L’insostenibile profondità di campo
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Fuorifuoco L’insostenibile profondità di campo
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Anna Bossi Relatore Andrea Di Salvo Laurea in Design e Comunicazione visiva dicembre 2017
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Indice Introduzione 9 1. Immagini che non ci riguardano
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1.1 Nausea di vedere
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1.2 Vedere dalla soglia
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1.3 L’occhio e la macchina
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2. Guardare l’invisibile
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2.1 Il punto focale
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2.2 La ghiera dell’empatia
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2.3 Il cerchio di confusione
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3. Casi studio
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3.1 Mirafiori lunapark
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3.2 40% le mani libere del destino
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3.3 Al di qua
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3.4 Tutti giù per terra
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3.5 Così ridevano
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4. Rassegna Stampa
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4.1 Periferie esistenziali
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4.2 Marginalità a fuoco
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4.3 Automatismi
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5. Un fuorifuoco
100
5.1 Ideazione
100
5.2 Storyconcept
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5.3 Intervista
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5.4 Trattamento
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5.5 Storyboard
108
5.6 Photoboard
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5.7 Video
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Conclusioni 121 Bibliografia
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Introduzione La lettura di alcune considerazioni di Horst Bredekamp in Immagini che ci guardano a proposito dell’atto iconico e in generale della Wirkung, dell’efficacia, dell’influenza anche morale delle immagini sul mondo reale, e più ancora la suggestione del titolo di un altro suo volume Arte come mezzo del conflitto sociale, mi suggeriscono queste considerazioni: le immagini sono certamente uno strumento del conflitto, sia in senso militare sia in senso sociale, in quella che marxianamente si chiama lotta di classe, e che in genere è il tentativo di emergere dei gruppi emarginati, diseredati, svantaggiati. È paradossalmente proprio nelle immagini che promuovono questi conflitti che si possono individuare fuorifuoco coloro per i cui destini l’esito della lotta è ininfluente, coloro che non si avvantaggeranno dal prevalere di nessuna delle parti. Scorrono quotidianamente per molte ore al giorno le immagini del salvataggio dei migranti davanti alle coste libiche, e certamente anche per nobili fini, per illustrare l’imprescindibile attività delle organizzazioni umanitarie. Si vedono file interminabili di salvati e nessun sommerso, e se qualche sommerso finisce nelle immagini esso viene sfocato come è emblematicamente avvenuto per il bimbo siriano che il mare ha restituito privo di vita, non morto, sulla spiaggia della Turchia - è per la privacy? Perché i morti ne hanno più diritto che i vivi che invece si vedono tutti in volto? Cosa fa scattare questo singolare meccanismo di risparmiare gli insepolti? Cosa rende la rappresentazione dei morti più oltraggiosa di quella dei vivi, di vivi in condizioni di estrema distretta, di vivi più morti che vivi, di vivi che non hanno ancora avuto la sessione di trucco che spetta a tutti i protagonisti della 9
nostra tv? Non sarà che la cosa sconcia è proprio che non ce l’abbiano fatta? Che non c’è cosa più impudica della morte? Che i vinti non possano che essere colpevoli? La Napoli di Malaparte in cui tutto – dignità, coerenza, ideali, onore – è messo in vendita, somiglia paurosamente alle cronache di questi ultimi anni. Il tema de La pelle di Malaparte è l’orrore del mondo nella sua contemplazione semplice ed eterna, nella sua porzione dominante di male assoluto, sia esso volontario o involontario, “non è più la lotta per la libertà, per la dignità umana, per l’onore […] oggi si soffre e si fa soffrire, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle”1. L’arte si incaricherà di mettere a fuoco, di “riportare alla vita”, di rendere presentabili, edificanti, i morti sulla spiaggia della Normandia in Saving private Ryan, gli stessi soldati immortalati da Robert Capa in una indimenticabile foto mossa (o se vogliamo fuorifuoco), le statue sul fondo marino dell’affascinante opera di Taylor deCaires a Lanzarote, che non a caso sono più vivi che morti, o, perché no, nei combat film dei campi di sterminio dove i sopravvissuti sono prima di tutto vivi e i morti, se non sono dissolti, sono calcificati, statue anch’essi, come i calchi di Pompei o, al limite, le mummie dei faraoni. Roland Barthes definisce come punctum-particolare quell’aspetto emotivo della fotografia che “punge” lo spettatore, lo colpisce e fa sì che l’immagine gli rimanga in mente; diverso dallo studium che è l’aspetto razionale e che porta l’osservatore a porsi delle domande su ciò che è rappresentato2. Oggi, nel vasto e crescente 1
Malaparte C., La pelle, Milano, Adelphi, 2010
Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. Guidieri R., Torino, Einaudi, 2003 2
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diluvio di immagini che ogni giorno vengono pubblicate sui quotidiani, nei telegiornali o su twitter, è sempre l’attrattiva che abbiamo verso alcuni dettagli che anima la foto, che la fa sentire nostra. Questi dettagli che fanno appello alla nostra memoria, alla nostra empatia e ai nostri neuroni specchio, sono quelli che determinano il nostro soffermarci o meno su un’immagine. Il punctum è il momento in cui io guardo la fotografia ed essa guarda me, agendo sulla mia memoria e su di me. Quel dettaglio a prima vista inapparente ma decisivo, comporta il coinvolgimento emotivo e lo stimolo ad agire, o per lo meno ad interessarci a ciò che altrimenti fingiamo non ci riguardi. Il punctum ci permette di soffermarci su ciò che è stato catturato dalla fotografia, ciò che è nascosto ed esposto allo stesso tempo. In questo diluvio di fotografie, quelle dei volti, più di altre, posseggono, a ben guardarle, il punctum, il dettaglio decisivo. Anche per questo, più avanti nella mia correlazione fotografia-realtà, identificherò l’individuo come il punto focale. Inoltre, questo punctum, fissato nell’immagine, sembra emergere da un qualche sfondo (sfocato) che più tardi identificherò nella città e più precisamente nei margini di essa: le periferie. Si tratta di uno sfondo invisibile da cui il primo piano distoglie attenzione, non perchè la nostra vista sia imperfetta o incapace di mettere a fuoco più piani contemporaneamente ma perchè, come spiegherò, una serie di strutture di coscienza hanno reso volutamente “difettoso” quel meccanismo di messa a fuoco della nostra visione e di conseguenza delle macchine fotografiche, per far sì che l’attenzione si concentri sempre solo su una porzione di campo e che le storie a fuoco siano le uniche che si possono raccontare.
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Museo Atlรกntico Lanzarote, sculture di Jason DeCaires Taylor. (Foto di Canary Islands Tourism Board).
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1. Immagini che non ci riguardano Nelle concezioni popolari, le emozioni sono spesso denigrate, viste come primitive risposte biologiche che ostacolano il deliberato pensiero razionale. Le emozioni non solo sono disciplinate ma sono costituite da regole e aspettative sociali3. Così una persona vive un determinato stato emozionale mostrando le risposte consone che ci si attende. L’indifferenza è comunemente intesa come distacco emozionale tra sé e gli altri: una sorta di apatia, di mancanza di interesse nei confronti del mondo alimentata dal desiderio di non essere coinvolti in alcun tipo di emozione, di passione, di lotta, di amore o di competizione. L’emblema odierno dell’indifferenza è la figura del passante. Come fosse un antico flâneur che nella sua evoluzione ha perso tutta la sua curiosità per diventare un passante distratto che distoglie lo sguardo di fronte alla disgrazia e se anche vede non si ferma a guardare. Secondo Adriano Zamperini, “la nostra società sarebbe abitata da passanti distratti e noncuranti affetti dall’indifferenza dell’uomo verso l’uomo, dotati di una moralità sempre più incerta e precaria. Una moltitudine di sonnambuli ammalati di coartazione emozionale e anestesia relazionale”4. Questo sonnambulismo, o sorta di ipnotismo, è una condizione tipica delle metropoli. Vaghiamo come sonnambuli nella città fantasma che sempre più cerca di attirarci con le sue vetrine, le sue luci e i suoi colori, ma ci perdiamo nella frenesia delle sue strade e nel rumore del traffico come in un eterno dormiveglia. Mentre il passante distratto vaga come un sonnambulo, invisibili funzionari studiano l’inquadratura Zamperini A., L’indifferenza. Conformismo del sentire e dissenso emozionale, Torino, Einaudi, 2007, p. 4
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ivi, p. 8 13
di quell’unica parte di campo cui è consentito essere a fuoco, scrivono il copione del sofferente degno d’attenzione e preparano il kit delle emozioni da provare. Come in una perfetta campagna di sensibilizzazione, si cuciono gli abiti dei soggetti, simboli di vulnerabilità, i quali, una volta avuta la loro dose di trucco per attenuare la realtà, sono pronti a sconvolgere e indignare gli spettatori. Davanti a un simile spettacolo, il passante distratto, non vuole essere e non sarà tacciato di indifferenza. Si indigna, si commuove e recita bene la sua parte, indossando però una maschera di solidarietà che nasconde in realtà una profonda indifferenza umana. Hans Blumenberg, nel suo saggio Naufragio con spettatore5, spiega la storia della metafora lucreziana. Il naufrago sopravvissuto osserva con imperturbabilità colpevole e superba gli altri uomini in mare che si agitano e si struggono nel vano tentativo di salvarsi anch’essi. Tralasciando il fatto che il naufrago sia allegoria del saggio epicureo che mira al raggiungimento dell’atarassia, l’immagine lucreziana può essere in questo caso metafora del passante distratto che vede – non osserva - con distacco la sorte degli altri uomini. Agota Kristof è una scrittrice ungherese che, raccontando mali e crudeltà incredibili con stile secco e affilato, nasconde in realtà il desiderio di voler mostrare quella profonda indifferenza umana. I suoi personaggi sono forse il più grande esempio narrativo del passante distratto di Zamperini che vaga in strade deserte, allucinate, in un silenzio che le rende simili a paesaggi metafisici. Testimoni di atrocità e autori di violenze insensate, sembrano anelare esclusivamente all’indifferenza, sembra che il loro maggior obiettivo sia il raggiungimento di quel distacco emozionale tra se stessi 5
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Blumenberg H., Naufragio con spettatore, Bologna, Il mulino, 2001
e il mondo di cui si parlava. Anche la città della Trilogia della città di K., denominata appunto solo con una K, è una città qualsiasi dell’est che potrebbe benissimo essere quella che chiamerò più avanti città “fantasma”. Un luogo non luogo, così neutrale ed indifferente, dove tutti sono nessuno. Un racconto violento, uno scenario desolante, di fronte ai quali il lettore non può far altro che sentirsi impotente e alienato, forse al punto da provare quell’indifferenza, di fronte al dolore e al male, di cui la stessa autrice narra. Se il passante-spettatore, sperimenta quella nausea di vedere dettata dall’estrema esposizione all’orrido, e si difende da essa con la maschera dell’apparente solidarietà, il fotografo è il soggetto che vede dalla soglia. Egli si trova sulla soglia tra il visibile e l’invisibile. Può scegliere di smascherare le invisibili strutture di coscienza che determinano ciò che deve essere visto o no, ciò che ci riguarda e ciò che non ci riguarda. O può decidere di non mostrare i sommersi, di costruire adeguatamente la scena da mostrare, di appoggiarsi al corpo di una piccola ruandese morente6 per mettere bene a fuoco il soggetto e meglio imbastire la scena. La scelta è del fotografo7. Non basta capire chi è il sommerso adatto, quello degno di essere messo a fuoco e inquadrarlo, bisogna anche imparare a guardare. La soglia da cui il fotografo osserva la scena, è diventata negli anni sempre più labile. Il fotografo ha una percezione della linea di separazione tra sommersi e salvati sempre più confusa. Si può essere immersi nella profondità di campo (come il fotografo a ridosso di quella bambina) senza vedere nulla. La scena è stata fotografata nell’agosto del 1994 fra Goma e Katalé da Jean-Michel Turpin (Gamma) e pubblicata da Le Monde diplomatique nel novembre 1994. 6
Cassinelli L., The photographer’s choice, Naples (Florida), Materia et Lumen, 2015 7
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1.1 Nausea di vedere Proseguendo con l’analisi delle riflessioni di Horst Bredekamp cui ho accennato nell’introduzione, capisco che le immagini sono come il linguaggio ma a differenza di esso, non appartengono all’universo simbolico, agiscono sulla nostra psiche in modo immediato. Il termine “cultura visuale” risale agli anni ‘20 del Novecento in relazione all’impatto che cinema e fotografia stavano avendo sulla cultura contemporanea, visti come strumenti di conoscenza capaci di ampliare l’orizzonte sensoriale dell’uomo. Questa teoria, sviluppatasi poi nei visual culture studies anglosassoni e nella Bildwissenschaft tedesca, indica quella cultura fondata sul primato dell’immagine sulla parola e su una riscoperta del valore delle immagini. Anche Laszlo Moholy-Nagy, in Pittura Fotografia Film8, parla di un duplice obiettivo dei nuovi media ottici: essi introducono una nuova generazione di immagini e diffondono un nuovo modo di vedere la realtà. La trasmissione di informazioni è sicuramente uno dei campi in cui le immagini hanno preso il sopravvento sulle parole. Sia sui giornali che online, il ruolo dell’immagine ha acquistato una rilevanza e un valore sempre maggiori al punto da far diventare imprescindibile la presenza di una foto o di un video nella pubblicazione di una notizia. Il posto sempre più dominante che le immagini hanno assunto nella società contemporanea ha reso necessaria un’indagine più approfondita del potere dell’immagine, della sua efficacia e della sua forza condizionante. Partendo dalla natura dell’immagine, sappiamo che Moholy-Nagy L., Pittura Fotografia Film, trad. it. Reichlin B., Torino, Einaudi, 2010 8
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quando si percepisce qualcosa di organico nella realtà, quello che rimane nella nostra mente altro non è che l’immagine di esso. La nostra mente registra dunque questa immagine associandole un pensiero, una sensazione, un concetto, un “bagaglio emozionale” che verrà richiamato ogni volta che rivedremo o ricorderemo quell’immagine. Ogni individuo conferisce dunque significato all’immagine che vede facendo riferimento a questa memoria visiva, ovvero alle immagini e ai sentimenti ad essa associate che ha immagazzinato nel tempo. Il significato e la comprensione dell’immagine sono quindi dovuti al contesto ma anche alla familiarità che l’interlocutore ha con quei simboli o quelle forme. La stessa figura può infatti essere percepita in maniera immediata o può non essere nemmeno riconosciuta se non è già stata catalogata nella memoria. Roland Barthes, nel suo saggio Retorica dell’immagine9, afferma che il “senso dato” di una fotografia nasconde il “senso costruito”. La “denotazione” è ciò che vediamo, che può essere descritto. La “connotazione” è l’immediato significato culturale che deriva da ciò che viene visto ma che di fatto non è nella fotografia. Questa semplice distinzione tra denotazione e connotazione rivela che il senso di una fotografia cambia anche in base ai riferimenti culturali dell’osservatore. Le analisi del rapporto tra occhio, cervello e visione, hanno condotto gli studiosi a capire che la nostra mente, quando vede un’immagine, elabora delle ipotesi che cerca successivamente di verificare, confrontando tale immagine con le altre immagazzinate nella memoria. L’immagine viene quindi costruita per associazione di
Barthes R., La retorica dell’immagine (1964) in Bate D., Il primo libro di fotografia, Torino, Einaudi, 2017, p. 286 9
