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Capitolo 1

Comunicazione e approccio in odontoiatria pediatrica V. LUZZI, A. POLIMENI

Quando comunichiamo «incrementiamo la conoscenza condivisa, cioè il senso comune, precondizione essenziale per l’esistenza di qualsiasi comunità» (Rosengren, 2001); inoltre, la comunicazione fluida con l’altro e con il contesto lavorativo attiva gli aspetti cognitivi ed emotivi che possono fare della professione un luogo di crescita, creatività e gratificazione. Analizzando diverse situazioni sia ambientali sia specifiche della cura, risulta evidente come gli aspetti relazionali occupino gran parte del tempo e dell’impegno degli operatori coinvolti. Inoltre, i livelli di disagio e di affaticamento connessi al lavoro sono spesso dovuti alla difficoltà e all’onere legati alla gestione di problematiche relazionali che si rivelano o come un alleato nella realizzazione della cura o, viceversa, come motivo della sua interruzione. In questo contesto, per semplificazione espositiva, la comunicazione verrà considerata prima nei suoi aspetti pragmatici all’interno delle procedure sanitarie e, in secondo luogo, come epifenomeno di processi emozionali più complessi. La comunicazione viene definita attraverso tre processi relazionali basati essenzialmente sul “rendere comune”, sul “trovarsi in contatto” e sul “trasmettere”. Si tratta, quindi, di un processo articolato mediante il quale l’informazione viene trasmessa con appositi segnali da un sistema a un altro. Essa si realizza attraverso veri e propri flussi di informazione basati: • sulla motivazione, ovvero sul volere, che dà un valore aggiunto alla comunicazione; • sulla conoscenza, ovvero sul sapere, inteso come la capacità di ricevere e interpretare le informazioni; • sull’abilità, quindi, sul saper formulare messaggi propri da proporre ad altri; • sulla competenza, intesa come saper essere e assumere comportamenti corretti per la salute.

Obiettivi della comunicazione Gli obiettivi della comunicazione in odontoiatria pediatrica coincidono con quelli dell’odontoiatria generica e si basano su cinque punti essenziali che definiscono la relazione odontoiatra-paziente. Nella comunicazione l’odontoiatra deve avere chiare le aspettative e le richieste del paziente utilizzando tecniche di “ascolto attivo” ed entrare con lui in “empatia”, mostrando una grande capacità di recepire e decodificare i suoi stati d’animo. La comunicazione avviene attraverso messaggi verbali che esprimono il “cosa” e messaggi non verbali e paraverbali che esprimono il “come”. I messaggi non verbali sono suscettibili 1


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di un minore controllo consapevole e interessano gran parte della comunicazione. Con il bambino, la comunicazione verbale prevede l’utilizzo di un linguaggio semplice, chiaro e adeguato alla sua età: deve essere evitato un linguaggio con termini tecnici che vanno, pertanto, sempre spiegati. La quantità di informazioni deve essere quindi adeguata alle capacità di attenzione e di elaborazione del bambino che, spesso, nell’ambiente odontoiatrico sono ridotte a causa dell’ansia e del disagio fisico. Bisogna, infatti, tener conto di alcuni fattori condizionanti il feedback della comunicazione verbale nel bambino. Tra questi: la qualità dell’informazione, il controllo dell’ansia e, non ultimo, l’ambiente circostante che comprende quello visivo, quello acustico nonché gli odori, i sapori e la percezione tattile. Il passo successivo è quello dell’informazione, per arrivare a ottenere il consenso del genitore alle procedure terapeutiche. Segue la fase della cosiddetta gestione comportamentale che vede una distinzione fondamentale tra l’adulto e il bambino. Mentre nell’adulto l’approccio si basa sul principio del problem solving, che prevede di proporre e discutere con il paziente le varie possibilità terapeutiche, nel bambino esistono vere e proprie strategie di gestione comportamentale che saranno descritte oltre nel testo. Un altro obiettivo della comunicazione è quello della persuasione, che nel bambino prevede di ottenere la collaborazione, sfruttando, sin dal momento della prima visita, metodi specifici, esposti in seguito, come la deviazione, la curiosità e l’induzione mirata al trattamento. Il ciclo della comunicazione si chiude con l’ultima fase, rappresentata dalla fidelizzazione del paziente, ovvero dall’instaurarsi di un rapporto fiduciario nell’ambito della relazione.

Interfaccia della comunicazione La peculiarità della comunicazione in odontoiatria pediatrica è dovuta all’esistenza di tre figure che si interfacciano reciprocamente: il bambino, il genitore e l’odontoiatra pediatrico. Tra queste, il bambino riveste senza dubbio il ruolo del protagonista. Il dialogo dell’odontoiatra pediatrico con il bambino dovrà però tener conto del genitore e della sua influenza sull’attitudine odontoiatrica del paziente. Orientativamente, nella pratica clinica degli Autori, ci si può trovare dinanzi a diverse tipologie di genitori alle quali, generalmente, corrispondono specifici profili caratteriali del figlio. Se il genitore si presenta ragionevole, tranquillo, disponibile e collaborativo nei confronti delle terapie proposte, il bambino sarà collaborante e sereno; viceversa, se il genitore si mostra ansioso, indeciso e dubbioso sulla capacità dell’operatore e sulle procedure terapeutiche, il figlio sarà ansioso e si mostrerà poco incline alla collaborazione. Nelle situazioni in cui il genitore si sente colpevolizzato, ovvero quando si sente responsabile della patologia orodentale che affligge il figlio, come per esempio nei quadri clinici di carie precoce destruente, il bambino sarà collaborante solo per risolvere le situazioni di urgenza legate, per esempio, alla presenza di una sintomatologia dolorosa. Dinanzi a un genitore superbo, aggressivo e poco collaborante il figlio sarà pauroso e non collaborante. A prescindere dalle varie tipologie di genitori con cui ci si confronta nella pratica clinica, è sempre indispensabile avere un colloquio preliminare con l’adulto responsabile al fine di 2


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Figura 1.1 Colloquio preliminare con l’odontoiatra pediatrico: il genitore è informato riguardo l’approccio terapeutico.

risolvere eventuali dubbi o resistenze al trattamento (Fig. 1.1). Solo così si potrà tranquillizzare il genitore sulla correttezza dell’approccio terapeutico, con l’ulteriore vantaggio di trasformarlo in un importante alleato nel condurre il bambino a un comportamento corretto.

