Un'Altra Storia Magazine Numero 4

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Sommario in questo numero

EDITORIALE

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Una lezione per la Sicilia di Rita Borsellino

IL PUNTO

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Un progetto per una società di giustizia di Alfio Foti

DOSSIER POLITICA

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Referendum: quattro sì per difendere l’Italia

La mia vita clandestina nella Palermo sotterranea di Beatrice Monroy

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Quando la Sicilia era bellissima, di R. Alajmo

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Catania ripiegata su se stessa, di F. Coniglione

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Emergenza casa, di Antonella Monastra

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Viaggio nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto

POLITICA

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La Sardegna e il nucleare, di Mauro Piras

Intervista a Crescimanno

Supplemento al numero 20 (giugno, anno 5) del settimanale ASud’Europa del Centro di Studi e iniziative culturali “Pio La Torre” - Onlus / Registrazione presso il tribunale di Palermo 2615/021 Il magazine è scaricabile presso il sito www.unaltrastoria.org / La riproduzione dei testi è possibile solo se viene citata la fonte Direttore responsabile Angelo Meli Coordinamento editoriale Giovanni Ferro Redazione Dario Prestigiacomo, Carmen Vella

Contributi di Carmela Cappa, Beatrice Monroy, Roberto Alajmo, Francesco Coniglione, Mauro Piras, Giuseppe Onufrio, Francesco Giambrone, Franco Garufi, Alfio Foti, Antonella Monastra, Orazio Carnazzo

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Grafica e copertina Ciccio Falco Redazione via Mariano Stabile, 250 - 90141 Palermo tel. 0918888496 - fax 0918888538 stampa@unaltrastoria.org

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Editoriale

Da Milano ai referendum Una lezione per la Sicilia RITA BORSELLINO ’è una strada che collega le piazze in festa di Milano e Napoli al prossimo appuntamento referendario, quello del 12 e del 13 giugno, quando saremo chiamati a votare su acqua, nucleare e legittimo impedimento. E’ una strada che passa dalla partecipazione, si addentra nel dibattito sul deficit di rappresentanza di cui soffrono i grandi partiti, per poi affacciarsi sul futuro del centrosinistra e del Paese. Partiamo dall’inizio di questa strada. L’elezione di Pisapia e quella di De Magistris hanno confermato che solo sulla base della partecipazione, del coinvolgimento delle forze attive della società che stanno al di fuori e al di là dei partiti, si può costruire una reale alternativa al centrodestra. I successi di Milano e Napoli, infatti, sono stato frutto del lavoro certosino fatto dai comitati dei due candidati. Che non si sono arrestati all’interno del giardino dei loro partiti (piccoli o grandi che siano) ma hanno parlato a quel mondo sempre più vasto fatto di cittadine e cittadini che quotidianamente e fuori da qualsiasi logica elettorale si impegnano per costruire un futuro migliore. Gente che lavora nei territori, cercando di incidere sulle problematiche della società, siano esse sociali o ambientali. Gente che, spesso, non è neppure riconducibile a una determinata area politica. Perché non di politica loro si occupano, ma delle questioni concrete della comunità. Ecco, è questo un primo passaggio importante: le questioni concrete della comunità. Da tempo, la politica, arroccata com’è nelle stanze dei bottoni, fa fatica a dare cittadinanza nella sua agenda alle istanze che provengono dal territorio. Questo vuoto, pian piano è stato riempito dal basso, dagli stessi cittadini, che con associazioni, comitati civici, movimenti hanno saputo interpretare e portare all’attenzione pubblica tematiche che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra. E’ quello che è successo, per esempio, con i comitati promotori dei referendum del 12 e del 13 giugno. I partiti hanno provato a mettere le loro bandiere su questi comitati, ma la realtà è che se nei prossimi giorni avremo la possibilità di dire la nostra su ripubblicizzazione dell’acqua, nucleare e legittimo impedimento il merito è di migliaia e migliaia di cittadini senza tessera che hanno raccolto le firme in tutti gli angoli del Paese, dialogando, confrontandosi, informando. A prescindere da come andranno i referendum, è già una vittoria. Ora, dinanzi a tutto questo, quale lezione può trarne il centrosinistra? A mio avviso, ma non solo l’unica, tutto ciò dovrebbe innanzitutto spingere i partiti a valorizzare adeguatamente il lavoro che viene svolto nelle periferie delle loro stesse organizzazioni. Periferie che troppo spesso vengono messe ai margini. In secondo luogo, è necessario ridefinire l’agenda politica a partire da quelle che sono le istanze che vengono promosse nei territori, che prendono forma e si alimentano dal basso. E questo senza bisogna di metterci il cappello sopra, ma intessendo un rapporto proficuo e di reale rappresentanza con coloro che di queste istanze sono promotori. Milano e Napoli hanno dimostrato che un metodo politico di tal fatta è capace di ottenere fiducia e aggregare consenso. In alre parole, il centrosinistra vince quando esce dai palazzi per stare nei territori, quando si fa portavoce dell’interesse dei cittadini, li rende partecipi delle scelte e delle decisioni. Non servono alleanze incoerenti e lontane dagli ideali di fondo. Serve un profilo alto e un progetto chiaro. Mi auguro che questa lezione sia stata fatta propria dal centrosinistra. Soprattutto in Sicilia, dove il vento del cambiamento, come ha messo in luce il primo turno delle elezioni amministrative, stenta ad arrivare.

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Il punto

In Sicilia serve un progetto per una società di giustizia ALFIO FOTI a fase che stiamo vivendo, così drammatica ed incerta, richiederebbe che ogni soggetto individuale o collettivo comunque collocabile nell’area democratica e di sinistra, si interrogasse con grande onestà su alcune questioni di fondo che rimangono pesantemente irrisolte, come ulteriormente confermato dalle interviste che il nostro magazine ha opportunamente rivolto ai segretari dei quattro partiti di centro-sinistra. La prima e più importante è: di cosa ha bisogno questa Sicilia, di fronte ad una crisi pluridecennale che continua ad attanagliarla sul piano etico, politico, sociale ed economico? La domanda va posta a tutte/i noi con animo aperto, fuori da schematismi e pregiudizi e senza muovere da “autoassoluzioni”. La domanda di per sé è banale, o potrebbe apparire tale, ma se si pensa alle risposte mancate e alle condizioni che queste hanno determinato per milioni di uomini e donne riguardanti il presente ed il futuro, essa acquista spessore e forte rilevanza. Anche la risposta, la prima risposta che viene da dare, a prima vista può sembrare scontata, “solita”, “astratta”, ma, a guardarla seriamente da dentro, rapportandosi ad essa con autentica responsabilità, appare tremendamente attuale e chiama ognuna e ognuno di noi a gesti che abbiano pertanto il segno della qualità.

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La Sicilia ha bisogno innanzitutto di speranza e quindi di progetto. Speranza significa autostima collettiva, fiducia nel futuro, capacità di alimentarsi alle molteplici fonti di libertà e giustizia che la storia della nostra terra ci dona: dai moti rivoluzionari, alle lotte per la terra, all’impegno antimafia con le numerose vite immolate che tutto ciò ha comportato. L’alimentarsi a tali fonti è presupposto per lavorare ad una riforma non fittizia della politica, oggi più che mai distante dal “quotidiano” delle persone in carne ed ossa, e ad una profonda rigenerazione della democrazia, ormai scarsa di intensità nella sua esclusiva forma rappresentativa, condizionata com’è dai poteri forti e da dinamiche spesso lontane da interessi collettivi. Avvertire una nuova motivata spe-

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ranza è indispensabile per elaborare, realizzare, governare un progetto che definisca tempi, modi, strumenti, obiettivi per liberare la nostra isola da un sistema asfissiante dai tratti sempre evidenti di carattere clientelare e mafioso. E’ il progetto mirato a costruire la società di giustizia. Un progetto che sia interpretato con coerenza rispetto ai valori di riferimento ed in cui i percorsi di realizzazione e liberazione individuale siano credibili riferimenti per processi di liberazione collettiva; in cui il lavoro riprenda effettiva centralità e venga considerato come diritto per esercitare la cittadinanza; in cui la coscienza di luogo – per dirla con Magnaghi – diventi diffusa e consenta la tutela e la piena valorizzazione di tutte le risorse presenti nei territori e nelle comunità che in essi vivono per maggio • 2011 • N.4


Il punto

produrre ricchezza durevole e garantire un’adeguata crescita sostenibile sul piano sociale ed ambientale. La Sicilia ha “subito” quello che è stato definito opportunamente “sviluppo senza autonomia”, “assistito”, “eterodiretto”, centrato su interventi a carattere erogatorio ed assistenziale, terreno fertile per la riproduzione di un sistema di potere oppressivo e mortificante. L’alternativa è la crescita qualitativa di territori e comunità, la tendenza all’autosostenibilità dell’autoproduzione, all’autoconsumo, all’acquisizione di nuovi stili di vita. E’ la capacità di assegnare alla comunità locale il ruolo di soggetto protagonista in grado di dare risposte concrete alla crisi della globalizzazione economica, di produrre di beni relazionali – solidarietà, fiducia nel futuro, cooperazione orizzontale, legalità democratica- elementi indispensabili per afferrare uno sviluppo finalmente auto centrato, coerente e rispettoso della vocazione dei diversi territori. E’ l’impegno a saper coniugare ricerca ed innovazione, il coraggio di riconvertire in un’ottica di sostenibilità i poli industriali e in un’ottica di pace, le basi militari presenti in Sicilia, per un loro uso civile. E’ la responsabilità di promuovere e governare un processo di coosviluppo dell’area mediterranea. E’ avvertire seriamente il bisogno di abbandonare mediocri logiche mirate alla conservazione di potere o pseudo/potere personale o di gruppo, aberranti dinamiche ca-

ratterizzate da alleanze strumentali, “complotti”, trappole, tradimenti e simili volgarità. Il progetto per l’alternativa non può non essere condiviso e partecipato, puntando decisamente sul pieno originale protagonismo di quella parte di società siciliana che già si muove oltre la crisi o che ne possiede tutte le potenzialità in grado di proporre, vivere, governare il Cambiamento. Si tratta del popolo della dignità e della gratuità, senza il cui apporto è impensabile qualsiasi processo di cambiamento reale. A questo punto la domanda diventano: il centro-sinistra, nelle sue differenti espressioni partitico-istituzionali, è in condizioni di porsi su una unitaria dimensione progettuale? Ed è azzardato dire con chiarezza che una parte del centro-sinistra, speriamo piccola, è dentro o aspira a stare dentro quel sistema rispetto a cui si dovrebbe essere rigorosamente alternativi? E si può considerare segnale di crisi preoccupante l’atteggiamento di “un partito” che celebra un congresso, approva una linea politica, su questa linea elegge un segretario e dopo pochissimi giorni smentisce la linea approvata e “attacca” in incontri pseudo-segreti il segretario appena eletto? E il governo Lombardo, può essere considerato un ulteriore segno di degrado, buono a produrre imbarazzo, disorientamento, riflusso, in quella porzione di società più disponibile alla “rinascita”? Come si può parlare di riforme se non esiste un progetto

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e quindi un piano per convogliare tutte le risorse umane ed economiche atte a raggiungere gli obiettivi fissati dal progetto stesso? E ancora: esiste o no il rischio che anche all’interno del centrosinistra si possa avere la tentazione di sostituire un “regime” ad un “altro regime” con qualche cambiamento in termini di sfumature cromatiche, magari utilizzando colpevolmente l’antimafia come colore? Sono tutte domande espresse ovviamente con approccio retorico. E’ indispensabile, urgente unire il popolo del centrosinistra! Attivare, potenziare, qualificare, luoghi in cui questo popolo possa riconoscersi, ridefinire un’identità collettiva, aggregare le domande sociali perché esse perché esse sviluppino il campo della partecipazione, accedere ad una inedita comune dimensione progettuale, individuando punti di riferimento chiari e universalmente credibili. Ciò riguarda tutto il popolo di centrosinistra con e senza tessera, proponendo una costruttiva dialettica e proficua interazione tra le forme di organizzazione partitica e quelle di autorganizzazione, che vada di pari passo e assuma la “valenza” del rapporto di proficua complementarietà tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta basata sulla partecipazione. Per fare ciò occorre umiltà, umiltà, umiltà e ancora umiltà, per tornare tutte e tutti ad avere la consapevolezza, la coscienza, il piacere di costruire il bene comune e ridare senso, significato, valore alle parole libertà, democrazia, sinistra.

