Un " Nuovo Museo" avventuroso e libero. SANAA e il New Museum.

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UN “NUOVO MUSEO” AVVENTUROSO E LIBERO SANAA e il New Museum

Saggio critico a cura di Alice Baccolo


“ Sejima and Nishizawa have conceived an ideal home - for the New Museum of Contemporary Art - a place that will encourage dialogue and creativity, catalyze community interaction, and spark a constant exchange of insights and information. They have truly given form to our passionate commitment to the importance of art to everyday life. On the Bowery, the New Museum will continue our exploration of new art and new ideas with the same energy, openness to experimentation, fearlessness, and pure excitement that brought us to this remarkable milestone in the institution’s history.” /Lisa Phillips, Director

“Sejima e Nishizawa hanno concepito/sviluppato l’idea di casa - per il New Museum of Contemporary Art - un luogo dove poter incoraggiare/ promuovere il dialogo e la creatività, catalizzare/attrarre l’interazione della comunità e innescare un costante scambio di idee e informazioni. Hanno veramente dato forma al nostro appassionato impegno per l’importanza dell’arte nella vita di tutti i giorni. Nel Bowery, il New Museum potrà continuare la nostra esplorazione delle nuove arti e delle nuove idee con la stessa energia, apertura alle sperimentazioni, coraggio, e puro eccitazione/emozione che ci ha portato a questo straordinario traguardo nella storia dell’istituzione.” /Lisa Phillips, Direttore


Fig. 2: New Nuseum, N.Y., Rendering di progetto, sviluppo della percezione notturna dalla strada.


CI. - Carta d’ Identita’ Luogo 235 Bowery, New York, NY 10002, USA Area 54534 m2 Sviluppo Verticale Committenza New Museum of Contemporary Art, New York City; Zubatkin Owner Representation Architetti SANAA / Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa Collaboratori Saul Dennison, Chairman, Board of Trustees, New Museum; Lisa Phillips, Toby Devan Lewis Director, New Museum; Lisa Roumell, Deputy Director, New Museum

Ingeneri Strutturali

Guy Nordenson Associates, Simpson Gumperts & Heger Inc., New York City Luci e illuminazione Arup Anno di Incarico 2002 Anno di Esecuzione 2007


SOMMARIO CI. - Carta d’ Identita’ Introduzione: il valore sociale di un’architettura istituzionale

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Parte I il museo. un’ analisi odierna sullo stato delle cose 11 1. Un legame profondo tra arte e architettura basato sulla notorietà  2. Un periodo turbolento per l’istituzione museale  3. Alla ricerca di un “effetto Bilbao 2.0”  4. Venti Musei per 87 Km2 : il caso di Manhattan

Parte II un’architettura su misura 1. La storia di un’istituzione   1.1. Dal Garage Nel West Village ...  1.2. ... al Museo Internazionale  2. Una pianificazione congiunta di intenti  3. Il salto di qualità: fattori di specificità  3.1. Un legame profondo con il contesto  3.2. Beautiful roughness:  3.3. Narrativa museale e poetica architettonica

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Parte III un caso italiano

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1. La storia di una rinascita  2. Concept e Mission   3. Gli spazi espositivi  4. Fattori di specificità   5. Conclusioni

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Conclusione il ruolo dell’ aarchitettura

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Bibliografia Sitografia fonti delle illustrazioni

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Appendice

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Introduzione il valore sociale di un’architettura istituzionale

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Qualunque cosa ci riservi il futuro, gli anni recenti hanno visto nascere una tendenza sempre maggiore alla costruzione di un numero crescente di musei. Il successo di architetti di talento, da Renzo Piano a Frenk O.Ghery, dallo studio SANAA fino alle generazioni più giovani, nel trasformare i musei in eventi architettonici o forse in opere d’arte vere e proprie, va neccessariamente osservato attentamente ma da una certa distanza. Dato il proliferare di attività secondarie - dagli eventi in auditorium alle grandi inaugurazioni, dai ristoranti alle boutique, per non parlare delle ricchissime biblioteche - i musei sono diventati veri e proprio poli di attrazione turistica, motivando i viaggiatori a recarsi in luoghi anche al di fuori della comune rete turistica. Inutile sottolineare il potenziale economico rappresentato da alcuni di questi poli culturali, che promuovono lo spostamento delle masse, innescano un circolo di persone e di denaro favorevole anche per le città e le regioni che li accolgono. Oggi questi grandi centri svolgono per la comunità in cui sorgono un ruolo ancora più importante, di veri e propri centri dell’orientamento culturale, luoghi di incontro e di ritrovo che richiamano a sé in modo trasversale persone con formazioni culturali ed età differenti. Potremmo azzardare un parallelismo, definendoli i nuovi santuari della cultura, come una sorta di templi umanisti di ampio impatto su di un pubblico variegato, consacrati non solo – o non più! - all’arte e alle arti di tipo tradizionale. Un tempo appannaggio di un élite più abbiente, oggi l’arte viene apprezzata - o per lo meno avvicinata - da una gamma più vasta di visitatori, e diventa importante per il tempo libero. La situazione economica dell’ultimo decennio ha avuto conseguenze su molte istituzioni, ed ancora di più ne hanno risentito i progetti in programma di realizzazione. Ciò che rimane e che possiamo affermare con assoluta certezza è la stretta relazione tra Arte e Architettura di qualità, un binomio inscindibile nel vasto e complicato mondo del Museo, che oggi si riconferma più che mai grazie ad interventi di successo, ben studiati. Sebbene la reputazione da sola non sia sufficiente a garantire che un 8


architetto sappia come progettare il museo giusto, nelle circostanze giuste, esiste un salda correlazione tra il mondo della cultura e quello della progettazione architettonica. I musei più recenti e le loro istituzioni negli ultimi anni, hanno svelato un mondo del tutto nuovo ai molti turisti e abitanti di città fortunate che ospitano arte e architetture di interese globale. Piu dei palazzi per uffici o delle residenze, i musei hanno avuto un ruolo fondamentale nell’attrarre un pubblico eterogeneo, nell’avvicinarlo all’arte e all’architettura contemporanea e nel rigenerare intere aree urbane in difficoltà. Partendo da queste premesse, ampliamente indagate nei capitoli a seguire, si è voluo sottolineare come il caso preso ad esame possa essere considerato un punto di riferimento, un esempio del fortunato binomio tra sistema museale e architettura istituzionale,e di come essi siano stati in grado di rigenerare e perfezionare la loro impatto sulla società. Un legame indissolubile quello che si è istaurato tra Arte e architettura nel corso della seconda metà del Novecento e negli anni Duemila, anche se a volte non pacifico, in cui l’architettura ha continuato a influenzare il museo, fino ad assunse le forme di un centro multifunzionale d’aggregazione sociale, mitigando al contempo la funzionalità con la ricerca estetica radicale. Studiando il caso si scopre che la volontà che mosse i curatori a scegliere di spostare le opere d’arte del museo da uno spazio temporaneo in SOHO ad un nuovo spazio, che si sarebbe dovuto inserire in un panorama internazionale, non fu stimolata solo da una mera questione di superficie fruibile ma volle essere un vero e proprio gesto di restituzione dell’ arte e dei benefici che ad essa corrispondono, alla gente che ci vive. E’ questo il ruolo in prima linea che il New museum svolge oggi nel panorama internazionale delle istituzioni culturalli,e sarà il valore sociale della sua architettura a garantirne - forse - un’eredità più durevole nel tempo.

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Parte I il museo. un’ analisi odierna sullo stato delle cose

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1. Un legame profondo tra arte e architettura basato sulla notorietà

Sin dalle loro origini i musei sono sempre stati associati agli architetti di fama. Il motivo di questa relazione che sopravvive nel tempo va ricercato nel ruolo civico dei musei in quanto simbolo dell’orgoglio locale, regionale o nazionale; nonché nel valore attribuito al loro contenuto. In una certa misura l’architettura viene chiamata a riecheggiare il significato dell’arte e come sempre più spesso accade oggi, quello di altre istituzioni scientifiche, amministrative, sociali, ecc. Il museo, come luogo stabile di esposizione pubblica di oggetti artistici o storici con funzione conservativa e educativa, nacque abbastanza recentemente, giacché prima del Settecento si può parlare solo di collezionismo1. Solamente con l’avvento dell’Illuminismo, nacquero i primi musei con fini educativi (la nascita dei Musei Capitolini a Roma risale al 1734), che ebbero forte impulso con la Rivoluzione Francese e l’apertura del Musée du Louvre nel 1793. Il Louvre fu pensato come un luogo di apprendimento per tutti i cittadini, educati secondo un gusto pubblico. L’Ottocento fu il secolo d’oro per l’istituzione Museale. In Italia nacquero all’interno di palazzi antichi le pinacoteche e le accademie a differenza di altri paesi che, sia in Europa sia in America, aderirono alla costruzione di

1  La pratica del collezionismo privato si differenzia da quella del museo, per un carattere instabile e personale della collezione, che è soggetta ai gusti delle mode e ad altri eventi legati alla vita del collezionista. Inoltre, la collezione privata non ha un fine pubblico, a differenza del museo. Al riguardo, sono però rinvenibili delle eccezioni nella storia italiana del Rinascimento, in cui i mecenati misero la propria collezione a disposizione di giovani e artisti, in modo che potessero studiarla e ammirarla.

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Fig.3: Friedrich Schinkel, Altes Museum, Berlino.

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grandi edifici monumentali neoclassici1. Basta un veloce sguardo alla storia, per affermare la fortunata associazione tra il progetto architettonico e la funzione museale. Molto prima che avesse inizio l’era moderna, palazzi come l’Altes Museum - che l’architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel progettò per l’isola dei musei di Berlino tra il 1825 e il 1828 - avevano già testato ed affermato con successo questo legame dal carattere vincente. Tutta via al tempo, l’architettura, oggi identificata come Neoclassica, più che affermare forme nuove e sorprendenti, era per lo più al servizio dei suoi mecenati e del contenuto che li vi esponevano. E’ il Novecento, grazie alla forza propositiva delle Avanguardie, a cambiare la modalità espositiva delle opere, non più esposte secondo un criterio di quantità ottocentesco, ma selezionate per la loro qualità. Centoquaranta anni più tardi Ludwing Mies van der Rohe, sempre a Berlino, avrebbe completato la Neue Nationalgalerie, con uno stile ed un approccio decisamente diverso, che oggi potremmo definire Modernismo Classico. In questo caso è evidente che la sobrietà e la semplicità dell’architettura prendo il sopravvento, dimostrando che anche la modernità è in grado di realizzare quel tipo di gravitas indispensabile per le istituzioni dedicate all’arte.Altro grande testimone oltre oceano fù il rivoluzionario edificio progettato da Frank Lloyd Wright, il Guggenheim Museum di New York (1959) con il quale si è inaugurato una stagione, per molti casi ancora attuale, in cui l’architettura del museo tende a prevaricare come importanza e imponenza sulla collezione d’arte. Infatti l’edificio, seppur svolgendo a pieno il ruolo iconico e avanguardista suggerito dalla committenza nel panorama urbano della Manhattan degli anni ‘60, rivelò sin da subito numerose difficoltà nell’esposizione di alcune opere, in particolare nel

1  S. Matiazzi, “Rigenerazione urbana: spazi industriali per l’arte contemporanea”, Tesi Magistrale in Economia e Gestione delle Arti e delle attività culturali, Università Cà Foscari, 2013, pag.50-52.

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Fig 4: Mies van de Rhoe, Neue Nationalgalerie, Berlino.

Fig. 5: Frank L.Wright, Guggenheim Museum, N.Y.

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Fig 6: Marcel Breuel, Whitney Museum of American Art, N.Y.

Fig. 7: Piano,Rogers, Franchini Ass., Centre Georges Pompidou, Parigi.

