello stabile si ritagliavano il loro appartamento su due livelli con la grande terrazza rispecchia le volontà borgesi del periodo. Torre Rasini, 1933-‘34 Sperimentazione di Gio Ponti ed Emilio Lancia. L’edificio è composto da una torre addossata ad un edificio bianco. L’elemento svettante dialoga con la piazza di Porta Venezia, mentre il parallelepipedo rivestito in marmo svolta sulla strada definendone l’angolo. La famiglia Rasini si ritaglia l’ultimo piano della “villa sospesa” con la terrazza con piscina come richiesto dai canoni del tempo.

RAZIONALISMO

DOPOGUERRA

In contemporanea agli esordi di Ponti e Muzio, si affacciano sul panorama architettonico italiano i Razionalisti, sviluppo del Gruppo 7 di cui faceva parte Terragni. Essi trovano ispirazione nelle proporzioni armoniche dell’architettura classica (modello da seguire per il regime fascista), senza esplicitarne però gli elementi caratteristici. Esempio più rilevante è la Casa del Fascio, progettata come sede del partito Fascista a Como nel 1928 da Terragni. Egli contrasta la richiesta del Fascismo di costruire una torre (simbolo in contrasto del potere religioso), inserita inizialmente e poi eliminata, per focalizzarsi sulla facciata dove continua la ricerca sui materiali, sulla linearità, sulla trasparenza e sulla “luce come materia” tanto cara al Gruppo 7. In altre opere si ritrovano questi tratti, come il Monumento a Sant’Elia, l’asilo Sant’Elia e la residenza Novocomum. Successivamente Terragni e Lingeri, “spostano” il loro raggio d’azione dall’area lariana a Milano, chiamati da una serie di committenti vicini alla Galleria del Milione. Realizzano così Casa Rustici, su corso Sempione. Il fabbricato è composto da due corpi pieni e un vuoto centrale, collegati sul fronte solo da ballatoi sospesi che fanno da marcapiano. Il segno lineare della facciata partecipa a frammentare l’isolato e la cortina edilizia. Segue Casa Rustici-Comolli, nel quartiere Isola, dove il linguaggio razionalista cerca di svettare nel contesto milanese, con riferimento agli studi di Gropius. Tra coloro che esordirono poco prima della guerra ci sono i BBPR con un opera prettamente razionalista per la Triennale di Milano. Gli stessi componenti furono però profondamente colpiti dall’esperienza della guerra (Banfi morì a Mathausen, Belgioso si salvò dallo stesso campo e Rogers, ebreo, fuggì in Svizzera) per cui lo studio proseguì il suo operato con un nuovo linguaggio, improntato sulla sperimentazione di nuovi materiali.

La Milano del dopoguerra con i suoi tram, le sue automobili e le vie è una via ampie è frutto soprattutto delle trasformazioni urbanistiche previste nel Ventennio fascista proprio come modernizzazione del tessuto urbano. La sperimentazione architettonica avvenuta nel periodo precedente continua cambiando profondamente il disegno di Piazza San Babila (dove viene addirittura spostata l’antica chiesa presente) e di Largo Donegani. Qui Gio Ponti ha l’occasione di realizzare due edifici (il primo nel ’37, il secondo nel ‘52-54) , sedi della Montecatini e dunque di realizzare un nuovo pezzo di città che però devono relazionarsi con il palazzo di Beltrami il cui linguaggio, ancora agli inizi del Novecento, era un linguaggio eclettico che si ispirava alle forme rinascimentali e barocche.

15


L’edificio del ’37 si connota per una grande modernità a livello impiantistico e strutturale. La facciata, ricoperta in marmo, di notte viene illuminata a simboleggiare una grande lanterna luminosa. L’edificio costruito vent’anni dopo mostra invece il cambiamento di linguaggio che Gio Ponti attua portando la sua architettura ad essere simile ad un cristallo, ricca dunque di sfaccettature. Accanto un’altra presenza moderna per allora: la sede della Campari, realizzata alla fine degli anni Cinquanta dai fratelli Soncini (un ingegnere e un architetto). L’imponente struttura metallica nera con queste vetrate era sicuramente una presenza innovativa e inaspettata all’esordio di una strada che di fatto conduce verso il centro della città. Un’altra icona di questa città è la Torre Velasca. Realizzata tra il 54 e i 56 dai BBPR (e ingegnerizzata da Danusso), è un edificio iconico, non solo perché è alto, fuori scala, porta nella nostra memoria una torre una torre che non abbiamo mai veramente visto e che ha qualcosa di storico in sé, ma anche perché è l’emblema della rinascita di Milano del Dopoguerra. Questo edificio doveva rappresentare questa ripresa grazie ad una doppia funzione: sotto gli uffici e sopra le residenze. Degli stessi anni è il grattacielo Pirelli (56-60) progettato da Giò Ponti e dall’ingegnere Pierluigi Nervi. E’ proprio grazie a questa collaborazione che si sviluppa la forma del palazzo, così sottile ma soprattutto con un taglio laterale che smembra l’edificio in una doppia scocca affiancata. Un altro architetto di questi anni è Ignazio Gardella. Anche lui aveva lavorato nel periodo razionalista e nel ’49 realizza un edifico accanto alla triennale di Milano noto come “Casa al Parco”. Anche qui si trova una nuova diversificazione rispetto alla tradizionale residenza borghese. Luigi Caccia Dominioni subito dopo la guerra viene incaricato della costruzione del proprio palazzo di famiglia, davanti alla chiesa di Sant’Ambrogio. Si vedono ancora elementi del razionalismo ma con la presenza di elementi nuovi, come ad esempio il rivestimento con il klinker. Anche Morassutti e Mangiarotti contribuiscono alla ricostruzione realizzando una chiesa molto moderna e una casa con impianto irregolare poligonale caratterizzato da un pannello prefabbricato cieco o trasparente in metallo o legno.

IPERCONTEMPORA -NEITA’

Anche in questa fase attuale che possiamo definire come ipercontemporaneità il sapiente mix tra passato e innovazione continua. Ne è un esempio virtuoso tutta l’area intorno alla Stazione di Porta Garibaldi. Questa zona infatti della città che non aveva ancora trovato una propria dimensione ora al contrario ne è invece carattere distintivo. Il grattacielo della Unicredit di Pei svetta fra tutti, ma di uguale rilevanza sono tutte le nuove edificazioni dell’area come ad esempio l’Unicredit Pavillion di De Zucchi che insolitamente contrasta con la verticalità degli edifici adiacenti. Con lo stesso spirito innovativo si struttura i quartiere CityLife (ex fiera Milano) con le tre torri di Hadid, Libeskind e Isozaki e la fortissima attenzione alla progettazione del verde e dei collegamenti (anche attraverso l’utilizzo dell’acqua) per creare un quartiere in dialogo con il resto della città. Nella stessa area abbiamo anche le residenze di Hadid e Libeskind, entrambe molto criticate per le forme scelte, ma con validi tagli interni. Altra area particolarmente affine a questo linguaggio è l’attuale area del Portello (ex Alfa Romeo) dove il masterplan di Van Egeraat è stato completato con interventi residenziali di Cino Zucchi e di Park Associati. Il progetto per la Bicocca di Gregotti è invece destinato ad un’area residenziale e universitaria. “Progetto molto interessante, ma manca varietà di linguaggio il che ha portato l’area stessa ad essere isolata dal resto della città” sostiene ancora la storica. Altri esempi che qui citiamo solamente per dare voce a tutti gli interventi attuali che stanno ridisegnando il volto di Milano sono la Fondazione Feltrinelli di Herzog & de Meuron, Mudec di David Chipperfield e Fondazione Prada di Oma + Rem Koolhaas. Fondazione Prada progetto portato avanti da una collaborazione tra Oma e Rem Koolhaas. Il progetto ha visto la trasformazione di una ex distilleria in una delle zone della periferia storica milanese, è una fondazione di arte contemporanea voluta da un noto marchio del mondo della moda (Prada) che giustifica l’azzardo di ricoprire una torre d’oro. Il progetto si sviluppa attorno ad una corte centrale, dove vi è inserito un corpo che corrisponde agli interni degli spazi espositivi, dove, grazie alla presenza di statue provenienti dai musei capitolini di Roma, contemporaneità e classicità si fondono

16


City Life, Milano (www.repubblica.it)

17


Cosa l'ha spinta a specializzarsi sull’architettura del dopoguerra?

Si è trattato di una casualità di momenti. Non mi sono specializzata solo in questo periodo storico, ma ho iniziato il mio percorso di studi laureandomi con una tesi sull’architettura in Sicilia tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. La mia volontà fu quella di sondare la Sicilia, essendo io in parte siciliana e capire alcune cose di cui volevo approfondire le conoscenza, sebbene non fosse per me materia totalmente oscura. Da quel momento in poi, ho affrontato, in particolare, il Ventennio, avendo lavorato a lungo con un professore del Politecnico che si chiama Fulvio Erace, il quale si è occupato a lungo di questo periodo. Nel tempo ci si accorge, però, che in tanti studiano quel periodo e, soprattutto, chi fa storia dà spesso per scontato che ad un certo punto ci si debba un po’ muovere. Siccome, come vi ho spiegato, ci sono delle tendenze, dei legami, ma anche dei non-legami, che possono risultare attraenti, ad un certo punto mi sono specializzata nel dopoguerra e casualmente, oggi, nell’ipercontemporaneo. Tutto ciò di cui vi ho parlato prima è la mia materia prediletta perché spesso collaborando anche con delle riviste, mi è stato chiesto di occuparmi per un po’ di tempo anche esclusivamente di quello. Sicuramente il mio più grande interesse è per il dopoguerra italiano in generale, milanese in particolare, ma soprattutto letto in termini di legami con quello che avviene nel resto del Mondo, con l’Inghilterra principalmente. Per cui ora ho in corso un lavoro, prima sospeso, ora forse ripartito, proprio sul periodo degli anni Cinquanta e Sessanta inglesi. Questo perché ritengo che gli architetti inglesi siano i maestri della contemporaneità, dalle vostre Archistar alle vostre attuali passioni architettoniche; bisogna dunque studiarli e capirli, così come spesso l’esistenza di architetti meno noti, come Peter Behrens, maestro però di Gropius, di Le Corbusier e di Mies, viene tralasciata, trovo che in Inghilterra, in quegli anni, sia successo qualcosa di molto importante e mi piace quindi capire come alcuni dei nostri protagonisti abbiano guardato quel mondo e quali relazioni abbiano intrecciato con esso, cercando, cioè, di non fossilizzarmi sulle etichette spesso date per esempio ai cosiddetti “baroni rampanti”, citando il libro di Calvino, dell’architettura milanese come BBPR, Gardella, Caccia e Magistretti, motivate dal loro essere un po’ aristocratici o provenienti da famiglie alto borghesi; queste figure, si dice, rappresentano la milanesità per eccellenza. Per il mio punto di vista, posizione che è stata anche criticata, non tutti loro hanno questa milanesità scritta nel DNA. Sono stati, invece, personaggi talmente internazionali, da diventare importanti nella modernità milanese. Insomma spesso si sceglie, ma si è ugualmente scelti dai temi, è un lavoro, un mestiere, seppur appassionante.

In fase progettuale come ci si deve relazionare con il contesto? Ė meglio mantenere un legame con l’architettura circostante o staccarsi completamente da essa? La Torre Velasca potrebbe essere concepita come la giusta via di mezzo?

Sta alla vostra bravura, perché si può lavorare per analogia o affinità cosi come per contrasto. Ci sono opere che se non avessero vissuto del loro contrasto non avrebbero avuto neanche quella storia che poi hanno innescato, ci sono presenze che inizialmente possono sembrare fuori luogo, fuori scala, non attinenti che in realtà innescano, poi, delle altre relazioni, sono importanti per questo, cosi come talvolta è necessario tener conto della preesistenza, rispettarla, dialogare con essa. Sinceramente direi, un po’ come per il restauro, caso per caso, nella progettazione voi dovete avere questa sensibilità, è questo il punto. Diciamo che la sicurezza è quella di lavorare per analogia, bisogna avere una grande conoscenza, consapevolezza del luogo per lavorare in antitesi, con un contrasto, questo è sicuro. Però a volte lavorare in analogia diventa noia, diventa emulazione, diventa rimanere sempre chiusi in quel mondo, pensate alle villette che vi passa la voglia. Lavorare per analogia non è rassicurante, può essere una fase. Per quanto riguarda la Torre Velasca, si, è un giusto mezzo, i BBPR erano abilissimi, erano così abili che hanno lavorato con un fuori scala, con una forza prorompente che forse oggi non sarebbe più così tanto accettabile e in qualche modo giustificando elegantemente perché avevano dietro un apporto teorico, una capacità, che era soprattutto di Rogers ma tutti erano degli intellettuali molto raffinati, di giustificare delle scelte che erano delle scelte di grandissima rottura, a questa proposito posso dirti che trovo più moderata e sicuramente più un giusto mezzo proprio la Chase Manhattan Bank come scelta di inserimento nel contesto anche se in qualche modo contrastiva, cioè che ha qualcosa di prorompente ma è sicuramente più collegata legata e rispettosa di una situazione.

18


Quali fattori un progettista dovrebbe tenere in considerazione in fase progettuale? Non c’è il rischio di creare edifici esteticamente accattivanti ma privi di funzionalità perché non tengono conto di aspetti sociologici, culturali ed economici?

Non saprei davvero cosa rispondere. “È come chiedere ad un dermatologo cosa si prova quando si opera un cuore”. Io sono architetto ma ho deciso già in fase di formazione di diventare una storica, ho fatto un dottorato di ricerche storiche e ho continuato nell’ambito della teoria. Sulla progettazione quindi, dal punto di vista proprio metodologico io posso, come dire, criticare il vostro progetto ma non posso davvero scindere ciò che può essere piacevole da ciò che abbia un senso sociologico, etico e così via. È necessario però avere la consapevolezza del sistema in cui si entra, quindi non potete lavorare solo sul manufatto. Ci sono però delle passioni che avete anche dal punto di vista compositivo che possono diventare il vostro linguaggio. Quello che è fondamentale è che voi capiate su cosa state lavorando sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista funzionale. Dovete andare nel luogo, camminare nel luogo e capire cosa è successo storicamente e cosa succede da quelle parti: le fasi storiche che ha passato, le trasformazioni, il sistema su cui tutta l’area si inserisce. Forse è un po’ datato ma ai miei tempi si parlava di più della tipologia. Ancora oggi però ci troviamo di fronte alla necessità che se in quell’area manca una biblioteca, voi non solo dovete analizzare l’area ma anche chi prima di voi si è trovato di fronte a questo tema e come lo ha risolto. Le soluzioni sono infinite ma troverete sicuramente dei punti in contatto con il vostro caso ed è per questo il motivo per cui consiglio sempre di guardare la storia, di studiarla, ma anche di ridisegnarla e di leggere le riviste che hanno sempre un taglio critico per crearvi un background che vi torna in automatico. A questo proposito consiglio la Biennale di Venezia perché dedicata a delle partecipazioni, a delle emergenze, a delle condizioni un po’ estreme della vita quotidiana, che si allontanano per un attimo dagli aspetti più estetizzanti dell’architettura. Si lavora molto sul senso della ripetitività, della costruzione veloce e dello sfruttamento della tecnologia in termini di modernità. L’architettura partecipata e quindi il coinvolgimento della popolazione trovano in Giancarlo de Carlo, e in particolare in riferimento al quartiere Matteotti, un grande maestro. Occasioni come queste ci permettono di eliminare i pericoli delle iperestetizzazioni senza però dimenticare che l’aspetto deve anche avere una sua qualità, che non è solo funzionale e strutturale ma che è anche di quella parola che cerchiamo sempre meno di usare, che è la bellezza architettonica, il bello nell’architettura.

Durante la seconda guerra mondiale diversi bombardamenti hanno distrutto la città di Milano. Ciò ha avviato grandi innovazioni nel campo delle costruzioni. Come si sono evoluti i materiali di costruzione e rivestimento lungo gli anni del dopoguerra?

L’architettura non è la protagonista prima del costruire, ad essere centrali sono l’economia, l’imprenditorialità e la committenza, pubblica o privata che sia, e solo dopo si inserisce il progettista. L’Italia della ricostruzione utilizza ottimamente sistemi tradizionali che subiscono importanti innovazioni nel tempo. Nel nostro paese l’industria e le tecniche legate al cemento armato erano consolidate, a differenza di altri paesi: progetti di Pierluigi Nervi negli Stati Uniti, a causa della mancanza di queste tecniche costruttive, hanno avuto costi di realizzazione altissimi per la messa in opera in cantiere. Queste tecniche costruttive sono tipicamente europee e nel caso dell’Italia che, a differenza di paesi come la Germania e l’Inghilterra, non ha un’industria siderurgica predominante, sono rimaste a lungo fondamentali a livello strutturale. Nel dopoguerra il cemento armato è utilizzato soprattutto per grandi strutture ed infrastrutture, è tra il 1930 ed il 1940 che vengono infatti costruite le principali stazioni ferroviarie che ancora oggi vediamo. Per quanto riguarda l’utilizzo delle strutture metalliche, esso rimane marginale a causa degli alti costi di produzione al punto che la sua applicazione si limita all’ambito industriale, anch’esso centrale in questo periodo storico. Questo ambito è molto importante perché offre agli architetti e agli ingeneri di progettare nuovi sistemi strutturali di cui un esempio è il progetto di Marco Zanuso per IBM a Segrate in cui lavora in particolare modo sulla prefabbricazione del cemento. Un altro aspetto fondamentale della relazione tra edificio e città è quello della “pelle”, del rivestimento e interessante in questi anni è ad esempio il Clinker, apprezzato dai progettisti per le possibili diverse pigmentazioni e che permette ai progettisti di sperimentare. Nel dopoguerra quindi si può identificare un cambiamento importante nei materiali da costruzione paragonabile all’avvento di vetro e ferro nel 1800, si crea un nuovo linguaggio.

19


Riprendendo l'edificio residenziale di Boeri, che fa parte di un intervento (la stazione Garibaldi e la zona di Porta Nuova) da lei sia criticato, poiché esula dal contesto milanese, che apprezzato, per il successo che ha riportato a livello sociale, quale architettura del dopoguerra ha avuto lo stesso effetto sul panorama locale, pur risultando più propriamente appartenente alla città?

Non l’ho criticato (l’edificio di Boeri, ndr) ho solo detto che secondo me è un po’ datato. È un progetto che esisteva già nel nostro immaginario Medio Orientale, o Dallas qualche anno fa. In questo caso la mia critica è soltanto di tipo formale, di impatto. Non trovo che sia un linguaggio particolarmente contemporaneo, nonostante (la torre dell’Unicredit, ndr) sia molto moderna. Per quanto riguarda il punto di vista della sostenibilità e tutte le varie certificazioni è un edificio assolutamente in linea con le ricerche attuali e funziona. Il masterplan di Pelli funziona benissimo. L’architettura milanese del dopoguerra, derivando dalla necessità di ricostruire edifici che erano stati distrutti, in realtà non ha previsto delle aree completamente ricostruite, bensì delle occasioni, bisognava riempire i vuoti. Questa cosa non è facile da ritrovare. Però per esempio abbiamo visto tutto l’isolato di Via Albricci e la Torre Velasca e direi che lì sicuramente il sistema urbano funziona molto bene, perché già aveva avuto un imprinting dal punto di vista urbanistico prima della guerra, però, certamente con quegli interventi quella parte di città è molto cambiata ed è diventata qualcos’altro quindi è sicuramente interessante. Per quanto riguarda invece Porta Nuova Varesine, forse non sono stata molto chiara, per quanto riguarda il masterplan devo dire, invece, che è stato pensto in maniera interessante, che funziona. Questa cosa è più leggibile oggi che non sul piano progettuale, non avrei scommesso così tanto su questo, se non fosse stato che quell’area era purtroppo un’area irrisolta; quindi non dico che quasi qualsiasi progetto avrebbe funzionato, perché Milano era assetata di quello spazio, che è centrale per la città, tra l’altro zona di connessione importante perché la stazione Garibaldi non poteva rimanere così a lungo isolata rispetto a Corso Garibaldi, alla centralità della città. Quindi quella possibillità di connessione è stata sicuramente molto interessante: non so quanto è ben fatta, ma funziona benissimo. Poi noi siamo anche un po’ esterofili: la piazza con la fontana ci mancava, quindi comunque adesso c’è. Sul piano dello spazio pubblico trovo che funzioni ancora più che la piazza tutta la parte verso le Varesine, perché lì si avverte una prospettiva una connessione reale ed una visione su tutta la zona di Piazza della Repubblica, che per me invece era un cul-de-sac mai risolto privo di senso. Adesso invece funziona anche quella, con il verde.

Parlando di architettura residenziale, quale edificio porterebbe come esempio milanese di nuova costruzione che ha saputo integrarsi adeguatamente nel contesto e quale invece proporrebbe come esempio opposto?

Edifici residenziali, di recente realizzazione, a me non dispiacciono affatto i lavori di Zucchi in generale, come il Portello, perché lì il legame più che con l’area è con la tradizione milanese del dopoguerra che io amo molto; quando poi questa viene esplicitata e dichiarata, ma poi ripresa e completamente rimaneggiata secondo una propria poetica è una bella cosa. Dei suoi progetti (ci si riferisce qui ancora a Cino Zucchi, ndr) ultimamente, di tipo residenziale, trovo interessante l’ultimo nato nel contesto di Porta Nuova Varesine – in realtà staccato da quest’area – che non è la Corte Verde, che ha un fronte chiuso che a me non dispiace affatto, ma quello nuovo, che lui in realtà mi ha detto personalmente non ha amato molto perché ha avuto una vita complicata. Lì io invece trovo un tentativo, perché dovete pensare che a volte per via del masterplan si può decidere di non costruire niente, ma se si viene chiamati all’interno di un masterplan già definito a volte si ha veramente una situazione un po’ claustrofobica, come appunto è avvenuto per questo discorso di Zucchi. Lui comunque lì è riuscito, nell’ultimo pezzo, a creare una situazione che a me non dispiace affatto. E poi lì era già un tessuto più denso che era anche quello un po’ in abbandono; non so, mi sembra che anche lì sia stato abbastanza interessante. Quelle che invece non funzionano? A me non hanno mai affascinato le residenze Libeskid nel sistema di City Life, quelle di Zaha Hadid mi hanno fatto sempre divertire di più, le capivo di più. Però anche lì è una scelta di masterplan, porre le residenze agli estremi di tutti l’area e un po’ chiudere. Però per esempio so che gli appartamenti – li ho visti – di Libeskid sono ben tagliati rispetto per esempio a quelli di Zaha Hadid, dove tu compri 400 mq per poi viverne 220. Quindi sai è tutto un po’ un mondo. Certo questo sistema di City Life forse non è uno dei più riusciti, ma non per il fatto che abbiano a che fare con la città o meno, perché ripeto io penso che a volte ci siano cose che non hanno così tanto una relazione intima che però riescono a innescare delle nuove strategie. Un’altra cosa, sulla carta, che potrei condividere sono le residenze di Gregotti a Bicocca che però sono rimaste lì, bloccate, chiuse rispetto alle relazioni con la città. Quello secondo me è un esempio di un luogo che pur avendo delle ascendenze colte, raffinate con il mondo tedesco con tutto uno studio urbanistico molto importante, non hanno anima. Comunque ci sono tanti esempi di architetture residenziali che funzionano molto bene anche più minuti in città oggi.

20


Sul quotidiano “Sole 24 ore” nel 2012 lei ha scritto un articolo analizzando il ruolo femminile nella professione di architetto. In particolare, si nota l'assenza di figure femminili in ambito cantieristico ed accademico. Come prevede che possa svilupparsi il ruolo delle donne nell'ambito della progettazione architettonica? Secondo lei la prevalenza di figure maschili nel panorama internazionale è destinata a proseguire o subirà un ridimensionamento?

Se fosse stata fatta nel 2012 ti avrei detto una cosa, adesso te ne dico un’altra. Faccio come ha fatto Silvana Annichiarico nella conferenza stampa della mostra sul design al femminile alla Triennale di Milano. Ha detto “In un’epoca in cui si parla tanto di gender...”, io pensavo dicesse “ci siamo occupati del design dei travestiti” e invece no. Secondo me basta, adesso forse abbiamo parlato troppo di differenza tra maschi e femmine. E noi l’abbiamo pagata, perché non siamo tanto brave a fare lobby, come invece hanno fatto tutti gli altri, tutti gli altri generi, tutti. E quindi mi sembra anche ormai che sia superato in qualche modo, soprattutto a Milano, il tema della presenza al femminile nelle istituzioni più importanti, soprattutto parlo dell’università. È vero che non abbiamo tantissime ordinarie, ma abbiamo però tante presidi e quindi già è qualcosa. E mi sembra poi presidi brave, cioè non casuali. L’unica stranezza è sempre che prima c’erano molte più donne che facevano architettura degli uomini. Però alla fine gli architetti noti con studi anche importanti e non soltanto archistar erano soprattutto i maschi e lo sono ancora. E questa è l’unica nota un po’ dolente. Io purtroppo l’attribuisco anche un po’ a noi femmine che non siamo tanto brave a fare appunto lobby, a portarci avanti tra di noi e questa cosa dobbiamo proprio impararla perché a questo punto anche i maschi quello che potevano fare l’hanno fatto. Se saremo madri dobbiamo allevare figli maschi che capiscano che noi siamo molto più brave di loro, sempre. No, non è vero. Però bisogna assolutamente rispettarci, siamo tutti uguali. È un problema di formazione, di rispetto reciproco, e ogni tanto di picchiarli questi maschi così capiscono chi è più forte. Comunque sì, ancora adesso c’è questo tema. Infatti avete visto per esempio, adesso l’archistar in prima pagina così, ma io sono certa che se fosse morto Renzo Piano sarebbe stato un po’ diverso, rispetto all’eco che ha adesso Zaha Hadid. (prof: “ ha più eco Zaha Hadid) No, assolutamente no. Comunque secondo me è molto cambiato da quell’ articolo e io poi allora ero più critica, nel senso che non mi piaceva fare le cose sulle donne così. Adesso se mi capita non mi faccio neanche tanto scrupolo. Io sono sempre stata un po’ contro le quote rosa per intenderci, e però è vero che sono un po’ servite, anche a livello politico, sono servite molto. Ci ha aiutato molto anche Berlusconi a proprio modo. Quindi anche questo modo un po’ old fashion, ha funzionato e però appunto adesso spero davvero che non ci si faccia più questo problema, perchè ormai siamo tutto e siamo niente. Avete visto anche nella moda. Le nostre scelte sessuali devono essere di totale libertà. Io penso che non ci dovrebbe essere neanche più una distinzione a livello. Non c’è e non c’ è mai stata e non ci dovrebbe essere neanche una differenza tra chi progetta al femminile e al maschile. Direi che ormai ci dovremmo essere. Però abbiamo, noi donne, un incarico molto importante. Siamo noi le prime che dobbiamo educare, sennò non viene fuori niente.

21


Maria Vittoria Capitanicci

Nomi dei relatori: Fassi Arianna, Losa Francesca, Agostinelli Andrea, Alice Dieterich , Meorali Augusto, Re Depaolini Chiara, Guerrini Elena, Barbagli Federica Andrea, Crippa Gianluca, Citterio Giulia, Papetti Gloria, Mularoni Ilaria, Boscari Licia, Anniballi Luigi, Maritano Michele, Leccardi Nicolò, Rocco Simone.

22


23


Luca Salmoiraghi

Lecco 8/04/2016. Lo spazio che diventa luogo

24


Luca Salmoiraghi, 49 anni, titolare dello studio di progettazione Archilabo dal 2000, a Milano e docente al Politecnico di Milano dal 1996. Ha partecipato come relatore a numerosi convegni architettonici e si occupa principalmente di urbanistica e progettazione architettonica su più campi.

LA MISSIONE DELL’ARCHITETTOINGEGNERE

Il lavoro dei costruire, o più precisamente la sua missione, si declina in diversi concetti che necessitano una conoscenza in differenti ambiti, da quello tecnologico fino ad arrivare ai fattori normativi che regolano tutte le operazione da eseguire. Il costruire, e quindi il saper edificare, è una condizione necessaria ma non sufficiente per creare spazio. Con “creazione dello spazio” si intende la volontà di far nascere una situazione e un’ambientazione che non siano fredda ma vive e dinamiche. Infatti, l’ingegnere o l’architetto che si cimentano in questa missione devono far fronte non solo alle proprie idee e conoscenze in merito ma devono tener conto delle esigenze del committente, o più in generale, delle esigenze di chi poi fruirà di quel bene. Con questa premessa va quindi ad essere definito un concetto fondamentale nell’arte del costruire, ovvero la trasformazione dello spazio in luogo. Alla base quindi dell’organizzazione del lavoro del costruttore che deve raggiungere la sua missione, non devono esserci le normative o le conoscenze costruttive, le quali saranno entrambe presenti in un momento successivo, vi deve essere il principio ordinatore: motivo per cui si sono prese delle decisioni strategiche affinché si possa avere questa trasformazione la luogo a spazio. Lo spazio viene inteso come qualcosa di dimensionale che comunque esiste e si trova in una posizione basilare rispetto al lavoro del costruttore. Infatti, la modifica dello spazio in luogo avviene aggiungendo altre caratteristiche, altre alla sua entità dimensionale: qualità e specifiche tecniche. Sono diverse le modalità con cui, l’ingegnere o l’architetto, può cimentarsi in quest’opera. La prima operazione che si compie è la delimitazione dello spazio, la quale avviene grazie all’inserimento di: • Muri • Soletta • Copertura Con questi elementi entro in una definizione dello spazio che viene suddiviso tra interno ed esterno. Questa però è soltanto una modalità di base, semplice tra tutte le diverse modalità che si hanno a disposizione affinché uno spazio diventato luogo rispetti le esigenze di tutti, sia del costruttore, sia di che ne usufruirà una volta ultimata l’opera.

IL COMPORTAMENTO DELL’INDIVIDUO

Un altro concetto che bisogna tenere bene in mente è il comportamento, sia sociale che psicologico, che l’individuo assume a seconda del luogo in cui in quel determinato momento si trova. La differenza più visibile è sicuramente quella che avviene tra spazio pubblico e privato ma un individuo, anche restando all’interno di un ambiente privato, assume comportamenti diversi in ogni parte di esso. Ad esempio, nella propria casa si hanno atteggiamenti distinti in luoghi diversi: in soggiorno, in cucina o in camera da letto è sostanziale la differenza di comportamenti che qualunque persona tende ad assumere. Questa differenza così sottile e snaturale normalmente non è molto evidente me salta agli occhi quando qualcuno usufruisce di uno spazio in maniera impropria. Ma gli atteggiamenti si differenziano anche in base al tempo che passa e alle nuove tecnologi che invadono il quotidiano. Basti pensare che non tantissimi anni fa le telefonate erano private e venivano fatte in casa mentre ai giorni nostri si usa il cellulare ovunque e in qualsiasi momento.