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Politica

Il disastro di Fukushima Una lezione di nucleare GIUSEPPE ONUFRIO Direttore di Greenpeace Italia

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’incidente è al momento secondo solo a quello di Cernobyl. E solo adesso, a oltre due mesi dall’incidente, comincia a venir fuori la verità: il nocciolo si è completamente fuso nelle prime 16 ore dall’inizio del blackout che è iniziato prima che arrivasse lo tsunami. Solo adesso l’azienda proprietaria dell’impianto, la TEPCO (che vanta una lunga sequenza di scandali per la manomissione dei documenti sulla sicurezza degli impianti) ha ammesso che dopo 10 minuti dal terremoto i generatori diesel si erano fermati per un guasto per almeno 3 ore. Solo dopo essere stati rimessi in funzione è arrivato lo tsunami a mettere fuori gioco i generatori di emergenza. E così si è innescato l’evento incidentale. Questo ha portato a emissioni in atmosfera di circa il 10% di quelle registrate a Cernobyl, ma è una quantità comunque sufficiente a farlo rientrare nella definizione della categoria Ines 7. E’ successo quello che era stato già previsto 30 anni fa. La dinamica avvenuta a Fukushima era stata già studiata in una simulazione effettuata sul reattore BWR di Browns Ferry negli USA nel 1981, sulla base del quale fu elaborato un rapporto tecnico nel 1985. Il rapporto prevedeva fusione completa e danneggiamento del vaso di contenimento del nocciolo in 13 ore e mezza. Si trattava di un reattore BWR da 1.100

MW con un sistema di contenimento tipo Mark I, lo stesso adottato in 5 dei 6 reattori nucleari di Fukushima. Nel 1990 l’agenzia di sicurezza giapponese NSC accantonò l’ipotesi incidentale: non era ritenuto possibile un blackout così lungo. Un blackout però può suc-

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cedere per tante ragioni: in Svezia a Forsmark nel 2006 si rischiò un incidente simile per una interruzione di corrente per 23 minuti che accadde senza alcun terremoto: per fortuna un terzo generatore diesel si mise in funzione (altri due erano andati in corto circuito). maggio • 2011 • N.4


Politica

Risultato: aree altamente contaminate dagli isotopi del Cesio. Le zone più contaminate da Cesio 137 e 134 sono in direzione NordOvest rispetto all’impianto. Greenpeace aveva già evidenziato tassi elevati nel villaggio di Iitate, al di fuori della zona di “evacuazione consigliata” (raggio di 30 km). Se a Cernobyl l’allora governo sovietico dichiarò “da evacuare” le aree in cui la contaminazione radioattiva al suolo superava i 1490 kBq/mq (kilobequerel al metro quadro) e da distruggere i raccolti in aree che superavano i 550 kBq/mq, nel caso giapponese si sono registrati valori di contaminazione al suolo anche ben superiori a questi valori. Finalmente, dopo oltre due mesi, anche le aree oltre il limite dei 20 km cominciano a essere evacuate, come già chiesto da Greenpeace dopo aver presentato i risultati della prima missione di ricerca inviata sul posto. L’Italia è circondata da reattori nucleari, dicono, dunque. Ma i rischi non sono gli stessi che avere un incidente in casa. Come ha dimostrato Cernobyl e come sta dimostrando Fukushima, in caso di incidente grave l’area da evacuare può essere ampia fino ad alcune decine di km dall’impianto. Questo non vuol dire che oltre non c’è alcun rischio, ma che le conseguenze sono assai diverse. Misure di radioprotezione possono essere necessarie anche a maggiore distanza ma, in linea di massima, i rischi (le concentrazioni dei radioelementi in aria) scendono con il quadrato della distanza. A fare la differenza da questa regola gene-

rale sono le piogge che, al passaggio della nube, possono creare picchi di contaminazione dei suoli per cui ci possono essere aree distanti più contaminate di aree più prossime alla centrale. Per l’Italia, come si è visto con Cernobyl, le Alpi hanno protetto (contaminandosi) almeno in parte il nostro Paese. L’Italia non ha bisogno del nucleare. Oggi in Spagna le rinnovabili coprono il 35% della produzione di elettricità, in Italia circa il 20%. Raggiungere la quota spagnola al 2020 è assolutamente fattibile e comporterebbe un impatto occupazionale assai significativo. Fonti rinnovabili ed efficienza energetica hanno un potenziale energetico in Italia oltre il doppio del fantasmagorico piano nucleare del governo che prevede 13.000 MW di impianti nucleari. Il potenziale di sviluppo delle fonti rinnovabili al 2020 è – secondo le analisi del Politecnico di Milano –

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di circa 90 miliardi di kilowattora all’anno aggiuntivi agli attuali, mentre quello del risparmio attraverso misure di efficienza energetica dell’ordine dei 140 miliardi di kilowattora all’anno. Dunque le alternative esistono e hanno un valore energetico più che doppio rispetto al fantasmagorico piano del governo e quadruplo rispetto all’accordo italo-francese per costruire 4 reattori EPR in Italia. Infine, ma non meno importante, una strategia basata su efficienza e rinnovabili avrebbe un impatto occupazionale assai più importante, dell’ordine dei 300 mila posti di lavoro, di cui il 70% in Italia se le politiche pubbliche saranno abbastanza serie da far sviluppare qui le filiere tecnologiche. L’accordo italo francese prevede un impatto di 10 mila posti, la gran parte dei quali in fase di costruzione delle centrali: a regime un impianto nucleare occupa 300 persone. maggio • 2011 • N.4


Politica

La Sardegna ha detto “no” al nucleare. Con un plebiscito MAURO PIRAS l vento, certo, è uno degli elementi che caratterizzano la Sardegna: c’è sempre un po’ di vento! Il maestrale e la tramontana, da nord a sud, portano la pioggia, puliscono l’aria, rinfrescano. Lo scirocco e il libeccio portano le temperature africane, un po’ di sabbia del deserto, la calura e l’umidità fastidiose. Come un vento impetuoso è stato il referendum proposto da “Sinonucle” – comitato promotore del referendum. Il risultato non era difficile da prevedere anche nella forma plebiscitaria (97,28%) riscontrata. Perché non era difficile? Perché, per chi vive fuori dalle stanze dei partiti, era talmente palpabile nella gente l’avversione all’installazione di centrali nucleari o al deposito di scorie che non si capiva perché andare a votare per una cosa ovvia. Perché anche i partiti che, nel governo nazionale, hanno prima sposato e poi accantonato la scelta nucleare, hanno capito che sarebbe arrivata “una maestralata” di voti contro. O, forse, le indagini sull’affare eolico in Sardegna lo confermano, solo perché reputano più vantaggioso, per le varie lobbies, pensare agli affari che l’eolico e il fotovoltaico possono portare. Perché anche il maggior quotidiano regionale (L’Unione Sarda), che non passa certo per essere un covo di estremisti di sinistra e tantomeno vicino alle posizioni indipendentiste che hanno proposto il referen-

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dum, hanno sostenuto la scelta contro il nucleare in Sardegna, addirittura diffondendo adevisi propagandistici. Perché anche i partiti di opposizione (centrosinistra), solitamente impegnati a contraddirsi su tutto, questa volta sono riusciti, se non altro, a non commettere errori. Perché Chernobyl ma ancor più Fukushima e le vicende legate al sequestro dei 13.000 ettari del Poligono di Quirra per ritrovamento di uranio (per fortuna “impoverito”), hanno drammaticamente messo a nudo non solo i rischi del nucleare ma, soprattutto, i rischi della gestione umana e del business ad esso collegato. Ma, soprattutto, perché, questa volta, la gente ha capito che non ci potevano essere indicazioni di

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partito che tenessero, che è tempo di ricominciare ad occuparsi del proprio destino, della propria libertà, del proprio futuro prima che il vento diventi mefitico e, di una terra antica e bella, faccia una landa desolata. E’ un segnale di rilevanza nazionale e, questa volta, anziché subire il vento che le condizioni atmosferiche creano, la Sardegna ha voluto creare un vento di opposizione a scelte che la gente non condivide. Ma, attenzione, non si deve abbassare la guardia. Il governo Berlusconi ha solo rinviato la scelta di un anno e potrebbe riprovarci. Sempre che “la maestralata” del 15 e 16 maggio non si sia portato via anche lui e i suoi “scilipoti”.

