Sommario in questo numero
EDITORIALE
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La rivoluzione democratica di Alfio Foti
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L’INTERVENTO
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Buone pratiche
Vi racconto mio fratello di Carla Rostagno
DOSSIER L’INTERVENTO
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Lampedusa, politica e affari dietro l’emergenza indotta di Rita Borsellino
Sicilia Bene Comune
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Infrastrutture culturali
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Rilanciare l’agricoltura
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Energie rinnovabili
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Beni confiscati
MONDO
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Io, libico che guardo alla guerra di Farid Adly
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La mia fuga da Misurata, di Daniele Coffaro
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Le rivolte del mondo arabo, di Adel Jabbar
Supplemento al numero 12 (4 aprile, anno 5) del settimanale ASud’Europa del Centro di Studi e iniziative culturali “Pio La Torre” - Onlus / Registrazione presso il tribunale di Palermo 2615/021 Il magazine è scaricabile presso il sito www.unaltrastoria.org / La riproduzione dei testi è possibile solo se viene citata la fonte Direttore responsabile Angelo Meli Coordinamento editoriale Giovanni Ferro Redazione Dario Prestigiacomo, Carmen Vella
Contributi di Alfio Foti, Daniele Coffaro, Adel Jabbar, Farid Adly, Sandro Tranchina, Maria Tomarchio, Carmela Cappa, Antonio Bufalino, Ilenia Franchina, Nicola Cipolla, Teodoro Lamonica, Calogero Parisi, Angelo Meli, Viviana La Rosa, Carla Rostagno
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Grafica e copertina Ciccio Falco Redazione via Mariano Stabile, 250 - 90141 Palermo tel. 0918888496 - fax 0918888538 stampa@unaltrastoria.org
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Editoriale
La rivoluzione democratica di Sicilia Bene Comune di ALFIO FOTI icilia bene comune ha dato forti e nuovi stimoli su molte tematiche e su diversi ambiti d’intervento, a partire dalla Partecipazione. Voglio porre alcune domande le cui risposte sono talmente scontate da apparire quasi provocatorie: quanti sono in Sicilia i Consigli comunali che funzionano, cioè che dedicano un tempo sufficiente ad affrontare i problemi reali delle comunità che dovrebbero rappresentare? Quanti di essi sono coerentemente legati ai bisogni, alle istanze di cittadine e cittadini e, contemporaneamente, sono estranei a logiche di potere, ricatti, complotti, e ad atteggiamenti quali cambi strumentali di casacca? E l’Assemblea regionale siciliana? Cosa si può dire di un Parlamento che di fronte alla crisi drammatica della Sicilia riesce a promulgare solo qualche legge di tanto in tanto, dimostrando ogni giorno di non avere un’ idea, un minimo cenno di progettualità su presente e futuro di questa nostra terra? E, ancora, perché una minoranza di vigliacchi che si chiama ”mafia” riesce a condizionare, se non ad opprimere, milioni di siciliane/i, costringendo l’isola a condizioni di sottosviluppo, mentre tutti sappiamo che senza questa presenza criminale il livello di vita sarebbe molto più alto? E perché il sistema clientelare, che va a braccetto con quello mafioso, continua a percorrere le vie di questa nostra democrazia sempre più debole e fasulla? E si potrebbe continuare a lungo, e allora basta, finalmente, veramente basta! Le nostre lamentele, le nostre lagnanze, il nostro malessere si devono trasformare in AZIONE LIBERATRICE. Dobbiamo ricordarci dei Vespri, dei Fasci, dei movimenti per la conquista della terra, di quanti hanno dato la vita per la libertà di tutte/i. Occorre un nuovo protagonismo, una “rivoluzione democratica”, pacifica, nonviolenta, che dia a tutti i soggetti disponibili a costruire il BENE COMUNE, la concreta possibilità del cambiamento del vivere il presente e progettare il futuro, avendo come riferimenti LA DIGNITA’, L’EQUITA’, LA GIUSTIZIA. La Partecipazione in Sicilia non significa soltanto il pur arricchimento della democrazia, è lo strumento per scardinare un sistema opprimente, ostacolo violento alla crescita qualitativa di territori e comunità. E’ la concreta possibilità per incidere su logiche e dinamiche discriminatorie, favoritismi, ingiustizie, produttrici di vuoti progettuali e di senso di smarrimento e rassegnazione ed è anche il modo attraverso cui le esperienze significative del territorio, le sensibilità , le idee, le progettualità, si possono esprimere e diventare reale forza di governo. Dobbiamo pensare, essere convinti sino in fondo che questo è possibile, che la strada obbligatoria per non cadere negli inutili e dannosi compromessi di quella politica che sempre più fa perdere senso e significato all’esistenza stessa. A Pollina la partecipazione è stata oggetto di una riflessione di un’Agorà specifica. La gestione partecipata del territorio, l’accesso comunitario alla gestione dei beni comuni, l’estensione stessa del concetto di bene comune all’ambiente ed il territorio, sono stati punti centrali di tale riflessione e base di scelte precise da recuperare in una proposta di legge di iniziativa popolare che riconosca la democrazia diretta basata sulla Partecipazione come elemento fondamentale della democrazia, strumento di emancipazione, da assumere come metodo di governo a tutti i livelli dai Comuni, alle Provincie, alla Regione. E’ una strada difficile ma affascinante e necessaria perché ognuna/o di noi sia ancora capace di coniugare il verbo ESSERE.
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L’intervento
“Vi racconto mio fratello
Mauro, l’ultimo scapigliato” di CARLA ROSTAGNO
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auro nasce a Torino il 6 Marzo 1942 da una famiglia della media borghesia torinese (la famiglia operaia, versione di origine sessantottina, fu una "forzatura" in linea con i tempi), frequenta la scuola cattolica del Rosmini alle elementari e quella dei Salesiani fino alla licenza liceale. La formazione cattolica, fortemente voluta da nostra madre, e l'ambiente famigliare segnato da accese discussioni su temi sociali e civili, sviluppano in Mauro un profondo bisogno di verità e giustizia con una particolare sensibilità verso il mondo dei più deboli. Dopo un periodo di circa due anni in cui frequenta a Milano la Facoltà di Lingue che lo rende inquieto e insoddisfatto, decide, dopo un forte scontro con nostro padre, di trasferirsi a Trento per iscriversi alla neonata Facoltà di Sociologia. Trento è una città chiusa ed ostile ai cambiamenti, che si trova improvvisamente sommersa da una gioventù avventurosa, utopista e irrequieta, e che sembra darsi appuntamento proprio lì. In cattedra siedono tra gli altri Beniamino Andreatta, Giorgio Galli, Chiara Saraceno e per un certo periodo anche Norberto Bobbio e Francesco Alberoni. Gli studenti sono impegnati ed impegnativi: reclamano più corsi, più testi da leggere e più spazi per le loro riunioni. Mauro diventa ben presto il leader carismatico del marzo • 2011 • N.2
Movimento Studentesco Trentino, infiamma le discussioni e gli animi ma è anche scanzonato e divertente; inventa e scrive slogan sui muri dell'Università di cui il più famoso è: "Non vogliamo un posto in questa società, ma vogliamo creare una società dove valga la pena trovare un posto". Sarà proprio la Facoltà di Sociologia ad anticipare la liberalizzazione dell'accesso all'Univer¬sità a seguito delle pressanti richieste degli studenti, fu l'ultima Università di élite e la prima Università di massa. Nonostante le provocazioni e gli scontri verbali Mauro stringe un rapporto di stima ed affetto con il Professore Francesco Alberoni
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che durerà ben oltre il periodo trentino. Nonostante avesse terminato gli esami già nel '68 con una sequenza di 30 e lode decide solo un anno dopo di presentare e discutere la tesi: decisione controcorrente, pesantemente attaccata dai compagni che contestavano quel "pezzetto di carta" simbolo del sistema che criticavano. In realtà per Mauro la laurea è l'ultimo regalo a nostra madre, ormai condannata da un male incurabile. La Commissione era formata da Beniamino Andreatta, Norberto Bobbio e Francesco Alberoni, che decise per un 110 e lode ed encomio solenne. Di quegli anni disse: "Fu un inna-
L’intervento
moramento collettivo e un modo splendido di vivere la giovinezza". Chiusa la fase trentina Mauro torna a Milano dove collabora al giornale di Lotta Continua e partecipa a varie iniziative e manifestazioni; nel '72 viene mandato a Palermo per coordinare e dirigere il movimento di Lotta Continua in Sicilia. Ci va con Chicca che è diventata nel frattempo la sua compagna di vita e con la quale avrà una figlia, Maddalena. Uno degli episodi emblematici di quel periodo è l'occupazione da parte dei senza tetto della Cattedrale di Palermo, durante la quale il Cardinale Pappalardo intervenne a sorpresa con un'omelia toccante che Mauro ricorderà ancora nei suoi ultimi anni. Insegnò anche per un breve periodo all'Università di Palermo: i suoi corsi sono seguitissimi ma l'esperienza si conclude per l'opposizione dell'Ateneo che non approva i suoi metodi di insegnamento, scapigliati e controcorrente. Nel '76, a Rimini, dopo un violento attacco delle femministe, L.C. si scioglie e Mauro torna a Milano dove con Chicca e altri amici apre un locale, "Macondo", primo luogo alternativo "luogo magico in cui si può stare, comunicare, incontrarsi … un gigantesco porto di mare" dove finalmente sembra che la "fantasia sia andata al potere". E' un successo di pubblico straordinario prima, uno scandalo con la chiusura del locale poi, e l'arresto dei tredici soci fondatori, tra cui Mauro, con l'accusa infamante di spaccio di sostanze stu-
pefacenti. Nonostante una campagna giornalistica denigratoria, il processo per direttissima che ne segue fa luce su tutti gli equivoci, i tredici furono assolti e venne loro riconosciuto di aver agito"per motivi di particolare valore morale e sociale". Un altro capitolo della sua vita si chiude e Mauro ne esce provato, deluso e amareggiato tanto da decidere di mettere l'oceano di mezzo e di andarsene in India con Chicca e Maddalena, per ritrovare se stesso o come dice nell'elenco di dediche del suo bellissimo libro "Crack, si è rotto qualcosa" (che scrisse di getto e pubblicò subito dopo l'esperienza di Macondo): "A me che spero di conoscere un
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giorno". Dopo circa due anni rientra in Italia e nell'80 si stabilisce a Trapani, con Chicca e Francesco Cardella fonda la Saman (parola sanscrita che significa canzone, la canzone che porta ordine al caos) una Comunità terapeutica per tossicodipendenti in cui vengono coniugate metodologie orientali ed occidentali per il recupero delle persone che hanno "difficoltà a vivere", Per anni Mauro si dedica esclusivamente al lavoro in Comunità fino al giorno in cui accetta di collaborare prima, e di lavorare a tempo pieno poi, in RTC (RadioTeleCine), una televisione privata trapanese: Mauro porta con sé, per un reinsemarzo • 2011 • N.2
L’intervento
rimento lavorativo, alcuni ragazzi della Comunità in fase ultimata di recupero. Inizia così, quasi per caso, l'ultima avventura, l'ultima delle tante vite di Mauro. Inizia con una scommessa da parte dell'editore su di lui, sulla sua intelligenza, sulla sua capacità di comunicare, di avere seguito, di conquistare simpatie e attenzione e per la sua grande sensibi¬lità ai problemi dei singoli cittadini e della città. Mauro, grazie alla serietà e all'impegno profuso nel suo lavoro, resterà nella memoria collettiva della Trapani onesta come l'artefice di una vera e propria "primavera trapanese", di un sogno possibile da realizzare. Una speranza soffocata nel sangue la sera del 26 Settembre 1988 dai sei colpi che per chiudergli la bocca gli stroncarono la vita. Sono molti i ricordi belli che ho di
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mio fratello ma quando penso a lui ricordo soprattutto la sua dolcezza. Un episodio mi colpì particolarmente: la storia di Veronica, una ragazzina autistica che per un breve periodo frequentò Saman. Era un caso difficile e Mauro si innamorava sempre dei casi difficili: nonostante l'impegno televisivo cercava di stare con lei il più possibile, sfruttando anche i momenti dei pasti. Cercò in ogni modo di comunicare con lei e, non so come, ci riuscì attraverso la musica e le canzoni. La notte in cui Mauro venne ucciso, raccontarono i genitori, seppero la notizia dal telegiornale e Veronica corse a chiudersi in camera, prese la sua chitarra e cantò il suo dolore con una canzone che diceva: "Signore è stata una svista, abbi un occhio di riguardo per il mio chitarrista". Non mi sono resa conto del pericolo che correva, né lui mi riferì
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mai di preoccupazioni o minacce. Solo nelle ultime telefonate lo sentii più triste o irritato, cosa insolita per lui e gli chiesi cos'era che non andava e lui sdrammatizzò le ragioni del suo malumore per mettere fine alle mie domande. Pochi giorni prima della sua morte ho avuto come un presentimento, ho avuto paura per lui. Monica, la maggiore delle sue figlie, avuta dopo un breve matrimonio giovanile concluso con un divorzio, mi disse che aveva parlato al telefono con Mauro che aveva giustificato un mancato viaggio a Torino perché la situazione a Trapani si stava facendo pesante e i morti ammazzati erano aumentati in modo preoccupante. Quel maledetto lunedì la mia paura si è concretizzata con l'unica notizia che non avrei mai voluto sentire. Ho avuto bisogno di un lungo periodo per mettere a fuoco e accettare l'idea che Mauro
L’intervento
non c'era più, solo un anno dopo ho sentito il bisogno di sapere e capire chi e perché aveva voluto ucciderlo. Ho sempre pensato e detto che questo per me era un delitto politico-mafioso; nel corso di questi 22 anni ci sono periodi di indagini scadenti e pasticciate, depistaggi ben orchestrati reperti "smarriti", registrazioni smagnetizzate, brogliacci distrutti. Grandi fatiche fisiche e psicologiche e ansie incontrollabili mi hanno procurato le battaglie condotte in solitudine, per oppormi efficacemente alle molteplici richieste di archiviazione via via succedutesi negli anni: volevo riuscire ad evitare una chiusura tombale delle indagini, ingiusta e offensiva per la memoria di mio fratello, per il suo impegno e per il suo sacrificio. Più che abbandonata non mi sono sentita sostenuta, è stata una battaglia lunga e solitaria con molti ostacoli e indebiti attacchi: sono stati momenti di dolore e sconforto. Spero che il processo che si sta celebrando a Trapani faccia emergere quelle "zone d'ombra" che finora, per paura o per interesse, non sono state dissipate. Come ha detto una volta lo stesso procuratore Antonio Ingroia, “fu mafia ma non solo mafia”. Dunque c'è ancora della strada da fare, e molto dipenderà oltre che dalle testimonianze che spero diano risposte esaustive, anche dagli avvocati che dovranno riuscire, nel corso degli interrogatori, a far emergere nuovi dettagli o contraddizioni illuminanti.