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corso di installazioni contemporanee1, risultando con il tempo più adatto a opere su tela di media dimensione piuttosto che alle opere Site Specific da osservare a 360° che oggi caratterizzano buona parte della produzione di Arte Contemporanea. Questo esempio accese un lungo dibattito, ancora in corso, sul delicato equilibrio tra arte e architettura: “L’architettura non è più, e soprattutto non vuole più essere, ancillare rispetto all’opera d’arte che ospita, ma vuole vivere di una propria autonoma capacità critica e interpretativa. Questo meraviglioso contenitore [il Salomon Guggenheim di New York, N.d.r.] che si relaziona con il reticolo ortogonale delle vie di Manhattan non sembra affatto intimidire davanti alle opere dei maggiori talenti artistici del XX secolo appese alle sue pareti, anzi sembra soverchiarle con la propria architettura”. 2

Dello stesso periodo è la storica sede della Whitney Museum of American Art (NY, 1966) - opera dell’architetto Marcel Breuer esponente del Bauhaus - la cui mole squadrata e quasi molesta si impone sul circondario caratterizzato dal tradizionale stile newyorchese, dando chiaro esempio di questo processo evolutivo anche oltre oceano. Possiamo quindi affermare che è a partire dagli anni Sessanta - forse proprio a New York - che le regole del gioco dei musei sono cambiate, lasciando che opere importanti dell’architettura contemporanea testimoniassero la nascita di un nuovo tipo di istituzione: un organismo più completo che accanto agli spazi sostanziali per la galleria, sviluppa nuove infrastrutture e attrezzature come librerie, sale conferenze, negozi di settore, ecc. Il

1  Cfr. la grande retrospettiva di Mario Merz al Salomon Guggenheim di New York, curata da Germano Celant nel 1989. 2  G. Belli, “Il museo contemporaneo. Dell’architettura e del senso”, in V. Terraroli (a cura di), L’arte del XX secolo. Tendenze della contemporaneità. 2000 e oltre, edizioni Skira, GinevraMilano 2009, p. 151

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commercio - e la moneta - entrano nel “tempio” dell’arte e l’architettura inizia ad affermarsi con prepotenza, tanto da divenire per molti il principale - e a volte l’unico - valore attrattivo. Uno dei più grandi cambiamenti nell’equilibrio tra Architettura, Arte e fruitore è rappresentato dal grande intervento per il Centre George Pompidou - progetto del giovane e ancora sconosciuto team Piano & Rogers nel 1971 - che ha portato nel cuore di Parigi un nuovo e moderno tipo di istituzione culturale. Il carattere prettamente industriale - e al contempo ironico, quasi giocoso - dell’architettura del museo ha avuto un ruolo determinante nell’attrazione di un gran numero di visitatori, che in molti casi vi si recano per ragioni diverse da quelle della visita museale. Grazie alla possibilità di usufruire delle innumerevoli funzioni di contorno a quella principale, di museo di arte contemporanea, il visitatore non è più solo chiamato a osservare ma prende parte attivamente all’attività culturale offerta e fa del museo un luogo di vita.

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2. Un periodo turbolento per l’istituzione museale

Il numero di nuove strutture museali richieste dalle municipalità e dalle aistituzioni culturali progettate dagli architetti più celebri dell’ultimo ventennio sfida quasi ogni tentativo di calcolo. Nonostante i musei degli anni più recenti si siano meritati grande apprezzamento e abbiano un gran numero di nuovi visitatori, resta ancora da verificare che il successo ricercato da queste istituzioni sia davvero destinato a durare nel tempo. Soprattutto in seguito alla grande recessione iniziata nel 2008 che ha fatto oscillare verso il basso non solo le statistiche relative all’affluenza dei visitatori - motivo per cui sono nate le grandi campagne del “museo aperto” e degli “accessi gratuiti” - ma anche il numero e la sostanza delle donazioni private e dei fondi pubblici, che si sono rivelate più contenute e spesso più attente in tutto il mondo. La caccia allo Star System è ormai divenuta una forma di marketing territoriale e la cultura sembra rappresentare l’eldorado del nuovo millenio. Ma bisogna tener presente che a generare ricadute economiche sono i “bei progetti”, non i bei nomi dell’architettura. Nel settore della gestione di immagine e del design strategico per gli istituti culturali, in molti hanno criticato la tendenza dei direttori dei musei di considerare gli architetti di fama alla stregua dei «salvatori sul cavallo bianco»1 in grado di progettare strutture spettacolari che prendono il sopravvento sui contenuti dell’istituzione assumendone il carattere identitario. Edifici magnifici - e costosissimi - in grado di attrarre l’attenzione dei media e dei visitatori da tutto il mondo, anche se la progettazione all’avanguardia, gli elevati finanziamenti e le aspettative

1  Ken Carbone, intervista rilasciata per I.D. Magazine, 2004

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diffuse su di essi hanno comportato, in alcuni casi, rischi molto elevati che i titoli di cronaca possono confermare. Si veda per esempio la chiusura della Bellevue Art Museum di Seattle su progetto di Steven Holl dopo solo due anni dalla grande inaugurazione, a causa delle difficoltà economiche di gestione; o più recentemente, la rinuncia per mancanza di fondi ai rinnovamenti progettati da Rem Koolhaas per il Whitney Museum.1 Questo uno dei motivi per cui molto probabilmente la tendenza futura sarà quella di valorizzare e premiare progetti eco-compatibile di portata ed ambizione ridimensionate. D’altronde la quantità di musei costruiti fino ad oggi è tale che molte città non hanno più bisogno di una nuova creazione firmata da un Archi-Star per farsi notare nel panorama culturale,come accadeva qualche anno fa. Piuttosto necessitano oggi di programmi di sviluppo più ambiziosi e di più ampie vedute. Come sostiene il saggista, storico e critico dell’architettura Luigi Prestinenza Puglisi : «Lo sforzo inoltre di tendere a un surplus di creatività produce un paradosso: da un lato, le città cercano di differenziarsi il più possibile le une dalle altre poiché solo a questa condizione possono sperare di essere sufficientemente attraenti; dall’altro, attuando politiche sostanzialmente identiche, realizzano edifici, quartieri o interi settori urbani tra loro sempre più simili.»

In oltre è fondamentale sottolineare che sebbene l’arte rimanga il contenuto preferito dei nuovi musei, è necessario prendere atto del fatto che essa non è più l’unico soggetto mostrato all’interno di queste strutture spettacolari ed identitarie. Se da un lato nasce la necessità di luoghi che siano in grado di raccontare tematiche effimere ed immateriali come la cultura, la lingua, la memoria; dall’altro le grandi multinazionali riconoscono nell’istituzione

1  Philip Jodidio, saggio introduttivo in, MUSEUMS Architecture Now!, TASCHEN Editore, 2010, p. 24.

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museale in quanto tale un potenziale mezzo pubblicitario ed evocativo della potenza aziendale. La messa in mostra della storia e dei prodotti simbolo dell’azienda, diventano oggi un valido strumento di marketing per stimolare in modo indiretto e velato il mercato e l’acquirente, anche quello meno appasionato. Gli esempi sono molteplici e più disparati, dai musei per le case automobilistiche hai musei dedicati a prodotti alimentari ed hai loro brand storici. Prendendo in considerazione musei come .... si riesce a comprendere chiaramente il limite che distingue musi frutto di grandi operazioni culturali da musei frutto di grandi operazioni di marketing. Da un lato viene meno l’ idea di museo nella sua forma classica, dall’ altro prendono forma musei dai contenuti più disparati riflesso di una società diversa.

Fig 8: Steven Holl, Bellevue Art Museum, Seattle. Fig. 9: Rem Koolhaas, ipotesi di ampliamento del Whitney Museum, N.Y.

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3. Alla ricerca di un “effetto Bilbao 2.0”

Di recente le istituzioni legate all’arte contemporanea hanno scelto di appoggiarsi a grandi architetti per la realizzazione di nuove strutture, optando, non a caso, per quei quartieri che per anni hanno goduto di cattiva reputazione. I progetti per l’Istituto di Arte Contemporanea di Boston (2004-2006), e il Nuovo Museo di Arte Contemporanea di New York (2005-2007) realizzati all’interno di quartieri difficili della città, sono importanti testimoni di quello che nel settore, i promotori di questi interventi, chiamano “Effetto Bilbao”. In memoria delle grandi trasformazioni e la riqualificazione del centro storico della città spagnola avvenute in seguito all’apertura del Guggenheim Museum di Bilbao progettato da Frank Ghery tra il 1991 e il 1997, Bilbao è ora il classico esempio di come una città industriale, in un momento di crisi e di declino, si possa rigenerare attraverso l’architettura cosiddetta “d’autore”. Una città una volta sconosciuta e di poco o nessun prestigio, è oggi sulle cartine come destinazione turistica e come città di affari e servizi.1 Una vera e propria operazione speculativa a scala urbanistica, più comunemente conosciuta nel settore sotto la definizione di “agopuntura urbana”, ossia quell’operazione di insediamento di un’attività culturale fiorente ed attrattiva in un area urbana in declino, che in tempi brevi favorisca la riqualifica e la ripresa economica dell’intera area. Un operazione che trasformando il singolo intervento “di stile” in un

1  Denny Lee,“Bilbao.When architecture change the city.”, in The New York Times, 23 settembre 2007. Traduzione a cura dell’autore.

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Fig.10: Frank Ghery, Fondazione Guggenheim, Bilbao.

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operazione a lungo termine, non vuole e non deve rispondere solo alle necessità della committenza,ma si amplia, prestando così un occhio di riguardo anche alle dinamiche sociali della comunità in cui agirà. L’indubbio successo di Bilbao è stato, negli anni a seguire, la causa di un susseguirsi di fallimenti in altri luoghi. Visti i risultati impressionanti che possiamo vedere a Bilbao, sono decine le città post-industriali di tutto il mondo che hanno cercato di imitare questo modello per rivitalizzare le proprie metropoli e ottenere il loro particolare “effetto Bilbao”, ma non sempre ha funzionato. Ad esempio, la stessa fondazione Guggenheim ha cercato di ripetere questo effetto a Las Vegas con un altro museo unico nel suo genere. Tuttavia, questo progetto non ha raggiunto, neanche lontanamente l’effetto sperato, con enormi ripercussioni dal punto di vista economico.1 Ragionando a posteriori, a ormai vent’anni di distanza dall’inaugurazione di una delle opere più famose e pubblicate di Gehry, la spiegazione più chiara del fatto che sia stato così difficile replicare l’effetto ottenuto a Bilbao stà nel fatto che si è cercato di ripetere l’esperienza attraverso la costruzione di un’opera unica, un’opera d’arte in sé e per sé, invece di perseguire un’idea progettuale rivolta alla comunità. Il successo di Bilbao non si fonda solo e unicamente sulla costruzione di edifici iconici - anche se l’apparenza inganna! - , bensì su di una realtà più complessa, dove il cambiamento è stato alimentato dalle stesse opportunità generatesi dalla crisi economica, da fattori sociali, dalle strategia di marketing della città etc. Scrive il sociologo Amendola nel suo libro Tra Dedalo e Icaro: «La creatività da sola non basta: l’obiettivo strategico è l’innovazione di cui la creatività diffusa è condizione necessaria ma non sufficiente. […] La creatività di per sé non è sufficiente se non innesca un processo sequenziale, cumulativo e tendenzialmente irreversibile di innovazioni produttive, organizzative e politiche.»

1  Urbanismo y Transporte “El Efecto Bilbao” 25 agosto, 2014 Samir Awad Núñez

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Per creare un polo attrattivo e catalizzatore, come mostrano anche numerosi esperimenti falliti, non basta un edificio spettacolare come il Guggenheim di Bilbao: occorrono investimenti economici rilevanti ma soprattutto il favore di politiche mirate e coordinate, oltre che un’ottima pubblicità internazionale. Per i motivi sopra elencati, possiamo permetterci di affermare che accanto alle speranze, questo episodio fortunato, a favorito la diffusione di false verità, fornendo una scusa o un alibi a manager e investitori privati per lanciare grandi piani di rivitalizzazione urbana basati esclusivamente sulla costruzione di una infrastruttura culturale, quasi sempre lontana da un progetto che andasse al di là del della firma di un’importante studio di architettura o dall’ArchiStar. L’obbiettivo non è più dunque quello di fare “buona Architettura” a sevizio della società, ma piuttosto si punta alla creazione e alla costruzione di un simbolo, di un’icona che si mostri ale masse, senza doversi preoccupare dei punti di forza e di debolezza della società ospitante né della progettazione di strategie di cambiamento che partano dai cittadini.1 Naturalmente, ci sono altre operazioni urbanistiche condotte da studi e agenzie importanti che hanno portato in alcuni casi il riposizionamento di alcune città nel mercato globale, ma non ci sono esempi tanto eclatanti come quello di Bilbao. Ciò nonostante il fatto che 8.2 milioni di visitatori abbiano attraversato la piramide di vetro di M.Pei alla Cour Napoléon del Louvre nel 2008 è la dimostrazione che l’architettura, se concepita con intelligenza, svolge un ruolo importante nell’attrarre il pubblico ai musei, raggiungendo così l’obiettivo finale di migliorare la città, per i suoi abitanti.2 Non bisogna confondere la spettacolarità architettonica con la riqualificazione urbana; è necessario continuare ad approfondire le

1  Urbanismo y Transporte “El Efecto Bilbao” 25 agosto, 2014 Samir Awad Núñez 2  Philip Jodidio, saggio introduttivo, in MUSEUMS Architecture Now!, TASCHEN Editore, 2010, p. 31.