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Politica

Legittimo impedimento, Crescimanno: “Un salvagente per il premier” CARMEN VELLA a giustizia in Italia è oggetto di riforma costituzionale. Non sono ancora chiari i tempi e i modi dei passaggi parlamentari della riforma approvata lo scorso marzo dal Consiglio dei Ministri su proposta di Alfano, forse ci vorranno un paio d’anni ma è presto per dirlo. Nel frattempo, mentre si consuma il dibattito dentro e fuori i palazzi del potere noi abbiamo chiesto ad un uomo di legge cosa dobbiamo aspettarci e se proprio tutto quanto è da buttare. Abbiamo girato la domanda all’avvocato del Foro di Palermo, Francesco Crescimanno, cassazionista, con ben 41 anni di attività di avvocatura alle spalle ci ha dato la sua visione, con un accenno anche alla norma sul legittimo impedimento che il prossimo 12 giugno saremo chiamati ad abrogare o meno. Crescimanno, che ha al suo attivo un trascorso in politica, candidato a sindaco di Palermo nel 2001, reduce dalla stagione della Primavera siciliana, decise di affrontare “le noie della politica per evitare che Palermo ripiombasse nel clima degli anni bui precedenti i fiori della sua Primavera o di quel plumbeo intervallo tra di essa e i frutti dei sette anni di Orlando sindaco per plebiscito”. Nel suo percorso non ha hai abbandonato però i panni di giurista, per antonomasia, “difensore del diritto dei deboli e degli offesi, l’avvocato delle vittime della prepotenza mafiosa”, oggi, fra l’altro, avvocato di parte civile nel pro-

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cesso sulla morte di Mauro De Mauro. Avvocato Crescimanno, cosa pensa di questa riforma della giustizia? “A me sembra che uno dei punti fondamentali che questa riforma comporta è quello della separazione della carriere, il problema spero di non scandalizzare nessuno - secondo me è gestibile. Se intendiamo per separazione la costituzione di due diversi rami di magistrati, giudicanti e requirenti, autonomi nella loro collocazione, senza previsione di spostamenti se dall’uno o dall’altro non quello regolare di fare un concorso e passare nell’altro ramo. Due corpi separati, a condizione che, l’uno e l’altro abbiamo tutte le garanzie che attengono all’indipendenza, all’autonomia, e soprattutto cosa che è indiretta ma più qualificante,

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che rimanga l’obbligatorietà dell’azione penale”. La magistratura ha bisogno di un cambio di rotta? “Sono d’accordo che la magistratura rivendichi il proprio ruolo; che non si possa mai toccare nulla non sono d’accordo, purché ripeto ci siano tutte le garanzie mantenute, l’ipotesi dei due Csm, delle due carriere, la trovo fattibile, purché abbiano identica collocazione, ad un livello tale che non possono essere condizionate. Le critiche hanno apparentemente una logica, ma è una logica di facciata, perché si dice correttamente che l’obbligatorietà di fatto non viene rispettata perché non si arrivano a fare tutti i processi ,ma se rimane una norma che obbliga il magistrato requirente a esercitare sempre l’azione penale, nel momento in cui un organismo di maggio • 2011 • N.4


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controllo che dovrebbe continuare a chiamarsi Consiglio Superiore della Magistratura dell’uno e dell’altra, a mio vedere non c’è nulla di scandaloso. Provengo da un modo di pensare radicalmente diverso, se 30 anni fa mi avessero di separazione di carriera io avrei detto è una follia, oggi dico cose diverse per due considerazioni; una perché si tratta di una cambiodi cultura e di realtà, non solo mia, ma in generale, l’altra perché il cosi detto nuovo codice che oggi ha 22 anni ha radicalizzato le posizioni del pm”. Secondo lei è un’ipotesi condivisibile, dunque? “Che oggi si possa parlare di separazione delle carriere a mio modo di vedere è plausibile, tenga conto che da sempre,almeno nella mia esperienza, ci sono pm che hanno senso dell’equilibrio, sanno rispettare quelle norme che prevedono si debba anche valutare gli elementi a favore dell’indagato, come ci sono i magistrati della giudicante che fanno lo stesso; dipende molto dalla sensibilità di ciascuno, dal carattere, ci sono quelli sempre imbronciati o quelli che hanno sempre il sorriso e con cui si può ragionare in maniera distesa”. Eppure questa linea non è poi così’ tanto condivisa nell’ambiente giudiziario? “Il problema di tenerli insieme perché si meticciano è un falso problema. E’ soltanto apparenza. E’ meglio dividerli proprio per evitare che periodicamente si dica che la magistratura è squilibrata

sulle posizioni , in quanto i pm essendo colleghi dei giudici si aiutano a vicenda. Mi pare molto più chiaro che accusa e difesa che si confrontano dinnanzi ad un giudice, siano cosa diversa e che il giudice sia realmente in mezzo. Il fatto che in magistratura spesso si dica che è un modo di mortificare il pm - come dice Berlusconi - secondo cui il pm si dovrà presentarsi con il cappello in mano, secondo me sono solo valutazioni folkloriche che lasciano il tempo che trovano. Un magistrato di pm che abbia dignità e capacità, sa stare davanti al giudice, sa far valere le sue idee con autorevolezza. Come si può ovviare alla contrarietà alla questione della separazione delle carriere diffusa negli ambienti della magistratura? “Anni fa mi sono fatto carico, nel corso di una riunione indetta dalla sezione palermitana dell’Anm ma finii con raccogliere una serie di espressioni di censura negative, perché si ritenne che una operazione tendeva a radicalizzare le posizioni e che il sistema non andava affatto toccato. Io rimango convinto che è meglio non lasciare che altri facciano la riforma contro, piuttosto meglio è farla insieme, perché facendola insieme si potrà creare quel clima di equilibrio che consenta di tenere ferme le prerogative relative al giudice e al pm, creando due corpi distinti con le dovute garanzie. Una riforma contro significherà inevitabilmente farci mettere sotto il controllo dell’ese-

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cutivo, e questo, si sa, è il grande sogno di Berlusconi, che intende neutralizzare radicalmente i magistrati. Di contro penso che mantenere autonomia, indipendenza, inamovibilità, come del resto funziona adesso, poiché salvo problemi disciplinari, il magistrato se no n consente non può essere trasferito, io credo sia giusto così, sarà anche un privilegio notevolmente del resto la funzione del magistrato è delicatissima, il fatto che sia iper garantita lo trovo ragionevole. Con due copri distinti e autonomi creiamo situazione di uguaglianza, in cui nessuno può continuare a dire che il giudice e spesso coattato dal pm, essendo suo collega, abbiamo esempi lampanti di giudici perfettamente appiattiti sui pm e di giudici appiattiti sulle difese, a prescindere. Come, ci sono anche quelli equidistanti per cultura e rispetto del propri ruolo, questo passaggio a mio modo di vedere si può affrontare purché si mantengano tutte le garanzie”. A proposito della norma sul legittimo impedimento, lei cosa maggio • 2011 • N.4


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ne pensa? E’ palesemente un espediente di salvataggio del premier, l’ennesimo salvagente del presidente del Consiglio. Una norma che tende a blindare la giustizia a favore di Berlusconi. Del resto il legittimo impedimento esiste da sempre nel codice penale e se ne fa ricorso laddove si ravvisa un effettivo e assoluto impedimento relativo a problemi di salute seri. E’ chiaro che la difesa che ne fa ricorso deve fare necessariamente i conti con i tempi del processo che inevitabilmente si allungano e che si sommano al tempo della prescrizione , dunque si tratta di una scelta e come tale vanno accettate le conseguenze”. Quindi non ce ne sarebbe alcuna necessità secondo lei? “Non vedo perché di legittimo impedimento, come quello proposto e che è oggetto di referendum debba avvalersi il presidente del Consiglio, quando chiunque svolga un’attività pubblicistica può trovarsi nelle condizioni di non potere presenziare alle udienze perché impegnato su altri fronti, è un gioco che non funziona come non funziona i rinvii e le riunioni del Consiglio dei Ministri fissate i concomitanza. Del resto l’apparizione alle udienze di Berlusconi è finita con l’essere una sorta di vetrina mediatica utile per accrescere la sua popolarità e per affermare la sua estraneità ai fatti che lo vedono imputato, ma questo modo di farsi pubblicità sembra non abbia avuto effetti positivi a giudicare dal risultato delle elezioni amministrative, adesso è im-

portante il comportamento della Lega e di Bossi in particolare che pure non ha”. Quale sarà e da cosa dipenderà l’esito del referendum? “Chiaramente il risultato del referendum del voto dipende da vari fattori, uno di questi è l’effetto trainante che può avere il risultato politico dei ballottaggi del 29 maggio, specie per la sindacatura di Milano, che è nodo centrale per segnare il percorso politico dei prossimi mesi, proprio perché Milano da sempre è la roccaforte del sistema di potere di Berlusconi. Cosa pensa, da uomo di legge, di questa norma tanto voluta dal governo Berlusconi? “Il legittimo impedimento è una esasperazione, un’esagerazione conclamata, pensata per Berlusconi e i suoi ministri, fin troppo evidente per non essere compresa. L’iter che c’è stato per arrivare alla formulazione di questa norma bocciata più volte per la sua anticostituzionalità la dice lunga sulla natura stessa del provvedimento ad personam, fatto ad arte, ci aveva provato Cirami prima, poi Schifani e Alfano con il lodo, tutto per assecondare un discorso legato alla figura del presidente del Consiglio. Il punto è che la chiave di lettura del quesito sarà inevitabilmente differenziata rispetto all’elettorato notoriamente diviso fra coloro che osannano Berlusconi attribuendogli una sorta di sacralità a prescindere da quello che fa e dalle sue malefatte, tra quelli che appartengono alla sua clac, o che

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sono a libro paga direttamente o indirettamente, e dall’altro lato tra chi si dichiara nettamente contrario alle sue posizioni e ancora di più al suo operato o chi pensa, perdendo l’obiettività, che forse è davvero vittima di una persecuzione e che i magistrati gli stanno addosso senza motivo”. Quale sarà la risposta degli elettori? “La risposta degli elettori sarà diversificata come lo è l’elettorato. La vicenda Ruby ha dato uno scossone alla visibilità di Berlusconi, che si è ritrovato in mezzo ad una storia di squallore, che inevitabilmente lo macchia sul piano personale, e di cui deve rispondere sia personalmente che dal punto di vista del suo ruolo; del resto la sua difesa è quella di dire che si tratta di fatti privati e che i magistrati hanno spiato dal buco della serratura ma è gravissimo il fatto che quanto raccontato dalle ragazze coinvolte si sia svolto a Palazzo Grazioli, che rappresenta un’istituzione e pertanto merita tutto il rispetto del caso. Esempio emblematico, che dimostra che oggi si è perso il senso dello Stato, delle istituzioni, e di chi le rappresenta. Le istituzioni non sono casa nostra ma casa d’altri e quando si è ospiti bisogna comportarsi come tali. E quindi avendone cura e rispetto. Quanto fatto dalla peggiore Democrazia Cristiana di un tempo è nulla paragonato a quanto sta accadendo in questo momento politico dove davvero si è toccato il fondo”.

