2011 Picturae
2011 Picturae
Viottoli sassosi, polverosi, quasi bianchi, immersi in fredde ombre di neri alberi, sembrano svelare il tempo dell’estate. In questa terra di polveri antiche i segni di Sara appaiono con la sua pittura. Insieme è il viaggio e ci parla, inizia nell’anima e nel corpo, uniti nello spirito, nomadi viaggiamo. Ci accompagna il canto dell’acqua, la voce letizia del fiore di Loto che insegna la vita. Il senso sapiente di un sorriso tra il verde cristallino e il riflesso degli occhi di Silvia, lascia apparire il suo stagno; … in quell’acqua la vita è semplice e i pensieri si aprono e, ancora più in fondo, dentro ad ogni sguardo, ecco svelato il guizzo di ogni virtù. Giunge l’azzurro, è del cielo, e sull’antica città lascia cadere purezza dal cuore, dall’anima… è come il papavero rosso la veste che indossa; appesa sembra la Grecia. Anina pareva giunta alla fine del viaggio, ma insieme diventiamo viaggiatori e ci rincamminiamo tra le strade della memoria. Viaggiamo e impariamo da chi con pazienza segue. Come i suoi occhi, gli scarni spessori di una cubica forma, sembrano sgombri, ma appena si forma in sequenza, raccontano e si riempiano di vita e colori. E ti fanno tornare a vedere dove avevi visto, ma non avevi compreso le tante differenze delle nuove parole. E Valentin inizia in un giovane viaggio, il suo saluto di novità. Affascinante è Elisa, curiosa della bellezza, l’emozione conosce in lei la natura fino a congiungerle conoscenza… Fisso è lo sguardo nella ricerca , ecco rifletterli il suo grande quadro. Adesso tutto viene! si sente il sentimento… visibile si trasporta e su di loro assiso si manifesta. Tutto è emozione, da ogni parte si ascoltano le proprie porzioni: sul lento declinare del peso dei loro bagagli si osserva ancora… occhi profondi, ancora più affondo, ancora in se stessi a vedere quello che portano nelle profonde pupille. Vediamo di ognuno lo sguardo, più in fondo, più di tutti incontriamo nel frastuono chi perde la testa, ma è lì che trova e cerca, cerca per trovare una risposa e comprende, lo vuole.
Ancora di più lo vuole Jhonathan, ha trovato e calca la via… giunge nel tempo, nel cielo del divenire a contenere il venire e si vede girare la sua dimora fino al destino; dentro e oltre la ricerca, in ogni cosa, in nulla e in realtà in tutto. Zeljko è innamorato e si innamora della conoscenza e, tra gli spazi segreti, sa che deve perdere per trovare quel vento che vale in essenza; ed è infinita, incommensurabilmente bella nella distesa della fede, di cui l’assenza da forza per dire tutto del passato e vedere il futuro. Conosce la forza delle abitudini e rigetta col cuore ciò che non serve: sta lieto e non parla di ieri, ma da lontano sente il Lupo e il tempo arma la sapienza e guarda dal ventre dell’anima la sua speranza. E, di nuovo, in verso brilla l’inganno delle abitudini e stregati dal vanto ipnotico delle belle immagini, pensiamo allo smarrimento; non più speranza e a quel punto la nube ingannevole si desta dal fondo a impedire il viaggio…attesa, riguardiamo i nostri oggi , vediamo dentro, non perdiamo l’attimo e ci accompagna lo sguardo interiore fisso dentro di noi a vedere il fondo,… ed è quello che vuole Massimo. E ci accompagna ancora e ci lascia sentire fiorire il pieno dei fiori. Andrea segue e il respiro dei segni lo scopre e, lentamente, immerge nel tremolio fantastico della brezza del calore dei colori l’evanescenza di se. Nel viaggio varia l’attesa… è sospesa tra l’aurora e il tramonto, ma è ancora giorno, fino al cuore, nell’ora, fino alla gioia e il tempo… seduti in ascolto, ecco giungere gli esseri vagabondi di Dario, reclusi, forse, nell’incanto di un banchetto morboso, ma pur sempre veri e capaci, ci portano lontano a rivedere il tempo e poi domani. Tannaz
Tannaz Lahiji Traduzione da un pensiero poetico di Tannaz di Massimo Innocenti o
2011 Picturae
A cura di Massimo Innocenti
Opere di Zeljko Pavlovic Valentin Osadcii Danijela Radocaj Elisa Motta Silvia Leoncini Dario Moccia Andrea Biagi Sara Benetti Nanina Platsidaki Jonathan Tegelaars
Picturae
2011 LABA
Un catalogo non è mai un esauriente contenitore di specificazioni o esaustive certezze, o è meglio dire, la compiutezza di un lavoro. Un catalogo è qualcosa che descrive, che elenca cose da vedere e, se possibile, da riflettere. Ma quello che qui si presenta è un tentativo diverso, non tanto nella sua forma, che rispecchia totalmente il sistema del catalogo, ma quanto nella sua eccezione nel dimostrare un fatto, un progetto di dialogo e alla fine dar vita al fatto. La collaborazione, la comprensione, lo scontro, le emozioni, gli sguardi e tanto lavoro hanno guidato questo incontro e reso possibile qualsiasi manovra e ogni attuazione dei diversi progetti, dando vita ad un modello e di come si possa trasformare una lezione in un lavoro fortemente creativo e , lasciatemelo dire, artistico. Grazie alla costanza, alla passione di ognuno e alla forte motivazione di tutti, è stato potuto dettare un segno, una volontà e nelle pagine di questo lavoro, “di questo giornale di bordo utile sia in un transatlantico che in un peschereccio”, trovato diverse narrazioni di ogni storia e a ognuna resa la quotidiana contingenza del proprio racconto. I giovani artisti, questi artisti che hanno compreso il loro compito si sono valsi delle capacità delle conoscenze per elevare ogni tentativo verso un forte e appassionato desiderio culturale, spostando l’interesse su fatti ed emozioni, sentimenti e forze motivanti che li hanno portati all’esame di pensieri e impressioni. Grazie alla loro presenza, al piacere di condividere ogni sguardo, un sorriso, una lacrima, una sola parola è stato possibile vivere, imparare insieme la profonda magia dei sogni e delle inconsapevoli verità, ed insieme solcato quel limite e progressivamente allargarlo fino a renderlo un’afferrabile e volubile cantiere di rappresentazioni, dove l’eco orchestrale dei corrispondenti sentimenti diventava energia. Grazie a ognuno di loro, a questi volti giovani e comprensivi che ho potuto imparare a gustare il senso nascosto della follia e della ragione, a sentire il verso della parola fino a toccare il silenzio del suono. Grazie a Zeljko che con la sua commedia educativa ha segnato un limite per farcelo superare; grazie a Valentin che ha saputo, silenziosamente e con amore, donarci la fermezza e il giudizio discreto dell’accoglienza; grazie a Danijela che ha saputo reagire al frastuono dei sentimenti e si è spogliata di ogni indecenza per donarci solo virtù; grazie a Jonathan che ha visto l’impossibile e lo ha reso comprensibile fino a racchiuderlo in un divario poetico; grazie a Nanina che ha desiderato comprendere il suo volto e ha cercato di offrirlo come cibo degli dei; grazie a Silvia che ha fatto della passione la sua nuda esistenza fino a vestirla dei più desiderabili profumi; grazie a Andrea che ci ha portato i colori del tempo e il sapore della luce e con loro si è sospeso fino a toccare i lievi fili delle emozioni; grazie a Sara che non taceva la sua irrequietezza e ha fatto del sapore un gusto inesauribile; grazie a Dario che ha saputo cogliere l’attimo e se lo è portato nel cuore; grazie a Elisa che ha visto sbocciare il tenero respiro dei fiori e, inconsapevolmente, ci ha guidati nel suono naturale delle grazie. Grazie a tutti che mi hanno insegnato a comprendere e a saper valutare l’essenza delle virtù e mi hanno accompagnato in questo ultimo, emozionante viaggio. Massimo Innocenti
ANIMA
AE LOCUS Zeljko Pavlovic
PREMESSA
I discorsi e la tecnica Credere, cercare, ascoltare…Innamorarsi ad imparare…Esprimere un’ idea, un pensiero, affrontare la pittura e risolvere Il problema nel modo giusto. Lavorare, crescere, maturare. Abbracciare la padronanza del disegno, aprire gli occhi davanti alle nuove possibilità. I pomeriggi nell’ aula di pittura dell’Accademia dove dopo le ore di disegno cominciano i discorsi, nascono i pensieri, le domande, le opinioni. Accordi e polemiche. La poesia, le citazioni di un professore, che va al di là del mestiere, ma allo stesso tempo insiste sul mestiere e sul disegno sottolineando l’ importanza di essi, incuriosisce. Cominciano lavori “miei”: la ricerca , le giustificazioni, le tristezze…, diminuisce la confusione e si comincia a credere. Si recuperano i ricordi dell’infanzia… contemplazione, non violenza e sentimenti accesi da una profondita` dei segni che la luce porta dentro un spazio sacro. Borromini, un pensiero “complicato” rotto in innu-
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merevoli pezzi e ricomposto in una perfezione divina. Forza contemplative di un Michelangelo, come se l’Arte fosse un problema che bisogna risolvere… sentire e costruire… l’Arte Astratta e` questo? Allora, Borromini la conosceva prima di Kandinsky. La luce e lo spazio interiore portati su una superficie bianchissima e bidimensionale attraverso i tagli e le linee. L’ idea nasconde sempre qualche problema da risolvere, sembra quello che vuol dire Borromini, allora, l’Arte per me e` sempre stata questa, ed e` ancora. Zeljko Pavlovic
“Paesaggio”, olio su tela
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COMPLETA TRASFORMAZIONE “…O Dio che ombre Dentro il chiarore Delle saette! La Samaria annega al buio la morte tuona s’un cimitero di fresce aiole!” Pier Paolo Pasolini, da “La passione”
Spenta ogni luce superflua, in alto l’acrobazia di un segno ricade come sospeso tra lo sguardo e il suo stesso luogo. Oppure nella mente e` come se si completasse una trasformazione, oppure un solo volo bianco di rondine si lascia scorgere a tarda serata e l’anima scompone ad uno ad uno il tratto captato. Lo sguardo scavato si inoltra radente fino a sorvegliare l’uscita tortuosa di un cammino e, lieve e quasi in tracce, seguita a trattare ogni sembianza, finche` ogni guglia e colonna o spigoli al rovescio, crollano all’altitudine del silente suono e, bensi` si rovesci ogni interlinea nel sodale sbalzo dell’ essenza, furibonda appare la vista, ed ecco apparire la sostanza, in bianco, verso un nuovo sciame di forme e ardue dimensioni, in una acsesa spaziale e muta, restano sospese in un miscuglio di moto e d’immobilita`, le opera complete dell’ anima di Zeljko. Lavoro che trattiene, che lega la forza alla suggestione di un modo esplicato fino al punto di contrapporre all’ordine naturale la sua stessa contraddizione; una contemplata dimensione che accresce tra lo spazio e il respiro di un attimo. E’ tale che, anche la sua stessa scelta, quella fatta da Zeljko, non si traduce in una progressiva e totale armonia verso il creato, ma va diretta all’ innominabile e la sua arteficità, seguendo un evoluzionismo, lo accoglie tra la precisa emozione di uno spiritualismo assolto dalla troppa complessità simbolica. Zeljko sceglie un tempo e un concetto e con la calma esposizione riesce a tracciare un segno distaccato, quasi alienato dal suo stesso margine, per poi farlo rientrare nello spazio e nell’assenza di esso. Potrebbe sembrare una fedeltà mantenuta alla sua conoscenza, ma e qui che si libera un isolamento conoscitivo e il concetto si tramuta in bagaglio, in scelta preordinata per intraprendere un viaggio di fede. La ricerca, il lavoro, il disegno, la pittura di Zeljko si tramutano in mezzi prescelti e verso di essi lascia agire la forza delle immense energie e decide di orientare lo sguardo nel Santo, sfruttando ogni capacità ed ogni emozione. Zeljko sceglie un momento della fede dove l’illusione e lo sguardo