ELEMENTI “SOFT”

Altri elementi che il costruttore ha a disposizione durante la sua missione, sono elementi “soft”, non percepibili direttamente, come ad esempio i cambi di quota: • Marciapiede • Scalini di un sagrato A questi, poi, si aggiungono altri elementi molto importanti, come gli aggetti o le coperture, che innanzitutto sono legati a fattori di tipo atmosferico. Basti giungere ad un porticato per capire che si tratta di una zona di filtro tra un ambiente esterno e uno interno, in quanto, anche trovandosi all’esterno, si è già totalmente abbracciati dagli edifici circostanti in un modo preponderante. Altri modi di gestire lo spazio posso essere i fossati non solo storici, ma che possono essere sia naturali che artificiali. Questi creano dei vuoti e quindi dei limiti, non legati alla visibilità, e possono essere sfruttati per gestire dei percorsi in un parco, ad esempio inserendo anche degli specchi d’acqua, obbligando chi vi passeggia a scegliere quella determinata traiettoria. In questo contesto va però inserita anche l variabile tempo. Se il parco pensato principalmente per un uso di svago e di relax, allora i percorsi obbligati dai fossati possono essere i più svariati dando vita a forme anche complesse; se il parco è principalmente sfruttato come passaggio per raggiungere un altro luogo, allora questi elementi di limitazione devono essere pensati in maniera differente. In tal modo nella stessa zona verde si possono trovare sia passaggi diretti che portano, in breve tempo, all’uscita dal parco ma anche altri percorsi più caratteristici e originali che generano una percezione diversa in

25


quanto permettono di percorrere totalmente il parco e con specifiche modalità pensate dal progettista, impiegando manifestamente del tempo in più per uscirne. Bisogna far collimare la volontà progettuale con l’uso che necessita quella zona e con ciò che realmente si viene e designare.

TRIDIMENSIONALITA’ ANTIPROSPETTICA

Si genera cosi una tridimensionalità antiprospettica: in un luogo vengono inseriti degli elementi che limitano la percezione totale di quello stesso luogo ed impongono uno spostamento. Senza l’azione dello spostarsi non si riuscirebbe neanche a percepire la vera forma o la reale grandezza di quel luogo e spesso ciò è impossibile nonostante il movimento. Si generano degli ambienti che suscitano in ogni utente sensazioni diverse che quindi non riesce ad avere il controllo dello spazio che lo circonda, anche perché tutte le informazione vengono date alla persona passo dopo passo, letteralmente. Un’ulteriore classificazione di sensazioni che questa operazione può suscitare è data anche dalla situazione che ha portati un individuo ad usufruire di quel dato luogo. Se si pensa ad esempio ad una sala espositiva, con corridoi alternati a spazi ampie con magari anche dei setti murari non a tutta altezza che quindi generano un cammino obbligato, questa genera delle sensazioni principalmente positive; se invece gli stessi elementi vengono inseriti in un sottopassaggio, un utente che percorre questo luogo, magati al buio, avrà delle percezioni negative. Da ciò si comprende come non esiste nulla di giusto o sbagliato, come la soluzione non deve per forza essere unica, ma dipende da diversi fattori, tra i quali influiscono sicuramente: ! Il contesto in cui l’opera viene realizzata ! Il significato ultimo che il progettista vuole dara alla sua opera ! Il modo in cui l’utente si approccia all’opera In questo senso il lavoro del progettista può trasformarsi in una sorta di gioco con i sensi degli individui affinché questi riescano a percepire determinate sensazioni volute proprio dall’architetto. Egli infatti può non far collimare i sensi dell’utente per far nascere in lui una serie di sensazioni e percezioni sempre nuove e originali. Ad esempio: si possono inserire delle sbarre che non limitano la vista di ciò che è aldilà di esse ma impediscono il passaggio; si può inerire un setto di circa due metri per lasciar sentire ciò che avviene oltre di esso ma limitandone la visuale. Per fare tutto ciò non è possibile tralasciare nessun dettaglio che possa essere utile alla missione dell’ingegnere o dell’architetto il quale deve sempre tener presente anche alcuni fattori intrinsechi del luogo in cui opera: la storia, la cultura e la memoria collettiva non devono mancare al quadro generale del progettista e della sua opera. Questi elementi connotano in un modo esorbitante un dato luogo tanto da farne risaltare alcune peculiarità, non soltanto fisiche. In relazioni quindi a tutto il bagaglio storico e culturale che un luogo porta con sé, il progettista può anche decidere di lavorare con dei vuoti. Si pensi alle Torri Gemelle: quel determinato luogo ora è un luogo di memoria per qualcosa che c’era ma che è stato distrutto. In questo caso l’importanza di quelle torri viene evidenziata non con altrettanti edifici o alzati simili ma con il vuoto, con l’assenza di materia in antitesi dei pieni. Un altro elemento che ha in mano al progettista può essere il cambio di destinazione d’uso di un dato fabbricato: mantenere la forma ma ristrutturarlo e cambiarne funzione. In questo modo la memoria resta e magari viene anche rievocata maggiormente riuscendo comunque a continuare ad usufruire di quel dato edificio a parità di forma. La possibilità del costruire nasce dalle situazioni più disparate. Si pensi ai casi in cui industrie e multinazionali decidono di investire e trasferire alcune fabbriche in un determinato luogo. Ciò crea l’esigenza di nuove costruzioni e mette quindi in circolo il lavoro del progettista. Questa possibilità però si può generare anche in relazione allo spostamento delle masse: se numerosi gruppi di persone lasciano una terra per spostarsi in un nuovo luogo, con l’andare del tempo e il numero sempre più elevato di abitanti in entrata, si crea la necessità di garantire a questi un tetto e dei nuovi servizi. Da qui nasce anche un nuova tipologia di utente-tipo in quanto si sta sempre di più formando una società multirazziale difficile da connotare in modo univoco e dai costumi sempre più diversificati. L’architetto o l’ingegnere che si occupano di una data opera in un luogo vissuto da etnie e culture diverse, deve tener presente di queste specifiche per evitare di prendere decisioni progettuali che poi rischiano di essere incongruenti con una tipologia di utenza specifica.

26


LA DOPPIA VISIONE DEL PROGETTISTA

Il progettista deve guardare ogni aspetto, non di meno quello sociale. Se si pensa anche soltanto alla posizione dei tavolini di un bar in una piazza, questa può sembrare un dettaglio superfluo che in realtà influenza molto la riuscita di quella attività. Cosa guardo da quei tavolini; cosa invece non vedo; si tratta di una parte di piazza coperta e quindi al riparo da agenti atmosferici oppure mi trovo totalmente all’esterno: sono tutte particolarità da non sottovalutare che influenzano la funzione di quei tavolini. In questo senso entrano in gioco anche i servizi che si mettono a disposizione dell’utente: questi possono condizionare la buona o cattiva riuscita di un progetto. Al giorno d’oggi l’esempio più calzante, che esula dalla mera costruzione e quindi dalla responsabilità diretta del progettista, è sicuramente l’accesso libero alla rete Wi-Fi. Tra un locale con il Wi-Fi ed uno senza si è ormai soliti scegliere quello con la connessione libera anche se non è detto che sia il locale più accattivate, di qualità e anche architettonicamente piacevole. La visione del progettista quindi deve sempre essere sia centripeta che centrifuga per fare in modo che anche l’utente riesca poi a percepire qual è stato il significato che si voleva dare all’opera di cui sta usufruendo. Uno degli errori tipici che si commette è quello di guardare solo l’oggetto progettato ma non come vengono usufruite gli elementi creati. Bisogna fare delle scelte strategiche: bisogna guardare anche dall’interno del nostro edificio verso il fuori e mettere in evidenza quali sono gli aspetti peculiari del contesto urbano circostante.

Arch. Luca Salmoiraghi, 8.04.2016, Lecco Ph. Chen Xueying

NORMATIVE

Un altro aspetto altrettanto vincolante e altrettanto vincolato è quello delle normative. Spezzando una lancia a favore di esse, che in un paese come l’Italia sono troppo concatenate e fatte male, è anche vero che la regolarizzazione del costruito e del costruire è fondamentale in un contesto di rispetto verso il prossimo di un paese civile. Prossimo inteso anche come ambiente del costruito e non solo come persone. Tutto ciò serve per avere un comportamento equo che sta alla base della democrazia, generando così una Democrazia del Costruire. È una materia molto complessa. Per parlare di esso bisogna avere chiaro tutto ciò che concerne le Misure, di cui fa parte il concetto Distanza, una parola che identifica la gestione dello spazio sia vuoto che pieno tra due e più elementi che possono essere: 1) Confini 2) Fabbricati 3) Infrastrutture

27


I confini sono fondamentalmente invisibili. È vero che si possono trovare nelle realtà in forma fisica, come una recinzione, un cambio di pavimentazione o di quota, ma la definizione di confine si trova non tanto nella realtà, che rischia di essere fuorviante, ma nelle cartografie, che si può manifestare come un confine di un comune, una proprietà privata o pubblica; quest’ultimo confine, pubblicoprivato, per noi scontato, non lo è per situazioni soggette a forme di comunismo estremo oppure di anarchia. A livello normativo c’è uno sbilanciamento verso il pubblico, essendo luogo più importante rispetto a quello privato. Ci può essere il confine privato-privato, che è cambiato nel corso del tempo, come nel caso di Milano in cui in passato non era equo, mentre oggi la distanza tra il confine è imputabile per metà a un privato e per metà all’altro; prima il primo che costruiva obbligava tutti gli altri, che sarebbero arrivati successivamente, a stare più distanti. Quindi, bisogna stare molto attenti a localizzare bene i confini, che non sempre si individuano facilmente come con le recinzioni, come spesso accade in aperta campagna. Distanza tra fabbricati. Un edificio è un fabbricato, ma non tutti i fabbricati sono edifici. Si intende ciò che è fabbricato dall’uomo, come una recinzione. A differenza di un edificio, che è perimetrato, il fabbricato può essere un elemento aperto. Le normative differenziano ciò che è edificio con ciò che non lo è. Per esempio, un muro cieco di confine, se fa parte di una costruzione, allora è un edificio; se è soltanto una rimanenza (come una facciata con contrafforti), sviluppata in maniera bidimensionale, allora possiede tutt’altro significato. La distanza dalle infrastrutture. Mentre i fabbricati sono strutture, le infrastrutture stanno in mezzo ad esse, come strade e fiumi. Possono essere infrastrutture di viabilità e trasporto, per il trasporto di persone, autostrade e ferrovie, per il trasporto di energia, un elettrodotto e per altri trasporti come fognature. Ci sono i terminali delle infrastrutture come aeroporti, scali ferroviari, ecc… Ognuna generà una distanza che dobbiamo rispettare anche se le infrastrutture no vengono individuate facilmente attraverso rilievi, come nel caso di un gasdotto, talvolta difficile da localizzare, ma da cui bisogna distare 11 metri. Possono essere, poi, ipogee, come la metropolitana e quindi invisibili (ad esclusione dei camini di ventilazione). Anche gli edifici generano distanze da rispettare, come la distanza da una facciata più o meno vetrata, da aggetti, come gronde, distanza dalle finestre. L’importate è capire da dove prendere le misure: se si parla del trasporto su rotaia, per esempio, dobbiamo prendere la distanza dall’asse dei binari oppure dal ciglio delle banchine? Un caso particolare può essere rappresentato dalle autostrade, in cui si devono considerare le distanze tra i confini dei terreni di proprietà delle società che gestiscono l’infrastruttura, che si trova in essi; quindi, anche se si rimane nell’ambito delle infrastrutture, si parla di distanze tra confini. È un sistema multistrato, multilayers, composto da elementi semplici. Gli scheets, che sono sistemi multilayers per la gestione dello spazio dal punto di vista normativo, diventano indispensabili per la progettazione. Ci danno più informazioni su un determinato luogo, sono database verticali grafici. PGT di Milano è un sistema scheet multilayers, formati da vincoli del verde, delle infrastrutture e anche dei beni culturali, ecc…Questi non impediscono di costruire ma ti obbligano a cambiare il modo di procedere. I vari aspetti di questo sistema, dal gestionale del progetto al tecnico delle distanze, convogliano nella creazione di spazi che poi devono essere gestiti e soprattutto pensati. Viviamo in un ambiente diviso tra pubblico e privato, non solo a livello di proprietà. Quindi, abbiamo spazi che diventano luoghi che si distinguono in queste quattro categorie: 1) 2) 3) 4)

Pubblici Semi-pubblici Privati Semi-privati

Innanzi tutto questa è una classificazione e una gerarchizzazione dello spazio che non fa riferimento specificatamente a concetto di proprietà, ma di uso, quindi meramente progettuale. Per esempio Seagram Building a New York ha creato una piazza pubblica però su suolo privato, per cui certe volte c’è differenziazione. Un servizio può essere pubblico però in proprietà privata, o viceversa, per esempio il luogo in cui ci troviamo (l’università) è di concessione semipubblica però come uso alla fine è privato. Come dicevo prima la commissione d’uso e quello che si fa in questo luogo fanno sì che alla fine solo determinate utenze siano spinte ad usufruire di questo spazio, che è stato pensato e progettato.

28


Uno spazio privato può essere per esempio lo spazio condominiale di una residenza, che è comune ma a dei privati. Come persone che usufruiscono di spazi privati e pubblici possiamo di che ci sono comportamenti diversi verso l’estraneo a seconda del luogo, pubblico o privato, in cui lo si incontra. Dal punto di vista dell’architetto che progetta uno spazio è necessario pensare a cosa possa succedere in quel luogo. Il condizionale è d’obbligo perché il progettista può solo pensare a quello che può accadere in un luogo sapendo che poi ci saranno dei soggetti che andranno ad usufruire questo spazio in modo diverso. Negli spazi pubblici indistinti l’uso e l’utenza può variare da un giorno all’altro, quindi bisogna essere bravi a lavorare non solo con il vuoto ma anche con l’elasticità. In conclusione il mio scopo è stimolarvi nel fatto che l’architettura è un’arte-scienza, per cui ricordatevi che è imprescindibile tutto ciò che è scientifico perché altrimenti non riuscirete mai da applicare la vostra arte. Questa può rimanere incompiuta e onirica, o peggio ancora create un progetto che però non funziona o dal punto di vista costruttivo o da quello tecnologico, e in questo caso alla fine forse è meglio rimanere nell’onirico. Ma, al contrario, se vi limitate alla parte meramente tecnica mancherà di anima e magari non verrà amato, perché poi gli spazi devono anche creare senso di appartenenza. Quindi abituatevi anche ad entrare nella sfera emotiva, e nel momento in cui, questo lo dico anche dal punto di vista professionale, riuscite a colpire al cuore il vostro utente potete anche commettere delle marachelle perché sicuramente verrete comunque apprezzati. Per cui, mi sento di dire tanto tecnicismo, tante burocrazie, tanta normativa, ma un po’ di polverina magica è fondamentale per poi cucinare il tutto.

29


Seagram building, New York (www.wikipedia.it)

30


Quanto influiscono nella nostra progettazione la storia e la cultura di un territorio?

Direi tanto anche se magari in modo subliminale. Mangiare e nutrirsi di cultura è esattamente come mangiare cibo. Nel senso che se io mangio bene e in modo salutare e poi vado a fare sport vedo soltanto l’energia che quella mela mi ha dato ma non penso più alla mela, al pesce però resta il concetto che io sto fruendo dell’energia che quello che ho mangiato mi ha fornito. Se mangio male, corro male. Anche se non ce ne rendiamo conto, e a volte è anche meglio non rendersene conto, è bene conoscere la storia e l’intorno culturale anche più ampio e non solo quello del progetto ma preferisco che quando si prende la matita o il mouse non si faccia esplicito riferimento a quel dato architetto perché dal momento che io conosco, anche se non volessi, io sto già fruendo di quella mia conoscenza per cui la copia e incolla anche con qualche variante può anche non essere dichiarata. Io preferisco quindi quando c’è sapienza dell’interazione e un rispetto ma non troppa riverenza verso i grandi architetti della storia. Bisogna conoscerli e collocarli bene nella storia. Quindi la risposta è sì ma in modo soft.

Più nello specifico, quanto prendere in considerazione il passato per prospettarsi al futuro? Quanto si ci può staccare de ciò che è già presente su un territorio senza essere incoerenti?

Dovreste leggere un micro-testo di Koolhaas che parla di “Fuck the contest”. Io faccio un altro esempio di interazione personale. Nel momento in cui io mando a quel paese una persona, la sto tenendo in considerazione quasi come se l’amassi. La cosa peggiore è l’indifferenza. Se proprio si vuole umiliare qualcuno basta credere che non esista. Quello è l’approccio sbagliato con il contesto. Poi se mandarlo a quel paese e in modo ironico e di evoluzione culturale visto che bisogna negare per andare avanti poiché se si ha questo timore reverenziale di modificare quello che hanno fatto i grandi architetti, non si progredisce più. Per cui se si ha un progetto che tende all’incoerenza, non all’indifferenza attenzione, bisogna fare più attenzione ma è pur sempre vero che se si rischia, la posta in gioco è più alta e quindi anche il risultato finale potrebbe essere più alto. Se ad esempio in Formula 1 ci do dentro in curva o mi schianto o faccio la pole position. Se invece vado via tranquillo sono a metà schieramento e non passerò alla storia né perché sono un campione né perché mi sono schiantato. “La potenza è nulla senza controllo”. Quindi personalmente vi spingo di più ad una saggia incoerenza per poi magari farvi arretrare piuttosto che farvi andare troppo piano. In conclusione, in risposta alla domanda, mi sento di dire “una sapiente incoerenza”.

Nella progettazione, quanta importanza hanno le tecnologie? E in quale momento progettuale si collocano?

Non passano in secondo piano poiché parliamo di una condizione necessaria ma non sufficiente e che quindi è importantissima poiché se una persona non sa costruire passa a fare il teorico dell’architettura o a disegnare utopie specializzandosi nella ricerca linguistica ma di certo non costruisce. La seconda parte della tua domanda genera qualcosa di veramente interessante: “in un primo momento o in un secondo momento?”. Questo dipende da che linguaggio architettonico sono avvezzo. E’ normale e ovvio che dalla mia soluzione tecnologica scaturisca poi il progetto perché infatti ad esempio Renzo Piano è conosciuto e verrà portato alla storia come grande tecnologo, come anche Foster e tutti coloro i quali hanno dato vita al movimento hi-tech. E’ ovvio che non posso prima progettare e poi ricercare una soluzione tecnologica poiché questa in sé per sé è linguaggio. Invece poi, qui lo dico e qui lo nego, ci sono altri progetti che possono ritardare di poco l’approfondimento esecutivo tecnologico e costruttivo. Ad esempio se sono un minimalista e so che voglio arrivare a costruire un cubo bianco opaco e so anche che in quella fase concettuale in qualche modo poi troverò la soluzione tecnologica per far sì che sia strutturalmente corretto. Per cui non c’è una risposta univoca alla tua domanda però voglio chiarire bene che se pensiamo di essere progettisti e quindi concreti per arrivare poi alla fase di cantierizzazione, la fase tecnologica è molto importante. Oggi, scomodando il concetto di BIM, Building Information Modeling, anche questo ha un pregio e un difetto. Il pregio è quello di incrociare in multilayer tutti gli strumenti della progettazione; il difetto invece è quello di pensare il progetto tutto in una fase unica e quindi dedicata maggiormente alla fase concettuale del progetto e quindi più creativa. Quindi secondo me il BIM è un attimo strumento di verifica ma un po’ pericoloso se si intende progettare e creare col BIM. Anche perché poi in Italia al singolo progettista viene richiesta una conoscenza trasversale su tutto. Invece ci sono molti architetti che per scelta sono solo Concept Designer, per cui loro concepiscono il progetto di massima. Hanno magari la direzione artistica perché poi ci sono società ingegneristiche che si occupano dell’ingegnerizzazione del progetto e quindi di trasferire alla realtà la concezione culturale del progettista. Questa è però un’arma a doppio taglio: da un lato si ci occupa solo della parte “bella” o comunque più soddisfacente del lavoro ma poi si rischia che se queste società, che spesso vengono estromesse, non riescono a controllare al meglio il lavoro, si ottiene un risultato totalmente diverso tra il concept, i rendere e i disegni rispetto al fabbricato costruito. Anche perché spesso si ignora ciò che è l’idea del concept designer e quindi la si interpreta in modo diverso.

31


Le normative e i regolamenti sempre più restrittivi, quanto limitano e quanto aiutano la creatività del progettista?

Vi rispondo con un’immagine:

BIG Architects, Tojhus Mixed-Use, Copenaghen (www.big.dk/#projects)

Quest’opera è dei BIG. E’ pacifico che le norme tecniche e la burocrazia limitano ma è anche vero che certe volte, e questo progetto lo spiega molto bene, creano qualcosa di diverso. Infatti quest’opera non è pensata nella sua morfologia ma è il prodotto delle normative con le relative distanze, piani di 60°, ecc… questo per dirvi che si, spesso e volentieri ci sono dei vincoli come in questo caso in cui il fabbricato è morfologicamente la sagoma massima costruibile. Le normative quindi si, spesso sono delle vere rotture di scatole e l’architetto o il progettista vorrebbero spaziare senza limiti ma altre volte fanno la differenza. Questo concetto si può quindi racchiudere sotto questa affermazione: “di necessità virtù”. La differenza la si vede anche tra l’operare su un foglio bianco rispetto ad un foglio con dei limiti che vincolano ma che spesso possono essere anche delle idee, un po’ come il neo di Marilyn Monroe.

La progettazione architettonica e quella urbana: dove finisce una e inizia l’altra? Come si relazionano tra di loro?

Sappiamo che lei ha viaggiato molto e ci chiedevamo visto che lei è sempre stato a contatto con varie realtà del mondo, quale cultura l’avesse colpita di più e cosa l’ha spinta a venire qui a lavorare?

Per prima cosa ti correggo su questa definizione, hai parlato di progettazione urbanistica e architettonica. L'urbanistica per proprietà di ampiezza non si può progettare ma si pianifica. Progettare vuol dire prendere decisioni che ci si augura vengano attuate, mentre pianificare vuol dire programmare. Una città non si progetta ma si pianifica. Forse intendevi progettazione urbana, cioè progettazione di massima dell'intorno di interesse che non sempre è ben specifico. Ogni organismo ha uno spazio di pertinenza che cambia in base al rapporto, lo stesso vale per il fabbricato. Non c'è una regola precisa per sapere dove finisce la sua forza e la sua pertinenza. Bisogna ragionare da dove e cosa vedo dal mio fabbricato. Se io progetto degli uffici ci sono degli utenti ristetti che ne usufruiscono, però ho degli utenti della città percettivi che sono numericamente molto di più, che fruiscono della percezione di quello che ho creato per un tempo minore, ma hanno comunque la loro importanza, che magari odiano il tuo edificio o te progettista perché non gli piace il tuo fabbricato. Anche la gerarchizzazione degli utenti è importante per capire dove finisce l'area di influenza. Bisogna capire quali sono le scale di intervento, cioè quelle territoriale, urbanistica, urbana architettonica e design.

Ho viaggiato molto ma vi consiglio di viaggiare tanto perché per il nostro lavoro è importante. Non bisogna fare l’architetto o il progettista ma bisogna esserlo, la soglia è labile ma anche nei viaggi di divertimento posso ampliare le mie conoscenze. Ricordo un professore del Politecnico che non mi bocciò e mi disse: non le registro il voto, visto che va in Finlandia torni qui a settembre e parleremo dell’edificio di Alvar Aalto. Così mi costrinse a girare e visitare le architetture rivedendole con occhi diversi. Dopo che inizi a viaggiare è difficile tornare indietro; si inizia a guardare attraverso i muri, a toccare le pareti o i pavimenti, a cercare di entrare in luoghi privati, andare in luoghi pericoli perché come dei medici vogliamo andare dove c’è la malattia per cercare di risolvere la situazione.

32


Recentemente Lei ha progettato un Loft verticale che si sviluppa su 7 piani, a Milano. Leggendo un articolo di Repubblica su di esso, mi ha interessato un dettaglio dove c’è scritto che lei si è ispirato all’architettura Giapponese. Questo interesse è dovuto solamente a una esigenza funzionale oppure c’è qualche altro motivo?

Ho visitato il Giappone e mi ha molto affascinato ma non tanto per la loro architettura in primis, ma per la loro sfera intima, partendo dal presupposto che personalmente mi piacciono molti stili dell’architettura contemporanea, da quella Olandese a quella Svizzera. Quando si cerca di creare un Luogo, cerchi di ricreare quello che sta nella tua mente, che è influenzato da ciò che hai visto e visitato. In Giappone la verticalità è molto sentita, per il fatto che hanno poco suolo disponibile. Al di là del linguaggio architettonico, la genialità dei Giapponesi sta proprio nel creare interazioni verticali per necessità. Quindi la risposta è sì. Un fattore importante in quel progetto è stato il mettere in relazione le verticalità. In particolare, visto l’elevato numero di piani, si è deciso di non creare una scala unica, che sarebbe stata poco interessante dal punto di vista spaziale-prospettico; quindi si è deciso di optare per una non-separazione tra percorso verticale e orizzontale, le scale cambiano in continuo la propria posizione che, in un progetto così piccolo, diventa un effetto di notevole importanza. I confini spaziali si dilatano visto che mentre si sale si cambia di posizione, perciò non si ha quasi la sensazione di muoversi. Quindi è volutamente labirintico, in cui la chiave di lettura la possiedi solo tu (l’architetto), e che quindi rapisci e, successivamente, disorienti l’utente che diventa tuo prigioniero. Si è giocato sul fatto di prendere in considerazione un utente di stato d’animo e non solo di fruizione.

33


Arch. Luca Salamoiargli

Nomi dei relatori: Camisasca Marco, Forastiero Dario, Gaffuri Simone, Miniero Mariarosaria, Chen Xueying, Costa Luca, Cataldi Camilla, Donati Simone, Rossotti Giulia

34


35


Paolo Danelli

Lecco 12/04/2016. Costruire nella cittĂ

36


Pierpaolo Danelli è nato a Milano il 28 06 1963. Si è laureato nel 1989 in Architettura presso il Politecnico di Milano. Dopo aver collaborato alcuni anni con il Centro DA, nel 1992 ha fondato insieme ad Elena Sacco lo studio di progettazione Dap studio. In questo incontro presenta tre progetti architettonici affrontati dal suo studio che considera particolarmente esemplificativi per esprimere il proprio approccio all’architettura: la biblioteca civica Elsa Morante a Lonate Ceppino, il centro culturale Roberto Gritti di Ranica e una residenza per brevi periodi a Milano.

La biblioteca Elsa Morante è un piccolo edificio nel centro storico del paese, che colma il vuoto formato dalla mancanza di una piazza al centro del sito.II progetto tratta un restauro di una chiesa soggetta a vincolo paesaggistico, in quanto la struttura è vecchia di almeno 50 anni. Abbandonata e degradata in maniera non indifferente, la chiesa rimane zoppa del campanile.Nonostante il degrado, la facciata presenta alcuni pregi; la scritta “oratorio per maschi” posta all’ingresso della struttura identifica l’edificio.

Biblioteca Elsa Morante, Lonate ceppino (Varese), DapStudio (www.dapstudio.com)

Schema compositivo e funzionale dopo il restauro della biblioteca e annessi. (www.dapstudio.com)

L’operazione affidata a Dap-Studio è una messa a norma e il contesto è stato fondamentale per delineare il progetto. La linea guida seguita dai progettisti racchiudeva l’idea che “ciò che si mette deve necessariamente essere migliore di ciò che si toglie”.Dopo una valutazione preliminare della zona si è riscontrato che gli edifici confinanti sono tutti appartenenti a entità pubbliche, dunque vi è stato possibile modificare le recinzioni limitrofe; tutto ciò con l’obiettivo di esaltare e valorizzare l’edificio di progetto aggiungendo gli elementi necessari.La peculiarità di questo progetto è la reversibilità di se stesso, in quanto la parte aggiunta può essere demolita senza perdere l’identità dell’ edificio storico. Il processo ideativo si basa su un accurato allineamento dei prospetti e dei riferimenti esistenti. Esistono proporzioni ricorrenti e fisse, che richiamano i flussi.La porta della chiesa è di vetro non apribile: ciò permette di collegare l’esterno con l’interno; l’ingresso principale infatti è stato posto sul lato del nuovo edificio.L’edificio in oggetto è di piccole dimensioni, e per questo motivo si è deciso di tenere la biblioteca al piano terra, insieme alla zona reference, alla zona lettura e pc e ai servizi igienici. I collegamenti verticali sono situati nel nuovo edificio.Al secondo piano vi è la zona conferenze con le relative sale, mentre all’ingresso è stato posto un tetto di vetro che lascia trapelare la luce del sole irraggiando naturalmente l’area, lasciando il cielo e la luce come protagonisti dell’edificio e richiamando la funzione primitiva e spirituale dell’edificio.

37


Schema compositivo di rivestimento e di facciate. (www.dapstudio.com)

Il budget molto ridotto, com’ è consuetudine negli appalti pubblici, ha vincolato la scelta de materiali a forme semplici e misure standarizzate, ottimizzando gli sprechi e massimizzando la resa finale.Un piccolo accorgimento molto importante dovuto a una continua ripetizione di forme su superfici estese è stato quello di introdurre piccole imperfezioni, ovvero elementi fuori misura e non ripetibili, unici, che permettano al visitatore di cogliere immediatamente la perfezione e la modularità dell’opera grazie a un elemento di disturbo presente sulla superficie. Allo stesso modo sono stati inseriti dei fori di diverso diametro nel rivestimento, progettati specificatamente per quell’area, così da avere la stessa percezione di perfezione dovuta a un elemento d’interferenza nella linearità della superficie.Sempre dovuto al budget ridotto si è dovuto progettare una divisione interna e ideare un abaco di materiali conforme ai fondi disponibili, ecco quindi che la scelta è ricaduta strategicamente su forme di 3 dimensioni principali per progettare quasi tutto lo spazio interno, come le scaffalature.

38


CENTRO CULTURALE ROBERTO GRITTI

Secondo progetto: centro culturale a Ranica, piccolo paese della Val Seriana, il sistema bibliotecario della valle è efficiente e questo paese aveva bisogno di una biblioteca che rappresentasse il fulcro di questo sistema.