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La difesa di un bene comune nel “racconto dell’acqua” CARMELA CAPPA n progetto, ideato come “dono” per coloro che, attraverso la memoria, sanno ancora guardare al futuro, deve proporsi come finalità quella di dare impulso tra i cittadini ad un processo di democrazia partecipata per favorire il valore della condivisione del bene comune e la gestione collettiva delle risorse di un territorio. L’acqua, come risorsa insostituibile per l’uomo, deve infatti essere oggetto di cura da parte della società locale e non può essere distinta dal principio di salvaguardia per garantirne l’uso alle generazioni future. Il governo locale delle risorse, in primo luogo quelle idriche deve ripartire dalla re–identificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, dalla riscoperta della valenza identitaria del luogo, dalla conoscenza degli strumenti utilizzati dalle generazioni passate per la gestione e la fruizione dell’acqua. Le giornate di studio e la Mostra itinerante sono la conclusione ed al tempo stesso l’inizio di un percorso condiviso tra i componenti del Cantiere di Un’altra Storia di Giarre, le istituzioni e le persone della società civile, sono anche l’esito dell’esperienza partecipata tra le associazioni che hanno costituito nel comprensorio jonico-etneo il Forum delle associazioni per la battaglia referendaria per la ripubblicizzazione del servizio idrico, un Forum con partecipanti molto diversi tra loro, ma all’interno delle quali è stato possibile promuovere dinamiche democratiche e collettive. Dagli incontri e durante i banchetti per la raccolta delle firme ha preso forma il progetto del Referente per i Beni Culturali del Cantiere ionico etneo di valorizzare l’acqua dell’Etna come patrimonio primario di un territorio perché è nei principi fondanti di Un’altra Storia educare al bene co-

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mune, riappropriarsi delle risorse, reidentificarsi con la memoria e con l’identità del territorio di appartenenza. La risposta da parte dei cittadini alla raccolta di firme per i referendum che si terrà il 12 ed il 13 giugno nel territorio ionico etneo ha superato di gran lunga le aspettative: circa 15.000 firme raccolte nei territori comunali di Giarre, Riposto, Linguaglossa, Fiumefreddo Mascali, Piedimonte Etneo, Sant’Alfio, Milo, comuni del versante ionico-etneo accomunati da peculiarità idrogeologiche e sistemi di fruizioni dell’acqua dell’Etna, protagonisti oggi del progetto Il racconto dell’acqua. Il referendum ed il convegno acquistano oggi la funzione di un’azione sinergica: difesa dei diritti e conoscenza dei sistemi storici di gestione e di fruizione delle risorse idriche per ridare significato al valore della memoria come riscoperta dei saperi tradizionali. Scopo del Convegno – laboratorio e della Mostra itinerante è stato quello di restituire valore di patrimonio collettivo agli strumenti di gestione e

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fruizione delle risorse idriche: sorgenti, pozzi, abbeveratoi, norie, mulini, fontane, cisterne, espressioni d’arte, sistemi di coltivazione e produzione agricola, testimonianze della cultura materiale ed immateriale. Il sistema di fruizione storicizzato delle risorse naturali è un patrimonio comune che attraverso la documentazione può diventare strumento di ricerca per individuare nuovi sistemi di gestione delle risorse fondati sull’applicazione di tecnologie ecocompatibili per la gestione di un bene collettivo come l’acqua. Il progetto vede coinvolti da protagonisti, in una sinergia di competenze, conoscenze, professionalità, Comuni, Soprintendenza, Genio Civile, Associazioni, Istituzioni scolastiche, persone della società civile, esperti e operatori del settore connesso all’agricoltura, studiosi di storia locale, depositari della memoria collettiva, giovani entusiasti di conoscere e scoprire il territorio ionico etneo come luogo e identità. Lo studio storico dei sistemi di canalizmaggio • 2011 • N.4


Politica

zazione, irrigazione, fruizione dell’acqua come bene per uso privato e collettivo, partendo dalle testimonianze documentarie e dalle permanenze, è indispensabile per comprendere come la gestione dell’acqua da sempre abbia caratterizzato l’economia del territorio ionico etneo incidendo anche sul paesaggio percettivo, sulla flora e sulla fauna. Dagli interventi dei relatori è emerso tra l’altro che nel futuro bisognerà considerare la necessità di garantire una maggiore captazione delle risorse, non escludendo le ipotesi di ripristinare le saie per l’irrigazione, di incentivare la costruzione di cisterne nelle abitazioni, come quelle già presenti ed in uso nelle case rurali e non solo, che possono svolgere una duplice funzione: fungere da vaso di espansione nei momenti di pioggia intensa per prevenire gli allagamenti conseguenti ad ogni precipitazione e nello stesso tempo servire da serbatoio che ne consenta l’utilizzo come acqua irrigua nella stagione estiva. Durante le giornate di studio è stato ribadita la necessità di limitare al massimo le dispersioni di rete che oggi spesso superano il 50% della risorsa idrica immessa, questo consentirebbe la redistribuzione della risorsa anche verso i territori che ne sono carenti. Un'altra considerazione emersa riguarda lo stato di incuria ed abbandono in cui versano la maggior parte delle testimonianze visionate, in particolare una saia che insiste nella frazione di Presa che viene sistematicamente depredata per sottrarne materiali da costruzione lapidei ed una neviera nel comune di Milo che rischia il crollo a causa delle radici di alberi limitrofi. Tutelare oggi questi beni significa permettere ai giovani di acquisirne la conoscenza e mantenere il rispetto. La partecipazione alla Mostra laboratorio di alcuni Istituti scolastici del terri-

torio ha permesso di predisporre dei progetti educativi finalizzati al rispetto dell’acqua, un bene prezioso che non può e non deve essere sprecato. Un pannello dedicato a Danilo Dolci ed alle sue battagli di legalità in difesa dell’acqua realizzato dagli alunni della Scuola Media Ungaretti di Giarre implica un forte valore etico per l’intera mostra. La Mostra itinerante, che verrà presentata nelle sedi predisposte dai Comuni coinvolti nel progetto, si propone come tappa d’inizio per valorizzare i sistemi di gestione delle risorse da parte delle comunità locali della Sicilia e creare una rete di studio sui sistemi di gestione e di fruizione delle risorse idriche in altre regioni italiane e nei paesi del bacino del Mediterraneo ( Tunisia, Marocco, Spagna, Malta, Francia, Grecia, Israele, Cipro). Al progetto si potrebbe imputare il carattere settoriale ed il limite di apparire troppo circoscritto territorialmente, a quanti lo ritengono tale si può obiettare che è intento degli organizzatori proporre un modello, condivisibile o meno, di sensibilizzazione della collettività al bene comune, un’ opportunità di dialogo tra cittadini e istituzioni, persone che si confrontano con le istituzioni che li rappresentano con cui bisogna interloquire e se necessario contestare e contrastare. Questi sono i principi fondanti della democrazia partecipata. Il referendum è la forma più completa di democrazia partecipata, permette ai cittadini di ideare e progettare, scardinare ed abrogare le leggi, esprimere un voto per decidere. Il 12 ed il 13 di giugno si voterà per quattro quesiti referendari, uno di essi riguarda la pubblica gestione dell’acqua, poter decidere sulla gestione pubblica di un bene collettivo come l’acqua è uno dei fondamenti assoluti della democrazia e sotto la spinta di tale motivazione

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dobbiamo esprimere i nostri SI, convinti di votare in difesa del patrimonio comune. Del resto la difesa del territorio implica la determinazione da parte dei cittadini di non accogliere su tutto il territorio nazionale nuove centrali nucleari. Difendere il territorio significa anche porsi da cittadini con uguali diritti e doveri in rapporto con le istituzioni e con la giustizia contro ogni possibilità di delegittimarne il corso con leggi ad personam come potrebbe rivelarsi il legittimo impedimento tanto auspicato dal Presidente del Consiglio. Allora quattro Sì convinti per la democrazia e, parafrasando Danilo Dolci, difendere il bene comune per difendersi.

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La crisi delle città

“La mia vita clandestina nella Palermo sotterranea” BEATRICE MONROY tamattina sono andata all’Istituto Gramsci per una ricerca. E’ ormai un luogo comune: i Cantieri alla Zisa? Distrutti. Che occasione persa. Uscendo dal Gramsci ho incontrato degli amici, Fabrizio Lupo con cui là dentro avevo prodotto tante belle cose, e Aurelio Pes che mi ha dato la possibilità di fare per alcuni anni La notte dei mille racconti, una notte intera, in cui, nell’atrio della Biblioteca Comunale, arrivavano centinaia di persone ad ascoltare e ascoltare storie. Le storie? Sono il sale della terra. Nelle storie sono contenute le nostre vite e chi ascolta a sua volta racconterà e non dimenticherà. Forse per questo, per questa piccola parola dimenticare, non è stata più possibile fare quella notte. Adesso eravamo lì per caso io, Fabrizio e Aurelio come tre naufraghi. C’è stata una tempesta, ha spazzato via tutto. Noi? Ci siamo. Persi. Rotti. Stracciati ma ci siamo. Mi viene da ridere perché improvvisamente mi passa per la testa la canzone della Cinquetti E qui comando io, e questa è casa mia. Sanremo 1971, una canzone per bene, velatamente femminista, che strizzava l’occhio a quell’onda che avanzava. Adesso io la sento cantare dai nostri amministratori, che comandano loro e questa è casa loro. Casa? A casa tua ci metti del tuo, non è che ti pagano i contribuenti i mobili, il frigo, le pentole e la spesa. Ci pensi tu. Sennò è la casa di tutti. Mah! Quello che mi

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Un viaggio nelle città siciliane per raccontare la loro crisi Con questo numero vogliamo intraprendere un viaggio nelle città siciliane, cogliendo gli umori di quanti ogni giorno le vivono. Vogliamo registrare le percezioni, le sensazioni di quanti operano in questi contesti urbani con la voglia di riaccendere la speranza, di immaginare percorsi virtuosi per costruire buone pratiche di governo delle nostre polis. Desideriamo ascoltare gli operatori culturali, il mondo delle professioni e delle università, le forze economiche e sociali per dare voce agli individui che spesso in solitudine vivono le nostre città. Vogliamo costruire un progetto partecipato che possa contribuire ad affermare nuovi modelli di buon governo, partendo dai territori che viviamo. Alla rassegnazione che spesso ci circonda vogliamo rispondere con la speranza che cambiare è possibile. In questo numero ci occupiamo di Palermo e Catania nell’anno 2011. Nei prossimi numeri continueremo il viaggio verso gli altri capoluoghi. Giovanni Ferro

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Dossier

piacerebbe davvero è che gli artisti fossero valutati per il loro effettivo valore e non per questa storia delle parrocchie che veramente fa tanto Medioevo. Siccome io non sono della parrocchia giusta sono stata punita, ( chi? Io o la città che si è persa un sacco di belle iniziative?) e non ho avuto più la possibilità di fare niente e anche per me, come per quasi tutti gli artisti, (ma quanti siamo della parrocchia sbagliata?) così è cominciata la clandestinità. Sarà che pratico yoga e medito da quarant’anni, insomma ho cercato di prenderla con calma e di inventarmi in questa città un’altra vita. Una vita clandestina e di questa vi voglio parlare. Chiusa la mia adorata Libr’aria, luogo di incontri e di fervidi dibattiti, mi sono trovata a casa seduta sul divano e ora? Ma arrivavano le telefonate, che facciamo? Possibile? Così, silenziosamente, è nata una cosa clandestina, un gruppo di gente che scrive, anche se non abbiamo più un luogo ma abbiamo i nostri luoghi e abbiamo cominciato riunioni itineranti da casa in casa. Gli scriventi, abbiamo lavorato in silenzio per anni e adesso è uscito il nostro primo romanzo collettivo. Questa è la storia di una clandestinità. Accanto, in questo lungo percorso, abbiamo scoperto tanti clandestini: quel genio di Franco Maresco, l’abilità unica e straordinaria di Mario Bellone, un numero infinito di gente di teatro tra cui Borruso, Cutino, la Petix ed Emma Dante e il suo spazio La Vicaria dove i ragazzi, che di parrocchie non ne hanno mai avute, ma che

lo stesso vengono emarginati, hanno un posto per discutere, per fare arte, perché lì si fa il teatro ma anche si espongono le opere di giovani, e poi ora è quasi alla moda provare gli spettacoli a casa! Teatri? Che roba sono? Ah, quelle cose tenute in catene, piene di polvere, dove non si può entrare se non sei, se non ossequi, se non dici esattamente quello che quelli vogliono. Prigioni insopportabili, io che sono madre, lo so bene e ambedue i figli giustamente se ne sono andati, via il più lontano possibile da questo inferno. La classe di liceo di mia figlia è tutta emigrata. Tutta. Direi che fa riflettere. La città sotterranea esiste ed è vivacissima, produce delle cose bellissime che qui in spazi clandestini vengono prodotte e poi immediatamente portate fuori, l’altrove che ci riconosce, che ci rispetta, che ci guarda con grande simpatia e ammirazione. Enzo Vetrano, grande attore palermitano emigrato a Imola, dove, con Stefano Randisi, ha fondato un’importante compagnia teatrale siciliana, dice di essere il teatro stabile del sud al nord. Questo per dire che è difficile trovare una città con tante risorse. Certo se ci fosse una città attorno a noi che bello fusse! Immaginate di potere andare dal direttore artistico del teatro stabile della città perché siete una drammaturga abbastanza affermata e potere essere ricevuti (torna la Cinquetti..e qui è casa mia..), pensate che gioia potere andare alla Biblioteca Comunale e trovare tutti i libri ben esposti e poterli prendere in pre-