Paura e ansia dentale Aspetti psicologici Una lieve paura e l’ansia sono esperienze attese e consistenti nel normale sviluppo psicologico del bambino. Diventano una preoccupazione e richiedono potenzialmente un trattamento specifico quando sono sproporzionate rispetto alla minaccia reale e quando vanno a ostacolare l’espletamento delle normali attività. Una delle affermazioni comunemente accettate sull’ansia è che essa rappresenta un costrutto multidimensionale che consiste di elementi somatici, cognitivi ed emozionali (Kendall, 2006). La paura o ansia dentale (DFA, Dental Fear or Anxiety) è una normale reazione emozionale a uno o più stimoli specifici dell’ambito odontoiatrico vissuti come minacciosi. Essa denota uno stato di apprensione originato dal timore che stia accadendo qualcosa di catastrofico in relazione al trattamento dentale ed è accoppiata a un senso di perdita del controllo. La fobia dentale (DP, Dental Phobia) rappresenta un tipo più grave di ansia dentale ed è caratterizzata da un’ansia marcata e persistente in relazione o a oggetti chiaramente individuabili, quali la turbina o l’ago della siringa, o piuttosto al contesto odontoiatrico in generale. 3


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Secondo il DSM-IV Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (2001), pubblicato dall’American Psychiatric Association, i criteri per la diagnosi di DP sono: • paura marcata e persistente, di tipo eccessivo e irragionevole; • esposizione a stimoli fobici che provoca quasi invariabilmente un’immediata risposta ansiosa; • riconoscimento da parte del paziente che la paura è eccessiva e irragionevole (nei bambini questo criterio può essere assente); • situazione fobica evitata o, in alternativa, sopportata con intensa ansia. In presenza di una diagnosi di DP, quindi, la paura o ansia dentale può condurre a evitare completamente un trattamento odontoiatrico necessario, o a sopportare il trattamento con terrore. Nella letteratura odontoiatrica, i termini di paura dentale, ansia dentale e fobia dentale sono solitamente usati in maniera intercambiabile. In generale, che siano o meno soddisfatti i criteri per una diagnosi di DP, i termini paura e ansia dentale sono usati quando ci si riferisce a forti sentimenti negativi associati al trattamento odontoiatrico nei bambini e negli adolescenti. Spesso la paura e l’ansia dentale sono associate a difficoltà di collaborazione del bambino al trattamento odontoiatrico. In questo caso si parla di problemi di gestione del comportamento del bambino (DBMP, Dental Behaviour Management Problems). Nel 1982 Winer ha pubblicato in Child Development una rassegna relativa al comportamento ansioso del bambino in ambito odontoiatrico. La rassegna riguardava la misura dell’ansia dentale e dei comportamenti del bambino non collaborante, nonché la loro incidenza, anche in relazione all’età. Nell’ambito della rassegna, emerge che il comportamento collaborante cresce con l’aumentare dell’età, ovvero tra i 3 e i 6 anni. Winer suggerisce che l’ansia in ambiente odontoiatrico rifletta un tipo di ansia più generale e basico e che aspetti della personalità emergente del bambino, per esempio il controllo dell’impulso e l’organizzazione delle funzioni cognitive, possano condurre a un declino della paura in età prescolare più avanzata (5-6 anni). In questa rassegna vengono presentati i risultati di diverse correlazioni tra ansie dentali e non dentali a supporto dell’ipotesi che l’ansia dentale non è altamente specifica, ma può essere correlata a un’ansia generale.

Tecniche di misura della DFA e dei DBMP La misura della DFA si effettua attraverso un’autovalutazione dell’ansia da parte del bambino stesso, se questi è nella fascia di età adolescenziale, o da parte del genitore se il bambino ha meno di 13 anni. Per quanto attiene alle scale psicometriche di autovalutazione, quella più usata è la Children’s Fear Survey Schedule-Dental Sub-scale (CFSS-DS) (Scherer e Nakamura, 1968). Tale scala presenta proprietà psicometriche ottimali: misura più precisamente la paura dentale, copre diversi aspetti dell’odontoiatria, ha un’alta affidabilità test-retest e presenta, infine, buone correlazioni con altri fattori comportamentali. La CFSS-DS valuta le reazioni di paura del bambino in una scala da 1 (bambino non spaventato) a 5 (bambino molto spaventato) in relazione a 15 persone o 4


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circostanze legate all’ambito medico-odontoiatrico. Per quanto riguarda i DBMP, sono definiti direttamente attraverso l’osservazione da parte dell’odontoiatra pediatrico durante il trattamento, tramite la cosiddetta valutazione comportamentale, per la cui misurazione esistono numerose scale, ma quella più usata è la scala di Frankl (Frankl et al, 1962).