Depistaggi, misteri e omissioni Un processo lungo 23 anni Ci sono voluti quasi 23 anni per arrivare al dibattimento. E solo lo scorso 2 febbraio è iniziato davanti la Corte d’Assise di Trapani presieduta da Angelo Pellino, il processo per il delitto di Mauro Rostagno, il sociologo e giornalista, fondatore di Lotta Continua, e che a Trapani arrivò guidando la comunità di recupero per tossicodipendenti Saman. All’attività di terapeuta affiancò quella di cronista, divenendo capo redattore della tv privata Rtc. I suoi editoriali secondo le conclusione di una indagine andata avanti tra archiviazioni e clamorose svolte, hanno armato la mano dei mafiosi che avevano fastidio dei suoi interventi giornalistici. Era il 26 settembre del 1988 quando Rostagno fu ucciso, proprio a poca distanza dal cancello della Saman, nelle campagne di Trapani. Omicidio quanto mai misterioso visto che, come ha anche testimoniato la figlia della vittima, Maddalena lo scorso 9 marzo, i nemici di Rostagno erano numerosi: criminalità organizzata locale, i ‘compagni’ della comunità Saman, i servizi deviati che forse volevano vendicare l’assassinio del commissario Calabresi, e anche gli stessi ex compagni di Lotta Continua, che forse volevano cucirgli la bocca per sempre. Certo che Mauro Rostagno per quanto riguarda i nemici non si era certo risparmiato. Già alle prime battute del processo è venuto fuori il forte contrasto tra Polizia e Carabinieri sulle piste da seguire e gli stessi pm della Dda Antonio Ingroia e Gaetano Paci hanno parlato di depistaggi nelle indagini. Nel 1988 la Polizia con l’allora capo della Squadra Mobile, Rino Germanà, firmò un rapporto dove indicava la matrice mafiosa del delitto. Nello stesso periodo i carabinieri seguivano la pista interna alla Saman, il generale Nazareno Montanti sentito in aula dopo Germanà ha sostenuto che per loro non c’erano elementi investigativi che potevano fare ricondurre alla matrice mafiosa, posizione che il pm Paci ha stigmatizzato in modo emblematico. Imputati sono il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga e il killer Vito Mazzara, già condannati all’ergastolo per altri reati. Secondo la ricostruzione dell’accusa il delitto Rostagno è maturato n un contesto dove Cosa nostra aveva paura che Rostagno in tv denunciasse le connessioni che andavano maturando nel tempo e che oggi hanno portato a quella cosiddetta mafia sommersa che non vive più di racket e tangenti, ma gestisce imprese e appalti pubblici. Tra gli atti del nuovo processo, ci saranno anche i 3 minuti delle prime immagini girate nel luogo dell'omicidio, riprese dall'operatore di Telescirocco, Agostino Occhipinti e mai acquisite nelle precedenti inchieste. E questo grazie all’indicazione di Carla Rostagno, sorella del giornalista assassinato. Molti depistaggi e troppe omissioni hanno impedito finora di far luce su questo delitto, uno dei tanti delitti impuniti in questa Italia dei misteri.
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Il punto
Lampedusa, politica e affari dietro l’emergenza indotta di RITA BORSELLINO barconi affondano e il Mediterraneo è tornato ad essere il cimitero dei disperati. Un cimitero che l’Italia e l’Europa guardano a braccia conserte, impegnate come sono a districarsi nel risiko della guerra in Libia. Mentre l’Africa e il Medio Oriente si infiammano. E dimenticando che oltre agli assetti geopolitici, c’è un fronte umanitario di cui bisognerebbe prendersi carico. Questo per tratteggiare in breve il quadro della tragedia (o delle tragedie) cui stiamo assistendo. Ci sono responsabilità che da Bruxelles arrivano a Roma, fino a Lampedusa. Ed è da qui, da questo avamposto “occidentale” dei migranti africani, che bisogna partire per ricostruire, nel caos generale, la logica fredda, egoistica e subumana che sta governando gli avvenimenti dell’area mediterranea. Pochi giorni fa, una claque forse interessata , la stessa che fino a poco prima si univa ai cori di disagio e frustrazione della gran parte dei lampedusani, ha omaggiato il “discorso del re”, di quel presidente del Consiglio, onorevole Silvio Berlusconi, che buon senso vorrebbe principale responsabile del caos umanitario in cui da un mese versa l’isola. Lo ha omaggiato forse senza ascoltare, perché rileggendo le frasi dette dal premier il 30 marzo scorso, anche il più fedele dei tifosi dovrebbe avere un sussulto d’orgoglio. “Il
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vostro premier – ha detto raggiante - ha il vezzo e l’abitudine di risolvere i problemi. Fino a ieri non avevo la soluzione al problema chiara e quindi non mi avevate ancora visto. Poi ho messo a punto un piano, già scattato dalla mezzanotte di ieri. Con Tremonti abbiamo trovato i mezzi per la soluzione del problema. Ed oggi eccomi qui raccontarvelo”. Ma come? C’è voluto un mese per scoprire che l’Italia, uno dei paesi più ricchi del mondo, membro permanente del G8, ha i mezzi economici per far fronte agli sbarchi? Il ministro Maroni, più di un mese fa, prendendosela con l’ignavia dell’Unione europea, aveva detto che ci sarebbe stato un esodo biblico dall’Africa, con cifre che variavano, a secondo del media interlocutore, da 50 mila a 150 mila migranti in arrivo. Dall’Ue sono arrivati 80 milioni euro, dall’Africa meno di 30 mila migranti. Eppure, nonostante l’allarme del suo ministro, al premier Berlu-
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sconi ci sono voluti più di 30 giorni per accorgersi della situazione e provare a farvi fronte. Sarebbe questo il governo del fare? Ciò che fa rabbia, in tutto questo, al di là del danno irreparabile arrecato all’economia di Lampedusa, è soprattutto il trattamento subumano che è stato riservato ai migliaia di uomini, donne e bambini ammassati in quel porcile soprannominato la “Collina della vergogna”. La verità è che se, come sarebbe avvenuto in qualsiasi grande Paese dell’Occidente, il piano d’emergenza fosse stato varato un mese fa, non ci sarebbe stata nessuna “Collina della vergogna”. Trasformare Lampedusa in una valvola di sfogo della disperazione è servito a un progetto politico ben preciso. E’ servito, innanzitutto, a tenere a bada le rimostranze politiche della Lega Nord e delle amministrazioni amiche, soprattutto del Settentrione, dove il successo berlusconiano
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deve tanto alla formula “Tolleranza zero con gli immigrati”. E’ servito, poi, a trasformare gli sbarchi in un’emergenza a uso e consumo di determinati business: quello del villaggio di Mineo, per esempio, complesso residenziale che sarebbe deserto (e improduttivo) senza i migranti. O il business del casinò promesso ai lampedusani: un tema, quello dei casinò, caro a diversi potentati imprenditoriali e politici (il ministro Brambilla e il governatore Lombardo, per esempio). Ma i potentati hanno finora risolto poco, visto che persistono diversi dubbi circa l’opportunità di aprire delle sale da gioco in una Regione che fa ancora i conti con la mafia. Taormina è stata più volte stoppata per questa ragione. Costruire un casinò a Lampedusa, con la scusa di un “risarcimento” socioeconomico agli imprenditori locali “vessati” dagli sbarchi, metterebbe a tacere i dubbi e potrebbe aiutare a sbloccare l’affare Taormina (“Lì sì e qui no?”). Ma tornando alle ragioni strettamente politiche che sottendono a quella che ho fin dall’inizio definito un’“emergenza indotta”, non si può certo dimenticare il tentativo di coprire con il “caos organizzato” il fallimento delle politiche sull’immigrazione del governo. Ministri e deputati del centrodestra, infatti, continuano a ripetere la litania del rispetto del “reato di clandestinità”. Ossia, visto che dei ventimila e passa migranti la stragrande maggioranza viene dalla Tunisia, ossia un paese che non è più in guerra, bisogna considerarli for-
malmente “clandestini” e quindi non possono essere accolti. Facciamolo, allora, rispettiamo la legge: mettiamo in carcere questi ventimila “delinquenti”, come prescrivono le nuove lungimiranti norme volute dal governo, e processiamoli. Come tutti i rei, hanno diritto pure loro a un processo o no? L’altra strada da percorrere sarebbe quella dei rimpatri. Ma venuta meno la sponda della Libia, l’unico modo per farlo sarebbe quello di rispedirli in Tunisia, stringendo un accordo col nuovo governo subentrato all’ex dittatore Ben Ali. E qui casca l’asino: il giorno dopo il suo discorso a Lampedusa, Berlusconi ha dichiarato: “La Tunisia non rispetta accordi”. Ah, bene. E ora come la mettiamo con i rimpatri? In tutto questo, poi, ci sono due aspetti che vengono ignorati. Innanzitutto, i rimpatri, pur facendoli, non possono essere di massa (lo vietano le leggi internazionali) ma individuali. Ossia, occorre che vengano fatte le dovute procedure di riconoscimento. Procedure che richiedono tempo. In secondo luogo, in Tunisia c’è stata una guerra civile che ha messo contro oppositori e sostenitori di Ben Ali. E’ chiaro che a fuggire dalla Tunisia, oggi, ci siano anche gli sconfitti della guerra civile, che temono ripercussioni da parte del nuovo governo. A prescindere dal giudizio su Ben Ali, come ci poniamo dinanzi a essi? Hanno diritto o meno alla protezione (che è cosa diversa dall’asilo politico e che è previsto dal nostro ordinamento)?
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Insomma, le questioni sono tante e complesse. Affrontarle tutte insieme in un momento così delicato è cosa faticosamente inutile. La verità è che tutto andava fatto fuorché creare un’emergenza. Bisognava predisporre da subito un piano di contenimento dei flussi con centri di identificazione e accoglienza (anche le tante caserme vuote sparse nel territorio) dislocati nelle varie regioni e con i mezzi adatti (che oggi si sono trovati) per velocizzare i trasferimenti. Bastavano 60 ore, come ha detto con un mese di ritardo il premier. Avviata questa macchina di reale solidarietà, il governo avrebbe avuto e avrebbe tuttora il tempo di concentrarsi a dovere sugli aspetti geopolitici: la guerra in Libia, gli accordi di cooperazione con la Tunisia, il braccio di ferro con l’Europa. Già, l’Europa. L’atteggiamento della Francia, che con la forza, dalle parti di Ventimiglia, sta bloccando i migranti tunisini che bussano alle sue porte, è l’emblema dell’atteggiamento egoistico e miope tenuto in questi giorni da molte frange politiche dell’Unione. L’Italia ha ragione quando dice che Bruxelles e gli altri paesi europei stanno facendo troppo poco. Nessuno vuole i migranti in casa propria. In pratica, l’Europa sta facendo all’Italia quello che le regioni del Nord stanno facendo a Lampedusa. E quello che noi tutti stiamo facendo al vento di democrazia che soffia tra i giovani arabi al di là del Mediterraneo.
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Mondo
“Io, libico che guardo alla guerra come a una sconfitta personale” di FARID ADLY direttore “Anbamed, Notizie dal Mediterraneo”, collaboratore di Corriere della Sera e Radio Popolare Network ivo questi momenti con angoscia. Sono convinto antimilitarista, pacifista e nonviolento. Vivo la guerra libica come una sconfitta personale. La mia generazione di libici è fallita. Non abbiamo fatto abbastanza per sconfiggere politicamente la dittatura gheddafiana. L'opposizione era frantumata in mille rivoli, dai monarchici fino ai socialisti, ma tutti regolarmente all'estero e uno contro l'altro. Perché all'interno del paese c'erano soltanto Abu Selim (eccidio di 1200 detenuti politici, nelle loro celle, il 26 Giugno 1996) oppure le esecuzioni in pubblico negli stadi. Non abbiamo avuto sufficiente voce per farci sentire e, forse, anche il mondo non ci aveva dato ascolto, perché le orecchie dei grandi erano tappate da cerotti di petrolio e dalla carta moneta delle commesse di armamenti. Perché considero giusta la richiesta della No Fly Zone, da parte del Consiglio Nazionale Transitorio Libico (CNTL)? Perché era l'unica strada per la salvezza dei giovani libici che hanno dato avvio a questa rivoluzione, a questa resistenza. Il CNTL non ha chiesto, e lo ha ribadito anche nella giornata di ieri (lunedì 21), bombardamenti sulla residenza di Gheddafi a Bab Azizie per ucciderlo. “Destituire Gheddafi è un compito nostro e lo faremo mobilitando il nostro po-
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polo in questa resistenza formidabile che unisce tutto il paese”, ha detto l'avvocato Abdel Hafeez Ghouga. E' un diritto sacrosanto alla sopravvivenza! E', parimenti, diritto dei miei compagni pacifisti italiani dichiararsi contrari all'intervento delle potenze occidentali, ma non mettano in campo ragioni che riguardano la nostra ricchezza petrolifera o il concetto di sovranità nazionale. Non ho dubbi che USA, Francia e GB non sono lì a difendere il mio popolo. Non ci sono guerre umanitarie. Lo so che sono lì per il petrolio e per le commesse future. La ridicola polemica tra Francia e Italia sul commando della missione dimostra ampiamente questo occhio rivolto al petrolio e rischia di allungare la vita al dittatore. Vi ricordo però che il petrolio ce l'avevano sotto il loro controllo anche prima. Non hanno organizzato loro la rivolta in Libia. Per loro sarebbe
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stato meglio se fosse rimasto tutto come prima, quando ballavano coi lupi. Un discorso a parte per il miliardario ridens. Ha fatto ridere i polli e ha trascinato l'Italia in una situazione ridicola. Un giorno diceva una cosa e l'altro sosteneva il contrario. Ha superato se stesso quando la mattina ha detto che Gheddafi è tornato in sella e poi la sera, dopo che ha capito le intenzioni dell'ONU, ha cambiato idea per dire: “Gheddafi non è più credibile”. A Torino poi, dopo l'avvio della campagna militare alla quale partecipa l'Italia, ha cambiato ancora bandiera, dando credito al colonnello. I compagni di ARCI e Tavola della Pace hanno ragione a chiedere che l'Italia non abbia un ruolo attivo nei bombardamenti. C'è una doppia ragione che consiglia ciò. La posizione altalenante di Berlusconi e Frattini è un dato che con-
Mondo
siglia prudenza, ma la ragione più forte è un'altra: l'Italia è stata una potenza coloniale in Libia, quest'anno ricorre il centenario dell'aggressione italiana al suolo libico (avete visto qualche cerimonia per ricordarlo?) e questo trascorso militare (i primi bombardamenti aerei nella storia militare sono avvenuti a Kofra da parte di un aviatore italiano), consiglia di astenersi completamente dal bombardare il territorio libico da parte dell'aviazione militare italiana. L'Italia, se intende rimettere i rapporti con il popolo libico sul binario giusto, dedichi qualche piazza a Omar Mukhtar, eroi della resistenza libica, proposta che avevo avanzato sulle pagine del Manifesto, oltre 10 anni fa, ma caduta nel dimenticatoio anche da
parte del compagno (?) Veltroni, allora sindaco di Roma. Se il governo italiano ha fatto una brutta figura, peggio hanno fatto certi opinionisti, attaccati a concetti ideologici, dimenticando la resistenza italiana contro il regime fascista e contro la repubblichina di Salò. Ecco, Gheddafi per noi libici rappresenta quello e i nostri ragazzi sono i nuovo partigiani. In questi momenti, i democratici di Tripoli vivono lo stesso sentimento di quei partigiani di Milano che lottavano per la liberazione in una città sotto le bombe degli alleati. Noi vogliamo la libertà e mettere finire alla tirannia, scrivere una costituzione e scegliere, in elezioni libere, chi governerà la Libia. Questo processo è guidato da magistrati, avvocati, medici, ingegneri e
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cosa sento e leggo? Che la Libia è abitata da beduini. Si sono dimenticati che la Libia, nel 1804, ha sfidato e sconfitto gli Stati Uniti, freschi freschi di indipendenza (Professore. Giuseppe Restifo, “Quando gli americani scelsero la Libia come nemico” - Armando Siciliano Editore). Non so se questo dice qualcosa a certi "signoroni" opinionisti italiani. Alcuni arrivano a ripetere cliché retaggio del colonialismo culturale, dimostrando ignoranza della realtà libica. Noi oggi siamo protagonisti e vogliamo chiudere con il dittatore. Ben vengano tutte le proposte di mediazione internazionale, come quella del presidente Morales, per arrivare, per via pacifica, alla cacciata del sanguinario despota.