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si riempivano di ambiguità e dove l’arte ne era espressione riconoscibile, ma anche in questo non vuole un linguaggio visibile, ma riporta la sua “ estasi “ verso un tracciato asettico, lontano in apparenza dalla stessa volontà, ma che di questa sceglie solo i piccoli elementi che lo compongono: l’essenzialità di un luogo e della sua stessa evanescenza. Appare strano che la scelta artistica di Zeljko cada su l’arte barocca e di questa sceglie l’architettura di Borromini, ed e` in questa possibilità che si traduce in un linguaggio astratto, e basta vedere tra le orlature architettoniche e tutto sembra che parli da una linea all’altra. Il possesso dei giorni, con il tempo della riflessione e l’incontro dell’architettura del San Carlo alle quattro fontane, (S.Carlino), porta l’opera di Zeljko verso una chiarezza più grande, l’organismo della chiesa concepisce in lui una differenza e, tra la luce e l’ombra, si eleva il contrasto fino alla semplice funzione di un osservatore in un universo artificiale, orientando la salvezza verso l’apparizione di un segno, di un simbolo artigianale che si fa poetico. Il progetto di Zeljko e` fedeltà alla funzione corale o privata dell’ambiente, ma allo stesso momento solitario ritmo di risorse narrate. Infatti sceglie l’incontro della fede con il compimento di essa e tra le pareti e il vuoto si accorge del riflesso e da questo si lascia congiungere con la speranza e la passione. Zeljko e` fedele alla sua possible vertigine, configurando nel piano e nelle superfici l’arcano senso dialettico dello spazio e tra una deformazione e una descrizione, traduce un diagramma fino a farlo diventare l’anima del luogo. Zeljko opera come un architetto, fondendo in un’unica modanatura il meccanismo grammaticale dell’ordine e tra le righe e le materie riconosce il disegnere del tempo e di questo ne fa traccia e storia fino a ripercorrere la “Via” del dolore come forma di architrave, trasformandosi lui stesso in elemento portante, in modo di riflettere sul suo stesso ritratto che lambisce tra la penombra e l’assenza di luce e dove invisibili pianure si illuminano di bianco candore. La crisi della concezione formale e` punto centrale l’opera di Zeljko la manifesta fino al punto di sostenere la funzione dei sensi come sola evidenza del proprio lavoro, ma e` evidente che tra l’alta evanescenza e la semplice essenza traspare l’organicità del suo corpo e ogni elemento si traduce in gesto, in graffito radente tra le semplici scanalature di un versante sensitivo. Opera completa e` quella di Zeljko, lavoro in sintesi che non vuole esaurirsi in una ulteriore scomposizione, ma si mette coraggiosamente a disposizione dell’illusione e su questa strada ridisegna Michelangelo fino a farlo radere all’essenza della partenza, a quella cornice dell’interno che si scardina silente nell’esterno, identificando la trascrizione formale in un segnale variegato da molteplici emozioni. Qualunque sia il verso da cui si origina la scelta di Zeljko, rimane forte la sua caparbieta` emotiva fino al punto di sentire la sintesi come genesi di ogni elemento e, solo nella sintesi, tramutare la sera alla stella e la notte alla luna, ed insieme dimorare tra le lontane argille della intelaiatura della decorazione. Pausa questa della sostanza tra l’anima e lo scrigno del limpido messaggio. Massimo Innocenti
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ANIMAE LOCUS
ANIMAE LOCUS
Il luminoso paesaggio del bianco nello spazio e la prima formazione della luce sulle superfici dell’ interno e dove, sui muri bianchi si cominciano a tracciare infinita` di sentimenti spirituali e una continuita` di movimenti che soggiornano nello spazio arcitettonico, componendo una contemplazione tra le sensazioni e la percezione dello spazio. Sentimenti che nella mente dello spettatore rintracciano i segni della fede, sparita o dimenticata, oppure come un ricordo lontano di quella specie umana debole, ravvivando uno spirito oltreumano che in un momento rivela la sua stessa presenza fino all’ eternità. Queste percezioni si presentano attraverso sfumature lineari, sia negli angoli più netti che nella volontà di ammorbidire l’acutezza plastica delle forme e della mente di chi osserva, creando così una visione redentivi e vivendo la possibilità di non avere una “funzione subordinate” verso il Creatore, ma quella di rispetto verso le anime dello spirito: un conflitto tra vuoto e pieno che leggermente si illumina di spiritualità. Grandezza questa della semplicità che porta verso chi cerca, senza fermare la fantasiosa costruzione della propria solitudine.
Illustris in albi spatio region prima lucis formation super partes interiors est, ubique animi affectionem infinitas ac motus non intermissi in architecturae spatio commorati incipient supra albis muribus se imprimere, infra senses component contemplationem spatiique perceptionibus. Qui mente speculatoris fidei signes investigant, extintae aut oblitae, aut tamquam istius infirmae humanae specie remota memoria ad vitam recovantis spiritum ultrahumanum quod repente ad aeternitatem se proferit. Hae perceptions per linearem colorem evanescentem val in mundioribus angolis vel in voluntate mollendi acutas formas speculatorisque mentes, ita ut visionem crearet redimentem et potestatem non munere fungendi potestatem ad Creatorem experieretur sed reverentiam ad spiriti animas: pugna inter vacuo plenoque quae leviter religio collucet. Haec semplicitatis magnitude ad quaerentum ducit, sine frenis conformationibus novis propriae solitudinis.
LA VIA Prospettiva che inquadra reazioni emotive e ispirazioni umane, tendendo ad abbracciare una visione allungata nello spazio e nella profondità del bianco, attraverso sfumati segni perpendicolari e in equlibrio
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ITER Prospectus qui humanum afflatum ostendit et rem commotam pertinens, ut tentam visionem in spatium albique profunditatem circumplenctatur, per colorium dilutiores directos signos ac firmitudine inter prospecto et geometriae dissimilitudine, ut imago fiat quae absentiam narrendo significant et illo tempo agnoscere non potest initii sensum vocati gravis casi. Proximum albi experimentum. Linae quae contemla-
statico tra la prospettiva e il contrasto della geometria, diventando così simbolo che assume quel significato di assenza nel narrare e nello stesso momento l’impossibilità di riconoscere il senso iniziale del dramma evocato. Esperienza diretta del bianco, linee che ripetono il ritmo della contemplazione svelando e smaterializzando la forma e la sublimazione in una interiorità simbolica, la Croce: fondamento primario di Animae Locus. E` il dramma, privo di ogni gravezza corporea, segnato nell`atmosfera e nella luce attraverso la sostanza della sfumatura, senza forma ma con impulsi sempre piu` forti che determinano il “dramma” della VIA. Zeljko Pavlovic
tionis modum,deconstruens et delegens formam sublimationemque in imaginem interiorem, iterant, quae Crux: Animae Loci prima basis. Gravis gravitates omnis corporius privates casus, in luce aereque a coloris dilutrioris substantia signatus, sine forma sed cum magis magisque fortibus impulsionibus quae itineris constituent “gravem casum”. Traduzione di Clemente Biancalani
“ANIMAE LOCUS” graffite su legno
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“VIA DELLA CROCE” graffite su legno
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immagini video di Zeljko Pavlovic e Andrea Biagi
“Autoritratto”, olio su tela
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Car
rtolina Valentin Osadcii
INVISIBILE E ALTRO “ Si approssima Firenze. Si aggrega la città. S’addensano i suoi prima Rari sparpagliati borghi. S’infittiscono gli orti e i monasteri. Lo attrae un gomitolo, ma è incerto se sfidarne il labirinto…” Mario Luzi
Che posto è questo? Giunge inaspettato e invisibile, come un invito a raggiungerlo. E’ un luogo verso l’altro, un arrivo nel profondo e grigio, viola come i monti di Settembre mentre il giorno scende. Un posto tra fuori e dentro, tra la sosta e la tana sospettosa di una meretrice… e rifletto mentre mi giunge, pensando al frammentato messaggio pittorico di Valentin. Ci aggredisce con un’immediata consapevolezza e con una vaga enunciazione di chi si aspetta, con voce bassa, un richiamo, o meglio, un risveglio casuale che ci può trascinare verso l’attesa, ma anche nel viaggio inconsapevole di un inquadratura del nostro contrasto emotivo. Valentin è pittore raffinato e irrompe con delicatezza nella reminiscenza, traccia una scelta e la conduce fino a soddisfare la propria memoria. E il progetto si dispone, si presenta in una raccolta di carte che richiamano il tempo e il posto, un luogo approssimato dove si aggrega una città e nello stesso istante un durissimo silenzio tra cose e forme e il cielo coperto al tramonto. Valentin non è, dunque, un artista immediato, ma fa della sua pittura l’immediatezza visiva, come se ci dimostrasse solo quello che vede nella pura visibilità e, in questa, ci dispone l’impossibilità di comprendere il dilemma oscuro che si scompagina tra il fondo e la superficie. Il progetto di Valentin ambisce al risveglio del messaggio e allegoricamente sceglie l’invio di una cartolina per descrivere un viaggio tra il cielo e la terra. Sono spazi scelti, accomodati in lineari frammenti, con geometrie accostate fino la giusto divenire dell’assenza e tra questo circola tutto; l’emozione e la sorgente creativa e, anche se non sembra, il possibile ravvivarsi di una simbologia: quel nomadismo intellettuale e pittorico che convive in Valentin.