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sensazioni e suggestioni10. Negli ultimi tempi però, la percezione e l’approccio emotivo alle immagini hanno preso il sopravvento sull’approccio analitico. La velocità e l’immediatezza delle comunicazioni hanno fatto sì che si riducesse l’analisi in favore della sintesi; la miriade di immagini in circolazione portano sempre più ad anestetizzare il soggetto, eliminando la funzione formativa dell’immagine e rendendo chi guarda immune a ciò che succede intorno a lui. Ci troviamo quindi di fronte a una antinomia: da un lato l’immagine si è rivelata uno strumento utile, se non essenziale, per la trasmissione di conoscenza e il miglioramento dell’apprendimento; dall’altro, una nostra sovraesposizione alle immagini ha fatto sì che perdessimo la capacità critica e analitica di un testo. Questa contrapposizione si presenta più volte nel corso del Novecento: ad ogni cambiamento o innovazione nella forma o nei mezzi di diffusione della fotografia e delle immagini si riaccende il dibattito sulle enormi potenzialità di questo nuovo mezzo o sui risvolti negativi dal punto di vista politico, sociale ed emotivo che esso può avere. Susan Sontag, nel suo saggio On the photography, sintetizzata questa contraddizione così: “in questi ultimi decenni, la fotografia impegnata ha contribuito ad addormentare le coscienze almeno quanto a destarle”11 . Il risultato è un consumatore che si perde nella massa di immagini e ne prova una crescente indifferenza, il contrario dell’obiettivo che la fotografia impegnata si prefigge. Nel secolo scorso, i fotografi o i registi, liberati dalla rigida struttura della pittura o della storia dell’arte, hanno Tornaghi E., La forza dell’immagine, Torino, Loescher Editore, 2009, p. 12 10
Sontag S., Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi, 1978, p. 18 11
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cominciato ad abbracciare l’idea che sta alla base del documentario: registrare l’esistenza, riprodurre la quotidianità per quanto banale o scioccante potesse essere. L’idea era quella di informare ma soprattutto svelare forse proprio nel senso filosofico di togliere il velo come intendeva Heidegger - mostrare a più pubblico possibile la realtà, fosse essa il racconto di una guerra o una semplice ripresa di un artigiano al lavoro. La volontà era quella di dimostrare che la visione documentaria era un modo di conoscere e che “questo “vedere = conoscere” avrebbe emancipato l’umanità”12. Documentare era inteso come un desiderio di riconoscimento della realtà e soprattutto di tutto ciò che non era riconosciuto in pubblico. Questo desiderio non riguarda solo la volontà del fotografo di rappresentare, di svelare ma coinvolge anche il soggetto della fotografia e lo spettatore. In questo senso si può dire che le fotografie documentarie costruiscano rappresentazioni della realtà secondo un punto di vista di qualcuno e secondo la sua volontà di vedere e (ri)conoscere. Dagli anni Venti e Trenta, l’emergere delle riviste popolari ricche di fotografie, come “Life” negli Stati Uniti o “Picture Post” in Gran Bretagna, che iniziarono a inondare il mercato, creò un flusso costante di nuove storie e immagini, riproduzioni e racconti di vita quotidiana. I fotografi reporter iniziarono a rivestire un ruolo chiave nel processo di produzione delle riviste e testimoniando con i loro scatti le atrocità, hanno permesso a una parte di mondo di vedere e quindi capire meglio ciò che succedeva da un’altra parte. Non solo, le fotografie del Vietnam, dell’Iran, di piazza Tienanmen, della Grande Depressione, dei genocidi, hanno dimostrato che esiste una “morale” che supera ogni confine, ogni 12
20
Bate D., Op. cit., p. 71
religione, ogni politica. Queste immagini, spesso atroci, hanno congelato momenti storici, mostrandoci il visibile, le azioni, le proteste, il sangue ma sono anche riuscite a mettere in luce l’invisibile legame tra le persone. Quel legame che, pur non conoscendo il soggetto della fotografia o la vittima, risveglia in noi un dolore indiretto e il sentimento di dover agire. Il ruolo del fotogiornalismo è stato essenziale negli anni ma oggi siamo così abituati alle immagini, abbiamo visto così tanti video di guerre che non ci preoccupiamo neanche più quando vediamo le dirette delle proteste o delle guerre civili. Come fare a mettere a fuoco le nuove forme di conflitto? Come impedire che le proteste e le richieste dei dimenticati non rimangano sfocate e ignorate? Susan Sontag, esprime bene il concetto di questa nostra (recente?) abitudine alle nefandezze umane con queste parole: “l’enorme catalogo fotografico della miseria e dell’ingiustizia nel mondo ha dato a tutti una certa consuetudine con l’atrocità, facendo apparire più normale l’orribile, rendendolo familiare, remoto, inevitabile”13. Spesso le immagini che hanno indignato e sconvolto l’opinione pubblica sono state fatte dagli artefici stessi dei delitti e dei crimini (come le fotografie dei detenuti realizzate dai militari). Ma non al fine di ammettere una colpa, bensì per celebrare le proprie nefandezze e mostrarle esaltati agli altri criminali responsabili come loro. Nelle Lezioni americane, Calvino si interroga sul futuro della nostra fantasia, dell’immaginario indiretto e della nostra capacità di evocare e associare immagini “in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle im13
Sontag S., Op. cit., pp. 19-20 21
magini prefabbricate”14. Teme che perderemo “il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, […] di pensare per immagini” in un mondo in cui si è bombardati di immagini al punto da confondere nella nostra memoria visiva (di cui prima) le esperienze dirette dalle immagini della televisione. Anche Paul Virilio, filosofo e urbanista, sostiene che abbiamo disimparato l’arte del vedere e ha suggerito che in un mondo di fotocamere e fotografie onnipresenti, non sogneremo più le immagini, ma sogneremo invece di essere ciechi. Nel corso della storia, le immagini hanno interamente cambiato natura, “passando dall’unicorno del dipinto fino al clone digitale”15. Ciò su cui molte volte ci si confonde è proprio la natura dell’immagine. L’immagine è una rappresentazione della realtà e non la realtà stessa. Con il digitale, questo divario tra realtà e rappresentazione si fa ancora più ampio dal momento che non possiamo più ritrovare l’originale della fotografia: la pellicola, prova di autenticità, realmente impressionata con quella determinata luce di quel preciso momento storico. La fotografia, non solo rappresenta realisticamente la realtà e la registra, ma è diventata il modello di come ci appaiono le cose, modificando il concetto stesso di realtà e di realismo al punto che persino la nostra valutazione della realtà ora si basa sulla sua fedeltà alle fotografie. Si può dire che la realtà sia ciò che crediamo esista, mentre il realismo è il modo di rappresentazione che sostiene questa realtà. I fotografi documentaristi sono
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14
Calvino I., Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, p. 95
15
Wenders W., L’atto di vedere, Milano, Ubulibri, 1992, p. 87
spesso vicini alla teoria del realismo, basata sulla somiglianza, su un’identità tra la fotografia e la realtà rappresentata16 Secondo questa teoria estetica il significante (la fotografia effettiva) è uguale al significato (la realtà). Ma fino a che punto la fotografia è in grado di riprodurre con precisione le cose? Dobbiamo fidarci di questa arte come accurata rappresentazione di ciò che mostra? E inoltre, è corretto chiamarla arte se altro non è che una puntuale riproduzione del mondo? Queste erano le domande che ci si poneva agli albori della fotografia e soprattutto durante il realismo ottocentesco ma che io mi pongo ancora adesso nel momento in cui scelgo cosa rappresentare, quale realtà mettere a fuoco, quale parte di mondo riprodurre e se chiamare questa riproduzione, questa mimesis, arte. La fotografia di Robert Capa citata nell’introduzione, che ritrae un soldato che esce dall’acqua sulle coste della Normandia, restituendoci un senso di movimento ci trasmette il suo essere una presa diretta della realtà come avviene per molte fotografie catturate nei teatri di guerra. Il mosso ci comunica l’immediatezza del momento consentendoci di comprendere e rendendoci quasi partecipi dell’esperienza diretta del fotoreporter o addirittura del soldato soggetto della fotografia. Non è un caso che il diario-romanzo di Capa si chiami proprio Leggermente fuori fuoco. In esso egli racconta come abbia vissuto il famoso D-Day e la sua esperienza da fotoreporter della seconda guerra mondiale. Il titolo originale Slightly out of focus, si riferisce ironicamente alla didascalia con cui uscirono le sue foto su Life in quell’estate del 1944: “Per la grande agitazione del momento, Capa, ha mosso la sua fotocamera e le
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Bate D., Op. cit., p. 20 23
foto sono venute sfocate”17. La sfocatura, così come la sgranatura di quelle undici fotografie diventate famose, furono dovute in realtà a un incidente nella camera oscura e non proprio a un errore o alla paura di Capa. Ma forse proprio queste imperfezioni della pellicola, accresciute dall’errore, contribuirono a renderle le foto di guerra più drammatiche di tutti i tempi.
17
24
LIFE, giugno 1944, p. 25
La spiaggia di Omaha, in Normandia, 6 giugno 1944. (Robert Capa, International center of photography/Magnum/Contrasto).
25
26
1.2 Vedere dalla soglia I film, ai tempi della Nouvelle Vague, erano parte dell’esperienza sensoriale. Si filmava l’esperienza di sedersi in un bar, di guidare un’auto o di andare al circo. Bisogna considerare che non sempre le inquadrature vogliono mostrare un personaggio o un momento della storia, non vogliono dire o insegnare qualcosa di particolare. Talvolta l’inquadratura dice semplicemente penso che questo momento sia bello, che questo momento sia vero. In altre parole un’inquadratura è un pensiero, il pensiero di un regista. L’immagine che vediamo sullo schermo è passata da una sceneggiatura (e quindi da un testo scritto) per essere poi pensata mentalmente dal regista e riprodotta fisicamente per essere mostrata a noi attraverso la pellicola. Questo “cinema mentale”18, come lo chiama Calvino in una delle sue Lezioni americane, esisteva già prima del cinema vero e proprio e proietta continuamente immagini alla nostra vista interiore. Allo stesso tempo, per Wim Wenders è straordinario il fatto che l’immagine, diversamente dal pensiero non imponga alcuna opinione alle cose19. Il giudizio che è implicito nell’atto del pensare, scompare nel momento in cui si guarda o si riprende una persona, una cosa, una città o un paesaggio. L’atto del vedere trascende dalle opinioni e l’immagine, se percepita in maniera intuitiva si può dire che sia la forma ricettiva per eccellenza. Così come il film alla fine degli anni cinquanta era più che mai esperienza sensoriale, l’atto del vedere è percezione del reale20. Vedere è immergersi nel mondo senza 18
Calvino I., Op. Cit., p. 56
19
Wenders W., Op. cit., p. 43
20
ibidem 27
allontanarsi dalla realtà e perdersi a causa del troppo pensare. Un film può rendere visibile una realtà, ma può anche renderla invisibile. I cineasti hanno la responsabilità di decidere di vedere anche per gli altri e far uscire lo spettatore dal cinema con uno sguardo sul mondo più aperto di prima. I registi non solo possono rendere visibile una realtà ma, come spesso succede, cercano di mostrare la propria realtà, mettendo in scena il set o raccontando la macchina del cinema. Ed è per questo motivo che spesso i protagonisti delle sceneggiature sono registi, scrittori, attori o altre pedine del mondo del cinema. Il fotografo protagonista di Blow up di Michelangelo Antonioni, scoprendo di aver involontariamente immortalato un delitto con i suoi scatti, è come se andasse addirittura oltre la realtà stessa. Thomas scatta alcune foto in un parco nel tentativo di riacquistare il legame perduto con il mondo tangibile, troppo abituato e chiuso nell’illusorietà del suo studio fotografico. Una volta sviluppate le fotografie, si mette alla ricerca di quel quid, comincia a ingrandire porzioni di porzioni cercando di vedere qualcosa che non c’è, il fuori campo del suo scatto. Il fuorifuoco? L’insostenibile leggerezza dell’effimero, delle sue modelle-simulacri, lo portano a cercare qualcosa nella profondità di campo. E lo trova in quella macchia che pian piano prende forma e da immagine astratta diventa estrema testimonianza del concreto. È quindi il tentativo di dimostrare un cambio di ruoli tra la fotografia, che da rappresentazione “diventa qualcosa di più vero del mondo stesso”21 e il mondo, che da pura rappresentazione, torna ad essere realtà e verità Di Marino B., Pose in movimento, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 179 21
28
solo se se ne accettano le regole. Esattamente come la finta partita di tennis giocata dai mimi alla fine del film, acquista significato e diventa vera, reale solo credendoci. In questa sfocatura esistenziale di Antonioni, le cose appaiono fuorifuoco, la realtà perde di significato ed è come se subisse un “processo di desemantizzazione, durante il quale il significante si scolla dal rispettivo significato e se ne va per conto suo”22.
Scena tratta da Blow up di Michelangelo Antonioni (1966).
Moscariello A., Come si guarda un film, Roma, Dino Audino editore, 2007, p. 40 22
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Ogni visione ha una cornice come presupposto. Ogni volta che “vediamo” o “osserviamo” qualcosa stiamo automaticamente scegliendo il taglio della nostra inquadratura, stiamo decidendo cosa inserire nello spazio del visibile e rendere oggetto del sapere e cosa tralasciare, cosa lasciare all’oscuro nello spazio della fede e della credenza. Ogni nostro sguardo stabilisce lo stile che vogliamo dare alla nostra immagine di realtà. Ogni secondo stabiliamo se guardarci i piedi o sognare con le nuvole. Roland Barthes considera la superficie della proiezione una maschera ancor più che una cornice23. Perché il personaggio cinematografico continua a vivere oltre i bordi dell’inquadratura, in un “campo cieco”24, mentre nella fotografia i personaggi non solo non si muovono ma non escono nemmeno fuori da un’inquadratura per rientrare in un’altra. Ci troviamo di fronte a una sorta di contraddizione. Il fuori campo fisico del cinema e il fuori campo fantastico della fotografia. “I margini della foto, a differenza di quelli dell’inquadratura filmica, isolano dal contesto spaziale circostante l’oggetto e lo sottopongono a un processo di congelamento temporale che richiede, per venire annullato, l’intervento di proiezioni mentali effettuate da chi guarda”25. La fotografia solitamente non ha un fuori campo. Una fotografia, pur facendo parte di una serie di scatti o persino di una sequenza, sarà sempre unica, mentre il fotogramma acquista significato solo in base a quelli che lo precedono e lo seguono. Al contrario, il pubblico del cinema si aspetta continuamente che i “limiti del rappre-
30
23
Di Marino B., Op. cit., p. 36
24
ibidem
25
Moscariello A., Op. Cit., p. 127
sentato”26 vengano valicati, mostrando nuove porzioni di spazio o inserendo elementi sonori esterni. Tuttavia, seppur il cinema sia in costante movimento, il completo opposto dell’unicità e della staticità della fotografia, esso non lascia spazio allo spettatore di fantasticare, di costruirsi quel mondo che può invece ideare guardando una singola fotografia. Di fronte allo schermo, non ho il tempo di chiudere gli occhi e immaginarmi un’altra realtà, un finale alternativo, perché l’immagine successiva, la scena seguente sarà già terminata. Il cinema ci costringe “a una voracità continua e a nessuna pensosità”27. Omaggio a Niepce del 1968 di Ugo Mulas ritrae lo sviluppo di un rullino di pellicola vergine e rappresenta trentasei occasioni mancate, trentasei possibilità rifiutate di mettere a fuoco una realtà, in un’epoca in cui se si parla di fotogiornalismo ci si accorge che “l’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia”28. Epoca certamente non diversa dalla nostra in cui l’aria stracolma di immagini è diventata esiziale. Se si facesse più spesso questo esercizio di meditazione, forse bisognerebbe riflettere più spesso sul dove e il come vogliamo puntare l’obiettivo nel mondo odierno saturo di immagini e anche di temi. Non c’è da stupirsi se questo livello di consapevolezza del mezzo fotografico e delle scelte etiche di rappresentazione, Mulas lo abbia raggiunto dopo vent’anni di esperienza. Succede spesso che ci si interroghi sulle proprie priorità e sulla 26
Di Marino B., Op. cit., p.37
27
Barthes R., Op. cit., p. 56
28 Robert Frank citato da Ugo Mulas. Castagnoli P. G. (a cura di), Ugo Mulas. La scena dell’arte. Photocolors, Milano - Verona, catalogo Electa
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direzione del nostro sguardo verso la fine di un percorso e non all’inizio, prima di intraprenderlo. Non credo ci sia un momento giusto e uno sbagliato per farlo. Trovo comunque ammirevole il fatto che si arrivi a un momento di presa di coscienza. Esattamente come prima si parlava di realtà e immaginazione, di campo del visibile e dell’invisibile, questa sorta di protesta di Mulas racconta una pellicola che lascia completamente spazio all’immaginazione invece di essere una rappresentazione della realtà, come è solita essere l’arte della fotografia. L’osservatore si trova di fronte a una tela bianca, con la possibilità di immaginare soggetti e tante storie quante è in grado di pensarne. L’immagine è assente ma è fortemente presente quell’immaginario indiretto e quella capacità di pensare per immagini di cui si parlava prima e che Calvino temeva che avremmo perso.
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Ugo Mulas. Omaggio a Niépce, 1968-1970. Fotografie Ugo Mulas Eredi Ugo Mulas. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli.
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Luci del porto di Barcellona. Foto di Anna Bossi.