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stito e sapere che il direttore ha avuto soldi per sistemarla per riordinare e ordinare nuovi libri, bello fusse! Pensate che gioia se la Rai fosse ancora un centro di produzione e si potesse avere un programma radio da Palermo, scritto e diretto da noi, come hanno fatto da Napoli per Radio3, bello fusse! Quando c’era il grande Michele Perriera e molti di noi venivamo educati all’arte e al teatro da lui, ci portava in Rai a fare i radiodrammi. Pensate se i Cantieri alla Zisa fossero quel centro per le arti dove ognuno ha il suo spazio per vedere, per sperimentare, per fare quello che è il sale di un popolo, la cultura. Non esiste cultura senza scambi, senza opinioni diverse, senza rappresentazioni diverse; è la diversità, la multiculturalità a creare la forza di un popolo. E’ per me questa la cosa più grave e più terribile di questo regime: averci tappato la bocca, l’emarginazione che abbiamo subìto è un tentativo (dico con gioia in gran parte fallito) di zittire la nostra arte. E qui comando io..e questa è casa mia….

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La crisi delle città

Palermo, Catania e mio figlio Quando la Sicilia era bellissima ROBERTO ALAJMO erte volte dubiti. Non ti pare possibile. Eppure la memoria non sbaglia, hai controllato pure su Wikipedia: ci fu un momento in cui per diventare sindaco di Catania andarono al ballottaggio Claudio Fava ed Enzo Bianco. Ricordi pure che quando poi vinse Bianco tu hai storto il muso, pensando che era troppo moderato, e serviva una sterzata più netta. Era il giugno del 1993, mica un secolo fa. Pure in quella tornata Leoluca Orlando vinse a Palermo con una percentuale di elettori persino esagerata. E tu decidesti di fare un figlio. Cioè: decidesti che in quel momento valeva la pena di far crescere un figlio in Sicilia. Una specie di investimento di speranza. Se non allora, quando? Adesso quel tuo figlio ha sedici anni, e talvolta ti pare di scorgere uno sguardo nei suoi occhi. Non che abbia mai fatto pesare nulla. Ma è come se ogni tanto con lo sguardo ti chiedesse conto e ragione di questa pazzia di averlo fatto nascere in Sicilia. Non sa, tuo figlio, che dalle macerie di Capaci e via D’Amelio era miracolosamente uscita una Sicilia diversa. Contraddittoria, confusionaria, velleitaria: certo. Ma diversa. Tu c’eri, ti ricordi perfettamente. Le stesse macerie delle città erano diventate improvvisamente fertili. Nascevano il pane e le rose, da quelle macerie.

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Il tempo di decidersi a fare un figlio e, manco l’avessero fatto apposta, è cambiato tutto. Le luci si sono spente e qualcuno si è incaricato di spargere il sale sulle macerie, per essere sicuro che non potesse più crescere né pane né rose né niente. Tuo figlio queste cose non le sa, e anche se non ti stanchi mai di spiegargliele, lui stenta a crederci. Non servono le fotografie, i filmati d’epoca, i dati, la stessa Wikipedia.

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Ti guarda con compatimento, come se fossi uno di quei vecchi che raccontano sempre di com’era bello il mondo quando erano giovani loro. Sarà un luogo comune. Tuo figlio è liberissimo di non crederci. Però è vero: Palermo, Catania, la Sicilia erano diventate quasi bellissime, a un certo punto. La cosa migliore che puoi fare è non dimenticarlo mai. E conservare quella memoria anche a nome e per conto di tuo figlio. maggio • 2011 • N.4


La crisi delle città

Crolla la Torre di Tadini e con essa il sogno dei Cantieri della Zisa FRANCESCO GIAMBRONE ella primavera del 1996, l’Amministrazione comunale di Palermo commissionò ad Emilio Tadini una scultura dedicata alla città. L’occasione era effimera: la grande festa per il Capodanno in piazza Politeama. L’obiettivo era molto più ambizioso e per nulla effimero: cominciare a costruire il primo nucleo di una collezione di arte contemporanea, riprendendo una consuetudine da troppo tempo perduta di acquisizioni di opere dei più grandi artisti viventi e colmando così un debito ormai insopportabile della città nei confronti dei linguaggi della contemporaneità. In quegli anni ero assessore alla Cultura della Giunta Orlando, contattai Tadini, fu entusiasta e creò la Torre del Tempo, una straordinaria torreorologio che raccontava il passaggio del tempo ma che mandava anche un messaggio di incontro tra culture e storie diverse, pienamente in armonia con la città di quegli anni. Quel Capodanno, a mezzanotte, la Torre fu illuminata dai fuochi d’artificio e fu protagonista di un momento importante della vita collettiva dei palermitani; dopo qualche mese ci sembrò naturale spostarla ai Cantieri culturali alla Zisa che, in quegli anni, erano uno dei luoghi dove si costruiva una speranza concreta di cambiamento per la città. Lì, la Torre di Tadini avrebbe ben rappresentato uno dei tasselli di quella collezione di arte contemporanea i cui pezzi cominciavano a raccogliersi come

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primo effetto del nuovo (e inedito) rapporto che la città stava stringendo con i grandi artisti figurativi viventi del Novecento: The circle of Life di Richard Long, i due cerchi pensati proprio per lo Spazio Zero dei Cantieri, la Battaglia di San Giorgio di Ilya ed Emilia Kabakov, le opere dei tanti artisti palermitani di cui in quegli anni i Cantieri ospitavano le mostre. Il sogno era finalmente a portata di mano: un Museo dedicato all’arte contemporanea che nasceva raccogliendo le opere di artisti che vivevano un rapporto diretto con la città e che creavano proprio per Palermo. Peccato che quel sogno sia finito in un ammasso di ferraglia abbandonato, con disprezzo per la bellezza e sciatteria nei confronti del patrimonio pubblico, in mezzo alle sterpaglie. Qualche mese fa, ritornando ai Cantieri della Zisa dopo tanto tempo, spinto anche dall’indignazione di tanti cittadini per le condizioni di abbandono e di degrado in cui l’amministrazione Cammarata ha ridotto quell’area che aveva rappresentato per alcuni anni una

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occasione di riscatto per un territorio urbano degradato e un volano di produzione culturale di cui tutto il mondo parlava, ho notato che la Torre di Tadini non era più dove l’avevamo lasciata e mi sono messo a cercarla. L’ho ritrovata, a pezzi, in un angolo seminascosto, arrugginita e coperta da immondizia. Mi sono chiesto come è possibile che questo sia accaduto. Mi sono chiesto com’è che nessuna delle istituzioni preposte alla tutela e alla conservazione del patrimonio artistico abbia sentito il dovere il intervenire. Mi sono chiesto come mai l’Amministrazione comunale, proprietaria dell’opera, abbia permesso e autorizzato questo scempio. Non ho trovato risposta e sono stato preso da una grande malinconia per la sorte che è toccata a questa città e da un senso di vergogna per chi la amministra. Con me più di mille persone hanno cominciato a chiedere conto dell’abbandono dei Cantieri e dello scempio della Torre di Tadini. Nessuno ha finora risposto. Sono stato di recente a Chicago e il disagio per il destino toccato alla

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Torre di Tadini è tornato a farsi vivo e si è acuito. Lì, integrate nel tessuto urbano e disponibili alla vista dei cittadini e dei turisti che passeggiano per le strade, ci sono le opere di alcuni dei più grandi artisti del Novecento: in una piazza due gigantesche sculture di Picasso e Mirò, in un’altra Dubuffet, in uno spiazzo ai piedi di un grattacielo un mosaico di Chagall, all’ingresso del Millennium Park, proprio accanto alle architetture ardite e affascinanti del Pritzker Music Pavillon di Franck Gehry c’è The bean di Anish Kapoor (quella sorta di fagiolo di acciaio lucidissimo che in pochi anni è diventato uno dei simboli della città) e poi, in

giro, ovunque, tante altre opere di artisti contemporanei. Raccontano un rapporto importante, costruito nel tempo, tra una comunità e l’arte contemporanea. Lo so che non c’è bisogno di andare così lontano, di arrivare fino a Chicago, per raccontare queste cose. Ma a me è capitato di trovarmi proprio lì e di riprovare quella sensazione di tristezza e anche di vergogna per le condizioni in cui è stata ridotta la nostra città. Ora, il punto è: che città stanno lasciando gli attuali amministratori dopo più di 10 anni di governo di centrodestra? Quale condizione di degrado civile e di indifferenza delle coscienze si è determinata

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nella comunità se neppure la denuncia di uno sfregio così volgare e grave è riuscito a richiamare i diretti responsabili al dovere di rendere conto del loro operato e a scuotere la società civile da un torpore assuefatto e complice? Il Sindaco risponda alle domande che da alcuni mesi più di mille cittadini gli pongono. Spieghi che progetto ha in mente per i Cantieri della Zisa. Si confronti con uno dei grandi fallimenti della sua gestione della città. E chieda scusa a Palermo e agli eredi di Tadini per lo sfregio che uno dei più grandi artisti del Novecento ha dovuto subire.

