Appunti per la Città del Poco Futuro

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Appunti per la città del poco futuro A12 (Andrea Balestrero, Gianandrea Barreca, Antonella Bruzzese, Maddalena De Ferrari)

Abstract La società occidentale sta invecchiando. In Europa, l’Italia sta invecchiando più delle altre nazioni e Genova ha gli indici di invecchiamento più alti: qui i bambini sono sempre meno, i giovani si allontanano e gli anziani sono molti di più, lo sono più a lungo e lo sono entro strutture sociali che non li assorbono più nel corpo di famiglie multiformi e numerose. Se la terza o quarta età sono oggetto di studi, al centro delle preoccupazioni delle istituzioni e delle mire del mercato per il giro di affari potenziale, appare ancora fuori fuoco la riflessione sulle implicazioni che la vecchiaia ha sulla città, sui suoi spazi, sulla sua organizzazione. E i sempre più diffusi studi specifici su questi aspetti non riescono ad uscire da un approccio che oscilla tra il tecnicismo e la generalità. Intorno a questo tema sembra mancare una visione di ampio respiro come quelle che solo le avanguardie artistiche e il pensiero utopico sono riusciti a proporre. Platone, Campanella, Thomas More, Charles Owen, Étienne Cabet,

per citare alcuni casi noti, hanno reinventato la società secondo principi di giustizia, equità e modelli organizzativi e spaziali rivoluzionari. Un analogo afflato prospettico, fiducioso e idealista ha alimentato altre visioni del futuro altrettanto utopiche: dalle architetture “radicali” italiane a quelle di Archigram e dei Metabolisti, alle utopie geografiche di Herbert Sörgel a quelle ecologiste di Ernest Callenbach. In tutti i casi, l’uomo al centro dell’utopia è sempre sano, nel pieno delle energie, della maturità e delle sue capacità produttive e riproduttive. Cosa succede dunque se invece proviamo a mettere al centro di un’utopia un idealtipico uomo anziano? E cosa significa costruire una visione urbana per una città dedicata e costruita su misura per questo genere di persone? Appunti per la città del poco futuro è un lavoro in itinere che chi scrive ha avviato in occasione di una recente mostra presso la galleria d’arte Pinksummer a Genova che prova a dare risposta a queste domande a partire dalle constatazioni sopra citate,


Primo sfondo: della vecchiaia e della città La società occidentale sta invecchiando. E in Europa l’Italia sta invecchiando più delle altre nazioni. I dati e le proiezioni statistiche restituiscono una realtà che già oggi è evidente nelle pratiche quotidiane: quella di una nazione e di diverse città, Genova in particolare, dove i bambini sono sempre meno visibili, perché la natalità è in drastico calo1, i giovani si allontanano in cerca di migliori occasioni2 e gli anziani sono tali sempre più a lungo e lo sono entro una struttura sociale che non li assorbe più nel corpo di famiglie multiformi e numerose. Attualmente, gli ultra-sessantacinquenni in Italia sono circa 16.120.000, pari al 27% della popolazione attuale, con una progressiva estensione della condizione anziana, come testimonia il crescente numero di ultra-ottantacinquenni e centenari e l’aumentare della speranza di vita. Questa per le donne occidentali è di 84,8 anni, per gli uomini di 79,3: solo 50 anni fa era rispettivamente di 72,3 e 67,23. In prospettiva tali tendenze continueranno con il medesimo andamento: le stime segnalano che intorno al 2021, gli ultrasessantacinquenni rappresenteranno circa il 32% degli italiani, quasi una persona su tre e il 38% nel 20504. Nel 2050 l’età media della popolazione italiana sarà 49,7 (quando oggi è 43,5) la speranza di vita sarà aumentata ancora (86,6 anni per gli uomini, 91,5 per le donne) e la popolazione europea – che sarà poco più numerosa di quella attuale (517 milioni, contro 502 milioni nel 2010) – si sarà adeguata alle percentuali italiane e il 30% avrà almeno 65 anni. I temi legati alla vecchiaia, alle cosiddette