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C’è un tramite nel lavoro artistico di Valentin, un percorso immaginativo che stringe e congiunge in due tempi. Uno è dettato dalla purezza dell’essenza materiale delle cose e dello sguardo su di esse, l’altro è fatto di mente, di ricordo e di un impulso ricercato che tradisce il senso stesso della confidenza, come se cercasse di trasportare, attraverso la leggerezza e la trasparenza dei colori delle vedute, un presumibile incontro tra fantasia e realtà. E’ la confidenza del viaggiatore che Valentin ci mostra nelle sue composte pitture e sceglie due tempi e due spazi, e contemporaneamente due tecniche quasi in relazione tra loro, ma che si distolgono nell’avvolgersi l’una su l’altra, come se da una parte mancasse l’altra ed insieme, ma in questo caso divise, formassero un giusto pittorico, ed ecco che dall’esperienza Valentin trae la differenza, traducendo un poema in una semplice officina di stamperie. I lavori che ci presenta sono contrapposti tra loro, da una parte i ripetersi di un oggetto immerso in uno spazio e colore, in una assenza devoluta dal desiderio di appartenere al contrasto del senso prospettico e dove la materia cromatica si aliena da se stessa fino a lambire la sua mancanza, per poi riportare la vista in un solo riquadro, dove l’assenza dell’oggetto ricompone l’insieme e in un unico spazio subentra corposo e solido il colore. L’altra pittura è tutta insieme, è un carteggio figurativo di una città e del suo tramonto e del riflesso della propria ora. Sembra una cartolina spezzata e ritagliata e rincollata fino a decidere che se piace o non piace quel vigore sublime, quel forte e deciso sbalzo di tempo che diventa tempesta, e il blu del cielo passiona la forma, fino a diventare un saluto, un abbraccio concettuale di un arrivederci. Questo lavoro di Valentin, artista giovanissimo, riesce a scompigliare la memoria fino a tracciare una diversa pittura che appassiona la vista, ma che trova nelle parole che inizia a segnare con l’umiltà del mestiere, un nuovo verso da recitare. Lavoro con una forte ambiguità, ma con un interpretazione dell’essenzialità contestuale, che autorizza il pensiero a un ripensamento in un accordo sincronico tra il desiderio e la passione e, nel riaffermare la pittura, trova un attimo per sospendere la visione dal miracolo e ricondurla verso l’osservazione dell’esperienza, in un vivo documento che, come un saluto, è crudele, ma allo stesso tempo consola e tenta di rimanere protagonista. “ E’ questo argenteo silenzio il declinare dell’anno, la nostra vita variano appena le dolorose feste del cuore, le memorie che migrano come nuvole.” Attilio Bertolucci
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Cartolina Il lavoro è composto da otto quadri e rappresenta lo studio del paesaggio e del cielo fiorentino in momenti diversi della giornata, dal tramonto luminoso e caldo a un giorno nuvoloso e freddo . Ho scelto questo soggetto perché ho cominciato a dipingere il cielo tanti anni fa quando fui colpito dai quadri di Turner e Constable dove c’è lo spettacolo della vita, vita di nuvole con la loro nascita e la loro morte. Qui, a Firenze, secondo me il cielo cambia molto velocemente e ho voluto, in questi miei quadri, catturare quel momento che non sarà più così come è adesso, una specie di macchina fotografica che fissa un tempo e basta. La cartolina è, solitamente, un cartoncino leggero di forma rettangolare usato per la corrispondenza dove c’è un’immagine. Io sono venuto a Firenze per studiare, ma posso dire che sono venuto anche come turista e il mio lavoro è dunque in qualche modo riconnesso a una cartolina. Per questi motivi ho scelto di fare una “pittura debole”, una pittura acquarellata per avvicinarmi di più al concetto di cartolina . Se i quadri centrali del lavoro sono della stessa tonalità e degli stessi colori pastellati, i due quadri laterali sono molto freddi e scuri: questa differenza è voluta e mirata a rompere l’armonia e, nello stesso tempo, a crearla.
Senza nome
Un lavoro composto da 12 piccoli quadri. Ho cominciato come un esercizio di laboratorio e dopo, ho deciso di fare 12 quadri e di arrivare a un progetto personale. C’è un armadio visto in prospettiva da diversi angoli . Ho messo l’armadio in uno spazio vuoto per creare così una relazione tra la prospettiva e la mancanza di spazio. Anche la scelta dei colori (gialli, bianchi, grigi-azzurri) mi ha aiutato a creare un’atmosfera di contemplazione e silenzio metafisico. L’ultimo quadro è senza armadio e si può osservare esclusivamente lo spazio vuoto che dovrebbe e potrebbe vivere da solo. Valentin Osadcii
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“acquerelli”
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Sen za
n o m e
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particolare “senza nome�, olio su cartone, 26x35 cm
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“senza titolo”, olio su cartone, 150x120 cm
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“cielo”, olio su tela, 30x20 cm
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“cartolina”, olio su tela, 360x200 cm
particolare “cartolina�, olio su tela
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particolari“paesaggi�, olio su tela
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И
КО Н А Danijela Radocaj
APPARENZE SIMILI “… Se possedessi tutta la fede così da trasportare le montagne, ma non ho la carità, non so nulla.” (dalla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi 13,2)
Deve essere visto un legame tra l’interiorità poetica e il dolore, per comprendere la trasfigurazione che esiste nel tramite necessario del lavoro di Danijela e sentire quella profondità dell’anima e anche del cuore, che esce nella visione di un così apparente e simile ordine del desiderio. Questo motivo è la storia, quel segno necessariamente arretrante che si rende dogma, ma che alla vita del sentimento diventa preghiera e silente ricerca, quell’attesa resurrezione che ha significato come un‘infinita costellazione di sogni e pensieri e, nello stesso momento, iconografia passionale di un esistenza. Il lavoro di Danijela non nasce nella scelta compositiva e installatoria che ci presenta, ma vive nella figura della fede e nella domanda di essa e ancora di più, nel paradigma della stessa necessità che traspare dal desiderio, fino poi a raggiungere l’esasperato bisogno di rappresentare la comprensione poetica e di servire la speranza e la voglia di vivere. Scegliendo un segno, un tempo, un colore, un angolo personale, Danijela ci riporta nella sua religione poetica, in quel cardine simbolico che vuole formare una diversa mitologia, o quella trascendenza che si avvicina più al secolare trasporto di un miniaturale sguardo, per poi ricondurci nella sapienza artigianale di un elemento spirituale. In quest’ultimo far ricadere ogni possibile accettazione della contemplazione e in particolare la stessa ottica dello spirito, per la quale passato e presente annullano un assoluto presente e fare della finzione quella giusta iconografia che discende, sempre di più, da quella rivelazione dove l’uomo è nel tutto e il tutto è l’uomo. L’angolo visuale che sceglie Danijela è quotidiano, ma è possibile vederlo come se si rovesciasse su un simbolo lineare, su un racconto spezzettato da molteplici interruzioni dell’animo, o forse, del ricordo e delle lacrime, che non sdegnano di ricolorare il percorso trasfigurato e poi renderlo riconoscibile in figure, in apparenza enigmatiche, che sono evidenti nell’infanzia di ogni utopia vissuta come promessa. Pittura e segno, corpo e spirito, cose e parole sistemate come una pagina sommessa di un quaderno, si aprono con una sola iniziale, una parola immersa nella stagione dell’oro e della speranza di spirito e santità. Si ha in questa manifestazione l’amore incarnato della tavola dorata e contemporaneamente, nella composizione preparata di una scelta complementare, un velo, un libro sacro, un bicchiere, un frutto del sole e un fondo verde. Espressione di una conciliazione
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e del mistico congiungimento di natura e anima. Il progetto di Danijela è dunque consapevole di avere incominciato un diverso viaggio, qualcosa che era dentro, ma che non sapeva uscire e la forza della solitudine le ha reso possibile una prova; superare la paura del viaggio e, attraverso poche cose, riempire il bagaglio di molte suggestioni e con il valore dell’efficienza del mestiere, scoprire il senso vero dello smarrimento. In questo ritrovare la stessa crisi e farsi accompagnare su una scelta possibile, gli dà l’abilità di sentire la fede e la poesia e con esse raccogliere quei segni e quelle cose che le fanno raffigurare un requiem del suo stesso stile, fino a decidere un incompiuto come forma più trascendente e, nello stesso istante, scoprire il germoglio del nuovo componimento. E allora gli è stato possibile porsi davanti a se stessa, e con la voglia di manifestare tutti i suoi urli, ha fatto, ha realizzato un legame, un’icona, una cosa dell’arte che ha in sé lo spazio e il tempo e la scomparsa di ogni regola per abbracciare le sole leggi di cui lei desidera confrontarsi: l’arte per servire Dio. E, così, scompare anche l’unica indecenza che la costringe a non liberare la femminile bellezza della natura, iniziando ad affrontare lo spazio senza cose e, come nelle tavole dorate delle iconografie dei santi, scegliere l’energia degli angeli e la forza dell’astrazione e del sublime, per far ricongiungere il tutto in quel legame fragile, ma potente, dell’umanità della parola. Danijela è forte e ha l’arte della maniera che la sostiene e questa energia, con la terra e le cose della terra, darà a un’operazione neoclassica, quella virtù che segnerà una totale astrazione dalla terra, per alzarsi verso l’inaspettato e da l’alto dell’azzurro ridiscendere tra i sogni e le malinconie di una nuova operazione espressiva. “ Oh quanta vita in così poca vita… che sono qui e ho cuore di guardare… che ci cerchi con gli occhi… che la vita sola si strema in spasmi a conquistare la morte, che si vince con la vita… io sono qui e ascolto il tuo ansimare… Anima sola senza più parole, parli la luce lucida il sole, “ Patrizia Valduga (da Requiem -1994)
Massimo Innocenti
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Se potessi comprendere cosa è Dio o almeno come riuscire ad avvicinarmi a Lui, comincerei a dipingere icone. In esse troverei le risposte alle domande sul dolore, sulla sofferenza degli uomini e sull’eternità dell’anima umana. Tutte queste risposte sono probabilmente note nell’inconscio di ciascuno di noi ma da noi nascoste nel profondo. Attraverso i volti dei Santi le risposte sono giunte a noi intuitivamente ma, di volta in volta, in modo più intenso ed io ho ricevuto sempre più conferma della presenza spirituale di Dio nella vita quotidiana. È presente ogni giorno, in ogni persona e in ogni cosa intorno a me. Il verde, colore dello Spirito Santo presente nelle icone, nei ritratti dei Santi che una volta incarnati passarono su questa terra, così come il verde, colore onnipresente nella natura che costantemente porta avanti il processo di nascita e morte come ciclo di eternità. Tutto quello che è stato presente attraverso i secoli e sarà nel futuro sulla tela, dalla natura morta al ritratto, ai paesaggi e ad altri soggetti, così come in altre forme di espressione artistica, porta direttamente o indirettamente presenze dello Spirito di Dio dentro di sé. Così arriviamo alla conclusione che l’Arte esiste per servire Dio, come mezzo per mostrare l’emanazione di tutta la presenza di Dio. Essa è come luce che diventa più flebile via via che si allontana dalla Sorgente e noi uomini diventiamo più deboli di spirito e materiali quando andiamo più lontani da Dio. La vita stessa esiste come creazione di Dio e noi ci avviciniamo di più a Lui creando la propria arte di vivere.