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Catania, la città ripiegata su se stessa che non sa più guardare al futuro FRANCESCO CONIGLIONE Docente Università degli Studi di Catania ’era una volta, negli anni ’50, una Catania che guardava al futuro con fiducia, spavalderia e certezza delle proprie possibilità: città industriale, borghese, attiva, tradizionalmente di cultura grazie all’università più antica della Sicilia, la seconda del meridione. Una città che si contrapponeva polemicamente alle altre realtà siciliane, in particolare al capoluogo, guardato con sufficienza e un po’ di derisione per la sua vanagloria e la sua futilità, ma in fondo con un po’ di invidia quale centro del potere e della burocrazia regionale. Catania sembrava appartenesse ad un’altra Sicilia: alla Magna Grecia, a quella dinamica, attiva, ricca di cultura. Che appunto guardava al futuro e progettava in esso. È sembrato che questa Catania potesse risorgere nella breve stagione della sindacatura Bianco: il sindaco “ciuraru”, accusato di chissà quali maneggi per la sua passione floreale, pareva aver ingenerato un nuovo senso di civismo, un nuovo ordine e puntualità nei servizi comunali, persino nella circolazione, e aver favorito la rinascita del centro storico prima abbandonato all’anomia e al degrado del buio e della piccola delinquenza. Ma questa stagione – che con Nello Musumeci, presidente di destra della provincia, aveva instaurato una concorrenza in positivo – questa “primavera di

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Catania” (così come è stata definita in un recente volume di Carlo Lo Re, pubblicato quest’anno da Bonanno) è durata poco. La fine naturale dell’esperienza amministrativa di Musumeci e il termine prematuro della sindacatura Bianco, il quale preferì il Ministero degli Interni alla prosecuzione e fine del proprio secondo mandato, ha posto le premesse per una svolta che ancora segna la vita della città etnea. I catanesi forse non hanno perdonato a Bianco il “tradimento” della propria città per inseguire ambizioni nazionali; forse lo stesso sindaco della “primavera” non ha saputo creare quelle condizioni al contorno, quella squadra di governo dotata delle necessarie personalità che potessero prenderne il posto. Sta di fatto che nel 2000 ad amministrare Catania giunge Umberto

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Scapagnini, medico personale di Berlusconi e dispensatore dell’elisir di lunga vita che sembra ne assicuri – secondo le vanterie dello stesso farmacologo – la vitalità e le sempre inesauste energie (e ora sappiamo anche di che tipo…). Con l’esperienza di Bianco sembrava fosse stata posta una tacca al di sotto della quale sarebbe stato impossibile retrocedere. Sembrava a tutti noi che – per un naturale processo di emulazione, per un comprensibile tentativo di proseguire su vie già ben tracciate – fosse impossibile ritornare alla Catania disastrata e mal amministrata degli anni Settanta e Ottanta. La realtà ha su-perato ogni più pessimistica aspettativa. L’amministrazione di Scapagnini sembra avere avuto lo stesso effetto di un nugolo di cavallette su un

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campo di grano. Il degrado è proseguito a ritmo di marcia, l’ordine e il senso civico che sembravano si fossero consolidati anche nel comportamento di solito anarchico e irregolare del traffico cittadino, si dissolsero giorno dopo giorno: abbandonata a se stessa Catania subiva le inevitabile conseguenze della legge dell’entropia. Tutto si disorganizzava, andava a rotoli, si degradava e il catanese scopriva nuovamente l’arte di arrangiarsi, di trovare il proprio protettore e di risolvere le proprie questioni attraverso la mediazione della classe politica e non nel rispetto delle leggi e dei regolamenti. La fine dell’amministrazione Scapagnini ha lasciato una città in dissesto: un deficit che si aggira a circa un miliardo di euro, ma le cui dimensioni non sono mai state chiarite a sufficienza in una girandola di cifre tra maggioranza e opposizione e con una informazione che rinunzia pregiudizialmente e complicemente a una propria autonoma ispezione e indagine conoscitiva. La Catania con molte zone al buio (anche quelle più centrali) perché non può pagare le bollette della luce è il simbolo più evidente del tunnel nero in cui è precipitata. La luce si può accendere grazie all’intervento “miracoloso” del nuovo patrono della città, che nelle tasche e nei cuori dei catanesi sembra aver sostituito Sant’Agata: grazie a Berlusconi che elargisce 140 milioni - dirottandoli dalle cifre che il Cipe aveva concesso per la realizzazione di alcune opere urgenti –è possibile riaccendere la luce a Catania. Ed è così possibile

anche evitare la dichiarazione del dissesto finanziario. Ma quanto a lungo questo durerà, quando i nodi verranno al pettine? L’amministrazione del sindaco Stancanelli cerca faticosamente di mettere in-sieme i cocci, di rattoppare buchi; ma manca un autentico slancio innovativo, un progetto di città, un’idea di futuro. Si ha oggi l’impressione di una città rattrappita, chiusa su se stessa, con i ceti sociali occupati nella occhiuta difesa dei propri interessi, coltivati attraverso il bricolage clientelare, i rapporti personali, lo stare “coperti” in maniera di meglio piazzarsi allo spostarsi degli equilibri, così da meglio sfruttare le proprie piccole posizioni di privilegio. Una città il cui ceto intellettuale ha abbandonato ogni tentativo di testimonianza, ogni atteggiamento propositivo, rinchiuso nei fortilizi dei propri dipartimenti universitari in attesa di grattare qualche prebenda, di ricavare qualche piccolo privilegio e così tirare avanti. Una

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città un cui non esiste più una classe operaia, un ceto popolare dotato di una cultura democratica e progressista: la televisione, il disgregarsi del tessuto sociale, la precarizzazione del lavoro ha reso tutti più egoisti, più cattivi, più disinteressati delle sorti collettive. E oggi paradossalmente la parte progressista della città si manifesta nei quartieri-bene, mentre quelli prima tradizionalmente orientati a sinistra - le periferie di Monte Po, Librino, Fossa della Creta - si sono berlusconizzati (così come dimostrano le elezioni perse da Bianco contro Scapagnini), raccattando della cultura borghese i suoi cascami, le sue risulte più insulse, i suoi miti più beceri e qualunquisti. Nuovamente Catania ha la necessità di riscoprire il futuro, di guardarlo nuovamente con fiducia, di credere nuovamente in se stessa e di pensare che è possibile “un’altra storia”.

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La crisi delle città

“Noi catanesi, condannati all’illegalità di massa” FRANCO GARUFI na città sospesa sul nulla: questa l’odierna condizione di Catania. Il tessuto sociale della seconda città siciliana, dodicesima in Italia per numero di abitanti, dà evidenti segni di sfaldamento, le prospettive di ripresa economica restano assai incerte per il venir meno dei tradizionali punti di forza nell’industria manifatturiera, l’abnorme espansione della grande distribuzione organizzata e della speculazione immobiliare ha arricchito alcuni ma impoverito la piccola borghesia legata al commercio e alle attività terziarie. Come se non bastasse il sindaco a metà tempo (fa contemporaneamente il senatore della Repubblica) è imputato nell’ambito di un’inchiesta sui servizi sociali; perfino la Procura della Repubblica è da mesi in attesa della nomina del nuovo responsabile. Un destino parallelo accomuna le due metropoli siciliane: protagoniste della “primavera dei sindaci” negli anni ’90 del secolo scorso, sono entrambe, oggi, vittima del malgoverno amministrativo e dell’assenza di un credibile progetto di sviluppo. Se le città meridionali rappresentano il luogo di maggior evidenza della crisi economica e sociale che ha investito il Paese, Catania è il territorio, dove le contraddizioni rischiano di diventare esplosive. Il bilancio del Comune, devastato dagli otto anni della gestione Scapagnini, venne salvato dall’intervento provvidenziale del

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governo nazionale, ma nessuno dei problemi strutturali della macchina amministrativa è stato risolto. Da vent’anni si continua a discutere del piano regolatore mentre la grande proprietà immobiliare, che in parte non piccola coincide con i titolari degli organi di stampa e delle emittenti televisive locali, ha orientato secondo i suoi voleri l’uso e l’abuso del territorio. Basta guardare alla cinquantennale, e ancora irrisolta, vicenda del Corso Martiri della Libertà (la grande area rimasta libera al cen-

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tro della città dopo l’abbattimento all’inizio degli anni ’50 del quartiere di san Berillo) per rendersi conto che lo scontro tra i principali poteri economici ha annullato qualsiasi azione pubblica di programmazione della crescita urbana. La vittoria elettorale di Scapagnini nel 2005 fu frutto anche dell’’uso spregiudicato della protezione civile e dei fondi che avrebbero dovuto servire alla messa in sicurezza dal rischio sismico per aprire dissennati cantieri di posteggi sotterranei, in gran maggio • 2011 • N.4


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parte ancor oggi bloccati dall’intervento della magistratura. Lo scopo immediato era guadagnarsi il consenso elettorale di una serie d’imprese, ma l’operazione ha determinato anche nuovi equilibri tra i potentati economici cittadini. Equilibri ancora inalterati, giacché Stancanelli si è limitato ad amministrare ragioneristicamente i tagli al bilancio, ripristinando il livello minimo di funzionamento dei servizi essenziali, dopo che l’Enel aveva perfino minacciato di spegnere l’illuminazione delle strade. La città ha continuato ad andare alla deriva, si è aggravata la crisi delle funzioni produttive e del terziario qualificato che avevano conosciuto nell’ultimo scorcio del decennio una significativa ripresa dopo la crisi generata dal crollo sotto il peso dei debiti e dei guai giudiziari della non rimpianta economia dei “cavalieri del lavoro”. Le alterne vicende del distretto d’imprese ad alta tecnologia da costruire attorno alla STM (l’“Etna Valley”) testimoniano dell’assenza negli ultimi anni di un’idea di politica industriale in un’area del Mezzogiorno potenzialmente in grado di competere sui mercati internazionali. Il trasferimento nella città etnea del baricentro del potere politico regionale dopo l’elezione a presidente di Raffaele Lombardo non ha portato alcun vantaggio alla città, anche per il progressivo esaurirsi degli spazi di spesa assistenziale a carico del dissestato bilancio regionale: ciò ha fatto venir meno alcuni tradizionali elementi di scambio tra il potere politico e fasce del sottoproletariato urbano,

a volte legate ad attività malavitose, che costituiva un tradizionale serbatoio di voti del centrodestra. Tutt’altro che estraneo a quest’evoluzione è il tentativo di risolvere “manu militari” la vicenda del palazzo di cemento di Librino, una delle vergogne di una città condannata all’illegalità di massa. Illegalità di massa che è l’altra faccia della crescente influenza che la mafia esercita sull’economia, anche in settori in apparenza legali , come è stato messo in luce dalle denunce del presidente di Sicindustria Ivan Lo Bello e dall’iniziativa di Cgil-Cisl-Uil. Infine, è percepibile il venir meno di un ruolo propulsivo dell’Università che sempre più appare intenzionata a chiudersi in logiche autore-

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ferenziali. Un quadro pessimistico; è vero; ma tutt’altro che rassegnato perché, se si scava sotto la superficie, s’intravedono forze, a partire dal mondo giovanile, capaci di mettere in discussione lo stato di cose esistente. Ciò che serve è prendere atto del respiro corto e asmatico delle attuali forze politiche, aprire una discussione pubblica sulla città e sul suo futuro, costruendo luoghi di partecipazione capaci di far rimettere radici nel territorio a una democrazia che è stata privata delle sedi e degli strumenti per realizzarsi. E’ una strada difficile, ma quanto sta avvenendo in questi giorni in altre città, dimostra che è l’unica a produrre risultati positivi.