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Mondo
“La mia fuga da Misurata mentre scoppiava la guerra” di DANIELE COFFARO Ricercatore Università di Palermo ono arrivato in Libia per lavoro e sono andato via da lì per guerra civile. È successo tutto in poco tempo. Parto dall'Italia il 13 dicembre per arrivare a Tripoli alle prime ore del 14 e da lì, durante la notte, giungere a destinazione: Misurata. Mi accingevo a prepararmi ad un mondo a me lontano, quello
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arabo. È pur vero che il sangue siciliano fa scorrere nelle vene testimonianze di storia araba nella mia terra, ma è passato circa un millennio da quando fummo colonizzati. Oggi, nel 2011 vado da europeo. Il primo approccio ufficiale con la Libia è stato all'Ambasciata a Roma. Lì provvedono ad apporre nel passaporto il visto (di soli trenta giorni a fronte di un incarico lavorativo che sarebbe durato un anno). In quella occasione scopro che la Libia è una Jamahirya che, se propriamente è un regime delle masse, concettual-
mente è una sorta di unione di popoli, repubblica delle masse. Al momento non mi era chiara la cosa. Poi, arrivato a Misurata, terza città della Libia, mi sono andato chiarendo le idee. Gheddafi non è un dittatore ma un capo rivoluzionario; i cartelloni del colonello, che campeggiano in ogniddove, ricordano che la nuova era è arrivata al quarantunesimo anno (cioè che il suo potere dura dal '69); scopro anche, dialogando con il mio collega arabista, che il socialismo è alla base del suo pensiero. Le foto del leader libico si scorgono non solo nelle aree esterne, vie di accesso alle città, piazze, palazzi di particolare interesse, ma anche nelle stanze degli uffici e dei negozi. Sono andato in Libia perchè dopo aver risposto ad un avviso della Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo ed essere stato selezionato, ero interessato ad una esperienza lavorativa di rilievo: da italianista avere un incarico di docenza universitaria annuale e rinnovabile non è ipotizzabile né a Palermo né tantomeno in Italia, sebbene in un sistema universitario sano il mio curriculum dovrebbe naturalmente sfociare nell'insegnamento accademico strutturato. La realtà amministrativa locale non è duttile. Non posso contare gli incontri con il personale dell'Ateneo "7 ottobre" perché sono stati tanti, tantissimi. Si può dire che la mia attività si svolgeva tra la facoltà e le stanze dell'Amministrazione universitaria. Chiarimenti, rinvii, attese, precisazioni e tutto quello che fa prender tempo avveniva con regolare scienti-
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ficità. Nel frattempo però il mio visto scadeva, l'amministrazione non provvedeva al rilascio del permesso di soggiorno e insorgeva la guerra civile. È stato tutto veloce, molto veloce. La giornata della collera era già fissata per il 17 febbraio. Gli eventi avevano già lasciato le loro indelibili tracce in Tunisia e in Egitto. Eppure, almeno all'apparenza, a Misurata non sembrava esserci alcuna preoccupazione. Ricordo che interrogato il mio Direttore di Dipartimento sull'avvicinarsi della giornata di protesta egli rispondeva incredulo, non capiva il motivo di lamentarsi per uno stato che in fin dei conti permetteva alla stragrande maggioranza della gente di avere una macchina, segno di prosperità. Ma già giorno 16 vi era gente, soprattutto mamme e bambini, che manifestava a favore del colonnello portando in processione la sua immagine; qualcosa di preventivo si stava muovendo. Anche nei giorni successivi non mancarono manifestazioni pro Gheddafi. Ma c'era anche tanta gente che è arrivata a protestare apertamente contro. Tra il 17 e il 19 febbraio, a Misurata, e non solo, la situazione è degenerata cadendo nella guerra civile, con tutto ciò che essa comporta. Fortunatamente ne posso scrivere. Sono state lunghe giornate e nottate di scontri. All'inizio la situazione appariva più confusa che mai. Sono stato preso a sassate da un gruppo di ragazzini aizzati da un adulto mentre attraversavo la città in bicicletta. Io straniero, bersaglio di chi? Piccoli gheddafiani che in quei giorni provavano il potere di lasciarsi andare, di manife-
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stare all'esterno la rottura di rigide regole sociali. Altri gruppi scorazzavano per le strade sfoggiando capacità di guida da rallisti e portando trionfalmente la foto di Gheddafi da tenere in bella esposizione verso gli astanti. Anche in loro c'è un anelito alla rottura di limiti. Il 19 in facoltà trovo un manipolo di ragazzi esterni che portavano la fascia verde al braccio o al collo e che inneggiavano (e costringevano a far inneggiare) al colonnello. Nonostante ciò, però, la grande ribellione si manifestava apertamente e cruentemente. In quei giorni, a detta dei ribelli, hanno lasciato la vita ben 1000 libici ribelli, di cui 100 soltanto a Misurata. Misurata è una città dove le tribù hanno un ruolo ancora molto forte. I cosidetti rivoluzionari (termine a mio avviso del tutto inadeguato) o ribelli (anch'esso non rispondente correttamente a delineare questi cittadini della Libia) sono stati, con me e con chi era con me all'atto finale della fuga, garbati e gentili. I locali hanno avuto un ruolo del tutto imprenscindibile. Se non fosse stato per loro non avremmo potuto raggiungere il porto per imbarcarci. Avevamo già tentato di lasciare la Libia via aria. Ma è andata male. Ancora la confusione regnava sovrana e non siamo riusciti neanche ad oltrepassare i cancelli presi d'assalto dell'aereoporto, ma sarebbe anche stato inutile perchè la pista era già stata rovinata per evitare che le forze governative potessero utilizzarla. Quello è stato un momento psicologico nero. Eravamo tutti convinti che avremmo lasciato davvero il paese. Avremmo dovuto attendere ancora parecchi giorni prima di riprovarci.
Ricordo che la sera prima della partenza sentimmo alla televisione satellitare il Ministro della difesa italiana che parlava di operazioni di recupero di connazionali a Misurata: finalmente qualcuno si ricordava di noi! Si sorrideva e alla tensione accumulata da tanti giorni si dava una possibilità di scaricarsi positivamente. Ormai ogni giorno, da quando ero arrivato al campo della Impregilo (straordinariamente organizzata) si stava con le valigie pronte, portate al centro di raccolta, nella speranza che quella fosse la giornata giusta. In più il tempo era davvero inclemente e pioggia e raffiche di vento imperversavano. Ogni giorno, ad ogni evenienza, ci si teneva pronti già dalle prime ore della mattina. Quando è arrivato il giorno della partenza la tensione era alle stelle. Uscendo dal campo abbiamo attraversato parecchi posti di blocco dei ribelli. La città non aveva strada senza un presidio. Inizialmente procedevamo lungo la strada che corre parallela al lungomare. Passati i primi cinque o sei posti di blocco al segno della vittoria, dietro sorrisi, spesso dovuti alle parole d'intesa che i locali che erano con noi scambiavano con gli interlocutori che controllavano i passaggi dei mezzi di trasporto per le strade di Misurata
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– l‘autista del pullman nel quale mi trovavo frena. Rimane un minuto fermo e fa marcia indietro. Ci ammutolimmo. Un altro italiano spinto dalla comprensibile alterazione emotiva continuava a ripetere "Niente, stiamo ritornando. Niente, stiamo ritornando..." Fortunatamente si trattava soltanto di un ostacolo fisico, la strada era attraversata da una barricata di sabbia. Mentre l'autista tornava indietro infatti, dopo alcune centinaia di metri svoltava verso la città: imboccava la strada più lunga ed esposta alla presenza di eventuali cecchini, quella però che ci avrebbe finalmente portati alla zona portuale. Una volta lì mi sono sentito più rassicurato e poi ancora di più sulla chiatta e ancora di più sulla S. Giorgio, la nave della Marina, ma mai definitivamente come quando ho messo piede in Sicilia dopo ben più di trenta ore di navigazione con mare grosso. Voglio qui ricordare il gesto di un ribelle disarmato. Quando dentro il porto siamo risaliti sul pullman egli ha ripetutamente dichiarato la sua coscienza civica invitandoci a far salire prima anziani e bambini. Una circostanza che non richiedeva tanta cortesia sia per le condizioni di urgenza e anormalità che per la confusione che si era creata davanti l'entrata del mezzo. Eppure lo ha fatto. Ha detto più volte quella frase, simbolo di una maturità personale e della volontà che questa diventi coscienza sociale. Un rappresentante dei ribelli ci ha invitato a portare il messaggio che loro non sono né drogati né hanno nulla a che fare con Bin Laden.
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Le rivolte nel mondo arabo e la voglia di cambiamento di ADEL JABBAR Sociologo e saggista uello che sta succedendo nel mondo arabo e in particolare in Tunisia e in Egitto, come in gran parte dell’area araba , sta a dimostrare che è terminato un periodo nel quale quasi tutti i paesi arabi hanno convissuto con la paura. Hanno convissuto con la repressione, spesso feroce, con sistemi assolutamente autoritari, dittatoriali, dispotici, con una componente di corruzione molto evidente, con dei regimi che hanno escluso per anni buona parte della popolazione dalla partecipazione alla vita pubblica e politica, non solo impaurendo ma anche impoverendo. In conseguenza di tutto questo le manifestazioni di oggi sono caratterizzate da due elementi: da una parte la rivendicazione della libertà e dall'altra parte la richiesta di giustizia sociale e soprattutto la richiesta di dignità. Dopo la caduta del muro di Berlino nell''89 il mondo arabo è rimasto fuori da qualsiasi dialettica di cambiamento, le manifestazioni di oggi dimostrano che il clima di paura e di terrore è terminato e siamo di fronte all'avvio di un nuovo processo. Quali saranno le fasi, i traguardi, le interpretazioni della vita pubblica è tutto da vedere, ma intanto queste manifestazioni danno un segnale molto preciso: le popolazioni dei paesi arabi non sono più disposte a sopportare né le condizioni economiche né le condizioni politiche in cui vivevano da
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anni. Gli avvenimenti che stanno scuotendo le società arabe e travolgendo i vari vassalli e satrapi dimostrano: 1) che le popolazione hanno superato la paura che li ha paralizzati per decenni e, di fatto hanno trovato la forza di sconfiggere la cultura dell’intimidazione e del terrore che i tiranni hanno usato e usano come unico modo per governare; 2) che le élite, spesso secolari, non sono altro che combriccole familistiche di stampo mafioso; 3) che i poteri dell’occidente democratico hanno sostenuto regimi corrotti e violenti mettendo in primo piano i propri interessi materiali dimenticando del tutto la cultura dei diritti umani, della quale fanno uso, non di rado, in termini meramente strumentali; 4) una maturità e una consapevolezza politica delle fasce giovanili smarcata da riferimenti ideologici novecenteschi; 5) che larghi settori assumono la nonviolenza e la disobbedienza civile come prassi per rivendicare i propri diritti e la propria dignità, quindi smentendo e confutando il luogo comune che vuole le società arabe imbevute di violenza e di fanatismo religioso, appiattendo l’immagine degli arabi sulla figura
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di Bin Laden e di al-Qa‘aida; 6) l’assenza di retorica anti occidentale – non sono stati presi di mira né interessi né persone né simboli occidentali – e il sapere parlare un linguaggio transculturale in grado di comunicare in un mondo di differenze e di molteplicità attraverso parole d’ordine quali dignità, libertà e giustizia. Quali scenari? In molti si chiedono quali saranno le conseguenze di queste sollevazioni. Si può tentare sommariamente di indicare due plausibili cambiamenti, uno di natura interna e l’altro di natura esterna. Relativamente alla realtà interna, si potrebbe avviare un corso politico caratterizzato dal riconoscimento di soggetti politici diversi che tenderanno a posizionarsi in un primo momento nel nuovo scenario creatosi e in un secondo momento competeranno per l’acquisizione del consenso popolare tramite le urne. In questo panorama le varie e variegate visioni di stampo islamico giocheranno certamente un ruolo significativo, tuttavia non si tratterebbe di un ruolo totalizzante e egemonico, a differenza di quello che sostengono alcuni analisti. Anche se qualche formazione islamica occuperà una posizione determinante nei nuovi assetti sarà comunque molto vicina all’esperienza dell’attuale compagine turca democratico-islamica e quindi avrà delle similitudini con alcune delle esperienze democratiche cristiane in Europa. Riguardo al secondo
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aspetto, cioè quello esterno, i cambiamenti che avverranno saranno più lenti e si svilupperanno con una certa cautela. Uno dei cambiamenti prevedibili riguarderà un ripensamento delle relazioni interarabe in funzione di una maggiore collaborazione al fine di ripristinare un qualche ruolo sulla scena mondiale e acquisire un peso politico rispetto alcuni temi caldi e sensibili, come per esempio la questione del popolo palestinese, la situazione della Somalia e i rapporti con l’Iran. In oltre si cercherà di smarcarsi da alcune decisioni della politica statunitense e di trovare una voce autonoma, senza doversi appiattire sulle scelte di Washington com’è avvenuto negli ultimi decenni (per esempio la partecipazione alla guerra contro l’Iraq, l’appoggio alla guerra contro l’Afghanistan e l’adesione ad un eventuale attacco contro l’Iran). Il caso Libia I fatti libici e gli sviluppi sul terreno, fin’ora, dimostrano alcune differenze rispetto ai due paesi vicini l’Egitto e la Tunisia. In questa sede ci preme sottolineare due aspetti che sembrano centrali: le risorse petrolifere e la composizione della popolazione. Il petrolio suscita l’interesse di diversi paesi, in primis gli USA, la Francia, il Regno Unito e non solo, che stanno creando tutte le condizioni per legittimare un eventuale intervento militare. La presenza di navi da guerra anche canadesi e perfino dalla Corea del sud sta a dimostrare le mire di accaparrarsi
una fetta del petrolio nell’era postGheddafi. Presenza militare, pressioni diplomatiche, sanzioni e congelamenti dei beni all’estero sono provvedimenti che non si sono visti in precedenza ne nel caso egiziano ne in quello tunisino e non si vedono neanche nel caso dello Yemen. Riguardo all’aspetto della composizione sociale in Libia persiste ancora un forte sentire comunitarista, localista e particolaristico che non di rado tende a sostituirsi ad una visione politica inclusiva. A ciò, forse, andrebbe attribuito il mancato coinvolgimento di diversi settori e fasce della popolazione nelle proteste a differenza di quanto avvenuto nei due paesi contigui. Proprio in questi giorni seguendo le varie dichiarazioni e diversi pronunciamenti fatti da alcuni esponenti dell’opposizione libica si nota un notevole divario rispetto alle voci dei movimenti egiziani e tunisini. Questi ultimi hanno fatto percepire con molto chiarezza la presenza di una società civile dinamica e vivace, una società in grado di elaborare una visione unitaria malgrado le differenze esistenti. Tali aspetti rischiano di rendere il cammino della rivolta libica molto più tortuoso e cruente, il che potrebbero aprire il paese a scenari drammatici che lo avvicinerebbero alla traumatica esperienza irachena o alla tragedia somala. Sarebbe auspicabile quindi che il leader libico seguisse la via intrapresa da Ben Ali e Mubarak affinché la Libia trovi un proprio percorso di cambiamento.