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trasformazioni della città per continuare a reinventare se stessi, ma senza dimenticare le relazioni con la tradizione dei luoghi e degli abitanti; consapevoli che le città migliorano non di certo grazie alla presenza di icone fini a se stesse ma per la qualità delle scelte di intervento e la funzionalità degli edifici pubblici e della gente che li vi lavora. Elementi rari di rinnovo urbano.

Fig. 11: Leoh Ming Pei, la piramide di vetro alla Cour Napoléon, Museo del Louvre,Parigi.

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4. Venti Musei per 87 Km2 : il caso di Manhattan

Nel primo decennio del nuovo secolo, vi è stata una decisa fioritura di opere d’architettura eccezionali e, più in generale, si sta assistendo alla crescente spettacolarizzazione di intere parti di città. Dagli edifici privati, icone delle grandi multinazionali a quelli destinati alla comunità. Richard Lacayo, critico d’arte del «Time» ha dichiarato: «Attualmente, a New York, lo ‘spettacolo’ delle arti e della cultura rappresenta una gigantesca impresa, che produce molto denaro ed è una delle principali fonti di lavoro. Da qui lo sforzo di città localizzate nei luoghi più disparati del pianeta, da Dallas ad Abu Dhabi, da Roma a Pechino, di emulare questo modello vincente, non solo realizzando musei, uno più fantasmagorico dell’altro, ma anche attivando politiche in grado di attrarre l’interesse sia degli operatori sia del pubblico.»

E così l’industria della cultura non ha più limiti, si costruiscono cattedrali nel deserto grazie al consenso generale e degli amministratori locali con l’obbiettivo primario di richiamare orde di turisti. Produrre Cultura sembra essere diventata la parola chiave, come se fosse possibile riprodurla in modo seriale alla stregua di un bene tangibile. Spesso però gli amministratori locali non riescono a capire che il valore dell’arte non si può quantificare numericamente. Lì dove l’economia è in perdita, si cerca di innescare ricchezza con nuove soluzioni innovative e l’ultima tendenza sembra essere il turismo culturale. Analizzando più nello specifico la città di New York, si può osservare come la cittadina americana abbondi di musei di ogni genere - ve ne sono moltissimi - ed offrono il meglio di quello che puoi osservare sul pianeta. Basti pensare che su un solo tratto della Fifth Avenue, tra la 82nd 31


e la 105th Street, è possibili incontrare due autentici miti come Met ed il Guggenheim, e altre nuove istituzioni come la Frick Collection e la Neue Gallery, il Museum of the City of New York, il Jewish Museum, il Cooper-Hewitt Museum e la National Accademy of Design. Anche Brooklyn, Queens, il Bronx e la stessa Staten Island ospitano musei notevoli, ma è a Manhattan che l’offerta di musei raggiunge proporzioni incredibili. Anche vagliando il ricco elenco degli enti museali, concentrandosi solo sulle istituzioni che operano in ambito artistico attraverso mostre, istallazioni ed eventi del settore, è possibile contarne in numero maggiore di venti in un territorio di soli 87 chilometri quadrati. Un po’ come è avvenuto per il “Quadrilatero della moda” Milanese, anche per New York, nei quatieri di Soho, Nolita, Bowery, il Lower East Side e la 105th Street, dove grazie hai recenti interventi di gestione e rilancio del territorio voluti dall’amministrazione e dalle numerose multinazionali che li vi operano, oggi si parla già di “Museum Mile”, il miglio dei musei Newyorkese tra i più ricchi e vari del mondo. E’ infatti importante sottolineare che in nessun’altra città, europe e del mondo, è possibile trovare una concentrazione così alta di straordinarie ricchezze artistiche e culturali, riunite e concentrate in un’area urbana così ristretta come quella di Manhattan. E’ proprio in un contesto così ricco che nasce spontaneo domandarsi come sia possibile che così tanti enti riescano a convivere tra di loro, e come ancora ci sia spazio per la nascita di nuove proposte culturali che se ben congegnate riecono a farsi strada in un ambiente apparentemente saturo. Primo tra tutti, è l’incredibile successo ottenuto in pochi anni dal New Museum del Bowery progettato dal team di architetti SANAA.

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Fig.12: Mappa concettuale di Manhattan, in azzurro il Museum Mile e le aree delle nuove gallerie.

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Parte II un’architettura su misura

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Come abbiamo già detto l’espansione, l’ampliamento o la fondazione di nuovi sedi museali sono state organizzate da grandi istituzioni del calibro del Metropolitan o del Louvre, che solo di rado - per non dire mai - mettono in mostra opere di arte contemporanea. Al contempo altri musei come il Centre Pompidou, la Tate Gallery o il MoMA, pur essendo nati per esporre l’arte contemporanea, hanno schierati tra i loro ranghi prevalentemente lavori che useremmo definire moderni, ossia il prodotto artistico del periodo che va dalla fine del XIX secolo al secondo dopo guerra. Sarà forse a causa dell’estrema peculiarità della opere a cavallo del nuovo millenio, della loro origine, forma o materia, del loro carattere effimero e temporaneo, che per molto tempo questa forma d’arte ha fatto fatica a trovare un proprio posto di rilievo all’interno delle eleganti architetture museali degli anni passati, trovandosi più a suo agio nei grandi garage, in luoghi in parte abbandonati e per strada. Ancora una volta l’architettura messa a contatto - ed a confronto - con una nuova forma d’arte, si trova in dovere di riequilibrarne i rapporti evolvendo verso una nuova forma capace di accoglie gli svariati aspetti delle opere contemporanee e comunicarli in modo chiaro e appassionato al visitatore. Fin dalla sua fondazione ad opera di Marcia Tucker nel 1977, il New Museum ha avuto un ruolo unico nel mondo dell’arte contemporanea e per la città di New York e i suoi cittadini. L’operazione, voluta dal neo direttore Lisa Phillips, di dare un nuovo volto e dei nuovi spazi all’ istituzione museale è stata pensata proprio con l’obbiettivo di sostenere la visione originaria di mostrare l’arte nuova e le nuove idee mediante un’ istituzione nuova, definita dalla stessa fondatrice anti-museale. 37



1. La storia di un’istituzione

La cura e l’attenzione che le tradizionali istituzioni per l’arte e la cultura hanno profuso dalla nascita del museo per gli artisti e le loro opere affermate in tutto il mondo, a metà del XIX secolo non era ancora stata estesa all’arte del presente, per molti versi ancora difficile da accettare e comprendere in quanto fuori dai canoni e dalle regole della tradizione – anche di quella più recente - . Come curatore del Whitney Museum of American Art, dal 1967 al 1976, Marcia Tucker ha potuto osservare in prima persona che le opere d’arte proposte dagli artisti contemporanei venivano percepite ed integrate con difficoltà nella struttura espositiva e nelle collezioni dei musei d’arte tradizionale. Il pubblico si relazionava con distacco e spesso con disdegno con le opere della contemporaneità, soprattutto se affiancate alle grandi opere artistiche riconosciute in tutto il mondo, trovandole difficili da comprendere, spesso ne svalutavano il valore artistico. Interessati ad avvicinare maggiormente i due mondi, ossia i giovani artisti ed i loro lavori con le pratiche scolastiche delle vecchie istituzioni, la Tucker sviluppo così l’idea di un’istituzione dove l’arte contemporanea potesse essere studiata, interpretata e ovviamente apprezzata per ciò che era e per ciò che voleva comunicare. Con l’inizio del nuovo anno, esattamente l’1 gennaio 1977, Marcia Tucker fondò nella città di New York, il primo museo interamente ed esclusivamente dedicato all’arte contemporanea, il New Museum. Mediante un’ibridazione tra il museo tradizionale e uno spazio alternativo, la missione apertamente dichiarata - non per altro venne scelto il nome “Museo Nuovo” - di questa nuova istituzione fu quella di diventare il catalizzatore per un ampio dialogo tra i giovani talenti emergenti e i 39


visitatori, attraverso la definizione di un centro espositivo che raccogliesse informazioni e documentazioni su e per l’arte contemporanea.

1.1. Dal Garage Nel West Village ... La prima mostra venne curata dalla stessa Tucker al “C Space”, uno spazio alternativo, non lontano dagli uffici temporanei del Museo sulla Hudson Street nel quartiere di Tribeca. Intitolata “MEMORY”, la mostra proponeva delle riflessioni sulla connessione tra memoria personale e collettiva, sulla funzione del museo e la realizzazione di una cultura della storia. Questa esposizione - come quelle a seguire- fu accompagnata da un catalogo che fosse in grado di guidare e offrire una chiave di lettura al pubblico presente e documentasse la mostra al pubblico futuro. Nel mese di luglio 1977, viene inaugurato un primo spazio temporaneo donato al museo, una piccola galleria all’interno di un polo scolastico collocata tra la 5th Avenue e la 14th Street, in attesa di un luogo più appropriato. Le prime mostre furono organizzate dai curatori Allan Schwartzman, Susan Logan, e Marcia Tucker. Nel 1983 il museo venne ricollocato all’interno dell’Aton Building nella nascente area SoHo di New York City, più precisamente al 583 Broadway, dove poté godere di ambienti molto più grandi e ben forniti prevedendo l’annessione - nell’intento di perorare l’idea originaria - anche di una libreria con una selezione internazionale di pubblicazioni sull’arte, sulla teoria e in generale sulla cultura. Durante questo decennio, si susseguirono mostre monografiche di artisti emergenti e performance dedicate a importanti questioni sociali e politiche. Ricordiamo trai molti giovani artisti solisti Joan Jonas (1984), Martin Puryear (1984), Leon Golub (1984), Linda Montano (1984), Allen Ruppersberg (1985), Kim Jones (1986), Hans Haacke (1987 ), Bruce Nauman (1987), Christian Boltanski (1988), Ana Mendieta (1988), Nancy Spero (1989) e Mary Kelly (1990). 40


Anche le performance e le mostre di gruppo hanno avuto la loro rilevanza nella definizione della reputazione del nuovo museo nell’ambito del post modernismo e della teoria critica. Ricordiamo “arte e ideologia” (1984), “Differenza: sulla rappresentanza e sessualità” (1984), e “Damaged Goods: il desiderio e l’economia degli oggetti” (1986). Le numerose recensioni positive di questo ricco programma culturale si riversarono in breve in un ricco programma di pubblicazioni, tra cui vale la pena ricordare la serie “Documentary sources in Contemporary Art”. Il primo volume di questa serie “Art After Modernism: Ripensare la rappresentazione” (1984) è una raccolta interdisciplinare di testi di critica d’arte contemporanea, inizialmente curato da Brian Wallis, colui che divenne dopo pochi anni l’uomo di riferimento nel mondo del sapere postmodernista. Altra grande scelta che caratterizzò la storia del museo a partire dalla fine del 1980, fu quella (dei curatori) di rivolge il proprio interesseal di là delle classiche aree dell’arte quali la pittura e la scultura, arricchendo il programma espositivo con istallazioni nuove fatte di film, video, fotografie e performance temporanee. Dal 1996 le direttive del dipartimento curatoriale, arricchitosi di nuove figure di settore come Dan Cameron e Gerardo Mosquera si concentrarono maggiormente sulle mostre personali di artisti di rilievo internazionale, che non avevano ancora ricevuto attenzione negli Stati Uniti; artisti del calibro di Mona Hatoum (1998), Doris Salcedo (1998) Xu Bing (1998) Cildo Meireles (2000), William Kentridge (2001), Marlene Dumas (2002), e Oiticica (2002). Il programma ha continuato anche negli anni a seguire ad includere i più grandi artisti influenti che non erano ancora ampiamente riconosciuti, come Carolee Schneemann (1996), Martha Rosler (2000), Paul McCarthy (2001) e Carroll Dunham (2003). L’originario proposito del museo di dare voce solo ad artisti contemporanei ancora in vita venne definitivamente modificato proprio in questi anni in seguito alla scomparsa di numerosi artisti - a causa della grande crisi 41


dell’AIDS - le cui opere trovarono comunque posto all’interno della galleria per essere ammirate e per commemorarne gli autori recentemente scomparsi.