Danijela Radocaj
Installazione, olio su tela, graffite su muro
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Icona, pittura su foglia d’oro
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stesie Elisa Motta
MIRABILE EFFETTO “…Nell’ombra,l’erba gelida e affilata mi sfiorava i polpacci: sotto terra, le radici succhiavan forse ancora qualche goccia di sangue. Ma io ardevo dal desiderio di scattare fuori, nell’invadente sole, per raccogliere un pugnetto di more da una siepe. “ Atonia Pozzi, 22 Maggio 1929
Nelle limpide esattezze di progetti composti e di mirabili ordini delle sue composizioni, Elisa esprime il sentimento di essere come un viaggiatore verso una meta, ma quale è questa meta non è facile individuarla. In questi lavori non è solo il progetto che lascia scandire un senso, ma possiamo dire che esiste un traguardo, una realtà preordinata favorevole all’immensità. Una realtà vera e naturale che, dunque, quasi stravolge la quotidianità, ma che non tradisce il suo stesso ordine; fatto di mortalità e di piante che crescono nel seme, come l’adulto che è già nel bambino e, così, la sensazione cresce nel normale e preciso sistema del vivere, insomma come la morte che è già nella vita. Naturalmente è il mondo, il piccolo mondo, quello comune alle nostre presenze, in una sorta di spettacolo che va a compimento e, in quanto si sta sviluppando, e nello stesso momento, si realizza su procedimenti semplici, ma accuratamente ritagliati da una radiosa identità: vivere il proprio volto nel riflesso. E fin qui Elisa si realizza come una creatura assopita dal piacere del fare, una condizione che le permette di rallentare il tempo e di porre solo l’anima come riconoscimento della sua realtà e realizzare, con forza, la sua adesione al ludico gioco del sentimento e delle sensazioni. E’ questo il vero tragitto che la porta ad essere lineare e di combinare quel giusto meccanismo che le fa vedere l’uso e, nello stesso istante, il rifiuto dell’accanimento intellettuale. Ed è vivace in questo, fino al punto di essere trasgressiva, senza pregiudizi , di qualsiasi possibile giudizio e, se vogliamo, di etiche sintattiche. Nelle sue percezioni pittoriche, Elisa è, offrendosi, emozionale, quasi timida nel mostrare la sua determinatezza nel cercare ciò che non serve e, solo quando lo trova, sorridere fino al punto di trasformare un inerzia in un azione poetica fortemente espressiva e dialogando con accurata semplicità e con la propria eternità, ci presenta l’emozione di un attimo. Sorprende la capacità dell’artista, è inaspettata in Elisa la sua consapevolezza e solo se la segui con i segni le puoi carpire il suo vero significato e i suoi profumi. E’ fatale, simpatica e intima e con il mistero sa dialogare quasi a farlo
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diventare reale e, poi, dopo gli estremi limiti, sa tracciare il giusto sguardo, le vere e precise emozioni. Dalla minima materia pittorica, Elisa fa scatenare ogni parte della sua vivacità e attraverso una pittura più che reale, incalza tante delle sezioni che si trovano all’interno di una naturale esistenza e con una certa modalità, quasi raffinata, vive la meditazione che la porta verso una felice discontinuità. Scattante e vigorosa, aggraziata fino al punto di cercare tra i colori e i segni, Elisa trova quei giusti equilibri che vibrano e velano un pieno e un vuoto, lo sguardo su un orizzonte cercato fino al più estremo dei confini. Questa scelta la rispecchia fino al punto che ogni esigenza diventa ossessiva e sentita, fino a farla muovere in un flusso attivo di possibilità aperte, tanto sono in lei le capacità pittoriche, che ogni cosa che le si mostra davanti, lei è lì per cercarne la soluzione. Emergono in lei possibilità e continuità dello sguardo e una coerenza di pensiero che, circondando la sua anima, le lasciano mutamenti e distrazioni e, da questi, riimmergendoli senza alcuna difficoltà, li lascia scivolare verso quel fondo fatto di abitudini e consapevolezze e da quelle stesse norme e coordinate, ella, con la sua pittura, le sa scardinare e attrarre senza alcuna spregiudicatezza formale, ma con una semplice e accurata coordinazione, che la porta a recuperare quel realismo e un verosimile approccio alle sensazioni naturali. Elisa appare giovane creatrice e lo è, ma è anche una tensione in progressione che sta al centro di un creato che trova il verso nell’artefice senso spirituale, formando quel sacro romanzo che solo la minuziosa osservazione della natura fa leggere. Elisa conosce le parole per descriverlo e raccontarcelo attraverso la sua infinita dinamicità del finito e, così, l’opera rimane aperta, poiché in lei si prolunga l’immagine della verginità naturale delle precise cose . L’intrinseca ricchezza che vive in questa giovane pittrice sta nel suo isolamento, ma la consistenza emotiva dei suoi argini, la rendono vibrante e sorprendente fino ad accompagnarla sui gli estremi bordi di fantasiosi ruscelli. “ Grandi vie di silenzio conducevano a paesi di calma. Non vi erano notizie né discordie, né universo, né leggi. Gli orologi dicevano il mattino, e campane lontane chiamavano la notte; ma il tempo qui non aveva più base, era svanita ogni misura.” Emily Dickinson
Massimo Innocenti
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Se immersi nel silenzio si sente squillare il campanello, si ha l’impressione che il rumore sia piÚ stridente di quanto lo sia in realtà . Io cerco di far vibrare un colore in modo intenso come se il rumore del campanello risuonasse in mezzo al silenzio. Pierre Auguste Renoir
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Olio su tela, “l’occhio del cavallo”, 25x30 cm
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Olio su tela, “l’occhio del cavallo”, 25x30 cm
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Olio su tela, “l’occhio del cavallo”, 30x35 cm
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Olio su tela, “l’occhio del cavallo”, 30x35 cm
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dal ponte di Cappiano
“Tramonti”, olio su tavola, 50x30 cm
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“Quadro”, olio su tela, 120x150 cm
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Il respiro
della luce Silvia Leoncini
…quanto la metà del tempo. “Anch’io vorrei divenire puro e limpido, affinché ancora più luminosa splenda la luna nel mio cuore.” Saigyò ( 1118 – 1190)
Il romanzo della natura, genuinamente simbolico, che Silvia ci dona, è quanto la metà del tempo può frammentare il preludio al nascosto, all’ incomprensibilmente esperienza che l’immagine velata della versione reale, può caratterizzarsi in una sequenza senza fine, che vede in un macchina uniforme, senza passato, tutto ciò che è divino. Ha una storia la natura e Silvia sceglie di raccontarla con la sua interiorità mentre continua il suo viaggio alla ricerca di una domanda, per poi trovare quella risposta che non le appartiene, ma che sente come luogo parallelo alla sua necessità. Usa la pittura, una bella pittura, ricercata, studiata e contaminata fino a farla sembrare evanescente, ma nello stesso momento corpus primario di ogni essenza materiale, da cui trasporta quel sapore materico che si dispone in forma, corposo, stabilizzante e compatibilmente ricercata fino a supportare il segno scelto: un’esplicazione della qualità. Ma la domanda è il problema e sta qui la difficoltà per Silvia, qui, davanti al racconto che cerca di farci vedere. In questa luce, e possiamo essere visti, sembriamo raccolti dall’autorealizzazione che le pitture ci tramandano, sembrano parlarci con una voce lontana, profonda fino a scoprire l’incomprensibile desiderio di racchiudere ogni virtù, per poi farla rinascere in una diversa separazione, fatta di luce e notte, di tenebre e di modulazioni di toni intimi che prendono posto tra le indeterminate sensazioni. L’artista ha scelto di rappresentare una sequenza frammentata di uno stagno, di un fiore e di una ascesi, che trova il suo santo pellegrinare tra le fronde secolari dell’ oriente, per poi ricondurre il tutto nella sacra evanescenza di un germoglio annunciato tra le rive di un laghetto. Questo stato è al pari di una sequenza, in un insieme di particolarità diverse che si ricompongono nella specificità della sua stessa determinatezza. E questa visione è accanto alla luce, ora più chiara, ora più scura, dove pensieri e sentimenti sono le giuste melodie di un frasario religiosamente modulato dal canto della coscienza. Esiste, dunque uno stato della coscienza nella pittura di Silvia, che può essere definito come l’anello mancante di come la compiutezza sia alla base della determinazione del suo stesso sentire, ma anche il suo opposto ridiventa sen-
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sazione e sentimento, ed ecco assorbirsi, in lei, la risposta; quel tanto di misterioso che trascina con lei la ricerca fino a scegliere quale pittura fare, e se poi ricorda qualche altro pittore non ha importanza, quello che serve è nella domanda: l’imponderabile che accompagna. Nel dialogo pittorico che Silvia ha scelto, sono evidenti le sue conoscenze e le proprie impressioni, ed è ammirevole questa sapienza; essere riuscita a non nascondere nulla, ma con la chiarezza e la purezza del suo vedere, ci ha incoraggiati verso la modulazione di un continuum, per cantare con lei quelle preghiere silenziose che traducono un diverso linguaggio. Questa conoscenza diventa un mezzo e il tempo giunge inaspettato, nuovamente, verso la non- conoscenza. Itinerario, profondo, come percorso iniziatico verso la giusta dimensione del se per il se, dove la tenebra della vita si illumina del sapere del niente e, da quel salto individuale, solcare, col profumo dei fiori, le radici salmastre di acque sepolte dall’abisso dell’anima. Lo schema iniziatico che Silvia dipinge potrebbe essere come una iniziazione al linguaggio della luce, ma ha scelto l’acqua stagnante di uno stagno coperto da piante e fiori e allora è anche un percorso dell’interiorità della nostra anima verso l’oscurità della notte, dunque, la notte come sorgente abissale della stessa luce. Allora è la luce la risposta, ma anche la notte e Silvia conosce bene come raggiungere queste due apparenze, che nella stessa loro diversità nascondono un’altra luce, il passaggio ad un grado superiore rispetto a ciò che vediamo. E’ un progetto in grande, quasi ambizioso, ma sicuramente dettagliato e profondamente assorbito e ci rende, progressivamente, sedotti da quel vago sentore erotico- notturno che traspare dalla viscosità di quella materia, per ricadere, in forma di colori e segni, nella più antica seduzione di un amplesso redentrice verso la creazione del cristo penitente e crocifisso insieme all’anima. Silvia è brava e cerca di portarci nella consapevolezza della sua arte, trovando assieme alle sue mistiche sensazioni, un‘esperienza nel continuo dialogo dell’anima, nelle vibranti oscillazioni dei suoi timori e nelle incertezze delle domande. Il fondamento delle possibilità sono in questo progetto, in questa pittura che diviene lo scopo del suo amore per l’arte. “ Più divini delle stelle scintillanti ci sembrano gli occhi infiniti che in noi la notte dischiude.” Novalis, “inni alla notte” Massimo Innocenti