Centro culturale Roberto Gritti 2010, Ranica (BG) (Dap Studio)

L'edificio si trova in un'area di completamento, ovvero in una zona di passaggio fra il centro storico e la zona d'espansione della città. Lo studio ha capito che il progetto non poteva fermarsi alla sola richiesta della committenza (amministrazione) ma che doveva essere una zona di collegamento fra le due parti della città. La sagoma esterna dialoga con gli edifici industriali mentre l'interno dialoga con il tessuto urbano consolidato. L'area di progetto era un vuoto vero e proprio circondato dalle recinzioni delle case attorno, senza una vera e propria strada di accesso. Con questo intervento si è riusciti nell'intento di creare un luogo dinamico e attivo, a tal punto che i residenti in zona hanno costruito l'accesso alle proprietà dall'area di progetto.

Area di progetto Dap Studio 2010, Ranica (BG) (Dap Studio)

Abbiamo trovato che c’era la, possibilità lungo questo asse dell’edificio a “C”, di generare una nuova stradina con le quali abbiamo raddoppiato, anzi, triplicato le relazioni tra quello che era il mondo a sud di quello a nord, prima del progetto e dopo il progetto, quindi sono diventate tre. In più abbiamo generato dei nuovi collegamenti in senso trasversale, difatti abbiamo generato una sorta di griglia nuova. Gli obbiettivi: la nuova strada si affaccia su dei luoghi degradati, e attraverso questa speravamo che le facciate subissero una nuova riqualificazione. Quindi, la gente passa e vede un nuovo fronte. La sagoma interna dell’edificio racconta e prende le dimensioni dei capannoni industriali, le corti interne riprendono le proporzioni e le dimensioni degli edifici storici; quindi all’interno di una grande scatola ci sono i valori formali di entrambe. I nuovi percorsi: quattro. I colori sono frutto di un compromesso: noi volevamo lavorare con delle piccole alterazioni nei punti in cui si venivano a generare gli accessi all’edificio stesso. Quindi si vede questa grande linea astratta che dialoga con la curva, morbida e leggera, del parcheggio; l’elemento rigido del nuovo edificio dialoga con lo skyline delle colline. In qualche modo la nostra idea

39


era quella di fare un edificio molto lungo e basso che si mette in relazione con questo contrasto che enfatizza la morbidezza della natura circostante, come se fosse un elemento totemico e, nello stesso momento, la sua compostezza e rigidità dialogano con il paesaggio antropico e scomposto dell’architettura spontanea del luogo, e in qualche modo la enfatizza. Quindi quello che era il nostro progetto è diventato anche un progetto di paesaggio e di luoghi, piazze e percorsi. Tra un muro e la strada è stato fatto una sorta di vassoio che in qualche modo ha sollevato ed enfatizzato l’architettura spontanea del comune, poiché l’ha sollevata, l’ha nobilitata, l’ha posta su un piedistallo. Il piano terra è più piccolo rispetto al piano primo e ha tutto un percorso coperto con uno sbalzo di circa cinque metri. Nel programma sono importanti le relazioni tra un’attività e l’altra; uno spazio a doppia altezza taglia in due l’edificio creando un percorso, alla cui sinistra è situata la biblioteca con un patio.

Paolo Danelli Dap Studio Ph: Galbiati Giuseppe

La sagoma esterna dialoga con gli edifici industriali, i piccoli rettangolini dialogano con il tessuto urbano esistente. Abbiamo trovato un luogo dignitoso, interessante, con il castello, un centro civico con una bocciofila e la nostra area di progetto con i retri delle case che si affacciavano nella zona di intervento. L’area era completamente recintata, un vuoto irraggiungibile. Dalla strada si vede chiaramente l’area e i profili delle colline, poi Prealpi bergamasche. Tutte le case che si affacciano sul terreno agli inizi dei lavori avevano recinzioni con appoggiati pollai, box: situazioni poco qualificate. L’obiettivo è stato quello di innescare un meccanismo virtuoso dei privati. Far si che loro riqualificassero le facciate, grazie al nostro progetto. Questo era uno degli obbiettivi del lavoro, oltre che il soddisfacimento del committente. Il paesaggio è interessante e il volume genera una sua alterazione. C’è la responsabilità di togliere la vista a qualcuno, che da qualcuno verrà criticato, ma che deve essere abbastanza forte per creare un paesaggio che sia un misto tra paesaggio naturale e paesaggio antropico. Si è quindi allargata l’area di intervento e l’area di influenza sul circondato. Si è voluto determinare un sistema di flussi. Nella mappa dei percorsi viabili originari si nota un vuoto, relazioni dettate da piccoli strade insufficienti. Si è costruita una nuova strada. La vecchia strada è diventa esclusivamente carrabile e si è creata un’alternativa con una nuova strada pedonale. Andando dall’altra parte del percorso abbiamo un asilo nido, abbiamo i parchi dell’asilo, che sono dei giardini privati delle singole aule all’interno dell’asilo e quindi sono dei luoghi protetti, abbiamo un bar che è in un punto di cerniera tra la biblioteca, l’asilo e lo spazio del giardino pubblico in maniera tale che diventa quasi una porta di ingresso. Attraverso il bar, che esce dal perimetro, noi possiamo entrare nella biblioteca. Al piano sopra invece a sinistra abbiamo ancora la biblioteca con le varie attività e l’aula corsi, a destra abbiamo una sala conferenza per un centinaio di persone, una scuola di danza e una scuola di teatro. Un altro lavoro che facciamo quando progettiamo è capire per riuscire a dimensionare gli spazi e per riuscire a capire dove collocarli uno con l’altro è intuire dove sarà il loro utilizzo all’interno del tempo. Questi simbolini rossi che vedete vogliono simboleggiare le persone che stanno andando in un luogo in una determinata fascia oraria della giornata, quindi voi vedete che alle 8 del mattino nella biblioteca ci sono solo gli inservienti e che praticamente è inutilizzata, tutti arrivano a far colazione e portano i bambini

40


a scuola quindi c’è grande fermento; alle 11 del mattino il bar è meno denso, nell’asilo ci sono tutti i bambini e la biblioteca è diventata più viva però il sopra inizia ad avere un po’ di persone ma non così tante come potrebbe essere dopo le sei o dopo le otto di sera. Lo spettro su cui ragioniamo va dalle otto fino a mezzanotte che è quello dell’utilizzo del centro concordato con il comune. Noi ci immaginavamo un edificio estremamente astratto, per noi doveva essere una facciata di u-glass o policarbonato ed è stato utilizzato il policarbonato bianco con dei punti di ingresso con un bianco che diventava leggermente azzurro, rosso o blu; in realtà i colori sono stati scelti poi da chi ha fatto la direzione lavori e quindi ha un po’ alterato questa cosa ma non era così importante. Molto importante per noi è il percorso di sicurezza che serve nell’auditorium; noi non volevamo una scala ma volevamo una strada e quindi abbiamo fatto una rampa inclinata sempre per il discorso del tema dei flussi e per formalizzare in qualche modo l’elemento tecnologico. Questa è stata la prima foto che è stata fatta all’apertura della strada e in realtà è successo che quando hanno visto che stavano realizzando una strada i proprietari degli edifici adiacenti hanno cominciato a chiedere di poter aprire degli accessi pedonali e carrabili sulla nostra strada e quindi hanno iniziato a trasformare quelli che erano dei retri per loro in fronti e per noi è stato il successo migliore del nostro progetto, poi non è importante se è bello o brutto, c’è a chi piace e a chi non piace, ma questo è stato l’appropriarsi di un luogo e quindi il nostro progetto è diventato un progetto estremamente corretto. Anche nella facciata noi lavoriamo sempre con il paesaggio, vedete che il materiale come nel progetto precedente è lucido e cambia di colore in base alle condizioni della luce riflettendo l’ambiente che c’è intorno ed in particolare l’ombra delle colline vicine. Un edificio così semplice ha dietro una complessità costruttiva pazzesca, immaginatevi che questi cinque metri di sbalzo (che poi diventano dieci) con facciata in policarbonato sono sostenuti esclusivamente da una trave parete alta quattro metri. Quando noi progettiamo i budget sono ridottissimi quindi noi dobbiamo andare a determinare dove spenderli, quindi abbiamo dei punti che costano tantissimo come la trave che regge la facciata in policarbonato e dei punti che hanno costo irrisorio. Da fuori quando mi avvicino non mi rendo conto della ricchezza che c'è dentro ma che da un elemento astratto, da una linea che pare che dietro ci sia un edificio, ritrovo il cielo, quindi ricorre sempre il tema della natura; da dentro ho la stessa percezione. RESIDENZA PER BREVI PERIODI

Residenza per brevi periodi 2012, Milano (Dap Studio)

Il tema è quello della trasformazione: un edificio della fine degli anni trenta, costruito in una zona considerata di villeggiatura per i milanesi: Lambrate, Città Studi. Dalla mappa del 1919 si può notare come ci fosse una zona completamente agricola con dei laghetti, e la casa affacciava su uno di questi. I proprietari possedevano tuti i terreni circostanti; nel tempo ne hanno venduto pezzo per pezzo fino ad arrivare al lotto rimanente, un poligono irregolare molto stretto sul lato della strada che si allarga verso l’edificio.

41


Queste sono le foto di com’era l’area, e queste quelle dell’edificio che ci siamo trovati davanti: un edificio che aveva già subito almeno tre interventi: tutte superfettazioni una sull’altra. Ma nel frattempo, in modo poco lungimirante, avevano fatto costruire negli anni settanta, una serie di edifici talmente vicini che non esistevano più i dieci metri di distanza previsti dal regolamento. Quindi si vedono scale, scarichi dei bagni, canne fumarie, come fossero delle vene dell’edificio.

Concept Dap Studio 2012, Milano (Dap Studio)

Abbiamo quindi fatto un lavoro di pulizia. Nella colonna di sinistra sono rappresentate le fasi di ‘pulizia’ dell’edificio: abbiamo evidenziato tutti gli elementi che dovevano essere tolti; le scale, la copertura, le finestre, per tornare alla forma originale dell’edificio. Era irrecuperabile, non era nostra intenzione ridargli quella stessa forma, ma siamo voluti tornare all’origine stessa dell’edificio. Da qui abbiamo cominciato a ragionare, sulla base delle nuove esigenze, alla nuova idea di progetto. In origine c’erano tre appartamenti e due garage. Questi ultimi al piano terra, un appartamento al primo piano e due appartamenti al secondo piano e al sottotetto; i proprietari volevano creare una casa per affitti brevi (studenti, …) con nove appartamenti e dei garage. Siamo riusciti ad ampliare l’edificio tenendo conto delle normative del comune di Milano, ma ogni azione che andavamo a fare si intersecava con i regolamenti comunali, in maniera particolare con quello relativo alle distanze: i dieci metri non ci sono più. Abbiamo deciso dunque, come prima azione, di ‘sprofondare’ il suolo e di creare un parcheggio sotterraneo. Seconda azione: prendiamo il pavimento dell’ultimo piano e lo estrudiamo verso l’alto per determinare il nuovo volume. Terza azione: un nuovo vano scala, posto sul retro. Qua non c’era niente da conservare, quindi abbiamo avuto un atteggiamento completamente diverso rispetto al progetto di Lonate Ceppino visto precedentemente. La quarta azione è stata quella di procedere con degli scavi per andare a mantenere il rispetto delle norme comunali relative alle distanze (dieci metri, cinque metri, …), fino ad arrivare a quella che è la forma dell’edificio. Dalle immagini si vede come lo spazio antistante la strada sia molto stretto; per questo abbiamo ipotizzato di arretrare la cancellata, creare un nuovo percorso che ricalcasse quello che c’era e abbiamo mantenuto la sagoma determinata dalla posizione delle radici degli alberi esistenti. A causa della rampa il giardino retrostante era irraggiungibile; perciò abbiamo dovuto sfondare il piano terra per consentire la relazione tra il giardino davanti e il giardino dietro, e nel frattempo fare un accesso coperto all’edificio. Tutta la zona è accomunata da delle facciate rivestite con piastrelle in ceramica. Abbiamo preso questo materiale e l’abbiamo fatto nostro in una chiave contemporanea. Le nostre piastrelle sono alte circa un metro e larghe 10-25 centimetri; gli abbiamo dato un ordine orizzontale con diversi marcapiani alti un centimetro e mezzo che risaltano nonostante

42


il piccolo spessore e da altri marcapiani secondari dati dal sistema di posa posa delle piastrelle, sempre montate per fasce orizzontali, e non sfalsate. Un altro ragionamento è stato quello di dire che tutto ciò che è rimasto allineato rispetto alle facciate del volume originale ha un colore, il grigio scuro; tutto ciò che è stato ‘scavato’, determinato dalle nostre azioni di recupero è in grigio chiaro. C’è sempre, quindi, la possibilità di distinguere tra passato e presente. In ultimo, era nostra intenzione rendere il giardino retrostante come un orto da utilizzare per gli abitanti, che per una serie di motivi, però, non è più stato realizzato.

Paolo Danelli, Dap Studio Ph: Galbiati Giuseppe

43


Abbiamo letto sul vostro sito che affiancate alla progettazione architettonica “lo sviluppo di progetti e sistemi culturali”, volevamo capire come avviene esattamente questo processo.

Nei progetti della biblioteca e del centro culturale ha messo in risalto il tema dei flussi, sia di persone che per esempio di impianti. Volevamo sapere che cosa vi ha spinti a focalizzarvi su proprio il tema del flusso.

Di base noi riteniamo che senza il contenuto non si possa fare un contenitore, quindi non vuol dire fare un programma funzionale ma capire esattamente quali sono gli obiettivi che il committente ci chiede e spesso sono obiettivi non espressi. Proprio per questo noi dobbiamo capire ad esempio per quanto riguarda la biblioteca: cos’è una biblioteca? È una biblioteca a scaffale aperto? È una biblioteca intesa come una piazza? È una biblioteca storica? Allora, prima di fare un progetto, noi progettiamo quello per cui serve il progetto quindi è un tema culturale. Inoltre noi come studio ci occupiamo di promuovere l’architettura contemporanea quindi facciamo dei progetti che spesso sono finanziati dalla Comunità Europea, dalla Regione Lombardia che hanno questo scopo. Uno degli ultimi progetti che abbiamo fatto è insegnare l’architettura contemporanea ai bambini della scuola elementare, un progetto finanziato, portato avanti, abbiamo fatto dei laboratori ai bambini di seconda e terza elementare con delle esperienze pazzesche, infatti abbiamo progettato una città con loro, sembrava di vedere una città futurista. È quello che noi facciamo come studio, settore a parte dell’architettura che poi va sempre a pari passi, quindi in realtà la propensione a fare progetti culturali la portiamo all’interno dei nostri progetti di architettura.

È sempre un problema di relazione. Io credo che il sapere non si trasmette come sta avvenendo adesso, in cui io sono alla cattedra e voi mi state ascoltando; noi crediamo che il sapere venga trasmetto in senso orizzontale e usiamo il flusso come un’occasione di aumentare i possibili scambi fra persone che frequentano quei luoghi. Non si cerca di dare una gerarchia ai percorsi per aumentare gli incontri e la conoscenza fra persone. Questa cosa funziona molto anche negli ambienti di lavoro o di studio.

La committenza pubblica, come ci ha mostrato in vari progetti, è limitata dal punto di vista economico, di contro la committenza privata non crea delle problematiche dal punto di vista delle scelte progettuali che possono essere anche delle imposizioni da parte del singolo.

Il pubblico ha il problema del budget perché spesso sbaglia a stanziare i fondi, infatti non ha le conoscenze necessarie per queste scelte. Il problema delle imposizioni è trasversale, sia nel pubblico che nel privato ci possono essere delle imposizioni. Quando noi eravamo giovani le imposizioni erano maggiori, mentre adesso con la maturità raggiunta si cerca di imporre le proprie idee; nella proposta di un progetto è fondamentale la capacità di persuasione per portare il committente a sceglierne la propria. Solo in due casi ci è capitato di non riuscire a convincere il committente e in entrambi i casi lo abbiamo perso.

Riguardo al tema dell’inserimento dell’edificio nel contesto: oltre a rapporti geometrici o basati sui materiali, esistono altri metodi per raggiungere tale obiettivo?

Non c’è un metodo in particolare. Si studia il contesto, dove si inserisce l’intervento. Ogni volta i riferimenti cambiano: materiali, il paesaggio, una strada, non c’è una regola fissa se non quella di relazionarsi con l’intorno. A ranica ci siamo relazionati con il paesaggio. Richard serra per esempio, con le sue sculture, crea elementi rigidi che vanno in contrapposizione con il contesto. Così è stato per noi a Ranica, la linea si è incastrata nel paesaggio. A milano l’elemento di forza è stato il materiale usato intorno a noi. A lonate ceppino gli allineamenti generati dalla chiesa e da una fontana al centro del paese. Sono segni che ti aiutano a riuscire a progettare e quando arrivi te ne accorgi. Quando un progetto sembra che sia sempre stato lì è perché in qualche modo rappresenta un equilibrio.

44


Secondo Lei, da un punto di vista compositivo, il processo di ricerca di una nuova modernità deve essere orientato verso una compattezza o una frammentazione spaziale?

Dipende dal progetto, noi lavoriamo molto sull’ambiguità, ad esempio avete visto il progetto del centro culturale di Ranica, non l’ho raccontato così con attenzione però è un chiaro esempio di quello che Lei mi ha chiesto; l’edificio esternamente appare compatto perché si relaziona con la città ed ha la necessità di relazionarsi con due mondi completamente diversi, mentre internamente rappresenta la metafora della città stessa, in quanto tutti gli spazi sono e determinano le funzioni. Ad esempio, la biblioteca è fatta da differenti zone lettura per adulti, bambini, e ragazzi di 1415 anni, oltre a zone tematiche riguardanti personaggi, narrativa, narrativa straniera, e zone studio aperte o chiuse e quant’altro; Questi luoghi per noi sono degli edifici, quindi il tutto presenta una grande compattezza esterna e una grande frammentazione interna. I diversi ambienti sono dunque effettivamente degli edifici proprio perché sono stati pensati come tali con delle porte, con delle soglie di attraversamento e con degli spazi pubblici quali i corridoi diventati strade e la hall una piazza. Questa complessità dell’architettura porta dunque ad uno sviluppo esternamente compatto, forte, potente ed internamente orientato alla ripresa della città storica e quindi estremamente frammentato; in qualche modo come la città medioevale. Quindi dipende molto dal progetto, noi lavoriamo sempre su questo tema dell’ambiguità, facendo coesistere in tutti i nostri progetti entrambi gli elementi.

Se non c’è un progetto vostro che vi rappresenta in particolare, magari c’è una corrente architettonica che vi ha ispirato maggiormente, in quanto all’interno dei vostri progetti si notano riferimenti a opere che spaziano dal movimento De Stijl sino ai contemporanei Herzog & De Meuron, quali possono essere a suo avviso degli spunti progettuali importanti per la crescita di noi giovani?

E’ vero, i nostri progetti raccontano anche riferimenti ad opere di maestri, ma io credo che, mentre l’arte può generare architettura, l’architettura non può generare architettura, nonostante io sia un viaggiatore da quando avevo la vostra età. Viaggiavo per andare a vedere in tutta Europa opere di architettura del movimento moderno, dei grandi architetti svizzeri, portoghesi, francesi ecc… Giravo per le mostre d’arte, andavo a Basilea dove c’era la mostra-mercato più importante del mondo, più sollecitazioni avrete dal mondo esterno e più vi arricchirete, e più avrete la possibilità di generare un bagaglio che vi servirà per progettare. Per farvi un esempio, a me interessa la scienza e osservo come le cellule si aggregano tra di loro, questo ambito mi interessa estremamente ma non si vede ancora nei nostri progetti se non nelle micro-forature delle lamiere di alcuni dettagli, amo vedere di come gli elementi deboli si aggregano tra di loro, il deserto del Sahara e del Chile sono due esempi di come questi elementi deboli si aggregano e delle forme pazzesche che essi riproducono. Osservando questi fenomeni, capirete perché molti progetti contemporanei sono fatti con facciate basate su trame esagonali o pentagonali, le cui soluzioni partono sempre da elementi naturali o comunque scientifici, ma sempre da interessi personali Un esempio di dettaglio che genera dettaglio: il primo progetto che abbiamo realizzato, una villa nel Monferrato in cui il tema cardine era quello del serramento che non sapevamo come affrontare in quanto non avevamo competenze tecniche e quelli che c’erano in produzione non ci piacevano. Allora ci siamo chiesti chi facesse i serramenti più belli nel mondo dell’architettura, erano i portoghesi con Alvaro Siza e Souto de Moura o Ferrater allora abbiamo preso la macchina e siamo andati in portogallo, per due giorni, una roba pazzesca per andare a vedere quattro finestre però abbiamo capito un mondo su questo tema e però non ha generato architettura, ha generato un dettaglio di architettura che è molto diverso.

45


Volevamo chiederle, visto che ci sono state presentate architetture con un significato compositivo forte ma in cui la dimensione sociale dell’architettura è sempre rispettato, come è possibile non mettere in secondo piano un aspetto piuttosto che un altro e progettare architetture che abbiano un’esplicita dimensione sociale e che allo stesso tempo possano essere espressione del linguaggio e delle forme personali del progettista?

Allora, io credo che fare l’architetto voglia dire trovare l’equilibrio tra ciò che c’è e ciò che ci sarà e perciò il tema delle relazioni è fondamentale. Quando progettiamo noi non siamo per forza alla ricerca di un nostro linguaggio astratto, abbiamo una nostra grammatica, una nostra cifra che si ripete in modo lineare un po’ in tutti i nostri progetti che avete visto; c’è l’astrazione, la pulizia delle forme, il sottrarre contenuto per evidenziare la ricchezza del paesaggio, però alla fine tutti i nostri progetti, indipendentemente dalle destinazioni d’uso, dialogano con il contesto, con la città. La relazione con il contesto non è qualcosa che avviene in maniera improvvisa, infatti noi prepariamo il visitatore alla percezione del progetto tramite una soglia, cioè un momento pubblico che anticipa il progetto. E’ proprio in questo momento ed in tale luogo che per noi si manifesta la dimensione sociale del progetto, nella quale il visitatore entra senza percepire una cesura tra il tessuto urbano preesistente ed il nuovo intervento.

Sede Ferretti international, Dalmine (www.divisare.com)

46


Perchè si è scelto un tema dei flussi per seguire il progetto?

Quale è il progetto manifesto che più vi rappresenta?

Quale è l’ispirazione che vi ha guidato lungo tutto il lavoro e la progettazione?

E’ sempre un problema di relazione con il contesto circostante, il flusso è di per sè uno scambio, un’interazione tra due oggetti o due soggetti. Più è ampio il flusso più ho interscambi e quindi più libertà di incontro con soggetti diversi. Se applico questo in un luogo pubblico come un lavoro, allora creo sostanzialmente un circolo e uno scambio e di idee.

Non c’è un progetto manifesto, ma sicuramente la biblioteca Elsa Morante rappresenta il progetto più razionale in termini di approccio, inoltre è il nostro punto fi forza verso nuovi clienti, dove altri hanno fallito, noi ci siamo siamo riusciti, Tutto è in continua evoluzione

L’ arte genera architettura, ma l’ architettura non genera nuova architettura. Il flusso è dato dalle passioni, interessi ed ego dell’ architetto, e questo flusso di pensierie di idee si riversa nelle opere architettoniche. L’architettura può generare dettagli sull’architettura ma è più unico che raro che la stessa architettura generi architettura.

Ph: Galbiati Giuseppe

47


Arch. Paolo Danelli

Nomi dei relatori: Antonelli Federico, Barbieri Giovanni, Belloni Samuele, Bernardi Lorenzo, Bonomi Boseggia Andrea, Caputo Federica, Consonni Matteo, D’Addario Davide, Galbiati Giuseppe, Nuzzo Emanuele, Pradella Simone, Sarra Giacomo, Tagni Paolo

Â

48


49


Vittorio Pizzigoni, Baukuh

Lecco | 15/04/2016 . Public Architecture

50


Baukuh, è uno studio associato di architettura fondato nel gennaio del 2004; eso si occupa principalmente dell’analisi e della progettazione dell’architettura pubblica ed è considerato uno degli studi più particolari e rinomati nel panorama italiano. Il relatore è Vittorio Pizzigoni, architetto laureato alla IUAV di Venezia, membro associato dello studio.

Il termine pubblico possiede una valenza molto ampia e complessa non solo per la diversa tipologia di edifici, ma anche dai diversi modi con i quali la società li può assimilare. “L’architettura si può considerare come un sapere condiviso dalla società”. Un esempio posto dal relatore prende in considerazione le opere dell’artista Giotto, le quali ci fanno ricordare il valore dell’architettura, piccoli oggetti in una prospettiva errata che servono per dare una sensazione di spazio occupato dall’uomo, questo tipo di pensiero inciderà molto sull’intera società del primo rinascimento. “Nello stesso modo in cui Dante formò la lingua italiana cosi Giotto stabilì un punto fermo che poi diventò l’inizio dello sviluppo del riuscire”

Architetture realizzate dallo studio

o Pendolo di Foucault, Padova, Italia (2006): “L’architettura pubblica non è per forza un qualcosa di grandioso o monumentale”. La struttura progettata è visivamente molto semplice e minuta. Il pendolo di Foucault fungeva da struttura delimitante, tra il passaggio del pubblico e l’oggetto esposto che era rappresentato da una sfera ruotante che riproduceva il moto terrestre. La costruzione era ubicata nel palazzo della regione di Padova, ambiente che molto spesso ospitava al suo interno una serie di fiere o di esposizioni. L’oggetto era posizionato ad uno degli angoli della grande sala del palazzo, questa disposizione era studiata appositamente per una migliore organizzazione dei restanti oggetti esposti. o Padiglione expo di Shanghai, Cina (2010): Il tema principale del concorso era rappresentare la cultura italiana attraverso i vari aspetti dell’architettura. Il gruppo scelse così di rappresentare l’arte romana, la quale presentava tutta una serie di spazi imponenti di cui però al giorno d’oggi ne rimangono solo le rovine, rappresentanti le fondamenta delle costruzioni preesistenti. L’idea progettuale presa in esame fu di utilizzare la parte alta delle strutture romane per la creazione della copertura del padiglione. La copertura era composta da una serie di volte ottenute tramite l’utilizzo di diversi progetti antichi. Il piano terra invece, veniva lasciato libero per ospitare l’esposizione che si sviluppava sotto una grande sala voltata le cui differenti altezze andavano a distinguere le varie parti della mostra. L’idea del gruppo era di realizzare la parte interna in feltro, materiale fonoassorbente per creare un ulteriore elemento architettonico dato dal senso acustico. Per mostrare la struttura nelle sue forme reali venne realizzato un plastico in gesso delle dimensioni di 2,20x2,20m che andava a ricreare la copertura. Una volta ultimata la sagoma essa venne trasportata a palazzo rosso. Esso fu realizzato per poter mostrare nella maniera più ottimale il comportamento finale della struttura e di come essa potesse comunicare con le varie installazioni future, lasciando così una memoria indelebile tutta italiana. o Casa della memoria, Milano, Italia (2015): Il concorso fu fin da subito molto inquadrato sul risultato finale dell’opera tanto da imporre, caso molto insolito, un nome ben preciso per la stessa. Per iniziare a trovare delle idee progettuali il gruppo iniziò fin da subito con il capire il significato del nome dato all’opera, ma anche di cercare esempi simili per capire la modalità migliore di progettazione. Uno degli edifici che fu preso in considerazione fu il Bornhausen a Monaco, grande struttura nella quale veniva conservato il grano (conservazione del sapere della memoria). “Si volle fin da subito dare all’edificio un carattere monumentale dallo stile importante e ricercato”. L’edificio doveva contenere degli uffici, degli spazi espositivi ed un archivio che mostravano al pubblico l’ultimo secolo segnato dai combattimenti per la libertà di Milano, inoltre la struttura doveva diventare anche la sede di alcune associazioni milanesi che conservano la memoria della conquista della libertà e della democrazia in Italia (associazione italiana vittime del terrorismo, associazione piazza fontana 12 dicembre 1969 e l’istituto nazionale di studi sul movimento di liberazione italiana). Quello che fu fin da subito chiaro agli architetti era che l’edificio doveva fondere in sé stesso sia una parte pubblica, data dal racconto della storia, sia parte privata data dagli uffici e dalle sedi delle associazioni. Molto importante doveva inoltre essere la relazione tra la struttura e la città stessa di Milano, elemento che generò non poca confusione da parte dello studio subito dopo la vittoria del concorso. L’edificio completato si presenta come un prisma a base rettangolare, all’interno lo spazio è composto da più piani edificati a corte che davano su un vano centrale bucato, rappresentante il piano terra, il quale è occupato da una grossa scala elicoidale dipinta di giallo. Essa doveva mettere in relazione la memoria rappresentata dell’archivio presente nell’edificio con il

51


visitatore, questo perché l’archivio non permetteva una consultazione diretta. L’esterno della costruzione, affacciato su un parco, doveva dialogare direttamente con la città ed i cittadini trasmettendone la memoria costudita all’interno. Essa presenta sulle facciate tutta una serie di immagini, scelte dagli architetti con la partecipazione delle associazioni coinvolte, esse rappresentano foto di civili anonimi e otto quadri rappresentanti scene della storia recente di Milano (la deportazione nei campi di concentramento, la liberazione, l’attentato di piazza Fontana, ecc.). Queste immagini furono una delle maggiori lotte contro il comune che alla fine cedette al volere degli architetti. Esse possiedono una saturazione inusuale per non incorrere nell’effetto “cartellone pubblicitario”. Lo studio pensò fin da subito ad uno stile sfocato, inspirato hai quadri di Adam Richter. Le figure infatti possiedono una qualità di indeterminatezza necessaria affinché la memoria collettiva si potesse imprimere nell’edificio attraverso un processo di riconoscimento da parte della società.