1.2. ... al Museo Internazionale Nel 1999, il rinnovo del ruolo di direttore museale che vide il passaggio del testimone da Marcia Turker a Lisa Phillips, non fù l’ unico cambiamento degno di nota: il programma museale aveva ormai superato di gran lunga i limitati spazi della galleria di 583th Broadway, e così nel 2002 il New Museum e la nuova direzione annunciarono il personale intento di dotare l’istutuzione di un edificio “su misura”. E’ importante sottolineare come in questo percorso verso il consolidamento e l’internazionalizzazione del New Museum, in poco più che trentanni, solo due figure si sono succedute nel ruolo di direttrici del museo, facendo forse proprio di questo evento uno dei caratteri di forza che hanno permesso all’istituzione museale di svilupparsi e dominare il panorama dell’arte contemporane in un così breve lasso temporale dall’apertura della nuova sede. Il progetto doveva essere concepito appositamente per dare voce al ricco programma - in continua crescita - che il nuovo direttore aveva in serbo per il futuro del museo, caratterizzato non solo da mostre ma anche da eventi pubblici e soprattutto attività educative. Dal concorso internazionale bandito dalla dirigenza nel 2004, venne così selezionato il progetto preliminare presentato dai famosi architetti Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa dello studio giapponese SANAA Ltd. Il 1 ° dicembre 2007, dopo 2 anni di cantiere, il New Museum riapre finalmente i battenti al 235 di Bowery street con la mostra inaugurale di genere collettivo : “Unmonumental”, aprendo al pubblico oltre ai cinque piani interamente dedicati all’esposizione delle opere d’arte, anche una 42


serie di servizi complementari al servizio del visitatore e degli abitanti del quartiere. Un’aperta dichiarazine del proprio carattere personale e della propria riconoscibilità a scala internazionale attraverso un’architettura pura, unica e identitaria. Espandendo il proprio pubblico non solo tra gli artisti ma anche tra studenti e abitanti del Lower East Side, e attirando a se un numero elevatissimo di fruitori anche internazionali, oggi, il New Museum è in grado di rispondere alle diversità, dell’arte contemporanea così come a quelle del pubblico fruitore, continuano a favorire il dialogo gli uni e gli altri.

Fig 13: Allestimento temporaneo al C Space, Hudson Street in Tribeca, 1977, NEw York Fig. 14: ingresso al New Museum, sede storica presso l’Astor Building in SoHo, 1983, New York

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2. Una pianificazione congiunta di intenti

Di carattere forte e determinato ed in perfetta armonia con la filosofia del suo predecessore, come nuova direttrice del New Museum dal 1999, Lisa Phillips avvia la progettazione del primo edificio indipendente interamente dedicato al proseguimento della mission elaborata da Marcia in origine. Progettato dagli architetti Sejima + Nishizawa / SANAA, il nuovo edificio sovrasta SoHo,HoHo, Nolita, e il Lower East Side e, come affermato dalla Phillips «nel giro di pochi anni sarà in grado di trasformare con tutta probabilità l’intera area a sud di Manhattan, conferendole nuova linfa vitale.»1 Il New museum non viene concepito per diventare ne troppo istituzionale, alla stregua dei grandi musei nazionali, ne troppo comune, come i musei di arte contemporanea che hanno proliferato negli ultimi anni in tutto il mondo. In un’intervista rilasciata al web magazine Blouin per la sezione ArtInfo in occasione dell’imminente inaugurazione della nuova sede, la direttrice argomenta le motivazioni che l’hanno portata a bandire il concorso per una nuova sede. Continuare a svolgere il proprio ruolo di incubatore per l’arte d’avanguardia e il pensiero innovativo, e contemporaneamente crescere ed evolversi per rimanere al passo con i tempi e le richieste del mercato. «Abbiamo sentito la necessità di creare un luogo che visivamente potesse comunicare la missione dell’istituzione. Abbiamo scritto con molta attenzione il programma di intenti

1  Lisa Phillips, “Leading New Museum di New”, in Museum Magazine Web. Traduzione a cura dell’autore.

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quando abbiamo lanciato il concorso per la progettazione dell’edificio. E oggi, ecco qua un’architettura che incarna perfettamente i valori del nuovo museo: è aperto, è dinamica, è in continuo mutamento, continuando a essere un luogo intimo: è un grande spazio per l’arte!» […] «Restiamo fedeli alla nostra missione di arte-nuove e nuove idee, ma avremo una presenza molto più visibile. Avremo anche una struttura più ampia, con il doppio dello spazio della precedente galleria e nuovi spazi per i servizi più pubblici.» 1

La scelta del team di progetto, è stata di certo fortemente influenzata dalla volontà di assicurarsi un volto nuovo e riconoscibile sulla scena, così da poter aumentare la visibilità dell’istituzione. Così come la volontà di dare a qualcuno che non era necessariamente di casa a New York la possibilità di costruire il proprio primo edificio nella grande città, sostenere dei giovani architetti così come la fondazione sostiene gli artisti più giovani e poco riconosciuti; rimanendo così in linea con lo spirito del New Museum e lo spirito del Bowery . Lo studio SANAA non ha semplicemente lavorato al servizio della visione del museo, ma sono riusciti con entrema abilità ad amplificarla ulteriormente, trasferendola, mediante le loro scelte progettuali, alla forma architettonica finale. Il loro lavoro è stato sicuramente guidato e facilitato da un programma di intenti chiaro sviluppato dalla committenza; un programma che si e poi successivamente arricchito grazie all’ apporto congiunto di nozioni e stimoli con l’ obbiettivo ultimo di trovare una soluzione ottimale. «Hanno preso i vari elementi del programma e li hanno collocati ciascuno in una scatola pensata su misura e quindi impilati su se stesse. SANAA ha prodotto un’architettura che può servire al meglio l’arte e che non si metta in mezzo o entra in competizione con essa.» 2

1  Lisa Phillips, “Leading New Museum di New”, in Museum Magazine Web. Traduzione a cura dell’autore. 2  Ivi.

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Il loro disegno apparentemente semplice si rivela, ad un’attenta anzalisi, altamente calibrato e mostra l’abilità dello studio, una vera e propria “arte”, di ottenere degli ottimi risultati senza sottomettere o dominare la materia esposta. «Abbiamo creduto fin dall’inizio che se l’architettura potesse raggiungere questo obiettivo [ di un’ equilibrio tra le parti, l’architettura ospitante e l’ arte esposta ] sarebbe stato di per sè un progetto innovativo.» 1

1  Ivi. Fig. 15: Sopraluogo al cantiere: il team di progetto e la direttrice, New Museum, New York.

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3. Il salto di qualità: fattori di specificità

Con tutta sicurezza si può affermare che il museo, a soli pochi anni dalla sua inaugurazione, è già per molti una destinazione: non solo per i giovani artisti Newyorkensi ma anche per turisti, curiosi e appassionati di tutto il mondo. La cronaca newyorkese azzarda già il paragone, parlando di Guggenheim del 21° secolo, augurando all’istituzione un ricco e fruttuoso futuro nel mondo dell’arte contemporanea. Volendo tentare un parallelismo con la storica istituzione, di certo non può sfuggire all’occhio critico il comune punto di partenza: due giovani donne appassionate d’arte, Peggy Guggenheim e Marcia Tucker, che grazie alla loro energia e alla passione segnarono la storia delle rispettive fondazioni, oggi tra le più importanti e riconosciute al mondo. Dall’inaugurazione del museo, i numeri raccolti dall’istituzione raccontano di un’avventura iniziata con successo e destinata a crescere, sicuramente grazie ad un progetto di intenti chiaro e ben concepito e ad una dirigenza moderna e di ampie vedute, nonché grazie ad un intervento architettonico di forte impatto, voluto come icona di questa nuova avventura. E’ proprio il valore architettonico incarnato dal New Museum a sottolineare un altro aspetto comune, forse quello più chiaro e diretto, con il Guggeneim Museum di F.L.Wright. «Che forma doveva assumere l’edificio di un museo del XXI secolo? Questo è ciò che ci siamo chiesti nell’iniziare a stendere la carta di intenti per il progetto dell’edificio. Volevamo un edificio che fosse suggestivo e sorprendente, che muovesse la curiosità e che riflettesse l’ attività dell’ interno dalla sua forma.»1

1  Lisa Phillips, “Leading New Museum di New”, in Museum Magazine Web.

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Suggestione e curiosità sono proprio le sensazioni che un’architettura ben riuscita suscita nel visitatore. Così come la grande spirale bianca di Wright continua a sbalordire ed emozionare i cultori della materia grazie alla sua forma bizzarra e allo spazio espositivo rivoluzionario che offre al visitatore; così oggi sono le sette scatole bianche impilate su sè stesse a formare un unico volume puro, estraniato e totalmente inconsueto per lo skyline neuyorkense, a contribuire nell’operazione di stupore e attrazione verso la nuova istituzione. Nel descrivere il loro edificio, lo studio SANAA parla anzitutto di un’architettura che risponde alla storia e alla personalità, del Museo e della sua fondatrice Marcia Tucker; un’architettura per l’arte contemporanea, un incubatore di nuove idee.

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3.1. Un legame profondo con il contesto

Parlando quindi di scelte progettuali, la prima e forse quella più importante è stata la scelta di dove collocare il nuovo museo. Poichè ancora prima di comprendere il “Come” era neccessario definire il “Dove”; ossia capire in quale quartiere la nuova istituzione così concepita si sarebbe adattata e sarebbe stata accolta con successo. La stessa Lisa Phillips racconta in un intervista ad un web magazine che il Bowery inizialmente non era tra le prime scelte: si fecero piuttosto i nomi di altre aree della città come Nolita o l’ Est Village che per una combinazione - oggi oserei dire fortunata - di eventi, erano da qualche tempo, tornati in auge, apprezzati dalle nuove generazione di Newyorkensi. «Quando abbiamo preso la nostra decisione, avevamo appreso segnali positivi dall’East Village che era tornato in auge, e Nolita era già in fase di trasformazione, ma il Bowery languiva. La gente lo considerava una zona morta. Questo sta cambiando e naturalmente continuerà a cambiare. Quello che ci è piaciuto di questo sito è che è all’incrocio di diversi quartieri organici. Per un istituto educativo questa è una caratteristica importante.»1

Il Bowery risultò essere così vicino e contemporaneamente così lontano. Apparve come la terra di nessuno, stigmatizzato e trascurato mentre tutto attorno provava a rinascere. Una strada ricca di storia, in cui il fascino artistico era stato riconosciuto da anni da un’ ampia comunità eterogenea di artisti. «Per la maggior parte della nostra vita, e per i 100 anni precedenti, è stato un pugno

1  Ivi.

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Fig. 16a/b: viste esterne dell’edificio e il rapporto con il contesto, New Museum, N.Y.

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Fig. 17a/b: viste esterne dell’edificio e il rapporto con il contesto, New Museum, N.Y.