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Diventano luce Una delle figure più rappresentative del Buddhismo nel mondo è Thich Nhat Hanh, monaco zen vietnamita, poeta e costruttore di pace. Esso scrive: “Non fare della tua mente un campo di battaglia, non dichiarare guerra. Tutto ciò che provi, gioia, dolore, ira, odio è parte di te. L’opposizione tra buono e cattivo è spesso raffigurata con la lotta tra luce e tenebre, ma se guardiamo in modo diverso, vedremo che, anche quando la luce splende le tenebre non scompaiono. Invece di venire cacciate si fondono con la luce. Diventano luce.” Nella nostra esperienza terrena ogni cosa che esiste ha il suo opposto; l’alto non ha senso se non esiste il basso, la luce non è comprensibile se non è messa a confronto con le tenebre. E ancora bello e brutto, bene e male... fuggiamo da ciò che riteniamo negativo e seguiamo tutto ciò che, invece, consideriamo positivo e desiderabile, in una corsa che diventa faticosa ed inutile in quanto il male è sempre lì. Se ogni cosa è lasciata andare secondo la propria strada l’armonia dell’universo si stabilisce di conseguenza, per il fatto che ogni processo nel mondo può essere ciò che è soltanto in relazione con tutte le altre cose. La “propria strada” di ogni cosa è “la propria strada” dell’universo. Tra tutti gli esseri c’è una mutua interdipendenza e se lasciati soli e non forzati nella conformità con una qualche artificiale nozione di ordine, si armonizzano in modo naturale, questa armonia emerge da sé, senza forzature esterne. Quindi non è possibile ignorare l’altro estremo, l’indesiderabile perchè fa parte della vita. Esiste invece una differente prospettiva della realtà. Percepire la realtà come un luogo dove si ha la possibilità di sperimentare ciò che ci occorre per evolvere. Ci sono alcune esperienze che ritornano più volte nella vita finchè non ne cogliamo il senso e quell’esperienza non si propone più lasciando spazio al nuovo. La visione dualistica positivo-negativo è ciò che suscita in noi sofferenza ed il rifiuto di quell’esperienza che ci è utile alla nostra evoluzione, alla comprensione di chi siamo e cosa vogliamo essere. Se prendiamo in considerazione una visione utile-non utile ci aiuta molto ad accogliere ogni esperienza, sia quelle facili e piacevoli, sia quelle difficili e spiacevoli, proprio perchè tutte sono motivo di comprensione e consapevolezza. Fuggire le tenebre per inseguire la luce è un’illusione terribilmente faticosa; quello che ci sfianca non è il dolore ma la fuga da esso. Trasformare le tenebre in luce è possibile se noi guardiamo in modo diverso perchè l’unica, autentica e profonda trasformazione è in noi stessi, appunto nel nostro modo di vedere e pensare le cose. Allora la luce che emerge dal buio stesso è la vera fonte di saggezza superiore che porta in sé la consapevolezza e la conoscenza.
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Platone è forse il primo ad utilizzare a riguardo una potente immagine evocativa: nel mito della caverna la fonte della conoscenza è appunto la luce, la brillante e purtroppo lontana luce del fuoco. Senza questa luce, che è l’idea del bene, gli uomini incatenati vivrebbero nell’oscurità completa, non vedrebbero e non conoscerebbero nulla; invece grazie alla luce vedono e conoscono, anche se, a causa delle catene, la loro vista è limitata alle ombre, una via di mezzo tra la luce diretta e l’oscurità totale. Il punto di vista psicanalitico su questa tematica parte da una prospettiva archetipica. Jung mette la dimensione del profondo come simbolo dell’ombra e la dimensione della coscienza vigile come simbolo della Luce che deve comunque trovare un necessario punto di equilibrio con l’ombra (o ‘lato oscuro’) nel processo di individuazione: il sé. Questa prospettiva, che trova nel processo di individuazione la grande capacità dell’uomo di realizzare se stesso, viene del tutto rovesciata dalla teoria politeistica dell’inconscio dove la Luce diventa la proiezione dei numerosi ‘corridoi intercomunicanti’ dell’anima, della nostra ombra, delle nostre ‘numerose ombre’, che in maniera non unitaria nutrono la mente come nel mondo degli dei omerici l’insieme di miti e di eroi nutrivano l’uomo greco. Il lavoro del fare anima, di dar Luce alla propria interiorità è vicino alla fantasia, all’arte, alla poesia, al dipingere, al fare musica. L’attività immaginativa è ludica e allo stesso tempo è un’attività di lavoro, un penetrare ed un essere penetrati, un formarsi delle immagini dell’ombra che prendono sempre più sostanza ed indipendenza.
“autoritratto”, olio su tela, 80x120 cm
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Se queste immagini, i nostri demoni, non vengono presi in considerazione nella maniera opportuna, senza avere a disposizione spazi propri e un riconoscimento all’interno dell’anima, diventano prima o poi malattie della mente più o meno gravi. Ed è così che l’anima muore e cade nel buio profondo del non essere. “L’anima è impegnata in un continuo discorso su se stessa fatto di motivi perennemente ricorrenti, con variazioni sempre nuove, come nella musica; quest’anima è incommensurabilmente profonda e può essere illuminata soltanto da intuizioni, da lampi di Luce in una vasta caverna di incomprensione; e che nel regno dell’anima l’io è ben misera cosa”. James Hillman
La Luce, che conferisce verità alle cose, è nello stesso tempo la Luce della Verità, “la luce vera che illumina ogni uomo”, e che le tenebre non ricevettero (Vangelo secondo Giovanni). La luce ha sempre avuto un significato misticoreligioso: è una delle più alte manifestazioni del divino, e quindi è vista sia come attributo di Dio, sia come mezzo con cui Dio si manifesta, sia come simbolo di Dio stesso. C’è tutta la mistica delle vetrate gotiche, l’oro degli arredi sacri, il risplendere dei mosaici medievali, i quadri di Van Eyck, il Paradiso di Dante, la Cattedra di San Pietro…. Il latino Iuppiter, il greco Zeus e il nostro Dio prendono la loro origine da una stessa radice indoeuropea che sta ad indicare il luminoso. Il Seicento, in modo particolare, è un secolo di estasi e visioni mistiche; è il secolo in cui si cerca di rendere visibile e spettacolare il Divino. Nel Buddhismo la luce equivale alla conoscenza della verità e del superamento del mondo materiale. Nel Buddhismo di Nichiren Daishonin la preghiera ha un’importanza centrale. Lo scopo fondamentale della preghiera buddista è quello di risvegliare le innate capacità interiori di forza, coraggio e saggezza. Come in molte pratiche spirituali orientali è anche importante un’espressione “fisica” della preghiera che si concretizza nella lettura -mattina e sera- di due parti del Sutra del Loto e nella recitazione di Nam-myoho-renge-kyo, il nome della Legge mistica che sta alla base della vita stessa e che Nichiren ha preso dal titolo del Sutra del Loto. Il fatto che la recitazione sia intonata sonoramente esprime il concetto che la preghiera non è puramente una meditazione rivolta all’interno della nostra vita, ma un atto che rende manifeste delle qualità interiori potenziali, facendole apparire nel mondo reale. I buddisti rivolgono la recitazione Nam-myoho-renge-kyo a un oggetto di culto, il Gohon-
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zon: questo è un mandala, cioè una rappresentazione simbolica dello stato ideale di Buddità, o illuminazione, in cui tutte le tendenze e gli impulsi della vita -dai più bassi o degradati ai più alti o nobili- agiscono in armonia per realizzare felicità, creatività e saggezza. Il Gohonzon non è un “idolo” o un “dio” da supplicare o da ingraziarsi, ma uno strumento per riflettere e un catalizzatore per un positivo cambiamento interiore. Nel Buddismo di Nichiren c’è inoltre l’inseparabilità dei “desideri terreni” dall’illuminazione. “Bruciando” la “legna” dei nostri desideri attraverso l’azione della preghiera, riusciamo a sviluppare la “fiamma” di una rinnovata energia e la “luce”della nostra saggezza. Quindi la preghiera buddista rappresenta il processo attraverso il quale i desideri e le sofferenze vengono trasformati in compassione e saggezza. La preghiera è il costante processo di riallineare le nostre singole vite (“piccolo io”) con tutti i loro impulsi e desideri, con il ritmo dell’universo vivente (“il grande io”). Durante questo percorso, definito anche”rivoluzione umana”, vengono attivate pienamente capacità come la conoscenza di sé, saggezza, vitalità e perseveranza. E poiché nella filosofia buddista non esiste separazione tra il mondo interiore degli esseri umani e il loro ambiente, i cambiamenti che avvengono dentro di noi si riflettono anche fuori di noi, nelle situazioni esterne. Sperimentare una “risposta” alle preghiere è il risultato concreto e visibile di questo processo. La preghiera e le azioni che seguono, armonizzano profondamente le nostre vite con l’infinita vita dell’universo e fanno emergere il nostro io più elevato e nobile. Il fiore di Loto simboleggia la “Buddità” che emerge dalla vita dei comuni mortali immersi nelle sofferenze e nelle illusioni. Questo fiore, simbolo di purezza, sboccia solo nell’acqua fangosa degli stagni. Lo stesso vale per gli esseri umani: è proprio grazie ai problemi e alle difficoltà che è possibile fare emergere la condizione del Budda dalla propria vita. La parola “renge” nella recitazione rappresenta la simultaneità di causa ed effetto, il loto infatti è l’unica pianta che produce fiore e frutto allo stesso tempo. Il Buddismo afferma che, a un livello più profondo, la causa e l’effetto sono simultanei. Partendo dalla continuità di passato, presente e futuro nel momento in cui si pone una causa (attraverso pensieri, parole e azioni) si produce immediatamente un effetto che si manifesterà senz’altro. Il fiore di Loto è uno dei più suggestivi simboli del risveglio spirituale buddhista, un cammino che, spesso, trova origine nel dolore. La rinascita di un uomo può trovare la sua forza solo nella comprensione delle proprie sofferenze e nella capacità di provarne compassione. Così il fiore di Loto, affondando le proprie radici nel fango, può assimilare il nutrimento necessario per sbocciare. Lo “stagno” del fiore di Loto da me rappresentato in queste tele, costituisce un percorso dove sono palesi i miei stati d’animo, a volte fluttuanti come l’acqua in superficie, a volte quasi stagnanti come il fondo del lago ricoperto da foglie e fango ma tutti elevati nel suono che diventa vibrazione, anche apparente contraddizione così come l’anima che, aperta e ricettiva, si pone in ascolto e dove la sofferenza viene accolta per essere guardata e curata mentre la consapevolezza cerca uno spazio sempre maggiore. Silvia Leoncini