Casa della Memoria Studio Baukuh Milano 2015 (www.Divisare.com/ Baukuh-house-ofmemory)

o Hoogstraten, Belgio, concorso per la sistemazione di una scuola (2014): Il concorso prevedeva la sistemazione di una scuola affacciata su una corte avente una forma allungata poco impattante sul resto delle strutture. Più che un progetto di architettura esso può essere considerato come un progetto di urbanistica in quanto andava a modificare l’intero cortile racchiuso dagli edifici. Il gruppo decise di inserire quindi un grande portico, che andava ad unire fra loro gli ambienti esistenti con lo spazio rimanente in un’area unica, creando così un’ambiente collettivo per le diverse scuole. L’elemento inserito dallo studio era un portico, elemento semplice ed economico che non si preoccupa di passare di fronte gli edifici esistenti tagliando o ridefinendo i bordi di questo vuoto. Esso si sviluppa in tre porzioni e si basa su delle semplici colonne verdi ispirate a quelle presenti nella chiesa che sostenevano la copertura di metallo. Sotto la copertura del portico sono presenti degli spazi adibiti a diverse funzioni e ad esso si può accedere da tutte le strutture confinanti. Il complesso viene pensato per essere utilizzato da tutta la società, studenti e cittadini, integrando così momenti scolastici con momenti della vita quotidiana. Nel resto delle preesistenze i lavori sono minimi e sono pensati per la salvaguardia della storia degli edifici. o Pristina, Kosovo, New Central Mosque (2013): Edificio dalle influenza orientali adibito a moschea. Il coinvolgimento del gruppo per questa tipologia di edifici deriva dalle esperienze passate di alcuni membri dello studio. La struttura possiede un programma funzionale molto ampio composto da diversi elementi posti a strati i quali erano adibiti a diverse funzioni. L’elemento si divideva in tre livelli, partendo dal basso: - Il primo, dalla struttura circolare composto da un parcheggio ed un centro commerciale; - Il secondo, invece, si articolava su una grande piazza pubblica urbana esterna coperta dalla restante parte dell’edificio, sorretto da sei pilastri in cui erano ubicati i sistemi di risalita; - Il terzo, composto inizialmente da una struttura esagonale e verso l’apice circolare nel quale erano ubicati una scuola di religione ed una moschea con spazi distinti per le donne e per gli uomini. Un elemento particolare era lo studio dei diversi giochi di luce, esterni visibili durante la notte (creati dalle varie aperture della struttura) ed interni durante il giorno (creati attraverso una

52


serie di vetrate che portavano all’interno la luce solare). Particolare attenzione va data alla struttura vetrata posta all’apice della costruzione che fungeva sia da copertura che da soffitto delle due moschee, essa era composta da una cupola capovolta che, essendo anche essa vetrata, andava a creare un’atmosfera molto particolare.

New central Mosque Studio Baukuh Pristina 2013 (www.baukuh.eu/city/ prishtina)

o Ginevra, Svizzera, PAV Opération Les Vernets (2014): Concorso non vinto dallo studio che, come dice l’architetto Pizzigoni, forse avevano ideato inserendo di troppa volontà progettuale. Anche se il progetto non venne realizzato, è comunque considerato uno degli elaborati più interessanti creati dal gruppo. L’oggetto del concorso era molto chiaro e semplice, la cittadina infatti chiedeva di edificare tutta una serie di edifici con tipologia a corte in un isolato molto. La zona da progettare, infatti era considerata una vera e propria risorsa e fu per questo che il gruppo provò, attraverso il progetto, a restituire alla città un pezzo di essa con all’interno tutte le proprie problematiche, si decise così di non suddividere il blocco in diverse zone più piccole. Il progetto era composto da: - Una parte meridionale del lotto che ospita cinque blocchi differenziati su due dimensioni (24x60m e 48x60m). Essi sono posizionati in modo da seguire l’orientamento degli edifici preesistenti che seguono l’andamento del viale Des Acacias rafforzandone così il carattere urbano. Studiati per avere un’altezza massima di 50m, gli edifici hanno in dotazione diversi servizi come la presenza di terrazze a gradoni o di serre che vanno a creare un nuovo ambiente urbano, eterogeneo e complesso. - Le torri sono invece posizionate nella parte settentrionale del lotto, esse possiedono le dimensioni di 24x30 m con un’altezza di 70m. Il loro volume e la loro struttura erano studiati appositamente sia per creare un affaccio esclusivo per tutti gli appartamenti sia sul Salève che sulle montagne del Giura ma anche in modo che l’ombra formata da esse non vada a creare effetti negativi sugli altri edifici o sul parco. Due delle tre torri condividono una base comune adibita ad ospitare degli uffici. - La parte centrale ospita un lungo modulo che taglia l’intero lotto, andandosi a posizionare tra gli altri due moduli rimanenti. Le dimensioni sono 200m di lunghezza per 18m di larghezza e si sviluppa su 6 piani. L’edificio possiede orientamento nord- sud con affaccio panoramico sul parco. La facciata verso nord presenta una parete con doppie finestre per garantire una minima dispersione termica mentre nella facciata verso sud sono posizionate tutta una serie di balconate che vengono pensate come estensione della superficie abitabile interna. I lotti abitativi presenti all’interno dell’edificio possiedono un doppio affaccio nelle unità più grandi, mentre nelle unità più piccole presentano un solo affaccio verso sud. Inoltre nel piano terra sono ubicati un bar, un parcheggio per biciclette, dei negozi e due passaggi pubblici che collegano le due zone separate dal modulo. - Infine, un edificio dalla forma circolare che ospita una scuola materna nei primi due piani mentre nella parte interrata sono ubicati di parcheggi privati per le residenze e pubblici per i visitatori.

53


PAV Opération Les Vernets Studio Baukuh Ginevra 2014 (www.Divisare.com/ Baukuhyellowofficestefano-grazianioperation-lesvernets)

o Anversa, Belgio, Municipio (2014): Il municipio, ubicato nella città di Anversa, venne costruito tra il 1561 ed il 1564 e fu per più volte modificato, nel 1579 infatti venne ricostruito e nel 1858 venne rifatto il cortile antistante l’edificio. Gli interventi furono principalmente di due tipi, da una parte si andava a toccare l’aspetto monumentale dell’edificio, grazie alla ricostruzione o alla risistemazione della struttura, mentre dall’altra si andava a lavorare sotto un aspetto urbano tramite l’intervento nella zona limitrofa che andava ad agire sull’edificio stesso. “L’edificio non ha solo reagito alla città, ma ha anche agito come una città in miniatura stabilendo una relazione tra microcosmo e macrocosmo con il resto della città stessa”. Il problema del lotto e di conseguenza dell’edificio è che, essendo state apportate diverse modifiche sia verso l’elemento che verso l’urbanistica circostante esse risultano distaccate l’una dall’altra. L’esempio più preciso è dato dalla piazza posta a sud del municipio che, essendo creata successivamente ad esso, in seguito alla demolizione delle case a schiera preesistenti, non possiede ancora al giorno d’oggi un nome ben preciso proprio a causa di un’incertezza comune. Il gruppo quindi decise di non imporre un’identità fissa sul complesso ma di progettarlo in modo da ottenere un luogo che racchiuda in sé la tradizione e l’innovazione fornendo una configurazione spaziale che potesse corrispondere alla complessità del luogo stesso. Inoltre essi si imposero di non eliminare nessuna delle attività contenute nel vecchio edificio. “Noi non ci proponiamo di cancellare, ma solo di correggere o espandere un elemento”. Si scelse così di andare a creare un luogo che andasse a risolvere un problema edificando un elemento grande e significativo. Il passo successivo fu quello di capire quale fosse la soluzione migliore per la modifica dell’edificio, andando a tenere anche conto dell’interpretazione che si dava sia verso il singolo edificio ma anche verso l’urbanistica del luogo. Quest’interpretazione però si doveva basare su due soluzioni possibili. La prima implicava una trasformazione tipologica rigida dell’edificio, una sorta di restauro neoclassico, mentre la seconda prevedeva la creazione di un collegamento multiplo di rapporti con la città. Per decidere quale utilizzare, il gruppo si avvalse di diverse strutture di architettura antica come spunti fondamentali arrivando così ad una soluzione che prevedeva la creazione di diverse identità invece di imporre una gerarchia data dell’edificio sulle piazze circostanti. Si decise di non modificare totalmente l’architettura, mantenendo i vari passaggi interni all’edificio che andavano a comporre uno spazio aperto socialmente attivo. Tutto questo però andava a discapito della struttura interna, tenendo infatti invariati i vari spazi bisognava anche mantenere l’ingresso posizionato a sud e le tre scale interne. Si andò così a concentrarsi maggiormente sullo sviluppo della piazza esterna andando a rafforzare la struttura già esistente con l’aggiunta di un elemento. L’edificio era studiato per essere accessibile da tutti i soggetti (cittadini, politici, turisti, personale). Esso infatti avrebbe dovuto possedere una struttura mutevole per essere adibita ai vari cambiamenti di funzioni nel corso della giornata. Inoltre per i diversi utenti sono adibiti differenti accessi all’edificio, i politici potevano accedere ai propri uffici attraverso le scale poste nell’ingresso a sud, i funzionari municipali potevano entrare dall’accesso principale, i cittadini che volevano prendere parte ai dibattiti politici avevano accesso alla tribuna urbana direttamente dalla piazza a sud del comune, i carichi venivano smistati attraverso l’entrata sul lato nord ed i turisti ed i passanti potevano accedere alla struttura tramite il ristorante ubicato sulla via principale. Quello che decise di fare il gruppo fu di non alterare l’organizzazione dello spazio preesistente ma di apportare delle modifiche in modo minimo e semplice andando a riorganizzando gli spazi lavorativi. Ogni ambiente veniva il più possibile semplificato andando a restaurare gli elementi architettonici presenti, eccezione viene fatta negli uffici posti agli ultimi piani dove invece viene pensato un nuovo design. I nuovi spazi sono di comodo utilizzo e si prestano

54


facilmente ad adattarsi ai diversi utilizzi. Fisicamente lo spazio si compone su più livelli: - Nel piano interrato sono posizionate gli ambienti tecnici (la cucina, la palestra, gli spogliatoi, le docce e lo stoccaggio per le biciclette). - Nel primo piano sono contenuti, oltre ai diversi accessi, anche i servizi pubblici relativi alla piazza principale (centro urbano, info point ed un ristorante), la tribuna urbana posta di fronte alla piazza a sud del municipio e i servizi associati alla tribuna come le sale stampa e gli spazi tecnici per le proiezioni e gli spettacoli. - Nel piano nobile sono invece ubicate le lobby principali come le stanze per il consiglio e le stanze di rappresentanza. - Al primo e secondo piano sono posizionati gli uffici, mentre nell’attico sono ubicati dei reparti. L’elemento particolare del progetto era la tribuna urbana. Essa era un piccolo auditorium pubblico che poteva ospitare fino a 120 persone, posta al piano terra ed accessibile dalla piccola piazza posta a sud dell’edificio. Il modello preso in esame dal gruppo, per la realizzazione del progetto fu il teatro di Parma, il quale presentava un grande oggetto estraneo all’interno del complesso. La tribuna occupava la parte centrale dell’edifico ed era realizzata in legno. Essa era pensata come un piccolo teatro nel quale si potevano tenere discussioni politiche, conferenze stampa, piccoli spettacoli o eventi culturali. Anche se il gruppo non vinse il bando, la tribuna fu comunque un elemento molto apprezzato dalla giuria tanto che essa chiese allo studio vincente, di inserirlo all’interno del progetto successivamente messo in opera.

o Tirana, Albania, Tirana Student City (2015): L’università di Tirana era un complesso edificato da più di 50 anni, essa è composta da quasi 30 edifici e possiede una superfice totale di 250.000mq. Il complesso è ubicato su un suolo collinare con una pendenza verso sud che andava a creare un collegamento visivo diretto con i due laghi il Parku e il Madh, esso però fa parte di una realtà geografica molto più particolare formata da un ampio sistema di colline, fiumi, piccole valli e laghi che caratterizzano l’intera regione metropolitana di Durana. Il terreno sul quale si andava a sviluppare il polo universitario era molto ampio e presentava all’interno una grossa area verde. La realtà universitaria preesistente possedeva tutta una serie di grandi problemi, sia dal lato contenitivo il quale non riusciva ad ospitare un flusso di studenti adeguato pari a 10.000 di studenti in aule, dormitori o mense, ma anche dal lato dei servizi, in quanto, essendo la struttura risalente al periodo sovietico non erano presenti. Quello che il gruppo decise di fare fu quindi di creare un campus universitario, il quale andava a modificare la struttura urbana di Tirana, ispirandosi all’University of Virginia di Thomas Jefferson la cui struttura era principalmente improntata su un grande spazio pubblico aperto che dava un’idea di libertà andando a mettere in secondo piano gli edifici circostanti. L’idea era quella di demolire solo pochi edifici tra quelli presenti, come la centrale elettrica, la mensa ed altri due, mantenendo così intatte le rimanenti strutture sulle quali però furono successivamente effettuati degli studi strutturali con delle conseguenti modifiche per una maggiore sicurezza. Inoltre, si decise anche di inserire altri elementi indispensabili per la vita universitaria come alloggi per gli studenti, mense e lavanderie. Si andò a creare un programma unico per il polo che lo avrebbe trasformato in un vero e proprio ambito urbano. Il programma era suddiviso in tre elementi che prevedevano: -

-

L’apprendimento, con l’inserimento di elementi didattici come facoltà, biblioteche e centri multimediali I servizi pubblici come bar, cinema, locali, ristoranti, palestre e alberghi. Tutto ciò avrebbe garantito un continuo afflusso di popolazione andando a garantire anche una sicurezza. Il parco pensato per lo svolgersi di eventi speciali e manifestazioni.

Siccome il numero delle strutture finali era molto elevato il gruppo decise, come elemento aggiuntivo, di creare un sistema di riconoscimento visuale istantaneo il quale si serviva dell’utilizzo di diverse colorazioni per i vari edifici le quali andavano a creare un sistema di orientamento per gli studenti.

55


Tirana Student City Studio Baukuh Tirana 2015 (www.Divisare.com/B aukuh-boda-tiranacampus)

o Cairo, Egitto, Maspero (2015): La zona presa in considerazione era posizionata a nord di piazza Tarir, essa si affacciava sul fiume Nilo e presentava ad un’estremità il museo egizio. La situazione del lotto era molto confusionaria tanto da risultare distaccata dal resto della città. Al suo interno è presente una “comunità” molto densa e molto vicina al centro cittadino al quale però era difficile accedervi in quanto tra i due lotti era presente una strada molto trafficata ed impraticabile. Il progetto previsto dallo studio era quello di modificare la morfologia esistente mantenendo parte dell’urbanistica preesistente e prevedendo all’interno del masterplan edifici adibiti a tutte le fasce sociali. La proposta dello studio fu quella di ridefinire i bordi della città informale, andando ad aprire dei passaggi al suo interno per rendere l’intero costruito più visibile dall’esterno e quindi più vivibile. Si vanno così a realizzare, dove si può, dei nuovi edifici con una maglia variabile in base alle suddivisioni interne dei vari lotti. Tutto questo porta, di conseguenza, anche allo spostamento di tutti i parcheggi verso l’esterno dell’area di progetto così da renderla meno rumorosa e meno inquinata. Una questione fondamentale era però di tipo legislativo, in quanto per la realizzazione del progetto era d’obbligo l’unione di alcuni lotti presenti nel perimetro preso in considerazione. Il lavoro finale presentava quindi tre nuovi edifici alti posizionati lungo il Nilo affiancati al già preesistente albergo di lusso, ma anche tutta una serie di edifici più compatti aventi altezze differenti. Il progetto, inoltre presentava anche una struttura sopraelevata da terra la quale fungeva sia come passaggio pedonale, in quanto era posta al di sopra di una delle arterie più trafficate del Cairo, sia rappresentava un’importante ampliamento per il preesistente museo. La struttura, presentava all’apice un parco. Sfortunatamente però il progetto non fu realizzato.

Pubblicazioni e ricerche realizzate dal gruppo

Un altro vanto dello studio è la scrittura, essi reputano molto importante quest’ultima per un architetto in quanto permette sia di percepire nel modo più completo i progetti dei grandi architetti ma anche per presentare i propri elaborati. Lo studio infatti nella propria carriera ha pubblicato: - Un saggio intitolato “Due saggi sull’ l’architettura” nel quale vengono analizzati i testi di Grassi e Rossi (L’architettura della città) - Vari articoli in collaborazione con la rivista di architettura San Rocco, rivista inglese. - Il libro “100 piante” nel quale sono inserite tutta una serie di elaborati grafici di alcune architetture. - Varie ricerche tra cui la seguente, che si concentra sullo studio della popolazione egiziana presente sulle rive del fiume Nilo. o Ricerca sulla valle del Nilo: La ricerca, venne eseguita sulla valle del Nilo in quanto essa rappresenta un caso molto interessante per l’analisi di altre città europee. La valle ha inizio ad Assuan e termina a Cairo con una lunghezza pari a 900km e ospita sulle sue rive circa 26.000.000 di abitanti con una densità stimata di 2.100 persone per Kmq, tale densità è molto simile alle maggiori città come Milano (7403.02 Kmq), Los Angeles (3144.42 Kmq), Tokyo (15.000 Kmq), ecc. Nonostante la valle appaia deserta in realtà è molto popolata e la sua densità permette di considerarla una vera e propria città. Il livello di popolazione attuale è destinato però ad un drastico incremento nei prossimi decenni stimato al 1.8% l’anno. Questo aumento di popolazione porterà a tutta una serie di conseguenze nel corso degli anni, come la riduzione della quantità di terreno agricolo dovuto all’espansione dei villaggi esistenti. Difatti al giorno

56


d’oggi sono già presenti tutta una serie di leggi che cercano di contenere i danni provocati da questa espansione incontrollata sui campi a destinazione coltivabile, i quali sono ubicati esclusivamente sugli argini del Nilo. Per ovviare al problema si andarono ad edificare delle città satellite ubicate nel deserto però abitate, in quanto possiedono tutt’ora una serie di problematiche come la mancanza di finestre sugli edifici. “Un progetto è necessario per immaginare un futuro per la città del Nilo, esso deve essere fornito in fretta in quanto all’interno della valle ci sono troppi individui, troppa poca acqua e poca terra coltivabile. L’unica possibilità per la sopravvivenza della valle è quella di accettare una trasformazione inevitabile cercando di farla propria “. Questo sistema di analisi della valle si collocava all’interno di una ricerca che andava a studiare l’intera popolazione egiziana attraverso le sue problematiche reali e delle conseguenti soluzioni che avrebbero portato al risolvimento di queste. Al di là di questa ricerca, è responsabilità dell’architetto di proporre alcune soluzioni, lo studio infatti ne presenta una che va a chiarificare l’esistenza di queste città. La soluzione andava a densificare alcune zone e ne manteneva invariate altre. Tale processo è inevitabile e sicuramente accadrà in quanto le persone andranno naturalmente a popolare altri territori liberando spazio che sarà indispensabile per una migliore vivibilità della città. Il progetto, su questa immensa area, fu pensato su più scale che andavano ad influenzare tutti i servizi presenti. Ciò che il gruppo proponeva era di cercare di limitare l’edificazione della città andando a preservare la maggior parte del terreno agricolo. Si andò così ad ideare un nuovo polo che possedesse una struttura lineare che andasse ad attivare tutta una serie di altri progetti locali. La nuova cittadina sarebbe stata una combinazione di due sistemi, da una parte era posizionato il vecchio sistema di villaggi e terreni agricoli, pensato per non avere un grosso incremento nel futuro in quanto la superficie dei terreni agricoli era limitata, mentre dall’altra si va a creare un nuovo sistema di centri urbani. Questo sistema è in rapida espansione in quanto in essa sono contenute tutta una serie di infrastrutture che andranno a dare lavoro ai tanti contadini disoccupati. Il nuovo polo, inoltre sarà collegato da due principali sistemi infrastrutturali che andranno a collegare i due poli cittadini, da una parte ci sarà l’autostrada ubicata nel deserto occidentale, la quale forniva l’accesso a tutta la valle e lungo di essa si andavano a posizionare tutta una serie di impianti per l’energia solare, delle industrie e delle varie infrastrutture, dall’altra, ci sarà una ferrovia la quale collegava in maniera veloce e lineare i due poli cittadini per garantire un servizio pendolare. Il nuovo centro abitativo era nominato come El Moshah. Esso era pensato per contenere una popolazione di 15.000 persone. Il progetto del gruppo considerava un periodo di gestazione di 20 anni (con termine nel 2033) ed immaginava un potenziale di crescita finale del 25%, esso prevedeva di sviluppare un sistema urbano in grado di ospitare un’ulteriore crescita della popolazione urbana senza distruggere completamente il paesaggio. Questa ricerca fu pubblicata ed esposta sia ad Al Cairo ma anche alla biennale di Istanbul. Inoltre fu anche girato un video che conteneva delle interviste rivolte verso la cittadina egiziana, riguardanti le impressioni sul progetto e le opinioni riguardo le problematiche dell’urbanizzazione attuale.

57


Il testo fondativo di BauKuh testimonia la scelta di lavorare assieme, senza una struttura gerarchica. Qual è il miglior modo per ottimizzare il mix di competenze in un team ed il rapporto con gli altri specialisti?

Noi eravamo quasi tutti compagini di università, alcuni a Genova e altri a Venezia, anche se questo è un poco centrale alla risposta della sua domanda. Ciò che accade è che non è sempre possibile essere tutti presenti alle riunioni e in particolare nessun progetto viene portato avanti da un singolo socio. Questo perché ci è utilissimo il confronto preliminare nella fase di progettazione, per portare avanti un progetto che abbia una solida base e poter resistere poi alle critiche che necessariamente avrà. Ogni progetto, ad eccezione di quelli universitari, per essere valido deve essere accettato da tanta gente. Accettato non vuol dire che piace o non piace ma si intente che il progetto venga capito e compreso.

Ci domandavamo come fosse nata l’idea della palestra di architettura e cosa volesse comunicare con questa sua proposta.

Tutto inizio con la mia collaborazione con Giovanna Borasi la quale all’epoca era a capo della rivista “abitare”. L’idea di palestra di architettura nacque dal fatto che era presente un problema dato dalle riviste che cercavano in tutti i modi di stare al passo con la contemporaneità dell’informazione, Giovanna infatti aveva messo a punto un proprio strumento critico di approfondimento. Questo esperimento però non durò a lungo in quanto la rivista chiuse i battenti molto presto. Al giorno d’oggi quest’idea è portata avanti dalla rivista “san Rocco”, con la quale collabora il gruppo, essendo essa una rivista monografica di approfondimento su temi specifici.

Il progetto “Novecento chilometri sul Nilo” è stato pubblicato in copertina su “Domus” accompagnato da una frase: “progetti o estinzione”. Qual è la responsabilità dietro questa frase?

Qual è il significato, e da dove nasce, il nome BauKuh?

I riferimenti di questa frase sono abbastala chiari, voleva riassumere la necessità di fare progetti in queste situazioni estreme, dove si possono scoprire forme di progettualità, che in contesti più comuni come quelli europei sono più difficili da incontrare. A me personalmente non interessa andare in un paese in via di sviluppo e realizzare delle architetture di carità. Mi interessa di più imparare da queste situazioni estreme una soluzione valida ovunque. E credo che quelle situazioni nel loro estremismo sono in grado di mostrare molto meglio questo aspetto rispetto a situazioni molto più annacquate.

È una storia lunghissima, è un nome inventato, che ha qualche assonanza con “baukunst” (architettura, in tedesco). Nasce in maniera completamente casuale: ci iscrivemmo ad Europan per partecipare al concorso “10city”, ma il regolamento ci permetteva di partecipare al massimo a “2city”, quindi partecipammo a quello e vincemmo. Ci chiesero un nome e un biglietto da visita, che noi non avevamo. Durante il viaggio di ritorno da Salisburgo ad Amsterdam trovammo il nome, che all’arrivo ad Amsterdam consegnammo alla giuria. Dal nome deriva anche il logo, ovvero “Bunte Kuh, che significa mucca pezzata.

Cosa l’ha portata a specializzarsi nell’architettura del XV secolo italiano e in architettura contemporanea internazionale e quali concordanze sussistono tra i due filoni così lontani nel tempo e nello spazio?

Penso che per imparare a progettare, è necessario guardare altri edifici dal vivo, perché gli spazi si possono capire solo avendo presenti la dimensione di un edificio; non potete limitarvi allo schermo del pc o a delle viste da lontano, ma dovete guardate sempre i disegni di pianta, poiché si capiscono meglio gli spazi. Tornando alla domanda, una volta quando ci premiarono ad Europan ci chiesero quali fossero i nostri maestri e noi facemmo una lista di architetti che andava da Koohlaas a Palladio, da Vignola a Imhotep, da Apollodoro di Damasco a Mies van der Rohe. Con questo voglio dire che, per fare un edificio contemporaneo non devo studiare solo edifici contemporanei, anzi, l’architettura è tutta disponibile per poter essere riutilizzata per produrre nuova architettura. Produrre nuove architetture sulla base delle vecchie è quello che secondo me deve fare un architetto.

Abbiamo osservato che BauKuh assegna grande importanza nella

Alla fine degli anni 90 gli studi di architettura si appropriarono di segni e di tecniche che solo loro potevano riprodurre. L’architettura però non è così: per esempio, non è che la colonna corinzia è proprietà di Palladio o di Vignola, oppure Leonidov è di proprietà di Koolhaas, bisogna però sapere che se si copia Koolhaas, bisogna sapere chi è e cosa ha fatto. E’

58


presentazione dei propri elaborati progettuali. Ci domandavamo quali fossero allora le migliori scelte e strategie comunicative per illustrare al meglio le nostre idee

importante distinguere queste cose per imparare quello che è stato fatto da altri prima di noi. Per quanto riguarda la rappresentazione, noi non abbiamo mai usato render, solo in rari casi dove era strettamente necessario, ma comunque sempre in numero ridotto, e questo per lo stesso motivo che dicevo prima rispetto alle fotografie e alle piante. Preferiamo quindi usare le assonometrie: per fare un’assonometria bisogna prima sforzarsi di capire, prima di fare il disegno, bisogna pensare cosa voglio vedere. Questa è la questione fondamentale e credo che sia anche uno dei problemi della vostra generazione, ovvero la propensione a realizzare un elaborato che secondo voi è architettura bella e finita, per poi dopo scoprire da dove guardarla. Non avendola in testa, non potreste decidere cose voler vedere e cosa reputare sia importante, per poi disegnare solo quell’elemento, in modo più veloce e soprattutto più chiarificatore. L’architettura è una delle pochissime arti che non è soggetta a copyright, perché un edificio se voi lo replicate in un altro luogo, si può argomentare in modo diverso. Ma cos’è l’architettura? Architettura è il disegno che fate? Architettura è l’edificio realizzato? al momento della realizzazione o quando poi sostituisco i vetri o le viti delle porte o quando ci metto i mobili? Questa domanda è apparentemente innocua, ma in realtà è centrale e non può che essere affrontata passando attraverso tutte questi temi, per quanto non li stiamo affrontando fino in fondo. Quindi in effetti restituire un’immagine del proprio edificio è qualcosa di importante, perché non vi è una descrizione totale, neanche l’edificio stesso è la descrizione totale di quell’edificio e per questo non è possibile assoggettarlo a copyright. Come ho detto prima, fin dall’inizio abbiamo usato molto lo strumento assonometrico, ma da alcuni anni a questa parte abbiamo adottato la fotografia del modello in grande scala, per restituire quella sporcizia, quell’inesattezza, del reale, quel fatto che il reale è materico, che a volte può non essere preciso come ciò che viene restituito da un file grafico.

L’ultimo libro di BauKuh, “Due saggi sull’architettura”, si compone di due volumi sul pensiero e sulle opere di Giorgio Grassi e Aldo Rossi. Perché proprio queste due personalità?

Abbiamo scritto quel libro subito dopo la fondazione dello studio, più di 10 anni fa, poiché c’era il problema di come mettersi d’accordo, come lavorare assieme. Allora decidemmo di affrontare il pensiero teorico di Giorgio Grassi, l’architetto che secondo noi costituiva una posizione importante nell’architettura. L’architettura italiana del ‘900 era un’architettura che poteva essere scritta: le opere di Grassi sono tutte molto chiare, da indagare e scoprire. Partimmo appunto dal testo “La costruzione logica dell’architettura”, che già nel titolo costituisce una sua costruzione logica, e a noi serviva proprio questo confronto per poter capire come andare d’accordo fra di noi trovando una serie di punti fermi su cui accordarci per produrre l’architettura che volevamo produrre. L’elaborato rimase impubblicato per 3-4 anni proprio per la sua lunghezza in quanto risultava troppo lungo per essere un articolo e troppo corto per essere un libro. Successivamente, in occasione di un convegno su Rossi decidemmo di scrivere un altro saggio intitolandolo “Le promesse non mantenute dell’architettura delle città”, che suggeriamo come primo saggio da leggere dei due, nonostante sia stato scritto dopo. Nel secondo saggio è evidente che ormai avevamo trovato un accordo comune. Di fatti esso è molto più leggibile, quasi divertente, mentre l’altro è più pesante, cavilloso in molte sue parti.

Sempre in relazione al progetto “900 km sul Nilo”, come ci si relaziona con simili contesti così diversi da quelli in cui si è solito progettare?

Non lo so, non ci sono ricette uniche. Il problema è che ogni città è diversa, non credo alle ricette, ci possono essere delle impostazioni, degli atteggiamenti, ed è questo che è importante adoperare. Le ricette se adoperate ovunque sono per forza sbagliate perché come dicevo l’architettura è diversa da posto a posto. Una questione importante che si è dimenticata in questi anni e che invece era data per scontata in passato è l’analisi del conteso. Essendo voi del 94 capisco anche che l’architettura con cui siete entrati in questa facoltà è poco contestualista, appunto il famoso Koolhaas più che altro proclamava un architettura che non teneva in considerazione il contesto.

Quale consiglio darebbe a dei giovani come noi, che si affacciano per la prima volta al mondo dell’architettura e della progettazione edilizia?

Leggete e guardate tanti disegni, siete troppo poco abituati a leggere le piante. La presenza di Google image è di una dannosità che non immaginate, il fatto di guardare poche piante e guardarle ad una risoluzione ridicola come quella di un pc, non comparabile alla carta, al libro, è controproducente. Leggete e prendete i libri in biblioteca come si faceva un tempo, ridisegnate le piante a memoria. Questa attività non è più insegnata nelle facoltà. L’ architettura non è un immagine, altrimenti facevate i pittori, architettura è capire gli spazi, e da un immagine ciò non è possibile. Andate a vedere gli edifici dal vivo perché solo dopo che se ne sono visti tanti si può imparare dai disegni. Voi viaggiate troppo poco, oggi è anche più facile viaggiare, ma paradossalmente viaggiate meno. Basterebbe andare a Milano e già li potreste passarci una vita a guardare architetture. Sarebbe ottimo fare almemo 5-6 viaggi ogni anno per vedere nuove architetture. Questo è il mio unico consiglio: guardare i suggerimenti, viaggiare, guardare gli edifici, studiarne gli spazi.

59


Arch. Vittorio Pizzigoni

Nomi dei relatori: Gianoli Matteo, Simonetti Marco, Paitoni Federica, Brambilla Roberto, Marco Caiazzo, Albi Kafazi, Stefano Dell’Oro, Davide Arzuffi Andrea Giuseppe Di Stefano, Riccardo Finazzi, Fortunato Medici

60


61


Umberto Gerosa

Lecco | 20/05/2016 . Con il naso all’insÚ

62


Umberto Gerosa, 64 anni, libero profesionista con studio in Lecco, dal 1995 in associazione con F. Favaron si ocupa di interventi nel campo della progettazione architetonica con particolare riferimento al settore dell’edilizia scolasticosportiva, del recupero edilizio ed urbanístico, della tutela ambientale e della pianificazione territoriale.