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1.3 L’occhio e la macchina Il funzionamento dell’occhio umano è molto simile a quello di una macchina fotografica: la parte anteriore (cornea e cristallino) è l’obiettivo, la parte posteriore (retina) il sensore e in mezzo il diaframma (l’iride). La differenza è che nelle macchine fotografiche, la lente si muove rispetto al sensore per mettere a fuoco, nell’occhio sono i muscoli a cambiare la forma del cristallino per focalizzare il soggetto. Il cristallino, posto dietro alla cornea, è un organo trasparente che, esattamente come una lente naturale, mette a fuoco i raggi luminosi sulla retina. All’interno di questa si distinguono aree diverse con precise funzioni. La regione centrale (macula) è la sede della percezione dei dettagli e dei colori grazie alla presenza di numerosi recettori detti coni. Questi stessi coni, disposti in triplette nel centro della macula (fovea) consentono una percezione dei dettagli ancora più fine. I coni si diradano progressivamente verso l’esterno della macula e, procedendo verso la periferia retinica, la percezione dello stimolo luminoso diventa più imprecisa e meno definita. “Le diverse regioni coprono una determinata porzione del campo visivo, che viene espressa in gradi, analoghi degli angoli di campo di un complesso obiettivo-sensore fotografico: in particolare la fovea copre i soli 10° centrali, la macula copre circa 25°, il polo posteriore 60°, la media periferia 90°”29. Da un punto di vista “fotografico”, confrontando questi numeri degli angoli di campo delle aree della retina e quelli degli obiettivi, si percepisce la correlazione con le lenti fotografiche. L’angolo di campo coperto da un obiettivo normale Dassio D., Occhio e fotocamere, 2004, NadirMagazine, http://www. nadir.it/pandora/OCCHIO_FOTOCAMERE/dassio.htm
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è più o meno di 60°, ovvero l’angolo coperto dal polo posteriore del nostro occhio ed è per questo che viene definito normale, cioè che imita l’occhio umano e imprime sul fotogramma un’immagine simile a quella osservata a occhio nudo. Lo scopo dell’utilizzo dell’apparecchio fotografico può essere quello di creare una rappresentazione quanto più simile alla realtà ma spesso può anche essere quello di integrare e perfezionare il nostro strumento ottico, l’occhio, “rendendo visibili fenomeni che sfuggono alla percezione o alla ricezione del nostro sistema visivo”30. Con il termine profondità di campo si intende quella parte di immagine (o di realtà) in cui gli oggetti risultano nitidi perché sufficientemente vicini al piano di messa a fuoco. Allontanandosi da tale piano, ciò che sta davanti e dietro a questa fascia di nitidezza sarà gradualmente sempre più sfocato e questi oggetti puntiformi producono sulla pellicola dei cerchi di confusione. L’occhio umano presenta un meccanismo di messa a fuoco simile sebbene esso possegga un certo margine di tolleranza, sotto il quale non riesce a percepire questa sfocatura e quindi anche certi oggetti che non si trovano esattamente sul piano focale risulteranno nitidi. L’apparecchio fotografico riproduce la pura immagine ottica, mostrando le distorsioni, le deformazioni, gli scorci e tutto ciò che è otticamente reale ma che viene invece corretto dal nostro occhio che integra l’immagine della realtà con la nostra esperienza e la nostra conoscenza e crea una rappresentazione mentale. Le sperimentazioni e gli errori fotografici volontari attuati dai fotografi surrealisti, oggi vengono spesso usati per la psicoterapia o la psicoanalisi per svelare ciò 30
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Moholy-Nagy L., Op. cit., p 26
che è nascosto, portare in superficie l’interiorità di un individuo. Più le immagini sono vaghe e sfocate e più inducono l’osservatore a evocare sentimenti, risentimenti del passato e a fare appello alle risorse immaginative. Macchie, fotografie mosse o disegni destrutturati che non rappresentano più la realtà; l’osservatore può immaginare e creare il proprio mondo invisibile, partendo da un piccolo spunto, avvalendosi della deformità di un’immagine per continuare mentalmente il fuori campo di una realtà che non è mai stata catturata. Francesca Woodman, fotografa americana morta giovanissima, sembra aver imparato la lezione dei surrealisti. Ha sempre sperimentato con lunghe esposizioni e sfocature intenzionali che davano alle sue fotografie un sentimento di movimento, di mistero e di eterno ed effimero allo stesso. I corpi che immortalava sembravano coperti da una nebbia, da una polvere o sembravano evaporare confondendosi con l’intorno. Nel cinema delle origini, si faceva uso di un’ampia profondità di campo, soprattutto nel cinema muto che consentiva di usare diaframmi molto chiusi grazie all’utilizzo di lampade molto luminose ma anche molto rumorose. Con l’avvento del sonoro e dei microfoni sul set infatti, la profondità di campo si ridusse a causa dell’eliminazione proprio di queste lampade e alla conseguente apertura del diaframma. Successivamente, dalla seconda metà degli anni Trenta, fu recuperata la profondità di campo grazie all’arrivo di pellicole più sensibili alla luce e di lampade più potenti e silenziose. Nella fotografia e nella cinematografia, il fuoco viene creativamente impiegato da chi effettua gli scatti o le riprese soprattutto per evidenziare il soggetto principale raffigurato o conferire maggior profondità allo scatto 37
o alla ripresa. Un soggetto fuori fuoco è relegato sullo sfondo, mentre uno a fuoco risalta nell’immagine. Nella fotografia di reportage e di documentazione è fondamentale avere un’ampia profondità di campo, per poter focalizzare bene e facilmente il soggetto e contemporaneamente contestualizzarlo nell’ambiente. Tuttavia, una ridotta profondità di campo è un modo per sottolineare qualcosa e quindi per suggerire all’osservatore il proprio punto di vista sulla vicenda o per enfatizzare uno dei soggetti rappresentati. L’uso della messa a fuoco è letterale nel suo impatto sulla fotografia, ma anche figurativo (retorico) nello stesso modo in cui si può dire attenzione per intendere concentrati! Guardando un film senza sonoro ci rendiamo conto facilmente di come la messa a fuoco sia usata per attirare l’attenzione su differenti personaggi che dialogano o per dare diverso rilievo a una scena, a un’azione o a un evento. Il fuori fuoco nel cinema è usato anche per significare la perdita di coscienza di un personaggio colto dal suo punto di vista, per esempio mentre è drogato o sognante e allo stesso modo lo sfocato è utile a rappresentare il movimento31. Usare una macchina fotografica significa usare un insieme di codici predefiniti. Possiamo variare i codici prospettici tramite il punto di vista, spostando la macchina fotografica o la macchina da presa e usando lenti differenti: teleobiettivo, normale o grandangolo. “L’obiettivo può anche mutare parere nel corso della stessa inquadratura. Può cioè cambiare le carte in tavola a partita iniziata […] L’obiettivo, insomma, può essere variabile”32. Questo significa ad esempio, che un oggetto inizialmente sfocato, apparentemente poco impor-
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Bate D., Op. cit., p. 17
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Moscariello A., Op. cit., p. 40
tante ma in primo piano, può diventare nitido e di conseguenza acquistare rilevanza all’interno della scena, in contrasto con ciò che, sullo sfondo, aveva attirato il nostro sguardo in un primo momento solo perché a fuoco. Tale variazione focale può essere un semplice esercizio di stile, un modo per sviare lo spettatore - soprattutto in un giallo - o un suggerimento silenzioso del regista per fornirci la chiave dell’intera vicenda. (Hitchock si servì spesso di questo meccanismo per depistare o aiutare lo spettatore che veste i panni del detective) La vista consiste in luce riflessa sulla retina dell’occhio. Tale luce viene tradotta in immagini dal lobo occipitale. Per percepire la profondità e il movimento, la retina scansiona continuamente l’immagine. Questi movimenti sono detti saccadi. Tra ogni saccade, il cervello collega il movimento degli occhi e viene percepito come un movimento. Si pensi al lobo occipitale come a un proiettore di pellicola. Ogni immagine, una dopo l’altra, crea l’illusione del movimento. La frequenza dei fotogrammi continua, come le saccadi, viene tradotta dal lobo occipitale come movimento fluido. Ma se la corteccia visiva è danneggiata o cessa di funzionare correttamente, l’informazione tra le saccadi non costruisce più il movimento. Ciò determina che le persone che soffrono di achinetopsia o cecità motoria, non percepiscano la fluidità dell’intero movimento ma solo alcuni fotogrammi e vedano quindi lo spostamento delle persone o delle cose a scatti.
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Statue di Nicolas Lavarenne ad Antibes. Foto di Anna Bossi.
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2. Guardare l’invisibile George Orwell negli anni ‘20 sperimentò la povertà di persona. L’essenza della povertà, scrisse all’epoca, è che “it annihilates the future”33 ovvero “annienta il futuro”. Il tempo dei poveri non conosce passato o futuro, chi vive nel bisogno e nell’abbandono vive in un eterno presente scandito dalla necessità di sbarcare il lunario, di sopravvivere alla giornata, senza porsi domande sul domani: gli ostacoli sono sempre legati al qui e ora. Anche il passato, in tal senso, viene cancellato da una tacita accettazione del presente come unico tempo possibile. Ciò che è stato si dimentica e la rassegnazione fa perdere al passato ogni significato anche in termini di memoria di sé. Così come le statue di Taylor deCaires sul fondo dell’oceano sembrano essere il Quarto Stato che avanza in una dimensione onirica, nella speranza di un mondo utopico, alla ricerca di qualcosa che forse non c’è, anche le sculture in bronzo di Nicolas Lavarenne ad Antibes sembrano protese in avanti in uno slancio di positività o forse semplicemente di ricerca, rialzate da aste lunghissime, nel tentativo di scorgere un futuro migliore. O le sculture di Alberto Giacometti che esprimono la solitudine, indagano la profondità dell’anima e camminano anch’esse incerte verso un futuro ancor più incerto. Esili, instabili, sempre a metà fra il visibile e l’invisibile. Filiformi e corrose dal tempo - dalla sofferenza? - sembrano essere stanche di questo eterno peregrinare. I loro piedi sono pesanti, così come pesante è la condizione esistenziale dell’uomo moderno. L’uomo della strada è, per Giacometti, più interessante Orwell G., Down and Out in Paris and London, Penguin, Harmondsworth, 2001, p. 19
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di tutte le sculture o dipinti. Con la stessa fragilità di queste statue, così effimere ma così umane, molti vagano per le strade, si agitano e si struggono nel dubbio tentativo di scorgere un futuro migliore per se stessi o per l’umanità.
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L’individuo è il punto focale. Giuseppe Spagnuolo è l’unico abitante di Roscigno Vecchia (Salerno). Foto di Anna Bossi.
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2.1 Il punto focale In fotografia il punto focale è il punto in cui i raggi rifratti dalla superficie della lente si focalizzano. Attraverso questo punto passa un piano, detto piano focale, che è l’unico piano sul quale è possibile ottenere un’immagine nitida, dal momento che è l’unico piano su cui giace il vertice del cono di raggi rifratti, cioè piegati. Il passaggio dalla nitidezza di questo piano focale alla sfocatura degli altri piani però non è netto né se guardiamo con i nostri occhi né se guardiamo attraverso una lente. Questo effetto è ciò che determina la già citata profondità di campo. Proseguendo con la mia correlazione tra fotografia e realtà, voglio specificare il fatto che in questo caso il punto focale è l’individuo. Perché la questione riguarda in primo luogo l’individuo e l’esistenza. Più precisamente l’individuo invisibile, l’emarginato, l’essere umano in quanto tale e solo di conseguenza in relazione agli altri individui e all’ambiente. È necessario imparare a guardare più che a vedere, a riconoscere la bellezza e a osservare ciò che ognuno vede ma trascura perché troppo orrido, banale, spaventoso o invisibile. Bisogna capire che lo sventurato non esiste solo in quanto parte di un insieme, di una categoria sociale, quella degli sventurati, ma esiste in quanto uomo, tale e quale a noi. Diventa essenziale parlare dell’atto del guardare, sia in senso fotografico ma soprattutto in senso ontologico. Guardare l’(individuo) invisibile, come ci guardassimo allo specchio, diventa un atto tanto semplice quanto indispensabile. Sufficiente a far diventare visibile ciò che prima era invisibile. Riappropriarsi dell’atto del guardare, così come tornano a vedere gli uomini del romanzo Cecità di José Sarama45
go, in cui il dilagare di un’improvvisa e inspiegabile cecità è appunto metafora di indifferenza, di mancanza di solidarietà, di incapacità di vedere quell’invisibile. Non a caso è una cecità resa da un’accecante luce bianca, come uno splendore che sembra voler aiutare a svelare più che a coprire con la sua oscurità. Rudolf Arnheim, nel 1936 intitola una parte di un suo studio Elogio della cecità: liberazione dal corpo e afferma che “il corpo si libera nel chiudere gli occhi, cancellando il senso dominante, esaltando il completamento della fantasia”34. Il critico tedesco tesse un elogio dell’ascoltatore senza vista (vedere senza sentire, per guardare) e un elogio dello spettatore senza udito (sentire senza vedere, per ascoltare). La cecità porta ad ascoltare le immagini, integrando la mancanza di un senso con la ricostruzione degli altri e con l’immaginazione. Scopro con piacevole stupore il lavoro di una fotografa scozzese, Moyra Peralta. Ha trascorso molto tempo per le strade, ha coltivato amicizie fortissime con gente conosciuta inizialmente proprio nelle vie. La strada, come ha spesso affermato, è il suo studio fotografico. E allora mi sembra, a volte, di avere in comune la strada con le persone che sto cercando di mettere a fuoco. Più in generale la città e tutti quei luoghi che si vivono e in cui vaghiamo. Chi per fare le foto, chi per riflettere, chi per cercare una storia, forse la propria e chi per cercare una vita migliore, per perdersi nel vuoto di un nuovo futuro come le statue di Lavarenne. Peralta ha voluto porre l’accento su quei visi nascosti, e mi sento di dire che si percepisce immediatamente come il suo non sia uno dei molti lavori a tema sociaFlorentino G., L’occhio che uccide: la fotografia e la guerra: immaginario, torture, orrori, Milano, Booklet Milano, 2004, p. 106 34
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le o delle tante serie fotografiche sui senza dimora, ma l’espressione di trent’anni di sincere, intense e laceranti relazioni umane. Le sue fotografie enfatizzano la sua volontà - che lei stessa dichiara nella sua biografia - di documentare le facce delle persone che conosce meglio, di renderli visibili. Perché, come sottolinea John Berger, queste persone vengono completamente ignorate nella vita di tutti i giorni e spesso, ad essi, è addirittura vietato l’accesso ad alcune parti della città. John Berger, nella sua analisi sull’opera di Moyra Peralta, scrive che le sue fotografie sono “primi piani non nel senso fotografico, ma nel senso umano del termine”35. Ed è evidente che per realizzare dei primi piani così efficaci di chi è condannato all’invisibilità, bisogna essere a propria volta invisibili, e questa volta non in senso lato, ma quasi letteralmente. Per riuscire a mimetizzarsi nel delicato ambiente di chi si è abituato ad essere ignorato, bisogna imparare di nuovo a vedere, a conoscere ma soprattutto a farsi conoscere. Perché credo che la chiave per un ritratto sincero, privo di retorica, sia il rapporto che si insatura tra il fotografo e il soggetto. Anche John Berger infatti afferma che non esiste alcun tipo di rapporto unilaterale. Per fotografare una persona bisogna conoscerla, e per conoscerla è necessario che lei conosca noi. Gli occhi dei soggetti di Peralta sembrano guardarla e dirle “fa’ come se fossi a casa tua”. Ed è ironicamente inquietante, perché sono senzatetto. Uno spirito di osservazione così grande e una così ammirevole capacità di creare un legame con il soggetto fotografato era tipica del lavoro di August Sander, fotografo tedesco che ha raccolto una serie di volti donando ad ognuno di loro una dignità colta nella propria Berger J., Capire una fotografia, trad it. Maria Nadotti, Roma, Contra-sto, 2014, p. 217
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identità sociale, grazie a uno sguardo fisso sulla macchina fotografica. Walter Benjamin, filosofo e critico tedesco spesso citato a proposito della fotografia, scrisse: “Sander parte dal contadino, dall’uomo legato alla terra, conduce l’osservatore attraverso tutti e attraverso tutte le professioni fino ai rappresentanti della cultura più alta e giù fino all’idiota. L’autore ha affrontato questo compito enorme non da studioso, senza i consigli di teoria delle razze o di sociologi, bensì, come dice «sulla base dell’osservazione immediata»”36. Il docufilm girato da Corrado Franco Al di qua, mostra quella sfera parallela in cui vivono i senzatetto. Il nostro mondo di qua e il loro di là scorrono l’uno affianco all’altro ma non si incontrano mai. La loro drammatica quotidianità è assolutamente invisibile agli occhi di chi vive nell’al di qua. Come far incontrare di nuovo queste due strade? Cosa fare per eliminare l’invisibile eppur indistruttibile linea che separa i due mondi? Il solo modo di passare dall’altra parte è dimenticarsi per un attimo di se stessi, aprirsi e valicare quella enorme barriera a cui ci siamo abituati: il nostro bisogno di non vederli. Perché ci fanno male. Perché siamo noi. Siamo noi con il sedere per terra. Sono i nostri errori. Gli errori della nostra società che non ammette sbagli. E in una società che non ammette sbagli, errare può aiutare a recuperare ciò che si è perso. Sono consapevole del fatto che nonostante quattro quinti della popolazione mondiale diventino ogni anno più poveri, i poveri di oggi non vivono sicuramente come i poveri di cinquant’anni fa. Ma forse sbagliamo l’approccio per risolvere la questione. Forse non dobbiamo pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in loro e che dovrebbero ascoltarci e imparare da noi. O ancora pegBenjamin W., Piccola storia della fotografia, Roma, Skira editore, 2011, p. 35
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gio, che dimostrandosi disponibili al cambiamento, una mano invisibile giungerà dall’alto come a redimerli dalla disgrazia e a trasformarli magicamente in cigni. Molti di noi, io per prima, abbiamo inconsciamente sperato per lungo tempo che quella mano invisibile che governa le leggi del mercato, accorra in aiuto di chi quell’invisibilità la conosce bene. Per Zygmunt Bauman questa speranza non si intravede minimamente. Secondo il sociologo non si prospetta alcun salvataggio per chi dipende dai “sussidi di disoccupazione”37. Ma ripeto, forse sono sbagliati i presupposti per i quali spesso le persone povere sono considerate pigre, un po’ pazze, che darebbero qualsiasi cosa pur di evitare una giornata di lavoro. Gente senza speranza, nata da famiglie già in gravi condizioni economiche e culturali, da cui non sono stati istruiti e da cui non hanno imparato a stare al mondo. Cosa succederebbe se realizzassimo invece che ciò che funziona sono proprio le persone stesse e ciò che è sbagliato è il nostro approccio nel tentare di risolvere questo problema? Cosa succederebbe se invece di continuare a interrogare esperti, sociologi e cercare di tirar fuori qualche risposta dalle statistiche, ci sedessimo a un tavolo con i diretti interessati e diventassero loro i nostri esperti? Cosa succederebbe se alimentassimo il fuoco delle loro idee, dei loro talenti, della loro iniziativa? Uno degli elementi ricorrenti infatti è proprio la perdita di fiducia nelle altre persone; i senzatetto si sentono inutili, senza diritto di parola e la loro voglia di dire la propria opinione è stata lentamente cancellata fino a farla scomparire. Parlare delle classi sociali più emarginate significa prima di tutto occuparsi del recupero della dignità individuale attraverso un lavoro di autoconsapevolezza. Bauman Z., Vite che non possiamo permetterci: conversazioni con Citlali Rovirosa-Madrazo, trad. it. Marco Cupellaro, Roma, Editori Laterza, 2011, p. 29
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Si parlava prima dell’esperienza della povertà di George Orwell. Lo scrittore inglese infatti, non ancora trentenne, aveva deciso di studiare i poveri, tralasciando inizialmente i dati statistici e immergendosi nel loro mondo per ascoltare le loro storie, conoscerli da vicino e fare esperienza in prima persona della loro quotidiana lotta per la sopravvivenza. Senza troppa retorica, potremmo però ricordarci di questo tipo di approccio nel momento in cui ci accingiamo a scrivere un romanzo su questi temi, una biografia o a intervistare uno degli emarginati. Dalle parole delle persone con cui ho avuto modo di parlare per indagare i diversi disagi sociali o per il video che ho realizzato a conclusione di questa analisi, emerge chiaramente come gli assistenti sociali si siano rivelati più o meno disponibili, utili o essenziali a seconda dei casi e delle persone, ma anche come tra i senzatetto non ci sia alcun tipo di solidarietà. La stessa solidarietà di cui si parlava citando Saramago, è completamente assente tra le persone in difficoltà e anche se non faccio alcuna fatica a crederlo lo trovo quantomeno anomalo.