Prevalenza e relazione tra DFA e DBPM Da diversi studi, ben riassunti in una rassegna condotta da Klingberg et al nel 2007, si evince che nei Paesi occidentali la DFA e i DBMP presentano una prevalenza compresa tra il 9 e il 21%. Sia la DFA sia i DBMP risultano essere più frequenti nelle bambine e sono correlati a una paura generale e a problemi comportamentali, sebbene queste correlazioni non siano state ancora completamente chiarite. È importante ricordare che DFA e DBMP non si manifestano sempre associati: una percentuale consistente di bambini non collaboranti non mostra segni di ansia dentale e d’altra parte la presenza di ansia dentale non implica automaticamente una non collaborazione da parte del bambino (Klingberg et al, 1995).

Fattori determinanti il comportamento Si è visto in precedenza che l’atteggiamento del genitore nei confronti dell’odontoiatra pediatrico può influenzare le reazioni del bambino e il suo comportamento durante il trattamento (Milgrom et al, 1995). Nel corso degli anni, i ricercatori si sono concentrati sull’individuazione sistematica dei fattori che influenzano questo comportamento o che ne permettono la predizione (Kyritsi et al, 2009; Holst et al, 1993). Da questi studi è risultato che le precedenti esperienze odontoiatriche del bambino hanno una forte influenza sul suo atteggiamento: i bambini che hanno mostrato ansia e paura dentale in precedenti visite odontoiatriche tendono in generale a essere meno collaboranti. Quando invece hanno avuto precedenti esperienze odontoiatriche positive, mostrano un comportamento maggiormente collaborante. Si è visto, inoltre, che la valutazione da parte del genitore dell’ansia dentale del bambino e delle reazioni del bambino alla terapia è realistica nella maggior parte dei casi, quindi l’opinione del genitore circa la collaborazione del bambino è altamente correlata al comportamento che egli mostrerà durante il trattamento. Oltre a questo, si è visto che i bambini acquisiscono le reazioni emozionali al trattamento odontoiatrico dei loro genitori e che ne imitano i comportamenti di salute orale: molti bambini paurosi e meno collaboranti al trattamento hanno genitori altrettanto paurosi. Infine, è stato rilevato che, in generale, una riduzione della DFA e dei DBMP con l’età riflette un normale sviluppo psicologico del bambino. 5


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Percorso gestionale clinico Se un bambino non collabora, in qualità di professionisti ci si deve chiedere il perché e, soprattutto, che cosa fare per condurlo in maniera mirata al trattamento. Questo perché i DBMP non sono una qualità intrinseca del bambino, ma sono un’espressione della relazione odontoiatra-bambino. La presenza di DBMP è la principale causa (37% dei casi) di rinvio a uno specialista in odontoiatria pediatrica (Klingberg et al, 2006). È importante che tutti gli odontoiatri riconoscano che i bambini non collaboranti non sono “bambini difficili”. Questi hanno, invece, una loro personalità e un bisogno speciale (special need) che richiede conoscenze, attenzioni e abilità cognitive avanzate da parte dell’odontoiatra pediatrico. La conoscenza della psicologia in età evolutiva è quindi una componente fondamentale per rendere le sedute odontoiatriche esperienze positive per il bambino.

Relazione odontoiatra-bambino nelle varie fasce di età La relazione tra l’odontoiatra pediatrico e il piccolo paziente deve tener conto delle differenze legate all’età. In quest’ottica si distinguono tre fasce di età: 0-2 anni, 3-5 anni e 6-12 anni. Nella fascia compresa tra 0 e 2 anni è impossibile stabilire un dialogo reciproco, in quanto la capacità di comunicazione del bambino non è ancora sviluppata. L’interlocutore principale è il genitore e l’intervento è limitato a procedure d’urgenza. Quando bisogna visitare un bambino molto piccolo che non offre un’adeguata collaborazione, per il suo posizionamento in poltrona si ricorre a uno schema che prevede la collaborazione di un genitore: si parla della cosiddetta posizione “ginocchia a ginocchia” (knees to knees). Operatore e genitore si pongono uno di fronte all’altro con le ginocchia a contatto; il bambino, in braccio al genitore, viene posizionato con la testa sulle gambe dell’operatore; il genitore tiene le braccia del bambino. A questo punto l’operatore può procedere con la visita o con le manovre terapeutiche (Fig. 1.2). In questo caso, la comunicazione è prevalentemente di tipo non verbale ed è basata essenzialmente sulle variazioni dei toni di voce e sulle modalità di contatto con il bambino. Essa, inoltre, non si baserà su un approccio motivazionale diretto al bambino, bensì al genitore, che dovrà essere indirizzato alla prevenzione attraverso l’educazione all’igiene orale, all’educazione alimentare e alla prevenzione delle abitudini viziate. Nella fascia di età compresa tra i 3 e i 5 anni il bambino non ha ancora sviluppato capacità di controllo e di regolazione delle emozioni e non è ancora in grado di autogestirsi. Questo richiede, quindi, una guida comportamentale decisa da parte dell’odontoiatra e gli interlocutori principali sono sia il genitore sia il bambino. Per ottenere un imprinting comportamentale positivo, l’odontoiatra pediatrico deve adottare una comunicazione verbale di tipo semplice, utilizzando frasi minime e termini sostitutivi. Per fare un esempio, 6