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“L’Italia federalista riparta dalla Sicilia” Il modello equo e solidale di Renda di ANGELO MELI Se in Italia vogliamo un federalismo vero, equo e solidale dobbiamo partire dalla Regione siciliana, la prima regione federale”. Nell’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia, tocca allo storico Francesco Renda ricordare la primogenitura della Sicilia su molti istituti che ancora caratterizzano la Repubblica Italiana. A cominciare dalla Costituzione: “La prima Costituzione liberale in Italia venne approvata nel 1812 dal Parlamento Siciliano - ricorda - poi arrivò lo Statuto Albertino”. Certo, la Costituzione del Regno delle due Sicilie era stata pensata da un’elite nobiliare e soffriva di grandi pregiudizi, ma divenne un modello in Europa. «E senza la Costituzione del 1812 non si sarebbe fatta l’Italia», sottolinea ancora Renda ricordando la successiva relazione presentata dal Consiglio straordinario di Stato, convocato in Sicilia con decreto dittatoriale del 19 ottobre 1960, in cui viene nominata per la prima volta l’Isola come una regione e si chiede esplicitamente un trattamento federale (*). «Rileggendo quella relazione racconta Renda - ho scoperto che gli uomini politici siciliani e letterati che ne facevano parte criticavano fortemente il modo in cui si stava formando lo Stato italiano e lanciavano l’ipotesi regionale come l’unico progetto che potesse coniugare la centralità statale con le esigenze autonomiste delle regioni come la Sicilia, ma anche la
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Lombardia, la Toscana, l’Emilia». I siciliani unitari lanciarono così l’ipotesi di creare alcune divisioni territoriali, di due o tre milioni di abitanti ciascuna, dotate di Parlamento e governo autonomo coordinati con il potere centrale di Roma. «La mia tesi è che l’Italia federalista deve ripartire dalla Sicilia - spiega Francesco Renda creare cinque macroregioni che si rapportino con il parlamento centrale di Roma capitale e la bandiera italiana tricolore». Una federazione di regioni, insomma, così come la propose il Consiglio siciliano del 1860: Nord, Centro, Sud, Sicilia e Sardegna. Una proposta rilanciata nel suo ultimo libro pubblicato per i tipi dell’editore Rubbettino in occasione delle celebrazioni per l’Unità d’Italia. «Parlo di un federalismo che non si rifà a quello della Lega Nordsottolinea - ma che partendo dalla Sicilia coinvolga tutti gli italiani con un forte spirito unitario». Una proposta politica, forse, ancora prematura poiché occorre una forte partecipazione popolare e al Sud e in Sicilia la gente ha altro a cui pensare, al momento. Il governatore regionale Raffaele Lombardo, leader del movimento autonomista Mpa, potrebbe farsene promotore, suggerisce Renda, ma da solo non ce la fa. Se vuole spingere per una vera Italia federalista che parta dal Sud, deve coinvolgere le altre forze politiche e, soprattutto, i siciliani. Certo, c’è molto da cambiare. Soprattutto il comportamento delle
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persone che al Sud, e in Sicilia in particolare, tendono a una certa indolenza. «Parliamo abbastanza e non facciamo a sufficienza», chiosa Francesco Renda, «la prima vera riforma da fare è la riforma del comportamento, passare dalle parole ai fatti». Una rivoluzione difficile da attuare, «bisogna cominciare da quanti ci chiedono tutto senza dare niente». La principale critica rivolta al Sud e alla Sicilia, spiega, è quella di avere un comportamento che ai fatti sostituisce le parole. «Se vogliamo che Palermo o Catania diventino come Milano o Firenze, non basta il supporto economico spiega - il primo problema da risolvere è il comportamento delle persone». Ognuno faccia la sua parte, senza delegare l’impegno a terzi, e un primo importante passo sarà compiuto. Il discorso è rivolto alle persone di buona volontà. Renda è stato uno dei fautori dell’Autonomia siciliana che ora considera largamente screditata. «Pur avendo creato ottimi istituti - continua - la Regione non ha saputo realizzarne l’efficienza». Anzi, negli anni i vari amministratori che si sono succeduti hanno screditato queste prerogative sino a renderle penalizzanti per l’Isola. «Oggi siamo simbolo di spreco e lassismo», dice, «mentre potremmo essere un modello di sviluppo». La Sicilia gode di uno Statuto Speciale innovativo, che ha il rango di legge costituzionale e la pone quasi al livello dello Stato. «Molto più di una Regione e poco meno di uno Stato»,
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sottolinea. Ci sono i presupposti di un riformismo in chiave federale, mancano gli uomini. Anzi, la classe dirigente e gli uomini politici sono stati sospettosi e diffidenti verso questa autonomia, spesso l’hanno osteggiata. Non è stata solo questione di soldi, sono le istituzioni a non aver funzionato, lasciando l’Isola nel sottosviluppo e nell’arretratezza. «Eppure, non ci può essere federalismo in Italia senza la partecipazione decisiva della Sicilia conclude - . parlo di un federalismo che non è quello della Lega, beninteso». La proposta è quella avanzata dal Consiglio straordinario di Stato del 1860, ancora validissima. Conteneva pure una proposta che quasi cento anni
dopo sarebbe diventato l’articolo 38 dello Statuto siciliano, quello che ha imposto per tanto tempo allo Stato di sborsare un contributo di solidarietà alla Sicilia, per intenderci. (*) Il Consiglio straordinario di Stato venne convocato a Palermo dal prodittatore Antonio Mordini su incarico del re Vittorio Emanuele per «studiare ed esporre al governo quali sarebbero, nella costituzione della gran famiglia italiana, gli ordini e le istituzioni su cui convenga portare attenzione, perché rimangano conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell'unità e prosperità della Nazione Italiana», si legge all’articolo 1. Ne facevano parte Gregorio Ugdulena (presidente), Mariano Stabile ed
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Emerico Amari (vicepresidenti), Andrea Guarneri e Isidorolo La Lumia (segretari) e i consiglieri: Michele Amari, Giacinto Agnello, Giacinto Carini, Stanislao Cannizzaro, Giovanni Costantini, Pietro Calì, Gaetano Daita, Francesco Di Giovanni, Giovanni D'Ondes, Barone Vito D'Ondes, Francesco Ferrara, Ercole Fileti, Giuseppe Fiorenza, Gaetano La Loggia, Marchese Lungarini, Paolo Morello, Federico Napoli, Giuseppe Natoli, Casimiro Pisani, Domenico Peranni, Domenico Piraino, Francesco Paolo Perez, Matteo Raeli, Marchese Roccaforte, Giovanni Raffaele, Filippo Santocanale, Nicola Sommatino, Pietro Scrofani, Vincenzo Torrearsa, Nicolò Turrisi, Giulio Verdura, Salvatore Vigo.
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Prodotti biologici e campi di studio L’avventura di Lavoro e Non Solo di CALOGERO PARISI a Cooperativa Sociale Lavoro e Non Solo gestisce dal 2000 un’azienda agricola sui terreni confiscati alla mafia nei territori di Corleone, Monreale e Canicattì. Costituita a Canicattì, nel ‘98, dalla collaborazione tra l’Arci e il Dipartimento di Salute Mentale, si inseriva nel percorso di rinnovamento con cui l’Arci Sicilia intendeva porsi come soggetto politico di un cambiamento possibile, anche dando vita a imprese sociali capaci di dare lavoro e creare sviluppo, fondate sui principi etici e di inclusione sociale ai quali l’associazione è legata da sempre. Nel ’99 Pippo Cipriani, allora Sindaco di Corleone, affida i primi terreni alla cooperativa e adesso ha lì la sua sede, in un immobile confiscato alla famiglia Grizzaffi (nipoti di Totò Riina), intitolata al Giudice Antonino Caponnetto. La cooperativa collabora fin dall’inizio con il Dipartimento di Salute Mentale di Corleone per le attività di inserimento lavorativo dei soci e lavoratori con svantaggio. Le sue modalità di intervento sono legate alla scelta precisa di renderli partecipi e protagonisti del proprio percorso di integrazione nel tessuto sociale, a partire dal riconoscimento senza ambiguità dei diritti di cittadinanza: l’abitare e il lavorare. Questi diritti sono pilastri portanti dell’autonomia di ognuno e quindi fondamentali per l’ intervento riabilitativo ed integrativo. Ogni indi-
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Buone pratiche
viduo, per superare la solitudine e l’isolamento causati dalla condizione di fragilità psichica, è alla ricerca di appartenenze, di legami significativi e la cooperativa con le sue attività permette di sperimentare risposte a questo bisogno primario, puntando sulle reali possibilità di cambiamento della persona singola quando entra a far parte di un contesto di gruppo, cercando di provvedere alla sicurezza emotiva ed economica. I piccoli e grandi risultati raggiunti, ma anche gli errori commessi nel quotidiano, hanno funzionato da stimolo per raggiungere maggiore coesione e anche se si sono vissuti alcuni momenti difficili questo non ha influenzato negativamente sul percorso perché sono stati circoscritti e gestiti dall’intero gruppo
come occasione di crescita individuale e collettiva. La cooperativa ha scelto fin dall’inizio il biologico, come altro segno di rinascita di quei territori, perché insieme al riscatto dei diritti sociali riviva anche il rispetto dell’ambiente e del terreno. Attualmente la cooperativa coltiva 150 ettari di terreni confiscati sparsi per il territorio e produce, trasformando i frutti della terra, vino, semola di grano duro, passata di pomodoro, ceci, lenticchie, caponate, marmellata di fichidindia … che vengono commercializzati in tutta Italia attraverso le botteghe del mondo, i gas, le associazioni e la grande distribuzione Coop. Ogni estate, nel periodo delle raccolte, la cooperativa organizza campi di studio e lavoro nell’am-
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bito del progetto “Liberarci dalle Spine”. Durante i campi, della durata ciascuno di due settimane, si svolge alla mattina il lavoro in campagna, per le raccolte estive di grano, pomodori, melanzane, mandorle, uva.. mentre al pomeriggio i volontari e le volontarie partecipano a incontri, seminari e discussioni con esponenti del mondo dell’antimafia, delle istituzioni locali, associazioni, magistrati, forze dell’ordine e testimoni di avvenimenti storici che hanno segnato questi territori. I campi hanno un valore molto grande per l’ Arci e la cooperativa Lavoro e non solo, come mezzo per entrare in contatto con le giovani generazioni, creare partecipazione e relazione; inoltre mettono in contatto realtà locali diverse, creando occasioni di scambio e vera conoscenza reciproca e sono una pratica concreta di promozione di una cultura fondata sulla giustizia sociale, sulla legalità democratica, sulla partecipazione, sui diritti che devono efficacemente contrapporsi alla cultura del privilegio, del ricatto e della delega. Sono un concreto aiuto al lavoro della cooperativa e alla sua presenza sul territorio. La cooperativa Lavoro e Non Solo, questa la sua storia, l’avventura che vive giorno per giorno, sapendo che la strada è ancora lunga e non facile, ma che mettendosi in relazione vera e sperimentandosi sempre con nuovo entusiasmo si trova il modo di andare avanti.