Il titolo è ripreso da un testo le cui prime parole sono proprio “con il naso all’ insù”. La proposta di edificio in altezza è chiaramente un’esperienza di progettazione architettonica che ho affrontato. Partendo dal tema del grattacielo costruito sul ponte Kennedy (Lecco), ho pensato di proporre una riflessione sul significato di costruire in altezza, cioè non sarà un elenco di grattacieli o edifici alti che ci sono attualmente in questo mondo dato che ce ne sono un infimità belli o brutti che siano, e ne stanno costruendo tantissimi. Io ho cercato di capire e magari di aiutare anche voi a capire perché a un certo punto l’uomo nella storia, dagli albori fino ad oggi, decise di costruire andando in altezza; ci sono delle motivazioni di carattere umano, delle motivazioni religiose, culturali poi ci sono delle motivazioni, anzi delle possibilità, perché l’uomo man mano che andava avanti nella storia scopriva e sviluppava nuove tecnologie che gli permisero di fare determinate cose. Attualmente quello che può essere definito l’edificio più alto del mondo che è il Burj Khalifa progettato dallo studio americano Skidmore, Owings & Merrill nel 2004 che attualmente, con antenna, raggiunge 829 m di altezza e rappresenta di fatto in questo momento, fatto saldo di altri edifici che sono in corso di costruzione, l’apice, per certi aspetti, della tecnologia umana in questo senso. Il concetto del “naso all’ insù”, è fondamentalmente un invito a tutti voi ad alzare la testa, a guardare oltre e sopra di se quando si cammina in strada o in qualsiasi luogo siate, questa in teoria è una cosa logica naturale però nella routine quotidiana ci perdiamo tante cose che vanno oltre il nostro normale sguardo, in particolar modo che per chi esercita l’architettura o l’ingegneria questo deve diventare un esercizio doveroso e imprescindibile, non come esclusivamente un’esperienza didattica, ma deve essere anche legato alla sensibilità di ognuno e questo si sperimenta e si verifica nel fatto che nei vari progetti che si affrontano ci sono delle soluzioni diverse che non sono solo tecnologiche, ma rispondono a quello che ognuno è, come si ha la concezione dello spazio , come si percepiscono le cose che stanno intorno. Tenete presente che normalmente quest’osservazione dell’edificio in altezza si accoglie con effetto distorsivo, ovvero se mi pongo sotto un edificio di una certa dimensione bisogna quasi inclinare il corpo per poterlo percepire, se lo si vede da lontano si inserisce in un panorama più ampio ma invece lo si vede da vicino evidentemente bisogna fare uno sforzo e questo serve anche per capire una cosa fondamentale ovvero il rapporto tra me, la mia dimensione umana, e l’altezza. Riferendosi alla Willis Tower di Chicago, quando ci si trova ai piedi di un edificio di queste dimensioni si ha come la percezione che esso si stacchi da terra, questa è una percezione abbastanza interessante che accomuna tutti gli edifici di questa tipologia.

Riferimenti storici

Proviamo adesso a fare dei riferimenti storici, per riuscire a capire da dove tutto è partito. Nel tempo la necessità di costruire in altezza è sempre stata in relazione alle scoperte tecnologiche dei vari popoli, un esempio è il faro di Alessandria d’Egitto che nell’iconografia storica appartiene alle cosiddette “7 meraviglie del mondo antico”, alto 134 m fu fatto costruire da Tolomeo che era un generale macedone al servizio di Alessandro Magno, realizzato all’incirca nel 300 a.C., è una struttura antica che contiene una certa modernità architettonica. Il concetto del faro come edificio in altezza è un concetto interessantissimo perché costituisce un elemento di presenza dell’uomo sulla terra e soprattutto nel rapporto tra l’acqua e la stessa terra. Il faro Tolomeo era dotato di specchi di bordo che di giorno riflettevano la luce del sole indirizzando le navi in avvicinamento alla costa, mentre di notte in cima venivano accesi dei fuochi, in una specie di lanterna, e sfruttando sempre il gioco di questi specchi potevano indicare la via alle imbarcazioni anche dopo il calar del sole, questo è un concetto applicato anche nei fari di oggi. Nell’antichità, ma anche oggi, il fatto di andare in altezza per l’uomo, secondo certi aspetti, è come esercitare un potere o comunque rapportarsi con la divinità, che è più grande di lui, in pratica era il tentativo da parte dell’uomo di staccarsi dalla terra, di tentare, limitatamente alle sue possibilità, di essere vicino al divino. Il più delle volte queste strutture erano ordinate da principi, faraoni o re, dei semi-dei che con queste strutture tentavano di dominare il mondo nella vita, e servivano poi per celebrare la loro morte. La piramide di Cheope, che fondamentalmente è una tomba, è proprio la celebrazione dell’uomo-dio, il faraone in questo caso, che con questa costruzione si avvicinava all’immortalità, il fatto di costruire in altezza sosteneva questo avvicinamento. Tornando all’attualità prendiamo l’esempio delle Petronas Towers a Kuala Lumpur progettate da Cesar Pelli nel 1995 alte 452 m. Il rapporto con l’antichità sta nel fatto che i vari re, faraoni d’oggi, sono chi ha il denaro, quindi 3000 anni fa l’affermazione del potere con un edificio in altezza stava per gli egiziani nella costruzione delle piramidi adesso invece, come nell’esempio delle Petronas Towers (sede della società Petronas grande multinazionale che detiene l’economia petrolifera del suo paese) l’imponenza dell’edificio afferma la forza

63


economica e la presenza nel mondo di tale società. Gli edifici in altezza nell’antichità erano limitati dalle tecnologie dell’epoca, quindi per esempio avevano delle basi molto massicce, esempio le piramidi, che sicuramente non si posso definire un edificio snello come i grattacieli, quindi si tratta di edifici che raggiungono una notevole altezza ma partendo da un sedime molto largo. La piramide di Cheope costruita nel 2560 a.C. e alta 146 m fu per 3800 anni, cioè fino alla costruzione della cattedrale di Lincoln in Inghilterra, che la sorpassò di qualche metro, l’edificio più alto del mondo. Da studi effettuati si pensa che il metodo costruttivo delle piramidi consisteva nell’utilizzo di piani inclinati che permettevano il trasporto dei massi, un fatto interessante è che non è affatto vero che le piramidi furano edificate sfruttando il lavoro degli schiavi, perché è stato di recente scoperto uno scritto del faraone Micerino in cui veniva chiaramente spiegato che gli operai dovevano essere pagati ricevendo un giusto salario, quindi l’immagine che ci viene data dai film è sbagliata. Ci sono prove che dimostrano che gli egiziani erano riusciti a creare macchine che utilizzando corde e verricelli riuscivano a portare grandi masse in altezza. Il periodo di costruzione di una piramide era calcolato in 20 o 30 anni. Un altro esempio è la piramide del sole di Città del Messico del 500 d.C. Man mano che si va avanti vuoi la tecnologia, vuoi le diverse strutture territoriali si nota che i piani iniziano ad avere una maggiore inclinazione, cioè rispetto alla base della piramide i piani iniziano ad avere una loro certa pendenza. Le piramidi messicane hanno un rapporto fondamentale e forte con la divinità, i sacrifici ed i riti avvenivano sulle sommità di queste piramidi perché si era più vicini alle divinità (cioè il sole e la luna). Gli edifici in altezza nel tempo hanno sempre avuto un significato di identificazione culturale, con identificazione colturale si intende un’identificazione politica, religiosa e di difesa questo è assimilabile facendo proporzionalità con edifici delle modernità. Questi edifici vengo riconosciuti grazie alla proporzioni tra base e altezza o anche dal rivestimento ad esempio il campanile di Giotto del 1298, il campanile della chiesa di Ulma, che è stato per molto tempo l’edificio più alto d’Europa e del mondo, con un’altezza di 161 m, che ricorda il Chrysler Building di New York, è importante capire che esistono delle costruzioni nel tempo che hanno fatto da precursore rispetto a certi aspetti, questo fatto è interessante per visualizzare l’evoluzione e la storia.

Tipologie di edifici in altezza

Portiamo il discorso agli edifici in altezza focalizzati alla difesa, riguardo a questo aspetto abbiamo diverse tipologie di torre, ad esempio la torre Guinigi a Lucca, che si differenzia dal contesto urbano essendo circondata da case basse, questo aspetto risalta l’importanza del significato dell’edificio ovvero la difesa, la presenza, il controllo sulla città sottostante. Un altro esempio è la torre di San Leo a Rimini del 1200, è una torre di difesa e di avvistamento, la presenza di finestre bifore all’ultimo piano indicano il luogo in cui i soldati si appostavano per localizzare i nemici. Nel tempo iniziano a esercitarsi delle proporzioni geometriche assimilabili all’edificio in altezza come lo immaginiamo noi, ovvero il rapporto tra la base e l’altezza incomincia ad essere appropriato, significativo, non ci sono più edifici tozzi ma cominciano a slanciarsi. Nel concetto delle torri di difesa e varie troviamo poi le torri del vento; ci sono edifici con strutture molto più elevate di natura e influenza araba che permettono la ventilazione, di fatto sono dei camini che permettono la circolazione naturale dell’aria, consentendo il raffrescamento degli edifici sottostanti. La torre in alcuni casi è un elemento di estrema purezza. Ci sono poi torri di segnalazioni come quelle presenti sulle coste genovesi, della Corsica e della Sardegna; venivano accesi fuochi sulle sommità per segnalare ad esempio l’arrivo di nemici o altre particolari situazioni di cui c’era la necessità di informare. Esistono torri di segnalazione anche in Valtellina e Val Chiavenna la differenza rispetto alle precedenti, oltre alla localizzazione (da mare a montagna), è la materialità, ovvero mentre nelle prime c’era l’intonaco qui abbiamo la sovrapposizione naturale della pietra. Nel corso del tempo la tecnologia e l’innovazione costruttiva dei popoli, affrontano il tema della snellezza stabilizzando i rapporti geometrici. Andando ancora di più ad estremizzare il concetto prendiamo come esempio le torri Asinelli e Garisenda di Bologna costruite nel 1190 con altezza massima di 97 m, qui si vede proprio che rispetto agli edifici precedenti il rapporto si fa sempre più estremo ovvero la base diventa sempre più stretta e l’edificio svetta sempre di più in altezza, questo è possibile grazie a nuovi sistemi costruttivi, nei primi tre piani della torre Asinelli e presente una doppia parete muraria che veniva riempita di detriti, sabbia e sassi che costituiva un peso, un’inerzia alla base che quindi permetteva di ancorare la parte superiore e lo sviluppo in altezza, queste sono tutte tecnologie che l’uomo sperimenta e sviluppa.

64


L’altezza e l’uomo

Contrapposizione tra corrente eclettica e razionalismo strutturale

La Torre in Piazza del Campo a Siena è alta 88mt e è stata costruita nel 1311; in essa si riafferma intrinsecamente il significato di “alzarsi per incontrare il cielo”. C’è un passaggio dal semplice elemento strutturale che viene arricchito architettonicamente (es. torre campanaria realizzata in marmo con dei decori). Il viaggiatore all’interno del suo percorso percepisce la città per i suoi edifici più alti, il che gli permette di percepirla lungo il viaggio perché la vedi avvicinandoti da lontano. Lo skyline di New York è caratterizzato da questi edifici che si sviluppano in altezza uno vicino all’altro; il viaggiatore arrivando a New York non riesce a vedere quello che c’è dietro e quindi si può affidare solo alla propria immaginazione. Il concetto di verticalità ha sempre accompagnato l’uomo sin dall’antichità in cui le torri rappresentavano un elemento di sicurezza, basti pensare che nel Medioevo esse venivano usate come sede delle difese, o come nascondiglio del re. Un esempio si ha con l’Empire State Building, completato agli inizi degli anni ’30, che caratterizzò anche il film ‘King Kong’, realizzato nello stesso periodo, in cui il gorilla per scappare dai militari si arrampica sulla cima del grattacielo (allora il più alto del mondo) riprendendo un concetto che è comune all’uomo, ossia spostarsi verso l’alto per essere più al sicuro. Un altro esempio, più recente, è quello di Felix Baumgartner che si è lanciato da una capsula portata a 39 mila metri di altezza. Idealmente è come se si fosse costruito un edificio alto 39 mila metri che dalla Terra arriva a quel punto lì e questo sta a significare che la tendenza dell’uomo è quella di staccarsi dal suolo in modo tale da poterci tornare. Questi passaggi possono essere anche ridefiniti sinteticamente come la ricerca dell’uomo dell’invincibilità, questo significa che nella realizzazione di opere apparentemente impossibili c’è tutta la sua storia di cui possiamo riscontrare la bellezza in alcune strutture antiche e la stupefacente espressione della contemporaneità tecnologica degli edifici moderni. Quello che colpisce ed identifica un edificio è il rapporto geometrico dei volumi, dimensione in pianta e il rapporto con l’altezza. Un edificio che rispetta questo criterio di sobrietà, con una forza architettonica e strutturale, è la Torre Isozaki. Essa ha un “naturale equilibrio”, cioè si basa sul rapporto pulito di geometrie, che è quello che l’architetto dovrebbe ricercare perché se manca questo può venire meno la definizione stilistica architettonica. Riprendendo il concetto di invincibilità, riferendoci al periodo a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900, l’edificio più invincibile è la Tour Eiffel di Parigi; alta 312mt venne costruita in occasione dell’esposizione universale del 1899 dopo la quale doveva essere smantellata. Essa, di fatto, è la sintesi delle capacità ingegneristiche e un esempio di architettura tecnologica, eleganza architettonica e di sobrietà componentistica di questo periodo. Anche se pensato come edificio dimostrativo ha contribuito a segnare un’epoca indicandone l’enorme possibilità costruttiva offerta da un materiale dell’era moderna: l’acciaio. Da qui tutto cambierà perché si dà il via alla nuova concezione dell’edificio grattacielo che lo caratterizza ancora oggi con le strutture in questo materiale. New York e Chicago possono essere viste come le due città invincibili che rappresentano le origini di questa esperienza costruttiva. Qui l’alto costo delle aree centrali diede inizio ad un approccio progettuale caratterizzato dallo sviluppo in verticale degli edifici per occupare meno spazio a terra. In quel periodo il problema dell’altezza fu superato dall’invenzione dell’ascensore, prima idraulico, poi elettrico. I primi edifici che si sviluppano secondo questo concetto all’inizio furono realizzati con grosse murature portanti miste a strutture in acciaio che permisero l’allargamento delle finestre.

Stilisticamente si hanno due correnti in funzione della struttura adottata: la corrente eclettica. L’eclettismo è l’utilizzo in un edificio, in modo intelligente o in un modo tante volte sbagliato, di tanti stili architettonici e questo che vediamo rappresentato è un edificio del 1874 a New York. Non è un vero e proprio grattacielo (è più basso) ha delle strutture in parte in pietra, in parte in acciaio ma la facciata è eclettica; è una facciata ottocentesca che ha ancora degli elementi di architetture del passato qui riportate, cercando di trovare delle geometrie e degli accostamenti piacevoli (vedi parte del tetto, degli abbaini e delle aperture). C’è ancora una logica storicistica: l’edificio riprende degli elementi della storia quindi si collega al passato. Questa operazione molte volte riesce ma molte volte risulta un pasticcio. L’alternativa all’eclettismo, che fu la caratteristica di questo periodo che poi verrà chiamato “Scuola di Chicago”, è quello che viene definito funzionalismo o razionalismo strutturale; significa che l’edificio “moderno” costruito con queste nuove tecnologie, denuncia in modo evidente la sua caratteristica strutturale. Guardando il prospetto di un edificio di questa corrente si comprende dove si trova il telaio strutturale e si vede che le finestre diventano più grandi perché l’uso del telaio lo permette. Reliance building, Root e Burnham (1890): il messaggio è evidenziare la forma dell’edificio

65


sulla base degli elementi strutturali, che è la caratteristica che dopo verrà molto usata anche ai giorni nostri; in alcuni edifici infatti questo aspetto è molto marcato (se non l’aspetto caratterizzante). Questo stile nel tempo prevarrà, l’eclettismo verrà abbandonato a favore di questo tipo di architettura. La scuola di Chicago, che è una corrente architettonica nata in questo periodo, parte dal fatto che nel 1871 Chicago fu distrutta da un incendio, quindi tra il 1880 e la fine del secolo ci fu la necessità di ricostruire la città, a partire dal centro, che poteva essere considerato il centro dell’economia. Nel centro ci sono edifici in parte residenziali, ma soprattutto rappresentativi dell’economia; in quel periodo gli architetti di maggior riferimento erano Robson, William Le Baron Jenney (di origine francese, fu un po’ il precursore di questa sperimentazione architettonica) e soprattutto Louis Sullivan. Un edificio rappresentativo che si potrebbe citare tra le prime costruzioni identificabili come grattacieli è il Monadnock building, progettato da Root e Burnham nel 1884. Era alto circa 16 piani, il fatto di inserire gli elementi strutturali, poi ricoperti dalla pelle di intonaco cercava di enfatizzare il peso. Le finestre rotonde che si succedono in facciata è come se cercassero di togliere l’effetto visivo della massa, di alleggerirlo e svuotarlo. Tornando a Sullivan, architetto importante per le sue opere, costituisce la punta più avanzata della ricerca stilistica di questo periodo chiamato “Scuola di Chicago”. Due edifici importantissimi, che però non si trovano a Chicago, sono il Wainwright Building di Saint Louis del 1890 dove si vede come il razionalismo strutturale evidenziava in modo chiaro le colonne, i pilastri che scendono, la regolarità delle finestre, senza fare nessun accenno ad appesantimenti di facciata a parte l’ultimo marcapiano, ma la ricerca di un rigore. A terra le finestre per attività commerciali sono più larghe e poi pian piano si restringono ma sempre in un ordine logico e rigoroso. L’altro edificio è il Guaranty Building di Buffalo, dove addirittura segue un po’ il criterio dell’edificio precedente ma si sviluppa già molto più in altezza, ovvero si comincia veramente a entrare in questa logica strutturale costruttiva. In questo periodo un architetto che lavorò tantissimo fu Ludwig Mies van der Rohe, anche lui appartenente alla scuola di Chicago ma indicato come facente parte di un secondo tempo e con criteri più innovativi. Progettò con l’architetto Philip Johnson il Seagram Building nel 1958, questo edificio è alto circa 160 metri e qui si vede come l’identificazione di un certo tipologia costruttiva dell’edificio alto parte da qui. A New York invece l’esperienza fu un po’ più diversa, perché mentre a Chicago con il tempo prevalse il discorso del razionalismo strutturale gli inizi di New York furono più legati al discorso eclettico. Quindi anche New York finita la depressione ci fu la necessità di rigenerare un boom economico e rappresentare in questi nuovi edifici la nuova potenza che veniva avanti. Nel Municipal Buiding del 1911 si vede che pur proponendo sempre il discorso dell’altezza la tipologia dell’edificio, la struttura, queste torri capitelli finali, la torre finale con una specie di ballatoio, ecc. hanno più dei riferimenti su altri tipi di edifici che non sono stati proiettati in altezza. Un altro riferimento è il Chrysler Building del 1928 alto 259 metri che detenne per un certo periodo il record come grattacielo più alto del mondo prima della costruzione dell’Empire State Building, qui si vede come la cupola finale dell’edificio, dove addirittura si dice abbia inserite alcune tesserine prese da alcuni pezzi delle macchine Chrysler, ha una parte moderna ma poi finisce con delle guglie gotiche. Finché arriviamo all’Empire State Building che è un po’ il raggiungimento di una certa sintesi, di fatto comincia a staccarsi un attimo dal discorso fatto prima e comincia a gettare i criteri di un certo funzionalismo strutturale. C’è già un passaggio rispetto a quello di prima e ciò si vede nelle squadrature delle finestre, la continuità della facciata, anche se questo parte per questioni strutturali con una base leggermente allargata che pian piano si restringe che è un po’ l’esperienza della Sears Tower di Chicago che è un’aggregazione di parallelepipedi proprio per la questione strutturale di raggiungere l’altezza che si prefiggevano, dove si accostano tali forme alla base, in modo da conferire più stabilita alla torre principale.

Processo costruttivo di un edificio che si sviluppa in altezza

Vediamo in queste immagini il processo costruttivo che è abbastanza assimilabile ai sistemi utilizzati oggi. Quando si costruiscono edifici in altezza, ci sono delle specializzazioni come le armature in ascesa dove si comincia a costruire dai piani inferiori e successivamente poggiandosi su questi vengono armati i piani superiori. La maggior parte degli edifici costruiti adesso sono caratterizzati dall’ avere una parte centrale forte, dove si trovano l’ascensore o le scale, che va a coprire la parte sismica e la parte della resistenza alla flessione. L’Empire State Building, costruito nel 1930 dallo studio Lamb and Harmon, ha un altezza di 443 m. Questo edificio è un icona sempre attuale che caratterizza la città di New York. Va sottolineato come sia New York che Chicago abbiano seguito nello stesso tempo la medesima logica degli inizi, con soluzioni tecnologiche differenti; come del resto hanno fatto anche altre città nel mondo. Si nota come nel tempo molte altre metropoli quali: Londra, Parigi, Milano, Berlino abbiano usato il usato il concetto del Landmark in modo da caratterizzare la città o comunque parte di essa. Questo è uno schema che mostra come siano grandi dimensionalmente i vari grattacieli in relazione a altri oggetti e non a altri edifici. Torre Rasini, 1933-‘34

66


Sperimentazione di Gio Ponti ed Emilio Lancia. L’edificio è composto da una torre addossata ad un edificio bianco. L’elemento svettante dialoga con la piazza di Porta Venezia, mentre il parallelepipedo rivestito in marmo svolta sulla strada definendone l’angolo. La famiglia Rasini si ritaglia l’ultimo piano della “villa sospesa” con la terrazza con piscina come richiesto dai canoni del tempo. Torre Rasini, Milano (www.thais.it)

Cosa si percepisce ad abitare in un grattacielo?

L’ultimo passaggio è la riflessione che dovrei fare riallacciandomi al tema del laboratorio. Tante volte l’osservatore viene attratto dall’immagine architettonica o tecnico strutturale del grattacielo ma raramente si pone il quesito su come si vive e come si lavora in un edificio alto. Stare a certe altezze, indipendentemente che si tratti di uffici o residenze, pone il problema di come è il tipo di vita e qual è il rapporto che hai con il mondo? Perché in realtà tu sei sproporzionato rispetto alla normalità delle persone che vivono a terra. Questo è un tema aperto che si può affrontare proprio nel progetto del laboratorio. L’ultimo aspetto che mi sono posto è: cosa si percepisce nell’abitare in un grattacielo? Questa è una vista classica di cosa si percepisca in un piano molto alto di un grattacielo; sono evidenti le sensazioni che suscita tale visuale. Dobbiamo tenere presente che buona parte degli edifici che si sviluppano in altezza, sotto un certo livello di altitudine non consentono l’apertura delle finestre e il ricambio dell’aria è tutto automatico. Un altro aspetto è che la distribuzione verticale di questi siti abitativi avviene attraverso ascensori velocissimi: ci sono ditte, come la Hitachi, che stanno progettando nuove versioni di ascensori proprio per diminuire il tempo di percorrenza dal piano terra all’ ultimo piano. C’è poi da considerare il concetto di questi meccanismi che “proiettano” la persona verso alto, cosa che provoca una sensazione umana un po’ particolare. Questo può portare ad una riflessione sul fatto che per andare dalla terra alla mia abitazione sono costretto a percorrere un passaggio il più delle volte inusuale e che sarebbe impossibile proporre attraverso percorsi “umani”. Da ciò l’importanza fondamentale di un mezzo meccanico, la cui presenza diventa imprescindibile. Ciò ci pone davanti al dubbio se l’utilizzo d questi ascensori sia un bene o un male, perché l’essere proiettati ad elevate velocità a certe quote pone l’individuo in una situazione innaturale. Il paesaggio che percepiamo è comunque un orizzonte che si espande man mano che si sale di quota e ciò varia velocemente, si ha un cambio improvviso della percezione del panorama repentino. Non è come quando si fa una passeggiata in montagna e seguendo un percorso a poco a poco si “appropria” dell’altezza, del paesaggio e di ciò che lo circonda. In questi casi è praticamente come un passaggio improvviso da On a Off, una volta usciti dall’ascensore, si percepisce immediatamente la differenza dal trovarsi in una situazione normale: le persone spariscono, gli alberi diventano delle macchie, dei contorni, non si ha più la percezione della singolarità e si percepiscono gli edifici sottostanti ma esclusivamente come coperture. Nella presentazione illustrativa di questa tipologia di edifici ci si sofferma quasi sempre sui dati tecnici (ad esempio l’altezza), sulla questione dei report (“è stato costruito un palazzo a fianco di uno più alto ma ce n’è in programma un altro ancora con una struttura tecnologica differente”) e sull’aspetto estetico delle unità architettoniche: i rivestimenti (che possono

67


essere attivi o passivi), la tipologia costruttiva o ad esempio le tecnologie antisismiche che accompagnano la sicurezza dell’intero edificio, perché in certe parti del mondo questo sistema di prevenzione è imprescindibile. Come esempio possiamo citare l’edificio a Taipei che è famoso per avere un pendolo sospeso al suo interno che contrasta i moti sismici. A mio avviso, parlando di residenze, le abitazioni poste a quote elevate dovrebbero avere delle caratteristiche differenti nella progettazione ma ovviamente connaturate alla struttura dell’edificio: questo perché progettando un edificio come un tutt’uno, si avranno delle caratteristiche strutturali, tecnologiche, abitative e architettoniche unitarie e non semplicemente, come spesso capita di vedere, la semplice sovrapposizione all’infinito dei piani. Tante volte un progetto è basato su delle tipologie architettoniche consuete che se poi sviluppiamo in altezza non facciamo altro che replicare. Non aggiungono nulla a quello che è l’aspetto fortemente progettuale dell’edificio che chiamerebbe a dire che siamo a qualcosa di diverso, che accompagna la scelta di progettare in questo modo. Sono assimilabili ai normali edifici condominiali, anche se dilatati in altezza, ma senza nessun contenuto diverso. Come ultima immagine, abbiamo la Commerzbank Tower progettata dallo studio Foster a Francoforte nel ’97. L’architetto, proprio per interrompere questa consuetudine di piani, a certi livelli ha proposto delle aree collettive chiamate “Giardini d’inverno” con al loro interno delle varietà di piante differenti a seconda dell’orientamento delle facciate.

Commerzbank, Francoforte Foster (www.wikipedia.it)

68


La Torre di Unicredit a Milano è sicuramente un edificio che invita a guardare verso l’alto, secondo lei è un progetto ben riuscito? Si relaziona con il contesto?

Secondo me la torre Unicredit, ha senso nella misura in cui è contestualizzata in tutto il sistema di opere che le stanno attorno. È chiaro che risponde a dei requisiti costruttivi interessanti e penso che abbia anche una vivibilità di qualità che rende il luogo operativo più piacevole per chi ci lavora. Quindi per me in generale è contestualizzata; poi in un secondo passaggio posso permettermi di fare un’analisi di dettaglio che lascia un po’ il tempo che trova perché bisogna analizzare gli edifici per come ci si presentano, cioè in tutta la loro complessità. Anche perché certi edifici hanno la tendenza ad annullare alcuni dettagli. In conclusione nel contesto dove è inserita, con gli edifici attorno, la piazza, quello che hanno realizzato dietro e il suo inserimento nello skyline di Milano ci sta.

Se ci dovessimo confrontare con zone non urbane o con un contesto storico non ancora ben sviluppato come ci dovremmo comportare?

Mi permetto di dire che qualcuno nel mondo l’ha già fatto perché se penso a tutta l’espansione degli edifici mediorientali, essi nascono su strutture che non esistevano. Ad esempio a Dubai ciò è palese, basti pensare che lì hanno fatto le isole artificiali “Palm Island” e “The world”. Questa città diventa quasi come un miraggio perché forse è quasi irreale. Ho in mente anche delle immagini riprese da un video dove un grattacielo supertecnologico viene colpito da una tempesta di sabbia e ciò rappresenta un problema infatti a certo punto durante la costruzione hanno dovuto interrompere i lavori per questo motivo. L’osservazione di quel sito li può rispondere alla domanda. Io ho presente nel mondo solo cose inserite in contesti che con il tempo lo metabolizzano, li ho qualche problema da questo punto di vista, non puoi neanche parlare di contestualizzazione o non contestualizzazione perché è all’origine che il discorso rischia di non esserci.

Torre dell’Unicredit César Pelli 2012, Milano (www.infoturismiamo ci.com)

Volevo domandarle se la tipologia progettuale del grattacielo come residenza non sia troppo alienante per chi ci vive che può sentirsi solo un numero nella massa e cosa bisognerebbe fare per evitare questo?

È chiaro che pensare di andare a vivere a mille metri di altezza è destabilizzante, inoltre penso anche che la stragrande maggioranza di questi edifici sia utilizzata per funzioni commerciali o rappresentative. Posso dire, per esempio, che all’ultimo piano di un grattacielo può starci la sala di amministrazione del consiglio di amministrazione di un importante multinazionale, piuttosto che un appartamento. Il problema dell’essere alienati o non alienati potrebbe essere risolto magari, nelle tipologie residenziali, con riproporre qualcosa che ricordi la terra, ad esempio con dei giardini come ha fatto Foster oppure qualcosa che ti faccia andare all’esterno in modo che tu hai comunque sempre un esperienza che ti colleghi in ogni caso a qualcosa di tangibile e di terreno. C’è quindi anche tutto un problema della collettivizzazione del abitare, di rapporti tra persone che vivono con te nello stesso edificio. Per esempio nell’Unitè D’Habitation Le Corbusier progetta un asilo nido, una piscina, le sale gioco dei bambini; non è un grattacielo in quanto in altezza non raggiunge nemmeno 20 piani ma questa collettivizzazione degli spazi ti porta ad avere un rapporto con delle sensazioni tipiche della città.

69


Visto che il suo studio si trova a Lecco, volevamo chiederle, per lei, i riferimenti imprescindibili che deve avere chiunque voglia intervenire in quest’area.

A Lecco, e più in generale in Italia, le preesistenze hanno una rilevanza anche storica. Come riesce la modernità, e in particolare questa tendenza verso l’alto, a conciliarsi e a non entrare in conflitto con le preesistenze? Facendo riferimento anche alla sua esperienza

La scelta di costruire edifici in altezza, che si sviluppano verso l’alto, propone un nuovo rapporto con la natura o il rapporto che l’uomo ha costruito con la natura viene a rompersi?

Su quali elementi dovremmo puntare noi studenti per essere competitivi nel settore una volta usciti dall’università?