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è preferibile indicare l’ago per l’anestesia con il termine “tubicino da cui escono delle gocce di camomilla” o ancora l’aspirasaliva con il termine “aspirapolvere”, la turbina con il termine “trottola”. Soprattutto in questa fascia di età, riveste un’importanza particolare la figura professionale dell’assistente alla poltrona. Questi deve mostrare un atteggiamento coerente a quello dell’odontoiatra pediatrico, favorendo la collaborazione del bambino. Inoltre, attraverso un’adeguata preparazione dei tray, deve avere cura di occultare aghi, siringhe e altro strumentario che potrebbe indurre ansia nel bambino. In questa fascia di età l’approccio motivazionale potrà essere diretto tanto al genitore quanto al bambino. Mentre al genitore dovremo sempre fornire gli strumenti per una corretta motivazione, istruzione ed educazione alla salute orodentale del proprio figlio, al bambino sarà possibile presentare figure illustrate che stimolino l’emulazione di corretti comportamenti relativi alla salute orale (Fig. 1.3). Come esempio si riporta il libretto educativo, realizzato dalla collaborazione della Cattedra di Odontoiatria Pediatrica, della Cattedra di Odontoiatria Preventiva e del Dipartimento di Linguistica della Sapienza Università di Roma con il Comune di Roma (Fig. 1.4). In esso si contrappongono due personaggi, Dino e Sauro, che incarnano due tipologie opposte di comportamento nei confronti delle misure di igiene orale e alimentare del bambino. Nella fascia di età compresa tra i 6 e i 12 anni il bambino sviluppa una propria personalità e comprende i motivi alla base del trattamento. Il modo di pensare è legato a situazioni concrete e la capacità di astrazione è limitata. Pertanto, per ottenere un’efficace comunicazione, le situazioni devono essere illustrate e simulate in modo concreto, utilizzando una comunicazione adeguata con termini precisi e corretti. In questa fascia di età è necessario stabilire un rapporto diretto con il paziente e l’interlocutore principale è il bambino.

Figura 1.3 Approccio motivazionale in un bambino di 3 anni. Viene presentato un libretto educativo con figure illustrate che stimolano l’emulazione di corretti comportamenti relativi alla salute orale.

Figura 1.2 Posizione “ginocchia a ginocchia” (knees to knees). Operatore e genitore si pongono uno di fronte all’altro con le ginocchia a contatto; il bambino in braccio al genitore viene posizionato con la testa sulle gambe dell’operatore; il genitore tiene le braccia del bambino; l’operatore può in tal modo procedere con la visita o con le manovre terapeutiche.

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Figura 1.4 Libretto educativo in cui si contrappongono due personaggi, Dino e Sauro, che incarnano due tipologie opposte di comportamento nei confronti delle misure di igiene orale e alimentare del bambino.

Primo incontro Le criticità insite nel rapporto con il bambino declinano in modo specifico le dinamiche contenute in ogni rapporto di cura e rendono particolarmente cruciale l’instaurarsi di un rapporto di fiducia fin dall’inizio. Al momento dell’ingresso del piccolo paziente e dei suoi genitori, prendere in considerazione gli aspetti emotivi implicati nella domanda di cura può aiutare a instaurare un rapporto collaborativo e di reciproca fiducia e situare correttamente la risposta, evitando di colludere con aspettative ideali implicite in ogni richiesta e alle conseguenti, inevitabili, delusioni. A questo proposito è utile riferire i cinque passi raccomandati dal modello evidence based introdotto da Robert Smith (University of Michigan) all’American College of Physicians (Smith, 2005), in quanto sembra rispondere sia alle esigenze medico-sanitarie sia a quelle di costruzione di una relazione di cooperazione. I cinque passi sono i seguenti: • accoglienza, benvenuto, presentazione dell’operatore e ricerca di un ambiente adatto, dove siano garantiti privacy e comfort al paziente; • definizione del tempo a disposizione per la ricerca e per la definizione dei bisogni del paziente; • raccolta di dati anamnestici partendo da domande a largo raggio, mentre vengono valutati il comportamento del paziente, le sue caratteristiche fisiche e le comunicazioni non verbali; • indagine specifica tesa a valutare la storia fisica, personale ed emozionale, dando nome alle emozioni, comprendendole, rispettandole e supportandole; • sintesi nella cartella clinica per la valutazione dei dati emersi e focalizzata sul percorso assistenziale. 8


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In questi cinque passi sono concettualizzati con precisione i comportamenti del sanitario durante la doctor-centered interview, così come i luoghi e i tempi fino alla stesura del progetto terapeutico. Da un punto di vista relazionale, risulta prioritaria l’attenzione ai bisogni emozionali del paziente attraverso sia le modalità di accoglienza sia di colloquio. Sin dal primo ingresso nella sala operativa il bambino può essere investito da un senso d’insicurezza e di paura che vanno considerate esperienze attese e reazioni normali dinanzi a situazioni e a stimoli nuovi (Fig. 1.5). I metodi suggeriti nel momento di approccio alla prima visita sono: • deviazione; • curiosità; • induzione mirata al trattamento. Al primo incontro, l’attenzione del bambino deve essere deviata dal problema dentale e rivolta ad argomenti inerenti alla scuola, allo sport svolto e agli hobby personali, inducendo così uno stato di rilassamento mentale. Si passa, quindi, a stimolare la curiosità del bambino ponendogli quesiti che valutino la conoscenza che egli ha del proprio corpo e domande relative al numero di occhi, mani e piedi fino ad arrivare a quella relativa al numero dei denti presenti in bocca. Durante la prima seduta è inoltre importante effettuare manovre diagnostiche e terapeutiche che non generino alcuna sensazione spiacevole nel bambino in modo da rispettare quella che è una induzione mirata al trattamento. Andranno pertanto effettuate indagini radiologiche, medicazioni provvisorie che non prevedono l’uso di strumenti rotanti o procedure di escavazione di cavità di elementi necrotici. La fase successiva è rappresentata dall’operatività dell’odontoiatra pediatrico nella cura delle problematiche rilevate. Questa fase richiede la conoscenza di specifiche tecniche di gestione del comportamento del bambino che saranno differenti da quelle normalmente adottate nel caso del paziente adulto.