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L’Homme qui marche I di Alberto Giacometti (1960). 51
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2.2 La ghiera dell’empatia Quanto conta l’empatia nell’esperienza estetica? Quando osserviamo un’immagine, il sistema dei neuroni specchio attiva le stesse reti neurali che attiverebbe se avessimo prodotto noi quell’immagine, se avessimo dovuto pensare e compiere i gesti necessari a realizzarla. Le emozioni e i movimenti che ne derivano ci aiutano quindi a comprendere meglio l’immagine ma anche a decodificare le intenzioni e le azioni ad essa sottesa. Non solo, il sistema sensorio-motorio (delle sensazioni e del movimento) è ciò che ci permette di riconoscere le emozioni manifestate dagli altri, aiutando ad attivare le aree che sarebbero attive se stessimo provando noi quell’emozione. Simulando le sensazioni emotive, esso è ciò che ci consente di comprendere quel “mettersi nei panni degli altri” semplicemente osservando il risultato dell’azione compiuta dall’altro soggetto. Il genere di reazione che una persona può avere di fronte a una fotografia di oppressi, dimenticati, mendicanti, dipende anche dal suo grado di familiarità e dalla sua abitudine e guardare queste foto. Il suo sdegno morale o la sua indifferenza saranno sicuramente legati al soggetto delle immagini ma anche alla diffusione e all’ampiezza di materiale legato a quel tema. Cosa scatta in noi quando guardiamo queste fotografie? Ci ricordiamo il primo momento o la prima foto che abbiamo visto che ritraesse un orrore, un fuorifuoco, una cosa che non avevamo mai visto e che forse avremmo voluto continuare a non conoscere? Abbiamo anche noi un’epifania negativa come Susan Sontag o quelle immagini ci lasciano indifferenti? Anche noi, di fronte alle immagini, proviamo emozioni irrazionali e reagiamo allo stesso modo delle persone 53
che non sono state educate a reprimere tali convinzioni e reazioni. Anche noi avvertiamo timore, sdegno, meraviglia di fronte all’opera e all’abilità di un artista e temiamo il potere delle immagini da lui create e la loro capacità di elevarci o turbarci. Ma siamo stati educati a pensare, parlare e reprimere questi effetti delle immagini sul nostro animo e tendiamo a rivolgere lo sguardo sulle reazioni di coloro che consideriamo più semplici o ingenui, o dei popoli con culture meno civilizzate che accolgono e non mascherano ancora i loro sentimenti più primitivi. David Freedberg nel suo saggio Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico afferma: “Noi occidentali preferiamo ignorare i tipi di reazione che trascendono le differenze culturali e cronologiche e rifiutiamo di ammettere quegli aspetti di reazione alle immagini che precedono l’osservazione distaccata e razionale”38. Le foto di Vivian Maier dei poveri e degli emarginati per le strade sembrano rispecchiare la tradizionale preoccupazione dei documentaristi che credono che la fotografia, così come il cinema, possa avere effetto sulle decisioni e i cambiamenti politici. Susan Sontag afferma che “Poiché ogni fotografia è soltanto un frammento, il suo peso morale ed emotivo dipende da dove viene inserita”39. Tuttavia, il lavoro di Vivian Maier non sempre sembra avere il volto di una call to action. I suoi ritratti urbani, anzi, riflettono enormemente il suo desiderio di scattare fotografie per conoscere e confrontare ciò che la vita fa e potrebbe fare a ognuno di noi. Ciò è in antitesi Freedberg D., Il potere delle immagini: il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, trad. di Giovanna Perini, Torino, Einaudi, 2009, p. 55 38
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Sontag S., Op. cit., p. 93
con i molti fotografi a lei contemporanei che sembrano gettarsi per le strade alla costante ricerca dell’iconico, dell’ironico e di quello che Bresson chiamava “istante decisivo”40. Nel testo della musica che fa da tema a Film blu, si dice che l’unica virtù umana che sopravviverà al tempo è quell’agàpe solitamente tradotto nella tradizione cattolica come carità, ma il cui senso più autentico è amore. L’amore, inteso in questo senso, è un moto spontaneo verso l’altro, una forza solidale che indirizza la vita al di là degli obbiettivi contingenti che di volta in volta costituiscono il suo senso transitorio. L’amore, per Krzysztof Kieslowski, è molto elementare, “un sentimento istintivo, il contrario dell’indifferenza, la capacità di farsi toccare dal mondo”41. Kieslowski dimostra, nella sua Trilogia dei colori, la necessità dell’uomo di assumersi la responsabilità di agire. Il tema di questa responsabilità è rappresentato dal personaggio ricorrente di una signora che, in tutti i film, cerca con difficoltà di buttare una bottiglia di vetro. Solo in Film rosso, l’ultimo della trilogia dedicato alla fratellanza, la protagonista rendendosi conto dell’anziana con la testa china decide di assumersi questa responsabilità di agire. Ed è questo semplice gesto solidale che rappresenta il superamento dell’autismo esistenziale, dell’individualismo come rifugio dal dolore42. Ma forse è ancora più interessante la riflessione che può scaturire dalla domanda del saggio giudice alla protagonista: “hai salvato il mio cane affinché non avessi incubi di una testa di cane sfracellata sulla strada sa40
Maloof J., Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, Contrasto, 2015
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Murri S., Krzysztof Kieslowski, Milano, Il castoro cinema, 1996, p. 141
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pendo che lo avevi fatto tu, dunque chi stavi veramente aiutando?” E quindi mi chiedo, la protagonista Valentine ha agito in nome di quella nobile agape di cui prima o ha semplicemente proseguito in un egoismo, mascherato da carità, come scudo dal dolore? E di conseguenza, agiamo noi alla luce degli altri o di noi stessi? Sono gesti solidali i nostri, o forse ancora una volta individualistici? Dietro la facciata dell’altruismo si nasconde sempre il tornaconto personale? A volte indossiamo delle maschere senza neanche accorgercene perché siamo abituati. È normale pensare di essere più gentili, onesti e altruisti di quello che realmente siamo, soltanto perché non siamo mai stati messi alla prova, non c’è stata o non abbiamo voluto creare l’occasione per poter dimostrare il nostro coraggio o la nostra mancanza di esso. Il ridimensionamento del denaro e del suo strapotere, la solidarietà che richiede ancora troppi sacrifici e troppa fiducia configurano una società utopica che è ancora troppo poco allettante e tangibile. Secondo Erik Erikson l’identità è il punto d’incontro tra ciò che una persona vuole essere e ciò che il mondo le consente di essere43. Ma la nostra identità e quella degli altri dove si incontrano? Dove si separano? Nel volto. Il volto dell’altro: un aspetto fondamentale dell’etica di Emmanuel Lèvinas, filosofo francese di origini lituane che sosteneva che proprio il volto fosse il luogo dell’incontro, il punto di partenza dell’etica o, se vogliamo, dell’agàpe di cui si parlava. Così ordinario e così stra-ordinario al tempo stesso, Sennet R., Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Bruno Mondadori, 2009, p. 130 43
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l’incontro con il volto dell’altro provoca in noi il desiderio iniziale di ucciderlo, perché diverso dal nostro. Si è parlato dell’epifania negativa di Susan Sontag di fronte alle fotografie, anche Lèvinas parla di epifania, intendendo il momento della scoperta, della rivelazione della presenza dell’altro, con tutto il suo universo interiore, con tutta la sua umanità. Il volto è qualcosa che posso fotografare, disegnare, ricordare ma se lo guardo con attenzione ha qualcosa di inafferrabile, di irriducibile; l’essenza umana forse. Quel che è certo è che non possiamo rimanere indifferenti di fronte a un volto, perché esso è nudo, fragile. La sua fragilità esistenziale si rivolge a noi con una richiesta di aiuto, di compassione, nel suo significato latino di cum patior, soffro con. Il volto rivela. Il volto dell’altro mi pone in questione, mi impone un atteggiamento etico: “è il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto”44. Il volto è il povero, la vedova, l’orfano. L’altro mi guarda e io guardo lui. Lo sguardo, inteso come guardare più che vedere, è conoscenza e percezione. L’altro, fulcro del pensiero di Lèvinas, è una rivelazione. In questo senso, l’identità umana (sociale, sessuale, politica) appare come una struttura precaria, o piuttosto come un processo di identificazione che non può prescindere dagli altri per essere completo. Quando noi guardiamo il volto di un altro o un ritratto, ciò che vediamo è ciò che di noi possiamo trovare nell’altro o l’altro in noi. Questa sorta di voyeurismo deriva da un nostro primordiale atteggiamento del guardare per conoscere, un’incessante ricerca personale, di identità sociale e psicologica. Questo piacere del guardare e queste ricerche si intrecciano nell’eterna domanda che il ritratto sembra rivolgere: chi siamo? Magnanimo A., Emmanuel Levinas, http://www.filosofico.net/levinas.htm
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Il volto è quindi il punto di incontro tra noi e gli altri ed è ciò che comporta la nostra empatia e la nostra immedesimazione nel personaggio. Il fatto che dietro ogni volto si celi una storia sensazionale o comunque degna di essere raccontata, fa sì che si crei una sorta di estetica della povertà. Chi racconta dei poveri e degli emarginati sa bene che un simile tema, dal punto di vista artistico e letterario, ha già in sé i presupposti per suscitare interesse nello spettatore. La risposta emotiva del pubblico sarà travolgente o quantomeno positiva perché il tema degli oppressi possiede una valenza romantica sicuramente maggiore di quella che può avere la narrazione di un mondo di opulenza e benessere. Per riprendere le persone, il cinema utilizzava inizialmente le inquadrature tradizionali, campo lungo o medio, tipiche della fotografia ritrattistica45. Ma i registi hanno poi cominciato a fare largo uso del primo piano e il volto (ma anche il dettaglio di una mano o di un occhio) è diventato così un mezzo pratico ed efficace per trasmettere l’intensità dei sentimenti. Inoltre, il close-up di un volto permette di creare un forte legame tra l’osservatore e il soggetto, inserendoli in una dimensione di intimità utile a rafforzare il sentimento di compassione, odio o simpatia già provato dallo spettatore, offrendogli un senso di identificazione psicologica. La sensazione che proviamo durante questa esperienza di identificazione e di smarrimento nelle immagini (una sorta di volontaria sospensione dell’incredulità), che spesso viene data per acquisita, è un abbandono della nostra realtà presente in favore del mondo immaginario dell’immagine, uno spazio che rappresenta una sorta di realtà ma una realtà immaginata. 45
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Bate D., Op. cit., p. 107
Secondo Angelo Moscariello, lo spettatore non si immedesima tanto nel personaggio, o meglio nei personaggi, quanto nella cinepresa. Il processo identificativo agisce per tutta la durata del film ma è allo stesso tempo variabile perché la nostra identificazione non si riflette su un unico personaggio. Bisogna infatti considerare che ogni personaggio rappresenta più o meno la concretizzazione di un aspetto del nostro carattere e dunque ci immedesimeremo in lui almeno per qualche attimo, buono o cattivo che sia. Lo spettatore si assimila al mirino della fotocamera per seguire la storia come un narratore onnisciente, anche se la storia che vive non sarà mai oggettiva dal momento che riflette irrimediabilmente un punto di vista, quello scelto dal regista e che la macchina da presa rappresenta46.
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Moscariello A., Op. cit., p. 111 59
Punti a fuoco in primo piano e cerchi di confusione sullo sfondo. Foto di Anna Bossi.
