CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico
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CREDEREOggi 112 (lug/ago 1999)
PER UNA SPIRITUALITÀ DEL CONSUMO E DELLA SODDISFAZIONE. di Lilia Sebastiani
Un’impressione di partenza, che un rapido controllo ha confermato, è che il consumo non rientra fra i temi di cui la morale è solita occuparsi. La voce «consumo» non figura né in dizionari teologici né in repertori tematici e indici analitici. La voce «consumismo» sì, invece. Ma sappiamo che il consumismo sta al consumo più o meno come la violenza sta all’affermazione di sé, cioè come una deviazione che nasce dalla paura e dal senso di «non farcela». 1. Siamo eredi di un pessimismo dualista Il fatto che venga in qualche modo tematizzato in sede teologica il consumismo (in quanto atteggiamento «peccaminoso», o comunque reprensibile: se il tema è piuttosto moderno, l’angolatura prospettica è antica) e non il consumo, quasi che quest’ultimo fosse solo un concetto socio-economico da lasciare alla riflessione di chi è tecnicamente esperto in materia, riflette quantomeno l’eredità, se non l’effettiva sopravvivenza, di un approccio alle realtà terrene che è negativo e sottilmente manicheo. Un approccio, sottolineiamo, che quand’anche nei singoli si fosse fondato su presupposti ascetici di autentica qualità e di temperie spirituale altissima, non risultava poi spiritualmente fecondo nei risultati a lungo termine. Trasmetteva infatti l’idea che «spiritualmente» ci si potesse interessare solo al rifiuto e al disprezzo dei beni, ovvero che trattare i beni terreni fosse di per sé cosa anti-spirituale. In questo modo però si consegnavano i beni della terra (che dopotutto nessuno, all’infuori delle correnti rigoriste intransigenti, sosteneva si dovessero radicalmente abbandonare o distruggere) alla più dichiarata, irredimibile profanità. E poiché di fatto solo una ristrettissima minoranza – anche fra coloro che effettuavano una scelta cristiana di prima linea e a tempo pieno, fosse pure scelta di sacerdozio o di vita religiosa – giungeva al rifiuto totale dei beni, nel concreto del vivere cristiano si finiva con l’elaborare un’etica rassegnata, perbenista, accomodante, acriticamente partecipe e complice dei criteri mondani e dell’ingiustizia; una vera etica della mediocrità e dello spirito piccolo-borghese, in base alla quale ancor oggi il buon cristiano in sostanza si rapporta con i beni della terra al modo di tutti, cercando di evitare le azioni disoneste esplicite e quantificabili, come il furto o l’usura (ma questa elementare esigenza di onestà non è certo esclusiva del cristianesimo), dividendo l’esistenza in due categorie assai poco comunicanti, cose-per-ilcielo e cose-per-la-terra, solo salvando un po’ la faccia, è il caso di dirlo, per mezzo di qualche elemosina. Ma si sa che di solito l’elemosina – anche prescindendo qui dal dubbio, oggi sempre più stringente, se costituisca non già un mezzo valido di risoluzione (tutti sappiamo che non lo è), ma un modo umano di rapportarsi ai problemi dei più poveri – significa dare alcune briciole del tutto inessenziali dei propri beni privati, allo scopo di tacitare la coscienza o di disfarsi garbatamente dell’importuno accattone; che si comunque oggi si preferirebbe non incontrare, onde illudersi che non esista. Tornando all’atteggiamento tradizionale, restava aperto il problema del rapporto giusto con le cose del mondo. «Fuggirle» era il primo suggerimento degli asceti di professione rivolto agli altri che aspiravano ad essere tali. Ma era ovvio che non tutti potevano farlo. E per secoli l’ascesi abitualmente proposta a quelli che vivevano nel mondo è stata una copia molto sbiadita, ridotta e banalizzata, dell’ascesi «professionale». Così a quelli che dovevano restare nel mondo venivano proposte due vie. L’una era quella della mortificazione privata e segreta, quantunque in genere nota a tutti (classico esempio, caro agli agiografi, il cilicio indossato sotto le vesti, magari lussuose per obbligo di stato): in molti casi la mortificazione rendeva la vita squallida e triste