Figura 1.5 Primo ingresso del bambino nella sala operativa. Dinanzi a situazioni e a stimoli nuovi il bambino può manifestare insicurezza e paura che vanno considerate esperienze attese e reazioni normali.

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Tecniche di gestione comportamentale È necessario distinguere tra le tecniche di gestione comportamentale di base e le tecniche di gestione comportamentale propriamente dette. Con il termine tecniche di base si intende un insieme di tecniche generali che vanno eseguite con ogni bambino, anche il più collaborante. Le tecniche di gestione comportamentale propriamente dette sono invece applicate nei casi di non collaborazione per ridurre l’ansia del bambino e per indurlo al trattamento in maniera più rilassata.

Tecniche di base Le tecniche di base includono la tecnica del tell-show-do (spiega-mostra-fai), anche detta tecnica del suggerimento o spiegazione, e la tecnica dei rinforzi. Il tell-show-do (Fig. 1.6) si basa su una spiegazione preliminare al piccolo paziente del funzionamento dello strumentario e delle sensazioni che potrebbe sentire, seguita da una simulazione e dimostrazione pratico-clinica. Il tell-show-do fonda le sue basi teoriche sul rifiuto da parte del bambino della sorpresa e dell’inganno e sulla sua suggestionabilità che richiede, quindi, un corretto inquadramento delle sensazioni che sta provando. La tecnica dei rinforzi sfrutta, invece, la capacità di un determinato atteggiamento di provocare una reazione psicologica. I rinforzi in generale possono essere positivi o negativi a seconda che si voglia stimolare o inibire la ripetizione di un atteggiamento da parte del bambino. I rinforzi possono essere di tipo innato, sociale, materiale o di attività. I rinforzi di tipo innato usati in odontoiatria pediatrica sono solo di tipo positivo e hanno lo scopo di esprimere approvazione nei confronti degli atteggiamenti tenuti dal bambino nel corso delle sedute operative. I rinforzi sociali sono la base della comunicazione con il bambino. Essi si distinguono in rinforzi verbali, rinforzi di espressione facciale e rinforzi di contatto, di vicinanza e di allontanamento. In questo caso è fondamentale non adoperare rinforzi sociali positivi quando il bambino ha tenuto un comportamento poco collaborante alla poltrona, dimostrando scarsa attitudine alla cooperazione. I rinforzi materiali corrispondono a premi finali associati alla collaborazione del bambino. Esempi possono essere giocattoli, palloncini, kit per l’igiene orale ecc. (Fig. 1.7). I rinforzi di attività, infine, sfruttano la naturale tendenza competitiva dell’individuo che nel gruppo è stimolato a eccellere nei confronti dei propri compagni. L’obiettivo ultimo dei rinforzi di attività è la stimolazione dei singoli componenti del gruppo a un miglioramento attraverso un continuo confronto (Fig. 1.8).

Tecniche di gestione comportamentale propriamente dette Per quanto riguarda i metodi utilizzati come tecniche di approccio si distinguono: • metodo di approccio lento; • metodo di approccio graduale; • metodo di disciplina forzata o metodo “mano sulla bocca” (HOM, Hand-Over-Mouth). 10


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Figura 1.6 Tecnica del tell-show-do (spiega-mostra-fai). (a) Spiegazione preliminare al piccolo paziente del funzionamento dello strumentario (turbina) e delle sensazioni che potrebbe avvertire. (b) Simulazione e dimostrazione pratico-clinica dell’uso dello strumentario preliminarmente presentato al bambino.

Figura 1.7 I rinforzi materiali corrispondono a premi finali associati alla collaborazione del bambino. Esempi possono essere giocattoli che vengono scelti dal bambino alla fine della seduta odontoiatrica.

Figura 1.8 I rinforzi di attività sfruttano la naturale tendenza competitiva dell’individuo che nel gruppo è stimolato a eccellere nei confronti dei propri compagni. L’obiettivo è la stimolazione dei singoli componenti del gruppo a un miglioramento della sua collaborazione attraverso un continuo confronto.

Il metodo di approccio lento cerca di ottenere in modo graduale l’acquisizione da parte del bambino della consapevolezza dell’accettabilità del trattamento odontoiatrico e consente al bambino di arrivare a gestire autonomamente il proprio atteggiamento. L’approccio graduale usa il metodo dei modelli e la desensibilizzazione. 11


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Il metodo dei modelli è solitamente usato nei bambini alla prima esperienza odontoiatrica e sfrutta l’istinto mimetico d’imitazione del bambino nei confronti di un modello che può essere identificato in un genitore, un fratello o anche un amico che si sottopongono senza problemi a un trattamento odontoiatrico. La desensibilizzazione si applica solitamente nei soggetti di età superiore ai 9-10 anni; essa consiste nell’invitare il paziente ad applicare dei metodi di rilassamento adeguatamente appresi per affrontare situazioni che generano uno stress crescente, come, per esempio, l’introduzione dell’ago della siringa nel cavo orale. Il metodo HOM (Craig, 1971; Davis e Rombom, 1979) si pone come obiettivo la risoluzione del problema senza determinare nel bambino stress permanenti e senza prolungare nel tempo la terapia. Solitamente, il primo intervento prevede il posizionamento in maniera ferma e mai violenta della mano sulla bocca del bambino per attutirne le grida. Chiaramente viene applicato nei casi che richiedono un intervento terapeutico risolutivo, per esempio per le bonifiche orali, qualora il bambino sia non collaborante. Il vantaggio di questo metodo è legato al meccanismo per cui il bambino si renderà conto che la sua liberazione dipenderà solo da lui e sarà quindi responsabilizzato sul proprio atteggiamento. Nel secondo intervento, l’odontoiatra pediatrico si avvicina al bambino con il viso e, con voce calma e fredda gli spiega che “libererà la sua bocca” solo dopo che avrà finito di urlare, e che il suo intento è solo quello di guardare e contare i suoi denti. I più recenti risultati nell’ambito dell’applicazione di tecniche di gestione del comportamento infantile in ambito odontoiatrico (Adair, 2004; Ng, 2004; Farhat-McHayleh et al, 2009) indicano che i migliori risultati nella riduzione dell’ansia dentale si hanno con un appropriato utilizzo della tecnica dei modelli, in particolare quando il modello è un genitore. Tuttavia il metodo del tell-show-do è tuttora il metodo più utilizzato in odontoiatria pediatrica in quanto di esecuzione più agevole.