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nell’occhio. Era un posto che la gente evitava nessuno voleva trascorrere del tempo lì. Ma è sempre stato un luogo che ha attirato artisti, li potevano lavorare tranquillamente, una strada larga con un sacco di luce. Gli artisti sono di solito i primi a riconoscere le possibilità nascoste e il fascino di un luogo.»1

Gli stessi architetti, Sejima e Nishizawa, affermano di essere stati inizialmente «un pò sconvolti ed impressionati» dalla volontà della committenza di voler fare «proprio lì, nel Bowery» un museo di Arte Contemporanea quando hanno visitato per la prima volta il lotto di progetto e l’area circostante. Affascinati dallo spirito temerario dell’istituzione museale, sin dal primo incontro con la committenza gli architetti sono stati determinati a trasferire il carattere contrastante, a volte rude, a volte spregiudicato del quartiere all’architettura del museo. La loro stupefacente soluzione fu quella di trattare l’involucro come una scultura, minimale, geometrica ma elegante; dai materiali semplici a volte grezzi, legati alla cultura e alla produttività del luogo. Non si sono fatti ingolosire da un approccio, tipicamente newyorkese, volto alla massimizzazione della metratura ammissibile, hanno invece creato una forma dinamica e aperta, che ben rispecchia la natura dell’arte contemporanea che deve accogliere ed esibire. Dove prima sorgeva una rimessa di autobolibili, in un lotto di terreno, relativamente piccolo, di circa 22 x 34 metri, si colloca oggi una struttura, di circa cinquemila metri quadrati, che crea spazi e atmosfere e dove lo slittamento dei volumi delle diverse direzioni lascia entrare la luce, fornendo una notevole leggerezza all’intera massa. Lo studio SANAA non ha semplicemente lavorato al servizio della visione del museo, ma l’ha amplificata ulteriormente attraverso le loro scelte progettuali. «È stato difficile definire l’architettura secondo i desideri di tutti,” - dicono Sejima

1  Ivi.

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e Nishizawa - “Sappiamo che non abbiamo potuto massimizzare l’intero sito con una architettura solida, abbiamo dovuto ridurre la massa della costruzione in qualche modo a creare uno spazio tra la stessa e il perimetro. La soluzione di slittare delle scatole è arrivata in modo rapido e intuitivo. Poi attraverso tentativi ed errori siamo arrivati alla ideale configurazione finale. Ora abbiamo un edificio che incontra la città, permette di far penetrare all’interno la luce naturale, ha liberato dalle colonne le gallerie rendendole flessibili.»1

C’è un’ immediato elmento di sorpresa quando osservi l’edificio da lontano, così come ha sorprendere è lo stesso quartiere: considerando la sua dimensione, la presenza del New Museum risulta inaspettatamente leggera, tenue e da una certa distanza il volume si dissolve tra ciò che lo circonda. Ma avvicinandosi, da Prince Street le qualità scultoree dell’edificio si fanno più nitide: la prospettiva dettata dalla strada accentua ulteriormente la sua verticalità portando alla luce, grazie anche al gioco cromatico tra le parti e il contesto, i profili netti e puri dei volumi che ritagliano il panorama. È interessante notare come l’edificio sia realmente molto simile hai render e hai fotomontaggi sviluppati inizialmente dallo studio; gli stessi architetti a fine lavori hanno affermato di essere ancora più sorpresi dal risultato ottenuto «molto più forte di quello che ci aspettavamo»2. Chiamati per la prima volta a pensare ad un impianto progettuale che dovesse svilupparsi verticalmente e alla loro prima esperienza progettuale in un contesto così ricco di verticalità come Manhattan, le preoccupazioni iniziale per la scala dell’edificio e per le proporzioni nell’inevitabile comparazione con l’intorno erano molte e segnarono fortemente la prima

1  Obrist, Hans Ulrich, a cura di, SANAA Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa, in

“The

Conversation Series/Book26”, Verlag der Buchhandlung Walther König, Köln 2012. Traduzione a cura dell’autore. 2 Ivi.

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fase di sviluppo del progetto caratterizzato da continui cambiamenti e sviluppi, ma si esaurirono, fortunatamente, a cantiere concluso. Oggi è possibile affermare che il progetto sembra essere perfettamente in scala con il contesto, elevandosi quel tanto che basta per rendersi visibile senza rompere lo skyline di un quartiere storicamente costituito da edifici residenziali ed industriali in mattoni rossi. C’è una sorta di dialogo in termini di proporzioni: sembra che una parte della via sia stata ribaltata su sé stessa, impilata invece che schierata orizzontalmente. Il sistema a doppia facciata è una delle componenti di maggiore successo dell’edificio. Una delle maggiori preoccupazioni per i progettisti, in merito alla percezione esterna dell’edificio, era quella che apparisse troppo duro, troppo opaco, solo un mucchio di scatole impilate. Da qui l’idea di sviluppare una doppia pelle, una doppia facciata che desse profondità e trasparenza ai volumi. Se dal canto suo la fotografia risulta ancora la tecnica più precisa nella riproduzione di immagini realistiche, quando visiti il New Museum l’esperienza è molto più sfumata e sottile e la sua percezione cambia profondamente in funzione dalla luce, del tempo e di come ti muovi attorno ad esso. «La doppia facciata crea numerose e ricche esperienze, grazie anche al suo sottile spessore. Credo che questo senso di trasparenza ci abbia permesso di lavorare con ampie facciate, con poche finestre ma senza apparire pesanti.»1

1  Ivi. Fig. 18: Lettura della purezza dei volumi sotto l’effetto della lucei, New Museum, N.Y.

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3.2. Beautiful roughness:

L’espressione “beautiful rough” è più e più volte ripetuta in riviste, libri ed articoli dedicati all’analisi di questa architettura urbana, nei suoi aspetti interni ed esterni. Camminando attraverso gli spazi della galleria, per esempio si rimane colpiti dal contrasto tra la purezza delle pareti verticali, lisce e ben trattate, e la matericità grezza del pavimento in cemento spatolato e della maglia industriale che “tampona” il soffitto, lasciando intravedere cosa sta dietro. Senza poi dimenticare il sapiente uso della luce che, giocando con la ruvidità delle superfici - interne ed esterne enfatizza le caratteristiche progettuali dell’ edificio, portandole ad un livello superiore. Le finiture grezze utilizzate qui sono totalmente inusuali per uno spazio museale, oltretutto nuovo e quindi non vincolato da esigenze preesistenti, nonché insolite da rintracciare nello stile architettonico dello studio Sanaa. Questa scelta progettuale potrebbe quindi essere interpretata come un richiamo a qualche prassi prettamente americana. Non è stata la ricerca di una pratica locale, bensì di un carattere il tentativo, oserei dire ben riuscito, degli architetti di trasmettere e ribadire anche nel trattamento delle superfici impronta identitaria del quartiere: la “grezzezza” del Bowery, in opposizione, per esempio, alla vicina Brodway: due mondi opposti. La scelta delle rifiniture è improntata all’uso semplice e sincero dei materiali: dai pavimenti in calcestruzzo di cemento alle lastre di roccia a prova di vandali alle travi esposte alle terrazze metalliche. « La pelle dell’edificio doveva adattarsi al mondo ruvido della parte est di New York. Da qui un lungo processo di ricerca che ci ha portato alla rete metallica espansa: viene usata nelle recinzioni, per i gradini, i cestini dell’immondizia… Un sistema a facciata unificata

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non reperibile in commercio lasciando che la materia esprimesse liberamente se stessa come proprio questa parte della città ha fatto in passato per molti anni. »1

L’uso della maglia anodizzato a maglie romboidali fu quindi ispirato dal desiderio di riconoscere il carattere, la natura del quartiere. La griglia in alluminio è il materiale industriale più comune, l’obbiettivo architettonico era quello di usarlo in maniera più sottile e poetico, senza sacrificarne le qualità intrinseche. La scelta dell’alluminio invece del più comune metallo, è stata voluta per donare un’impressione molto differente: per le sue qualità riflettenti e luminose e per il colore bianco, dona all’edificio un diverso effetto di luce, sottigliezza e permeabilità. Anche le superfici vetrate vengono subordinate a questa scelta e risultano appena visibili dietro questa superficie definita da SANAA « porosa ». Osservando l’ampia produzione architettonica dello studio è possibile rintracciare in altri progetti l’uso, oserei dire timido, della rete metallica; ma mai come nel Bowery la griglia metallica pur rimanendo un materiale industriale, è stata customizzata, appositamente riprogettata secondo le nuove necessità architettoniche, con il fine ultimo di ottenere la giusta texture e il giusto dinamismo cromatico. Anche negli interni la griglia metallica si è rivelata estremamente utile e comunicativa. « A Kanazawa abbiano messo un controsoffitto opaco che potesse nascondere le parti tecniche, e questo ebbe come effetto quello di rendere lo spazio piatto, bidimensionale. Volevamo prendere una direzione molto diversa per il N.M. »2

1  AA. VV., Shift: SANAA and the New Museum, Lars Muller Publishers e New Museum of Contemporary Art ,New York, 2008. Traduzione a cura dell’autore. 2  Obrist, Hans Ulrich, a cura di, SANAA Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa, in

“The

Conversation Series/Book26”, Verlag der Buchhandlung Walther König, Köln 2012. Traduzione

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L’intento era quello di nascondere anche il soffitto sotto una leggera maglia metallica, così da definire una continuità di carattere anche negli interni. Sin dalla prima esperienza di fruizione dello spazio del museo, anche in un aspetto così isolato e apparentemente minore come la tecnica con cui viene realizzato il controsoffitto, le griglie si rivelano un invito a esplorare le molteplici opportunità che lo spazio offre per l’esposizione e l’apprendimento delle opere: «Portano i curatori e gli artisti a pensare “ woow , posso fare qualsiasi cosa qua!”»1. L’acciaio strutturale è un altro elemento che appare spesso in tutto l’edificio, così come la vernice a spruzzo bianca antincendio che lo ricopre, enfatizzando ulteriormente il carattere industriale e grezzo. “Vogliamo che la costruzione mostri se stessa”, ha dichiarato SANAA. “Questa onestà è coerente con lo spirito del Museo impegnato quotidianamente lungo la Bowery”.

L’aspetto unico di questo edificio porta con se anche qualcosa di eroico, di etico. Basti pensare alla forma, mutabile e dinamica, animata dal evolversi della luce diurna come metafora visiva, coerente alla mutevole natura dell’arte contemporanea ospitata nel New Museum. Di notte invece le aperture delle finestre a nastro e di quelle nate dalla traslazione delle scatole ,lasciano trapelare soffusamente la luce l’esterno della costruzione, retendo la presenza del museo eterea alla vista. Sia essa luce naturale o artificiale, interna o esterna, l’intera costruzione è stata pensata e progettata per interagire, in un dinamismo mai finito dettato dal’AzioneReazione delle superfici e dello spazio, con essa. Se l’intento originale era quello di avere molte più finestre sulle facciate verticali, i test condotti sui modelli e delle maquettes nelle fasi di progettazione chiarirono che fosse necessario preservare la maggior

a cura dell’autore. 1 Ivi.

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Fig.19: Lettura della purezza dei volumi sotto l’effetto della lucei, New Museum, N.Y.

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Fig. 20 : esterno, vista sul bowery attraverso la rete anodizzata romboidale di rivestimento. Fig. 21: interno, uso dei materiali a vista che caratterizzano gli spazzi allestitivi. Fig. 22: interno, vista della Lobby e del bookshop, pavimento in cemento armato lucido. Fig. 23: interno, travi portanti in acciaio ricoperte da coperte da vernice antincendio.

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quantità di superficie muraria possibile da utilizzare come sostegno espositivo. Questo necessità spinse gli architetti ad investigare con più attenzione l’idea dello slittamento delle scatole, che da semplice gesto stilistico-compositivo mutò in uno stratagemma per catturare la maggior quantità di luce diurna dall’alto. Anche qui il problema della “monotonia” nella riproposizione ad ogni piano dello stesso lucernario venne superata grazie allo slittamento e alla dimensione delle scatole che variano piano per piano, creare una varietà tra i lucernai impiegati. Il gioco appariva semplice, portare la luce naturale all’interno della galleria regolando semplicemente le forme dell’edificio: la scelta progettuale comportava dal canto suo delle implicazioni estetiche e strutturali importanti e coordinare questi prerequisiti con le leggi locali di quartiere si rivelò alquanto difficoltoso. Se le regole locali ebbero da un lato una forte influenza sulla forma dell’edificio, fin dal principio lo studio si impegnò per assicurare che l’architettura fosse modellata, progettata da un punto di vista estetico.