e soprattutto, praticata con lo scopo individualistico e un po’ egoista di acquistare meriti, rendeva implicitamente mercantile il rapporto con Dio. La seconda, abbinata o no alla precedente, era quella del cosiddetto «distacco spirituale» dai beni: che risulta ancor meno simpatica, per il sottile sapore di ipocrisia e perché elaborata allo scopo di rendere la proposta cristiana digeribile per le classi alte (le uniche, cioè, che potessero venire interessate, in passato, da problemi di «consumo» e di «soddisfazione», quale che fosse la terminologia in uso). Infatti, nella comprensione più volgare e diffusa, «spirituale» viene recepito non tanto in rapporto allo Spirito, quanto http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32
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come sinonimo di non-concreto. Il distacco spirituale spostava tutto il problema nell’interiorità del singolo – uno spazio di solito ben poco visibile e poco controllabile -, lasciando sopravvivere ogni sperequazione sociale e lasciando teologicamente irrisolto il problema delle cose e dei valori terreni in genere. 2. La fuga nel non-consumo Anche il rifiuto radicale dei beni, l’autospoliazione, oggi non sembra proponibile nelle forme esteriori del passato. Affermare questo può dispiacerci da un punto di vista ideale e romantico, ma è così. Occorre sottolineare che si tratta di una riflessione riferita al momento presente, che può non valere affatto per altre epoche[1]. Anche i segni non possono venir decontestualizzati. Oggi è evidente che se, per assurdo, tutti operassero una scelta di questo genere, ne deriverebbe il tracollo immediato del mondo occidentale, anzi del mondo intero, considerando i molteplici vincoli sia economici sia politici che collegano tra loro i fattori economici nei vari paesi. Non occorre essere esperti di pianificazione economica per intuirlo. Pensiamo alle innumerevoli attività che si estinguerebbero o dovrebbero adattarsi a uno scadimento qualitativo grave e paralizzante, ai milioni e milioni di disoccupati, alla perdita in termini di bellezza e di stimoli a creare; e queste certo non sono le uniche conseguenze, solo le prime che si affacciano al pensiero. Ma, si obietta, ciò non può accadere, è un’ipotesi assurda! Sì, certo, l’ideale della spoliazione, se proprio non è sogno, è assolutamente elitario e si fonda sulla certezza previa che comunque in ogni tempo potrebbe essere solo una ristrettissima minoranza socialmente ininfluente a compiere questa scelta, come segno profetico. Quello che qui mettiamo in dubbio è proprio che – oggi – si tratti di un segno profetico. Crediamo che il segno profetico indichi una meta idealmente proponibile a tutti, per realizzare un mondo migliore. Questa scelta di vita, per definizione, non può essere proposta a tutti. E se i migliori, cioè quelli che tendono a una vera pneumatizzazione del loro vivere nel mondo, attuassero un rifiuto totale rispetto ai beni della terra, i quali comunque resterebbero, chi resterebbe a gestirli? Quelli che escludono lo spirito dalle proprie considerazioni, quelli che sono schiavi della più gretta logica terrestre, quelli che confondono l’amore per il bello con la volgarità del consumismo, e il gusto di vivere con l’esibizione di certi simboli di ricchezza? Insomma oggi è realmente una scelta spirituale la fuga dell’«anima bella» fuori della civiltà compromessa con il fattore-denaro? Anche ammettendo che quest’anima (singola) trovi una sua felicità e realizzazione nella forma di vita extra-economica che sceglie per sé, vorremmo chiederci: una vita extra-economica non è anche, in qualche misura, extra-sociale? E può esserci una scelta autenticamente spirituale senza solidarietà? Forse oggi l’anima bella è soprattutto quella che accetta il confronto con le cose del mondo. Che accetta di «sporcarsi le mani», si diceva volentieri fino a qualche anno fa; ma la prospettiva sottintesa non ci sembra soddisfacente, anche perché contiene sempre un implicito giudizio negativo (mondo=sporco). La scelta non è quella di sporcarsi le mani o il cuore, ma di purificare il mondo fino a renderlo capace di «trasparenza», fino a rendere leggibile in esso il progetto di Dio. Occorre dunque anche riconciliarsi con i beni, con le cose: non per dimenticarsi in esse, non per identificarsi con il mondo, non per smarrire la propria innata «verticalità», ma per rendere la logica della Redenzione sempre più riconoscibile e operante in tutti gli ambiti del vivere terreno. 