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Appendice

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Laboratorio sulla comunicazione: un’esperienza di learning from doing G. PIERAGOSTINI In appendice al contributo sulla comunicazione nel contesto dell’odontoiatria pediatrica, è utile inserire l’esperienza dei laboratori su “L’inconscio nella stanza dell’odontoiatra” nell’ambito del Master di secondo livello in Odontostomatologia in Età Evolutiva della Sapienza Università di Roma, realizzati con l’intento di offrire un’ulteriore modalità di approccio sia teorico sia metodologico, per riflettere insieme sui modi e sui luoghi della cura. Gli studi e le ricerche nell’ambito della letteratura sanitaria di solito restano confinati in una concezione scientifica che privilegia i dati quantitativi e descrittivi. Introdurre una modalità che fa riferimento a modelli epistemologici molto distanti può richiedere uno sforzo di comprensione, ma al tempo stesso può rappresentare una modalità trasversale di leggere i fenomeni che interagisce con professioni e saperi diversi. Riferimenti teorici e metodologici Questi seminari hanno avuto come cornice di riferimento teorico da un lato la teoria dei sistemi (von Bertalanffy, 1968), che definisce il sistema un complesso di “componenti in relazione”, in cui qualsiasi cambiamento del sistema modifica ogni sua singola parte. Questa teoria consente di cogliere gli aspetti circolari della comunicazione, non più intesa in senso unidirezionale, ma considerata all’interno di reazioni articolate sia manifeste sia implicite, sia consce sia inconsce, che concernono tutti i partecipanti all’interazione. L’orientamento sistemico è integrato con la prospettiva psicodinamica dell’analisi organizzativa, così come viene proposta nel modello del Tavistock Institut (Hinshelwood e Skogstad, 2005; Obholzer e Zagier Roberts, 1999; Perini, 2007). Questo modello, mutuato dalla psicoanalisi, attraverso la realizzazione di group relation, oltre a sensibilizzare agli aspetti gruppali inconsci, consente di valutarne la relazione con i conflitti, i disagi percepiti, la difficoltà di conseguire il compito. Inoltre, fornisce una metodologia coerente di insegnamento, o meglio di consulenza, consistente nel learning from doing e nel use of self; l’approccio esperienziale consente di sperimentare nel qui e ora quanto sostenuto in un continuo rimando con la situazione con il paziente. Si lavora con il gruppo avendo come riferimento il contesto di lavoro quotidiano e si analizzano le problematiche della professione ritrovandole attualizzate nella dinamica del gruppo d’apprendimento. Inoltre, al di là di pochi materiali di stimolo quali slide o brani letterari, si utilizzano principalmente le conoscenze pregresse di ogni allievo, le sue competenze personali e la diversificazione individuale delle soluzioni. Trattandosi di allievi che sono spesso professionisti con grande esperienza e competenze, viene privilegiata una modalità che consenta di mettere insieme conoscenze, anziché una posizione passiva di apprendimento di modelli teorici. 13


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La collocazione del seminario all’inizio del master non è casuale; permette infatti di riflettere sull’importanza del primo incontro con il paziente, delle comunicazioni esplicite e implicite che si attivano in tale occasione e della necessità dell’accoglienza e dell’ascolto. Se si parla dell’importanza di curare il contenitore dell’incontro con il paziente, trasportato sul piano esperienziale del seminario, questo significa porre attenzione che l’incontro possa fruire di un ambiente favorevole alla comunicazione reciproca. L’incontro, piuttosto che in un’aula tradizionale, avviene in una stanza più personalizzata e raccolta, dove sia possibile stare seduti in cerchio e guardarsi in faccia. Viene curato il rispetto dell’orario, e l’attenzione rivolta a ogni componente del gruppo favorisce la conoscenza reciproca attraverso la presentazione del proprio percorso professionale e delle aspettative relative al master. I partecipanti spesso hanno una motivazione personale oltre che professionale e il momento coincide con fasi della vita privata e professionale particolarmente significative: i figli cresciuti e la collega che può investire in modo significativo nella professione, il passaggio a un’altra fascia di età di utenza anche come rinnovo dell’investimento nella professione, l’emancipazione da una figura paterna particolarmente ingombrante nella professione, il desiderio di confrontarsi sui temi e sui modi della professione in un ambito qualificato. Se il paziente, in questo caso con i suoi familiari, per diventare il primo collaboratore del progetto di cura deve essere informato su cosa si sta facendo e perché, anche nell’ambito del seminario ci saranno momenti di metacomunicazione sui presupposti teorici e metodologici di quanto si va condividendo. Si passa poi a esplorare le cornici successive in cui si muove la professione dell’odontoiatra, dagli aspetti etico-filosofici, a quelli di mercato, alla separazione dei saperi, alle motivazioni personali. Gli aspetti comunicativi del contesto di lavoro vengono analizzati attraverso il reparto o lo studio dove si opera; l’attenzione privilegia la definizione dei confini, sia logistica sia nell’esplicitazione delle regole, l’organizzazione degli spazi di accoglienza, di attesa, di erogazione della cura. I parametri presi in considerazione sono quelli della facilitazione dell’accesso, della funzionalità al benessere del piccolo paziente, a quello dell’operatore, allo scambio tra i colleghi, alla comunicazione personalizzata con i familiari. Attivare la sensibilità all’ambito in cui si situa l’incontro con il paziente significa leggerne le caratteristiche in senso comunicativo secondo il primo assioma della comunicazione (Watzlawick, 1971), per il quale «non è possibile non comunicare» e acquisire consapevolezza di come la comunicazione influisca al successo della cura con i suoi tempi, i suoi modi, la sua organizzazione spaziale. Gli odontoiatri lavorano sempre in un contenitore materiale, ambulatorio-ospedaliero o studio privato, e sensibilizzarsi ai messaggi che passano attraverso di esso significa essere in contatto con le percezioni ed emozioni prima di tutto proprie e poi dell’altro. Il rapporto nella relazione di cura Come a cerchi concentrici nel colloquio con il paziente e i suoi genitori ci si avvicina al motivo dell’incontro dopo aver creato un clima di fiducia, così anche nel seminario, dopo aver costituito un contenitore che sia al tempo stesso sufficientemente affidabile ed elastico, si può lavorare insieme al compito che ci si è dati. 14