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La crisi delle città

Intervista ad Antonio Presti “Vi racconto la mia Librino” CARMEN VELLA a dieci anni Antonio Presti coltiva un'utopia. La sua utopia si chiama Librino, una sorte di "città-satellite" di circa 100.000 abitanti, in un territorio lasciato ai margini, privo di infrastrutture e di servizi, alla periferia di Catania. E’ qui che l'ideatore di Fiumara d'arte, "il sognatore che realizza i propri sogni" (come lo ha definito lo scrittore israeliano Meir Shalev ) coltiva l'utopia della bellezza e dell'arte come forza etica. In questo spazio della contemporaneità, un non luogo che nega cittadinanza ai suoi abitanti, ha scelto di investire sull'arte ritenendola occasione di riscatto, d'incontro, di scoperta, di gioia e di bellezza. La Fondazione Antonio Presti - Fiumara d’Arte da un decennio dedica il proprio impegno sociale e culturale alla rinascita del quartiere; tante le iniziative organizzate negli anni nell’ambito del progetto “Terzocchio - Meridiani di Luce”, un percorso etico e formativo di “devozione alla bellezza” per le nuove generazioni, un progetto culturale che sta contribuendo a promuovere un rinnovato senso di identità e appartenenza degli abitanti al loro territorio. Ce lo racconta lui stesso, Antonio Presti, rispondendo alle nostre domande. Come e quando è nato il progetto su Librino? “Io amo la città di Catania, e nell’amare la città da straniero (io sono nato a Messina) l’ho subito percepita nel suo senso più ampio

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di polis, dove non ci sono luoghi di male e di bene. Dieci anni ho conosciuto Librino, un quartiere che era nato come un simbolo della Catania nuova, moderna, del vivere contemporaneo, uno spazio risolto in chiave verticale, dove sul piano orizzontale spesso mancano la vita, i servizi, la gioia, il sociale. E’ un luogo dove la gente va solo per dormine, una sorta di grande quartiere dormitorio. Quindi, ho pensato che solo l’amore, l’attenzione ed il rispetto può trasformare alchenicamente questo quartiere”. Quali sono ad oggi i risultati prodotti nel corso degli anni? “Sono passati 10 anni di attività

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sociale. Quando sono arrivato a Catania e ho scelto Librino ho capito che lì avrei potuto continuare il lavoro già intrapreso a Castel di Tusa, a Fiumara d’Arte. Ma ho trovato un luogo lasciato a se stesso. Il percorso quindi non è stato facile perché inizialmente, insieme alla mia Fondazione, abbiamo dovuto affrontare la diffidenza di migliaia di persone più volte illuse e disilluse. Siamo partiti dalle scuole e a poco a poco abbiamo perseguito, specialmente nelle scuole con i più piccoli, la pratica del fare”. Qual è stata la risposta della gente che lo vive e abita? “Io voglio che tutti si sentano protagonisti e partecipi dei miei promaggio • 2011 • N.4


Dossier

getti socio-culturali. Ed è per questo che organizzo delle feste condominiali e nelle scuole, in cui gli abitanti del quartiere incontrano i poeti, gli artisti, e vivere in modo autentico un’esperienza irripetibile con la cultura”. Come è cambiato il quartiere? “Gli abitanti di Librino hanno capito la mia onestà e il grande dono culturale che hanno ricevuto. Quando lo spirito del dono è forte e sano e viene percepito come disciplina, anche in momenti di dubbio o di paura, si ha la forza per continuare. Io e la mia equipe abbiamo impiegato dieci anni per farci conoscere al quartiere, e avere fiducia l’uno dell’altro. Per me Librino ha assunto un grande

valore, quello della semina. Non c’è niente di più bello che avere come raccolto sempre altra semina”. Con il suo progetto lei ha trasformato una realtà rendendola gradevole gli occhi e dandole una connotazione sociale, cosa era mancato fino a quel momento a Librino? “Intere generazioni sono state formate a chiedere e non a fare. Non si tratta di spostare le logiche centro-periferia; non si tratta di far divenire Librino la città di Catania, né di recuperare o reinserire Librino nel circuito catanese. Si tratta precisamente di offrire a Librino i mezzi della sua propria autonomia. Non penso che Librino

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deve inserirsi rispetto alla città di Catania. Famiglie, scuole e chiesa devono educare al fare e non al chiedere. Così, Librino diventa non un luogo da recuperare, ma da rispettare. La società si deve assumere la responsabilità di aver creato come luoghi della contemporaneità Librino a Catania, lo ZEN a Palermo, Scampia a Napoli, ecc”. A Librino si sente il peso delle istituzioni? “Le istituzioni seguono il proprio percorso mirando alle classe sociali per un proprio tornaconto politico. La mia cultura segue un altro percorso, vuole concorrere a una manifestazione di Bellezza che deve puntare sugli stati emomaggio • 2011 • N.4


La crisi delle città

zionali di ciascuno di noi e lì non c'è differenza né di ceto, né di età, né di luoghi”. Lei ha messo a disposizione del quartiere Librino il suo impegno civile e culturale, crede che questi strumenti possano davvero cambiare la realtà difficili del territorio? “Desidererei che il quartiere di Librino diventasse meta di interesse culturale per i catanesi, i siciliani e per i turisti provenienti dall’aeroporto, prima di tutto come atto civile, in secondo luogo perché hanno l’occasione di trovare a Librino una Porta della Bellezza monumentale e meravigliosa, realizzata con 2000 bambini. Dal

momento che il museo è una donazione privata, al posto del costo di quel biglietto ipotetico di ingresso, è giusto che i visitatori si impegnino a spendere l’equivalente simbolico di quel biglietto all’interno del territorio di Librino. Questo impegno non solo potrebbe concorrere al cambiamento ma, al tempo stesso, può creare un indotto economico e di sviluppo”. Secondo lei l’arte non è solo estetica dell’apparire, che cos’altro è e che cosa significa per una realtà come quella di Librino? “Non credo che Librino debba affermarsi rispetto a Catania grazie

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all’arte. Librino diventa il luogo dove l’arte rappresenta il cambiamento. Librino rinasce, si evolve, cambia aspetto con nuovi eventi. Con il museo internazionale della fotografia, ancora una volta la mia Fondazione dona identità al quartiere. In questo senso le immagini che la mia organizzazione, che guida un equipe di fotografi diretti da un grande fotoreporter internazionale, Reza, diventano strumento di consapevolezza di sé, ma anche di unione e di crescita sociale. Ognuno degli abitanti, ogni giorno, tornando a casa, riconoscerà la propria bellezza, la bellezza dell'anima proiettata nelle facciate del quartiere e affermerà

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“Io sono bello”. Vedrà la spiritualità, si sentirà un cittadino rispettato e valorizzato, crederà nella bellezza del proprio quartiere. Ma lo stesso vale per chi non abita a Librino. Quanti saranno coinvolti vedranno nel quartiere un luogo familiare dove emozionarsi e restituire spiritualità, vedranno le loro immagini scorrere nella notte, saranno parte integrante di un museo dell’immagine unico al mondo”. A Librino l’impegno civile passa attraverso la riqualificazione estetica, secondo lei il recupero e la valorizzazione di quartieri a rischio e realtà degradate può risolversi attraverso la via della bellezza?

“Non mi piace il concetto di recupero dal disagio. Librino oggi, vivendo veramente una sua contemporaneità, può scegliere di diventare anche altro. E non è la cultura che va a imporre il suo linguaggio, il suo presidio, il suo valore di essere. La cultura deve fare un percorso di condivisione, con gli abitanti, con i bambini, con il quartiere intero”. Librino come lo Zen, potrebbe esserci in futuro un destino comune per due realtà così uguali in due città diverse come Catania e Palermo? “Il mio concetto di arte e di bellezza può essere compreso e condiviso anche da chi non si sia mai

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confrontato con un manuale d’arte. La cultura di cui parlo è in effetti politica. A Librino, l’idea è stata quella di abbattere il limite dell’essere periferia e ridare al quartiere una sua centralità all’interno della polis catanese. Il mio progetto di Palermo, “Io sono il fiume Oreto dell’umanità, rappresenta un impegno morale, culturale ed educativo: il fiume è una scelta simbolica, un luogo dimenticato da cui ricominciare per fare riaccendere la voglia di riscatto, un fiume che scegliendo il valore della Bellezza rinasce a nuova vita. E lo Zen verrà coinvolto in questo progetto”.

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Buone pratiche

Emergenza casa a Palermo Una battaglia di democrazia ANTONELLA MONASTRA omincia lontano nel tempo la battaglia per la casa a Palermo. Lunghi anni di attese, occupazioni, brutali sgomberi, presidi davanti i luoghi decisionali giunti al culmine con un’ assemblea permanente nell’aula del Consiglio Comunale, durante la quale una trentina di famiglie senza casa per quasi venti giorni abitarono a Palazzo delle Aquile. Il fatto è stato raccontato in un documentario di Stefano Savona, che ha già vinto diversi premi e che in questi giorni viene presentato a Cannes. Ma la storia continua ancora, con denunce, momenti di tensione con le forze dell’ordine, tragedie (come la bambina che abitava in un container di via Messina Montagne, spentasi poi al termine di una lunga malattia) e qualche momento di assoluta felicità, come quando Toni Pellicane, leader del movimento dei senza casa, raccolti nel comitato 12 luglio, si è visto dare ragione dal Tribunale, proprio nei giorni scorsi, su un ricorso presentato per un'abitazione confiscata alla mafia e ottenuta in concessione nel 2004 a villaggio Santa Rosalia, per canoni di locazione indebitamente percepiti dell’Amministrazione. In questo scenario si colloca un complesso lavoro di nuova messa a punto del regolamento sulla casa. In realtà il regolamento preesistente era stato il frutto di anni di lotte in piazza con il Comitato 12 luglio, accompagnato da

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vari soggetti politici, tra cui Libera, e di lavoro istituzionale da me condotto. Insieme all’articolazione di svariati strumenti, come il buono casa o i contratti di locazione diretta da parte del Comune, che dessero gradatamente risposta al disagio abitativo in relazione alla sua gravità, fu introdotto anche un principio fondamentale: l’utilizzo delle case confiscate ai mafiosi per l’emergenza casa. Molto rapidamente però, con lo sperpero di denaro pubblico e con l’azzeramento dei fondi di bilancio su tutto l’ambito del welfare, l’unica risposta rimasta al disagio abitativo è stata l’utilizzo delle case confiscate ai mafiosi; va rilevato per altro che mentre le assegnazioni di beni confiscati alle associazioni più disparate procedeva allegramente ricordo le vicende sollevate dalla trasmissione “Striscia la Notizia” - i beni venivano

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assegnati agli indigenti col contagocce malgrado la drammaticità delle loro condizioni. Il risultato di questa gestione fallimentare dell’amministrazione Cammarata è stato da un lato l’incancrenirsi di tante situazioni drammatiche risolte spesso con sistemazioni in alberghi e locande costosissime per l’amministrazione stessa, che con le stesse somme avrebbe addirittura potuto acquistare alloggi o ristrutturare il suo patrimonio, anziché procedere ad una cartolarizzazione che pochi frutti ha dato ad oggi; dall’altro lato si è assistito al lievitare sconsiderato della graduatoria dell’emergenza, che ha messo insieme differenti tipi di disagio abitativo dando una unica ed insufficiente tipologia di risposta, il bene confiscato, e creando ingiustizie e guerre tra poveri. È con la complessità di questi problemi che mi sono misurata, insieme alla IV Commismaggio • 2011 • N.4