terze o quarte età, sono divenuti urgenti: sono oggetto di studi che ne analizzano le diverse implicazioni sociali, sanitarie, culturali, politiche ed economiche; sono presenti nelle agende dei governi nazionali e delle loro politiche sociali; sono ben considerati dal mercato per il giro di affari che possono rappresentare. Tuttavia, anche se la soglia di attenzione intorno a questo tema sta progressivamente salendo, resta ancora fuori fuoco la riflessione sulle implicazioni che la vecchiaia ha sulla città, sui suoi spazi, sulla sua organizzazione. E anche se non mancano studi specifici su questi aspetti5, molti di essi non riescono ad uscire da un approccio che oscilla tra il tecnicismo e la generalità: indicazioni di larga massima intorno alla necessità di ritrovare ruoli centrali agli anziani e restituire qualità alla loro vita (vita attiva, coinvolgimenti, ecc), oppure risposte circoscritte a problemi specifici che non riescono a modificare un’immagine di città e di società entro la quale gli anziani hanno un ruolo marginale. Sembra mancare, in altre parole, una “visione” di ampio respiro come quelle che, nei grandi momenti di trasformazione delle società, solo le avanguardie artistiche e il pensiero utopico sono riusciti a proporre. Secondo sfondo: dell’utopia e dei suoi abitanti Tutte le costruzioni utopiche, come prefigurazioni di nuove spazialità e società diverse, sono sempre state caratterizzate da un potente slancio verso il futuro. Platone, Campanella, Thomas More, Charles Owen, Étienne Cabet, per citarne solo alcuni, re-inventavano la società secondo principi di giustizia, equità e modelli organizzativi e spaziali rivoluzionari. Proponevano soluzioni alternative al vivere allora contemporaneo, prospettive per futuri “migliori”. Un medesimo afflato prospettico, fiducioso, forse anche positivista e idealista,

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usando il pensiero utopico come sponda. Il paper illustra i contenuti del lavoro (di cui si allegano alcune immagini) e ne restituisce in maniera critica alcuni nodi.


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senz’altro provocatorio e visionario, ha alimentato anche altre immagini del futuro altrettanto utopiche, magari meno compiute, a noi più vicine. Gli esempi sono molti: dalle Architetture Radicali italiane a quelle di Archigram e dei Metabolisti, alle utopie geografiche di Herbert Sörgel a quelle ecologiste di Ernest Callenbach. Ciascuna di queste proposte – pur nate in periodi storici e contesti culturali assai differenti e realizzate anche con obiettivi differenti – sono caratterizzate dalla capacità di costruire visioni complessive e “sostitutive” della realtà. Con una tensione immaginifica e comunicativa potente che lascia in secondo piano discorsi di realizzabilità, fattibilità, coerenza o congruenza. È la potenza della visionarietà che scardina posizioni preconcette e rassicuranti, propone alternative e fa avanzare il ragionamento per salti e non per semplici e ragionevoli aggiustamenti. Se la dimensione visionaria è costitutiva delle utopie, al loro centro si trovano abitanti “tipo”, sempre immaginati nel pieno delle loro potenzialità fisiche e psichiche. L’uomo al centro dell’utopia, di ogni utopia, è sempre un uomo sano, nel pieno delle energie, della maturità e delle sue capacità produttive e riproduttive. Anche quando si parla di anziani, questi sono i saggi o i nonni, o comunque persone ancora attive con un ruolo definito entro un’organizzazione sociale robusta, coesa e solidale. Con la vecchiaia la società occidentale e l’Italia hanno un rapporto a dir poco controverso. All’estensione di questa condizione corrisponde una sua negazione fatto. L’Osservatorio sul capitale sociale in Italia in un sondaggio di qualche anno fa6, dava sostanza quantitativa ad un sentimento diffuso per cui la vecchiaia è un termine tabù: solo la metà (54%) degli ultra-sessantacinquenni intervistati si definiva “anziano”, il resto preferiva la parola “adulto”. Lo stesso fenomeno si registrava peraltro in altre