3. E lo spirito delle Beatitudini? A questo punto è inevitabile che affiori un interrogativo: ciò può conciliarsi in un modo non «conciliante», insomma senza compromessi, con lo spirito delle Beatitudini? Senza svuotarle di senso, senza renderle innocue, e anche senza demonizzare le cose? Il problema si pone in qualche modo fin dalle pagine stesse dei Vangeli. Pensiamo alla duplice veste della prima beatitudine – appunto quella sulla povertà – nei vangeli di Matteo e di Luca. Noi riteniamo che essere poveri significhi essere liberi rispetto alle cose: cioè, non dipendere da esse e non temerle. Infatti temerle sarebbe sempre un modo eminentemente negativo di dipendere da esse. Solo quando si sia liberi rispetto alle cose si è in grado di umanizzarle, cioè di inserirle all’interno di un progetto di vita globalmente umano, e di «trans-significarle» rendendole un mezzo di crescita comune e
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di comunione con gli altri e con Dio. Questo rapporto armonioso con le cose richiede di non ricercare per sé i beni della terra in misura superiore a quanto richiesto per un’effettiva umanizzazione della propria esistenza (se l’entusiasmo per le cose belle, utili e significative diventa una dissennata vertigine dell’accumulo, le cose diventano droga, vengono usate per anestetizzarsi rispetto ad altre più profonde carenze e il significato umanizzante del consumo si perde). Richiede anche di non disinteressarsi per malinteso angelismo delle ricchezze della terra, ma d’impegnarsi attivamente per la loro distribuzione secondo giustizia e la loro destinazione universale. È anche il caso di sottolineare che consumo e soddisfazione non escludono la semplicità, anzi la richiedono e la promuovono. Un economista che poteva essere anche molto «umanista», E.F. Schumacher, in un’opera degli anni Settanta, Piccolo è bello (Small is Beautiful), che dopo un quarto di secolo svela ancora una piena validità nei presupposti e nelle proposte, affermava che economia e politica mondiale camminano verso la catastrofe, a meno che non si torni a considerare la semplicità come un modo per scoprire la bellezza. 4. Desiderare le cose Crediamo che l’apprezzamento delle cose belle e il desiderio – si intende desiderio umano ed equilibrato – di possederle non sia un male, purché non diventi un’aspirazione assoluta e fine a se stessa, purché non scada in idolatria. Ci sembra essenziale sottolineare: desiderio umano. Infatti forse la chiave del rapporto buono e redento con le cose risiede nella loro destinazione umana e nella progressiva umanizzazione non già delle cose, degli oggetti materialmente intesi ma delle relazioni d’uso e delle finalità delle cose stesse. Cioè, dei loro rapporti con la sfera umana, con la vita e l’attività umana che può esserne migliorata e intensificata, nell’efficienza e nel senso, il che è molto prossimo al dire «avvalorata». Naturalmente – occorre ripeterlo? – al centro si trova sempre la persona umana, con la sua intenzionalità, la sua attività e le sue relazioni umane, e non già le cose. Nel momento in cui le cose da strumento diventassero scopo – e questo succede quando l’umanità del contesto, umanità in senso singolo e in senso collettivo, è carente e inconsapevole – nessuna valenza spirituale si rende possibile. Anzi neppure vi è più consumo: non si consumano le cose, piuttosto se ne viene consumati. Non vi è più «soddisfazione», umanamente intesa, perché il bisogno patologico di cose genera insoddisfazione permanente. Anche in questo ambito, insomma, è il caso di distinguere il desiderio – in sé non cattivo, anzi buono in quanto è indice di slancio vitale e premessa dunque alla stessa