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3.3. Narrativa museale e poetica architettonica

Il New Museo risulta ad oggi l’edificio più alto progettato dallo studio, costituendo una nuova e per ora unica tipologia, in particolare se paragonato ad altri musei recentemente progettati, come quello a Kanazawa o a Toledo, che si distinguono per il loro importante sviluppo orizzontale. Osservando tra i musei più conosciuti e di successo, è infatti evidente che da un punto di vista puramente distributivo e funzionale, indipendentemente dal fatto che si parli di musei di recente costruzione o di musei inseriti in edifici storici esistenti, si prediliga un sviluppo ed un percorso espositivo orizzontale. In tutta New York, il New Museum è probabilmente il museo che si sviluppa maggiormente in verticale. Un’eccezione rara che dà il via ad un ulteriore spunto d’indagine nello studio sull’evoluzione del progetto dell’involucro museale. Lo studio della scala e delle proporzioni è stato arduo e complesso: era necessario considerare i differenti punti di vista, dalla percezione stradale a quella a scala di quartiere, a quella ovviamente interna in relazione con le opere. Lo schema iniziale proposto al concorso era più basso, largo e più compresso, successivamente è stato deciso di svilupparlo ed evolverlo, mantenendo la forma ma sviluppandolo in altezza e rendendolo più sottile, più slanciato. «In qualche modo questa scelta è una reazione all’aver passato molto più tempo a New York, abbiamo sviluppato una migliore sensibilità al linguaggio architettonico della città.»1

1  AA. VV., Shift: SANAA and the New Museum, Lars Muller Publishers e New Museum of

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New York è una città che ha sviluppato una propria specifica cultura architettonica, spesso definita da una organizzazione verticale in cui il visitatore inizia dall’alto o dal basso e fluisce all’interno dell’edificio; una tradizione che il Museo sembra abbracciate e al col tempo rivoluzionare. Il problema più ovvio sta nel fatto che l’edificio è alto, ed in una tipologia di questo tipo i piani tendono a replicare semplicemente la stessa pianta, e questo spesso genera una reazione immediata, il pensiero che si abbia a che fare con un edificio per uffici. L’obbiettivo fondamentale era quello di evitare questa trappola progettuale. la replicazione di spazi sempre uguali, un po’ come accade nei grandi edifici per uffici Tra le numerose difficoltà e gli interrogativi che una nuova sperimentazione porta con sé, lo studio ha affermato di aver riscontrato anche delle potenzialità, nella forma della verticalità. Certamente, dare al sistema progettuale questa enfasi verso la verticalizzazione è stata una scelta radicale ma anche necessaria e vincolata dal lotto di progetto. «Le aspettative sono veramente diverse in funzione della tipologia e del luogo, è quindi necessario trovare dei vantaggi, delle potenzialità in ogni aspetto del programma.»1

L’istituzione museale è sempre stata in prima linea nell’innovazione e nella sperimentazione, e con essa anche le scelte architettoniche prese dovevano in qualche modo riscontrarsi nell’identità dell’istituzione. A detta degli architetti e non solo, il New Museum, non è un semplice museo; è qualcosa a cavallo tra una galleria e uno spazio eventi: è una sperimentazione a 360°. La strategia spaziale per il New Museum è molto diversa da quella adottata per il museo di Toledo. A Toledo gli spazi espositivi sono in qualche modo neutrali, e la trasparenza dei muri fa in modo che essi siano costantemente

Contemporary Art ,New York, 2008. Traduzione a cura dell’autore. 1 Ivi.

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interconnessi o in qualche modo in relazione gli uni gli altri. Qui invece è stato il desiderio di creare una narrativa ancora più complessa a guidare la progettazione: l’esperienza dello spazio e la proporzione delle stanze sono state pensate in modo tale che potessero cambiare da piano a piano e la sensazione di sorpresa è la misura di riferimento adottata dagli architetti per la generazione dello spazio, da quello espositivo a quello distributivo, come è possibile vedere nella scelta dello stretto percorso delle scale che collega i piani. L’intento fu quello di definire un quadro programmatico di elementi architettonici chiave, ridistribuiti in una serie di livelli - le sette scatole impilate - in base alle necessità narrative, alla vastità delle opere e alle tipoligie di utenti. Lo sfalsamento delle scatole produce una varietà di spazi fluidi tra interno ed esterno. Ogni piano, di differente altezza, ha una propria caratteristica e non presenta né pilastri e né colonne: le scatole sono dei veri e propri volumi portanti. I visitatori saranno introdotti nel New Museum attraverso una facciata totalmente vetrata che si estende per tutta la larghezza e l’altezza del piano terra, annullando in qualche modo la percezione del piano terra del museo. Lo stesso marciapiede sembra continuare al suo interno - il calcestruzzo grigio della strada lascia il posto al cemento grigio lucidato della hall -, creando un legame diretto con i passanti e gli abitanti del bowery. Le stesse attività di carico scarico delle opere e le funzioni della lobby sono chiaramente visibili in questo spazio di transizione tra la vita della strada, e quella del Museo. Sejima and Nishizawa hanno voluto mettere in mostra in modo elegante l’attività e il lavoro del Museo. Non hanno nascosto nulla dietro la facciata, volendo mostrare che l’edificio è fatto per massimizzare la poetica dell’ apertura e di dialogo. Questo è il motivo per cui la costruzione è coraggiosamente chiara, e anche gli aspetti più tecnici sono chiaramente visibilii dalla strada. Il piano terra, scelto a rappresentanza dell’ intero edificio, vuole essere un tutt’uno col il quartiere e con la sua vitalità: fin dal principio, la narrazione museale si 65


Fig 24: interno, rapporto visivo con la strada, New Museum, N.Y.

Fig. 25: interno, visat della lobby, New Museum, N.Y.

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Fig 26: esterno, aperture e il rapporto visivo con il contesto, New Museum, N.Y.

Fig. 27: interno, la poetica della scala, New Museum, N.Y.

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esplicita al visitatore. Questo spazio contiene la reception, la biglietteria, la cappotteria, il Museum Store, il bar e la sua cucina aperta, la scala che porta al teatro del livello inferiore; l’ascensore per l’accesso alle gallerie superiori, e la luminosa Joan and Charles Lazarus Gallery, di circa cento metri quadrati separata dal resto dello spazio da una parete vetrata illuminata zenitalmente dalla luce proveniente dallo slittamento della scatola superiore. Dal livello della lobby, i visitatori possono scegliere una varietà di percorsi verso l’alto o verso il basso attraverso l’edificio. Come abbiamo già ampliamente affermato nel New Museum la verticalità è un fattore caratterizzante che porta con se numerose questioni architettoniche e progettuali tra cui il tema delle connessioni tra piani. Numerose sono state le proposte sulla combinazione delle scale: cercando il giusto equilibrio tra lo spazio espositivo e lo spazio di smistamento, piuttosto che essere parte integrante dell’architettura della galleria, ad eccezione dei piani terzo e quarto dove la circolazione verticale è nascosta al centro. «E’ davvero sorprendente quanta superfice assorbono le aree di circolazione. Insieme al cliente abbiamo deciso di dare la priorità alla definizione dello spazio museale ».1

A differenza della lobby dove lo spazio viene parzialmente parcellizzato per questioni di neccessità funzionale i successivi tre piani di galleria il secondo, il terzo e il quarto piano - sono stati pensati da SANAA per risultare liberati da strutture portanti e sostegni verticali. Spazi ampi e fluidi, interconnessi tra loro, caratterizzati da una percoribbilità circolare libera attorno al nucleo centrale strutturale di sostegno e degli impianti di risalita. Gli spazi sono stati pensati per poter generare atmosfere uniche che vanno dalla più intima alla più esposta, grazie anche al differente apporto della luce naturale e artificiale. La libertà di fruizione e la versatilità

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allestiva di questi spazi permette agli artisti e hai curatori di raccontare ogni volta qualcosa di nuovo e soprendente. «Un museo per l’arte contemporanea dovrebbe essere neutrale nel carattere della successione dei suoi spazi, al fine di creare la più ampia tavolozza per l’arte stessa”, ha dichiarato SANAA. “Con le gallerie, in questo edificio, abbiamo cercato di giocare con le dimensioni e il modo in cui la luce del giorno illumina gli spazi. Ciò permette al visitatore di sperimentare l’arte in condizioni leggermente diverse ad ogni visita, in diversi momenti della giornata, in diversi spazi, pur senza ostacolare la qualità dell’arte.»1

Il secondo piano, intitolato Eugenio Lopez Galleries, offre circa 470 metri quadrati di spazio espositivo con altezze massime di 5,50 metri, lucernari sui lati nord e ovest dell’edificio, i pavimenti in cemento che rivelano un fare e una cura artigianali. Il terzo piano, la Maja Hoffmann/Luma Foundation Galleries, con circa 370 metri quadrati di spazio espositivo, vanta un’altezza massima di 5,80 metri con lucernari a est e ovest. A questo piano, i visitatori trovano l’accesso all’ unica scala architettonicamente concepita come un tuttuno con gli spazi museali, tra il terzo e il quinto piano. Ancora una volta siamo testimoni della volontà narrativa dell’architettura che accompagna insitentemente il visitratore tra i vari ambienti. Concepita, a tutti gli effetti, come una stanza da allestire, è il netto contrasto tra le dimensioni dello spazio, tra altzza e larghezza, unito all’espediente di eliminare le alzate della scala che rendono visibile durante la sua fruizione ciò che sta oltre, a fare di questo ambiente uno spazio eccitante e accattivante. In uno spazio di questo tipo non poteva mancare l’effetto sorpresa: la grande finestra panoramiche alla fine della scala. Un percorso in crescendo, in cui il fruitore è sottoposto, sia dal punto di vista fisico che percettivo, alla narrativa dello spazio: un “racconto”

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avventuroso e libero. Il quarto piano è il Dakis and Lietta Joannou Galleries: di circa 280 metri quadrati è il più piccolo spazio del Museo destinato alle gallerie principali, ma anche il più alto e più drammatico. L’altezza è di 7,30 metri in uno spazio illuminato da un lucernario sul alto sud che consente alla luce naturale di variare la qualità dell’illuminazione delle gallerie durante il corso del giorni e delle stagioni. Il quinto piano ospita l’istituzione del nuovo Pauline and Constantine Karpidas Education Center, caratterizzato dall’unica grande parete vetrata perimetrale, visibile dalla strada, che guarda a ovest verso Nolita e SoHo. Un’aula, una sala di editing video, un laboratorio informatico e il the Bowery Artist Tribute: è uno spazio di filtro destinato ad essere un Hub globale di iniziative istituzionale. Al sesto piano risiedono invece gli uffici del personale, e gli spazi amministrativi. Al settimo piano di questo edificio, il Nuovo Museo offre uno spazio polivalente: The Toby Devan Lewis Sky Room. A questo livello, alto 3,50 metri, di circa 186 metri quadrati vengono ospitati eventi e programmi speciali. È caratterizzato da vetrate panoramiche a tutt’altezza e da una terrazza esterna che gira intorno ai lati est a sud dell’edificio. Una moltitudine di spazi dalle più svariate funzioni, abitano questo luogo rendendolo un vero e prorio punto di ritrovo e di servizio per l’intero quartiere. Ancora una volta, la mission della fondazione trova forma e spazio per concretizzarsi.

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Fig. 28: Planimetria del quartiere lungo Bowery Street, New Museum, N.Y.

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Fig. 29: Prospetti, New Museum, N.Y.

Fig. 30: Sezioni, New Museum, N.Y.

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Fig. 31: Planimetrie, New Museum, N.Y.

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Parte III un caso italiano

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Hangar Bicocca è il caso italiano più eterogeneo e affine a quello newyorkese grazie anzitutto alla rilevanza culturale e istituzionale, che ha assunto negli anni. A riprova dell’importanza che ha ormai assunto, questa Fondazione nel panorama italiano, Hangar Bicocca rappresenta un’eccellenza, che merita di essere studiata per innumerevoli motivi. Un’istituzione che ha convinto ed è riconosciuta come un esempio di spazio espositivo innovativo per l’arte contemporanea, che ha luogo in un edificio industriale, in una delle zone dismesse più ampie d’Italia. Inoltre, Hangar Bicocca è un’istituzione presente da nove anni a Milano, ma che continua a presentare caratteri innovativi. Questo è principalmente dovuto alla storia della Fondazione, che continua ad evolversi e a mutare nel corso del tempo: un esempio d’istituzione dinamico, che ha saputo adattarsi ai cambiamenti sortiti nel corso degli anni, l’ultimo dei quali deve ancora avvenire. Nel 2013, Hangar Bicocca si trova in una situazione intermedia in un periodo tanto delicato, quanto importante per il suo sviluppo. Questo è un anno a cavallo, tra la completa ristrutturazione degli spazi , il cambio gestionale avvenuto tra il 2011 e il 2012, e l’arrivo del nuovo Artistic Advisor, ex direttore della Tate Modern. Per questa serie di elementi e per molti altri è risultato un caso affine a quello americano, caso che non smette di fornire spunti interessanti e occasioni di riflessione.