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Gli orti nelle scuole per coltivare la pace di MARIA TOMARCHIO e VIVIANA LA ROSA
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l coordinamento regionale Orti di pace in Sicilia, nato nel contesto delle attività della cattedra di Modelli di progettazione pedagogica e politiche educative della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania su proposta del gruppo di ricerca che fa capo a Maria Tomarchio, si propone di mettere in rete e valorizzare appieno le numerose, variamente articolate, esperienze educative, didattiche, rieducative, riabilitative e di sostegno alla persona condotte mediante pratiche di coltura di piante e alberi, nella consapevolezza che la cura della terra è, sempre, esperienza per tutti e di tutti. Collocandosi all’interno di un ideale orizzonte di sistema formativo integrato, obiettivo della rete Orti di pace in Sicilia è dare vita ad un produttivo e sistematico scambio
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di esperienze dal quale poter trarre non soltanto importanti sollecitazioni in direzione di un sempre più evoluto e mirato itinerario formativo su rete diffusa, ma anche accordi e strategie finalizzati ad interventi condivisi e programmati ad ampio raggio, valorizzando ogni specificità propria del territorio siciliano. Guardando soprattutto, ma non soltanto, al mondo della scuola, l’orto diviene luogo di cura educativa, terreno di incontro tra natura e cultura, spazio di dialogo tra culture diverse, esperienza privilegiata di educazione interculturale. Coltivare un orto a scuola è esperienza educativa sia perché costituisce un campo cui attingere per promuovere naturalmente l’acquisizione di conoscenze nell’ambito delle materie curricolari, sia perché si “mettono a frutto” abilità a più ampio raggio, si impara a rispettare i tempi dell'attesa, a mettere in gioco capa-
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cità previsionali. L’orto, e il giardino in senso lato, quindi, costituiscono il luogo ideale per intrecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambiente e la comunità, per rispondere a sempre più inderogabili istanze di rinnovamento educativo-didattico in ambito scolastico. E’ così possibile volgere verso pratiche educative che siano centrate non solo sulla cura della terra, ma anche, soprattutto, attraverso la terra, interpretata quale luogo di importanti esperienze d’apprendimento/apprendistato delle più significative regole che sovrintendono alla vita, luogo di crescita, di risoluzione di conflitti ed esercizio della speranza, di armonico sviluppo delle potenzialità dell’essere umano nel contesto di quel sinergico, diversificato, sistema di forze che è la natura. E’ un cambiamento di prospettiva che si propone di valorizzare l’orizzonte, non di rado ristretto, di
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alcune esperienze di educazione ambientale, spostando il vettore verso l’assunzione di un’etica della responsabilità che possa operare una riconversione dell’uomo da fruitore a produttore, generando, di converso, una ormai imprescindibile assunzione di consapevolezza rispetto ai tanti quotidiani comportamenti di consumo. Importante diviene altresì recuperare memoria “operante” di esperienze educative di coltura della terra che hanno caratterizzato altre stagioni storico-educative, valorizzando un approccio che muova tra “storia e nuova progettualità pedagogica”. Già in passato infatti, dai giardini d’infanzia di Froebel alle sperimentazioni avviate nel contesto della vivace stagione di rinnovamento educativo del primo Novecento (tra queste, l’esperienza dell’Educatorio-Ricreatorio Garibaldi promossa in Sicilia già 1912 da Michele Crimi), si era compresa la straordinaria valenza educativa del lavoro e della cura della terra, intese come attività non declinabili soltanto nei termini di una educazione al lavoro, quanto in quelli di educazione attraverso il lavoro. Va peraltro segnalato come l’espressione “Orti di pace” non sia di recente formulazione, ma vada ascritta al biologo marino ed educatore veneto David Levi Morenos (1863-1933) che nel 1919 fonda proprio gli Orti di Pace, luoghi in cui orfani e bambini indigenti possono trovare rifugio e, nello stesso tempo, vivere l’esperienza dell’orto, impa-
rare nozioni di agraria e acquisire competenze professionali. Il pieno recupero di una identità storica, culturale, pedagogica rappresenta dunque il sostrato del coordinamento regionale Orti di pace in Sicilia, che orienta il proprio raggio di intervento tra memoria operante, nuova progettualità pedagogica e sviluppo del territorio. Oltre al contesto scolastico, la rete infatti promuove incontri di formazione e valorizza esperienze di impresa sociale legate al cooperativismo e all'associazionismo, forme di espressione di quel privato-sociale che ha trovato nella coltivazione della terra secondo i canoni della così detta “agricoltura biologica” uno spazio di azione orientato di volta in volta all'educazione all'ambiente, alla promozione della legalità, al recupero e all'inclusione sociale di soggetti svantaggiati. Il coordinamento regionale è attualmente impegnato anche nel censimento delle diverse esperienze educative condotte mediante pratiche di coltura di piante e alberi al fine di connettere e valorizzare in direzione di nuove configurazioni di senso le numerose esperienze che, spesso con poca visibilità, operano in direzione di cura della terra. Cultura di pace, istanze pedagogiche, didattiche, sociali, eco-ambientaliste si spera possano così trovare confluenza in un unico progetto pedagogico. Per maggiori info: http://www.facebook.com/group. php?gid=130604416987688
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“Sicilia Bene Comune un atto di responsabilità” di GIOVANNI FERRO Responsabile Comunicazione di Un’altra Storia conclusione dell’iniziativa svoltasi a Pollina il 27 febbraio e promossa da Un’altra Storia, Rita Borsellino dichiarava: “Il nostro manifesto rappresenta un atto di responsabilità nei confronti della nostra Sicilia “. Effettivamente una simile iniziativa rappresentava una scommessa per tutti noi. Il contesto che viviamo attualmente non rende semplice la costruzione di una iniziativa che possa rappresentare, al meglio, la Sicilia del fare. Quella Sicilia che produce, progetta,vive nei territori della nostra isola e che troppo spesso viene ignorata dalla politica. Quella politica di Palazzo che, sempre più è rintanata dentro le istituzioni. Una politica che è incapace di progettare, di pensare al futuro e che agisce solo in funzione della occupazione delle stanze del potere. Una politica , oggi, in Sicilia, rappresentata in una alleanza anomala che sembra allontanare qualsiasi prospettiva di alternativa e che, con il suo immobilismo sta ulteriormente danneggiando le condizioni della nostra terra. In questo contesto così difficile non era facile, quindi, mettere insieme realtà diverse, singoli cittadini che già operano e sono impegnati nei territori e che, nel corso di una giornata, si sono confrontati su svariati temi non solo per evidenziare quel tanto
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che non va, ma con lo scopo , viceversa, di costruire un manifesto condiviso di proposte concrete da confrontare con quanti pensano, ancora oggi, che il cambiamento è possibile davvero. Dalle tematiche riferite alle politiche energetiche ed ambientali, alla necessità di dotare la nostra regione di strumenti amministra-
tivi adeguati in grado di rendere fruibile il nostro preziosissimo patrimonio culturale ,alla necessità, ancora, di nuove norme per favorire la diffusione della cultura nella nostra isola garantendo pari opportunità ai tanti operatori culturali spesso costretti a fuggire da un terra in cui, viceversa, la centralità della istruzione del sapere e della diffusione della conoscenza dovrebbero assumere carattere strategico per una buona pratica della politica, per il bene comune. Su questo e su molto altro ci si è confrontati - come troverete in altra parte della rivista – cercando, da un lato, di fare emer-
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gere le criticità che impediscono un positivo sviluppo della nostra terra e individuando, dall’altro, quelle soluzioni effettivamente in grado di farci compiere, insieme, un salto di qualità. A Pollina erano presenti realtà organizzate e singoli cittadini che si sono messi al servizio di un progetto di radicale cambiamento della nostra terra che hanno costruito un percorso di condivisione perché credono che cambiare è possibile. Alla cultura del lamento, che spesso costituisce un alibi per quanti vogliono mantenere lo status quo, si sta tentando di contrapporre la cultura del cambiamento. E’ dunque il momento della responsabilità! E’ una sfida alla politica e ai suoi opinionisti. E’ un progetto per dare voce e costruire una nuova soggettività politica che si faccia rappresentanza in una terra in cui il deficit di partecipazione ha prodotto un rapporto di sudditanza tra cittadini e politica come dimostrano tutti i dati forniti dagli osservatori più attenti. E’ una sfida alla politica arroccata nei palazzi e ai suoi giochi per la salvaguardia del potere. Questo, io credo, il senso di una iniziativa unica alla quale dobbiamo ,tutti, dare continuità. E’ una mission che non può iniziare e finire dentro Un’altra Storia, ma che deve contaminare le energie migliori che in Sicilia esistono ed operano. E’ un atto di responsabilità. E’ il momento della responsabilità.
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Una società democratica investe nella conoscenza di MARIA TOMARCHIO icorre nel 2011 il centenario di un Congresso di rilevante portata, sia per numero di partecipanti, pari a diverse migliaia, che per tema in oggetto: La Sicilia contro l’analfabetismo e la delinquenza. Ha avuto luogo nel maggio del 1911 in provincia di Girgenti, proprio là dove qualche giorno prima, nel paese di Santo Stefano di Quisquinia, veniva barbaramente ucciso in pieno giorno il maestro Panepinto, reo di aver elevato il livello di consapevolezza dei contadini del luogo. Tra i temi all’o.d.g.: L’istruzione popolare in Sicilia, Rapporti tra delinquenza e analfabetismo, I fattori economici e morali della prevenzione della delinquenza in Sicilia. All’evento ha preso parte un nutrito gruppo di magistrati, i rettori delle università siciliane, maestri, studenti universitari, i rappresentanti di 125 comuni dell’isola, deputati regionali e ministri, un elevato numero di Leghe e di lavoratori, tanti tra contadini e zolfatari, l’Unione Femminile Catanese (al tempo unica organizzazione femminile laica della Sicilia), corrispondenti e redattori di periodici provenienti da ogni paese della Sicilia. Quale interesse poteva essere a tal punto fortemente condiviso da tenere assieme un così vasto e soprattutto variegato insieme di persone, di istituzioni, di aggregazioni? Si trattava dell’impegno per la difesa di un bene comune da promuovere e tutelare, giudicato talmente prezioso
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da essere posto al di sopra di ogni logica d’appartenenza, di qualsivoglia ideologia. La chiara consapevolezza che senza fari li scoli non si sarebbe potuto neanche pensare al futuro, di ciascuno e di tutti al tempo stesso, la volontà decisa di investire nella battaglia per la promozione di un sempre più diffuso ed elevato livello di cognizione. Certo agli inizi del Novecento ci si era appena lasciati alle spalle l’età in cui era la calligrafia che “apriva la porta degli impieghi”, e dunque appariva più diretto il rapporto tra crescita in termini di formazione/istruzione e innalzamento del livello della qualità della vita, tuttavia era una tra le più nobili pagine di cittadinanza attiva quella che si scriveva in quei giorni in Sicilia. A distanza di cento anni è ben mutato l’orizzonte delle pratiche cosiddette “culturali”, vorremmo almeno poter dire che non abbiamo più, come agli inizi del Novecento il pro-
blema di un sufficiente numero di insegnanti e dell’edilizia scolastica ma, per quanto possa apparire paradossale, sappiamo bene che non è così. Oggi parliamo di saperi (diamo rilievo al plurale), di società della conoscenza, di competenze, di sistema formativo; e ognuna di queste nozioni ha alle spalle una vasta letteratura di riferimento che testimonia la complessità del campo e la centralità ormai riconosciuta, di fatto, all’apprendimento e alla conoscenza come investimento forte di una società autenticamente democratica. Un riconoscimento, una centralità che però, troppo spesso, conosce soltanto un livello astratto di attenzione e di consapevolezza, i termini “ingessati” di una generica, poco impegnativa, assunzione di principio. È giunto il momento di far in modo che di tanta forza di convinzione, di tanto sentire si avverta il peso, e anche la storia (un’altra storia per l’appunto), che essa trasmuti in precise proposte e scelte istituzionali volte a valorizzare nel migliore dei modi quella virtuosa circolarità di rapporto che di fatto dovrebbe, programmaticamente, attestarsi tra universo della conoscenza e della formazione e mondo delle professioni. L’impresa appare ardua, se pensiamo a certi contesti addirittura utopica, ma l’utopia ha molto a che fare con la dimensione del progetto, ha il pregio di restituire chiari i vincoli lasciando sempre spalancata la porta alle possibilità.
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Dalla burocrazia alle infrastrutture Le proposte per i beni culturali di CARMELA CAPPA a legge regionale n. 19 del 16 dicembre 2008, resa attuativa dal D.D.R. n. 1513 del 12/07/2011, promulgata con l’intento di organizzare il territorio siciliano per ambiti territoriali secondo il sistema storico della divisione in Valli (Val Demone, Val di Noto e Val di Mazara), se resa attuativa, potrebbe favorire la rete di giacimenti culturali e la valorizzazione dei territori i cui confini non saranno condizionati dai limiti territoriali imposti dalle Soprintendenze provinciali. Di fatto il nuovo assetto a carattere sovra territoriale ha solo innescato nuove problematiche e conflitti di competenze tra le strutture intermedie periferiche (Soprintendenze, Parchi Musei) e Servizi territoriali sovra-provinciali. Ai problemi inerenti la riorganizzazione della complessa macchina amministrativa dei Beni Culturali si associano quelli derivanti dall’attuazione dell’articolo 19 della legge n. 42 del 2009 sul federalismo demaniale che attribuisce, a titolo non oneroso, a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni parte del demanio pubblico, con deroghe per la Sicilia trattandosi di una Regione a Statuto speciale. Discutere di federalismo in Sicilia e di gestione dei beni demaniali, in particolare quelli afferenti alle risorse idriche ed al paesaggio ha determinato tra i componenti dell’agorà la consapevolezza che la riqualificazione del patrimonio storico artistico, ar-
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cheologico, architettonico e del paesaggio percettivo siciliano può anche compiersi mediante la gestione responsabile del patrimonio collettivo unico ed inalienabile demandata agli enti locali con il controllo vigile della comunità dei cittadini. A Pollina sentirsi membri di Un’Altra Storia per costruire una Sicilia in comune ha permesso a ciascuno di noi l’elaborazione di un dialogo partecipato fondato su reali proposte, sul riconoscimento del ruolo fondamentale che la nostra associazione di concerto ed in rete con istituzioni ed associazioni può esercitare in difesa del patrimonio culturale siciliano come bene comune, valore culturale, ed etico, in quanto la legalità è insita nel rispetto e nella tutela dei BB.CC, La valorizzazione può assurgere a grande volano di sviluppo economico in contrasto con lo slogan provocatorio del Ministro Tremonti, con la cultura non si mangia. Non eludere i problemi, denunciarli, prenderli in esame è la premessa per costruire progetti da rendere operativi mediante gli strumenti della democrazia partecipata, in primo luogo i cantieri municipali di Un’Altra Storia, che, insieme ai cantieri territoriali e tematici possono davvero monitorare il territorio, valutarne i problemi, discuterli nell’ambito della rete delle associazioni, denunciarli agli enti preposti alla tutela, ai comuni. Il progetto fondante che ci siamo proposti è quello di trasmettere
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nel territorio in cui ciascuno di noi opera e vive l’amore nei confronti del patrimonio artistico e paesaggistico ed il recupero del concetto di identità come appartenenza. La mafia si combatte educando alla legalità al rispetto dell’identità, credendo nel principio che la cultura ed il patrimonio artistico di un territorio siano beni preziosi ed unici da salvaguardare. Saperli pubblicizzare significa raccontarne la storia, viverli e mantenerli nella loro integrità, offrirli come un dono agli altri, saperli tutelare per le generazioni future. Non è lecito farsi schermo del patrimonio ed offrirlo come antidoto ad ogni forma di illegalità senza valorizzarlo, né tutelarlo. E’ indispensabile l’integrazione tra sistemi culturali, scuole, cittadini, associazioni volta a promuovere nel territorio azioni educative, formative e d’intervento partecipato. Per amare occorre anche conoscere; Un’Altra Storia, in collaborazione con altre associazioni e con esperti deve promuovere ed organizzare, nell’ambito dei cantieri municipali, corsi per la cono-