capacità di ascendere con lo spirito – e il desiderio egoistico e disordinato (disordinato quanto alle pulsioni interne da cui muove e quanto ai frutti anti-umani che genera), a cui potremmo riservare il termine tradizionale: concupiscenza. Abbiamo già accennato che la scelta radicale profetica non è più quella di fuggire la realtà umana nella sua complessità, ma di restarvi dentro con spirito redento e di farsi irradiazione vivente della novità del Vangelo. Allo stesso modo si potrebbe dire che l’ascesi giusta per il nostro tempo (sarebbe infatti del tutto sbagliato, a nostro parere, affermare che il tempo dell’ascesi sia passato) non è più quella volta a «escludere» spazi sempre più consistenti del vivere umano; ovvero, per usare una similitudine botanica, a tagliare rami il più possibile, allo scopo di lasciare spazio e nutrimento a quell’unico ramo che si è deciso di far vivere; una potatura così esasperata rischia di ridurre la pianta, non per nulla simbolo di vita, a un tronco spoglio, anche forte, ma informe, povero e triste, forse nemmeno più in grado di simboleggiare la vita. Secondo noi l’ascesi può essere anche assunzione progressiva di tutte le dimensioni del proprio vivere: per «unificarle», certo, ma non nel senso di ridurle a uno, attraverso l’esclusione di tutto il resto, bensì di armonizzare trasfigurando, fino a rendere la complessità storica del vivere terreno omogenea con la logica della Redenzione. 5. Rifiutiamo una morale «accomodante» Non vorremmo proprio che comoda legittimazione degli etiche implicite in queste impegnative, forse più di dell’autospoliazione.
quanto stiamo tentando di dire sembrasse una facile benedizione e una attuali stili di vita dell’occidente cosiddetto evoluto. A nostro parere le linee considerazioni – affrontate nella giusta luce – sono estremamente quelle che scaturivano dall’ideale ascetico tradizionale della rinuncia,
In primo luogo, perché accettare quella prospettiva richiedeva certo il coraggio iniziale di dire «no», di http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32
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dire» basta» allo stile di vita normale o agiato, di accettare privazioni, e poi il coraggio di perseverare nel proposito (cosa non poi difficilissima, con il sostegno di un forte ideale); ma non richiedeva la fantasia creatrice di inventare giorno per giorno una vita redenta a contatto con le cose del mondo, anzi di redimere le realtà terrene. In secondo luogo, perché la prospettiva ascetica rigorista restava in sostanza un affare privato o di pochi intimi, dell’élite che condivideva lo stesso ideale. E questa omogeneità, spesso accresciuta da una forma di vita ristretta e separata, era sufficiente a garantire il necessario sostegno anche psicologico. Chi optava per l’autospoliazione non si poneva in sostanza il problema degli altri, ricchi o poveri che fossero; né dei ricchi, che rimanevano tali, né dei veri poveri che rimanevano ugualmente tali, confortati in ben scarsa misura dal fatto che un non-povero, per ragioni tutto sommato poco comprensibili, potesse decidere di vivere come loro. L’autospoliazione poteva essere un gesto profetico e un gesto di altissima libertà ma, proprio in quanto tale, sembra coincidere con la povertà solo materialmente. Forse, se avessero posseduto le risorse intellettuali e verbali necessarie a mettere in parole il loro scetticismo, molti «veri poveri» avrebbero obiettato che la prima caratteristica della povertà vera è quella di essere subìta, di essere un limite alla libertà; e che forse non può chiamarsi povertà uno stato che si sceglie, quand’anche fosse caratterizzato da privazioni durissime. Il fatto è che tutto il dibattito sulla povertà nel passato e nel presente rispecchia questioni che i poveri non hanno contribuito a determinare e in cui tuttora non hanno parte a rispondere. E anche se qualcuno di quelli che sceglievano di rinunciare a tutto applicava alla lettera l’invito evangelico «Vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri», che succedeva? Che qualcuno acquistava (e l’acquirente