fasce di età, spostando progressivamente in avanti le classi di definizione. All’avanzamento in là negli anni delle tappe fondamentali della vita (uscire di casa, fare figli, andare in pensione, ecc.) corrisponde un’incapacità culturale e psicologica di ammettere la vecchiaia, dovuta a modelli culturali che non riservano spazio a questa condizione e che spinge alla ricerca di una giovinezza fittizia. Negli ultimi anni, sia per l’espansione del fenomeno nel contesto occidentale, sia per lo sviluppo di una differente consapevolezza, si sono moltiplicati i modi di parlare di vecchiaia e nel cinema, nella pubblicità, nella letteratura, gli anziani hanno smesso di essere solo i “nonni” ma “persone anziane”, con tutte le loro esigenze e fragilità. Ciò nonostante, la vecchiaia continua ad essere un argomento a cui ci si avvicina sempre con una certa difficoltà, perché la vecchiaia limita la capacità di guardare il futuro e di pensare al futuro. Se non altro perché il futuro davanti a chi guarda è poco ed i suoi limiti cominciano a intravvedersi con maggiore chiarezza. Appunti per la Città del Poco Futuro Cosa succede dunque se invece proviamo a mettere al centro di un’utopia un idealtipico uomo anziano? Un uomo, o una donna, che ha oltrepassato la soglia dei 65 anni, che deve fare i conti con una condizione di debolezza o di malattia? E soprattutto cosa significa costruire una visione urbana per una città dedicata e costruita su misura per questo genere di persone? Appunti per la Città del Poco Futuro è il titolo di un lavoro presentato dal gruppo A12 presso la galleria Pinksummer di Genova7 e da cui le presenti note prendono l’avvio. Trovano la loro ragion d’essere nella riflessione intorno a questi due temi apparentemente opposti e distanti: vecchiaia – nella sua relazione con una città come Genova – e il ruolo


Di seguito una breve descrizione degli elaborati che compongono il lavoro: quattro foto aeree di diverse parti del centro di Genova, da cui sono state cancellate con una lametta tutte le aree accessibili solo attraverso strade con una pendenza maggiore del 4%. Mettere a confronto dati oggettivi come l’orografia di un territorio e un dato tecnico della normativa architettonica ha generato un’immagine della città inaspettata, quasi violenta, in cui le ampie parti di città cancellata ci ricordano non solo l’impossibilità per alcuni di muoversi in autonomia, ma anche la fatica di chi, più anziano, percorre quotidianamente le sue strade;

sedici schede dedicate ognuna a una fascia di età compresa tra i 25 e 100 anni che associano informazioni, dati numerici e previsioni riguardanti la classe di età di riferimento a fotografie d’epoca che ritraggono momenti di vita privata di sconosciuti appartenenti alle singole fasce di età. Analogamente agli appunti precedenti, anche questi lavorano sulla contrapposizione tra l’oggettività di dati quantitativi e il desiderio di dare un volto ai singoli individui che questi numeri nascondono, alla ricerca di indizi su quale sarà la condizione dei futuri abitanti di CPF; una fotografia aerea di CPF. Vista dall’alto la città ribadisce la sua natura di utopia urbana: un’isola galleggiante in mezzo al mare come l’Utopia di Moro, non ha un disegno originale, ma è l’esatta copia, specchiata, appiattita e ritagliata, della città esistente che la fronteggia, perché di questa è il riflesso e la sua condizione estrema. È una città/specchio in cui però ogni dislivello è annullato perché gli anziani vi si devono poter muovere liberamente. È una città che solo apparentemente è un ghetto o un allargamento a scala urbana di un ospizio. È il riflesso degenerato di una condizione attuale, di una città che invecchia e che si adegua ai suoi abitanti. È una città modellata per accogliere gli anziani e far loro vivere al meglio un futuro che pur essendo poco – perché è senza prospettiva e se ne intravvede la fine – si sta comunque allungando; spezzoni di un possibile manifesto le cui asserzioni (37 quelle presentate in mostra) nel loro insieme ricompongono provvisoriamente le caratteristiche di questa nuova città. Le regole alla base di CPF sono di varia natura, riguardano la composizione dei suoi abitanti e di chi se ne occupa, l’organizzazione delle sue attività e dei suoi spazi, le dotazioni di servizi, le prestazioni dei materiali, le risposte alle fragilità del fisico e della

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delle riflessioni utopiche. La Città del Poco Futuro (di seguito CPF) è un’ipotetica città, pensata per gli anziani di domani, un progetto “speculativo”, un modo per riflettere intorno a una condizione attuale e sempre più urgente, mettendo al lavoro gli strumenti e le forme di un certo tipo di pensiero – quello utopico – assumendolo più come attitudine dello sguardo che come riferimento di contenuto. A partire dal contesto per cui è stato concepito (una galleria d’arte contemporanea) e dal metodo di lavoro del gruppo, il materiale presentato è costituito principalmente da immagini ed elaborati visivi anche molto diversi tra loro e volutamente spuri. Le diverse parti in cui il lavoro si articola tendono a riprodurre la complessità di una costruzione utopica razionale, mentre il loro carattere di frammentarietà impedisce di considerarle nel complesso come un vero e proprio “progetto”. Lo scopo principale è indagare nell’oggi la capacità di un’architettura visionaria ed utopica, di identificare problemi, sottolineare la necessità di riflessioni specifiche e individuare un possibile contributo propositivo, avendo ben chiari i limiti del dibattito contemporaneo.