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Se l’obiettivo nell’ambito odontoiatrico può essere definito quello di curare una patologia dentale più o meno severa e, soprattutto nel paziente in età evolutiva, di prevenire malocclusioni di diversa gravità, nel laboratorio il task viene definito come «costituire un rapporto capace di veicolare e portare a buon fine il compito specifico della nostra professione». Come introduzione è utile soffermarsi su alcuni concetti, mai sufficientemente trattati in ambito sanitario, che riguardano le valenze relazionali del rapporto medicopaziente e le fantasie semiconsce e inconsce da esso sollecitate. Desmond Morris, etologo ed esperto di comunicazione, definisce il sanitario come lo specialista dell’intimità (1986), cogliendo uno degli aspetti tanto ovvi quanto poco considerati, insito nel rapporto di cura. Questa caratteristica è legata alla natura dispari del rapporto, alla situazione di necessità del paziente, al coinvolgimento del corpo, nonché alle aspettative salvifiche e alle corrispettive paure di danneggiamento insite nella configurazione propria della cura (Tatarelli et al, 1998). Nell’ambito odontoiatrico intervengono ulteriori fattori che possono acuire gli aspetti fantasmatici impliciti nella relazione: l’organo preso in considerazione, le implicazioni legate al dolore, le aspettative relative all’immagine di sé, la posizione reciproca tra curante e curato durante il trattamento. La bocca, come organo di comunicazione e di intimità, di aggressività e di piacere, diviene durante la cura un luogo di intromissione nello psiche-soma; inoltre, lo stare sdraiati con la posizione predominante del sanitario può sollecitare sensazioni di sottomissione e impotenza. L’uso della strumentazione necessaria che può essere fonte di dolore favorisce la sensazione di pericolo e di fragilità. A questi dati contestuali vanno aggiunte le aspettative e i timori legati all’aspetto esteriore, le esperienze pregresse e gli aspetti della personalità individuale evocati dalla situazione. Nel caso poi del paziente in età evolutiva, le fantasie legate alla figura del curante possono essere intrise di aspettative protettive come anche di minacce alla propria integrità corporea e all’esperienza del dolore fisico. A partire da Schilder (2002), è ampiamente riconosciuta l’importanza delle esperienze legate al corpo nella costruzione dell’identità; pertanto il sanitario deve tenere presente la criticità implicita in ogni intervento sul corpo, a maggior ragione se, come nel caso dell’ortodonzia e dell’odontoiatria, può avere conseguenze sull’immagine di sé. La delicatezza dei processi di crescita intrecciati con le vicende degli investimenti narcisistici (Freud, 1977; Kohut, 1977) conferisce alla nostra operatività in età evolutiva una particolare delicatezza. Nell’incontro, l’odontoiatra sarà oggetto, inoltre, non solo delle reazioni e delle comunicazioni da parte del suo piccolo paziente, ma si troverà quasi sempre in un rapporto a tre, dove il genitore, spesso la madre, svolgerà un ruolo cruciale sia nell’influenzare il vissuto del figlio sia come portatrice deputata delle ansie e dei fantasmi del sistema familiare. La presenza delle figure genitoriali introduce elementi di complessità nella comunicazione, come nelle aspettative e nei timori sia che vengano esplicitati o meno, come sempre accade quando si tratta della salute dei figli (Minuchin, 1980). Il sanitario come soggetto di relazione e di cura Nelle esposizioni teoriche e metodologiche, anche in quelle che intendono mettere al centro la relazione, come anche nella consapevolezza del sanitario, viene spesso scoto15