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Fig. 32: vista esterna degli edifici espositivi, Hangar Bicocca, MIlano

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1. La storia di una rinascita

Lo spazio espositivo della Fondazione Hangar Bicocca nasce nell’omonimo quartiere Bicocca, famoso per essere stato al centro di uno dei più grandi progetti di riqualificazione post- industriale degli ultimi venti anni, in Europa. La storia della Bicocca risale a cinquecento anni fa, ma furono i primi anni del Novecento a determinare la grande espansione del quartiere, compreso in un’area, tra i comuni di Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo e Monza. Qui aprirono gli stabilimenti di importanti imprese, che segnarono il passato industriale italiano, come la Pirelli, la Marelli, la Breda e la Falck, e che resero la Bicocca uno dei poli industriali più grandi di tutto il nord- Italia. A poco a poco, la Bicocca industriale fu smantellata negli anni Ottanta, lasciando al posto della fabbriche, una cittadina deserta e sprovvista di servizi elementari (asili, mense, centri ricreativi) per i pochi residenti rimasti, per le famiglie degli operai. Quando arrivò il momento di decidere le sorti della Bicocca, come spesso accade in Italia, la leadership non fu condivisa tra più attori ma fu assolta da un unico soggetto privato: Pirelli, promotore principale della rigenerazione dell’intero quartiere. Nel 1985, fu indetto un bando di concorso internazionale per la riorganizzazione vinto dallo studio “Gregotti e Associati International”, il cui progetto fu pensato per rimanere fedele all’impianto strutturale del quartiere. Nel corso degli anni, il progetto del quartiere si modificò ulteriormente, giacché da cittadella della ricerca, la Bicocca divenne un polo per il terziario, vantando la sede di importanti multinazionali. Sostanzialmente però, il vero ente che trainò la rinascita del quartiere fu l’Università MilanoBicocca, che aprì ufficialmente le sue sedi nel 1998 e nel 2002, il Teatro degli Arcimboldi, che ospitò le stagioni del Teatro della Scala, impegnato 79


dai lavori di ristrutturazione. Solo nell’ultima fase dei lavori, si decise di ampliare il progetto, comprendendo anche le zone delle fabbriche della Breda e dell’Ansaldo da poco dismesse, fino al confine con il comune di Sesto San Giovanni. Qui i nuovi lavori di riqualificazione presero il nome di “Grande Bicocca” e portarono alla nascita della sede espositiva della Fondazione Hangar Bicocca. Nei primi mesi del 2012, sono stati eseguiti nuovi lavori di ristrutturazione e adeguamento che non hanno coinvolto solamente gli spazi fisici ma l’intera gestione dello spazio. Da un punto di vista strutturale, Hangar è stato rinnovato negli spazi per il pubblico antistanti a quelli espositivi, per diventare un centro più funzionale per le nuove attività in programma. Innanzitutto, al posto del vecchio bookshop è stata creata un’area apposita per il programma educational di Hangar Bicocca, la HB Kids Room. A questa sala, si affianca un’altra area dedicata alle attività di studio e ricerca, un ambiente polifunzionale chiamato HB Lab, dove è presente, in consultazione gratuita, un’ampia libreria con il meglio delle pubblicazioni internazionali sull’arte contemporanea, selezionata dal curatore e dagli artisti invitati. La ristrutturazione ha riguardato anche gli spazi della caffetteria, che nel frattempo ha cambiato in Dopolavoro Bicocca, e si propone di essere un luogo conviviale e un punto di riferimento, non solo per i visitatori ma anche per i lavoratori del quartiere che, effettivamente, affollano il locale nelle pause pranzo. Infine, l’ultima novità che ha coinvolto gli spazi fisici di Hangar Bicocca e probabilmente, la prima che si incontra all’ingresso, è l’Info Wall. In linea con una realtà ormai telematica, questo “muro” riassume tutte le novità e gli eventi di Hangar, con la possibilità di esplorare a livello interattivo le mostre in corso. Attraverso una mappa, è possibile inoltre, collegarsi con le altre istituzioni di arte contemporanea nel mondo e commentare, attraverso i social network, l’esperienza in Hangar Bicocca. I commenti e le foto che riguardano Hangar Bicocca compaiono in tempo reale sull’ Info Wall. 80


L’altra novità molto importante è la totale gratuità di tutte le mostre e di tutte le attività di Hangar Bicocca, così come, dei materiali informativi a disposizione nello spazio. Rendendo gratuito Hangar Bicocca, si offre a tutti la possibilità di avvicinarsi all’arte contemporanea e di usufruire dei servizi offerti, unici nel loro genere nella città di Milano. Attraverso questa scelta strategica, sulla scia di innumerevoli esempi internazionale, Hangar Bicocca mira a “fidelizzare” il visitatore, proponendosi come centro culturale e d’incontro cittadino, pur essendo localizzato in una zona marginale della città. L’entrata gratuita permette altresì, di invogliare i cittadini a venire in Bicocca, valorizzando questo quartiere e la sua storia.

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2. Concept e Mission

Hangar Bicocca si propone di essere un centro per l’arte contemporanea, che possa essere al servizio dei visitatori attraverso molte iniziative, che incoraggino la partecipazione, la produzione, lo studio e la ricerca nel campo dell’arte contemporanea. Leggendo lo statuto, emerge chiaramente la volontà di Hangar Bicocca di porsi come una realtà nuova e innovativa nel panorama milanese, distanziandosi dalla tradizione italiana, per intraprendere una gestione più internazionale. “La Fondazione forma, promuove e diffonde espressioni della cultura e dell’arte con particolare riferimento all’arte contemporanea, […] anche tramite la realizzazione di mostre, esposizioni od altri programmi culturali specifici. […] La Fondazione altresì sostiene qualsiasi percorso, mezzo e/o modalità in cui la cultura si esprime, in un contesto di interazione tra i diversi settori del sapere, delle arti, della letteratura, del conoscere e delle modalità d’espressione. La Fondazione intende altresì porsi quale centro d’incontro tra la cultura contemporanea e le sue manifestazione ed il pubblico, in un’ottica di diffusione del sapere presso il pubblico e di ideazione e creazione di percorsi ricreativi e formativi.»1

Hangar Bicocca è un luogo dinamico, aperto alle diverse discipline artistiche, sia visive sia performative, in cui gli artisti sono invitati a sperimentare in uno spazio speciale, in particolare con opere site-specific, confrontandosi al tempo stesso, con l’installazione permanente I Sette Palazzi Celesti (2004) di Anselm Kiefer. Hangar Bicocca non è un museo,

1  Estratto dallo Statuto Fondazione “HANGAR BICOCCA- Spazio per l’Arte Contemporanea”, Art. 2.

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perché se si esclude l’opera di Anselm Kiefer all’interno e la scultura La Sequenza (1981) di Fausto Melotti all’esterno, questo spazio non ha una collezione permanente, così da sottolineare la sua dinamicità e l’attenzione rivolta alla cultura del presente. Attraverso le sue attività, Hangar Bicocca si propone di essere un luogo privilegiato per scoprire e fruire l’arte contemporanea, sempre attraverso un’ottica di sperimentazione e ricerca. Un’attenzione particolare è rivolta da Hangar Bicocca ai bambini e ai giovani, per i quali sono organizzati vari laboratori, in una sala a loro dedicata. L’obbiettivo prefissato è di trasmettere l’idea che, fin dall’infanzia, l’arte debba essere intesa come un aspetto della realtà da non trascurare, anzi, con cui familiarizzare attraverso il gioco e il divertimento, in tutte le sue forme. Sperimentazione è il principio che guida e accompagna la programmazione delle mostre temporanee di Hangar Bicocca, non solo rivolta alla scoperta di grandi artisti visivi internazionali, ma a tutte le forme d’arte, come musica e cinema. Perseguendo gli scopi del proprio statuto, al fine di essere un centro d’incontro con il pubblico, Hangar Bicocca dimostra un’attenzione particolare al territorio e alla sua storia, legata intimamente al passato industriale del quartiere e alla sua riqualificazione. Il pubblico viene quindi, invitato a scoprire questo angolo di periferia e la sua particolare storia, proponendo percorsi specifici e tour in bicicletta della Bicocca. La Missione della Fondazione Hangar Bicocca è di diventare, sia un’istituzione italiana sostenibile e moderna, riconosciuta nel mondo; sia un esempio per l’Italia, di apertura della cultura verso l’esterno, verso il territorio e i cittadini, nella volontà di inserire l’arte sempre più nella quotidianità.

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Fig. 33 : interno, lobby e biglietteria, Hangar Bicocca, MIlano. Fig. 34: interno, spazio Shed, Hangar Bicocca, MIlano. Fig. 35: interno, spazio Navate, Hangar Bicocca, MIlano. Fig. 36: interno, spazio Cubo, Hangar Bicocca, MIlano.

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3. Gli spazi espositivi

Uno degli aspetti che ha reso celebre Hangar Bicocca e che lo caratterizza da sempre, è lo spazio espositivo. Sulle “ceneri” degli stabiliminti della Breda, oggi si compone, in ordine dall’entrata, dello Shed, delle Navate e del Cubo. Lo spazio di Hangar Bicocca è talmente grande, da essere unico per dimensioni in Europa. Lo Shed è il primo spazio espositivo, con cui il visitatore ha modo di approcciarsi e sia per la sua denominazione sia per la struttura, ricorda l’origine industriale dell’edificio. Questo spazio è il più piccolo tra i tre espositivi; anche l’altezza è ridotta. Le uniche divisioni dello spazio sono dettate dalle colonne che creano tre navate longitudinali e che hanno il compito, di sostenere la complessa struttura bianca in acciaio, la quale a sua volta, produce numerose campate. Nel secondo spazio, chiamato le Navate, trovano posto le “torri” di Anselm Kiefer, che occupano circa metà della superficie disponibile. Un’area di oltre 150 metri di lunghezza per 80 metri di larghezza e 30 metri di altezza. Ora, questo spazio ospita l’installazione site specific di Anselm Kiefer nella navata principale, mentre le altre due navate sono vuote, disponibili per le mostre temporanee. L’altezza di questo spazio è così strabiliante che infonde una sensazione di religiosità all’ingresso, tanto da essersi valso il soprannome di “cattedrale”. L’allestimento è minimale, quasi nessun elemento è stato aggiunto alla struttura originaria e all’installazione di Kiefer. L’unico aspetto che modella lo spazio è la luce, posizionata in modo da infondere drammaticità alle “torri” di Kiefer, illumina il nero lucido della struttura e lascia in penombra il resto dello stabile, che si carica di ulteriori suggestioni, creando spazi cavernosi. La struttura imponente che sostiene il capannone è talmente articolata, da trasmettere subito l’idea delle attività produttive, che qui per anni hanno 85


popolato lo spazio. Il silenzio sembra regnare sovrano, imponendo al visitatore ascolto e rispetto per il passato, quasi che a tendere l’orecchio, si possa ancora udire lo sferragliamento dei macchinari da lavoro. L’opera di Anselm Kiefer poi, per la sua maestosità e per la sua capacità evocativa induce a riflettere, integrandosi totalmente con lo spazio circostante. Infine, dalle Navate si accede al Cubo, totalmente costruito in cemento armato, l’ultima area allestitiva del sistema dell’Hangar Bicocca che viene aperta solo in occasione di mostre temporanee. Anche qui la tendenza dell’allestimento è sempre quella di mantenere le luci soffuse, se non totalmente assenti. Questo è probabilmente dovuto al tentativo di contrastare le dimensioni dell’ambiente nei confronti di alcune opere che rischierebbero, altrimenti, di sembrare troppo piccole.