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memoria dando per risolte paure e ossessioni della contemporaneità. Ogni asserzione contiene un progetto implicito per uno spazio urbano in cui tutto è permeato dalla tecnologia senza implicare necessariamente un’estetica differente e senza richiedere alcuna competenza specifica, né capacità di apprendimento; sedici visioni (schizzi e collage) che illustrano in forma evocativa più che descrittiva alcune ipotesi del manifesto: i percorsi obbligati che consentono a chi è malato di Alzheimer di ritornare, i recinti protetti dove accadono «cose meravigliose», l’Accademia delle Badanti, gli archivi di immagini per costruire le Comunità di Memoria, la città realizzata in piano, ecc. sono traduzioni ed estremizzazioni in forma visiva di ciò che in alcuni casi si sta già provando a fare ed alimentano scenari che in futuro appariranno assai meno provocatori di quanto possano sembrare ora. Sono in definitiva modi per definire uno spazio che è sì concettuale, ma che non può prescindere dalla sua figurabilità, perché anche la memoria e l’identità sono necessità minime perché una città possa definirsi viva. Dell’importanza di “visioni urbane” e di linguaggi capaci di comunicarle Appunti per la Città del Poco Futuro offre lo spunto per avanzare in conclusione alcune considerazioni sulla natura dell’operazione svolta. In particolare ci preme interrogarci sul ruolo delle visioni e di come sia possibile riprendere nuovamente e da un punto di vista disciplinare un ragionamento sul ruolo “speculativo”, provocatorio e visionario del progetto. Un modo per riflettere intorno a una condizione attuale e sempre più urgente (in questo caso invecchiamento della popolazione e bisogno della città di rispondere a tale condizione), mettendo al lavoro gli strumenti e le forme di un certo

tipo di pensiero – quello utopico – assumendolo più come attitudine dello sguardo che come riferimento di contenuto. Utopia come strumento, provocazione come sistema di disvelamento Al di là dei contenuti e delle specificità delle utopie citate in apertura (da Platone a Sörgel), che volutamente non affrontiamo, ciò che ci interessa è innanzi tutto il ruolo dell’utopia nei termini in cui la definisce Ernst Bloch (1986, cit. in Hatuka e D’Hooghe, 2007) quando dice che essa può avere una funzione di spinta verso il progresso, come meta visibile anche se non necessariamente raggiungibile, che può innescare un cambiamento positivo. È cioè per noi interessante provare a immaginare l’utopia come uno “strumento” o come un dispositivo per fare avanzare il pensiero e la riflessione – come avviene in quei casi in cui metodo utopico consente di costruire modello alternativo di pianificazione da valutare8 – e non come un “fine”, immagine ideale e statica che si propone come punto di arrivo e perfezionamento di uno schema precostituito, con tutti i possibili rischi di tradimenti e fraintendimenti, imposizioni, personalismi e totalitarismi. Questo modo estremamente riduttivo di pensare l’utopia non tiene conto del suo potenziale provocatorio e di “disvelamento” che solo l’estremizzazione e la capacità di costruire figure visibili e immediatamente comprensibili possono avere. Per questo motivo ci sembra utile e fertile una ripresa di un linguaggio “utopico” che non coincide affatto con l’imposizione di un modello, ma che anzi serva a produrre immaginari comprensibili da tutti, utili a costruire il dialogo, il confronto, magari anche il conflitto, ma portando in evidenza le varie implicazioni per promuovere ed alimentare dibattiti che coinvolgono anche i non addetti ai lavori.