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scenza del patrimonio artistico e paesaggistico aperti a tutti i cittadini, agli immigrati che vivono e lavorano nel territorio, alle scuole, alle comunità locali, alle associazioni, anche in collaborazione con gli enti locali. Alla conoscenza deve affiancarsi l’azione d’intervento partecipato, i cantieri municipali e territoriali di Un’altra Storia, dovranno farsi promotori di laboratori permanenti di studio, in cui elaborare progetti mirati al recupero dell’identità siciliana frutto di una commistione culturale sincretica tra Nord e Sud dell’Europa. La Sicilia deve ridisegnarsi come Luogo d’incontro tra il Nord ed il Sud del Mondo. La valorizzazione degli archivi, luoghi della memoria, come base e linfa dei giacimenti culturali, deve essere lo strumento per il riconoscimento dell’identità dei territori e quindi dei popoli, in termini di dare/avere, di identità e di confronto. Un’altra Storia deve garantire ai cittadini, mediante l’intervento di esperti nel settore dei beni culturali, una formazione che consenta di acquisire gli strumenti per costruire progetti di qualità che possano offrire ricadute in termini occupazionali e di fruizione culturale adeguati alle diverse esigenze, alle età, alle abilità, alle attitudini. Una formazione seria può garantire ai cittadini il controllo e la gestione del bene comune. Formare per educare, per ideare in maniera condivisa la riqualificazione del territorio di appartenenza, per promuovere l’identità comuni di paesi vicini
mediante programmi di sviluppo e progetti unitari evitando quelli avulsi dalla storia e dall’identità dei luoghi. Formazione che implichi la consapevolezza che i centri urbani, i paesi, i territori hanno degli elementi peculiari che li qualificano, una loro estetica che va compresa, una storia, un’identità. Partire dall’amore e dalla conoscenza può favorire la valorizzazione dei centri storici da parte degli abitanti, è forse questo lo strumento più efficace contro il degrado, l’abusivismo, gli atti vandalici perpetrati nei confronti del patrimonio storico-artitstico. Una formazione seria dei cittadini può garantire il controllo delle risorse e l’utilizzo ottimale dei fondi europei ed inoltre può fornire gli strumenti per il controllo e per la denuncia. Bisogna formare i cittadini in grado di gestire il patrimonio storico artistico confiscato alla mafia. E’ indispensabile istituire una commissione di controllo nell’ambito di ciascun cantiere territoriale che monitori e denunci quegli interventi edilizi in grado di trasformare e devastare il pae-
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saggio urbano e naturalistico, da denunciare alle autorità competenti. La commissione deve essere composta da esperti del settore e da persone della società civile sensibili ad un uso intelligente del territorio. Alla commissione spetterà il compito di controllare l’attuazione del Piano Paesaggistico Regionale, ancora in fase di redazione, e l’attivazione di misure di controllo per mantenere integri gli spazi urbani ed extraurbani . Il paesaggio percettivo siciliano nella sua totalità è sottoposto da decenni ad uno scempio incontrollato favorito da una totale mancanza di rispetto delle normative di tutela in una regione ad altissimo rischio sismico, vulcanico e soggetta al dissesto idrogeologico. Deve assumere il significato di impegno etico per i membri di Un’altra Storia recuperare quello che ancora nel territorio siciliano è immutato, cogliere il fascino che sa emanare la natura insieme alle rovine del passato ed il paesaggio nella sua unità, garantire l’identità dei centri storici mediante gli strumenti della pianificazione urbanistica. Sulla base di tali principi Un’Altra Storia intende il valore dell’Identità siciliana. Occorre favorire, collaborando e vigilando, mediante gli strumenti della democrazia partecipata, il recupero e la valorizzazione dei piccoli centri e dei centri storici secondo un sistema di gestione integrato che preveda il controllo dei flussi turistici in tutta l’isola mediante la collaborazione degli Assessorati al Turismo ed ai BB.CC., le Soprinmarzo • 2011 • N.2
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tendenze, le Curie, le Associazioni che operano nel settore dei beni culturali e del turismo ed Enti Locali. Ad una politica mirata alla distribuzione del turismo solo su alcuni Musei, su pochi siti archeologici e città d’arte deve sostituirsi una gestione integrata che riqualifichi, con una mirata gestione dei fondi, i piccoli centri dell’isola in cui sono fruibili splendidi gioielli d’arte e paesaggio. In molti centri urbani sono stati realizzati, con fondi Europei e Regionali, Musei all’avanguardia per tecniche di allestimento, ma che rimangono tagliati fuori dalle rotte turistiche. Aidone deve essere preparata ad accogliere la Venere di Morgantina, è inaccettabile che per raggiungere la cittadina ennese, a meno di cinquanta chilometri dall’aeroporto di Catania, occorrano ben due ore, per mancanza di infrastrutture. La gestione integrata dei flussi turistici e la valorizzazione del patrimonio artistico, architettonico etno-antropologico deve essere rivolta anche a valorizzare i Parchi naturalistici e marini. I parchi archeologici non devono essere incompatibili con le esigenze degli agricoltori e di quelle imprese che operano nei territori limitrofi. Possono essere favoriti da parte di Un’altra Storia progetti sinergici che prevedano l’istituzione all’interno dei parchi di zone attrezzate per la degustazione e la vendita ai turisti dei prodotti dell’agricoltura e dei manufatti di qualità. A Pollina si è parlato di risorse di premialità ai comuni virtuosi che marzo • 2011 • N.2
realizzino progetti intesi alla tutela e valorizzazione del paesaggio e del centro urbano con conseguente ricaduta sui privati e sui cittadini virtuosi, a cui spettano giuste incentivazioni, che si fanno promotori nell’edilizia privata di interventi di riqualificazione. Un’altra Storia deve fornire ai cittadini ed alle istituzione che ne fanno richiesta in formazione e formazione per l’accesso alle fonti di finanziamento. L’Osservatorio per lo sviluppo economico, promosso dall’associazione in rete con molti comuni siciliani può farsi promotore di una proposta di legge per la defiscalizzazione del 100% per gli investimenti in progetti culturali All’Osservatorio spetterà il compito di controllare i Fondi PoFSR 2007-2013 affinché sia reso attuativo il piano regionale per lo sviluppo integrato, con piani mirati alla valorizzazione dei Beni Culturali che coinvolgano integralmente tutta la regione, per rendere attuativi i progetti finalizzati allo svi-
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luppo del patrimonio artistico e del paesaggio e tali da offrire reali sbocchi occupazionali ai giovani, non fondi milionari per nuovi inutili musei, tranne quei pochi indispensabili per qualificare culturalmente alcuni centri. Occorre pertanto istituire: laboratori di ricerca per le arti visive, laboratori permanenti di restauro con particolare attenzione all’arte contemporanea, centri di ricerca e sperimentazione, progetti volti allo sviluppo ed alla valorizzazione dei piccoli centri d’arte ed al patrimonio paesaggistico e naturalistico, progetti finalizzati al miglioramento del web per la rete di conoscenze e la fruizione dei beni culturali in Sicilia, potenziamento dalla banda larga. La cultura, intesa come produzione di spettacoli di qualità, necessita di incentivi e risorse, ridotte o abolite, e di una leggequadro sullo spettacolo, che consenta pari opportunità di accesso e operatività a tutte le intelligenze. L’identità nasce dal recupero della memoria che trasmettono il teatro dei pupi, la musica, le feste, il cinema, il teatro. A conclusione dell’agorà, in una giornata vissuta intensamente, conclusa ammirando quell’infinita dimensione dello spazio tra mare, cielo e terra siamo andati via da Pollina un po’ meno soli. Il confronto ci ha aiutato a trovare in noi stessi e nella condivisione di idee la certezza che credere ed investire risorse, competenze, conoscenze nei beni culturali è una sfida da continuare per il futuro.
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Defiscalizzare la spesa in cultura Ministro, le può interessare? di SANDRO TRANCHINA La metà degli scritti sulla condizione dei beni culturali si apre con la notizia che possediamo (qualcuno scrive ospitiamo) il 46% del patrimonio culturale del mondo; l’altra metà cita sfilze di dati che provano l’assottigliarsi progressivo degl’investimenti pubblici nel comparto cultura. E io stesso ho scovato un dato – in un rapporto annuale di Federculture - che non resisto alla tentazione di citarvi: nella nostra Sicilia gl’investimenti in cultura sono diminuiti da un anno all’altro del 204,23% (la media italiana è meno 39,28%). Come dire che non siamo secondi a nessuno. Ora, questo dato sarebbe di per sé conclusivo: cosa altro aggiungere infatti per dimostrare la totale insipienza di chi ci governa senza capire quale ricchezza stiamo sprecando, continuando a ignorare il nostro patrimonio? Tralasciando le riflessioni sui valori, la memoria e le nuove generazioni, altrove in Europa e nel mondo investono e sfruttano, a scopo turistico, beni culturali di gran lunga meno importanti. Ma personalmente non considero la diminuzione d’investimenti il tema centrale, sebbene si potrebbero riempire troppe pagine elencando gli sprechi e le occasioni mancate che rappresentano i fondi europei mai – o male – utilizzati. Credo invece che in Sicilia due problemi siano di più urgente risoluzione, o meglio due assenze: assenza di un progetto complessivo e assenza di meccanismi premianti per i privati che investono in cultura. Dei due sicuramente il tema più impellente è l’assenza di un progetto. Il nostro governo regionale – in perfetta continuità con quelli precedenti – è incapace di esprimerne uno, ignora troppi dati, non censisce le centinaia di piccoli musei, teatri, bellezze naturali, smonta il sistema delle soprintendenze col pretesto di ridargli efficienza ma non è capace di riorganizzarlo. Ma senza annoiarvi con lunghe riflessioni ed esempi, faccio il mio personalissimo e breve elenco di suggerimenti: 1) aprirsi alla collaborazione con FAI, Italia Nostra, WWF e Federculture, per censire rapidamente, in economia e con obiettività tutto il patrimonio da mettere a sistema, non solo beni archeologici ma anche teatri, biblioteche, piccoli musei; 2) delegare, sulla base della mappatura, la gestione di contributi e verifica dei risultati agli enti locali, obbligandoli al risarcimento del danno in caso di sprechi (il male siciliano è la sempiterna assenza di colpevoli); 3) costringere le maxi-agenzie di comunicazione a cui periodicamente appaltiamo il budget (e sono parecchi milioni di Euro) a confrontarsi con un progetto - non, come attualmente accade, con un elenco di servizi – e con l’obbligo di riportare dei risultati in termini di “aumento delle vendite”, come fa qualunque azienda che investe in pubblicità; 4) obbligare in un coordinamento unico gli assessorati ai beni culturali, al turismo e all’ambiente. Tutto questo però porta con sé il rischio che la politica sia di nuovo predominante e partorisca rapidamente dei meccanismi di clientela. Allora a più lungo termine bisogna incentivare la partecipazione dei privati alla gestione. E al riguardo il governo regionale avrebbe il dovere d’intervenire con la principale delle sue prerogative: legiferare. Il governatore Lombardo, l’astuto Miccichè, più in generale tutti gli attori della scena politica siciliana si riempiono la bocca con tutte le accezioni del concetto di autonomia, federalismo e compagnia cantando, io butto lì una proposta “federalista” e lo faccio in forma discorsiva: caro Governatore, perché non si avvale delle sue facoltà per defiscalizzare del 100%, da domani mattina, gli investimenti in cultura? Basterebbe inserire un articolo nella prossima legge finanziaria regionale, non abbiamo bisogno di aspettare il federalismo bossiano. Il gettito fiscale scenderebbe massimo del 2%, i suoi dirigenti e consulenti glielo possono dimostrare: mi sembra un piccolissimo prezzo per consentire alla Sicilia di cambiare il proprio destino e diventare un esempio per l’intera nazione. Le può interessare?
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Una ristrutturazione di qualità Per rilanciare l’agricoltura di ANTONIO BUFALINO ’agricoltura sta attraversando un cambiamento epocale. Gli scenari competitivi se da un lato offrono nuove opportunità, mostrano di contro le carenze strutturali e organizzative di una base produttiva incerta governata da un sistema di regole eterogenee che propongono il superamento delle vecchie garanzie di mercato e il passaggio a nuove forme più finalizzate e selettive di intervento. Le poche imprese che riescono con difficoltà a stare sul mercato hanno azzerato gli investimenti, licenziano un numero crescente di braccianti ed operai, e si avviano verso una condizione di sudditanza nei confronti degli operatori più grossi e del sistema bancario. Ciò significa un diffuso abbandono delle aree coltivabili, soprattutto nelle aree marginali e interne, con conseguenze sul fronte dell’assetto idrogeologico, naturalistico, ambientale e colturale, che rischiano di travolgere interi ambiti di territorio e tagliare fuori dal circuito relazionale, popolazioni, saperi, tradizioni produttive e culture. In questa grave contingenza di crisi, un qualificato programma di sviluppo deve mirare alla valorizzazione ambientale, colturale e culturale dei territori e delle comunità, attuando cantieri per il risanamento ambientale e per la messa in sicurezza del territorio, evitando politiche di trasferimenti e di sostegno al reddito che, men-
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tre aiutano nell’immediato, inquinano il mercato del lavoro e depotenziano di risorse lo sviluppo del futuro. L’eccessiva polverizzazione produttiva, l'impreparazione al confronto con i mercati aperti, l’assenza di un disegno strategico della Regione per l’agroalimentare, l’incapacità di spesa e, spesso le vessatorie, nonché inutili e ripetitive bardature burocratiche, delle istituzioni regionali nelle politiche di supporto e di sostegno fin qui adottate, anche e nonostante le ingenti risorse disponibili con i fondi strutturali (POR e PSR), stanno contribuendo a determinare l’inevitabile disastro del sistema produttivo agroalimentare isolano. II ritardi nella spesa dei fondi 2007-2013, il susseguirsi delle ro-
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tazioni ai vertici dell’Amministrazione dell’Agricoltura hanno determinato una “matassa” difficile da dipanare, ove ruoli e competenze si muovono in un percorso labirintico senza uscita. La partecipazione ai bandi è un’impresa che pochi riescono a compiere: non è più sostenibile una programmazione calata dall’alto in assenza di un confronto con i territori e i suoi attori. Tutto ciò impone una immediata piena assunzione di responsabilità e l’avvio di efficaci iniziative che restituiscano al settore il ruolo e il peso economico che storicamente ha avuto valorizzando le eccellenze e la qualità produttiva isolana. La spesa agricola va organizzata e non essere, con una distribuzione a pioggia, occasione per
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politiche clientelari oltretutto inefficaci. Bisogna individuare un numero limitato di ambiti territoriali all’interno dei quali devono confluire tutti gli attori del territorio (Province,Comuni, Organizzazioni di Produttori, imprese, Istituti di Credito, etc.) per meglio finalizzare le risorse pubbliche verso un sistema di filiera e rintracciabilità che porti ad una qualificazione e standardizzazione delle produzioni in funzione delle esigenze del mercato. I Distretti Produttivi riconosciuti sono ad oggi delle scatole vuote: manca una concertazione tra gli assessorati di competenza che definisca i ruoli, le risorse e le modalità operative. Una riflessione va fatta per i consorzi di tutela e promozione dei prodotti (Dop, IGP, etc) che stentano a svolgere la loro funzione: gli stessi, purtroppo non possono al momento essere abbandonati a se stessi. Se è vero che la qualità è una risorsa per il territorio e per l'intera regione, la totalità degli attori pubblici e privati devono interagire al fine del conseguimento degli obiettivi. Occorre che tutta la politica agricola e di sviluppo rurale converga e si coordini con tutte le altre politiche territoriali che investono le aree rurali (trasporti, servizi sociali, ambiente, infrastrutture, montagna, turismo, industria, parchi ecc.). C’è certamente un problema di formazione e di ricerca, il cui sostegno va meglio indirizzato evitando, con una acritica distribuzione dei finanziamenti a strutture di ogni tipo, lo sperpero,
il clientelismo, l’inefficienza. Occorre una riqualificazione complessiva dell’assistenza tecnica, della sua filosofia di base, secondo modelli nuovi, più calati nella complessa realtà in cui gli imprenditori si trovano ad operare, sulla base di piani strategici dei servizi all’agricoltura, all’agroalimentare e allo sviluppo rurale, che vedano il coinvolgimento diretto delle imprese beneficiarie. Il superamento della crisi e lo sviluppo di uno dei settori cruciali per l’economia siciliana non può essere fatto con i soliti interventi tampone che ad oggi hanno ulteriormente indebitato le aziende oltre il loro reale valore di mercato.
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Occorre una ristrutturazione di qualità, un salto di livello che porti alla creazione di imprese forti e di forti organizzazioni di produttori che concentrino l’offerta e contrattino direttamente col mercato, in modo da recuperare una parte della forbice tra il prezzo alla produzione ed il prezzo alla vendita in termini di valore aggiunto. È necessario creare sinergie territoriali in modo da non isolare sistemi produttivi vitali per le aree marginali, che rischiano di scomparire, facendone punti di forza in una valorizzazione della cultura siciliana attraverso le “colture” pregiate che il nostro territorio è in grado di produrre.