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4. Fattori di specificità

Gli aspetti che rendono unica l’esperienza di Hangar Bicocca, soprattutto in Italia, sono molteplici. Come già anticipato, in Italia non sono molte le istituzioni che hanno una Missione simile a quella di Hangar Bicocca, che si propone di essere un centro sperimentale, aperto a ogni forma di arte visiva e performativa, promuovendo anche, un coinvolgimento diretto del pubblico e del territorio. Hangar è un progetto innovativo, perché è interessato a un aspetto che fatica ad emergere in Italia: la produzione culturale. Questa Missione è svolta pienamente dalle molteplici attività di Hangar Bicocca, di cui si è già approfondito. Uno degli investimenti più significativi, effettuati dalla Fondazione fin dagli albori, riguarda il dipartimento educativo. Fin dall’inizio, è apparso chiaro che le primae fasce di pubblico sulle quali investire, per creare valore e maturare un coinvolgimento della popolazione, sono l’infanzia e la gioventù. Educando gli adulti di domani, Hangar svolge un’attività sociale importante, un investimento anche nei confronti della città di Milano, che beneficerà di una popolazione più sensibile alla cultura. Pur essendo un soggetto privato, Hangar Bicocca persegue delle finalità quasi pubbliche. Attraverso le attività sul territorio, come l’HB Tour, Hangar Bicocca favorisce la scoperta e lo potenziamento di un quartiere cittadino, che ha sofferto di uno sviluppo non a “misura d’uomo”, del quale tutt’oggi paga le conseguenze. Dal punto di vista strutturale e architettonico, il quartiere è stato perfettamente rinnovato, ma senza considerare un aspetto importante: i residenti e i servizi a loro disposizione. Hangar Bicocca permette di far conoscere il quartiere e la periferia, crea una maggiore integrazione con la città nel suo complesso, impedendo il degrado che, la noncuranza e l’abbandono provocano. Inoltre, non sono 87


da sottovalutare le abitudini dei milanesi, da sempre restii ad avventurarsi in periferia, snobbando così, la Bicocca e le sue attività. Appare chiaro dunque, che i benefici delle attività sul territorio di Hangar Bicocca si riflettano su tutta la comunità milanese e non solo direttamente sul suo intorno geografico. Un’altra caratteristica di Hangar Bicocca è di essere un centro culturale senza collezione. La bellezza dello spazio è data anche dalla vastità del luogo che, se fosse riempito con una collezione permanente, perderebbe fascino e al tempo stesso, toglierebbe spazio alle grandi installazioni che rendono questo luogo unico. Proprio la bellezza e la vastità del luogo permette di organizzare anche eventi “di massa”, come concerti e performance, che possono attirare anche 3.000 persone. Così facendo, cambia la percezione che il pubblico ha dell’arte contemporanea, rendendola un tema emozionante e interessante allo stesso tempo, soprattutto nei confronti di chi normalmente, non si sarebbe mai avvicinato autonomamente ad una mostra d’arte contemporanea. Un ulteriore aspetto meritevole di attenzione del caso Hangar Bicocca è l’entrata gratuita, istituita dall’aprile 2012. Questo è un grande investimento che Pirelli ha fatto sulla città di Milano e non solo, dimostrandosi un’istituzione equa e aperta al territorio, mettendo tutti nelle condizioni di poter fruire dello spazio e delle attività. Proporre un’entrata a pagamento significherebbe mettere una barriera all’entrata, escludendo una parte di popolazione dal fruire del valore intrinseco della cultura. Stupisce perciò, che non siano molti i siti culturali in Italia con l’entrata gratuita, nonostante la maggioranza dei musei pubblici pesino sulle casse dello stato per il 90% del totale dei costi e di fatto, ne permetta solo a una parte di fruire dei servizi, per i quali tutti gli italiani pagano. Stupisce ancor più, che sia un’istituzione privata a proporre una tale modalità d’entrata. D’altra parte, i numeri premiano questa scelta, se infatti, nel 2012 dopo l’istituzione dell’entrata gratuita, c’è stato un incremento notevole di pubblico, con 180.000 visitatori totalizzati. Da anni in Inghilterra, si 88


battono per l’entrata gratuita con la formula pay as you wish (trad. “paga quello che desideri”), che prevede un contributo volontario da parte dei visitatori. I sostenitori di questa formula sono convinti che, questa modalità permetta maggiore equità, perchè ognuno paga quello che può, aumentando il numero dei visitatori i quali, non dovendo sostenere il prezzo d’entrata, spendono di più per i servizi accessori. Pirelli essendo un’azienda privata, ambisce a scopi non solamente sociali e filantropici, ma probabilmente anche comunicativi, i quali, spiegherebbero il motivo di instaurare un regime di gratuità per qualsivoglia attività e mostra.

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5. Conclusioni

Da questa analisi, Hangar Bicocca emerge come un caso di eccellenza sul territorio italiano e ancora più, lo rappresenta per la città di Milano. Per far prosperare la sua atmosfera culturale a livello internazionale, Milano rischia di poter contare solo su proposte private (vedi la Fondazione Prada e la Fondazione Trussardi) o su poche altre iniziative, che non hanno la statura di elevarsi a museo d’arte contemporanea. Inoltre, se non saranno ripensate in modo unitario, questi vari centri culturali non riusciranno a trasmettere l’idea del Museo Metropolitano, di cui tanto si parla. In questo panorama frammentario, Hangar Bicocca si presenta come un’iniziativa che, a nove anni dalla sua fondazione, può essere considerata un’istituzione di respiro internazionale, che da lustro alla città nel suo complesso. I nove anni passati da Hangar Bicocca non sono stati lineari, né consueti e ciò ha rappresentato la croce e la delizia di questo spazio. Da un lato, Hangar Bicocca ha indubbiamente sofferto di uno sviluppo, a volte, non coerente, probabilmente a causa dell’incertezza generale in cui questo progetto è nato. Questa mancanza di linearità si percepisce in primo luogo, dal cambio di gestione e poi, anche dai ripetuti e frammentari lavori di ristrutturazione, svolti nell’arco di un paio d’anni. In secondo luogo, questa incertezza generale che sembrava dominare fino al 2012, ha determinato il carattere di novità che, dopo quasi un decennio, Hangar riesce ancora a trasmettere all’esterno. Finalmente, i milanesi sembrano essersi accorti dell’esistenza di questo spazio espositivo, confermando la qualità e l’innovazione, che da tempo si erano già palesati agli “addetti ai lavori” ma che non avevano ancora raggiunto il grande pubblico. Gli aspetti sui quali Hangar Bicocca dovrà sempre prestare attenzione in 90


futuro, saranno sempre la qualità e la sperimentazione. Bisogna trovare il giusto compromesso tra la qualità e i gusti del pubblico, per non scadere nelle mostre “blockbuster”, da migliaia di visitatori ma che rischiano a lungo andare, di rovinare la reputazione acquisita. Inoltre, ora che Hangar Bicocca sembra essersi assestato e avere trovato la propria dimensione, non deve perdere quel carattere sperimentale, che lo rende un progetto unico nel suo genere. In conclusione, Hangar Bicocca rappresenta la direzione verso cui l’Italia dovrebbe muoversi, un esempio di cultura innovativa, ricca di nuovi significati e portatrice di valori ancora poco radicati in Italia. Produrre cultura infine, non vuol dire svilire o dimenticare il passato, significa avere rispetto per un patrimonio che abbiamo ricevuto in eredità e che ha il dovere di essere vissuto ed esperito dagli italiani e non solo. Solo con esempi come Hangar Bicocca, si potrà cancellare l’idea che “con la cultura non si mangia” e che il patrimonio sia solo un pozzo infinito da cui attingere, senza mai dare nulla in cambio.

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conclusione il ruolo dell’ aarchitettura

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Oggi, dopo ormai 10 anni dall’inaugurazione, possiamo dichiarare che l’architettura progettata ha molto in comune con il distretto che la ospita, nel quale oltretutto si è ambientato perfettamente: la volontà della fondazione di aprirsi ad ogni idiosincrasia in modo a volte spregiudicato è chiaramente percepibile nelle scelte progettuali operate, dal dialogo diretto con la vita della strada alla resa spaziale degli interni, dalla progettazione della luce alla percezione dei materiali utilizzati. Il Bowery, inizialmente sottostimato e lasciato hai margini delle dinamiche di rinnovamento urbano previste dalla municipalità, con l’avvio dell’attività culturale promossa dal New Museum, è sriuscito a riscattare e rinnovare la propria identità pur rimanendo a stretto contatto con il proprio fruitore e gli artisti che li ancora oggi trovano spazio per creare. Riflettendo a edificio completato, a cinque anni dalla concezione iniziale, SANAA ha così commentato il risultato raggiunto: «Il nuovo edificio è parte di entrambi SANAA e il Nuovo Museo. Nel tempo che siamo stati insieme, entrambi siamo cambiati molto. In un certo senso siamo entrambi più grandi, più rilassati, ma pur sempre tesi e speranzosi di esplorare e trovare nuove cose. Il nuovo Museo è intrigante, perché è sempre pronto a porre domande e speriamo che continui a farlo. Il nostro edificio è un tentativo di esprimere il Nuovo Museo avventuroso e libero.»

Dalla numerose dichiarazioni degli architetti si evince chiaramente come il progetto di questo edificio sia cresciuto ed evoluto insieme alle figure di spicco che lo hanno voluto e pensato, acquisendo in un certo qual modo non solo i principi della fondazione ma anche le caratteristiche più personali dei suoi creatori. Si è potuto così ottenere questa perfetto equilibrio dialettico tra un apparente edificio monolitico e muto di puri volumi bianche e la dinamicità, l’avventura e la libertà del suo “cuore” pulsante che ha pervaso tutto il quartiere.

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Bibliografia

HASEGAWA, Yuko, Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa: SANAA, collana “Documenti di Architettura”, Electa, Milano 2006. PHILIPS, Lisa, SANAA, Sejima & Nishizawa: New Museum, New York, collana “Museum Building”, Distributed Art Pub Incorporated, New York, 2010. SPITA, Leone, Ventinove domande a Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, collana “Saper credere in architettura/21”, Clean edizioni, milano, 2003. OBRIST, Hans Ulrich, SANAA Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa, collana “The Conversation Series/Book26”, Verlag der Buchhandlung Walther König, Köln, 2012. AA. VV., Shift: SANAA and the New Museum, Lars Muller Publishers e New Museum of Contemporary Art ,New York, 2008 AA. VV., A Japanese Constellation: Toyo Ito, Kazuyo Sejima, SANAA, Ryue Nishizawa, Sou Fujimoto, Akihisa Hirata, Junya Ishigami, Moma, New York, 2016 AA. VV., in JODIDIO, Philip, Museum, collana “Architecture Now!”, Ediz.Italiana Taschen, 2010. MATIAZZI, Sara, Rigenerazione urbana: spazi industriali per l’arte contemporanea, in tesi di Laure Economia e Gestione delle Arti. 97


Sitografia

Siti web ufficiali delle istituzioni museali: http://www.newmuseum.org/ http://www.hangarbicocca.org/

Siti web di settore: PANZA, Pierluigi, Archistar addio: l’ «effetto Bilbao» è più mediatico che economico, in http://www.corriere.it/cultura HABER, John, Unwrapping the Bowery: The New Museum and the Lower East Side, in http://www.haberarts.com/newmuse DOMUSweb, Beautiful and rough, in http://www.domusweb.it/en/ architecture/2007/12/05/beautiful-rough KENNEDY, Rendy, Leading New Museum di New, intervista a Lisa Phillips, in http://www.museumwebmagazine.com/2007/new-museum SOMMARIVA, Elena, Riapre l’hangar Bicocca, in http://www. domusweb.it/it/architettura/2010/06/25/riapre-l-hangar-bicocca

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fonti delle illustrazioni

Copertina: schizzo degli architetti, estratto da” il quaderno degli schizzi di SANAA”

Frontespizio: http://www.divisare.com/sanaa

Interno: Fig.3 to 6: estratti dal libro Frempton : storia dell’ architettura moderna e contemporanea Fig. 7-11: di Baccolo Alice (Fotografia scattata di persona durante la visita del museo) Fig 8-9-10: http://www.divisare.com ( autori differenti ) Fig.12: di Baccolo Alice (Mappa concettuale realizzata in Illustrator) Fig 13-4-22: http://www.newmuseum.org/story Fig. 15 to 27: estratte dal libro Shift: SANAA and the New Museum Fig. 28 to 31: http://www.divisare.com/sanaa Fig. 32 to 36: http://www.hangarbicocca.org/ Fig. 37: estratte dal libro Shift: SANAA and the New Museum 99



APPENDICE

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Fig. 37: SANAA - Sejima e Nishizawa all’ inaugurazione del New Museum, N.Y.

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1.1 Infromazioni sugli autori

SANAA (Sejima e Nishizawa and Associates) è una multinazionale pluripremiata con sede a Tokyo, in Giappone. È stata fondata nel 1995 dagli architetti Kazuyo Sejima (1956) e Ryue Nishizawa (1966), che hanno vinto il premio Pritzker nel 2010. Esempi del loro lavoro includono il padiglione di vetro di Toledo Museum of Art a Toledo, Ohio; Il nuovo museo d’arte contemporanea a New York; Il Rolex Learning Center di EPFL a Losanna; Il Padiglione Serpentino a Londra; Il Dior Christian Building a Omotesandō, Tokyo; Il Museo del XXI secolo dell’arte contemporanea di Kanazawa; E il Louvre-Lens Museum in Francia. 1.1. Kazuyo Sejima Kazuyo Sejima (nata nel 1956 nella Prefettura di Ibaraki, Giappone) dopo aver studiato architettura all’Università Giapponese delle Donne, ha lavorato nello studio dell’architetto Toyo Ito. Nel 1987 ha avviato il proprio studio e, nel 1995, insieme a Ryue Nishizawa, ha fondato, con sede a Tokyo, lo studio SANAA (Sejima and Nishizawa and Associates). 1.2. Ryue Nishizawa Ryue Nishizawa (nato nel 1966 nella Prefettura di Kanazawa, Giappone) ha studiato presso l’ università Nazionale di Yokohama e, oltre a lavorare con Sejima, svolge anche una sua attività indipendente dal 1997. 103


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