Buone pratiche

sione Consiliare di cui sono componente, e con la quale, a fronte di un Sindaco che addebitava al Consiglio Comunale la responsabilità di una soluzione al disagio abitativo, spacciando il regolamento come la soluzione a tutti i problemi, abbiamo portato a termine un lavoro molto articolato, che ha ristabilito alcuni principi fondamentali: il regolamento è solo uno strumento, ma le risposte e le responsabilità attengono a chi governa la città; se non si investe denaro, se non si attuano politiche abitative senza implicare nuova cementificazione, se non si considera il problema dei senza casa un dato ormai strutturale nelle realtà metropolitane, continueremo ad assistere alle scene strazianti di bambini che giocano vicino alle fognature o di abusivi ”per necessità” trattati come i peggiori delinquenti. Dopo mesi di lavoro posso affermare che l’avere utilizzando un metodo democratico e di forte condivisione, che ha coinvolto le forze politiche e i destinatari stessi del provvedimento, con il supporto degli uffici, ha permesso di arrivare ad una vittoria su tutti i fronti. Ritengo che la vera conquista è infatti da ascriversi alle modalità con cui abbiamo raggiunto alcuni fondamentali obiettivi. Abbiamo predisposto strumenti per rispondere all’emergenza casa registrando il consenso unanime dell’assemblea consiliare, che si pronunzia sull’emendamento da noi formulato entrando nel merito del sistema dei punteggi per l’assegnazione degli alloggi e met-

tendo al centro le situazioni di reale emergenza abitativa. Vale di più, ai fini della graduatoria, la condizione di gravità del disagio piuttosto che la composizione numerica dei nuclei familiari, con la possibilità di vedersi assegnato un bene confiscato alla mafia, ove disponibile. La lista delle situazioni che corrispondono al grave disagio abitativo contempla sistemazioni borderline, e non solo, che si fa fatica ad immaginare come possibili nel nostro tempo e

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nel nostro paese, ma che devono far riflettere; l’articolo 26 bis del V titolo del regolamento emendato annovera infatti baracche, stalle, grotte, caverne, sotterranei, soffitte, garage, cantine, container: nessuno può vivere in queste condizioni. Per ciò che riguarda le vicende più antiche la palla deve necessariamente passare all’amministrazione attiva, invece. Vi sono delle categorie “storiche”, come gli abitanti di “Casa Guzzetta” , che hanno visto nascere e crescere i loro figli sballottati per una decina d’anni tra opere pie e alberghi; oppure gli assegnatari di via Brigata Aosta, immobile requisito nell’era orlandiana che viene reclamato oggi dai proprietari, vincitori di una causa contro l’Amministrazione che dovrà sgomberare una palazzina con una sessantina di famiglie, di cui più di trenta con documenti di assegnazione; od ancora gli abitanti del campo container, assurti alla gloria della cronaca nazionale per vari servizi giornalistici che hanno mostrato la drammaticità della loro condizione di vita. Per costoro il Sindaco e la Giunta devono avviare un tavolo tecnico, anche con la prefettura, per trovare delle soluzioni specifiche a prescindere dal regolamento: questi cittadini vivono in condizioni di grande precarietà ormai da troppo tempo e credo che la loro “anzianità” di disagio debba finalmente trovare soluzione compatibile con una dignitosa qualità di vita.

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Buone pratiche

“Il mio laboratorio musicale nella discarica sociale di un Opg” ORAZIO CARNAZZO volontario presso l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto ENTE ANIMO CAPTIS. DAMNATIS LEGIBUS AEQUE. APTA DOMUS, MAGNA HAEC. STUDIOSA CONSULTI ARTE. La scritta in latino posta in alto, nella parete frontale davanti al secondo cancello dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona P. G. separa il cosiddetto mondo normale dalla follia e sembra voglia lanciare un monito: “Quelli che vivono qua dentro sono i dannati, lo scarto, quelli che la società non vuole vedere in circolazione”. Per me quella scritta ha sempre avuto questo significato. I cancelli, spingono i visitatori a non farsi troppe domande, da quel momento è inutile chiedersi se chi li ha oltrepassato come malato di mente o come detenuto, possa avere avuto una vita, degli affetti, delle storie, un passato. “Chi vive qui dentro non esiste”. Qualche anno fa fui invitato a suonare per gli internati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellazzo, conobbi così una realtà fino ad allora per me sconosciuta. Ci ritornai per mia iniziativa qualche giorno dopo. Chiesi le autorizzazioni necessarie e ci ritornai ancora. Entrare non è facile, bisogna superare prima di tutto la diffidenza della guardia: “Avete telefonini? Per piacere metteteli nel cassetto”, una smorfia tradiva i suoi pensieri “chi cazzo glielo fa fare a questi di venire qua?” Si dice che la mente

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umana sia un pelo di capello e questa porta è il pelo di capello oltre il quale finisce la ragione e inizia la follia. Ho fatto il volontario all'interno di questa struttura per quasi dieci anni e ogni volta la sensazione era come la prima volta, entravo verso le ore 18, l’ora della socializzazione, quella che una volta era chiamata ora d’aria e uscivo alle 20. Con la collaborazione di alcuni internati avevamo costituito un laboratorio musicale, la Direzione ci aveva assegnato la stanza destinata alle attività ricreative dell'ARCI e ci incontravamo due volte la settimana. L'entusiasmo era notevole e svolgeva senza volerlo un’attività terapeutica, per tutti, anche per me, era una sensazione di rilassamento. Quando arrivavo mi dovevo sbrigare a recuperare gli altri, non tutti erano a spasso nello spiazzale alberato, alcuni li dovevo cercare nelle celle/stanze

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perché c’era chi stava attraversando particolari momenti di depressione e voleva rimanere da solo. C'era chi era stato imbottito di psicofarmaci e non aveva la forza per stare in piedi. Lo spazio che ci separava dal reparto sembrava la piazza di un piccolo paese in un giorno di festa: la folla, gli alberi di arance, i portici, il chiosco con le bibite, il caffè gestito dagli stessi internati e i sedili di ferro. Lo stato di salute mentale di quelle persone si percepiva d’istinto. Per loro parlava il loro sguardo, si vedeva a prima vista. L’espressione, il modo di vestire, il modo di camminare, il modo di guardarti, il modo di salutarti. Li vedevi dondolare avanti e indietro a piccoli gruppi, alcuni molto velocemente, altri seduti nelle panchine di ferro. Questo posto è l’altra faccia della medaglia, un posto dimenticato, un carcere ma anche un ospedale. Né carne e maggio • 2011 • N.4


Buone pratiche

né pesce: un tentativo riuscito male di eliminare i manicomi criminali, la legge Basaglia avrebbe voluto questo? Le persone che vivono in questo boccaporto sono lo “scarto” della società, quelli “riusciti male”, con le “rotelle guaste”, che la società ha selezionato e messo da parte, come il crivello che seleziona la farina dalle impurità, fa passare la farina e non le impurità, quelle verranno gettate nella spazzatura. Mentre attraversavo il corridoio esterno la figura maestosa di Aldo mi veniva incontro sorridente e sereno, con passi leggeri ed effeminati. Quasi sempre da solo, era grande e grosso, il tono della voce cortese, le sue sopracciglia pulite. Non era sempre così. C'erano occasioni in cui Aldo diventava un elefante impazzito e per tenerlo fermo era necessario l'intervento di parecchie persone fra polizia penitenziaria infermieri e internati. La sua bambolina di lattice con i vestitini sexy sempre stretta fra le mani. La sua Barbie, poco più grande della sua stessa “manona”, gli faceva compagnia. Anche Francesco era grande e grosso, le mani obese non gli permettevano più di suonare la chitarra, una volta era un bravo musicista, poi è subentrata la depressione che ha annullato completamente la sua personalità. Francesco mi diceva, gli angeli mettono incinte le donne della terra, cosi da essere prima o poi tutti noi figli degli angeli; vi sono periodi in cui mi diceva di essere un tagliatore di teste o che comunicava con gli extraterrestri attraverso il pensiero. Altre volte

mi diceva di essere un nazifascista. Si avvicinava anche Giuseppe, che si separava dal suo gruppo, attraversava l'aiuola e ogni volta mi chiedeva se fosse stato inserito nell’elenco del laboratorio, mi diceva sempre che voleva suonare la tastiera perché voleva suonare a messa. Qualche volta improvvisamente mi afferrava per il polso, mi avvicinava a sé, con aria furtiva mi sussurrava a voce bassa, quasi avesse paura di essere ascoltato: “Stai attento a mia figlia perché è cattiva e pericolosa e ti vuole fare del male”. Giuseppe aveva modificato i fatti, perché egli stesso aveva ucciso sua figlia. Giorgio, un altro ricoverato invece era un internato dall'aspetto gracile. Piccolo, magro e gli occhiali da miope. Sempre serio, mi aspettava sempre dietro la porta, sapeva quando arrivavo. Giorgio era un ragazzo molto sensibile e introverso. Era ricoverato lì dentro perché aveva ucciso il suo compagno e poi ne aveva bruciato il corpo. Gli infermieri sono una specie di “scarto” degli ospedali civili. Si raccolgono a

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piccoli gruppi nell'ora della socializzazione, il camice bianco li differisce dagli internati. La polizia penitenziaria non ha fatto mai un corso di formazione, provengono quasi tutti da carceri varie e quindi non hanno una mentalità adatta ad un ospedale psichiatrico, loro vedono solamente il lato giudiziario di quella struttura e quindi improvvisano. E’ una sorta di vera e propria contraddizione l'OPG di Barcellona P.G. Avevamo stretto una sensibile e impercettibile amicizia, a me piaceva ascoltare e a loro piaceva parlare. Il tempo fra le mura è strano, varcato l’ultimo cancello avevo l’impressione di entrare in un luogo astratto dove il tempo stesso subiva un rallentamento, chi sconta una pena lunga interrompe la sincronia con la realtà e vede passare l’evoluzione e il trascorrere degli anni solo attraverso la televisione. Quando rientrerà nel mondo esterno si sentirà come la ruota di una macchina che gira più lenta delle altre tre. Ci sono ritornato pochi giorni fa, la realtà è peggiorata. Prima gli internati erano 160 adesso sono 380. Il turnover nella Polizia penitenziaria è inesistente di conseguenza l'ora della socializzazione è scomparsa o si svolge nei corridoi interni. Gli OPG devono essere chiusi e sostituiti da strutture ospedaliere di competenza del Ministero della Sanità, non è ammissibile che una società che si dice civile e democratica fa di tutto per dimenticare queste realtà.

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L’Antisociale Access with password

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Dossier SEDE NAZIONALE via Mariano Stabile 250 Palermo tel. 0918888496 fax. 0918888538 www.unaltrastoria.org

REFERENTI LOCALI DI UN’ALTRA STORIA MAGAZINE Agrigento: TIZIANA LANZA / tizzilanza@alice.it Caltanissetta: FRANCESCA GRASTA / francesca.grasta@gmail.com Palermo: ANGELA SOLARO / angela.solaro@gmail.com Siracusa: RITA PANCARI / ritapancari@virgilio.it Catania: GIUSEPPE PILLERA / giuseppepillera@libero.it Messina: VERONICA AIRATO / francasidoti@tiscali.it Trapani: PIERO DI GIORGI / pierodigiorgi@gmail.com Enna: SALVATORE PASSARELLO / salvopassarello@gmail.com

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