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mizzata la posizione del curante: «Nella relazione con il paziente il curante presenta una serie di risposte emotive, spesso inconsapevoli, ma che hanno una loro rilevanza rispetto alle modificazioni del comportamento che inducono nel paziente» (Tatarelli et al, 1998). Se l’altro, il curato, oggettivato nel ruolo di paziente e identificato nella sua sindrome organica, può essere reso insignificante sul piano della comunicazione, anche il sanitario può venire considerato solo in funzione degli atti medici specifici e non in quanto portatore di emozioni e fantasie nel rapporto con il paziente e con la sua professione. L’evidenza in ambito scientifico, sia osservativo sia sperimentale, include come parte determinante sia l’osservatore sia il contesto (Morin, 1993), per cui parlare dell’ansia del piccolo paziente dovrebbe includere la consapevolezza del modello introiettato più o meno consapevolmente dal sanitario, a proposito della gestione dei propri affetti. Invece il curante viene spesso confinato dall’immaginario collettivo nel suo camice, simbolo di un diaframma che dovrebbe garantire da perturbazioni sia interne sia esterne. Se nell’approccio obbiettivante la patologia prevale sul paziente come persona, ne consegue che lo stesso curante sia identificato con funzioni e protocolli. L’inevitabile soggettività implicita in ogni atto sanitario viene in tal modo negata sul piano condiviso, per restare inascoltata sia nelle sue valenze emotive sia nella ricchezza clinica che può rappresentare. A ciò va aggiunto che nell’attuale organizzazione della sanità, l’evitamento del rapporto tra medico e paziente nell’ambito sanitario è ormai convalidato da procedure complesse, dalla frammentazione dei segmenti di cura, dalla burocratizzazione dell’organizzazione, da un apparato tecnologico sempre più diffuso (Virzì, 2007). Se è vero «[...] che l’unica medicina possibile sarà quella che tenga conto della parte emozionale del paziente, perché il rischio del futuro sarà quello di rendere troppo ‘asettico’ e impersonale ciò che per sua natura non può esserlo» (Tatarelli et al, 1998) è parimenti importante che vengano prese in considerazione le necessità emozionali del personale curante. La cosiddetta sindrome del burnout che definisce il malessere anche significativo del personale di cura, in particolari condizioni e compiti, è ormai oggetto di studi e scale di valutazione (Leiter e Maslach, 1988; Maslach e Leiter 2000; Leiter e Maslach, 2005). Così come sono sempre più frequenti gruppi di appoggio, formazione specifica, consulenze individuali rivolte al personale e attenzione alla qualità degli ambienti in cui si opera nei contesti sanitari e di assistenza. Fishbowl Ovviamente nei tempi ridotti di un laboratorio non è possibile esplorare tutta la complessità di questi contenuti, ma è possibile fornire un’occasione esperienziale che attivi la capacità del gruppo di osservare l’ovvio, ovvero ciò a cui non si è abituati a prestare attenzione, ma che motiva i comportamenti nel contesto professionale. Si presentano una madre e una figlia di 8 anni con una grave protrusione mascellare superiore e il pollice in bocca. La madre butta sul tavolo un sacchetto con dentro numerosi apparecchi ortodontici danneggiati, testimonianza di altrettanti rapporti di cura falliti. In quel sacchetto c’è una richiesta di aiuto e allo stesso tempo è il guanto di una sfida; sul piano consapevole l’odontoiatra accoglie la richiesta di trattamento, sul piano inconscio raccoglie il guanto della sfida. Il rapporto, malgrado la disponibilità e la competenza, fallisce l’obiettivo primario. 16


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Il fishbowl, la boccia dei pesci, è una delle esercitazioni pratiche proposte in questi anni nel corso dei laboratori sulla comunicazione. Ci si dispone seduti in cerchio; al centro, sempre in assetto circolare, si disporranno il volontario che presenta il caso da discutere e i colleghi da lui scelti come interlocutori. Durante l’esposizione e la discussione del caso nel cerchio interno, il cerchio esterno osserva in silenzio prendendo appunti, secondo pochi parametri proposti dal consulente.

Il gruppo ascolta quanto viene esposto, i diversi tentativi portati avanti dal collega, le osservazioni e i consigli dei suoi interlocutori. Ma soprattutto guarda la direzione della comunicazione, nota i toni della voce, la postura, la ripetizione di frasi chiave, l’attenzione al contesto, il rispetto dei tempi e del compito.

Al termine esatto del tempo stabilito, i componenti nella boccia ascoltano in silenzio i commenti e le osservazioni dei colleghi osservatori di cui possono fruire nel successivo turno di discussione. Si termina discutendo tutti insieme con chi conduce l’esercitazione. La riattualizzazione nel qui e ora della medesima dinamica inconscia che ha mancato il compito permette di comprendere la configurazione emotiva del rapporto di cura e delle sue fasi, di situare il significato del suo fallimento e di ipotizzare le possibili soluzioni.

Ogni volta l’esperienza dimostra quanto le regole e il contesto siano determinanti nell’attivare la capacità di leggere la complessità dei fenomeni comunicativi e il significato emotivo e relazionale di cui sono portatori. I casi discussi nel corso del tempo, attinenti o alle difficoltà di un trattamento in corso o a quelle che lo hanno portato all’interruzione, hanno convalidato che non sono solo le fantasie e i conflitti inconsci dei pazienti e dei loro familiari a invadere la stanza dell’odontoiatra pediatrico. Se dietro alla richiesta di una cura dentale si possono nascondere pretese di risarcimenti emotivi (spostamento di conflitti emozionali familiari), nella risposta del sanitario si possono manifestare tentazioni espulsive, collusioni con la richiesta inconscia, scivolamenti dal contesto specifico della cura. Sul piano dell’hic et nunc del seminario, le modalità e i contenuti condivisi hanno contribuito alla consapevolezza che ogni esperienza necessita di un contenitore umano per svilupparsi. Riflettendo sulla professione, si sono costruite relazioni tra i partecipanti, si sono sperimentate le possibili configurazioni gruppali e si sono attivate le potenzialità latenti del gruppo come terzo elemento nel processo di apprendimento. Al termine dell’incontro, la conquistata identità gruppale è sintetizzata a volte da un nome, sempre da una foto finale che ne diviene il simbolo e la testimonianza.

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