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FUOCOAMMARE di Gianfranco Rosi /Cinema
FUOCOAMMARE di Gianfranco Rosi
Documentario, Italia/Francia, 2016
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Recensione di Francesco Castracane
E’ ancora possibile trovare nelle sale, l’ultimo documentario di Gianfranco Rosi “Fuocoammare”. Con il suo precedente lavoro “Sacro GRA” il regista ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia, mentre con questo film, ambientato a Lampedusa, nel Febbraio 2016 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, raccogliendo le favorevoli opinioni della presidente della Giuria Meryl Streep, la quale ha dichiarato, dopo avere visionato il lavoro: “la compassione che esprime verso i suoi personaggi unita alla sua forza cinematografica nel combinare una questione politica a un racconto squisitamente artistico, coraggioso e struggente”. Va ricordato inoltre che questo film, ha vinto anche il premio Amnesty International 2016, sempre assegnato all’interno del Festival di Berlino. In occasione della premiazione il regista ha dichiarato: “Dedico questo premio a tutte le persone che non sono mai approdate a Lampedusa perché morte in mare e a quelle che invece sull’isola vivono” ha poi proseguito “I lampedusani, sono persone così aperte ad accogliere me come ciascuna donna e uomo che vi arriva, da ovunque. Loro hanno veramente il cuore aperto e a chi loro chiede il perché, rispondono che i pescatori prendono tutto ciò che arriva dal mare”. È importante che l’Europa – forse per la prima volta in maniera ufficiale – inizi a interessarsi a questo problema divenuto catastrofe umanitaria. E sinceramente non mi sta piacendo quello che vedo e sento in giro, perché le barriere di qualunque tipo, ma soprattutto quelle mentali non devono esistere, sono pericolosissime. La gente muore per fuggire dalle tragedie”.
Trama
Nel suo viaggio intorno al mondo per raccontare persone e luoghi invisibili ai più, dopo l’India dei barcaioli (Boatman), il deserto americano dei dropout (Below Sea Level), il Messico dei killer del narcotraffico (El Sicario, room 164), la Roma del Grande Raccordo Anulare (Sacro Gra), Gianfranco Rosi è andato a Lampedusa, nell’epicentro del clamore mediatico, per cercare, laddove sembrerebbe non esserci più, l’invisibile e le sue storie. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
Samuele è il bambino che Gianfranco Rosi ha scovato a Lampedusa e che rappresenta il nostro sguardo, quello degli europei che assistono un po’ sgomenti a una tragedia che pare essere inevitabile. Ma c’è anche il dottor Pietro Bartolo, il dottore dell’isola che ha assistito e soccorso migliaia di naufraghi.
Il film sembra essere attraversato dalla costante presenza dei quattro elementi. La terra, uno scoglio incagliato in mezzo al mare, rifugio di coloro che fuggono; Il cielo, grigio e nuvoloso, carico di pioggia; il fuoco dal quale scappano coloro che arrivano, e naturalmente l’acqua, elemento di costante presenza per chi vive su un isola.
Ma cominciamo dal titolo del film, apparentemente inspiegabile. In una sequenza la nonna di Samuele telefona a Giuseppe Fragapane, detto Pippo, che è il DJ della radio di Lampedusa “Radio Delta” che conduce “Canzonissima”. La nonna chiede di trasmettere la canzone “Fuocoammare” della quale esiste solamente una versione strumentale, poiché il testo è andato perso. E’ rimasta solamente la prima strofa “Chi focu a mmari ca c’è stasira”. Siamo nel 1943, a Lampedusa non c’era la corrente e la nave italiana “Maddalena” alla fonda nel porto viene bombardata e prende fuoco. L’evento rimane nella memoria dei lampedusani, che compongono una canzone il cui testo però si perde.
Forse è proprio qui la metafora importante del film: per noi europei gli sbarchi dei migranti sono solamente una musica di sottofondo. Conosciamo a malapena la prima strofa della canzone, ma poi non sappiamo altro. Ma la musica continua a suonarsi da sola, anche se noi non ne ricordiamo più il motivo.
ll lavoro di Rosi è quello che potremmo chiamare “Docufiction”, dove finzione e realtà si confondono, ibridandosi. Come molti autori contemporanei italiani, in questo film non si documenta la realtà, ma essa viene reinterpretata e riletta restituendola alla spettatore con una vena di autenticità che solamente il documentario può consegnare. E’ ovviamente un cinema di montaggio, pieno di allusioni, suggestioni, rimandi.
Il film ha però, a mio parere dei limiti. Tali limiti riguardano la messa in scena, l’uso delle riprese che in alcuni casi sembrano essere troppo studiate e ci sono un po’ troppi luoghi comuni sul meridione e alcune sequenze finali, forse avrebbero potuto essere evitate. Non a caso queste sequenze hanno ricevuto l’accusa di oscenità, a mio parere ingiustamente, per il fatto di mostrare la morte degli immigrati. Pornografia!, ha protestato qualcuno alla fine della proiezione stampa, accusando il film di sensazionalismo e di mostrare ciò che non può, non deve essere mostrato, la morte (e qui non possiamo non ricordare il famoso articolo scritto da Jacques Rivette su Cahiers de Cinema riguardo il film Kapò di Gillo Pontecorvo). C’è un limite alla rappresentazione della morte nel cinema? E se sì, qual è? Molti si sono turbati per l’inquadratura di Rosi che mostra la stiva di un barcone pieno di morti soffocati, di fame o di sete. Di solito chi si scandalizza per questo tipo di riprese, poi gode quando nei film si vedono morti ammazzati con sangue che scorre, cervelli che schizzano e arti che saltano. Certo, questa è fiction, quella è realtà. E allora, la realtà non va mostrata? Certo che sì, ma c’è modo e modo di farlo. E il confine fra lecito e morboso è molto sottile. A mio parere in questo film il confine è stato superato. Ma ritengo che considerare queste immagini oscene sia stata una accusa ingiusta.
Il film è comunque molto interessante da vedere, ma come anche nel suo precedente lavoro, “Sacro GRA”, alla visione rimane una sensazione di incompiutezza, di frammentazione che non si ricompone. E l’autore ci racconta moltissimo le storie personali dei lampedusani, ma non entra nelle vite degli immigrati, non ci spiega chi siano, quali siano i loro sogni, le loro aspettative. E’ questo forse è un altro limite del lavoro, la visione forse troppo etnocentrica del documentario.
Il film merita comunque di essere visto poiché rappresenta un tentativo, in buona fede e quindi proprio per questo meritevole di considerazione, d’illustrare una realtà che il cinema italiano, tranne alcune e lodevoli eccezioni, ancora non è in grado di raccontare.
Da non perdere.