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“ritratto”, olio su tela, 80x120 cm
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...illuminata soltanto da intuizioni, da lampi di Luce in una vasta caverna di incomprensione;
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“Il respiro della luce”, olio su tela, 520x240 cm
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“Il respiro della luce�,particolare, olio su tela
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“Il respiro della luce�, particolare, olio su tela
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“Il respiro della luce�, particolare, olio su tela
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Ta
bulae Dario Moccia
… ovvero prosceni con vista “… Ho visto i tuoi santi in giacca nera i tuoi Zen spinellatori Ateniesi e mandrilloni Benché il Vento dell’Ovest paresse spingersi non un solo puro sogno shelleyano di diciamo universo di fieno mucchio dorato su un muro di fuoco….” Gregory Corso
E’ sempre più difficile descrivere il fantastico. Si può cercare di farlo risalendo e spiegandolo attraverso i tempi, i luoghi e le storie di tutto il mondo, per dimostrarne l’universalità e la perennità. Tanto più rimane inafferrabile e inspiegabile che possiamo accettare il fatto che è antico, anzi lontano come l’origine stessa del tempo, è come la paura che soggiorna nella nostra mente all’interno di quel lato oscuro che ci accompagna da sempre. E’ la paura, l’ansia di non sapere, l’antro buio dove chi sa quale misteri nasconde o quale mostruosa creatura alberga. Sono la paura della morte e la magia che sanno racchiude in segni simbolici fatti per esorcizzare o allontanare demoni e i non morti, che ricacciano nell’oltretomba, togliendo ogni possibile voglia di “tornare”, queste angosce. La paura di questa inspiegabile emozione, si addentra nella nostalgia dei vivi e cerca attraverso il tempo e la storia stessa, le capacità difensive dove costruire un ponte meraviglioso tra realtà e finzione e, tramite questo legame invisibile, trascinare allo scoperto i rancori di corridoi e case maledette. Il fantastico e il surreale è il linguaggio che ha scelto Dario per affrontare lo stupore e la compiutezza dello spavento. Le piccole magie, i capricciosi personaggi che sceglie di rappresentare, non vivono nella loro transumanza evocativa, Dario gli raccoglie e li getta con ironia nelle strisce grafiche o nel dialogo fumettistico di inviolabili retroscena, dove la speranza di reagire rimane circoscritta nella storia che l’artista inventa e costruisce. Il linguaggio pittorico che sceglie è grafico, in bianco e nero, come se i colori spaventassero i fantasmi o ripugnanti creature, mentre è importante riuscire a catturare, nel grigiore delle sfumature, quelle presenze per renderle nude di fronte alla vita. Il bianco e nero è anche illustrazione e il progetto di Dario usa questo sistema per raccontare, ma non lo lascia nella sua deputata manifestazione, cerca di trasportare questa espressività in un diverso modo, in una specie di richiamo della mente alle prime esperienze cinematografiche. Prova un sistema ibrido, una contaminazione tra spazio e nascon-
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diglio, luogo delle meraviglie che trattengono in sé un piccolo mistero. Una sottile risonanza profonda della sfida infernale tra lo sguardo e il suo mistero. Il lavoro si scompone, si installa da primo nella ricerca del segno e dei simboli e, attraverso il graffito della striscia fumettistica, lo rimanda alle esperienze calcografiche, a quei caprichos generati dal sonno della ragione. E si possono rivedere le grafiche di Piranesi, di Goya, o le inchiostrature di Redon fino alle esperienze xilografiche degli espressionisti, per poi giungere ai tratti ingranditi della Pop art e sentire i peculiari e fruscianti, decolorati movimenti di Mino Manara e alle più recenti strisce dei disegnatori Manga. Ma la simpatia retrò di Dario non si ferma, desidera accompagnare i suoi racconti come se fossero delle piccole curiosità, dei luoghi scelti, come case matte, o se possiamo, tolleranti e chiuse e dove solo lo sbircio indiscreto ci può rivelare tutta la nostra curiosità. Dario installa tre casette nere sistemate su alti trespoli e dove solo un piccolo foro ci lascia entrare nel magico serraglio della comprensione. Appoggiare l’occhio al forellino è come sentirsi viaggiatore di “terre di mezzo” o di anelli da sguainare a difesa di terre invase da mostruose creature, ma nello stesso istante sentirsi eroi della magia del mezzo e anche miti immaginari dello strano meccanismo. Possiamo solo dire che questo lavoro è ideale, fatto quasi per riportarci all’origine della meraviglia, ma anche allo spettro incommensurabile della paura. La scelta di Dario, in apparenza gioiosa e guitta, può sembrare scontata, ma se tendiamo il nostro sguardo più lontano, rientreremo nel fascino della meraviglia, nel frivolo pensiero di una bella epoca, che cercava in ogni modo di scrostarsi di dosso un presagio medievale e sentire nella modernità l’oppio evanescente del miracolo. “… Questo fantastico che non ha inizio né fine, che fa girare la giostra delle ossessioni , linguaggio- simbolo dei “ complessi ”, ritornello monotono delle paure ereditarie alle quali nessuna umanità “ illuminata “ può chiudere la porta, spettacolo inaudito che l’immaginazione offre a se stessa, teatro d’ombre dagli innumerevoli cambiamenti di scena…” Marcel Brion (dell’Académie française)
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Disegni, inchiostro su carta
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Installazione, legno, luce elettrica e disegni
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Metropoli diu routine giorn 108
urna durante naliera
Im
mmerso Andrea Biagi
RICORDO QUOTIDIANO “… Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfi rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontani chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.” Dino Campana
A leggere il lavoro di Andrea pare di sfogliare un breviario di appunti lasciati in un tratto di porte aperte, come se lo sfarzo di sbirciare tra il designato spazio, lasciasse allo sforzo poetico di intravedere un umana e vigorosa suggestione. La presenza di un destino e involontariamente una solitudine generosa, abbandonata in sottili comunicazioni e quasi a scegliere quelle sole cose e quei piccoli luoghi che ritraggono l’ infinito attraverso i ri-quadri delle porte aperte, ci assomiglia e incoerente ci ritrae. Figurazioni apparentemente antiche e scelte come antiche evocazioni di una materia o di una scena, dove senza alcuna particolarità concettuale, la cosa da dipingere si presenta in ri-tratto continuo, quasi a interrarsi alla soglia della percezione e della prima affascinazione emotiva. La pittura, le pitture di Andrea sembrano frammenti indisciplinati, quasi contradditori, o meglio, sorprendenti fino al punto di comprendere solo le loro matericità, ma proprio in questa liberata possibilità, Andrea sa scolpire l’essenza stessa della materia e far risorgere quel tintinnio vibrante che solo l’aura immaginata gli può rendere visibile ciò che non vede. L’opera raccoglie tutto in tanti punti fermi e li custodisce in un contrasto emotivo fino al punto di sentirsi ritratto a custode, guardiano di quelle cose, delle sue cose. Iniziando il ritratto della sua vita, Andrea lo sostiene compromettendo se stesso con la stessa necessità di campionare le timidezze con la sua compiacenza affettiva. Andrea sceglie di ritrarre ogni identità che lo raggira senza mai sentirsi disturbato e, anzi, è lui a scompigliare l’ordine delle cose fino a tranciare ogni possibile legame reale, per poi riunirlo in un carteggio pittorico che trattiene a se ogni strumento prezioso, dipingendo con la materia e con la forma disegnare l’armonia e, da queste scelte, far uscire l’amore del vero naturale con la timidezza del simbolo, in un attenta fraternità compositiva. Il progetto artistico guarda, vede con l’anima del suo creatore e da espressione emotiva si trasforma in presenza e, come odi di squilli minimi, si ridipinge in una fessura, in piccoli spazi allineati e compressi in un solo ultimo istante, dando vita alla vita e da essa scegliere quelle piccole cose di poca importanza, ma che contengono tutto l’impeto e la forza di uno sguardo e del ricordo. Opera complessa e nello stesso momento semplice per chi crede che la semplicità sia una strada facile, ma chi invece, come Andrea, ha scelto il percorso più compromesso e tortuoso della ricerca, diventa inesauribile ogni sicurezza e nulla ha fine e