era o diventava un «possidente», o un «ricco», in tal modo rafforzando una situazione potenzialmente antispirituale), e il ricavato distribuito ai poveri poteva al massimo migliorare – di quanto? – le condizioni di alcuni poveri, ma non certo risolvere il problema della povertà, non eliminare l’ingiustizia, non attuare una giusta divisione dei beni... Sappiamo che perfino le antitesi salvifiche del Magnificat funzionano bene solo nella loro paradossalità, per esprimere l’elemento dinamico e trasformatore nella misericordia di Dio fedele per sempre; vengono limitate talvolta fin quasi alla mancanza di senso dall’interpretazione letteralista e moralista. Qui pensiamo in particolare all’ultima: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,53). Che significa, alla lettera? Solo che i poveri sono diventati ricchi e i ricchi poveri? A parte il fatto che ciò non sembra molto confermato dalla realtà osservabile, che cosa succederebbe poi? Siccome chiaramente lo stato del «povero» nella spiritualità intertestamentaria risulta il più coerente con l’apertura al Signore, sembra ben strano il premio concesso ai poveri, secondo questa lettura meccanica. Se prendiamo sul serio il Magnificat, Dio dovrebbe intervenire subito un’altra volta a rovesciare di nuovo le posizioni; per cui gli ex-ricchi diventati poveri dovrebbero essere ricolmati di beni e gli ex-poveri diventati ricchi (con tutto ciò che questo significa nella Scrittura: quindi anche potenti, superbi, ecc.) dovrebbero restare a mani vuote, e così via all’infinito, scambiandosi continuamente di posto, ma senza che nulla cambi. 6. Il bello non è «un lusso» Considerare il bello come qualcosa di supererogatorio, irrilevante ai fini del discorso morale, «significa rendere la vita miserabile, squallida, volgare, arida» (Häring). L’esperienza del bello è un senso gioioso di espansione, di pienezza di vita, di armonia, a cui la persona umana si apre con tutto intero il proprio essere; non esperienza di qualcosa di aggiunto al vero e al bene, ma esperienza di una totalità. Qui si trova la chiave della rilevanza etica del bello. Per un credente il bello dovrebbe avere una risonanza più profonda, proprio in quanto evoca in modo più immediato l’apertura trascendente della persona umana. Diciamo «il bello» solo perché è un concetto che, sia pure con accezione in parte diversa, ha già un suo diritto di cittadinanza nella riflessione teologica (il bello riflette la gloria di Dio; è una dimensione della rivelazione di Dio, è una via di approccio alla sfera di esistenza di Dio). Ma lo stesso potrebbe dirsi del consumo e della soddisfazione ove siano realizzati con caratteri autenticamente personali e solidali: innalzano il livello dell’esistenza, umanizzano le cose, approfondiscono l’esperienza de senso, aiutano il rapporto con Dio. Le cose belle, l’armonia, la felicità, la pienezza di vita, possiedono in sé una maggiore congruità con la salvezza. Non è una riflessione facile, soprattutto sul piano delle applicazioni, perché si trova ostacolo, oltre che nel tradizionale pessimismo cattolico, anche in quello protestante. Per esempio, Rudolf Bultmann afferma nella sua opera Glauben und Verstehen (vol. II, p.137 dell’edizione tedesca)che «l’idea del bello non ha nessun significato vitale per la fede cristiana»; nell’esperienza del bello scorge solo la tentazione di una http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32
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falsa trasfigurazione del mondo, che distrae l’attenzione dalla trascendenza. Noi crediamo che la funzione del bello sarebbe proprio l’opposto: una funzione propedeutica, di guida alla trascendenza. Naturalmente l’esperienza del bello non è una vaga emozionalità istintiva: alla bellezza come a tutto l’universo dei valori occorre educare educandosi. Il Bene e il Vero privati del loro fascino e del loro splendore, potrebbero ancora sussistere in pienezza come bene e come vero? Anzi, sono veramente pensabili separati dal bello? Sappiamo che la vita cristiana, più che una vita «con sacramenti», cioè punteggiata