60
2.3 Il cerchio di confusione Parlando della profondità di campo, ho accennato al concetto di cerchio di confusione. Il circolo (anche cerchio o disco) di confusione rappresenta il contorno sfocato di un punto che si crea quando questo non si trova sul piano della messa a fuoco. Tale effetto è evidente con i punti a maggiore luminosità, come i fari delle macchine o le luci distanti di una città nella notte. Quando la messa a fuoco del punto immagine è corretta, esso sarà rappresentato come un punto nitido, ma allontanandosi dal piano focale, il punto aumenterà le sue dimensioni, i suoi contorni diventeranno sempre meno netti, e si formerà pian piano il cosiddetto circolo di confusione. Nella mia analisi, il cerchio di confusione sarà la città: sfondo e teatro delle vicende umane. Uno sfondo dai bordi confusi, come confusi sono ormai i margini delle città che inglobano periferie, fabbriche, ex stabilimenti, quartieri popolari ed ex villaggi operai. Per Wim Wenders, le città sono come persone (nei suoi film le città sono spesso vere e proprie protagoniste): “possono essere scontrose, riservate o schive... con alcune bisogna avere pazienza, altre ti assorbono totalmente le energie”47. Il paesaggio urbano, è per il regista tedesco, molto più che un semplice sfondo. Le strade, le case, i fiumi, le colline possiedono una storia, un’identità come fossero personaggi supplementari. Questi elementi, non solo evocano un’atmosfera, un sentimento o un’emozione nello spettatore, ma costruiscono un legame con i loro abitanti, influenzando il carattere e le abitudini dei cittadini. La città, nel cinema, da una parte è trattata come “ele47
Wenders W., Op. cit., p. 89 61
mento formale-scenografico”48, dall’altra è un utile strumento per rappresentare tematiche sociali, guerre, crisi ecc. Come nel caso della disoccupazione postbellica rappresentata perfettamente dalla Roma di Accattone. Lo spazio paesistico, da sempre, è legato alla pittura e la città, nella cinematografia è in antitesi con esso. Un campo lungo di un paesaggio ci sembrerà sempre d’ispirazione pittorica, un campo lungo di una città ha un qualcosa di legato alla cultura cinematografica hollywoodiana. Le immagini di New York di Once upon a time in America sono rimaste impresse nelle mente di tutti come emblema della città cinematografica. Così come le piazze di Roma mostrate da Fellini e Pasolini hanno conquistato il nostro immaginario romantico e decadente al tempo stesso. La percezione di tali spazi, sia in senso orizzontale che verticale (soprattutto nelle scene delle grandi metropoli con i loro alti grattacieli), condiziona il punto di vista in modo determinante. Se ai tempi del neorealismo di De Sica e Rossellini, il compito delle immagini era principalmente quello di mostrare la realtà, oggi, nonostante il colore, le immagini sono diventate più fredde, sono universalmente più commerciali, in constante guerra tra loro alla conquista di un pubblico che, in fin dei conti, non sa più cosa cerca o cosa vuole vedere. Anche le città dipinte nei film sono diventate “sempre più fredde, più inaccessibili, estranee e stranianti”49. Così come le immagini che ci circondano sono sempre più stridenti e strillanti, disarmoniche e banalmente omogenee, i centri storici delle città vengono occupati dagli edifici commerciali e finanziari, dall’industria del consumo e del divertimento, portando 48
Licata A., Mariani Travi E., La città e il cinema, Editore Dedalo 1993, p. 5
49
62
Wenders W., Op. cit., p. 89
Scena tratta da Accattone di Pier Paolo Pasolini (1961).
Scena tratta da Once Upon a Time in America di Sergio Leone (1984).
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i cittadini a trasferirsi nelle periferie. Periferie che ormai non coincidono più con la parte esterna della città, perché la storia non coincide con la geografia e se è vero che la paura del diverso del mondo di oggi non è cosa nuova, è altrettanto vero che le politiche urbane hanno contribuito alla zonizzazione del territorio. Il quarto stato di prima, in marcia verso i quartieri borghesi appartiene ormai a un passato in cui il centro storico e ricco era contrapposto alla periferia recente e abbandonata a se stessa. Oggi, il degrado, l’assenza di servizi e i dimenticati si possono trovare negli edifici sfitti del centro, nelle fabbriche dismesse, negli ospedali, nei centri di accoglienza e di recupero. Cos’è oggi una città? Coincide ancora con ciò che rappresentava? Simbolo dell’innovazione tecnologica e della rivoluzione industriale, dove sono i suoi confini? Il suo nucleo è ancora il centro storico e la periferia è ancora misurata in funzione della distanza geometrica da esso? Stefano Boeri in L’anticittà afferma che la città europea di oggi somiglia sempre più a un “grande accampamento”50. Sono sempre di più le “auto-dormitorio, le baracche improvvisate nelle aree industriali abbandonate, i pendolari che, seppur con un lavoro precario, hanno un posto letto negli sterrati o nelle infrastrutture ai lati della tangenziale e il mercato nero dei posti letto a rotazione per i migranti e i senza fissa dimora”. Contribuiscono a creare la metafora di questo grande accampamento anche il subaffitto e il mercato nero delle stanze degli studenti fuori sede e dei parenti dei pazienti ricoverati negli ospedali delle grandi città, parenti costretti ad appoggiarsi alle strutture di accoglienza per non dormire nell’auto parcheggiata vicino all’ospedale o in altri spazi 50
64
Boeri S., L’Anticittà, Roma, Editori Laterza, 2011
improvvisati e non adatti. Come si abitano queste nuove città europee? Dove ci si incontra? Dove ci si muove in solitudine? Dove si possono creare infrastrutture per recuperare la dimensione umana? Dove si formano le comunità e dove invece i ghetti? Apparirà forse banale affermare che bisognerebbe ripensare gli spazi urbani in funzione delle relazioni tra esseri umani e dell’uomo. Bisognerebbe dare origine a forme abitative innovative, spingendo verso nuove composizioni di identità e creando cortocircuiti tra i modi vivendi e tra quei compromessi a cui le città e le popolazioni sono ormai abituate, evitando di cadere nelle solite contrapposizioni tra periferia e centro, tra ricchi e poveri, tra buoni e cattivi, per dar vita e alimentare nuove relazioni umane da usare come risorsa. Secondo Stefano Boeri, la varietà sociologica dell’abitare viene colpita sia dalla frammentazione che dalla specializzazione. Specializzazione di aree di lusso, quartieri monoetnici e zone della città in cui le persone si somigliano sempre di più per identità, abiti e posizione sociale; frammentazione di personalità e individui che non cercano più la propria identità negli spazi pubblici ma sempre di più nelle minute unità abitative. Le barriere infrastrutturali o le fasce verdi hanno determinato i quartieri popolari, i grands ensembles: pensati in una visione democratica della città non hanno fatto altro che accentuare la divisione dei ceti sociali, l’alienazione e l’estraneità delle popolazioni migranti. Anche se è in parte utopistico pensare di ridurre le differenze tra ricchi e poveri e far sì che le condizioni in cui vivono siano meno distanti dei loro redditi, secondo Bernardo Secchi, urbanista milanese, “la città della seconda metà del XX secolo non risolve questi problemi di 65
ghettizzazione e di segregazione sociale con politiche rivolte all’integrazione dei diversi gruppi sociali”51. Non è cosa nuova il fatto che l’urbanizzazione degli ultimi anni del boom economico abbia prodotto un’emarginazione considerevole che si è concretizzata nella diffusione dei ghetti in molte parti del mondo. Questa contrapposizione, spesso rappresentata fisicamente da muri o barriere un po’ improvvisati, tra i paradisi di benessere e le isole di povertà e disuguaglianza socioeconomica è al centro dell’odierna crisi urbana. Riassumendo, si può dire che la ricetta dell’anticittà odierna di cui parla Boeri, sia data da un forte sentimento di frustrazione, unito all’omologazione diffusa in molti ambiti nella nostra vita di oggi, che insieme alla precarietà del lavoro e alla fragilizzazione della famiglia danno luogo a queste nuove città europee, accampamenti urbani che altro non sono che “grandi aree di residenzialità temporanea in continua ridefinizione”52. Sono rari - anche se sempre più in crescita - i tentativi di creare comunità, coabitazioni e esperimenti di vario tipo per recuperare la dimensione umana. Specialmente nel nostro ambiente, in cui, nonostante l’accelerazione dei processi produttivi, della tecnologia e della vita sociale abbia trasformato gli spazi urbani e la natura delle relazioni sociali intessute in essi, si può dire che la struttura e le divisioni interne delle città siano rimaste bene o male simili fin dall’età moderna. In un futuro remoto però le relazioni umane si costruiranno ancora a partire dalla piazza centrale o nasceranno nuove forme di interazione all’interno dei palazzi stessi e delle singole case? Mais, moi, grâce au destin, qui n’ai ni feu ni lieu, Je me loge où je puis et comme il plaît à Dieu. Questo verso di Secchi B., La città dei ricchi e la città dei poveri, Roma, Editori Laterza, 2013, p. 53
51
52
66
Boeri S., Op. cit., p. 45
un’opera di Boileau Despreaux, esprime bene il sentimento che provano le persone senza dimora nel non avere un focolare domestico a cui tornare la sera, un fuoco. Vivere senza una casa significa non vivere da nessuna parte, ma costruire la propria esistenza in relazione alla città in cui si vaga, agli spazi, spesso provvisori, inadatti e condivisi con sconosciuti. Proprio da questi versi è nato il titolo del documentario Nessun Fuoco Nessun Luogo di Carla Grippa e Marco Bertora che racconta la vita di otto senzatetto di Genova. Protagonisti, oltre alle otto storie, sono il tempo e lo spazio. La percezione del tempo e dello spazio di questi uomini è molto diversa dalla nostra. Il tempo: lento, incombente, bisogna affrontarlo, annegarlo per farlo passare il più fretta possibile ma senza che esso vinca sulla vita. Lo spazio: vuoto, fatto dalle strade ma anche dai luoghi frequentati quotidianamente, le stazioni, le biblioteche, le chiese. Spazi che devono essere pensati in maniera più personale per favorire la coesione, la reintegrazione nella società ma soprattutto la costruzione di relazioni e legami che rafforzino psicologicamente gli emarginati. Troppo spesso i dormitori si trovano nelle periferie delle città, non c’è legame con il vicinato, con il contesto che li circonda. I senzatetto vi si recano la sera per dormire e la mattina, invisibili e silenziosi come sempre, si allontanano per vagare nella città, per far passare un altro giorno, cercando di non pensar troppo alla fame, al freddo, forse alla famiglia. Benedetto Saraceno, psichiatra e direttore scientifico del Centro Studi Sofferenza Urbana, parla di una città che produce sofferenza, non tanto a livello individuale quanto a livello di comunità. Una sofferenza intesa come povertà, come malattia mentale, come disagio psicologico e sociale, come violenza, insicurezza e abbandono. 67
Ugo Mulas, Gianni Berengo Gardin, Gianfranco Mazzocchi, Gabriele Basilico, tutti in epoche diverse ma tutti con la stessa volontà e senza retorica raccontano e catturano i muri, le rovine, i grandi edifici delle periferie, dei centri sociali, delle città satellite. Raccontano la gente, gli sguardi, gli eventi, i cambiamenti sociali e le storie che contribuiscono ad arricchire le città. Gabriele Basilico ha fotografato l’architettura, il più delle volte deserta, come fotografasse esseri umani. Ha abbandonato i ritratti e la fotografia dell’uomo decidendo di dedicarsi alla città come sua allegoria, perché le metropoli senza gli individui sarebbero solo città fantasma. Il fotografo milanese ha documentato, vivisezionato lo spazio urbano creato dall’uomo per ritrovare l’uomo. Negli ultimi decenni del secolo scorso, i fotografi si sono addentrati nel cuore urbano, negli spazi vuoti e decadenti alla ricerca del degrado, della sofferenza, del fuorifuoco. Questi artisti ci mostrano un mondo familiare eppure invisibile, vicinissimo eppure nascosto al nostro sguardo. Il fotografo, come un sensore, sceglie di errare per la città e catturare ciò che vede. Errare in fotografia, è essere disposti ad accogliere gli incidenti, gli errori come epifanie fotografiche. L’avevano capito bene Man Ray, Moholy-Nagy e tutti i fotografi per i quali la scoperta dell’errore fu rivelatrice, permettendo loro di scoprire nuove realtà. D’altra parte l’errore, l’incidente, è un compagno utile se non inevitabile anche della tecnologia e di ogni nuova invenzione. Esso contribuisce al progetto o alla creazione tanto quanto l’intuizione iniziale ed è un aspetto particolarmente accettato dal design che ha imparato a sfruttarlo e ad apprezzarlo, diversamente da altri campi come la matematica o la scienza in cui esso non è contemplato e anzi, in cui si cerca di ridurre sempre di più il margine di errore umano. 68
Errare significa quindi commettere errori, ma può anche essere inteso nel senso di vagabondare, girovagare per le strade alla ricerca o in attesa di qualcosa. Torno alle fotografie di Vivian Maier perché ripenso alla visione che Susan Sontag ha di un fotografo. La scrittrice americana paragona il fotografo a uno straccivendolo che, come il poeta moderno di Baudelaire, colleziona e cataloga tutto ciò che la grande città ha gettato, frantumato o disdegnato. Egli “Vaglia, sceglie con intelligenza; raccoglie, come un avaro un tesoro, le immondizie che, rimasticate dalla divinità dell’Industria, diverranno oggetti di utilità o di godimento”53. E qui penso al détournement, a quello smarrimento volontario che porta a nuove esperienze e sensazioni e che ritrovo nelle foto di Vivian Maier, chiare espressioni di quel suo vagabondare per i luoghi sconosciuti ma anche per quelli noti, a cui siamo troppo abituati e che ci rendono difficile il cambiamento del punto di vista. Durante questa deriva, sia essa come quella di uno straccivendolo o di un flâneur, e durante il corso della giornata, possiamo assumere identità diverse - turista, lavoratore, poeta - che ci faranno percepire la città e gli spazi intorno a noi in maniera diversa. Anche le persone che vedremo e i giudizi che daremo saranno differenti a seconda dell’abito e della maschera che indossiamo in quel momento. “Il cinema, ancor più della fotografia, incarna la nuova percezione visiva della scena urbana, teorizzata a metà secolo dall’estetica baudelairiana del flâneur“54, personaggio più elegante dello straccivendolo ma forse non così dissimile.
53
Sontag S., Op. cit., p. 70
54
Di Marino B., Op. cit., p. 14 69
3. Casi studio I seguenti casi studio sono stati analizzati seguendo i tre criteri del capitolo precedente: il punto focale, la ghiera dell’empatia e il cerchio di confusione. Il punto focale è l’individuo ed è ciò che ho tenuto come chiaro punto di riferimento nell’analisi dei casi studio e nella successiva realizzazione del video. Ho esaminato i seguenti film per cercare di capire come far emergere il mondo interiore dei personaggi, senza eroismi o pietismi, ma soprattutto la biografia di uomini che non sono attori ma che recitano la parte di se stessi. Il punto chiave è il loro “esserci”, il dipanarsi della loro esistenza in un luogo determinato (la periferia) e in un tempo preciso. Il tentativo sarà quindi quello di chiudere metaforicamente il diaframma – quasi a farlo diventare un foro stenopeico – per cercare di mettere a fuoco tutti i piani, compresi quelli che solitamente non ci riguardano o che provocano in noi una sorta di spaesamento perché mostrano ciò che non siamo soliti vedere. La ghiera dell’empatia è un aspetto più difficile da osservare, da valutare e da mettere in pratica nelle riprese. Seguendo la mia analisi precedente si può notare che ciò che è stato detto a livello teorico, spesso coincide con i modi o le tecniche usati per restituire questa empatia nel cinema. Il volto si è rivelato importante se non essenziale, sia nella ricerca teorica che nel cinema: i lunghi primi piani e le riprese ravvicinate diventano una parte fondamentale per consentire allo spettatore di empatizzare con il personaggio, ancor più se la durata è 70
tale da permettere un lento processo di identificazione e di introspezione. Il cerchio di confusione rappresenta, in fotografia, quel momento in cui il punto focale passa dal piano di messa a fuoco a un piano non a fuoco e quindi i suoi bordi da nitidi diventano “confusi” e più ampi. Analogamente, il cerchio di confusione rappresenta il momento in cui il soggetto (punto focale) smette di essere a fuoco e si lascia invece spazio allo sfondo, che in questo caso è Torino. Uno sfondo sfocato forse, ma che cerca di prender vita dalle storie dei suoi abitanti per evitare di diventare, come molte altre, una città fantasma. In particolare, diventano protagoniste le periferie, luoghi ricchi di storia e di storie, di individui da raccontare ma anche colme di problematiche e disagi. I ragazzi delle periferie sono invisibili; difficilmente i fari della città, della politica, del cinema o della cultura sono puntati su di loro, se non per mettere in luce degli stereotipi precostruiti. Il nemico delle periferie è spesso l’ignoranza: ignoranza che è oblio di queste e ignoranza di quello che si crede di sapere a proposito di esse. E allora si tenta spesso di portare cultura, arte e luce per sconfiggere quest’ignoranza. Gli alti palazzi, i mercati, le piazze, le chiese, non solo evocano un’atmosfera, un sentimento o un’emozione nello spettatore, ma costruiscono un legame con i loro abitanti, influenzando il carattere e le abitudini dei cittadini. Nell’analisi si osserveranno dunque i luoghi torinesi per eccellenza e quelli più nascosti, più sconosciuti per capire come questa città abbia contribuito alla crescita dei suoi abitanti ma anche alla formazione dei suoi luoghi d’emarginazione. 71
3.1 Mirafiori lunapark
Italia, 2015, 75’, Colori
50%
40%
70%
Regia: Stefano Di Polito Soggetto: Stefano Di Polito, Anna Gasco Fotografia: Paolo Ferrari Luoghi: Mirafiori Nord e Sud, ex stabilimenti Fiat, Via Plava, Piazzetta Jona. Sinossi: A Mirafiori, sede storica dei primi stabilimenti della Fiat e simbolo delle lotte operaie degli anni Settanta, è tempo di riqualificazione: una vecchia fabbrica abbandonata sta per essere abbattuta per fare spazio al vicino campo da golf. Ma Carlo, Franco e Delfino, che nel capannone hanno speso buona parte della loro vita, non sono disposti a uscire di scena senza fare un ultimo tentativo per ripopolare il quartiere e riavvicinare figli e nipoti. 72
Mirafiori Lunapark racconta una classe operaia, racconta la nostalgia delle tute blu, quella nostalgia mista a vergogna per aver perso il lavoro, alla Fiat come in molte altre fabbriche italiane. La stessa vergogna che provarono le persone di fronte alla cassa integrazione del 1980 e che li costrinse ad ammettere a se stessi e ai familiari che il lavoro non c’era più. Quel disagio che fece sì che molti continuassero ad alzarsi all’alba fingendo di andare in fabbrica come sempre. Nel film però questa vergogna è più una nostalgia romantica, perché gli anni sono passati e ormai i tre protagonisti si sono abituati a vedere quei cancelli chiusi e le piante crescere tra il cemento. Proprio quelle inferriate e quegli scheletri di auto però, sono la forza motrice dell’animo un po’ spensierato dei tre personaggi che non si arrendono all’abbandono dei grandi edifici così come alla desolazione del loro quartiere: Mirafiori. E dunque, il loro fanciullesco tentativo di trasformare i cortili vuoti della fabbrica in un lunapark per i bambini del quartiere diventa un monito alla tenacia, al non arrendersi. Più i loro figli attaccano il loro quartiere e i loro ideali, più Franco, Delfino e Carlo si rendono conto dell’importanza di questi. Figli che sono simbolo di una generazione che crede che mandare cento mail al giorno per lavoro sia più faticoso che pressare cento pezzi all’ora in fabbrica. Le inquadrature del quartiere di Mirafiori Sud, la piazza della chiesa di San Luca, via Artom e tutte le strade che costeggiano i lunghi muri degli edifici della Fiat, non servono solo ad ambientare la vicenda, a fare da sfondo a ciò che viene raccontato. Quei luoghi servono a trasmettere atmosfere, sentimenti, passioni che i tre protagonisti non vogliono perdere e che i loro figli non conoscono così bene. Franco, Delfino e Carlo tentano di trasmettere ai proprio nipoti, ciò che forse non 73
sono riusciti a far capire ai propri figli: quella coesione data dal quartiere e perchè no dalla fabbrica, quel senso di comunità che fa sì che dopo aver vissuto per tutta la vita in un quartiere, sei convinto che uno non valga l’altro, perchè loro a Mirafiori Sud sono nati e hanno lottato per rimanere lì a lavorare e vivere. Le loro storie e le loro vite sono incatenate al passato e presente industriale della città e i tre protagonisti sono come fantasmi che vagano tra le macerie di quell’industria e i rottami di quelle auto. Vogliono trasmettere ai loro nipoti e allo spettatore la loro amicizia ma anche l’empatia che è nata in fabbrica, lì vi muore e che si percepisce benissimo durante il funerale di Delfino che si tiene proprio negli scheletri degli edifici della Fiat. “C’è un buco sociale, un buco di reddito, di progetti e di relazioni”55 tra le persone che vivono le periferie che sembrano essere governate dalle leggi della politica: nel film gli operai socialisti giocano a ruba bandiera con quelli di destra che vogliono trasformare la fabbrica in un campo da golf.