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Quel caos organizzato che blocca le energie rinnovabili di NICOLA CIPOLLA n queste ultime settimane sul fronte energetico si sono verificati avvenimenti importanti. A livello internazionale la tragica vicenda delle centrali atomiche colpite dallo tsunami in Giappone sta obbligando tutti i paesi, che a differenza dell'Italia hanno realizzato centrali atomiche, a chiudere le più vecchie, rivedere tutte quelle esistenti e tutti i sistemi di protezione (il che porterà ad un aumento dei costi dell'energia) e soprattutto a riconsiderare i piani di investimento futuri dagli USA alla Cina, dalla Germania alla Francia. Sul piano nazionale si è elevata la protesta contro il decreto Berlusconi che blocca di fatto un importante processo di rinnovamento, non solo energetico ma anche
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economico e sociale, costituito dall'afflusso per decine di migliaia di MW di installazioni da fonti rinnovabili, soprattutto eolico e solare fotovoltaico, al di là di ogni previsione. In questa occasione si è tentato di scambiare il limite minimo di rinnovabili previsto dalla UE per il 2020 in un limite massimo invalicabile. E, infine, sul piano siciliano, la grottesca vicenda dell'arresto del deputato Vitrano in flagranza di reato per una tangente di 10 mila euro, per “facilitare” una pratica fotovoltaica. Come al solito Lombardo ha mostrato in questa occasione un attivismo frenetico tendente a scaricare le sue responsabilità per la fallimentare gestione delle rinnovabili in Sicilia e per tentare di inserirsi nell'ondata contro il nucleare e contro il decreto Berlusconi che si sviluppa
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impetuosamente nel paese. Lombardo ha anche annunziato un regolamento di interpretazione di un Piano Energetico (che tra l'altro non è stato mai sottoposto all'approvazione formale dell'ARS). La prima considerazione riguarda il modo con cui, prima con Cuffaro e poi con Lombardo, è stato regolato l'accoglimento delle istanze di rinnovabili che si sono affastellate senza alcun ordine di precedenza. Invece, nazionalmente e in Europa è previsto secondo la data di presentazione. Si è formata così una montagna di oltre 1.400 pratiche da cui estrarre, volta a volta, quelle destinate all'autorizzazione che naturalmente sono state quelle sostenute dalla corruzione e dalla mafia. L'assessore Marino, di fronte allo scandalo, Vitrano, ha vietato l'ingresso ai deputati e ad altre persone nei
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suoi uffici. Ma gli eventuali funzionari corrotti possono incontrare quando vogliono fuori dall'assessorato i corruttori. Il problema è, invece, quello della trasparenza nel processo burocratico che si può facilmente ottenere con la pubblicazione nel sito della Regione e sulla stampa dell'elenco delle domande con la data di presentazione. Da aggiornare periodicamente dando notizia delle pratiche accolte o respinte nelle conferenze dei servizi. In secondo luogo solo in Sicilia esiste una circolare interna che prevede il passaggio di ogni pratica da 29 tavoli amministrativi diversi. Basterebbe invece che al recepimento della domanda venissero inviate agli assessorati competenti copia delle istanze indicando già la data della sessione della conferenza dei servizi in cui saranno esaminate. In terzo luogo, le norme comunitarie e nazionali prevedono un limite di 180 giorni perchè i presentatori delle domande, già corredate da una serie di documenti: progetto, disponibilità finanziarie, e del terreno, che costano migliaia di euro, possano avere entro questo termine una riposta positiva o negativa da parte della Regione in modo da poter, eventualmente, ricorrere presso le autorità di giustizia amministrativa. Dovrebbe, a mio avviso, essere inclusa anche una clausola di “silenzio/assenso” per cui decorsi i 180 giorni l'istanza dovrebbe essere ritenuta accolta. Il danno inferto in violazione di questo termine è stato valutato, nei
confronti della società New Energy di Modica, per un impianto di biomasse (domanda presentata nel 2005) in 20 milioni di euro, prima dal TAR (settembre 2009) e poi successivamente dal Consiglio di giustizia amministrativa (ottobre 2010). Se questa giurisprudenza si consolida tutte le imprese potrebbero chiedere i danni alla Regione per miliardi dieuro e procedere a sequestrare anche i tavoli dell'assessore a garanzia del loro credito. Quarto. Lombardo ha dichiarato testualmente: “Ho fatto la scelta di puntare sul piccolo fotovoltaico e di tagliare con l'eolico e con ….. il grande fotovoltaico”. Questa scelta è esattamente quella del decreto Berlusconi contro cui lui finge di scagliarsi. Solo che questo è stato portato davanti alle Camere e successivamente alla firma del Capo dello Stato. Mentre la scelta di bloccare l'eolico e il grande fotovoltaico è stata assunta, già da due anni, soltanto ad iniziativa di un governo che non ha una maggioranza parla-
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mentare, per cui l'ARS non è in grado di legiferare su nessuna materia a causa di una improvvida, aggiungo io, riforma dello Statuto della Regione che ha introdotto un sistema presidenziale ibrido e confuso al posto del sistema parlamentare preesistente. Il governo Lombardo può aggiungere a favore del piccolo fotovoltaico nuove agevolazioni, non può opporsi alle imprese siciliane, italiane ed europee che vogliono operare in Sicilia in base alle norme comunitarie e nazionali. Quinto. Nel regolamento di attuazione del PEAR sono previste misure per bloccare quei “facilitatori” che operano attraverso la costituzione di società anonime improvvisate le cui azioni di maggioranza vengono vendute poi ai veri utilizzatori finali. La madre di queste società “facilitatrici” è stata una improvvisata società, con 100 mila euro di capitale, che ha ottenuto, prima dal governo Cuffaro l'autorizzazione a costruire il rigassificatore di Porto Empedocle (un investimenti di circa 1 miliardo) e poi dal governo Lombardo l'autorizzazione a vendere la maggioranza di questa società all'Enel, con relativo progetto approvato, per circa 29 milioni di euro “ufficiali”. Questo ultimo provvedimento è stato impugnato dal comune di Agrigento presso il TAR del Lazio che lo ha accolto. In questo momento l'Enel non ha più in mano uno strumento valido. Approfittando di questa situazione giuridica la Regione, invece di promuovere ricorsi contro la senmarzo • 2011 • N.2
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tenza del TAR, dovrebbe applicare ad una nuova istanza di concessione, promossa dall'Enel, le stesse clausole che sono previste nel regolamento del Piano Energetico pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 marzo u.s. L'onorevole Cracolici, capogruppo all'ARS ha chiesto che il PD si costituisca parte civile nel processo contro Vitrano. Molto bene. Ma farebbe meglio se contemporaneamente chiedesse al governo Lombardo di annullare la vecchia autorizzazione di Porto Empedocle e di aprire un nuovo iter con la stessa severità con cui sta operando per la richiesta del rigassificatore di Priolo. Infine all'articolo 2 di questo regolamento è motivata la preferenza per il mini fotovoltaico con l'esigenza di ridurre le perdite derivanti dal trasporto dell'energia. Il che rivela una delle cause fondamentali del blocco allo sviluppo delle rinnovabili sia su scala nazionale e siciliana: l'inadeguatezza della rete di distribuzione, di TERNA e dell'ENEL (che produce le bollette pagate dai consumatori) a veicolare l'energia prodotta dalle rinnovabili. Queste reti, infatti, furono progettate per trasmettere da pochi complessi a carbone, gas e olio combustibile, e non sono in grado di accogliere l'energia prodotta da miriadi di piccoli e medi produttori di rinnovabili. Ci vorrebbero investimenti di miliardi per rendere la rete capace di gestire, con gli strumenti elettronici oggi disponibili, l'energia rinnovabile in collegamento con quella idroelettrica per equilibrare l'apporto variabile marzo • 2011 • N.2
(tra giorno e notte, tra stagione e stagione) delle energie ricavate dal sole e dal vento. Proprio i miliardi che il governo Berlusconi vorrebbe destinare alla costruzione di centrali atomiche che, se tutto va bene, nel 2030 potranno produrre il 5% dell'energia necessaria al paese! L'altro grande ostacolo è costituito dagli interessi delle società produttrici di energia fossile. L'Italia dipende per il 90% dei suoi consumi da energia importata. Ogni punto percentuale di rinnovabili diminuisce le importazioni i petrolio, gas e carbone, viene colpita, così, una rete formidabile di interessi nazionali e internazionali che condizionano l'operato del governo Berlusconi (e non solo). Questo disegno è oggi improponibile. Di fronte alla crisi atomica nipponica c'è perfino una marcia indietro di Berlusconi che, cerca di ottenere una semplice pausa (calati juncu ca passa la china). Tutti i sondaggi danno per vincenti i referendum sul nucleare e sull'acqua e ci possono essere manovre bipartisan per arrivare ad uno svuotamento dei referendum. Ma il 12 giugno il voto dei cittadini per confermare il precedente voto antinuclearista di 24 anni fa e per dire NO alla privatizzazione dell'acqua (e quindi delle centrali idroelettriche) costituirà un momento essenziale per far partecipare l'Italia ad un movimento mondiale inarrestabile di sostituzione delle energie fossili con le energie rinnovabili portatrici di un nuovo modello di sviluppo non
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solo economico e dell'occupazione ma anche sociale e politico. Come è stato auspicato recentemente dalla CGIL nella prima iniziativa pubblica dell'Associazione Bruno Trentin, presieduta da Guglielmo Epifani, alla presenza di tutta la segreteria nazionale. In Sicilia occorre anche una mobilitazione particolare per l'approvazione da parte dell'ARS del disegno di legge di iniziativa popolare per la pubblicizzazione dell'acqua bene comune e promuovere altresì una proposta di iniziativa popolare per stabilire in Sicilia misure certe a favore delle rinnovabili e combattere i ritardi e le speculazioni che la burocrazia regionale e governi che operano per decreto hanno fin qui imposto alla Sicilia. E' una battaglia difficile e lunga analoga a quella condotta dai contadini e da tutto il popolo siciliano negli anni '40 e '50 per eliminare i residui feudali nelle campagne e il governo di centrodestra di Restivo all'ARS. Si tratta, per dirla con una frase del presidente Chinnici, di “una lotta contro la nuova feudalità” che vuole impedire al popolo siciliano di utilizzare appieno i beni comuni che il sole del Mediterraneo ci garantisce.
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Lavoro, opportunità e sinergie Parola d’ordine: “Fare rete” di ILENIA FRANCHINA Quando si affronta un tema molto complesso come quello del lavoro, e lo si fa con riferimento alla Sicilia, è più facile individuare le tante criticità che lo caratterizzano piuttosto che le possibili azioni da intraprendere. E’ una difficoltà riscontrata anche all’interno dell’agorà tematica lavoro. Ciò non ha impedito che dal confronto venissero fuori una serie di proposte. L’illegalità è l’elemento di contesto più volte evidenziato, tanto da essere considerato come quel fattore principale da cui deriva il malfunzionamento del più ampio sistema del lavoro in Sicilia. Le proposte avanzate, infatti, ruotano attorno a due presupposti: il rispetto delle regole esistenti e il corretto utilizzo delle risorse disponibili. Inevitabilmente è il lavoro nel settore pubblico ad essere considerato la “pecora nera” del mercato del lavoro siciliano a causa di continui sprechi e sacche di inefficienza. In questo senso sono stati suggeriti percorsi di razionalizzazione e riqualificazione del personale, oltre che maggiori controlli finalizzati a garantire l’efficienza, l’efficacia e l’economicità nella gestione. Per maggiore controllo non si intende la consueta attività di ingerenza da parte della politica, la quale, invece di preoccuparsi di razionalizzare la spesa, considera la pubblica amministrazione come “merce di scambio” ai fini del consenso e continua ad immettere dosi massicce di precariato. Il controllo deve essere finalizzato a garantire una maggiore allocazione delle risorse e a costruire processi meritocratici. In uno scenario dove anche i tassi di disoccupazione continuano a registrare livelli allarmanti, il settore privato non può che essere invocato con maggiore forza e come alternativa al pubblico grazie alle grandi opportunità che esso potrebbe offrire con la costruzione di nuovi percorsi di inserimento lavorativo. Si sta a poco a poco affermando, soprattutto tra i giovani, anche un timido desiderio di fare impresa. Tale orientamento, ancora poco diffuso sicuramente a causa di una cultura troppo incancrenita dal mito del “posto fisso”, può essere sviluppato attraverso intelligenti politiche di sostegno all’iniziativa imprenditoriale. Le tante risorse che il nostro territorio possiede possono essere sfruttate se esiste una reale capacità di lettura dei bisogni del territorio. Sostenere la nascita di nuove imprese e rafforzare quelle esistenti è una condizione fondamentale per la creazione di posti di lavoro e quindi per lo sviluppo economico di questa terra. Innanzitutto dobbiamo cercare di far sopravvivere tutto ciò che abbiamo di buono. E’ opportuno sviluppare sia azioni finalizzate al potenziamento dei distretti e delle aree economiche omogenee, sia quelle finalizzate alla riconversione dei poli industriali. Anche un’azione congiunta tra settore pubblico e mondo bancario potrebbe favorire lo sviluppo del tessuto imprenditoriale. In questo senso si potrebbero promuovere strumenti come il microcredito o supportare organismi come i CONFIDI per facilitare l’accesso al credito alle PMI. Oltre al “capitale finanziario” bisogna puntare soprattutto alla costruzione di “capitale umano” attraverso una buona formazione professionale che non sia quella fornita dagli inutili e molteplici corsi di formazione, e attraverso buone politiche attive del lavoro. Tutti sono chiamati a dare il proprio contribuito per lo sviluppo economico e sociale di questa terra. Ciò che potrebbe rappresentare davvero un punto di svolta per il fragile mercato del lavoro siciliano è la “cooperazione”, ovvero la condivisione di principi comuni. Una rete costruita coinvolgendo diversi attori (ad es. banche, enti locali, università, imprese, sindacati, centri per l’impiego, ecc.) può favorire l’individuazione di tutti quegli strumenti necessari alla realizzazione di un buon mercato del lavoro. Fare rete significa anche edificare un muro contro la criminalità organizzata, il primo fattore critico individuato dal gruppo. Nuove sinergie per creare nuove opportunità di lavoro. E’ questo il nuovo percorso che la Sicilia dovrebbe imboccare.