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tutto gli si pone a disposizione. Parlare di ciò che si compone in questo progetto non può bastare, quello che invece è essenziale dire è che tutta la pittura di Andrea vive nel risveglio della stessa pittura, nelle scelte cromatiche e nei veloci segni lasciati dal colore e dai brevi tratti di una penna, o dal clamore esasperato di uno sguardo lasciato cadere su lavori antichi e su scelte pittoriche di artisti che sconfinavano il loro lavoro in una nascosta evoluzione. Nei segni si sente il tremore intimo di paesaggisti impressionati dalla loro stessa realtà, lo scompaginamento di frammenti cromatici e di stesure inerti e imprecise dove lo sguardo arriva a toccare l’espressività dei sensi, per poi cercare nella quiete riflessiva di un giardino o di uno specchio, quel calice splendente di armonie e magiche rimembranze, che vanno a toccare latenti sguardi di una natura inerte dei pittori secenteschi, per poi scivolare tra le trame esistenziali di un mattino assolato di un italiana compagine; quella rinascente metafisica che declama l’attesa invece della partenza. Artista giovane e in Andrea si sente, ma si percepisce anche quell’anima crepuscolare che l’ambisce il suo tedio fino a farlo vivo e a sentirlo accanto come il trascinamento dell’ombra tra le pieghe dei corpi. Allora non basta ricordare per comprendere dove vuole arrivare Andrea, dobbiamo saperlo ascoltare e con lui sentire il puro esistere di quegli istanti che si ridipingono nel fondo che è il deposito di ogni soluzione, ed è anche quel ricordo che non basta, ma che è necessario per esaltare il gemito del cuore. Questo lavoro mi è davanti, composto nella dinamica sospesa tra la frenetica sensazione e l’estasi del silenzio, fino a percorrere l’esaltazione di un preciso istante per rinvigorire l’immagine attraverso l’assenza stessa del presente e trovare nella scomparsa l’affermazione della presenza, lasciando lo sguardo davanti a forme che scompaiano, ancora, attraverso l’ammirazione. Di questo lavoro Andrea ci presenta solo l’improvvisa testimonianza che rimane ancora visibile, tutto quello che resta nascosto lo reclude nella sua pittura, nei suoi colori e nelle composizioni che sceglie di accostare, di unire a se stesso per poi, in fondo, svelare il lento processo della vita. Perché, come fa il servo che trasporta il peso del suo padrone, il pensiero, l’arte di Andrea, porta il peso della conoscenza e con ironia e una sublime mescolanza, ritrae il gusto delle cose sole e nei ritratti delle molte incerte forme di sé, in sé, sempre, solo e di ciò che non conosce, fare la cosa, e altro non c’è che all’arrivo. “… E s’accorge, senza averne spavento, che il tempo scivola come rena , e che il nuovo è tutto da venire ancora tutto da venire: e sente dire in sé sommessamente, dalla vita: siamo parte dell’Humus che prepara il futuro, noi che ce ne andiamo.” Carlo Betocchi Massimo Innocenti
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PATER NOSTER Padre nostro che sei nei cieli Restaci pure Quanto a noi resteremo sulla terra Che a volte è cosi bella... Jacques Prevert
Autoritratto, olio su tavola, 40x30 cm
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“Immerso”, olio su tavola, 280x150 cm
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“Deposizione�, olio si tavola, 30x 20
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“.. . E a n c o r a t i c h ia mo ti c h iamo C h i mera. �
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Ovatta 126
a di Pece Sara Benetti
TAGLIENTE SPRONATURA “ Ti sembra orribile che lussuria e furia Mi faccian scorta nella mia vecchiaia; Non erano tanto assillanti quand’ero giovane; Che altro mi resta per spronarmi a cantare?” William Buttler Yeats ( Lo sprone 1936 )
Tagliano, come i raggi del sole durante una tempesta, le tante confuse convergenze d’immagini apparentemente in disaccordo tra loro, oscure e dense e tintinnanti verso uno spirito emotivo, le opere di Sara. Contorte nelle inquietudini delle scene del tempo, si dispongono a serraglio quasi come una linea sotterranea che traspare dalle penombre della sera e raggiunge l’abbagliante rovescio di un orizzonte al tramonto. Geometrie variabili, naturali e spaesate fino a giungere allo specchio melmoso di un canale o di un acquitrino e lì, riconoscere i volti, le forme del cranio e lo sguardo dell’incuria mortale e con il segno magico di cerchi concentrici, ritrovare le anime e le parole; rituali confessabili solo nel sacrificio di un amplesso dannato. Romantica e paesaggistica, fino al fondo dell’oscurità del mondo, Sara dipinge l’accettazione del suo vedere e non cerca, ma sente la poesia del verso fino a farlo stridere con le lacrime e le piccole spronature che variano fino a diventare forme e colori. Pretendere di comprendere subito il caotico segno o la sistematica ricerca di questa arte appare impossibile se si vuole a tutti costi cercare una tendenza. Quello che invece giunge è la libera decisione di contraddirsi e in questa ebbrezza trovare oscure lacerazioni e immagini sovrapposte fino a condurci nelle più silenti conoscenze delle pitture. Sì, Sara conosce il fondo e la superficie densa della pittura e dei quadri che sceglie e, ancora di più, degli artisti che dipingono l’anima delle cose e con essi dialoga fino al punto di soffrire e isolare, per se stessa, la melanconia di un’attesa, per poi raggiungere la disperata contraddizione di una disposizione stilistica. Il sistema cosmologico che raccoglie tutta la ricerca di Sara vive di un’intuizione penetrante e di un’improvvisa chiarezza, dove la magica fitta nebbia adolescenziale si dirada lasciando l’immenso gioco psicanalitico nella più breve delle apparenze, insomma, il forte senso dell’ordine si scontra con quel disordine in continuo equilibrio tra l’esistenza e la morte. E’ in questo che il valore della poesia e quello artistico di Sara si riempiono di tematiche e di precise rispondenze di suoni e materie, fino al punto di far nascere elementi contrari e da essi trovare quella reversibilità che la porta al distac-
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co della materia, per poi cercare quelle alchimie creative che testimoniano l’individuale lotta, dove, necessariamente, si coinvolgono le essenze. “La poesia può penetrare la chiara nudità della luce più di quanto non lo possono le intime cause scoperte da Freud “. Queste parole di Dylan Thomas possono ben spiegare cosa Sara sta cercando di vedere e di quanto esista in lei quel bisogno conoscitivo dei simboli umani che la circondano e, nello stesso momento, provare ad allontanarsi da questo e, rinnegandolo, cercare di coinvolgerlo sotto una differente visione, per giungere nel confuso emisfero e rientrare nella tranquillità della luce. Attraverso questo continuo scambio di necessità raccoglie esperienze e vibrazioni e trasporta su le superfici quello che vede e sente senza godere mai della loro affascinazione, ma quanto della distruzione e da questa penetrazione carnale, trovare nuovi frammenti da assemblare e coccolare fino a farli riempire di un senso e di una tragedia. Tante sono le opere e le installazioni dove Sara traccia la sua poesia e la necessità di dialogare e le immagini che sceglie pitturano lo spazio in un intenso groviglio di speculari rimaneggiamenti, dove l’originale affermazione di un suo stile si riconosce fino ad esprimere una conoscenza e da questa segnare il gioco ambiguo delle immagini. Opere nuove, che vivono del passato e da questo trascina sulle sponde delle risacche quei soli chicchi di colori e cristalline materie che le danno la possibilità di alterare la capacità di sentire il cuore della materia e dello spirito. La parola forgiata da questa fucina si libera nel segno e in questo cantiere di elementi, di suoni, profumi, odori, fuochi e fantasmi, prepara accuratamente il vestibolo della sua creatività. Consumata nella passione, Sara è artista, purifica l’esperienza con dedizione e si avvia sulle onde complesse di un tenebroso ruscello, per poi, con l’amore, solcare i flutti inverosimili di un mare in viaggio tra il paesaggio e chi lo osserva. E, come nelle illuminazioni di Rimbaud, segue le parentele sintattiche per raggiungere lo scarno desiderio di una smorfia o di un viale alberato tratteggiato di ruggine crepuscolare. Ella può essere in qualunque luogo, qui o là, o altrove, ma sempre nella pianura e nella nebbia da dove affiora un celestiale campanile.
“… ciò che tutti odiano,
ciò che io solo amo: è che tu sei eterna, che tu sei necessaria! In me l’amore s’accende eterno solo davanti alla necessità.” Friedrich Nietzsche Massimo Innocenti
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Avido piccolo mondo Ovatta di pece Cullare mai stretto d’amante fedele. Bocca nera di polvere amica In ribattuti orefici putridi solchi. Abissi ormai cari tra i denti maledetti. Esausti e sfiniti meandri scoscesi Inclini a lasciare e far sfuggire Norme bramate e bastarde. Torpore di coscienza, ricercato conforto Ristagno in pantani di dolore latente. non morto sgradevole pungente bruciore chiama impeto cieco a giustizia custode. Urla sorde increspate, di Maggio vestite Soffocano tra l’ultimo sale di memorie ancora accese. Sara Benetti
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Dubbi amletici e scission divergenti In ogni caso l’abisso In profondità Fino al midollo Se esiste. E in caso contrario gener
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“Paesaggio”, linoleografia su seta e cotone, 50x70 cm
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Curiosi sentieri in luoghi della mente Passi a ritroso In dimensioni che non appartengono piÚ Granelli d’anima dispersi in trasporto di melanconie Tracce lievi e indelebili Di nebbie fragili e spesse.
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Dal mio nascondiglio un sottile spiraglio.
“Atanor�, graffite su gesso, 150x180 cm
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“Retrospettive�, installazione, graffite su gesso.
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“Paesaggio“, terra, bolo e graffite su gesso, 40x50cm
“Sale”, olio su tela, 230x230 cm
Trans-Fo
ormazione Nanina Platsidaki
LA MUSA NEL BICCHIERE “ Tu che vigili, Clio, le sacre vasche, dall’andito perenne desiata cogli, d’oro scevra, l’acqua soave che fragra.“ Simonide, lirica greca , età classica.