da episodici, seppur frequenti, atti rituali, dovrebbe tendere a diventare una vita tutta sacramentale, cioè capace in ogni suo momento di mediare con limpida visibilità ed efficacemente la Grazia che riconosce. A questa sacramentalità globale del vivere non si può giungere senza la capacità di gioire della bellezza in tutte le sue forme, senza essere aperti al messaggio della bellezza, senza conoscere l’esperienza del piacere. Il piacere è un concetto involgarito e quasi demonizzato nella tradizione cristiana, eppure ha altissime valenze spirituali. Molto si potrebbe dire in questo senso, ma esula un po’ dall’argomento in oggetto; basta però ricordare che non si determina nell’essere umano un’autentica esperienza della gratitudine senza aver conosciuto il piacere, e non possono esservi vera fede e vero amore senza l’esperienza fondamentale della gratitudine. Se ci si rapporta con il bello in un modo giusto, che è come dire propriamente umano, si impara a trascendere l’ambito del profitto e dell’utilità. Senza apertura esistenziale al bello non è possibile aprirsi esistenzialmente a una morale redenta, e non è possibile proporla al mondo. È indispensabile trascendere l’ambito un po’ squallido e mercantile della morale strutturata all’interno e all’esterno secondo lo schema del «tu devi» - «tu non devi», disinteressata alla bellezza e sospettosa delle emozioni, ricercando una morale fondata sui valori, sul loro richiamo affascinante e umanizzante, sulla Grazia. 7. Il bello non è «il lusso» È chiaro che non parliamo della bellezza in un senso astratto, olimpico o parnassiano; la bellezza quale può intendersi in sede morale è un valore pregnante, che racchiude una grande complessità di significati umani e non può prescindere da valori congiunti (non diciamo «accessori’!), quali la maturità morale, la magnanimità, la generosità e la gentilezza. Né si può danzare la vita, per usare la celebre espressione di Roger Garaudy, senza provare com-passione per coloro che soffrono in qualsiasi modo e non hanno accesso a una vita pienamente umana, senza lasciarsi coinvolgere e «sconvolgere» dalla loro sofferenza e non libertà. Queste riflessioni, che potrebbero anche sembrare alquanto lirico-teoriche e indolori, se assunte in serietà e pienezza risultano invece gravide di conseguenze operative e di precise responsabilità. Ne deriva, per esempio, che è molto immorale identificare di diritto o di fatto il bello, che è una categoria estetico-morale, con il lusso, che è invece un dato socioeconomico. Non diciamo che sia immorale in ogni caso il lusso: forse non sempre lo è, e comunque non si può indulgere a condanne così rozze e aprioristiche. Immorale ci appare invece l’identificazione semplicistica del bello con il lusso, perché automaticamente il bello viene reso un «di più» e un privilegio. Questa immoralità (e, considerata nel suo risvolto sociale, grave ingiustizia) si verificava abitualmente in passato, allorché le cose belle – di qualunque genere: case, giardini, arredi, abiti, libri, opere d’arte destinate all’ornamento degli spazi privati, prodotti per la cura della persona, svaghi e spettacoli ecc. – erano certamente di alto livello qualitativo, più assai dell’attuale, perché era ignorato o quasi ogni fenomeno di massificazione, di produzione in serie; ma al di fuori della cerchia dei privilegiati, la massa di quelli che non contavano e dei poveri – molto più numerosi e molto più poveri rispetto a quelli che oggi vengono definiti così – era completamente esclusa da queste considerazioni. In breve: il vestito di un ricco doveva testimoniare del grado sociale di chi lo indossava e ornare la persona, renderla cioè più attraente oppure, secondo i casi, più venerabile, più affidabile, più temibile, più maestosa...; inoltre poteva trasmettere altri messaggi più complessi di ordine simbolico, sacrale, ecc. Il vestito di un povero aveva una funzione «di primo livello»: coprire e proteggere la persona, se possibile. Né la bellezza né i significati comunicativi dell’abbigliamento avevano peso. Ma è molto significativo il fatto che, non appena dalla povertà assoluta, insomma dall’indigenza, si passi alla povertà relativa, al di sopra del livello della pura sussistenza, si delinea subito un modesto bisogno di decoro, identificato con il superfluo, con il «qualcosa in più», come può dimostrare il significato sociale e anche etico connesso per lungo tempo, in diversi ambienti sociali, al «vestito della festa» e alla festa in genere. http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32