Non penso che la nostra area possa contenere dei riferimenti particolari. Lecco non è metropolitana come può esserla Milano, ma un’area che possiamo definire di frangia o periurbana. L’aspetto che potrebbe essere preso come riferimento è sicuramente quello paesaggistico, che caratterizza Lecco rispetto alle altre zone, ma ciò non ha mai dettato delle tendenze progettuali.Quello con il lago, invece, è un rapporto più complesso rispetto a quello che si ha con la montagna, anche perché in realtà non c’è mai stato: nel tempo il lago viene considerato il presidio di alcune aree storiche che non si sono mai potute espandere per questioni morfologiche.Un altro tema interessante che si potrebbe porre in modo operativo per il futuro è quello delle aree dismesse.

E’ chiaro che noi, a differenza di altri paesi nel mondo, abbiamo una presenza storica che se da un lato è molto invidiata, dall’altro può creare dei problemi, tramite gli enti destinati al controllo di questi edifici. A mio parere gli interventi funzionano quando c’è una “reciproca onestà”. Mi spiego: l’edificio preesistente è onesto in quanto tale. E’ stato fatto in modo onesto, cioè chi l’ha fatto ad esempio nel 1200 – 1300 l’ha fatto con gli stilemi, i criteri, i materiali, la storia e la cultura del periodo, caratteristiche che erano identificabili nel 1300 e si identificano ancora oggi. Il problema è: noi siamo ugualmente onesti nella nostra modernità? La città è la stratificazione della storia e nei tempi addietro non ci si poneva tanti problemi. Quando Haussmann ridisegnò Parigi demolì tutto senza porsi il problema di cosa ci fosse, allo stesso modo Mussolini quando costruì via dei Fori Imperiali distrusse le preesistenze per crearsi lo spazio necessario. Il problema è che chi progetta oggi deve capire che la città, essendo un luogo di stratificazione, deve anche testimoniare, secondo me, l’aspetto evolutivo-storico dei passaggi e dei periodi che si sono susseguiti. A me capita spesso che venga chiesto, occupandoci di edifici che sono in vicinanza o adiacenti a edifici storici, di tentare di riproporre, falsando la storia, gli stili e i materiali della preesistenza. In effetti nel nostro paese, andando a vedere tutti i criteri e le normative, ci sono regolamentazioni che limitano l’utilizzo di certi materiali o forme. Questo però vuol dire mettersi in una posizione di disonestà perché si deve sostanzialmente barare. Si dovrebbe davvero aprire un dibattito sulla città stratificata, in cui si affianchino i diversi periodi. Ad esempio Roma è definita la città più bella del mondo dal punto di vista edile perché in essa si trova tutta la storia dell’uomo : Romani, Romanico, Barocco, Neoclassico, tutti gli stili che si sono succeduti nel tempo, sono perfettamente riconoscibili. Si potrebbe quindi riproporre questo principio. E’ chiaro che però si dovrebbe affiancare una catalogazione seria e gerarchica del patrimonio esistente che definisca delle priorità e delle tipologie e modalità di intervento che non siano generalizzate. Il problema non è il conflitto tra modernità e antichità ma l’onestà intellettuale di chi va a lavorare e chi decide di questo lavoro, ed è necessario un approccio informativo intelligentemente storico con cui affrontare i problemi.

In ogni caso il rapporto con la natura non si rompe, si intraprende; tutte le operazioni dell’uomo sono antropizzazioni: nel momento in cui costruisci un orto o un muro a secco in un prato o su una collina, o coltivi delle piante che non sono autoctone antropizzi il luogo, e questo discorso vale ovunque. L’aspetto importante nel rapporto uomo-natura è l’onestà con cui si interviene: un edificio in altezza non interviene sulla natura di immediato rapporto ma sul paesaggio di larga percezione. Il rapporto originale che la città ha con i rilievi naturali viene rimodulato dagli edifici in altezza. In passato il rapporto con la natura era mediato attraverso la scelta, molte volte obbligata, di utilizzare i materiali del luogo: Adolf Loos diceva che l’uomo doveva usare i materiali del luogo per integrare il più possibile l’edificio con il paesaggio, che è poi il concetto di architettura organica. Prendendo ad esempio la torre Isozaki a Milano attraverso la sua purezza, la sua semplicità e la sua neutralità con queste facciate di vetro leggermente bombate, il rapporto con la natura c’è comunque: ogni volta che si costruisce l’equilibrio viene rotto ma il processo di costruzione deve fare in modo che questo rapporto venga ricucito attraverso le scelte fatte durante la progettazione, la scelta dei materiali. Non vi è una negazione assoluta nel rapporto uomo-natura: vi sono ad esempio opere di carattere tecnologico, come le dighe, che sono grossissime opere di manipolazione della natura eppure hanno fatto sì che nel tempo sopportassero il luogo cui si relazionano.

È una domanda indipendente dagli argomenti di questa presentazione. È un problema che investe tutti noi che esercitiamo questa professione sia studenti che entreranno in questo mondo sia noi che ci siamo già, il problema secondo me al di là degli aspetti che coinvolgono il mondo in questo momento, lasciando perdere le contingenze varie, è sempre stato, tranne in un periodo in qui questo spetto è stato un po’ sottovalutato, è l’infinita conoscenza di tutti gli aspetti che questo mondo ti offre. Io dico che la conoscenza dell’aspetto architettonico non è solo legato all’aspetto architettonico, è sempre stato un mio credo, voglio dire che adesso più che mai la conoscenza va portata su due livelli, uno fondamentale che è

70


l’approccio serio sereno competente con l realtà, tutto quello che la realtà ti offre ti propone è tutto quello che può essere parte del mondo dell’architettura, cosa voglio dire: tante volte il risultato progettuale architettonico è un risultato che parte da lontano. Mi sembra che il mio modestissimo tentativo di dirvi le cose che vi ho detto è proprio questo, cercare di allargare l’orizzonte di apprendimento in modo che l’architettura diventi la sintesi di un qualcosa che tu hai sedimentato dentro di te nelle esperienze in cui ti sei coinvolto, in altro modo dico: la superficialità come concetto, come approccio è un qualcosa che deve essere completamene bandita, e questa fa la diversità. Oggi si sbandiera tanto anche in termini economici, uscendo da una certa situazione con qualità, la qualità ha dei criteri: il primo criterio è la non superficialità, perché la qualità la eserciti quando non sei superficiale nella maniera più assoluta, anche proprio dal punto di partenza da cui si affronta il problema. Il secondo è la conoscenza assoluta, sempre in questo percorso che vi sto dicendo, di tutto quello che il singolo problema ti offre per quella risoluzione. Terzo, allargare il più possibile le conoscenze che una persona ha, proprio perché in ogni caso queste conoscenze che sembrano apparentemente non essere collegate con il tema specifico che è stato indicato di fatto ne fanno parte. Io mi ricordo che agli inizi quando veniva qua negli anni 90 avevamo il nostro docente di riferimento era il professor Bonati, lui diceva che “uno deve essere architetto 24 ore al giorno, sabato e domenica compresi”, cosa voglio dire, voglio dire che secondo me un approccio corretto è, per il lavoro che facciamo noi, essere osservatori intelligenti, attenti, sensibili a tutto quello che la realtà ti offre, che vedrai che secondo me sono tutti degli approcci delle possibilità, non dico delle soluzioni perché non è immediatamente e matematicamente collegabile al rapporto, fa parte del baglio che uno si forma dentro di se, che è un baglio tecnico scientifico quello che state apprendendo qua, ma poi ce tutto un intorno che fa un po’ da collante a questa cose che deve essere fondamentale.

Questi edifici che si sviluppano in altezza, necessitano ovviamente di impianti energivori (ad esempio come ha detto prima che in un grattacielo il ricambio d’aria avviene con ventilazione meccanica), non crede che quindi questo tipo di edifici non siano ecologicamente sostenibili?

Entriamo in un discorso del prima e del dopo, che coinvolge tutta una tendenza che sta venendo avanti adesso, è chiaro che se prendiamo un edificio del 1930 o degli anni settanta non può che avere dei contenuti impiantistici, secondo me, assimilabili a quelli di un edificio normale con l’unica differenza delle potenze messe in gioco, voglio dire, secondo me, se io devo portare l’acqua al cinquantesimo piano, è chiaro che avrò bisogno di un sistema di pompaggio tale che mi consenta di portar su l’acqua, se ho bisogno di un discorso di energia elettrica avrò bisogno di un approvvigionamento da quella che è l’energia distribuita diversificata da quella di un edificio normalissimo, adesso la tendenza della sostenibilità è una tendenza culturale molto intelligente, culturale vuol dire che sta diventando una cosa che fa parte oramai dell’operare del l’uomo, quindi uno non può più pensare a certe cose prescindendo da queste. La tecnologia, la progettazione e tutta una serie di sistemi che stanno venendo avanti che fa sì che si sta tendendo quasi al costo zero, allora la gestione delle facciate, la gestione della temperatura, la gestione impiantistica, l’uso di tutto un sistema di arrangiamento solare per poter recuperare energia eccetera, l’uso dell’acqua, il controllo dell’acqua perché il controllo dell’acqua dal punto di vista anche degli usi sanitari è codificato in un certo modo per cui c’è una tendenza che non è più tendenza ma è diventata proprio un sistema progettuale che va anche a incidere sull’aspetto strutturale dell’edificio che tiene assolutamente conto di queste cose perché oggi a grandi livelli i bilanci gestionali per questo tipo di strutture vengo fatti anche in questo modo perché non basta più costruire per vendere o affittare ma occorre, visto i costi che stanno coinvolgendo oramai tutto il mondo a un certo livello, essere capaci di offrire un prodotto che l’acquirente apprezzi, non dimentichiamo tutto l’apporto tecnologico e dell’informatica che contribuisce in maniera espansa in maniera esasperata dentro ad una struttura di quelle dimensioni li, che contribuisce a rendere veramente attivo il mio edificio, dal controllo delle aperture, agli ombreggiamenti ma ci sono un infinità di esempi. Sotto questo punto di vista, il fatto che con queste grandi dimensioni si possa esprimere la ricerca ha una ricaduta anche sulle cose normali perché normalmente anche tutte le sperimentazioni che si fanno nelle competizioni dopo finiscono per entrare in quello che è il ciclo della produzione normale. Quindi su questo direi che anzi la tendenza è un progress rispetto a queste cose, è chiaro che c’è tutta una serie di edifici che evidentemente appartenenti al passato che la cui rigenerazione crea dei problemi, un conto è rigenerare un edificio di una certa dimensione in altezza e un conto è rigenerare, ripristinare, riassettare dal punto di vista energetico un edificio di una certa dimensione oppure un edificio che è stato catalogato dentro un criterio di tutela ambientale, il grattacielo Pirelli di Milano, non è che uno può pensare di farci un cappotto, non avrebbe senso, per cui ce tutta una serie di edifici che devono essere anche tutelati e protetti oppure possono essere messi in atto degli interventi all’interno che però hanno un po’ il tempo che trovano, ma posso anche essere fatti, però la tendenza oramai è consolidata. Per quanto riguarda il futuro si sta sempre più esasperando le questioni tecnologiche e di risparmio energetico nella maniera più esasperata possibile.

71


Arch. Umberto Gerosa

Nomi dei relatori: Altobrando Simone, Bertoni Edoardo, Cassanmagnago Mario, Cavallaro Giuseppina, Cioetto Ilaria, Cirillo Maria Elena, Curmà Giorgio, Dassi Arianna, Ghisleni Mattia, Lombarda Alessandro, Mangili Luca, Saccani Niccolò

72


73


Ferruccio Favaron

Lecco | 22/04/2016 . Architetura Razionalista

74


Ferruccio Favaron, 69 anni, libero profesionista con studio in Lecco, dal 1995 in associazione con Umberto Gerosa. Si ocupa di in Italia e all'estero, alla progettazione architettonica e urbana, al recupero edilizio ed urbanistico, alla tutela ambientale e alla pianificazione territoriale. E' stato presidente dell'Ordine degli Architetti di Lecco per quasi dieci anni. Presidente della Consulta regionale degli Ordini degli Architetti della Lombardia dal maggio 2008 all'ottobre 2010. E' ora al suo primo mandato come Consigliere Nazionale

Il razionalismo italiano nasce sul finire del 1926 con la fondazione del Gruppo 7 i cui promotori, giovani laureati del Politecnico di Milano, Castagnoli, poi sostituito da Libera, Figini, Frette, Larco, Pollini, Rava e Terragni si esprimono ufficialmente per la prima volta sulla rivista “Rassegna Italiana”. Rifacendosi ai valori della tradizione, propugnavano una mediazione tra tradizione e "spirito nuovo", tra classicismo e funzionalismo, riprendendo dal mondo classico la struttura geometrica, il ritmo, la proporzione, la raffinatezza dei materiali e dei particolari architettonici.

Sviluppo del razzionalismo

Prendendo a modello Gropius, Le Corbusier e Mies van der Rohe, si prefiggono l’obiettivo di sostenere e divulgare anche in Italia un’architettura originata dalla necessità di una maggiore aderenza alla realtà sociale ed economica che deriva dalla rivoluzione industriale. Mirando ad una risoluzione di fatto razionale dei problemi che la stessa società sottopone all’attenzione dell’architetto e dell’urbanista, il Razionalismo si fonda sulla rigorosa analisi delle funzioni, sulla ricerca della struttura e sulla definizione delle tipologie. Si tratta di un nuovo modo di vedere l'architettura che, rigettando l’ornamento e la decorazione, ricerca la forma pura, essenziale, in grado di esprimere la funzione degli spazi. (Esempio: Edificio Bauhaus in Germania.) Rispetto al movimento europeo il fronte ufficiale della cultura italiana, al termine della Prima Guerra Mondiale, vuole ritrovare stabilità raccogliendo l’eredità di Antonio Sant’Elia e Mario Chiattone. Nei loro disegni si percepisce il rinnovamento della società promosso dal fenomeno industriale (ricerca di verticalità). Al contempo, queste nuove “tendenze” devono scontrarsi con la cultura classica che pian piano sta riemergendo a partire dalla realizzazione dell’Altare della Patria a cura di Antonio Sacconi. Contemporaneamente c’è da parte del Gruppo7 una certa attenzione alle opere del Deutsche Werkbund e del Costruttivismo russo. Questi architetti si contrappongono anche al linguaggio classico dell’architettura novecentesca che ha come massima espressione, in Italia, la Ca’ Brutta di Giovanni Muzio, a Milano. A Roma, invece, il novecentismo ha come esponente Marcello Piacentini che realizza la Banca Nazionale del Lavoro. Cosí come Umberto Boccioni (1882-1916) e Giacomo Balla (1871-1958) con la loro esaltazione del dinamismo si erano differenziati dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico (1888-1978). Dall’inizio del 1925, superate le tensioni con il capitalismo industriale e la bufera scatenata con il delitto Matteotti, Mussolini ottiene i pieni poteri e ha inizio la dittatura fascista. Nel 1926 Giacomo Matté Trucco (1869-1934) realizza a Torino il Lingotto della Fiat, simbolo della moderna organizzazione del lavoro, definito da Le Corbusier in “Vers une architecture”, come una delle prime realizzazioni della tecnica moderna. Intervento definito da Le Corbusier come una delle prime realizzazioni della tecnica moderna. Contestualmente a Dessau viene inaugurato il nuovo edificio di Walter Gropius. Siamo in un contesto in cui la cultura ufficiale si esprime ancora con un linguaggio “vecchio” relativo al passato (vedi Stazione Centrale di Milano). L’architettura è non solo espressione socio-culturale ma anche politica. Il Fascismo tenta di far proprio questo movimento e tenta di accogliere inizialmente le istanze di questa avanguardia culturale. La sinistra intellettuale cerca nel nuovo linguaggio architettonico le forze per il rilancio di un’alleanza che abbia l’obiettivo di far fronte al potere politico artistico dei gerarchi e della burocrazia. Il gruppo7 identifica lo “spirito nuovo” dell’architettura con il regime fascista, un’alleanza che porta all’adattamento delle loro aspirazioni in una serie di compromessi con il regime stesso. Esempio: cercare di conciliare la tradizione e la mediterraneità con il razionalismo europeo. Nel 1928, il Gruppo 7, in occasione della prima Esposizione italiana di architettura razionale a Roma confluisce nel MIAR. In questa occasione Terragni presenta l’officina di Produzione del Gas. Una seconda Esposizione viene tenuta nel 1931 e in questa occasione viene presentato il Novocomum di Terragni, che era conforme alle nuove avanguardie europee, ma non a quell’impronta classicista tipicamente italiana. Con i loro scritti sulla rivista Casabella, Giuseppe Pagano (1896-1945) e Edoardo Persico (1900-1936), il primo fascista, il secondo cattolico e crociano, sono gli unici a sostenere incondizionatamente il nuovo linguaggio architettonico. Edoardo Persico, in particolare, ha il merito di riuscire ad amplificare il dibattito trasferendolo dal livello degli addetti ai lavori a quello politico, dichiarando apertamente che la nuova architettura razionalista, in coerenza con il movimento europeo, è essenzialmente antinazionalista. Il loro appoggio è dato attraverso l’esplicitazione delle cause, delle motivazioni e della legittimità storica del nuovo modo di fare architettura.

75


Un altro protagonista di questo periodo, più per l’intensa attività culturale che per le opere realizzate è Alberto Sartoris (1901-1998). Il suo saggio Elementi di Architettura Razionale, pubblicato nel 1932 rimane uno degli studi più rilevanti dell’epoca. La vita del movimento razionalista italiano è breve e i suoi aderenti compaiono come unità singole piuttosto che come un gruppo. Questo è visibile nei progetti presentati alle due Esposizioni del MIAR, a Roma: troviamo la presenza contemporanea di progetti e ricerche antitetici, come quelli rigorosi di Luigi Figini (1903-1984) e Gino Pollini (1903-1991), le personalissime fantasie di Adalberto Libera (1903-1963) ed il costruttivismo del primo Terragni. Tema della ricerca sulla casa unifamiliare (villa) oltre che al classico tema della residenza. Nei progetti per il regime gli architetti trovano l’occasione per sperimentare il linguaggio del movimento razionalista (case del Fascio, case del Balilla). Temi del regime: naturismo, salutismo. Le opere maggiormente realizzate sono pubbliche. Si manifesta la necessità di un crescita del linguaggio e quindi della ricerca di nuove alleanze e adesioni. Nel programma di architettura del 1933, nel primo numero della rivista Quadrante di Bardi, la nozione di mediterraneità viene enunciata come parola d’ordine e chiave interpretativa delle ricerca che gli architetti aderenti al gruppo intendono proseguire in risposta all’esigenza del regime di fondare una tradizione italiana. Nello stesso anno i nazisti chiudono il Bauhaus dando inizio all’esodo degli architetti europei. Persiste questo rapporto tra la cultura internazionale e la tradizione italiana voluta dal regime, nonostante la voglia di rivoluzione iniziale, realizzate le opere più importanti del razionalismo italiano. (esempi architettura razionalista italiana)

Razionalismo in lombardia

Giuseppe Terragni

Il novocomum

(cita numerose opere) Nonostante venga rispettato il linguaggio razionalista e la ricerca di nuove funzioni, restano i materiali tradizionali e locali come la pietra, segno dell’evidente legame alla classicità e quindi del tentativo di risolvere problemi di composizione con l’utilizzo di materiali specifici del passato. 1934 presso la Triennale di Milano viene presentata la nuova architettura funzionale. ( altri progetti: scoglio di capri, case per artisti di Lingeri su Isola Comacina, Casa Rustici) Dopo il 1936, come nel resto dell’Europa, anche in Italia si scatena una grande reazione antimoderna che sposta decisamente l’equilibrio verso l’accademia: mentre i razionalisti offrono al fascismo le tematiche proprie del socialismo dell’architettura moderna mitteleuropea, gli accademici romani guidati da Piacentini danno il volto neoimperiale al regime con la loro architettura celebrativa fatta di archi e di colonne che trova la massima espressione nel piano per l’Esposizione Universale di Roma (EUR), prevista per il 1942. (esempi progetti EUR). L’architettura razionalista italiana, nonostante tutte le sue contraddizioni, ha segnato una svolta determinante nella cultura italiana e ha lasciato un’eredità importante, con l’importanza indiscutibile delle sue opere.

Una delle figure, se non la figura, più importante di questo momento è Giuseppe Terragni (1904-1943). La sua figura è stata riabilitata recentemente; la mia generazione non studiava Terragni era ritenuto un architetto fascista, in realtà era un architetto che, negli equivoci che hanno caratterizzato il rapporto tra il Gruppo7 e il fascismo, si è trovato di fatto imbrogliato; in questa situazione ne soffre così tanto da arrivare a morire giovanissimo dopo un fortissimo esaurimento nervoso. E lui, come tutti gli artisti del momento, non è solo un architetto ma ha un grande interesse per la cultura che caratterizzava quel periodo e quindi per le varie espressioni dell’arte: in particolare la pittura; lui stesso fa parte del movimento novecentista dei pittori, e ha una grandissima influenza dal pittore Sironi, che ha sicuramente una grande rilevanza sul suo modo di trasferire il modo di dipingere, esprimersi artisticamente, nella sua architettura. La sua prima opera, l’Officina di Produzione del Gas, presentata nel 1928: articolazione dei corpi di fabbrica, che costituiscono una specie di movimento, tipico dell’arte Futurista. Vediamo i locali funzionali che si susseguono: i forni, le sale macchina e l’edificio amministrativo, che hanno tra loro un rapporto quasi dinamico, su cui si innesta sia la matrice futurista sia quella costruttivista, sovietica.

Il Novocomum, realizzato tra 1927-28, è normalmente preso, dalla critica ufficiale, come il primo organico e consistente esempio di Razionalismo nel nostro paese. È al contempo l’opera più densa e contenuta di Terragni, dove lui non cede a nessun compromesso di tipo formale e il risultato è che questo edificio, pur essendo contiguo a costruzioni più tradizionali, non ha nessuna risultanza di tipo monumentale; è un corpo cilindrico che si incastra nelle murature curve dell’edificio, e ne esce con uno sbalzo ad angolo retto, tipico del costruttivismo russo, che contestualmente riprende alcuni motivi del futurismo locale. Vediamo qualche incoerenza che evidenzia il movimento razionale europeo e il primo nazionale

76


locale; lo si vede dall’impianto tipologico degli appartamenti: lunghi corridoi, è una casa moderna solo in facciata; l’impianto tipologico è di tipo borghese figlio della architettura di quei tempi. Probabilmente questa soluzione nasce dai limiti imposti dalla commissione edilizia: doveva esprimersi in modo accademico e classico, questo lo ha spinto a mediare probabilmente per la soluzione in facciata e l’interno. Questo lo si legge anche dal rapporto con l’architettura di Le Corbusier, creatore di una nuova casa soprattutto dal punto di vista sociale; il Novocomum invece è un’abitazione per la classe borghese. Il tema dal quartiere operaio è ben presente nella vita di Terragni, soprattutto con Alberto Sartoris dieci anni dopo: case popolari a Como e quartiere operaio a Rebbio, fuori Como. Il limite degli architetti italiani, nel confronto delle culture europee, ambiti in cui è stato difficile trovare un rapporto tra la loro modalità di espressione e il regime, è l’assenza di questo scontro; gli architetti han dovuto riportare questo scontro non nell’ambito della funzione ma su quello della forma, intesa come problema comune alle altre arti a cui si riferiva. Terragni ha la forza e il coraggio di tuffarsi nella tradizione futurista e maturare questi semi di novità, gettati dal suo concittadino Sant’Elia. Como era una città particolare, molto più evoluta e diversa rispetto a quella attuale; oggi molto borghese e molto staccata dalla cultura nazionale. Allora era un crocevia di molte correnti internazionali, ha avuto una costante rilevanza nell’architettura italiana; è una sempre aderente realtà alla concretezza del costruire. Sant’Elia propugna le sue idee e costruisce solo un edificio, poiché muore giovane; non si ha avuto modo di poter vedere fino a quanto sarebbe potuto essere coerente con i suoi manifesti futuristi. Spetta a Terragni interpretare il messaggio lasciato da Sant’Elia, e lo fa con il monumento ai caduti. E nello stesso periodo Como rappresenta un’isola in cui gli artisti hanno la possibilità di esprimere le loro idee. Il lungolago presenta molti edifici razionalistici: novocomum, monumento ai caduti, sede dei canottieri, e altri.

La casa del fascio

Il tema della villa

Villa bianca di seveso

La casa del fascio , considerata dalla critica ufficiale considera l’edificio l’opera più importante di Terragni e del razionalismo italiano; importante perché si inserisce in un contesto caratterizzato da presenze rilevanti, l’abside del duomo e le forme neoclassiche del teatro. Un cubo dimezzato, altezza uguale alla metà del lato di base; architettura composta da due parallelepipedi posti perpendicolarmente; una struttura portante che si basa su una griglia modulare di sette campate, la sesta più piccola e la settima più grande; le facciate composte da due quadrati; il piano terra come una sorta di grande piazza coperta con una vetrata che si apre verso piazza del popolo cioè verso il duomo e sopra tutta una serie di ballatoi dove vengono concentrate le funzioni specifiche svolte all’interno. Ora sede della guardia di finanza. Parte centrale vuota e ballatoi come tessuto connettivo dell’edificio. I quattro prospetti sono differenti ma accomunati da uno stesso rapporto tra vuoto e pieno. Quello meno soddisfacente è quello principale a causa della parte tutta piena. Secondo la critica, è un edificio che non ha nulla a che fare con il fascismo. Si inserisce perfettamente all’interno del centro storico e in rapporto con il duomo e il teatro.

Richieste dai borghesi, come committenza illuminata. In occasione della quinta triennale di Milano, il Gruppo7 propone la casa sul lago per artista. Si prospettava di costruire un villaggio per artisti sull’isola Comacina; Lingeri su questa idea va a progettare tre case che nonostante lo stile razionalista vengono ricoperte di pietra andando a riprendere gli stilemi dell’architettura locale. Asilo di Sant’Elia: prototipo della scuola italiana, sviluppato poi sui diversi livelli accademici, asilo, elementari, medie liceo e università. Edificio a corte, parzialmente aperto su un lato, caratterizzato da grandissime pareti vetrate, finestre a nastro, e sottili aperture verticali. L’impianto è contraddistinto da due grandi ambienti, aperti sulla corte centrale, spazio ricreativo fa un po’ di cesura tra la parte delle aule didattiche e quella del refettorio, delle cucine e dei servizi. Importante il rapporto tra l’interno e l’esterno. La luce va a riempire gli spazi vuoti dedicati ai giochi. È un edificio contemporaneo e coerente. Le aule divise tra loro da pareti mobili in legno: possono essere aperte per dare vita ad un grandioso spazio aperto sulla corte. Il telaio strutturale che sostiene le tende è molto moderno e funzionale.

Integrità volumetrica del corpo di fabbrica, dove l’architetto estrae elementi dallo spazio interno (piattaforma, rampa di accesso posteriore, volume del soggiorno e i setti orizzontali della copertura). Finestre a nastro, soggiorno che prende possesso, si mette in mostra a questa permeabilità con il giardino. Impianto completamente diverso dal Novocomum, nasce qui la vera continuità tra lo spazio interno ed esterno propugnata dall’architettura funzionale.

77


Villa rebbio

Lunga e stretta, villa per floricoltore; l’architetto elabora il tema della doppia parete e del telaio e invece che avere un motivo a loggia si ha un grande telaio che raccoglie tutta la costruzione e all’interno vengono portate le funzioni. Le pareti degli ambienti vengono arretrati rispetto a questa grande cornice, e si tratta di una sorte di lastre che si possono muovere in completa libertà perché slegate dalla struttura. Un impianto veramente nuovo: finestre a nastro, pilotis, tetto giardino, pianta libera dalla struttura, facciata libera, pareti di vetro, che riprendono i principi che Le Corbusier ha trascritto nella sua opera più importante “Verso un’architettura”. Terragni nella sua contraddizione si muove sempre in uno spazio definito da tre coordinate: il futurismo, il costruttivismo sovietico e il razionalismo europeo. Quando si allontana da queste cose finisce per rifuggire nell’accademismo, soprattutto quando si confronta a livello nazionale nei concorsi banditi dal regime a Roma.

Danteum

Progetto di esaltazione di Dante, elaborato con Lingeri. Tempio che vuole celebrare l’impero attraverso questo grande della storia. Si mette a disposizione questo linguaggio apparentemente moderno che rifugge in monumentalità, simbolismo e una sorta di aulicità per esaltare il regime. È un monumento e così come era stato per il palazzo di Re Vittorio, si ha un ideale rapporto tra la conformità con il passato e il presente: grande quantità di colonne, monumentalità, presenza del Danteum e composizione di questo manufatto, che fa capire i grandi limiti del razionalismo del nostro paese.

La casa di appartamneti di giuliani frigerio

Conclusioni

L’ultima opera, seguita dall’architetto Zuccoli, mentre Terragni era in guerra. Ripropone in versione matura, il razionalismo che ha caratterizzato la casa del fascio. Grande evoluzione nella tipologia, nei caratteri distributivi dell’edificio: tre appartamenti per piano a livelli diversi, con un impianto che tende ad accentuare la flessibilità degli spazi che vengono collegati tra loro con porte a libro. È un edificio molto importante perché ha prospetti completamente differenziati tra loro e dissonanti: troviamo balconate, finestre arretrate e corpi aggettanti. Terragni propugna in questa ultima opera un manierismo razionalista.

Quando il tema è libero è più accentuata la radice prettamente costruttivista o futurista; quando il tema è propriamente architettonico, prevalgono i valori metafisici della tradizione nazionale e la possibilità di coniugarli con i valori europei. Lui come la gran parte dei suoi contemporanei e intellettuali del suo tempo, si è trovato coinvolto in una serie di malintesi, rapporto con il regime, e illusioni specifici proprie di questo tempo. Guardando al fascismo come una guardia sociale, e realizzando nel nome del regime le sue opere migliori, ha condiviso ogni dramma del suo tempo interpretandone le speranze ma subendone le delusioni. Contestualmente alla denuncia della crisi del linguaggio del movimento moderno ha subito le richieste del committente.

78


Casa bella, Gennaio 1933, da presentazione “ Architettura Razionalista� di Arch. Prof. Ferruccio Favaron.

79


Riallacciandomi al discorso della nuova modellazione e dei nuovi metodi di rappresentazione, lei esercita la sua professione da 44 anni, ha visto, quindi, in ambito professionale un palese mutamento delle tecniche costruttive e di rappresentazione, secondo lei qual è il più grande beneficio che la tecnologia ha apportato nel mondo della progettazione e della costruzione?