Percorro una piazza, lo scopo è il raggio di sole, oppure l’intento di svelare una assonanza diversa. Non so comprendere se il chiarore o il silenzio rendono il tempo tardivo, ma quello che vedo è una musa e la sua fiaba. Ora, l’autore di questa fiaba non conosce il proprio limite ed è così affascinante che le ronza in testa ogni vastità luminosa. Sospira e, nella scia della sua bocca, la quiete di ogni parola si sposa nel tempo e, nel voler cercare un mutamento, un racconto gli si annoda alla vastità del cielo. …sbiancava il celeste riflesso sull’atrio e tra gli archi qualcosa di nuovo, di infantile, di profondo stava nell’aria. Il bicchiere era sospeso tra il tavolo e l’ombra e un riflesso lasciava sembrare il liquido del bicchiere come una vasca, che di solito era nel giardino della stazione. Non era normale assentare l’ombra in quell’ora della sera, ma dal momento che era fiaba il tempo, il tempo stesso rimaneva assente e, allora, chi può dar torto all’autrice di questo depresso segno di stare appresso al ringiovanimento della pioggia e del bicchiere e di vedere il volto suo in quel celeste tramonto? Solo poesia è quel che vedo e ancor di più è il desiderio di questo lavoro di uscire fuori dalle viscere e decollare in un crepuscolo mediterraneo. Anina ci racconta una storia attraverso una profonda ricerca dell’ anima e della sua passione, è un lavoro perpetuo che sogna di “ demolire” la sua storia e di tracciare con i frammenti un nuovo cantiere di parole e immagini. Ci aiuta e ci costringe ad entrare nel suo isolamento e da quello ascoltare il silente respiro del precursore, di colui, o di cosa ha reso oltre la storia, una storia, un modo di essere in cura con se stessa e con la cura selvaggia dell’estasi. Di voci, immerse nella malinconia, si spreme fino a toccare il seguito di un segno e alla pittura dar la parola fino a trovare lo spazio e il suo dilemma. Non può dirsi felice, ma certo ha conosciuto l’inganno della vita e, tenendo alto il sospiro, si è spinta a cercare nelle piazze quel pomeriggio di vie tortuose che lungo il giorno, in fantasmi e sogni, hanno riacceso gli arabeschi di paesaggi in notturne estati. Alla passione Anina ha dato impulso e la sua arte non finge, gli ha lasciato cercare i ricordi, e sorvegliando con l’entusiasmo il suo esilio umano, ha trovato la voce espressiva nel monumentum che lascia vedere solo l’ombra. Non so se spiegare ciò che vedo in questo progetto sia giusto, quello che sento è di “ascoltarlo”e provare a coltivare le cose che indossano il tempo e, credetemi, qui è già tutto vestito di tempo, a questo punto si può solo pensare a una
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musa del tempo che fu. Vedo il suono del crepuscolo che si attenua, è estate, il mare sorveglia l’orizzonte, il vetro delle finestre mesce chiarori di cielo e nell’ombra si colorano le stanze. Una, che sembra la stessa ma rimane diversa anche se spinta verso oriente, colora l’altra, quasi a riflettere il sogno di se stessa, come se entrambe fossero percorse dal fiume acceso da una lanterna, (di notte i fiumi diventano vasche in movimento e se poi accendi un lume, tutto diventa blu). Nella prima stanza l’angolo è quasi nel fondo e sembra privarsi dei propri segni e l’odore è famigliare, quasi umano: c’è nella stanza un ricordo in piega rossa. L’altra, che sta nella stessa misura, è sommersa fino a l’orlo del pavimento e tremula come se fosse sera. E’ uno spicchio d’angolo il cuore del segno e, tra un arco e l’altro riflesso in specchio opaco, sempre una piega rossa langue. Immagini celesti, azzurre, blu, turchesi e intorno l’aria metafisica di un crepuscolo serenamente riscoperto. Due pitture stese a foto mnemoniche che cercano il seme del ricordo e intorno l’aria e una fonte che geme ininterrottamente il colore del mare. Questi due lavori di Anina ci sorprendono, ci invadono la mente come un busto di un eroe o di un dio dimezzato dalla sua stessa morte, ma non solo, anzi, a lei non basta, porta quest’acqua turchina nel battesimo della sua anima e da quel tuffo arcano, risorge nel ricordo e vede un vortice colorito dall’altra parte e davanti a se un perenne degrado dell’altra parte: la piazza della discordia e del sorriso. Cerca tra le parole, tra le cose, ma usa un’altra voce, tornerà poeta e folle e scrive nel suo libro la triplice alleanza tra il reale e la nevrosi, tra il silenzio e la paura e gli appare il segno, l’insegnamento di tutta la vita che è di molto superiore alla vita stessa; la liquidazione del cuore. Non è una stanza, neppure un’altra pittura, ma è il suo spazio tutto bianco che vibra con ali nell’aria, è una farfalla rossa che indossa se stessa. Il lavoro artistico di Anina è in cerca della ricerca e in questa installazione ha iniziato a trovare quelle parole che le mancavano, adesso il paesaggio che l’attende è la sua odissea. Ritornerà da dove ha inizio. “ Magia di Oriente sei tu, magia dei miei segreti, se penso il segno mi diventa polvere, l’inchiostro, che è segreto di follia, poggia a un altare che non è pregiato; perché mi hai crocifisso e poi piegato? “ Alda Merini
Massimo Innocenti
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IL DIO ABBANDONA ANTONIO di CONSTANTINOS KAVAFIS
Quando tra musiche incantate udrai Un bisbigliare di corteo invisibile A mezzanotte sorgere, e svanire; Sul tuo destino arreso, le fallite Tue azioni, la vita tutta Persa, che immaginavi-non fare Pianti senza costrutto E Alessandria, che parte; tu salutala Come pronto da tempo, come un forte. Non dire sto sognando, allucinato E il mio orecchio...Questo inganno Troncalo, speri invano Come pronto da tempo, come un forte (Questo e degno di te, che meritasti Tale citta in dono) va’ sicuro Alla finestra e trepidando ascolta, Senza i rimpianti e le suppliche dei vili Manda un addio a quella che tu perdi, Ad Alessandria; dagli incantati Strumenti e suoni del divino tiaso Un’estasi verra, per te, suprema. (1911)
Trovare il mio “peso” nel silenzio nel vuoto nel soffio nel cuore scendendo profondamente lì dove ci aspetta sempre la luce. benvenuti alla mia realtà.
“Quando tu hai creduto di partire definitivamente io son rimasto qui, in questa città dove il tempo non scorre, senza muovermi, senza far niente, ad attenderti. Io sapevo che tu saresti tornato. Tu avevi lasciato la parte piu sottile della tua anima nell’acqua di questa vasca...” Giovanni Papini Due immagini in una vasca da “Il tragico quotidiano” 1906
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“paesaggio” acrilico su tela, 150x70 cm
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“paesaggio” acrilico su tela, 35x75 cm
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“Trans-formazione�, installazione, olio su tela
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tempera su cartone ghessato, 70x50 cm
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regio Jonathan Tegelaars
ANDAMENTI ORIZZONTALI “ Oppure svernare gli ultimi piani nelle cento città. Una corda molte corde da una parete all’altra, dai soffitti al pavimento. Tese.” Luciano Erba
Architettata immagine, sfondo complesso, tradizione permanente, spazio aperto, poi, lo scandire del tempo con andamento lineare, fino a raggiungere l’orizzonte. E’ questo il tentativo che mi coglie nel vedere il complesso lavoro pittorico di Jonathan ? Non so, o forse è un incantesimo bruscamente rovesciato tra le righe di un racconto appena iniziato? E’ pur vero che nulla rimane alla fase primaria di un’esperienza, posso ben dire che tale ricerca si corrisponde di stile, quasi ha decifrare un’istituzione formale che trattiene a sé un pensiero emotivo e nello stesso istante complesso. Agire, come fa Jonathan, sembra scontato, anche perché è lui stesso a farcelo pensare, quello che invece non ci rende evidente è il perché e il come certi ritagli, schizzi, colori, oggetti, segni, si vanno a ricomporre in un “privato” parzialmente coincidente al rumore della folla. Il problema sta nel fascino discreto che appare osservando quello che lui fa e di come lo realizza. Proviamo a pensare. Conseguenza di questo vedere è l’osservazione…no! Conseguenza di questo è l’ordine del caos e attraverso precise esposizioni, trovare la geometria della musica. Ecco, il lavoro di Jonathan e una sinfonia distratta e attratta da se stessa, fino a ricondurla in un solo rumore, infinito fino al più lontano movimento, un andamento orizzontale che si riconosce in un’astrazione disumana dell’esistenza. Essere dall’altra parte, fuori, nel puro spazio cosmico dove non giungono le condizioni, è cosa che serve, un mezzo necessario per seguire l’artista e per leggere quel continum alternato che si delinea tra uno spazio e l’altro. Un evento di vita che accade fuori, nell’aperto di uno spazio, con legami che concedono un’apparente libertà e una conosciuta mobilità emotiva, fino ad appassionare l’appetito e il desiderio. La vita è dentro, al centro di un’alternanza e, come un fregio di un tempio, racconta la santità di un’espressione da eroe, o da cantore assiso tra l’angolo e la superficie. I tempi e gli spazi che si aggirano nel lavoro di Jonathan, non cercano un vero legame, quello che li tiene uniti è il senso oscillante che gira attorno alle diverse sequenze che si compongono su le alternate superfici. Ciò che non c’è , ma
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che esiste nella totalità della visione dell’artista, è la colonna, la quale non si cura di esistere, ma è passione umana che divide verso l’alto, insomma, il lato, o meglio il punto di vista, che sta nell’assenza di questo elemento, ma che rimane così percettibile da raccontare, attraverso l’assenza, il sostegno ideale, i lati che spingono la volta nella sua presenza. Infine, far rientrare il tutto nei frammenti distesi a fregio su la parete, diventando partecipi della bellezza del silente cromatismo del racconto. Questa congiunzione di astrazioni e sentimenti cercano un‘ispirazione e non è tanto il trovarla, ma quanto avere paura della singolarità che può far vedere. L’astrazione cromatica, che Jonathan ha scelto, non è, per lui, una raffigurazione motivata, ma quanto la coscienza per il mondo e per le storie che lo vivono. Sempre, e questo lavoro più di altri, cerca il suo artista e lo vuole accompagnare nello stesso tragitto che svolge lo spazio. Questo luogo, questa opera corrisponde al viaggio, ma anche al sentimento di tradurre in assenza la presenza di un processo sonoro, generato all’interno del tempo, dove la scansione rappresentativa ridiventa immagine frammentata di una natura esistenziale. Possiamo azzardare che l’installazione che Jonathan ci presenta un insieme di percezioni e documentazioni, una specie di antologia di significati che ci giungono dalla poesia e scelti in base all’eccellenza estetica utilizzando la storia e le emotività. L’artista segue un‘edizione di motivazioni, fino a cercare il riflesso di esse e tradurlo in colore e materia, ma anche in dimensioni speculative, dove l’alternanza si scompone e ricompone come il suono e l’armonia. Tratteggia e allinea ogni possibile variazione fino al punto di comporre versi in metrica e, con la giusta sistemazione, tracciare l’alternanza e poi ripartire in versi. Il lavoro, le pitture di Jonathan, si concentrano su un linguaggio architettonico-spaziale e dove l’espressione astratta della materia e della superficie diventano parole immobili, un silenzio collettivo che cerca l’essenza dell’anonima veste dell’io, suscitando la fissità tematica e nello stesso istante, portare l’osservatore nel ricordo dell’interazione di una magia musicale, dove il passaggio dal sonno alla veglia diventa portatore di tempi pensati nell’attimo di una sofferenza o di una virtù. Composizione acuta è questa di Jonathan, pitture che non potevano limitarsi e cercano, nel mondo, qualcuno… strade, case, volti, sorrisi, alberi, orizzonti e quelle piazze color del mare che dalle strade si possono vedere. “ Ecco il ritmo frenetico del sangue, quando gli azzurri tuonano a distesa, e qualsiasi colore si fa fiamma nell’urlo delle tempie.” Arturo Onofri
Massimo Innocenti
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Giorni di colore Tutto parte dai colori. Vanno cercati, guardati, amati. Da dove vengono i colori che mi attraversano? Da tutti i giorni di questa vita. Tutto parte dai colori. Ricordi da custodire rimescolano tesori. Escono pronti e carichi. Mi stupisco. Che strada percorrono in me? Accostamenti curiosi… Perché oggi il nero? Perché ieri il rosso. Perché oggi è blu. Ogni giorno ha la sua musica. Segno dopo segno, strato dopo strato, colpo dopo colpo, tutto parte dai colori. Giorno dopo giorno.
Jonathan Tegelaars
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“Icaro”, installazione, collage
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“Musica�, college di carte colorate
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“Fregio�, olio e acrilici su tavole, tele e cartone
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“Fregio�, particolare, olio e acrilici su tavole, tele e cartone
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“Autoritratto in 20 minuti�, pastello su carta colorata
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Progetto grafico di Andrea Biagi
2011 LABA