55 Griseri P., Lo strappo delle periferie e la lezione di Torino Nord, 2017, la Repubblica, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/11/26/lo-strappo-delle-periferie-e-la-lezione-di-torino-nordTorino03.html
74
3.2 40% le mani libere dEl destino
Italia, 2010, 95’, Colori
90%
70%
50%
Regia: Riccardo Jacopino Soggetto: Riccardo Jacopino e Manolo Elia Fotografia: David Becheri Luoghi: Cooperativa sociale arcobaleno, Piazza Maria Teresa, via Cairoli, Vallette, corso Grosseto. Sinossi: Lucio ha vissuto l’adolescenza nell’anonimato della periferia, la droga, i traffici, i problemi con la Legge. Quando esce dalla comunità di recupero, comincia a lavorare in una cooperativa sociale dove incontra una pittoresca tribù di personaggi con alle spalle storie altrettanto complicate. Ma quando il passato sembra riaffacciarsi con i pericoli e le tentazioni di sempre, saranno proprio i suoi compagni a salvarlo da un finale già scritto. 75
Impossibile non farsi coinvolgere dalla vicenda di Lucio, soprattutto per chi ha vissuto le periferie. Non bisogna essere tossici o in situazioni di disagio per capire che la possibilità di farsi attrarre dalle droghe, dalle slot machines nei bar o da qualche bottiglia in più è dietro l’angolo. Le storie passate dei protagonisti però non sono importanti in questo caso, vengono solo accennate a metà del film quando ormai lo spettatore ha già avuto tempo a sufficienza per empatizzare con ognuno di loro. Questo perchè non è poi così essenziale sapere perchè si trovino alla cooperativa e cosa facessero prima di raccogliere cestini e riciclare carta. Quello che conta è che è gente che avuto una “vita di merda”, come dicono loro stessi più volte e che ora che ne è uscita, poco ha e poco chiede. L’individuo qui è tutto. Ognuno dei personaggi è un inno alla vita, alla lotta. Non so se sia così per tutti gli spettatori, io ho sicuramente empatizzato con ognuno di loro. Saranno i tempi abbastanza lunghi, i primi piani o il fatto che siano persone reali, che non fanno altro che mettere in scena ciò che sono e fanno tutti i giorni, ma si arriva alla fine del film con la voglia di saperne di più, di continuare a scoprire come proseguano le loro vite e se si è di Torino, ci si può ritrovare a cercare lo sguardo dei personaggi tra gli addetti alla raccolta Cartesio. I protagonisti non sono ingenui e, nonostante non raccontino mai chiaramente al pubblico il loro passato, sanno benissimo che non si cancella e li accompagnerà per sempre, così come lo sa lo spettatore ma non per questo si fatica a farsi travolgere dalle loro storie e a entrare completamente nelle loro vite. Torino non si vede molto, fatta eccezione per Piazza Maria Teresa, posto scelto per gli scambi di droga e qualche altro bar di riferimento. Le periferie non vengono 76
quasi mai mostrate, è scontato che le abbiano vissute i protagonisti che fanno parte di quel 40% della cooperativa che comprende tutti gli ex: ex tossici, ex galeotti. Basta qualche ripresa di corso Grosseto o della sede della cooperativa sociale Arcobaleno, vicino all’autostrada per Milano a restituire l’atmosfera e l’aria che si respira ai margini della città. Un film, che nonostante i pesanti destini dei personaggi, atterra leggero come un aereoplano di carta, come gli origami che fa Stefano, l’unico personaggio che alla fine muore.
77
3.3 Al di qua
Italia, 2017, 78’, Bianco e nero
90%
80%
40%
Regia: Corrado Franco Soggetto: Corrado Franco Fotografia: Alessandro Mattiolo, Corrado Franco Luoghi: Ospedale Martini, Via Roma, Piazza Castello, esterno Teatro Regio. Sinossi: Quaranta senzatetto entrano in ospedale, come un fronte unito, quasi come nel dipinto “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, per rendere l’estremo saluto a un amico, morto di freddo per strada. Dopo una visionaria marcia funebre nei corridoi dell’ospedale, i protagonisti raccontano la loro storia, rispondendo in parte alle domande dell’intervistatore fuoricampo.
78
Un docu-film che, per la sua capacità di unire poesia e realismo è stato spesso paragonato dalla critica ai film di denuncia di Pasolini. Girato in bianco e nero, sembra voler affermare da subito l’intenzione di forzare lo sguardo dello spettatore su ciò che conta. La bicromia aiuta infatti a leggere la realtà che ci circonda attraverso un’ottica distaccata che isola e focalizza le cose più importanti. Un bianco e nero che sembra puntare i riflettori sul volto dell’individuo, volto che – ricordando la filosofia di Lévinas – è il punto d’incontro tra noi è l’altro, ciò che provoca la nostra empatia. Il regista fa dunque grande uso della ghiera dell’empatia, consapevole della sua importanza, illuminando drammaticamente il volto di Paolo con la luce che tiene accanto al suo sacco a pelo e che ci permette di entrare ancor più a fondo nel personaggio. Una volta entrati diventa difficile il confronto con il volto, difficile reggere lo sguardo fisso in macchina dei protagonisti, difficile dire se quello sguardo nasconda ancora qualche speranza. Corrado Franco adotta uno stile registico che sembra mettere a fuoco un unico piano, solo che questa volta è quello che solitamente viene trascurato e sfocato. Quello che nelle comuni fotografie diventerebbe il cerchio di confusione; l’emarginato entrerebbe a far parte dello sfondo cittadino, camuffandosi con le pareti di marmo, invisibile come un camaleonte agli occhi di chi non vuol guardare. Al di qua è la visione di un dramma umanitario in cui al centro è appunto l’umano. Ciò che maggiormente emerge è infatti la solitudine dei protagonisti, che vengono quasi sempre inquadrati singolarmente, considerati nella loro essenza più che nel loro essere appartenenti alla comunità dei senzatetto. Ascoltando i racconti delle loro vite ci si commuove perché le storie che li 79
hanno portati a vivere nell’”al di qua” sono così comuni e banali che è inevitabile pensare che avremmo potuto essere seduti anche noi su quelle fredde sedie di ospedale. Essi recitano la parte di se stessi, freddamente e senza trucco, così come rigorosa e asciutta è la Torino che fa da sfondo. Gli eleganti portici, simbolo della Torino bene, sembrano essere gli unici ad accogliere i senzatetto in un abbraccio freddo e senza vita. Ma non mancano anche le periferie più desolate a far da casa ad alcuni dei quaranta senzatetto. È però l’ospedale Martini a fare da sfondo alla memorabile scena in cui i senzatetto torinesi marciano per portare l’estremo saluto ad un amico: un’immagine che non a caso richiama l’opera di Pellizza da Volpedo. Un quarto stato che forse non rappresenta più un’ascesa ma una discesa, non più in marcia per i propri diritti, forse scomparsi, ma metaforicamente scalzo come quei contadini di inizio ‘900. E se la massa di lavoratori della terra era vista dall’autore come una fiumana, il gruppo di clochards in Al di qua, ricorda uno tsunami di una popolazione forse non più ricca né lavoratrice ma ricca di umanità.
80
3.4 Tutti giù per terra
Italia, 1996, 91’, Colore
80%
70%
60%
Regia: Davide Ferrario Soggetto: Dal romanzo omonimo di Giuseppe Culicchia Fotografia: Giovanni Cavallini Luoghi: biblioteca Nazionale, caffè Fiorio, Centro Fiere Lingotto, cortili di case popolari, Palazzo Nuovo, Mole Antonelliana, via Po, via Roma, piazza San Carlo, Falchera, stadio Filadelfia, Torino esposizioni, Aiuola Balbo. Sinossi: Walter Verra, un ventiduenne con un’adolescenza mancata torna a vivere a Torino con la famiglia. La mancanza di passioni e di prospettive lo portano a vagare per le strade della città sabauda senza intenzione di voler studiare o lavorare. Un po’ per inerzia un po’ per volontà, si ritrova a fare il servizio civile in un centro di accoglienza per nomadi ed extracomunitari. 81
Walter è un inetto. Non ha nulla da invidiare allo straniero di Camus e se non commette un omicidio anche lui è perché è troppo pigro ma di certo non proverebbe emozioni nel farlo esattamente come Meursault. Il punto focale della pellicola è certamente il protagonista, messo a fuoco nella sua individualità, nel suo dramma esistenziale. Concentrato solo su se stesso, il personaggio sembra inizialmente recitare alla perfezione il ruolo del passante distratto, salvo poi decidere di fare l’obiettore di coscienza, riscattandosi solo apparentemente con questa scelta dettata forse più dalla sua ignavia che dalla reale volontà di opporsi a qualcosa. Inquadrature distorte si alternano freneticamente per restituire allo spettatore il senso di nausea di vita del protagonista. Difficile parlare di empatia in questo caso. Empatia di chi? Del protagonista nei confronti degli altri? Degli zingari con cui lavora, degli immigrati che vanno da lui a chiedere aiuto? O empatia degli altri per la sua condizione di insofferenza ed apatia? Il regista però non si è certo dimenticato dell’empatia dello spettatore che non fa fatica a farsi coinvolgere e a immedesimarsi anche grazie alla capacità dell’attore principale e ai suoi primi piani ravvicinati. Tanto che alla fine del film si prova quel sentimento di rassegnazione che ricorda un po’ “il laureato” di Mike Nichols. Lo sfondo in questo caso non è la California, ma una Torino che, dal modo in cui viene ripresa ricorda piuttosto la città scozzese di Trainspotting. La periferia non è particolarmente connotata da inquadrature di luoghi riconoscibili, ma basta la sequenza in cui il protagonista si sistema nella squallida palazzina degli obiettori di coscienza a far immergere lo spettatore nel mondo delle case popolari ai margini della città. Walter si aggira per le strade di una “Torino inedita e inquietante, ripresa dal basso, dai piedi degli impiegati 82
in marcia”. Talvolta, un guizzo di speranza, porta il protagonista ad alzare lo sguardo e allora vediamo “squarci di cielo tra file interminabili di anonimi palazzi” della periferia torinese. “La città, nell’unico totale, è vista da sopra, dal culmine delle strutture vuote della Mole Antonelliana (all’epoca non ancora sede del Museo del Cinema), una visione cinematografica dal monumento delle visioni meravigliose”56.
Tutti giù per terra, Enciclopedia del cinema in Piemonte. http:// www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=38&stile=small&input=tutti%20giu%20per%20terra
56
83
3.5 CosĂŹ ridevano
Italia, 1998, 35mm, 124’, Colore
50%
50%
80%
Regia: Gianni Amelio Soggetto: Gianni Amelio Fotografia: Luca Bigazzi Luoghi: stazione Porta Nuova, palazzo Saluzzo Paesana, cortili di case popolari, Mole Antonelliana, piazza San Carlo, via Accademia delle Scienze, piazza Carlo Emanuele II, lungo Po, mercato di Porta Palazzo. Sinossi: due fratelli siciliani emigrano al Nord in cerca di una nuova vita. La vicenda si sviluppa attraverso sei capitoli che corrispondono ai sei anni tra il 1958 e il 1964 (Arrivi, Inganni, Soldi, Lettere, Sangue, Famiglie). Il fratello maggiore cerca in tutti i modi di guadagnare dei soldi per far studiare il fratello minore, che alla fine del film si sacrifica per salvare dal carcere l’altro. 84
La storia di due fratelli siciliani, simbolo di un’intera generazione di emigrati meridionali che all’arrivo al Nord si stupiscono di fronte alle serrande chiuse dei negozi falliti. Il dramma di una generazione che ha lottato per lavorare, per guadagnare e per far studiare i propri figli. Una generazione molto diversa da quella dei figli di Mirafiori Lunapark che si lamentano per le centinaia di mail che devono mandare in ufficio ogni giorno. Quale miglior sfondo se non la Torino industriale per descrivere lo spaesamento e l’estraneità di due meridionali che alla fine degli anni Cinquanta cercano lavoro nelle fabbriche del Nord? Anche in questo film non manca il riferimento ai movimenti operai e socialisti ma lo sfondo delle bandiere rosse e dei manifestanti aggiunge una nota di acido disincanto proprio nel momento di maggior tristezza e consapevolezza del protagonista. Lo sfondo torinese è nettamente diviso tra la città povera e la Torino bene. Nella prima piove sempre e i suoi abitanti sono gli operai e i netturbini che la notte ripuliscono il mercato di Porta Palazzo per poche lire. La città ricca invece è ben rappresentata dall’immenso disagio che prova il protagonista nell’entrare nel ristorante del Cambio. Le strade torinesi sono inquadrate con campi medi e lunghi che aiutano ancora una volta a mettere in relazione i personaggi con il contesto urbano che spesso li disdegna o li disorienta. I luoghi sono personaggi, caratterizzati anch’essi da una lancinante malinconia, a cominciare dalla piccola casa in cui vivono in sette fino ai cortili con gli orti delle case popolari. Proprio come gli orti urbani di Mirafiori delle case dei meridionali trasferitisi per lavorare alla Fiat.
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Scopro che la proposta iniziale era quella di girare il film a Milano ma Gianni Amelio, il regista, scrive: “La fotogenia di una città è come quella di un viso: importante è come lo si inquadra, la luce con cui lo si riprende. Torino ha questo di particolare, secondo me: respinge l’effetto “cartolina”. Mi spiego meglio. Ci sono città un po’ troppo consumate dal cinema, come Roma Napoli, o la stessa Milano. Tutte e tre hanno, nei loro punti chiave, riconoscibili, un che di eccessivo, di ingombrante, un eccesso di cristallizzazione in cui l‘immagine può apparire statica, da cartolina appunto. Torino invece no. E non perché vi abbiano girato meno film. Credo che le mura, i palazzi, le strade di Torino esprimano tutta la loro storia senza però ostentarla: i monumenti, anche i più “eccessivi”, sono come velati da una patina di discrezione. La stessa che c’è nei torinesi”57.