Ho passato gli anni con il tecnigrafo. Come prima esperienza, pur venendo da una famiglia specializzata in questo settore, ho fatto il mio primo lavoro in uno studio straniero, in Svizzera. Il primo strumento che mi ha messo in difficoltà è stato quello della riga parallela. Per quanto riguarda la parte tridimensionale si facevano dei modellini. In questo modo si aveva la possibilità di entrare nell’architettura. Oggi, invece, in studio, i miei giovani utilizzano software di progettazione. Pur non avendo mai appreso personalmente le modalità di utilizzo di questi programmi, ho sempre insistito molto affinché fossero introdotti dei corsi all’interno delle vostre facoltà, poiché avevo compreso l’importanza e la portata rivoluzionaria di questi nuovi metodi di progettazione durante un congresso, a cui ho presenziato, tenutosi negli Stati Uniti. Il grosso limite di questi programmi risiede nella mancanza di spazio. Infatti, il disegno a mano, su carta, permette di avere davanti a sé tutto lo spazio a disposizione. Al contrario la progettazione su schermo rimane intrappolata in questo.

Ferruccio Favaron 2016, Lecco ph. Tuzzeo Simone

Quando è stato rivalutato dalla critica il razionalismo di Terragni, perché quando lei studiava ha detto che era considerato fascista?

E’ stato rivalutato negli anni ’70 in seguito alla concomitanza di più fattori che affermarono la grande valenza di Terragni a cui viene riconosciuto il ruolo di maestro all’interno della cultura del Novecento. Sicuramente è stato fondamentale uscire da quella situazione storica e culturale che ha caratterizzato gli anni successivi alla guerra e al fascismo. Ugualmente importante è stato l’apporto di Eisenman che ha fatto la tesi di laurea sulle sue opere e contribuisce in seguito con i suoi scritti e i suoi lavori a riscattare la figura dell’architetto, come la Casa del Fascio che viene reinterpretata e ricostruita da lui stesso..

Parlando di oggi, quali aspetti sono ancora presenti del razionalismo nei nuovi edifici e quali invece bisognerebbe riprendere

Bisognerebbe riprendere la tensione che il movimento razionalista ha avuto nei confronti della “casa per tutti” e la “casa per tutti” con il suo attacco a terra con pilotis quasi come se galleggiasse, il tetto giardino, costruire edifici funzionali ed evitare la mimesi, un grosso problema che oggi c’è. È fondamentale al giorno d’oggi non ignorare il contesto e riuscire a integrare gli edifici col paesaggio. Tutte le evoluzioni e gli studi in fase progettuale devono essere sempre fatti per adempiere a quello che è, a mio avviso, il ruolo degli architetti: dare delle risposte serie ai bisogni della società in cui viviamo, con tutte le sue diversità culturali e di classe sociale

80


Quando è stato rivalutato dalla critica il razionalismo di Terragni, perché quando lei studiava ha detto che era considerato fascista

Innanzitutto la Casa del Fascio come dice il nome, è dedicata a esaltare la politica. E questo è un problema che non c’è solo in Italia, basti pensate all’illusione che ha creato la rivoluzione di ottobre 1917 in Russia quando si è passati dal regime degli zar al regime comunista; tutti i più grandi maestri, come è successo in Italia, sono corsi a mettere a disposizione il loro linguaggio e il loro nuovo modo di fare architettura per il nuovo modo di fare la società e la politica. L’asilo Sant’Elia, invece, è un’opera che non ha niente a che fare con il regime se non il rifarsi al salutismo e all’igienismo che però sono marginali. L’asilo vuole essere un’opera che dà una risposta in termini funzionali a un’esigenza educativa.

Lei sta esercitando la sua professione da 44 anni, ha visto, quindi, nell’ambito professionale un palese mutamento delle tecniche costruttive e di rappresentazione e secondo lei qual è il più grande beneficio che la tecnologia ha portato nell’ambito della progettazione?.

Per quanto mi riguarda, posso riassumere con una sola parola: disagio. Disagio perché la mia prima esperienza lavorativa l’ho avuta in svizzera, sfruttando quello che oggi si chiama Erasmus, usando la riga parallela. Successivamente quando ho aperto il mio studio, eravamo 20 architetti con 20 tecnigrafi in uno spazio quasi saturo. L’introduzione delle nuove tecnologie ha comportato la perdita di posti di lavoro, siamo diventati 11 e angoli di studio che restano vuoti. Quindi è evidente che tutto questo modo di fare ha dei vantaggi, ma anche degli svantaggi, del resto oggi, nella nostra società dove giri con lo smartphone in tasca, il tablet nella borsa e il computer sempre attaaccato, sarebbe inimmaginabile pensare di lavorare solo con la matita, sarebbe una sorta di analfabetismo. Ammetto che non sono pratico e non lavoro utilizzando software, ma io me lo posso permettere perché ormai ho raggiunto una certa età e ho gente alle mie spalle che rielabora immediatamente i miei schizzi al PC, però per voi è fondamentale saperlo fare, anzi attenzione alla prossima rivoluzione: la progettazione in BIM!

Guardando tra i suoi progetti su internet, eravamo rimasti particolarmente colpiti dal progetto per il concorso per il Bivacco dei fratelli Fanton e volevamo sapere quali erano state le vostre priorità?

L’obiettivo era quello di inserire un piccolo manufatto nel contesto, purtroppo non è stata una bella esperienza. Noi avevamo pensato di dare un’interpretazione a un nuovo modo di costruire in montagna rispondendo a un’esigenza che non è quella della casa unifamiliare, ma è quella del riparo. Per fare questo non abbiamo voluto riferirci né alla forma della montagna né a qualche altra forma data dal paesaggio, evitando, quindi, ogni tipo di mimesi. Quest’idea, però, non è stata apprezzata dagli architetti del Trentino. Da questo concorso se non altro, abbiamo imparato che è fondamentale trovare delle sinergie con un partner locale in condizione di farci capire meglio la realtà del posto e aiutarci nell’andare a fare sì che le nostre opere si possano poi realizzare

81


Arch. Ferruccio Favaron

Nomi dei relatori: Arienti Marco, Battaglia Iuri Umberto, Bolis Samuele, Bollini Giacomo, D’angeloantonio Valerio, Dodi Davide, Innocenti Clara, La Russa Roberto, Pravettoni Cristina, Presotto Samuel, Racanelli Arianna, Tuzzeo Simone.

82


83


Gino Garbellini PiĂšArch

Lecco 26/04/2016. Il contesto.

84


La lecture è guidata da Gino Garbellini, fondatore e socio del gruppo PiùArch, il quale ci accompagna nella presentazione di diversi suoi progetti che vanno a sottolineare la sua linea di pensiero ed il rapporto che dovrebbe avere ogni architettura che si rispetti con il contesto che la circonda. L’identita’ del luogo

Onda Bianca PiùArch Piazza Gae Aulenti, Milano (www.piuarch.it)

Il discorso si focalizza sul contesto, ritenuto fondamentale e come “non solo guardare, ma anche studiare, pensare, riconoscere l’identità del luogo”; si porta dietro non solo tutti gli edifici circostanti ma anche gli spazi aperti e chiusi, la storia, i racconti di un luogo. Quando si progetta in città ci si rapporta al contesto urbano, quando lo si fa in montagna invece al paesaggio. Da ciò Garbellini parte esponendo quattro esempi del “rapportarsi al contesto”: è necessario ricomporre il vuoto, dialogare con ciò che ci circonda, sottolineare l’identità dei luoghi. Il primo si trova in Giappone ed è una delle installazioni previste dallo stato per la riqualificazione di un insieme di isole degradate, a sud dell’isola, a cui l’architettura sta dando nuova identità e interessante attrazione turistica. Questo intervento di Ryue Nishizawa, socio dello studio SANAA, è un grande guscio bianco che accoglie i visitatori e permette loro di osservare il paesaggio attraverso dei grossi fori che lo incorniciano; racchiude l’intero processo che porta dal contesto (in questo caso il paesaggio), alla contaminazione (l’arte), alla percezione (la relazione che si crea tra le due precedenti). La forma è stata suggerita dalle gocce d’acqua che scaturiscono dal terreno e, con tendenza leggera, confluiscono nello scarico. Il secondo esempio riguarda l’intervento di Piùarch in Piazza Gae Aulenti. L’obiettivo era ricomporre il vuoto creato dallo scavo ferroviario in disuso e il concorso richiedeva di dare continuità alla torre di Cesar Pelli per chiudere il disegno della piazza che si era creata. A differenza del progetto della piazza e della torre, hanno voluto creare qualcosa che si relazionasse con il contesto, considerando la moderata altezza delle costruzioni storiche. Il risultato è un edificio che si apre verso la piazza e la città, creando la relazione che mancava tra la torre e il contesto. Questa è data anche dalla facciata: le aperture rettangolari molto rigorose e con passo costante, caratteristiche dei prospetti ottocenteschi, vengono rivisitate tramite l’utilizzo di lamelle di vetro verticali che vanno a creare “una facciata quasi paranoica fatta di un elemento che ricorre verticalmente”, che riesce a dare una percezione dinamica dell’architettura, indipendentemente dal punto di osservazione. L’iter di progettazione è influenzato da riferimenti esterni, poiché “guardare agli altri architetti non significa copiare, ma prendere dei riferimenti, delle suggestioni”. Fonte d’ispirazione è stata l’arte: Richard Serra, architetto che realizza opere con forme curve, forme e materiali semplici, realizzando oggetti di Land Art; Carlos Cruz-Diez, esponente dell’arte cinetica, che realizza quadri che sembrano vibrare, fonte d’ispirazione per la facciata fatta di lamelle verticali ferme, ma percepite in movimento Per il recupero del tessuto urbano forti esempi sono gli Uffici Dolce&Gabbana a Milano e il Quattro Corti Business Centre a San Pietroburgo.

85


Il primo è un edificio dalla forte identità, simbolo della casa di moda e del suo modo di relazionarsi a città, spazi interni e pubblici. La facciata ha lamelle che svelano il contenuto ma, se viste lateralmente, lo celano. Piena di significato anche la geometria, in particolare quella della copertura: il rapporto del progetto con la cortina stradale è quello di “riprendere la variazione dell’altezza dei tetti che è diffusa nelle nostre città”, lo sfalsamento di blocchi distinti prosegue e riprende la variazione delle linee di gronda in una modalità del tutto contemporanea. Anche per gli altri due edifici realizzati il tema caro è la facciata: uno è adibito prevalentemente ad uffici, l’altro per le sfilate. Il primo, molto permeabile e aperto, inverte il rapporto tra interno ed esterno: la corte rimane chiusa, caratterizzata dal cemento, mentre l’esterno diventa vetrato, tendenza opposta ai soliti edifici con tale destinazione d’uso. Il secondo invece è la riqualificazione di un vecchio cinema: la facciata viene trattata ancora una volta con delle lamelle che in questo caso però si torcono di 180° salendo in verticale ed enfatizzando così vibrazione e movimento. La strada su cui si affaccia è stretta, è difficile guardare frontalmente, quindi era necessario pensare a tutti i punti di vista da angolazioni diverse. Uffici di Dolce&Gabbana PiùArch Milano (www.piuarch.it)

italiani, fautori di San Pietroburgo

L’intervento a San Pietroburgo è rappresentato dall’edificio detto “Quattro Corti”, realizzato in ambito di un concorso al quale lo studio era stato invitato. Tale progetto risulta essere molto interessante poiché da una parte simboleggia un ritorno italiano nella città, che originariamente era stata pensata da architetti italiani su un modello neoclassico, mentre dall’altra rappresenta una sfida non indifferente dato il luogo completamente sconosciuto allo studio. Si rende quindi indispensabile, secondo Garbellini, un’osservazione preliminare dell’area, dei suoi temi principali, della cortina residenziale e anche della cultura e delle tradizioni locali che risultano essere più radicate tra la gente del luogo. Per questo motivo è necessario visitare personalmente il luogo, studiarlo e comprenderne i ritmi e le consuetudini. Uno dei primi aspetti, che sicuramente è molto evidente, riguarda le facciate che risultano essere vincolate strettamente all’impostazione urbanistica del luogo. E’ tuttavia possibile lavorare maggiormente sulla parte interna dell’edificio, dato il degrado dello stesso. Oltre a questo primo aspetto è facile notare immediatamente un altro punto di riferimento per il progetto: il tema dei colori. S. Pietroburgo è infatti una città “buia” che ha una grande necessità di riflettere quanta più luce possibile. Per questa motivazione i colori sono generalmente molto forti, con l’unico scopo di catturare ed esaltare la luce. Grazie ad un ulteriore analisi del luogo emerge quali siano gli altri temi molto cari e culturalmente radicati nella città: le corti interne, che risultano essere un elemento decorativo molto presente in tutta la città, e i tetti, che a S. Pietroburgo diventano dei luoghi da poter abitare dove la gente si sposta quando c’è molta luce, come un secondo spazio pubblico, non più a terra, ma posto ad una certa altezza. Dare quindi nuovo valore al tetto del nuovo edificio è un aspetto importante a cui riferirsi e che sicuramente non va tralasciato nella fase progettuale.

86


Tutte queste osservazioni hanno quindi portato lo studio PiùArch alla realizzazione dell’edificio attuale che presenta al suo interno una corte con vetri caleidoscopici colorati, i quali permettono un’alta riflessione della luce, ed un tetto abitabile. E’ quindi palese come in tale progetto si cerchi di guardare agli elementi del passato, senza però copiarli, ma rifacendosi ad essi attraverso un punto di vista contemporaneo.

Progetto “Quattro Corti” PiùArch San Pietroburgo (www.piuarch.it)

Non tutte le aree di progetto sono però come quella di S. Pietroburgo, dove basta osservare l’ambiente che circonda il lotto per potersi fare immediatamente delle idee su quali potranno essere i punti di riferimento del progetto, vi sono luoghi infatti dove non è possibile rifarsi alla cortina residenziale per poter prendere spunto ma è necessario legarsi all’ambiente naturale circostante, come il Congress Centre progettato sulla riva del lago di Garda, oppure vi sono altri luoghi ancora dove non vi è contesto, come l’edificio realizzato a Faenza da PiùArch, e si rende dunque necessario cercare punti di riferimento anche non evidenti. Il primo esempio, il Congress Centre, tratta di un edificio costruito in riva al Garda, che non presenta edifici vicini a cui riferirsi ma che ha come unico punto fermo il paesaggio naturalistico che lo circonda: il lago, la montagna e la torre di un paese. Per realizzare tale progetto, lo studio di PiùArch prende questi tre elementi come capisaldi e realizza una forma che abbia come viste principali proprio quelle che guardano nelle loro direzioni. Tutto questo viene fatto senza tralasciare ovviamente il tetto, poiché dandogli valore si riesce ad aggiungere importanza all’edificio stesso. La copertura viene quindi realizzata con l’intento di poter allestirvi un cinema, progettandone anche le sedute. Il secondo esempio si riferisce all’edificio realizzato da PiùArch a Faenza, dove non c’è contesto, o perlomeno c’è ma non restituisce alcun elemento da poter sfruttare per la realizzazione di un edificio, non presenta chiari punti di riferimento, poiché si tratta di una landa desolata di campagna fatta semplicemente da campi coltivati intorno al lotto allungato. In questo caso lo studio ha cercato di inquadrare il paesaggio, che in origine risulta esser piatto, e portarlo dentro l’edificio attraverso dei grandi riquadri rettangolari che sono come delle cornici, in modo tale che il paesaggio sia incorniciato per chi lo vede dall’interno. Questi elementi non servono solo a ridefinire il paesaggio dall’interno ma, dato che la facciata in cui sono posizionati è a sud, sono utili anche come schermatura dai raggi solari, dove la luce deve essere in qualche modo filtrata. Raccontare la storia di un luogo e delle persone che lo vivono e che l’hanno vissuto, non solo attraverso le funzioni assegnate a determinati spazi, ma anche riscoprendo la storia del luogo; è’ questo ciò che si proposto di fare il team PiùArch nel progetto di riqualificazione dell’ex area industriale Caproni nella zona in via Mecenati di Milano. Un’area di un notevole interesse storico, legato alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale in quanto sede della Caproni, una delle principali aziende italiane produttrici di aerei. Al termine della seconda guerra Mondiale, con la vittoria degli angloamericani, tutte le industrie di armi e materiale aeronautico italiane dovettero chiudere, lasciando le infrastrutture libere ed inutilizzate e la possibilità agli Stati Uniti di avere la supremazia industriale.

87


Enfatizzare il passato per realizzare il nuovo

Parte del complesso è stato mantenuto e tramandato fino ai giorni nostri, il resto è stato inglobato dalla città di Milano e la maggior parte degli edifici sono stati frazionati e venduti a diversi proprietari per svariate destinazioni d’uso, cancellando in qualche modo la storia impressa in quel luogo. Analizzando ciò che rimane dell’ex area industriale si nota l’immediatezza delle strutture, dalle quali si può capire dove e come venivano svolte le diverse fasi di produzione: esempio è quello dell’hangar, edificio in cui venivano montate le ali degli aerei e grande quasi quanto un campo da calcio. Ai tempi la Caproni cercò un’area a Milano semideserta da dove poté costruire un campo di volo, cominciando a realizzare tutti gli edifici circostanti che oggi compongono la zona d’interesse.

Ex area Caproni, foto storica (www,wikipedia.it)

Tutti gli edifici avevano una specifica funzione, e quindi la forma di ogni edificio derivava dalla funzione che doveva svolgersi al suo interno. Gli edifici in mattoni sono rimasti ma attorniati da superfetazioni, i campi attorno all’industria non esistono più perché la città, allargandosi, li ha occupati. Quello che rimane è uno spazio definito in 150 mq, in cui i progettisti hanno potuto svolgere un’analisi storica, formale e funzionale. Essendo così rilevante, l’intervento dell’architetto deve essere pensato, costruito, progettato nei minimi particolari e non dev’essere fatto alla leggera, per questo è importante conoscere e studiare ciò che si andrà a trasformare. E’ stata analizzata l’area non solo da un punto di vista dello spazio necessario puramente alla produzione, ma anche a quello sociale, pubblico e di relazione, in cui allora si ritrovavano e vivevano nel villaggio operaio dell’azienda oltre 5000 persone. Vi erano dormitori, campi sportivi, una mensa aziendale ed alloggi per i lavoratori. Aspetto fondamentale del progetto è il cambio dell’utilizzo dello spazio nel tempo, infatti la stessa area ospiterà 500 persone, anziché 5000, e le funzioni saranno totalmente diverse. Gli edifici che una volta erano adibiti a produzione industriale ora si trasformeranno in spazi polifunzionali, uffici, sale di rappresentanza e gli ambienti per un’importante casa di moda.

88


Progetto Ex area Caproni PiùArch Milano (www.piuarch.it)

Nel progetto sono stati mantenuti tutti gli edifici originali, quelli caratterizzati dalla copertura a shed, eccetto una costruzione degli anni 70, la quale ha lasciato lo spazio per una torre di nuova costruzione. Questa torre è stata progettata e pensata per far sì che l’architettura moderna non si sovrapponga a quella storica: si è voluto dare un contributo molto leggero, realizzando un edificio semplice, interamente in vetro scuro, mentre l’edificio più grande dell’intero complesso, l’Hangar, ha assunto la funzione di atelier e luogo per sfilate di moda e grandi manifestazioni. Il progetto si è anche concentrato sulla riqualificazione degli spazi aperti, ovvero la strada centrale e una zona verde inclinata. Queste zone verdi, all’epoca della Caproni, erano molte di più ed in continuo aumento: c’erano ad esempio dei campi da calcio e piazze comuni dove si svolgevano manifestazioni ed avvenimenti, per intrattenere gli operai che abitavano l’area. Oggi ripensare e progettare spazi comuni e di interazione sociale su un’area così vasta non è un compito semplice: la via principale era uno spazio in cui venivano trasportati i prototipi, ma oggi risulta essere un ambiente completamente diverso. Essendoci molte meno persone all’interno della fabbrica la strada rischia di essere molto meno viva; il progetto deve essere in grado di creare ambienti che favoriscano le relazioni. Sono stati progettati una grande piazza coperta, verde, un ristorante e una mensa, ridisegnando completamente gli spazi esterni; oltre quella tra le persone, è importante anche la relazione con la città. Attualmente non è più necessario vivere accanto al posto di lavoro, perciò vanno pensati parcheggi e diversi percorsi di accesso legati al trasporto pubblico, poiché non si deve dimenticare la connessione con la città per coloro che vengono da fuori. Il lotto è stato sollevato per permettere la realizzazione di parcheggi interni, non volendo creare un oggetto di disturbo accanto agli edifici. Se prima la forma veniva data dalla funzione, oggi dalla forma si trae destinazione d’uso: strutture che venivano utilizzate nella produzione industriale, oggi andranno a contenere gli ambienti per una casa di moda. L’esperienza dalla Caproni è stata molto importante per l’architetto e ingegnere Gino Garbellini ed il suo team, il quale commenta: “Questo progetto è durato parecchi anni, non per necessità nostre, ma per questioni legate al cliente ed alla proprietà, noi abbiamo avuto la possibilità di andare a fondo, una cosa molto interessante che non sempre possibile per la quantità di tempo. Infatti il tempo risulta essere quasi sempre il vero elemento del progetto, forse ancora più dello spazio. In quest’occasione il tempo consentito di andare a fondo, cercando l’anima del progetto”.

89


Non sempre risulta semplice il passaggio dall’arte all’architettura, perché in essa è presente un’estrema sintesi di un concetto più ampio. Ha dei consigli?

E’ come background culturale, sta alla base del nostro progetto, nella capacità di sintetizzare degli elementi per noi molto forti; non necessariamente hanno un parallelo con l’architettura ma diventano fonti di ispirazione. Per noi l’arte e gli artisti raccontano la realtà, la propria visione della realtà; nell’architettura il processo è analogo. L’arte sintetizza un oggetto molto semplice che deve essere capito o non capito, in cui deve essere visto il concetto alla base; noi speriamo lo stesso ruolo per la nostra architettura. Dobbiamo essere più leggibili, la percezione dell’essere più diretta, bisogna essere aperti a ogni tipo di spunto e suggestione.

Cosa rappresenta per lei l’architettura?

Riprendo un pensiero di Massimo Tognon: è molto più interessante il tempo rispetto allo spazio. Gli architetti lavorano sullo spazio, lo modificano, lo creano, lo raccontano; ma ruolo fondamentale è giocato dal tempo, poichè un edificio è destinato a rimanere ed è necessario interpretarlo per farlo perdurare.L’architettura aggiunge quindi una dimensione in più, il tempo. Per me l’architettura è il contributo che l’architetto sa assegnare allo spazio e al tempo.

In maniera utopistica, come pensa che potranno essere le città tra due o tre secoli?

Sicuramente ci saranno città più dinamiche e, a un cambio di società seguirà un cambio in campo architettonico. La dinamicità e la capacità di adeguarsi diventeranno l’elemento di connotazione delle città future e il tempo sarà ancora più importante all’interno del progetto. Mi immagino una città in cui si dà più importanza alle connessioni di scambio rispetto alla profondità; attualmente la società viaggia sulla superficie, si muove e la città deve rispondere a questa necessità, rispetto a qualche anno fa in cui tutto era più statico e si passavano anche ventiquattr’ore in un luogo.

La spinta data dall’Expo alla città di Milano è destinata a proseguire o avrà un momento di stallo?

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di lavorare in un team e come cambiano nel tempo?

Quanto è possibile fare architettura in paesi con scarse risorse e con poca visibilità sul panorama architettonico e attuale?

Uno degli aspetti positivi dell’Expo è stato guardare a Nord, soprattutto a Olanda, Danimarca, Inghilterra, Francia e Germania, a città che funzionano. Ha portato all’edificazione di strutture pubbliche, all’apertura della città verso il valore della persona, passo difficile che molte altre città avevano già compiuto.

Lo svantaggio è il compromesso: lavorando insieme non c’è una persona che domina sulle altre, perciò è necessario scendere a patti e abituarcisi. Noi siamo individualisti di natura, lavorando da soli si ha la possibilità di far valere la propria idea ma non si hanno riferimenti e stimoli da altre persone che ragionano diversamente da noi. Tale svantaggio può quindi diventare un punto di forza. Il vantaggio è mettere insieme persone con culture e stimoli diversi e supportarsi nei progetti: la debolezza di uno diventa la forza di tanti.

Non esiste una relazione tra costo e architettura, dovvrebbero viaggiare separatamente anche se ciò non è totalmente vero. Dovrebbero essere separate poiché l’architettura ha un ruolo di ricostruzione attraverso tempo e spazio nel futuro della società, il denaro è solo un mezzo per arrivarci. Un dettaglio costruttivo è tecnologico ma anche architettonico e nel dettaglio c’è tutto quel tema di costo: dove lavoro e dove voglio arrivare. La capacità che dobbiamo avere noi è quella di lavorare sul dettaglio perché il progetto ne è la somma. Il tema del costo è più uno stimolo: è solo uno dei tanti elementi che vanno messi tutti insieme, quindi non condiziona il progetto. Si possono realizzare progetti a bassissimo costo laddove venga richiesto, ma anche altri a costi superiori, quindi la relazione non è diretta. Non è vero che avendo più disponibilità economica si progetta meglio

90


Quanto bisogna prestare attenzione all’aspetto estetico e quanto a quello funzionale nella progettazione?

Che luogo rappresenta per lei lo studio? E’ un luogo di incontro in cui si parla di elaborazione o in cui le piace riflettere sui progetti?

Quanto è importante per lei e il suo team la luce in architettura?

In linea di massima si può affermare che la forma segua la funzione, tuttavia l’aspetto estetico risulta essere molto importante poiché rappresenta il risultato finale ovvero la percezione che si ha dell’edificio. L’estetica è quindi il risultato di un processo di progettazione che deve essere molto complicato poiché è necessario studiare a fondo il progetto che si deve realizzare. In questo senso si può dunque affermare che più il processo è complicato migliore sarà il risultato finale che però deve tendere ad essere il più semplice possibile poiché più l’edificio è “semplice” dal punto di vista estetico più il progetto è riuscito, dato che riesce, in via ipotetica, a “spiegarsi” meglio a chi lo osserva. L’estetica si può quindi riassumere nel racconto finale di un processo complicato che ha portato ad un risultato molto semplice.

Passo molto tempo nel mio studio; sono affezionato all’idea che uno studio riassuma e si concentri, attraverso un confronto, tutto il nostro background culturale. Lo studio non è tutto, ci deve essere una separazione tra ciò che è lavoro e ciò che è piacere.

La luce risulta essere determinante in architettura: è lo strumento di percezione dello spazio più efficace di cui si dispone. E’ l’elemento fondamentale che permette una particolare lettura dell’edificio. Gli elementi che producono luce diventano quindi fondamentali all’interno di un edificio e si trasformano il più delle volte nell’oggetto del progetto. Grazie alla luce naturale si riesce infine a creare una relazione tra spazio interno e spazio esterno.

91


Ach. Gino Garbellini

Nomi dei relatori: Abd El Fatah, Costa Francesco, Di Simone Joshua, GallarĂ Giovanna, Grassi Sara, Hu Weiqi, Lonardi Gabriele, Massetti Pietro, Miccoli Ambrogio, Pallone Valerio, Rava Pietro, Usuelli Arianna.

92


93


Filippo Pagliani - Park Associati

Lecco 29/04/2016. Riflessione metodologica tra nuovo e preesistenza.

94


Filippo Pagliani, 48 anni, fondatore dello studio Park Associati con Michele Rossi. In questa lecture presenta la differenza tra due grandi famiglie di progetto quali la ristrutturazione di edifici esistenti (REFURBISHMENT) e la costruzione di edifici ex-novo (HEADQUARTERS)

Refurbishment

Dopo una riflessione mirata in particolare alla città di Milano, in merito ai cambiamenti che la città ha subito e sta subendo in questi anni (city life ne è un esempio), l’archittetto ha sottolineato come la trasformazione di una città sia possibile non solo con un violento impatto a livello urbanistico, ma anche attraverso interventi sui singoli edifici. Ovviamente risulta necessario un dialogo con il cliente al fine di rendere chiaro come interventi di questo genere tendono a trasformare l’edificio in modo radicale, comportandone una lettura totalmente diversa. Solitamente gli interventi riguardano tutti gli aspetti dell’edificio: pianta, involucro e impiantistica, ottenendo un manufatto completamente diverso rispetto all’originale.

-

GIOIA OTTO (Milano, 2014, 7517 sqm)

Gioia otto, Milano, 2014 http://www.parkasso ciati.com

L’edificio è situato nella zona di Porta Garibaldi e Porta Nuova e fa parte della famiglia dei progetti della trasformazione di questo comparto della città. Il fabbricato è stato costruito all’inizio degli anni ‘70 ad opera di Marco Zanuso, architetto che ha segnato in parte la storia dell’architettura e del design italiano. In quegli anni Zanuso si è soffermato in particolare sui temi della prefabbricazione che in questo progetto ritroviamo nelle imponenti fasce marcapiano che hanno conferito pesantezza e carattere all’edificio. L’intervento dello Studio è nato dalla volontà del cliente di trasformare l’edificio per conferirgli una nuova vita. `Dopo una lettura dettagliata dell’edificio sono stati individuati come elementi primari i marcapiani costituiti da blocchi in cemento prefabbricato e le finestre orizzontali che costituivano una parte molto silenziosa nella lettura del manufatto. Il sistema delle fasce orizzontali è diventato elemento espressivo sia diurno che notturno poiché sono state dotate di un sistema di illuminazione appositamente studiato. Le fasce delle finestre sono state differenziate considerando le diverse funzioni ospitate nella struttura: in particolare quella a destra, in corrispondenza dell’hotel, è rivestita in legno, mentre la parte di sinistra, legata all’ambito degli uffici, in metallo. L’intervento ha toccato anche il piano terra dove i cambiamenti apportati al basamento hanno determinato un rapporto completamente diverso con la strada dato che l’edificio era quasi completamente isolato rispetto al tessuto urbano mentre ora risulta essere più permeabile. “L’edificio racconta una nuova storia ed essa viene messa in luce anche

95


attraverso una grande pensilina che si affaccia sulla strada e una completa ridefinizione delle attività che vi si affacciano garantendo maggiore fluidità tra interno ed esterno. Park Associati è intervenuto anche sul tetto dell’edificio considerando come anche la copertura risulti essere visibile in seguito alla costruzione negli anni 70’ di edifici molto alti. Si è deciso quindi di arricchire e caratterizzare il tetto con l’inserimento di tettoie, “petali”, e di una serra.