Ruolo culturale e politico del progetto: visioni e futuro Appunti per la Città del Poco Futuro fa esplicito riferimento quindi, in termini di metodo e di atteggiamento anche se non di contenuti, a progetti come NoStop City di Archizoom e Il Monumento Continuo di Superstudio, dai loro stessi autori definiti come Discorsi per immagini, ovvero veri e propri assunti teorici celati dietro sembianze progettuali e costruiti facendo ampio ricorso all’ironia9. Tuttavia alcune differenze vanno sottolineate. Le mostre furono l’esito finale dei progetti degli architetti radicali che irruppero nel dibattito architettonico dell’epoca e furono concepite in un contesto di proposta politica fortemente polemica. Le loro tematiche erano le stesse del dibattito politico del movimento studentesco di quegli anni, che assumevano forma architettonica. L’intento provocatorio era rivolto non solo contro i dogmi della disciplina, ma anche, almeno in parte, contro gli stessi attori di quel dibattito (Wolf, 2012). Oggi, nonostante ci si trovi in un periodo di cambiamenti economici e sociali altrettanto dirompenti, questa carica politica è del tutto assente dal panorama del dibattito architettonico, oppure ha assunto connotati totalmente differenti. È quindi un gioco puramente artificiale ipotizzare un rovesciamento della parabola dell’architettura radicale “dalla rivoluzione alla decorazione”, nella speranza che agendo dallo spazio espositivo se ne possa uscire, almeno

per suggerire dei temi di riflessione al dibattito? Partiamo dal paradosso che l’architettura è una disciplina ormai talmente frammentata10 da rendere quasi insostenibile, all’interno del suo contesto disciplinare, qualunque visione urbana complessiva che non dichiari, fin da subito, la sua natura puramente “concettuale”. D’altra parte è innegabile che l’impossibilità di una “visione”, intendendo il termine anche in senso letterale, delle trasformazioni dello spazio fisico anche alla grande scala contemporaneamente sottragga la trasformazione dello spazio al dibattito pubblico e limiti fortemente il ruolo dell’architettura come disciplina capace di incidere in maniera sostanziale sulla realtà. Mentre le discipline urbanistiche o del progetto urbano spesso sfuggono questo obiettivo per impostazioni talvolta troppo appiattite ai temi della fattibilità economica e politica, incapaci di riuscire a trovare adeguate soluzioni alle difficoltà di ricondurre a coerenza, entro una visione complessiva della città, spinte e interessi divergenti, frammentati e privatistici. Sebbene, rispetto anche solo a non molti anni fa, l’architettura sia oggi molto più presente all’interno dei media generalisti e nonostante le tecniche digitali abbiano cambiato il linguaggio della rappresentazione dell’architettura, rendendolo più “realistico” e comprensibile al pubblico, gli architetti stessi sembrano in genere maggiormente sedotti dalle bizzarrie formali dei singoli oggetti architettonici che dalla possibilità di proporre scenari urbani alternativi, anche se non mancano certamente le eccezioni11. D’altro canto l’arte, a cui un tempo era affidato il compito di dare forma sensibile a questo tipo di visioni, vive anch’essa una situazione paradossale. Mentre è sempre più accessibile grazie ai mezzi di comunicazione e mentre tende a diventare sempre più “politica” nel tentativo di annullare la sua distanza dalla “realtà” e ad inseguire un “presente” che, stante la velocità a cui la rete ci

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Per questo un’utopia che possa essere strumentale ad alimentare il dibattito deve saper parlare un linguaggio semplice e comprensibile e fin dall’inizio deve dichiarare la sua “imperfezione” e incompiutezza in modo da evitare di essere rifiutata in toto, per essere invece accolta come strumento che fa emergere con estrema chiarezza temi e questioni scottanti.


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Note

La media dei figli per ogni donna in Italia nel 1961 era 2,4, oggi è 1,4. In Liguria 1,3.

1

“Tra il 1971 e il 2001 la Liguria perde quasi 282 mila unità, pari al 15,2% in meno. La flessione maggiore appartiene alla provincia di Genova che in trent’anni perde 209.891 abitanti, per un 19,3% in meno e nel comune di Genova (- 206.565)”. Fonte: Rapporto statistico Liguria 2010 (Istat/ Regione Liguria).

2

3

Fonte: Istat, Censimento 2011.

Fonte: Wallchart Population Ageing and Development 2012. United Nations. Department of Economic and Social Affairs Population Division. www.unpopulation.org

4

Gli esempi sono diversi: dal programma Global Age-friendly Cities dell’Organizzazione Mondiale della Sanità lanciato nel 2002 che ha prodotto l’omonima guida, alle ricerche promosse da università e istituti di ricerca, quali tra le altre: UrbAging: Designing urban space for an aging society, coordinata da Josep Acebillo all’università di Mendrisio nel 2009.

5

12a indagine dell’Osservatorio sul Capitale sociale degli italiani curata da Demos COOP, La società che non vuole invecchiare, 2007.