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Amelio G., Così ridevano, Lidau, Torino, 1999
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4. Rassegna Stampa 4.1 Periferie esistenziali L’allora neoeletta sindaca Chiara Appendino, nel novembre 2016 dichiarava la sua intenzione di eliminare il divario tra periferia e centro, definendo i margini del capoluogo piemontese come “periferie esistenziali”. Ma esistenziali in che senso? Certo possiamo affermare che esistano, anche se, osservate distrattamente, ricordano piuttosto il cavaliere inesistente di Calvino: vuote armature di strutture in cemento armato. O forse esistenziali nel senso che gli individui che vi abitano non sono sicuri di “essere” finché non è chiara l’esistenza loro e delle periferie? O ancora, chiamarle “esistenziali” era un tentativo di riportare l’attenzione sull’esistere e dunque sull’individuo - punto focale – per ricordarsi che le periferie non sono solo palazzoni anonimi e basse casse operaie ma sono anche le comunità e le persone che ci vivono? Quando si legge di periferie, sembra che chi ne scrive le abbia viste da molto lontano, o magari dal finestrino di una macchina. Spesso i giornalisti interpretano il loro essere “spediti” in periferia per un servizio come una punizione. Volenti o nolenti si ritrovano a dover scrivere un articolo sulle Vallette e allora ecco che la maggior parte racconta di rom, di immigrati o di poveri. Tutte storie vere per carità – salvo essere a volte condite con dettagli più accattivanti – ma perché, a meno che non si faccia una ricerca approfondita, non sentirà mai parlare di quelle storie inedite che nascondono almeno un filo di speranza o di rinascita? Perché quando si parla dei 88
margini della città, la cronaca nera, ancor più che di solito, attrae maggiormente? Quale assurda evoluzione ci ha portato a leggere con macabra voracità un articolo su un omicidio più volentieri di un articolo su una nuova iniziativa? Quand’è che ci siamo abituati alle nefandezze umane? Sarà stato quando i sommersi sono diventati più dei salvati? Brucia la città diceva Culicchia in un suo libro su Torino, ed effettivamente sono molti gli articoli che descrivono il gran fumo nero che si alza dai rifiuti bruciati dai rom in via Germagnano. Inutile dire a quali sommersi mi fa pensare quel fumo. Quante volte poi si legge di piccole imprese annegate nei debiti e costrette a chiudere o di imprenditori affogati per le mancanze dello stato o per gli inganni dei concorsi. La cosa più interessante è stata però, dopo averne letto, andare nei posti così tristemente dipinti dagli articoli: in piazza Montale, in piazza Bottesini e corso Giulio Cesare o in periferie in cui non ero mai stata, come il villaggio SNIA vicino all’autostrada per Milano. L’esperienza di toccare con mano e riprendere quei luoghi non ha avuto nulla a che vedere con i racconti letti. Non perché menzogneri o esasperati ma forse solo perché è difficile descrivere nelle poche righe di un articolo quei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” e restituire il senso di “quell’aria carica di sale, gonfia di odori”58.
58 Versi de La città vecchia (1965) di Fabrizio De Andrè, ispirati alla poesia di Jacques Prévert “Embrasse moi” (1946): “Le soleil du bon Dieu ne brill’pas de notr’ côté Il a bien trop à faire dans les riches quartiers”.
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«In questi anni », osserva il sociologo Roberto Cardaci, «abbiamo assistito a un fenomeno che ricorda quel che accadde dopo la cassa integrazione alla Fiat nel 1980. Quando la vergogna di raccontare agli amici e ai familiari di aver perso il lavoro spinse molti a continuare a svegliarsi presto al mattino e mantenere gli stessi orari della giornata come se dovessero ancora lavorare in fabbrica. Oggi capita che i torinesi impoveriti continuino a comportarsi come se avessero ancora il reddito di un tempo. Mantengono, finché riescono, la casa in un quartiere benestante e poi fanno la spesa nei discount». La vergogna dei nuovi poveri è uno degli ostacoli da superare. Centro e periferia non sono, geograficamente parlando, nozioni significative. Il binomio città-banlieues o, in linguaggio più geometrico, il binomio centro/periferia è al centro di molte descrizioni. È nelle periferie della città che si trovano i problemi della città: povertà, disoccupazione, ambiente degradato, delinquenza, violenza. L’uso delle parole non è tuttavia mai innocente ed è bene prestarvi attenzione. La parola “periferia” ha senso solo in relazione all’idea di “centro”. Noi associamo la parola alle immagini della miseria e delle difficoltà urbane, ma la mettiamo quasi sempre al plurale (le “periferie urbane”), quasi a rendere conto del fatto che in questo modo si designa tutto il tessuto urbano, come se, per dirla al contrario di Pascal, la circonferenza fosse ovunque e il centro da nessuna parte. Le periferie sono zone intorno alla città in opposizione o in reciproca rivalità, a distanza le une dalle altre, tanto lontane tra di loro quanto dall’immaginario centro della città, in rapporto al quale vengono definite “periferiche”.
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Due concetti chiave È un rimprovero frequente, mosso alle città di nuova costruizione, alle loro periferie ma anche ai loro nuovi “centri”, spiega Marc Augé, «quello di non offrire l’equivalente dei luoghi prodotti da una storia più antica e più lenta, dove gli itinerari dei singoli s’incrociano e si mescolano, dove le parole si scambiano e le solitudini si dimenticano per un istante, sulla soglia di una chiesa, del municipio, al bancone del bar, sulla porta della panetteria: il ritmo un po’ pigro e l’atmosfera delle conversazioni della domenica mattina». Partendo dalla nozione di luogo antropologico - uno spazio denso di relazioni, scambi, storia, significato Augé ha coniato una delle definizioni che più hanno saputo caratterizzare il
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4.2 Marginalità a fuoco Tanti i fuorifuoco nelle periferie. Tanti quelli nel centro. Persone che nessuno inquadra mai ma che ogni tanto diventano piccoli protagonisti del quartiere, chi per un motivo chi per un altro. Come l’anziano signore che si è battuto per eliminare il divieto per i bambini di giocare a calcio nel cortile e diventato famoso per la fiumana di gente che si è poi presentata al suo funerale. Storie poetiche, storie sbagliate, storie che passano e se ne vanno, non si fermano molto ma lasciano un segno, indelebile. Come indelebili sono le cicatrici delle violenze subite dai commercianti e dagli abitanti delle periferie. Ferite che spesso prima ancora di essere rimarginate sanguinano di nuovo. Alessandro Bulgini, con la sua maglietta “opera viva” porta in strada l’arte, soprattutto nelle strade che di solito l’arte non la vedono poi così spesso. Un’opera viva che illumina con due lampadine Barriera di Milano (perché lì le luci d’artista non arrivano), o che porta in spalle un amico della Guinea attraversando corso Giulio Cesare – asse longitudinale del quartiere – a rappresentare semplicemente quella fraternità e quella solidarietà che mancano in quelle vie. E dunque i fuorifuoco periferici sono gli artisti come Bulgini ma sono anche le decine di commercianti, operai, dipendenti e imprenditori che negli ultimi anni di crisi si sono tolti la vita. E se non possiamo dar la colpa alle periferie per questo è anche vero che il filo che unisce queste vite (sommerse) a volte è fatto anche di rabbia, disperazione e di incertezza del futuro che, si sa, i quartieri periferici aiutano ad aumentare. La grande promessa della Tori92
no industriale di dare il pane e una casa in un quartiere operaio si è rotta. Come la giovane rom diventata regista, così i fuorifuoco sognano di diventare per una volta protagonisti, di essere al centro invece che relegati nella solita periferia. Nel centro della città, al centro dell’inutile spettacolo che ogni giorno recitano sindaci, giornalisti, assistenti sociali, servitori della cultura, addetti alla reintegrazione e invisibili funzionari delle campagne di sensibilizzazione. Assessori che Giuseppe Culicchia nel suo libro Brucia la città chiama con spietata ironia Mintasco, Marrangio e Mincenso. Assessori che organizzano la campagna “La droga mi fa schifo” mentre preparano le loro stesse narici. Tutta gente che fa capolino nei quartieri dimenticati come arcangeli ad annunciare che il sindaco neoeletto promette: “Dobbiamo sensibilizzare i giovani, consapevolizzarli” “Senza però che commettiamo l’errore di colpevolizzarli” “Ci mancherebbe, noi siamo per una cultura della legalità, ma nell’ottica della tolleranza” “Reprimere non serve. Prima di tutto bisogna comprendere” “Comprendere il disagio”59. Così tante parole, così poca verità. Come tante sono le notizie che vengono pubblicate, ma poche le realtà che invece vengono raccontate, tanti gli scatti dei fotogiornalisti (braccio destro imprescindibile dello scribacchino per aumentare l’audience), poche vere immagini.
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Culicchia G., Brucia la città, Milano, Mondadori, 2009, p. 135 93
Negli anni del Dopoguerra Barriera era un approdo per chi saliva dal sud. Prima ancora, per quelli che venivano da Cuneo, i piemontesi piÚ poveri, facevano gli operai alla Fiat Grandi Motori o alla Fratelli Piacenza o alla Ceat di Virginio Bruni Tedeschi. A due generazioni di distanza, per i figli di quelle fabbriche, il mondo è cambiato. Non parlo di Carla Bruni. Parlo di fabbriche chiuse per sempre. Per fortuna i padri sapevano sudare e la casa sono riusciti a comprarla e allora per gli ambulanti, senza un affitto da pagare e con la moglie dietro al banco, i conti, seppure a fatica, possono pure tornare.
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Le case sono sgarrupate al punto giusto e quasi ogni balcone ha i panni stesi. Sono segni chiarissimi, questo è il teatro del mondo. La piazza è un’invenzione, sono due strade che formano uno slargo a forma di clessidra, metafora dello scorrere del tempo. In una città che da sempre è ortogonale, un incrocio così poteva accadere unicamente in campagna, infatti il quartiere esiste solo dall’Ottocento, quando hanno fatto la cinta daziaria di Torino e le case han preso il posto dei campi. Il mercato è nato allora. Gli ambulanti sono quasi tutti pugliesi, a dispetto di chi parla di Barriera di Milano come d’un mercato multietnico.
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4.3 Automatismi Ed arriviamo quasi ad oggi, affrontando una delle polemiche più grandi nate intorno alle periferie nell’ultimo mese. Il nobile tentativo di portare la cultura e la “luce” anche nelle periferie, è stato stroncato dalla dura realtà. Quella che ti fa sbattere il naso contro la rabbia, che ti fa aprire gli occhi e capire che forse non bastano le belle parole e le buone intenzioni per risolvere problemi complessi, perché forse altrimenti si sarebbero già risolti da un pezzo. È dunque molto interessante notare il contrasto tra gli iniziali articoli positivi e trionfalistici che annunciano la grande iniziativa di (ri)portare le luci d’artista nelle periferie, e i toni indignati e anche un po’ moralistici degli articoli successivi agli atti di vandalismo. L’atteggiamento diventa quasi un cinico paternalismo tipico delle amministrazioni. Scattano gli automatismi, i risentimenti contrapposti: i vandali dicono “ci avete trascurati fino ad oggi, ora cosa pretendete?” e i funzionari rispondono “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Per alcuni, che da anni lavorano con i ragazzi delle periferie, era scontato che finisse così, perché cultura o arte nelle periferie non significa mettere un’opera in una piazza lontana, ma significa provare ad accompagnare le persone, a coinvolgere i cittadini in un processo che consenta loro di capire cosa ci sia dietro quell’opera, affinché possano accettarla, accoglierla e dunque proteggerla. Si sa che le periferie sono piene di rabbia, anche solo per la fatica del vivere quotidiano ma “Cultura nelle periferie è proprio questo. Fare i conti con la rabbia, la fatica, il disinteresse delle persone, a volte la violenza. Fare i conti. Accoglierla, trasformarla, e dimostrare come spesso il motore dell’arte sia proprio la 96
stessa rabbia, fatica e violenza che le persone vivono, e che quel motore si eleva, si trasforma e prova a portare domande, a volte risposte, a volte respiri di senso”60. È dunque certamente necessario portare l’arte fuori dai suoi spazi soliti, farla fuoriuscire dalle barriere convenzionali ma senza mai dimenticarsi che essa esiste in quanto creazione ed espressione di umanità. In questo farla fuoriuscire bisogna pertanto farle incontrare la gente, farla fondere con gli individui ed empatizzare con essi e con le loro condizioni. Perché la creatività stessa è espressione di una difficoltà. Senza conflitti non esisterebbe arte.
Simone Schinocca, fondatore e direttore artistico di Tedacà (associazione culturale di periferia) in un suo post su facebook in merito alla vicenda sopracitata. https://www.facebook.com/simone. schinocca/posts/10214666794569312
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ssate a s , o n i r o T tista r a ’ d i c u l alle te. La t e l l a V e l l a Le sindaca: “ e o aggiustiam iù saremo p presenti”
Il Corriere della Sera arriva nella Torino dai due volti
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5. Un fuorifuoco 5.1 Ideazione La prima idea per la realizzazione del video a conclusione di questa tesi era inizialmente quella di mettere a fuoco una storia insolita, inquadrare una porzione di realtà non per forza speciale o straordinaria ma poco comune, poco vista e raccontata. Ho poi cercato di attingere dalla mia esperienza quotidiana, dalle realtà più vicine a me, qualcosa che solitamente ci riguarda poco. Così ha cominciato a venir fuori il concetto di periferia, inteso come marginalità, esclusione rispetto a un’altra parte di città considerata più importante, più nobile, più rilevante. Uno sfondo insomma che viene spesso lasciato fuori fuoco, a cui si predilige il più fotogenico centro. Il centro è più cinematografico, più facile da inquadrare: gli eleganti portici torinesi o le ampie piazze sono scenari perfetti per quasi tutti i tipi di rappresentazione. I pilastri di cemento armato, i giardini degradati o le zone periferiche vicino alla tangenziale sono anch’esse cinematografiche in alcuni casi, ma sempre con una connotazione negativa, leggermente dispregiativa. Eppure a Torino molti ex quartieri operai sono opere architettoniche rilevanti. Certo, non tutti sono come l’ottocentesco villaggio Leumann ma credo che la storia che contengono meriti qualcosa in più di qualche apparizione in rapide inquadrature denigratorie. L’idea successiva è dunque stata quella di riprendere le periferie, sperimentando quel meccanismo di visione e di messa a fuoco di cui ho parlato, che limita la nostra attenzione solo ad alcuni piani. Giocando con le 100
inquadrature, con l’apertura di diaframma e con la messa a fuoco degli obiettivi avrei inquadrato scene di vita quotidiana, ponendo però l’accento su quelle persone o quegli spazi marginali cui solitamente non rivolgiamo lo sguardo. La base di partenza era di vagare per la città come il pescivendolo di Susan Sontag disposto a raccogliere ciò che la città scarta, o come un fotografo che sperimenti la deriva situazionista, cercando di guardare con nuovi occhi l’ambiente urbano che lo circonda. Partendo da ciò e sperando nella casuale scoperta di avvenimenti inattesi ed estranianti della realtà, avrei dovuto raccogliere molto materiale video di piazze, punti d’incontro e quartieri popolari per poi trovare un fil rouge tra le riprese. A quel punto sarebbe però stato molto difficile creare una storia emotivamente coinvolgente con le vite quotidiane dei cittadini filmati e probabilmente avrei avuto bisogno di molto tempo per cogliere le scene migliori. Oltre a ciò ho dovuto affrontare realisticamente le difficoltà di girare da sola un video nelle periferie in cui una macchina fotografica risulta già fuori dalla normalità e comporta un meccanismo di difesa e chiusura da parte di molti. Senza aggiungere che sarebbe stato praticamente impossibile fare risaltare l’individuo come punto focale e permettere allo spettatore di empatizzare con i personaggi ripresi fugacemente e dunque mettere bene in pratica ciò che man mano stavo teorizzando a proposito dei tre parametri con cui ho analizzato i casi studio e dunque i tre punti chiave su cui avrei voluto concentrare il mio video. Mentre riflettevo sulla centralità dell’individuo e dell’empatia è venuta fuori un po’ per caso, un po’ cercata, la storia di Leandro: un uomo che da bambino ha rischiato di rimanere completamente cieco e che ora possiamo dire che veda fuorifuoco. Questo suo modo di vede101
re rappresenta dunque una diretta correlazione con il meccanismo di visione figurato da me teorizzato. Oltre a questo simbolico collegamento, Leandro ha lavorato per molti anni alla Fiat, da cui è stato poi licenziato e negli anni successivi ha vissuto alcuni per strada o nei dormitori. Egli rappresenta dunque un ideale abitante di quelle parti di città dimenticate e un individuo-protagonista che sa cosa siano gli scarti della città, come il pescivendolo di Sontag. Da qui è nata subito la necessità di intervistarlo, lasciando che il racconto libero della sua storia guidasse le altre riprese del video, da affiancare alla sua narrazione. Il passo successivo è stato infatti andare alla scoperta di Mirafiori, centro della vita degli operai di quella Fiat che non c’è più, e di quelle strade in cui avevano marciato le tute blu. Mirafiori sarà dunque uno dei quartieri principali nel video, anche perché il lavoro di Stefano Di Polito è uno di quelli che mi ha ispirato maggiormente, ma non mancano le altre periferie torinesi. I recenti scandali a proposito delle luci d’artista vandalizzate a Torino Nord, di cui avevo letto gli articoli da inserire in rassegna stampa, mi hanno infatti portato a realizzare le riprese alle Vallette di sera oltre che di giorno, per mettere in luce quelle opere così tanto discusse. Opere che erano arrivate nelle periferie intoccabili e che i loro abitanti hanno masticato e sputato. Ciò che pensavo prima di indagare questi luoghi e che si è, in parte, confermato dopo averli messi a fuoco attraverso le mie lenti è che è chiaramente sbagliato considerare la periferia come una cornice mal riuscita del nobile quadro del centro. Uno scenario di scene deplorevoli in cui nulla di onesto o di valido sia possibile, un nascondiglio in cui concentrare tutta la polvere della città per evitare che venga fuori e per mantenere belle 102
e pulite le altre zone. Quello che a me sembra evidente è che il confine tra queste due parti di città non sia assolutamente definito o marcato, tanto che chi vive da una parte spesso lavora dall’altra. Come non è netto il passaggio che si osserva in una fotografia tra la porzione di campo sfocata e quella a fuoco. È vero, in alcune città la linea di separazione tra ricchi e poveri, tra baraccopoli e ville con piscina è terribilmente netta, ma è sempre rappresentata da un fragile muro che sembra essere stato eretto nella fretta di etichettare i luoghi. Eppure Torino fin dall’architettura del ‘600 è stato un raro esempio di integrazione, forse potrebbe esserlo ancora.