-

LA SERENISSIMA (EX SEDE DELLA CAMPARI) (Milano, 2012, 8500 sqm)

La serenissima, Milano, 2012 (http://www.parkasso ciati.com)

Per il recuper dell’Ex sede della Campari, oggi “la Serenissima”, realizzata dai fratelli Soncini (molto attivi a Milano soprattutto nel dopoguerra), venne indetto un bando, per ridare così vita a un progetto in grado di raccontare un pezzo di città. Dopo aver vinto il bando, Park Associati ha iniziato una serie di interventi tipici su manufatti di quell’epoca: il primo fra tutti è stato lo svuotamento interno dell’edificio, processo che è stato intralciato dalla presenza di amianto che ha bloccato i lavori per circa otto mesi. Come conseguenza di questo intervento, si sono riscoperte le qualità intrinseche dell’edificio, come ad esempio la struttura portante in acciaio che garantisce l’assenza di pilastri nella parte centrale dell’edificio e di conseguenza la presenza di luci molto ampie. Un ulteriore intervento è stato quello rivolto alla rivitalizzazione del “giardino segreto” situato nella corte interna del fabbricato e per questo in parte nascosto a chi passa lungo la strada, ma in realtà facilmente accessibile. È seguito uno studio preciso e approfondito sull’involucro generale dell’edificio: originariamente la facciata del fabbricato era in diretto contatto con la struttura verticale ì, causa di considerevoli ponti termici, concetto sconosciuto all’epoca. Per eliminare questo grave difetto e per portare l’edificio in una classe energetica superiore si è deciso di staccare il tamponamento della facciata dall’elemento strutturale perimetrale a 4 cm da questo e a 30 cm dal filo esterno verso la strada. Questo intervento non solo ha conferito un nuovo linguaggio alla facciata, ma ha anche permesso di ricavare molta SLP da poter riutilizzare in punti differenti della struttura, in particolare essa è stata traslata al piano terra. Tema importante su cui lo studio si è concentrato è stato la scelta cromatica del colore, anche considerando la posizione strategica nella città. La scelta è stata guidata e indirizzata dalla percezione delle persone e dei residenti, che ricordavano erroneamente l’edificio di colore nero, in realtà marrone, si è quindi deciso di dipingerlo di un colore molto scuro, restituendolo alla gente l’immagine che ci era fatta della struttura. La facciata scura è poi illuminata grazie alla presenza di lanterne, luminose verso l’esterno e opache verso l’interno per limitare l’ingresso della luce naturale che altrimenti sarebbe stata di disturbo per le attività interne.

96


Già nel progetto originale il retro dell’edificio, contenente le residenze, presentava un linguaggio architettonico differente: il prospetto era molto più chiuso verso la strada per essere più aperto verso la corte interna. Park Associati ha deciso di mantenere questa caratteristica ricercando un dialogo diretto e forzato con la Ca’ Brutta di Muzio attraverso l’utilizzo di un vetro retro-verniciato che ne riflette la facciata e garantisce poca visibilità verso l’interno dell’edificio oggetto di ristrutturazione.

Headquarters

L’intervento sulla corte interna è stato coadiuvato dal paesaggista Marco Bay con il quale si è deciso di sostituire il manto erboso con della ghiaia nera in riferimento alle scelte cromatiche precedenti e con l’aggiunta di alcune fasce di verde parallele a via Turati che creano una sequenza prospettica che dà l’illusione di trovarsi di fronte ad una vegetazione molto fitta ma che in realtà, entrando all’interno della corte, si apre e si dirada dando la possibilità a che vuole di poterla attraversare facilmente

-

SALEWA (Bolzano, 2011, 25000 sqm)

SALEWA, Bolzano, 2011 (http://www.parkasso ciati.com)

Park Associati e Cino Zucchi iniziano una collaborazione a Bolzano negli anni Novanta con la vincita di un concorso internazionale indetto dall’amministrazione dopo la realizzazione del nuovo Piano di Espansione della città di Bolzano. Da un’analisi del territorio si evince che questa particolare città ha confini ben definiti da una parte dalla presenza di edifici industriali e dall’altra dall’inizio immediato della campagna. Si ha quindi una percezione netta dell’inizio e della fine della città, a differenza, per esempio, del nord della Brianza, in cui il paesaggio urbano sfuma verso la periferia per dare spazio poi alla natura del luogo. L’area di intervento è compresa tra l’autostrada del Brennero e l’inizio della città, in un lotto all’estremo sud nelle immediate vicinanze dell’autostrada. Il lotto viene acquistato da una società leader per tutto ciò che riguarda oggettistica, elementi e abbigliamento per l’arrampicata, la Salewa, con l’intento di realizzare la propria casa madre, un haedquarter appunto. I due termini fondamentali, divenuti poi la matrice di sviluppo del progetto di Park Associati, sono la natura e la tecnologia. La Salewa infatti è prevalentemente specializzata in prodotti per sport di montagna e in materiali tecnologici. Il bando stanziato prevedeva quindi la costruzione di edifici tra i confini del lotto con la possibilità data dall’amministrazione di svilupparli in alzato di cinquanta metri. Al concorso parteciparono otto progetti; interessante però è la presenza costante di un solo elemento alto cinquanta metri che spicca nel panorama generale dell’area interessata. Il progetto presentato dallo studio Park Associati tiene conto del rapporto e del dialogo che esso ha con il mondo locale, rappresentato da tutta la zona industriale, la natura locale tipica del paesaggio del Trentino (la catena alpina delle Dolomiti e i percorsi naturali dell’acqua), la presenza dell’autostrada del Brennero e la circolazione stradale esistente. Particolare è il

97


movimento del sole durante le stagioni e il fatto che Bolzano è ritenuta la città più fredda e più calda d’Italia. Dal punto di vista impiantistico si lavora su uno schema completamente rivoluzionario. Essendo il caldo per una città come Bolzano un elemento molto problematico, i progettisti decidono di evitare di lavorare con gli apporti gratuiti invernali. L’edificio viene quindi realizzato utilizzando un manto protettivo sulle parti più esposte (est, sud, ovest) costituito da pelle forata in alluminio elettro-colorato. Sul fronte restante invece viene realizzata una facciata interamente trasparente. Inoltre l’edificio non presenta né pavimenti sopraelevati, né controsoffitti: si decide con gli impiantisti di lavorare con l’inerzia termica della soletta, ragionando non più sull’estremizzazione dell’utilizzo dei sistemi di raffrescamento e di riscaldamento nei periodi più caldi e più freddi, ma sull’intenzione di creare una fascia centrale di ottimizzazione. Oggi si parla di un edificio polifunzionale che comprende non solo uffici, showrooms e magazzini ma anche una palestra d’arrampicata ed un’area di verde pubblico con un piccolo bistrot. In particolare la palestra d’arrampicata, una delle più grandi d’Europa, con la sua comunicazione diretta tra ambiente interno ed esterno è divenuta un punto di riferimento mondiale architettonico. L’edificio, grazie alle scelte cromatiche del rivestimento e ai materiali utilizzati, nonostante il grande impatto che ha avuto sul territorio, è divenuto uno dei punti di riferimento della città di Bolzano.

-

NESLÈ (Bolzano, 2011, 25000 sqm)

Nestlè, Bolzano, 2011 (http://www.parkasso ciati.com)

Questo edificio è l’headquarter della società svizzera Nestlè. Un progetto che ha riguardato un’area molto particolare del sud di Milano: una zona periferica del bacino di utenza milanese. Milanofiori rappresenta lo sviluppo di un’area che è stata raggiunta da poco dall’ultima fermata della metropolitana verde, un’area che da quando questo processo si è innestato è diventata una micro città a tutti gli effetti con spazi dedicati sia agli uffici, sia al campo commerciale, sia a quello residenziale. Tra questi il manufatto progettato dallo studio Park Associati è l’ultimo costruito. Il bando inziale stanziato dalla Nestlè prevedeva la costruzione della loro sede principale su un terreno di circa 30.000 m2 e aveva due richieste principali. L’edificio infatti doveva essere un campus, uno spazio quindi chiuso a corte completamente vetrato e trasparente. Una richiesta questa basata su principi completamente opposti rispetto alla loro esperienza precedente con la Salewa. Per quanto riguarda la prima richiesta sono stati utilizzati come riferimenti le tipiche corti milanesi come la Statale di Milano e il loro lavoro precedente Serenissima con i suoi giardini segreti. Da un semplice edificio a corte si è poi cercato di fornire un assetto e un aspetto che si potesse assolutamente distaccare e differenziale dal tradizionale. Le facciate finali sono state il risultato quindi di micro oscillazioni che hanno spezzato la massa in punti strategici, quali i punti di risalita dell’edificio. Questa sequenza di giochi ha permesso l’individuazione di quelle che poi sono state denominate scatole trasparenti e sospese. Il tema del vetro ha spaventato molto i progettisti, i quali in collaborazione con la Focchi, hanno studiato come raggiungere un’alta efficienza energetica utilizzando facciate interamente in vetro senza schermatura. L’edifico è infatti certificato Leed “Core and Shell” in classe gold: tutti i connotati legati alla qualità dell’involucro e degli impianti sono ad altissimi

98


L’ EFFIMERO

livelli. Lo studio ha portato all’utilizzo di un triplo vetro (importante matrice in termini di costi e qualità) lavorati in modo particolare per ottenere performance sorprendenti. Il basamento invece è completamente differente; la necessità di far dialogare e percepire questi elementi superiori dell’edificio come scatole vetrate sospese, ha portato all’introduzione di un materiale nuovo: terracotta in elementi estrusi alti fino a 3 metri, di differenti dimensioni e tre gradazioni di grigio. Il principio è quello di nascondere un tessuto di facciata molto insignificante (finestre semplici con fattore economico nettamente inferiore) attraverso la fragmentazione di lame che hanno un'unica regola: essere in asse e perpendicolari alle finestre. Nasce così un gioco di prospettiva: se si osserva l’edificio dal davanti infatti si percepisce solo lo spessore di queste lame e si riesce ad intravederne l’interno, mentre in prospettiva non si leggono più le finestre ma la vibrazione del basamento che mette in luce la parte superiore.

-

THE CUBE BY ELECTROLU

THE CUBE (http://www.parkasso ciati.com)

Alla base c’è il concetto di effimero che trova dei riferimenti nella contemporaneità con la Tour Eiffel, l’hotel di ghiaccio in Svezia, la Serpentine Galleries, il festival Burning Man in Nevada e il mondo digitale che più di ogni altro rappresenta l’effimero. Park Associati lavora con l’effimero in modo più tradizionale concentrandosi soprattutto sul concetto di smontabilità e rimontabilità. È così che nasce un progetto itinerante legato ad una temporaneità limitata. Il progetto nasce dalla richiesta di un cliente di fare un ristorante itinerante che dovesse andare in qualsiasi luogo del mondo e adattarsi a qualsiasi temperatura. Anche in questo caso l’indagine è andata a perlustrare i precedenti storici di casi di edifici smontabili e rimontabili o di oggetti parassiti e architetture completamente estranianti rispetto ad un luogo o ad un paesaggio. È pensato per potersi spostare e sovrapporre ad edifici preesistenti in situazioni di elevata visibilità ed è anche concepito come una sorta di teatro gastronomico ambulante, un carro di Tespi della ristorazione, dove grandi chef, a rotazione, sono invitati a esibirsi in performance di show-cooking. The cube è un edificio con la caratteristica di essere trasportabile e nei suoi due anni e mezzo è stato sull’arco di trionfo a Bruxelles, su Palazzo Reale a Milano, sul Royal Festival Hall a Londra, sull’Opera House a Stoccolma. Il processo di montaggio è stato molto rapido (circa tre settimane) e la sua permanenza è stata di sei mesi in ogni luogo. Si tratta di un ristorante con un tavolo di 18 posti e una cucina in diretto contatto con i commensali. Il tavolo scompare a soffitto, a formare un’area lounge per il dopocena, in modo da creare inizialmente uno spazio più libero che viene poi occupato a inizio cena dalla tavola apparecchiata che scende. La leggerezza formale del padiglione è sottolineata all’esterno dal colore bianco e movimentata nei volumi grazie anche all’utilizzo di una “pelle” in alluminio tagliato al laser a formare una texture dal disegno geometrico che ricopre l’intera superficie esterna.

99


-

PRICELESS BY MASTERCARD

Come The Cube, anche Priceless è un’installazione effimera, posizionata al di sopra di Palazzo Beltrami in Piazza della Scala a Milano. L'obiettivo conseguito è sempre quello di creare una forma caratterizzata ma non prevaricante, capace di confrontarsi senza collidere con le ambientazioni e gli accostamenti urbani più disparati. Gli elementi migliorativi apportati da Priceless, rispetto al suo precedente, sono una semplificazione della pianta e la velocizzazione del montaggio. Si è lavorato sul concetto di efficienza costruttiva introducendo il concetto di moduli che hanno permesso una maggiore rapidità e comodità a livello di trasporto, montaggio e smontaggio (tanto da consentirne l’assemblaggio in due sole notti). PRICELESS http://www.parkass ociati.com

Delle pareti mobili aprono e chiudono la zona di show-cooking in modo che Priceless sia il più possibile sfruttabile durante le ore diurne. Diventa così una piccola sala conferenze e zona lunch. Il padiglione è ultimato da una pelle di rivestimento in lamiera di alluminio forata, pressopiegata e anodizzata con tinte bronzo/oro.Questa “vela” ha il compito di proteggere la struttura dall’irradiazione solare garantendo anche l’ottima vivibilità della terrazza al di sotto di essa: la sua geometria ad ala spezzata conferisce all’insieme un senso di leggerezza e sospensione. Ciò consente all’edificio di avere due comportamenti diversi in base ai luoghi in cui viene collocata per proteggersi meglio l’edificio anche in contesti più ostili.

100


Quando vi approcciate alla progettazione di un’architettura o di un’installazione, qual è il principale scopo, obiettivo che vi proponete prima della progettazione?

Noi abbiamo un approccio al progetto particolare. Detto in termini semplici, il progetto ci deve divertire. Il progetto ha un’anima, legata anche a una freschezza di un processo che, in qualche modo, deve trasferire un po’ del pathos, che devi sentire dentro al progetto, altrimenti non riesci a raccontare nulla. Quando io racconto il progetto della Nestlé, dico che per noi è stato un progetto all’inizio scioccante perché la matrice di quelle che erano le richieste del cliente era una matrice esattamente opposta rispetto a quello che noi avremmo voluto fare. E lo racconto proprio così, come per dire che è vero che il divertimento e questa freschezza nel progettare a volte è anche affossata delle richieste che possono essere molto pesanti. Quindi, quello che posso dire, è di non scoraggiarsi mai. Io credo che non esiste il progetto giusto o sbagliato, bello o brutto, corretto o no. In ogni progetto si possono individuare quelle che sono delle matrici positive e dunque dobbiamo sempre andare a ricercare quelle che istintivamente crediamo possano essere delle soluzioni, una direzione corretta per arrivare poi a un progetto che funzioni bene. L’altra cosa è questa ossessione un po’ per la perfezione, il mettersi sempre in discussione. La difficoltà se vogliamo del progetto è non fermarsi mai a una soluzione iniziale, pensando che sia la conclusione di quella che è la scelta. È sempre una continua messa in discussione, prima di arrivare a quella che per noi è un po’ la conclusione o la possibile conclusione del progetto, passano una quantità di informazioni e di ricerche impressionanti. Molto spesso se vediamo da dove inizia un progetto molto spesso finisce in una direzione che è opposta rispetto a quella che era all’inizio. Perché? Perché questo processo ci porta a sperimentare, a leggere, ad andare a disegnare, fare modelli e continuare a guardare quale può essere la matrice che poi genera la cosa che intendiamo corretta. Quindi, questa continua messa in discussione del progetto e dell’idea iniziale è un progetto faticoso, ma inevitabilmente lo dobbiamo fare e vi consiglio di fare. È l’unico modo per arrivare dopo alla qualità, qualità che voi potete leggere o meno, ma in ogni caso non fermarsi mai o non pensare mai di essere arrivati alla conclusione finale è ciò che dà poi i risultati migliori.

Dalle esperienze nello studio di Renzo Piano e di De Lucchi, quali sono gli elementi che ha tratto e che poi si riflettono all’interno dei suoi progetti?

Premessa: Io ho fatto tutto il mio periodo di gavetta, un processo necessario per tutti. Ho fatto quasi dieci anni di gavetta lavorando per altri. Ho trascorso quasi cinque anni da Piano a Parigi ed ero appena laureato, anzi, addirittura durante l’Erasmus, quando ero andato lì e ho iniziato per caso, bussando alla porta. Era ancora uno studio piccolino e mi hanno preso proprio per iniziare un concorso, mettendomi su un modellino. Sicuramente, la matrice legata al progetto e al modo di fare dello studio Piano è una matrice molto interessante per un giovane architetto che inizia a progettare perché hai da subito la fortuna di vedere progetti di grande scala. Quando ho iniziato a lavorare da De Lucchi è stata un’esperienza completamente diversa proprio per tipologia di approccio al progetto, perché Michele arriva da una scuola più legata al mondo del design e quindi sicuramente, questa visione del progetto e del dettaglio del progetto a piccola scala, in qualche modo si sentiva. Io ho avuto la fortuna di lavorare nel suo studio per cinque anni, di avere una grandissima libertà d’azione perché quando ho iniziato a lavorare da lui era il momento in cui lui ha deciso di approcciarsi al mondo dell’architettura attraverso molti concorsi. Abbiamo sperimentato per anni facendo venti concorsi all’anno, da cui io ne sono uscito abbastanza stanco fisicamente, perché come sapete il periodo di un concorso è estremamente faticoso per i suoi ritmi pazzeschi. Però è stata anche una bellissima esperienza perché appunto mi ha permesso di iniziare a immaginare delle vie della progettazione autonome e anche di capire e avere un dialogo con un professionista che ha una visione completamente da quella di Piano. Entrambi però sono serviti per mettere a fuoco quello che poteva essere un metodo divenuto poi processo spontaneo quando ho iniziato il percorso nel mio studio. Diciamo che iniziare a camminare con le proprie gambe è un’avventura molto faticosa, ma anche molto stimolante.

Data la vostra esperienza internazionale sulla progettazione in ambiti metropolitani, come vi approcciate alla progettazione in piccole-medie zone urbane?

Ogni luogo viene analizzato secondo quelli che possono essere degli stimoli locali, elementi di piccola lettura e tutte le volte si cerca di individuare in quel luogo gli elementi che danno la scintilla per partire poi con il progetto. Non credo sia tanto la scala del luogo, quanto piuttosto riuscire ad individuare ogni volta le matrici o gli elementi ai quali aggrapparsi per iniziare una progettazione. Ad esempio Bolzano è una piccola città, però ha delle grandi potenzialità nonostante essendo una zona periferica. In sintesi non è il luogo che da forza al progetto, ma è il progetto in se che deve esprimere la qualità che il luogo ha.

101


In alcune interviste abbiamo notato come affermate di negare il concetto di stile. Ma, secondo voi, l’opinione di ognuno di voi influenza indirettamente le architetture che progettiamo? E poi, questa scelta di non seguire uno stile preciso è una scelta a priori o è emersa nei vari progetti?

Sempre in base alla vostra esperienza internazionale, come è percepito lo stile architettonico "italiano"?

Abbiamo visto che date molta importanza al contesto in cui andate a realizzare un edificio o un’istallazione. Ma nei casi come “The Cube” e “Priceless” da dove si parte se non si ha un contesto a cui fare riferimento?

È una scelta che come dicevo prima è legata al concetto di metodo. È un processo empírico legato a questa analisi ossessiva del processo dell’avvicinamento al progetto. Il gusto diciamo che non centra nulla, non agiamo in funzione di esso. Non diciamo “mi piace”, “non mi piace”. Non possiamo arrivare alla definizione di un progetto solo perché è bello o brutto. Il bello o brutto è soggettivo, a te può piacere e a me no, non è quello. Il problema è individuare all’interno del processo una matrice e un metodo costruttivo che a nostro avviso arriva a delle conclusioni formali di funzionamento della macchina del progetto. Questa cosa la capisci soltanto attraverso il processo empirico. Se ti fermi al primo stadio del progetto è ovvio che non si ha la profondità di andaré ad indagare su eventuali mondi inesplorati. Devi avere la possibilità di continuare a leggere delle nuove potenzialità all’interno del progetto che stai indagando. Perché dico che noi rifiutiamo il concetto di stile? Perché molto spesso lo stile è a priori rispetto a questa fase o a un processo di questo tipo. Vuol dire che qualsiasi cosa tu faccia, da quella macchina fotografica a quel progetto la fai con quello stile ed era quello che i nostri professori del Politecnico negli anni ’80 e alcune matrici scolastiche purtroppo hanno cercato di inculcare nelle persone e nella testa dei progettisti facendo dei danni abissali. Adesso noi possiamo poi dire che Aldo Rossi ha dato delle letture allo sviluppo della città estremamente interessanti e non per niente ho fatto vedere anche un’immagine del Teatro Effimero di Aldo Rossi, ma perché secondo me è un progetto bellissimo, ma questo non vuol dire che se io vado a Berlino e vado a Milano nella periferia milanese qualsiasi cosa che vado a fare è sempre fatto con lo stesso codice di lettura di un edificio perché secondo me quello è un processo che non funziona e ha creato dei mostri sia dal punto di vista dell’architettura che dal punto di vista di architetti che hanno devastato il nostro territorio con architetture che oggi sono irrecuperabili. Il problema è anche questo: ci sono purtroppo dei bacini di processi architettonici che hanno creato delle devastazioni del territorio. È vero che oggi esistono dei codici di lettura del progetto che sono universali e internazionali ma essi non appartengono certamente a quel tipo di matrice che guarda soltanto a un aspetto formale, di come si costruisce una facciata, che dimensionamento dare a una finestra e che colori dare a un intonaco. Quindi credo che uno stile non sia possibile. Ogni progetto ha in sé un’anima inesplorata che debe essere tirata fuori con il modo di pensare, non con il gusto. Non è un concetto legato al gusto, ma al processo, al modo in cui si mettono insieme gli elementi per arrivare poi a definire una correttezza della struttura. Per me il progetto si fa in questi termini. Non esiste lo stile, non esiste il gusto, non esiste il bello o il brutto, non ha senso. Si tratta di capire se la matrice è corretta, cioè arrivare a una matrice di comunicazione che comunica qualcosa all’esterno e all’interno.

Io credo che ormai l’Italia sia entrata nel bacino che si possa definire International Style, un modo di operare che non è più legato alle caratteristiche del fare architettura in Italia piuttosto che in altri paesi; quello che si nota è che ormai il mondo della costruzione è livellato riguardo ai codici costruttivi utilizzati. Avrei difficoltà a definire uno stile architettonico italiano in giro per il mondo in quanto è diventato un mondo molto orizzontale dal punto di vista dello stile e della costruzione. La lettura dell’architettura italiana è una lettura in linea con quella che è la lettura con gli altri paesi, poi che esista sempre una fascinazione da parte di alcune culture nei confronti di quella italiana, secondo i quali siamo i portatori di una certa qualità estetica è indubbio. Sicuramente nell’ambito del design rappresentiamo un élite mentre ripeto nell’ambito della costruzione ormai ci si muove di pari passo.

Se negli altri progetti esiste una matrice nell’analisi di progetto, una costante nell’analisi del luogo, “The Cube” e “Priceless” partono da presupposti completamente opposti, cioè non sappiamo mai dove andiamo, in quale punto della città o del paesaggio. Potrebbe anche essere calati in cima alla montagna. Allora la domanda è sempre stata “Cosa rappresenta questo involucro, questo nido, questo animale che si muove?”. Il “The Cube” era tutto bianco e “Priceless” era tutto nero e dorato, e queste scelte cromatiche erano legate alle società di riferimento (Electrolux e Mastercard). Uno doveva dare l’idea della purezza, della luce perchè l’immagine della Electrolux è molto legata al concetto di trasparenza, dall’altra parte invece c’è un’azienda un po’ più ovattata, tradizionale nella sua immagine verso il pubblico. Oltre a questo codice cromatico i due progetti lavorano più o meno nello stesso modo, con delle dinamiche tuttavia completamente diverse: il primo aveva queste caratteristiche di autoprotezione, con i vetri svasati per cercare di creare il più possibile una protezione naturale, l’altro è un po’ più legato all’efficienza di moduli e al manto che li protegge.

102


Abbiamo visto che in fase di progettazione conta molto l’efficienza energetica che si vuole raggiungere nel momento in cui si parla di un edificio. Raggiungere determinati standard è stato sempre possibile oppure spesso avete dovuto scendere a compromessi?

Abbiamo letto che siete stati scelti per il progetto per Design for All. Volevamo sapere se potrebbe spiegarci meglio di cosa si tratta e delle aspettative di questo progetto.

Quali caratteristiche principali dovrebbe avere un architetto/ingegnere neo laureato per approcciarsi al meglio nel mondo lavorativo? E soprattutto in che modo può competere in campo internazionale con nazioni in ascesa nel campo della progettazione?

Per quanto riguarda i numeri che generano queste efficienze io continuo tutt’oggi ad avere sempre dei dubbi, nel senso che la sperimentazione sui materiali è una sperimentazione scientifica che porta a delle conclusioni a delle dimostrazioni scientifiche per cui i materiali raggiungono certi standard. Come l’insieme dei materiali e delle tecnologie applicate ai materiali riescono a dialogare in un organismo completo e come questo è realmente controllato da un codice numerico, cioè quindi la classificazione, per me continua a rimanere un mistero. Io non riesco ancora a trovare una formula che mi garantisca che se dico che un edificio è classe A Leed Gold è diverso da un edificio che è in classe B Leed, C. Secondo me all’interno di quell’edificio alla fine, se costruito più o meno con giusti riconoscimenti, i due edifici equivalgono molto probabilmente nella percezione mia, fisica, di quel luogo. Quindi, diciamo che io ho la sensazione che molto spesso queste scuse, questi modi di definire l’efficienza di un edificio sono dei metodi che hanno in sé una matrice di forte marketing legato alla costruzione e lo dico in modo molto onesto. Per quanto riguarda i compromessi, oggi sono relativi nel senso che sicuramente c’è tutto un discorso legato alle facciate, perché su queste si gioca gran parte di questi numeri che devono far stare in piedi poi la macchina generale. È successo in alcuni progetti di dover creare dei compromessi di schermatura tipo per La Serenissima in cui la parte di schermatura e realizzata da questa frammentazione della facciata e delle lanterne luminose. In realtà le lanterne luminose abbiamo dovuto introdurle a un certo punto perché in un’analisi complessiva dell’efficienza dell’edificio avevamo visto che, per portare a una certa efficienza l’involucro, avevamo bisogno di rendere opache delle parti. Cioè, avremmo dovuto immettere un triplo vetro per avere la giusta performance, abbiamo preferito cosí togliere superficie vetrata, mantenendo il doppio vetro, e nello stesso tempo lavorare sulla parte di superficie di quella schermatura opaca in un modo molto più económico e semplice con un cappotto coibentato rispetto a un triplo vetro. Quindi, da un certo punto di vista i compromessi arrivano ed è vero che questi numeri spesso ti impongono poi delle scelte.

Innanzi tutto è un progetto che è ancora su carta e che sarà la base di avvio di un concorso che abbiamo vinto quasi due anni fa. Giulio Ceppi ci ha chiesto se eravamo interessati ad un processo di analisi del progetto secondo i codici, e noi abbiamo pensato che fosse l’occasione giusta, anche perchè è un progetto di edilizia residenziale. In realtà è un processo molto giusto, a mio avviso, di intendere la mobilità delle persone che hanno problemi a muoversi all’interno di un manufatto architettonico e di dare una lettura a quelli che sono dei codici di lettura tipicamente legati al mondo del disabile, e normalizzarlo. È come se ad un certo punto esistessero dei codici di lettura del progetto all’interno del progetto che fanno sì che la percezione dell’architettura non è una percezione mirata al mondo del disabile. Quindi è un modo democratico e giusto di far percepire l’architettura per tutti. È un modo di vivere l’architettura uguale per tutti, senza nessuna distinzione. Credo che questa sia un modo corretto di approcciare un ambito della progettazione che tutto sommato ha delle specificità che fino ad oggi hanno sempre riguardato degli ambiti di esclusione. Quindi Design for All, per dire per tutti, senza distinzioni secche. Nel nostro caso è interessante perchè partiamo da zero nel progetto e quindi possiamo applicare da subito questa matrice.

Se volete essere molto interattivi con quella che è la richiesta di nuove leve professionali, io credo che, tutto il mondo BIM, vada preso in considerazione in modo molto deciso e importante. La nostra sensazione è che la matrice legata alla costruzione del progetto stia diventando realtà. Se fino a un anno fa si cominciava a dialogare con questo mondo, ora sta diventando sempre di più una necessità per voi e per noi; a noi come studio ci stanno sempre più chiedendo che i progetti siano costruiti in BIM. Il consiglio che vi do è di non prendere sottogamba la cosa, perché anche a noi ci capita valutando i curriculum, di fare attenzione alla capacità di maneggiare il mondo BIM. Per il resto i temi sono sempre gli stessi ovvero mantenere alta la curiosità generale di quello che vi capita attorno e capire quali sono gli interessi principali intesi come la direzione da prendere in ambiti specifici. Non ultimo, trovo che l’esperienza all’estero rappresenti un elemento di grande apertura che dipende anche da quello che ognuno vuole puntare. Il mondo professionale è sempre più aggressivo e competitivo, infatti non esiste più la possibilità di non essere qualitativamente preparati, bisogna sempre puntare al massimo e a delle soluzioni estremamente professionali in risposta ad esempio al cliente oppure al datore di lavoro.

103


Quest’ultima domanda ci riguarda in quanto studenti di Ingegneria Edile e Architettura. Volevamo sapere come al suo livello è vista la figura dell’Ingegnere – Architetto da lei e nel suo studio? E come i laureati nel nostro corso influenzano la progettazione.

Noi siamo molto affezionati agli Ingegneri – architetti, anche perchè in studio ne abbiamo storicamente una decina. Sicuramente sono una figura contemporanea: voi appartenete ad un mondo della costruzione che è molto vicina a quelle che sono le tematiche della costruzione, della progettazione. Io credo che in generale, per quello che ho visto, da una parte c’è un’omologazione degli studenti che in media quando escono vanno negli studi ingegneria a lavorare. Ma quando poi c’è il personaggio che è il “fuoriclasse”, io così li chiamo, quando esce da questa scuola “brucia” tutti gli architetti. Questo perchè voi avete il vantaggio di avere questa doppia preparazione, o doppia lettura del progetto: la matrice tecnica che il mondo dell’architettura non arriva a dare, visione numerica di quella che è la struttura della costruzione, e quella umanistica, Io sono molto positivo nei confronti di questa università. Tuttavia c’è il rischio che uno non riesca ad approfondire ne una cosa ne l’altra. Quindi il consiglio che io do è di cercare di essere molto forti nel controllo scientifico del progetto, ma allo stesso tempo buttarsi il più possibili buttarsi su quelli che sono gli aspetti più umanistici e architettonici del progetto.

104


Arch. Filippo Pagliani

Nomi dei relatori: Caramia Martha, Galvani Laura, Persico Elena, Terazzi Matteo, Di Renzo Loris, De Angelis Eleonora, Gasperi Erica, Rusconi Alessandra Maria Emma, Calvasina Stefano, Lupoli Michele, Rigamonti Lucia

105


106



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.