6

La mostra presso Pinksummer (Genova, 2.02.13-24.03.13) presenta i lavori di due gruppi di architetti operanti tra Milano e Genova che si interrogano su possibili scenari per quest’ultima città: A12 (Appunti per la Città del Poco Futuro) e Baukuh (Demolire Genova). Informazioni e immagini si trovano su www.pinksummer. com e su http://a12-news.blogspot.it/

7

si veda ad esempio Hatuka, e D’Hooghe (2007).

8

A proposito dell’uso dell’ironia e del significato di questi progetti si veda: Stauffer 2008.

9

Si veda Manfredo Tafuri nella introduzione a La sfera e il labirinto (1980). 10

Ci riferiamo ad esempio alle ricerche di Dogma (che con Stop City del 2007 costruiscono un progetto urbano radicalmente alternativo a modelli insediativi correnti, recuperando alcuni principi della tradizione moderna) o a quelle svolte dalla fondazione olandese The Why Factory fondata da Winy Maas presso la Delft University of Technology (http:// www.thewhyfactory.com) ispirate proprio dalla volontà di recuperare la capacità dell’architettura di costruire visioni e di riportare il futuro della città al centro del dibattito, anche grazie allo sfruttamento delle potenzialità delle tecnologie digitali sia in termini di rappresentazione che di capacità di simulazione dell’esito di processi di trasformazione. 11

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ha abituato, si storicizza pressoché immediatamente, essa si rende sempre più incomprensibile ad un pubblico che non sia adeguatamente preparato a comprendere le sofisticazioni del suo linguaggio (Krich, 2012). Di fronte a questo doppio paradosso un lavoro di ricerca che si ponga il problema di come e quali strumenti estetici possano contribuire alla comprensione quando non al cambiamento della realtà, appare quantomai necessario. Appunti per la Città del Poco Futuro non pretende di essere una risposta a questa esigenza, ma un richiamo a che lo sviluppo di questa capacità di creare visioni torni al centro del dibattito delle arti e dell’architettura e che ciò avvenga in un maniera aperta ed accessibile ad un pubblico il più possibile vasto e non specializzato. Sebbene il titolo del lavoro alluda a un futuro limitato nel tempo, l’operazione svolta nel suo complesso segnala la necessità di un ragionamento più compiuto e coraggioso proprio nei confronti del futuro. Sempre a partire dal dato di realtà, senza dimenticare evidentemente le difficoltà della realizzazione, ma analogamente senza dimenticare la capacità della “visione” come uno strumento da recuperare per promuovere il dibattito culturale e politico sulla città e sulle necessità dei suoi abitanti.


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Aureli, P. V. (2009), More and More About Less and Less: Notes Toward a History of Nonfigurative Architecture in «LOG» 16, 2009.

Fonti dei dati riportati

Block, E. (1986), The Principle of Hope, Cambridge, MA.

Censimento ISTAT 2011.

Hatuka, T. - D’Hooghe, A.(2007), After Postmodernism: Readdressing the Role of Utopia in Urban Design and Planning, in «Places Journal», 19(2), 2007.

Bibliografia essenziale

Karich, S. (2012), Lo chock dell’arte contemporanea in «Il Giornale dell’Arte», 317, febbraio 2012. Nappi, A. (2007), Il lavoro degli anziani. Mutamento della struttura demografica e nuove/vecchie urgenze sociali, Dipartimento di Studi Sociali e Politici Università degli Studi di Milano, Working Paper 8/07. Stauffer, M. T. (2008) Critique of pure structure: The Utopias of Archizoom and Superstudio, in van der Ley Sabrina, Richter Markus (a cura di) “Megastructure Reloaded: visionary architecture and urban design of the sixties reflected by contemporary artists” catalogo della mostra, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern, 2008. Tafuri, M. (1980), La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980. Wolf, A. (2012), Discorsi per Immagini: Of Political and Architectural Experimentation, in California Italian Studies 3, 2012.

Bilancio demografico del Comune di Genova, 2011.

Rapporto statistico Liguria 2010 (Istat, Regione Liguria). Rapporto Istat “Il futuro demografico del paese: previsioni regionali della popolazione residente al 2065” dicembre 2011. 12a Indagine dell’Osservatorio sul Capitale sociale degli italiani curata da Demos – COOP, “La società che non vuole invecchiare”, 2007. Wallchart Population Ageing and Development 2012. United Nations. Department of Economic and Social Affairs Population Division. www.unpopulation.org


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