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Il riuso dei beni confiscati tra successi e criticità di CARMEN VELLA n appartamento di 250 metri quadri al primo piano di via Tricomi a Palermo diventa un alloggio per i parenti dei pazienti pediatrici o trapiantati del Civico, Ismett e Ospedale dei bambini che non vivono in città. E’ l’ultima struttura assegnata dall’Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata assegnata alla Regione per il suo riutilizzo a fini sociali. La consegna da parte del direttore dell’Agenzia, il prefetto Mario Morcone è avvenuta poco meno di un mese fa “è la testimonianza evidente del filo diretto che esiste tra uso istituzionale e uso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata e restituiti al territorio”. L’appartamento di via Tricomi di circa 100 metri quadri, era di pro-
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prietà del boss mafioso Francesco Mulè, confiscato nel 2007 e gestito finora dall'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, è il terzo bene confiscato alla criminalità organizzata e assegnato dal 2010 ad oggi alla Regione per fini sociali. Gli altri due immobili assegnati dall’Agenzia al patrimonio della regione sono un immobile di Petralia Soprana assegnato lo scorso novembre (quattro appartamenti in località Bivio Madonnuzza che furono di proprietà di Angelo Siino dove oggi risiedono gli uffici della condotta agraria) e un terreno in provincia di Trapani. Tre immobili nell’arco di poco più di un anno, forse un po’ poco se pensiamo che su 11mila beni confiscati alla criminalità in Italia il 45 per cento si trova in Sicilia, seguita da Campania, Calabria e Lombardia. Fra questi beni anche circa cento
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aziende attive che producono e danno occupazione e un migliaio invece in fase di liquidazione. Ma guardiamo la cosa dal lato positivo, finalmente un patrimonio strappato alle mani della mafia viene restituito ai siciliani e per uno scopo nobile, come nel caso dell’appartamento di via Tricomi, servirà per alleviare le sofferenze e i disagi dei parenti dei pazienti ricoverati negli ospedali. Naturalmente per funzionare bene serviranno controlli e su questo l’assessore alla sanità siciliana Massimo Russo è stato chiaro, “Il governo regionale è costantemente impegnato nella corretta gestione dei beni confiscati alla mafia. L’ufficio speciale per la legalità della Regione ora monitorerà la gestione di questo come di altri beni”. Dichiarazioni rassicuranti sì, eppure i nodi da sciogliere e i punti
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critici sono davvero tanti in tema di confisca e riutilizzo dei beni confiscati alla mafia e sono sempre gli stessi: tempi ancora troppo lunghi, procedure burocratiche farraginose, passaggi tecnici della consegna e il difficile rapporto con le banche. Esistono alcuni aspetti critici come appunto il riutilizzo dei beni confiscati, i passaggi tecnici della consegna e i problemi che le associazioni o cooperative che ricevono il bene spesso incontrano con le banche che vanno a complicare ulteriormente le cose. I beni confiscati - va detto - che hanno un problema in più a parità di condizioni e cioè che chi li occupa e li utilizza non è proprietario, quindi fa fatica ad avere rapporti con le banche, a fare un mutuo, ad ottenere un prestito". Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione per il Sud, sul tema ha avanzato la proposta di un tavolo tecnico di confronto. “Biso-
gnerebbe promuovere un tavolo sul tema di come si comportano le banche con questi soggetti. Tra l’innovazione dello strumento che abbiamo individuato, togliere il patrimonio alla mafia, e la gestione c'e' un vuoto. Uno scarto tra la potenza del segno di lotta alla mafia e la concretizzazione per renderlo definitivamente vincente". Punti di forza e criticità Eppure, nonostante le criticità e gli ostacoli, Sicilia e Campania sono le regioni più virtuose nel riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata: su 116 casi esaminati - nell’ambito della ricerca "Beni confiscati alle mafie: il potere dei segni. Viaggio nel Paese reale tra riutilizzo sociale, impegno e responsabilità", curata dalla Agenzia per le Onlus (2010) - 31 sono stati realizzati in Sicilia e 27 in Campania. La ricerca rivela, inoltre, che il 73% dei beni confiscati risulta affidato al terzo settore, il
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40% ad associazioni, il 27% alle cooperative e il 18% ad enti ed istituzioni. Considerando la tipologia del bene riutilizzato, il 30% sono villa-palazzina, il 17% terreni e solo lo 0,9% aziende. Secondo la ricerca, il 57% dei beni confiscati è stato consegnato in un grave stato di degrado e abbandono, il 43% ha avuto forti difficoltà economiche. Infine, nel 37,7% delle esperienze esaminate, le attività di uso sociale sono destinate alla cittadinanza nella sua totalità. Secondo i dati raccolti, che hanno messo a confronto 116 ''buone prassi'' in 12 regioni il "valore aggiunto" delle esperienze di riutilizzo è rappresentato dalla loro finalità sociale; i beni vengono riutilizzati per promuovere azioni di contrasto al disagio sociale (21,7%), di promozione culturale o aggregazione (18,3%) e di pubblica utilità(17,4%). I beneficiari sono per lo più i cittadini (37,7%) o persone con disabilità psico/fisiche (21,1%). Ma dalla ricerca emergono anche le ''ombre'' del meccanismo di riscatto: tra la confisca e il riutilizzo di un bene passano da un minimo di 12 mesi a un massimo di 23 anni con una media 8 anni e 6 mesi. La ricerca prende in considerazione 116 casi di beni confiscati in un arco di tempo compreso tra l'85 e il 2006 per essere poi effettivamente riutilizzati a partire dal '98, due anni dopo l'approvazione della legge 109 sull'uso sociale: si tratta di una selezione di "buone pratiche" che vede ai primi posti Sicilia (26,7%), marzo • 2011 • N.2
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Campania (23,3%) e Lazio (16,4%). Il 57,1% dei beni è stato consegnato alle realtà affidatarie in grave stato di degrado e abbandono e nel 42,9% dei casi presi ad esame le queste hanno avuto forti difficoltà di tipo economico. I dati testimoniano infine che nel 36,2% dei casi non e' stato segnalato nessun sostegno istituzionale. La questione dell'abbandono dei beni si fa problematica nel caso di terreni agricoli e di fondi coltivati, la cui produttività dipende da cure che spesso vengono meno nel periodo compreso tra sequestro e riutilizzo ma consistenti sono anche le difficoltà' burocratiche e una quota importante di occupazioni e ostruzionismi attraverso vie legali da parte degli ex proprietari, spoliazioni del bene prima della consegna e danneggiamenti ritorsivi. Fare rete. È questa la ricetta per fa sì che i beni assegnati e i progetti che li finanziano producano ricchezza, siano duraturi nel tempo e non si perdano strada facendo, in modo tale che non rimangano solo monumenti della lotta alla criminalità organizzata .Ci tiene a sottolinearlo Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione per il Sud, nata dall'accordo tra fondazioni di origine bancarie e il mondo delle rappresentanze del terzo settore e del volontariato, la Fondazione ha finanziato diversi interventi di "infrastrutturazione" sociale nelle quattro regioni del sud Italia e nelle isole. "Ci piacerebbe che arrivassero progetti da associazioni di volontamarzo • 2011 • N.2
riato - dice Borgomeo -, sarebbe ancora più bello, che ci fossero delle imprese sociali, cioè soggetti che producano un po' di ricchezza in questi beni, una ricchezza sana e alternativa a quella del mondo criminale. La Fondazione per il Sud fa degli interventi con la speranza che i progetti sopravvivano. Cercheremo alleanze supplementari, faremo ancora più rete perché non possiamo permetterci il lusso che questi interventi non abbiamo un seguito e una durata nel tempo. Lotta alle mafie si fa mostrando la potenza della repressione, la potenza di una collettività e di uno Stato che è capace di sottrarle i beni, ma si fa anche con la deriva lunga del consenso. Si vede negli occhi della gente che il territorio aspetta come va a finire. Il territorio sta in agguato e questo deve farci prudenti anche nell'utilizzare questi beni in forme totalmente assistenziali. Non possiamo dare l'immagine che in certe logiche erano beni che producevano ricchezza e occupazione e in altre logiche stanno li' come monumenti alla guerra alla mafia". Con una
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dotazione di circa 20 milioni di euro l'anno, la Fondazione ha erogato finanziamenti per progetti che vanno dalla lotta all'evasione scolastica, agli interventi sociosanitari, fino ai beni comuni. Beni confiscati per ospitare immigrati. Perché no? Mettere i beni confiscati alla criminalità organizzata a disposizione per ospitare gli immigrati giunti negli ultimi giorni in Sicilia dalle coste del Nord Africa. "Non è un'ipotesi assolutamente da scartare". Ne sembra convinto il prefetto Mario Morcone, direttore dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. Ma c’è sempre un ma. "Dipende dalla politica che si fa - dice Morcone - è chiaro che se si spalmano su molti comuni di diverse regioni italiane piccoli nuclei famigliari, allora anche i beni confiscati possono dare una mano, mettendo a disposizione degli appartamenti. Se si decide invece, di fare grossi aggregati, allora non abbiamo beni da mettere a disposizione". Eppure potrebbe essere una strada praticabile tenendo conto anche della cronaca di questi ultimi giorni di marzo che hanno visto migliaia decine e decine di sbarchi di immigrati a Lampedusa. ”Individuare centri per l’accoglienza degli immigrati attiene a scelte politiche, se i comuni, anche i più piccoli, fossero coinvolti, l’Agenzia per i beni confiscati potrebbe dare il proprio contributo”. Insomma è la politica che deve muoversi in questa direzione.
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L’economia solidale in rete “RESsicula” a Enna il 2 e 3 aprile Cinque persone, responsabili di altrettante organizzazioni siciliane, hanno avviato un percorso verso la costituzione della Rete siciliana di Economia Solidale perché credono che solo interagendo e cooperando riusciremo ad incidere concretamente nella realtà economica di quest'isola, nella cultura dei suoi abitanti e nella qualità delle relazioni. Questa ipotesi è ampiamente supportata da numerose esperienze positive sul nostro territorio, dai gruppi d'acquisto solidali ai gruppi d'offerta, a numerose altre reti che stanno agendo, creando occupazione, suscitando speranze tra i giovani e rafforzando il capitale delle relazioni La RESsicula vuole nascere per mettere a sistema queste esperienze sparse, divulgare buoni modelli replicabili ed essere attrattiva per tutti coloro che sono "in mezzo al guado" e sentono il bisogno di "altro" rispetto al modello di sviluppo dominante, in tutti i settori della produzione, e del consumo, dei servizi e del sociale La Rete vuole essere orizzontale e circolare, senza capi immobili, ma con referenti e portavoce che si alternino a cadenza molto frequente, con numerosi snodi che si mettano sistematicamente in relazione e comunichino paritariamente tra loro. La Rete non si appoggia ad alcun movimento o partito politico, ma sostiene le battaglie per il bene comune. Questi gli spunti di discussione dell’incontro dal titolo che si terrà sabato 2 e domenica 3 aprile nella sala conferenze della O.N.G. Luciano Lama, via Civiltà del Lavoro, 17, Enna Bassa. VERSO LA RESsicula - Enna, 2 e 3 aprile 2011 Sabato 2 aprile 2011 ore 9,00/10,00 registrazione partecipanti ed iscrizione ai gruppi di lavoro ore 10,00 inizio dei lavori con una breve introduzione di Nino Lo Bello ed un intervento di Tonino Perna ore 11,00/13,30 Giuseppe Vergani e Giuseppe De Santis della cooperativa SCRET illustreranno alcune esperienze di Reti di Economia Solidale al centronord ore 13,30/15,00 pranzo ore 15,00/19,00 gruppi di lavoro Domenica 3 aprile 2011 ore 9,00/10,00 restituzione gruppi di lavoro ore 10,00/13,00 dibattito (interventi massimo 5 minuti, possono parlare 40/50 persone!) ore 13,00/13,30 chiusura dei lavori Per informazioni su preiscrizioni e prenotazioni rivolgersi a Emanuele Ferrara, aurema@alice.it . Per offrirsi come volontari per la registrazione dei partecipanti, rivolgersi promozione@siqillyah.it
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Privatizzazioni e sprechi L’acqua è un bene da difendere di TEODORO LA MONICA
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’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. Adesso che la Corte Costituzionale ha ammesso due dei tre quesiti sull’acqua la campagna referendaria entro nel vivo. Nel mese di giugno saremo chiamati ad esprimere una scelta importante, a decidere su un bene essenziale. Grazie a milione e quattrocentomila donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum, l’intero popolo italiano sarà chiamato a pronunciarsi su una grande battaglia di civiltà: decidere se l’acqua debba essere un bene comune, un diritto umano universale e quindi gestita in forma pubblica e partecipativa o una merce da mettere a disposizione del mercato e dei grandi capitali finanziari ,anche stranieri. Noi pensiamo che i referendum siano un’espressione sostanziale della democrazia, attraverso la quale i cittadini esercitano la sovranità popolare su scelte essenziali della politica che riguardano l’esistenza collettiva. L’acqua è oggi minacciata dai cambiamenti climatici, da un modello economico insostenibile, dai processi industriali aggressivi. Ma soprattutto l’acqua è sotto attacco da parte di chi vuole privatizzarla, gestendola come una merce qualsiasi per un tornaconto monetario. Acqua come fonte di guadagno per marzo • 2011 • N.2
pochi invece che fonte di vita per tutti. L’acqua ci appartiene ma appartiene anche alle generazioni future, difenderla significa difendere se stessi, le nostre speranze, il nostro futuro, la vita stessa. Senza acqua non c’è vita: ciò basta per escludere le risorse idriche dalla sfera di un commercio senza regole. Noi abbiamo pensato che fosse possibile risolvere i problemi con la politica, che quest’ultima fosse al servizio del bene comune, del bene pubblico. Invece la politica ha concepito una norma inaccettabile, ed ha addirittura dimenticato alcune regole fondamentali del libero mercato e cioè che bisogna essere liberi non solo di vendere, ma anche di comprare. Ma se qualcuno possiede qualcosa di indispensabile per la stessa esistenza, allora la liberta di acquistare non esiste. L’acqua, l’aria, le sementi, la salute, l’educazione, la fertilità dei suoli, la bellezza dei paesaggi, la creatività, non possono essere assimilate alle altre categorie di merci.
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Il diritto ha bisogno di nuovi paradigmi per gestire “beni comuni”. Se i beni comuni diventano proprietà di qualcuno, tutti gli altri ad esclusione di quel “qualcuno” ne avranno un danno e la loro vita sarà in pericolo. I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. Adesso siamo a questo punto: esiste una norma che rende l’acqua privatizzabile, con il referendum possiamo cancellarla. Occorre però che vadano a votare almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto. Nelle ultime elezioni gli aventi diritto al voto erano 47 milioni, approssimativamente è necessario che circa 25 milioni di cittadini si recano alle urne per votare. Certo prima di fare questo è importante che siano informati, che sap-
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piano dove informarsi, che capiscano che questa è una battaglia importantissima. Occorre iniziare a far da noi. Usciamo insieme da questo pantano, creiamo in ogni comune un soggetto nuovo a cui fare riferimento per informare e difendere i cittadini sull’importanza dei beni comuni. Oggi lavoriamo sull’acqua, ma le emergenze non mancano; dalle scelte sul nucleare, alle emergenze delle strade ai paesi pieni di rifiuti, dalla mancanze di materiale nella scuola a cominciare dalla carta igienica, dalle polveri sottili nell’aria, ecc. La politica dei partiti non esiste più e in questa fase non ha le energie culturali necessarie per invertire la rotta. Occorre, quindi, che i cittadini si attrezzino indipendentemente dalle bandiere e dalle sigle; non è importante il cappello che portiamo ma le idee che abbiamo, le azioni che sappiamo produrre. Dobbiamo muoverci abbiamo bisogno di strutture leggere, legati ai municipi, alle parrocchie, a tutti i luoghi dove si può parlare, trasmettere l’importanza della battaglia a tutela di un interesse di tutti . Occorre che tutti i territori si mobilitano, sia i paesi che le grandi città perchè solo così potremo portare 25 milioni di italiani a votare, 25 milioni di uomini e donne che renderanno validi i referendum e se la vittoria sarà del “sì” ciò porterà ad invertire la rotta sulla gestione dei servizi idrici e più in generale su tutti i beni comuni.
Referendum anche sul nucleare Si vota il 12 e il 13 giugno Il Consiglio dei Ministri ha fissato lo svolgimento dei referendum su acqua e nucleare per il 12 e il 13 giugno 2011. Gli italiani dunque saranno chiamati al voto per pronunciarsi sui quesiti referendari per abrogare la legge sulla privatizzazione dell’acqua pubblica e il nucleare. Con il referendum si propone l’abrogazione dell’art. 23 bis (dodici commi) della Legge n. 133/2008, relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica. Il 12 giugno 2011 si voterà anche un referendum per abrogare la possibilità di costruire nuove centrali nucleari in Italia. In questo quesito ai cittadini verrà chiesto: “Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”. Già nel 1987, con un referendum, venne votata a grandissima maggioranza dal popolo italiano, la chiusura delle centrali nucleari italiane. Se il quorum verrà raggiunto (cioè se voterà il 50% +1 degli aventi diritto) e se vinceranno i sì l'acqua tornerà ad essere un bene di tutti e non saranno realizzate centrali nucleari nel territorio italiano.
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L’Antisociale Le mani sulla città Articolato
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