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Sembra un gioco di parole, e invece è serissimo: il superfluo può essere necessario (va da sé che non s’intende «ogni» superfluo, e sottolineiamo ancora la differenza tra la nobiltà umana del consumo e la dissennatezza del consumismo), e la necessità del superfluo è in primo luogo di ordine spirituale. Qui pensiamo all’unzione di Betania e alle parole di Gesù: egli difende l’operato della donna che ha profuso, sprecato una libbra, mezzo chilo di autentica e costosissima essenza di nardo, per lui; e ai discepoli, che si sdegnano per lo spreco – «Si poteva vendere per trecento denari e darli ai poveri!» -, ricorda in termini alquanto misteriosi che questo gesto ha un valore altissimo di amore e di profezia, un valore che in questo momento supera la pur doverosa sollecitudine nei confronti dei poveri, e sarà ricordato per sempre ovunque «in memoria di lei» (cf. Mt 26,6-13; Mc 14,3-9; con alcune differenze, anche Gv 12,18). Senza questa apertura esistenziale al superfluo, non è possibile aprirsi alla gratuità. Senza apertura alla gratuità, non sarà mai possibile aprirsi alla misericordia di Dio (che genera in noi capacità di perdonare), alla preghiera, alla contemplazione, al mistero. E diventa difficilmente comprensibile quello «spreco» supremo e sublime che è il dare la vita per una persona o per un ideale. 8. Qualche conclusione Potremmo concludere dicendo che in questo ambito si scorgono per ora delle «aperture» – promettenti ma parziali – e delle urgenze che ci interpellano nella prassi, ma anche e soprattutto come appello interiore alla conversione: qui cercheremo di sintetizzarle nel modo più breve, pur nella consapevolezza che un eccesso di sintesi costituisce una vera e propria ingiustizia alla questione. Occorre in primo luogo riconciliare la morale (non solo nelle suggestive intuizioni di qualche moralista illuminato, ma anche nell’insegnamento più spicciolo e quotidiano della chiesa) con la bellezza; che, come abbiamo già detto, significa anche integralità umana, festa, senso del dono e del gratuito, humour infine: una delle qualità più «spirituali» che esistano, a nostro parere, anche in quanto legata alla novità di vita che si rende possibile nello Spirito, e una delle più latitanti nella tradizione cristiana. E occorre diventare capaci di presentare la salvezza in cui crediamo, che è anche umana pienezza di vita e felicità, per mezzo di simboli capaci di attrarre. Una sfida drammaticamente urgente pur nella gradualità del suo svolgersi è quella a educarsi/educare soprattutto i giovanissimi – categoria educabile per definizione -, ma non solo loro, al senso della bellezza contrapposto al vuoto ideale, alla volgarità, allo spirito di branco, all’appiattimento del gusto. Affinché una spiritualità del consumo e della soddisfazione non sia evasivo ed egoistico trastullo di chi se lo può permettere, è necessario impegnarsi anche sul piano economico e sociale; la bellezza non dev’essere un privilegio, il consumo e la soddisfazione non devono essere prerogativa di certi abitanti del mondo, di contro a una maggioranza di altri condannati a sopravvivere e basta. Allo stesso modo, crediamo che certi standard di bellezza e qualità, e in genere i requisiti che servono a umanizzare la vita e innalzare lo spirito (con parole brutte ma utili, potremmo chiamarli «potenziale di gratificazione»), per non essere indice e veicolo di un’odiosa ingiustizia, non devono essere riservati ai beni cosiddetti di lusso, ma diventare a poco a poco un requisito irrinunciabile di tutta la produzione destinata al consumo. Sappiamo che questo processo in certa misura è già in atto, almeno in Occidente, per ragioni indipendenti dall’etica anche se connesse con lo sviluppo culturale della massa; per il momento però il processo sembra guidato da una logica essenzialmente commerciale e per certi aspetti manipolatoria, che non aiuta la pienezza di vita. Poiché, come si è detto, non si tratta solo di fare qualcosa, ma di avviare dentro e fuori di noi un più complesso processo di conversione, ci sembra indispensabile comprendere a fondo, al di là dell’inevitabile astrattezza delle formule sociologiche, la fame interiore – spesso inconsapevole, e forse per questo tanto più tormentosa – che sta all’origine dell’atteggiamento consumista vuoto e idolatrico, e cominciare a impegnarsi in modo serio affinché cominci a delinearsi qualche seria risposta a quella fame. Risposta che, nella fase iniziale, può essere solo un serio e rispettoso atteggiamento umano di ascolto. Chiaramente, il processo di cui abbiamo cercato di indicare qualche linea di tendenza non è semplice né lineare. Non somiglia tanto a una linea, quanto piuttosto a una rete da tessere, una rete di consapevolezza e di amore per se stessi e per l’umanità, in cui, come si incontrano di continuo i fili di ordito e i fili di trama nell’opera del tessitore, possano unirsi e darsi forza a vicenda il realismo più lucido e la più alata capacità di sognare. Una rete che appare in questo momento avviata, ma formata da pochi fili, distanziati e deboli, fino al punto che uno sguardo distratto vede solo i fili singoli e non le http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32
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connessioni: si devono perciò rendere i fili più visibili e forti, più connessi l’uno all’altro. Questo coincide più o meno con l’insieme del nostro lavoro di redenti per l’umanizzazione del mondo. E non solo. Si tratta di una visione che, ove sia assunta integralmente, tende per sua natura a «sconfinare», toccando la vita eterna che comincia nel tempo. Lilia Sebastiani Sommario Per molto tempo il consumo è stato ignorato dalla morale cristiana (nata in un contesto sociale molto diverso dal nostro) e così la soddisfazione, intesa come «gratificazione»: se si eccettuano le generali raccomandazioni ascetiche ispirate a un duro pessimismo nei confronti delle realtà terrene. Così questo tema oggi sembra a-morale o im-morale. Con la duplice conseguenza di far percepire la morale – e il discorso cristiano in genere – come qualcosa di assai poco attraente, e di scindere troppo spesso la bellezza, il gusto di vivere, il piacere, da riferimenti più impegnativi al piano dei valori, della solidarietà e dell’amore. Il piacere, appunto: è un concetto tendenzialmente molto spirituale (il piacere sarebbe di per sé ben più spiritualmente alto del dolore, perché il dolore è una carenza, è segno di qualcosa che non va come dovrebbe); ma è stato involgarito attraverso il tempo sia dagli asceti, che lo fuggivano demonizzandolo, sia dai gaudenti, che lo ricercavano in ogni sua forma ma in modo limitato ed egoistico. Questi «facendo» e quelli «non facendo», facevano però in sostanza la stessa cosa: scindevano il piacere, la soddisfazione, dai più nobili significati personali e dal fine ultimo della persona. Riconsiderare in chiave positiva il consumo non significa assolutamente benedire il consumismo, ma fondare un rapporto armonioso e redento con le cose, rispettare e avvalorare le cose attraverso il loro riferimento alla persona umana, umanizzare e intensificare la vita. Da un punto di vista etico, questa prospettiva non è più accomodante di quella tradizionale: forse richiede molto di più alla coscienza individuale e collettiva, in termini di impegno e di creatività. [1] Ai tempi di Francesco d’Assisi, per esempio, il rifiuto di ogni possesso, così come il rifiuto dell’alta cultura, non avevano le stesse valenze che avrebbero oggi e si configuravano essenzialmente come rifiuto del potere, come scelta di libertà e solidarietà. ©2010 www.credereoggi.it
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