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Leandro Ghisi, un fuorifuoco. Foto di Anna Bossi.
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5.2 Storyconcept Se vedessimo la realtà in fuorifuoco? La vista è il primo senso che usiamo per giudicare. Se rimandassimo il giudizio e cambiassimo la nostra profondità di campo? E se la profondità di campo influisse sul nostro modo di vedere, di mettere a fuoco la realtà, l’identità? Se ciò che è fuorifuoco venisse improvvisamente inquadrato e messo a fuoco? Basta una lente a mettere a fuoco ciò che viene dimenticato?
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5.3 Intervista Intervistatore fuoricampo. Mi dica del posto in cui siamo? È una struttura recente, da quando è qui? Mi racconti un po’ l’inizio della sua storia… dove viveva, com’era la sua famiglia… Può raccontarmi un po’ dei lavori che ha fatto? Mi dica di quando lavorava alla Fiat e delle difficoltà o soddisfazioni che ha trovato nei diversi lavori. Quali sono le difficoltà di una persona non vedente in una grande città? Qual è e qual è stato il suo rapporto con Torino, con gli edifici, le strade, i dormitori o le case di cura? Ci sono stati dei luoghi importanti, dei quartieri di riferimento per lei, adesso o nella sua infanzia? Qual è stato il suo rapporto con gli altri senzatetto? Si creano amicizie e c’è solidarietà oppure c’è una sorta di competizione? E con le altre persone? Quelle che passano e fanno sentire invisibili? Secondo lei questa società è matura nell’accettazione dei diversamente abili? Quali sono le barriere che bisogna assolutamente “spezzare” per arrivare ad una vera integrazione? Quali sono i suoi progetti per il futuro? Qual è stata la sfida, il sacrificio, lo sforzo più grande nella sua vita? Quali sono i suoi interessi? Ho letto di alcuni ciechi che fotografano… ha mai fotografato? Le piacerebbe farlo?
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5.4 Trattamento Il video racconta la storia di un uomo ipovedente nato a natale. Leandro, assunto dalla Fiat, è stato poi licenziato, dimenticato, ha vissuto per strada e racconta delle relazioni con i senzatetto e con le altre persone. Leandro è il simbolo di uno dei tanti fuorifuoco. Come ha vissuto la città “fantasma”? Quali sono i luoghi di Torino che fanno da sfondo “sfocato” alla vicenda? Il tentativo di portare alla luce, di mettere a fuoco realtà che rimangono in secondo piano avviene attraverso riprese dell’uomo che racconta la propria vita, fatta di sfide e sventure, intervallate a riprese della città e a esperimenti di immagini fuorifuoco che rappresentano sia la correlazione della tesi tra la lente fotografica e il nostro modo di guardare e sia l’effettivo modo di vedere in fuorifuoco di Leandro.
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5.5 Storyboard Titolo. Buio. Luci sfocate. (Luci di un ospedale dal basso o luci di strada di Natale). Leandro viene al mondo il giorno di Natale. Audio: una storia sbagliata Voce fuoricampo: Leandro inizia a raccontare.
Intervista a Leandro nel giardino dell’ospedale che racconta la sua storia. Intervistatore fuori campo. Camera 1: piano medio da destra Leandro seduto Camera 2: primo piano Leandro da sinistra
Immagini sfocate… esperimenti con la camera per trasmettere la sensazione di cecità, di fuorifuoco e di emarginazione dalla società. Voce fuoricampo: Leandro racconta.
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Riprese di Mirafiori/Lingotto o dei luoghi di cui Leandro racconta. Audio: una storia sbagliata
Leandro racconta di quando lavorava alla FIAT e di altri episodi. Camera 1: piano medio da destra Leandro seduto Camera 2: primo piano Leandro da sinistra
Immagini delle fabbriche della FIAT vuote. Silenzio e senso di abbandono. Buio e invisibilitĂ . Audio: una storia sbagliata
Leandro racconta di quando è stato licenziato, del successivo momento di difficoltà e di quando ha vissuto per strada. Camera 1: piano medio da destra Leandro seduto Camera 2: primo piano Leandro da sinistra
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Ripresa verticale da terra o da una panchina (visuale di un senza tetto sdraiato), come fosse soggettiva di Leandro che si rialza dalla strada. Movimento camera: da verticale a orizzontale.
Riprese di persone non vedenti. Sorta di mimo a rappresentare le maschere che l’individuo è costretto a mettersi dalla società. Blending dalla ripresa di un volto per strada e uno dei volti dei ciechi? (Intervista a uno o alcuni di loro? Punti di incontro con la storia o le parole di Leandro?)
Fine: Leandro si allontana nel giardino della casa di cura. L’immagine è sfocata ma una lente rotonda si inserisce tra la camera e il soggetto, mettendolo a fuoco. (ancora una volta per mettere a fuoco ciò che altrimenti verrebbe di nuovo dimenticato). Audio: una storia sbagliata 110
B-Roll: dettagli occhi, mani, ambientazione, giardino della casa di cura, quartiere, strade o posti di riferimento nella sua vita.
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5.6 Photoboard Introduzione: breve panoramica di alcune periferie torinesi (Vallette, Falchera, Barriera di Milano). Audio: presa diretta della strada Durata: 30-40’’
Titolo con effetto blur e inizio musica. Audio: una storia sbagliata Durata: 10’’
Seconda introduzione: quartiere Mirafiori. Audio: una storia sbagliata Durata: 30-40’’
Luci sfocate. Luci di strada, di Natale, di una galleria… Leandro viene al mondo il giorno di Natale e si trasferisce a Torino da piccolo. Audio: una storia sbagliata 112
Voce fuoricampo: Leandro inizia a raccontare. Durata: 10-15’’
PARTE I Intervistatore fuori campo. Leandro racconta del suo trasferimento a Torino e della sua operazione agli occhi. Camera 1: piano medio Leandro Camera 2: primo piano Leandro da sinistra Durata: 60’’
Riprese di alcuni luoghi del quartiere di Mirafiori e della Fiat per inquadrare il successivo racconto di Leandro. Audio: una storia sbagliata Durata: 10’’
PARTE II Leandro racconta di quando lavorava alla FIAT e di quando è stato licenziato, del successivo momento di 113
difficoltà e di quando ha vissuto per strada. Camera 1: piano medio Leandro Camera 2: primo piano Leandro da sinistra Durata: 110’’
Riprese di Mirafiori e Lingotto. Contrasto tra immagini delle fabbriche vuote per dare senso di abbandono, buio e invisibilità degli anni ’80 in cui Leandro viene licenziato. Voce fuoricampo: Leandro che racconta della Fiat. Durata: 20’’
Ripresa verticale da terra (visuale di un senzatetto sdraiato). Teatro Regio o portici di piazza Castello. Come fosse soggettiva di Leandro. Movimento camera: da verticale a orizzontale. Voce fuoricampo: Leandro racconta Durata: 5’’
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Riprese delle periferie e delle luci d’artista di notte. Audio: una storia sbagliata Durata: 20’’
Volti di persone cieche, o altri fuorifuoco emarginati dalla società. Audio: una storia sbagliata Durata: 10-15’’
PARTE III Leandro racconta la sua esperienza: come ha vissuto per strada, com’è il rapporto tra senzatetto, la soli-darietà con le altre persone e le sue speranze per il futuro. Camera 1: piano medio Leandro Camera 2: primo piano Leandro da sinistra Durata: 110’
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Riprese di alcuni luoghi della città di cui parla Leandro, di senzatetto e persone per strada. Audio: una storia sbagliata Durata: 10’’
Fine: Leandro si allontana, torna alla casa di cura. L’immagine è sfocata ma una lente rotonda si inserisce tra la camera e il soggetto, mettendolo a fuoco. Ancora una volta per mettere a fuoco ciò che altrimenti verrebbe di nuovo dimenticato. Audio: una storia sbagliata Durata: 20’’
Titoli. Audio: una storia sbagliata Durata: 10’’ B-Roll: dettagli occhi, mani, ambientazione, giardino della casa di cura, quartiere, strade o posti di riferimento nella sua vita.
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5.7 Video Il video, a conclusione della precedente ricerca, si propone di fornire spunti visivi e di mostrare l’analogia sostenuta nella tesi tra sguardo fotografico e sguardo sulla realtà. L’intento è quello di raccontare e descrivere una storia fuorifuoco, simbolo di molte altre, senza pietismo o eroismo. Indagare un individuo, un percorso biografico, nella sua condizione di disagio, di difficoltà, di povertà ma non solo. Perché la questione è in prima istanza esistenziale, individuale, epistemologica, etica e solo di conseguenza sociale, politica, religiosa. Seguendo una prospettiva epistemologica sulla sofferenza sociale non si intende tracciare limiti di separazione netti tra esclusi e inclusi, tra sommersi e salvati. Così come non è netta la linea tra il fuoco e il fuorifuoco ma le due parti si mescolano tra loro, influenzandosi e contaminandosi. La video-intervista, più che per ottenere risposte a domande specifiche, serve a far emergere la biografia, la dimensione soggettiva del racconto dell’individuo. I tempi inizialmente lunghi consentono al soggetto di ripercorrere la propria storia, restituendoci una narrazione intima, psicologica e forse persino maturata ed elaborata durante il racconto stesso. Ed è proprio il racconto a guidare la stesura del video, lo sguardo dell’intervistato è essenziale per cambiare punto di vista e vedere la realtà in fuorifuoco. Da ciò deriva la scelta di mettere in bianco e nero le parti in cui il personaggio racconta il proprio passato, in contrasto con le riprese della città a colori. Non è importante connotare la sua vicenda nello spazio e nel tempo, quanto concentrarsi sulle sue parole e sul suo volto per empatizzare con l’individuo. 117
L’idea è di adottare un linguaggio registico con immagini prevalentemente evocative, per cercare di rappresentare la sfera intima, interiore e delicata dell’intervistato, in contrasto con l’ambiente pubblico e aspro in cui è stato immerso. Immagini che abbiano il potere - più della parola - di creare un ponte emozionale tra lo spettatore, l’esistenza e l’atto del guardare di cui si è parlato. Il video intende mettere al centro il soggetto con la propria narrazione, le proprie dimensioni esistenziali e il proprio mondo, dando voce a chi solitamente è fuori dalla cornice, silenzioso e invisibile. La volontà è quella di inquadrare (utilizzando la ghiera dell’empatia) l’essere umano (il punto focale) in relazione agli altri individui, all’ambiente e al contesto socioculturale (il cerchio di confusione) ma lasciando fuori campo intervistatori, giornalisti, enti, istituzioni e dando spazio a flussi di pensieri, testimonianze, sensazioni e visioni. Se una delle chiavi è proprio il rapporto individuo-ambiente, la città è metafora della società - che però rimane sullo sfondo - ma soprattutto dell’individuo, come le periferie di Gabriele Basilico che sono allegoria dell’uomo. Nel video la città è personaggio, ma senza le storie delle persone, non avrebbe identità, sarebbe una città “fantasma” fatta di strade ed edifici. La città è un luogo a cui, volenti o nolenti, dobbiamo dare importanza perché può contribuire a creare sofferenza o serenità. Indagare questo luogo è necessario perché è il contesto delle storie umane, lo sfondo della nostra vita, del mondo che può essere reale o, come l’immagine, rappresentazione. Il video si presenta quindi come una sorta di dialogo tra le periferie, silenziose e deserte, e il personaggio di Leandro. Gli suoni registrati in presa diretta, che fanno da sottofondo alle prime riprese delle periferie torinesi, 118
sembrano da subito dare al video un taglio documentaristico. Le musiche che si inseriscono subito dopo però aiutano a dichiarare l’intenzione cinematografica del video. Infra 5 di Max Richter accompagna con quartetti d’archi alcune delle riprese dei quartieri periferici torinesi; una storia sbagliata di Fabrizio De Andrè, sottolinea con le parole del cantautore la fine del racconto di Leandro e il finale del video. Il video, al momento, si può vedere sulla piattaforma Vimeo a questo link: https://vimeo.com/241529277.
Una scena tratta dal video Un fuorifuoco. 119
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Conclusioni L’idea per la diffusione del video realizzato è quella di partecipare a bandi di concorso o di piccoli festival cinematografici che abbiano come tema le periferie o storie insolite di individui e cittadini. Torino Factory ad esempio, rappresenta un’ottima occasione per dare visibilità al video. È un contest dell’associazione Piemonte Movie in cui si possono presentare opere a tema libero della durata massima di 3 minuti purchè siano ambientate per almeno l’80% in una o più delle 8 circoscrizioni torinesi. Il concorso si presta perfettamente per un video come quello del mio progetto, breve e con le periferie torinesi al centro. Inoltre, la pubblicazione su Vimeo o su piattaforme simili, sarà utile per seguire la linea della mia tesi, ovvero per far conoscere quelle storie che altrimenti rimarrebbero fuorifuoco. Affinché qualcuno possa ascoltare questo dialogo tra la storia di Leandro e le periferie torinesi e decidere di andare alla scoperta di quelle stesse periferie, proprio come io ho deciso di vagare per le strade di Mirafiori e respirare l’aria di quel quartiere anche dopo aver visto Mirafiori Lunapark, nonostante io abbia studiato proprio a Mirafiori, nei vecchi stabilimenti della Fiat, in questi anni. A proposito di ciò, valuterò la possibilità di inviare o far visionare il video ai registi dei film che ho analizzato come casi studio e che hanno, in parte, ispirato il mio lavoro. Stefano Di Polito, autore di Mirafiori Lunapark si è dimostrato molto disponibile nel far conoscere il proprio lavoro, nel discuterne con gli altri - soprattutto con gli studenti di Mirafiori - ed estremamente aperto/ben disposto a vedere altre opere che raccontino le periferie a cui anche lui è affezionato e a cui ha dedicato 121
tempo e lavoro. Corrado Franco, autore di Al di qua, ha diretto qualche film in più ma credo ascolterà volentieri una storia di un emarginato che si sarebbe potuta affiancare alle quaranta vite e volti che lui racconta nel suo ultimo documentario in bianco e nero candidato agli Oscar. Riccardo Jacopino invece ha realizzato alcuni documentari di indagine sociale sia in Italia che all’estero e il lungometraggio 40% le mani libere del destino, prodotto con la Cooperativa Sociale Arcobaleno, racconta la storia delle persone che lavorano nella cooperativa. La speranza che Leandro dice di avere alla fine del video è quella di trovare qualcosa da fare, un lavoro da poco, non tanto per guadagnare qualcosa quanto per ritrovare quel senso di soddisfazione che a volte solo il lavoro può dare. Chissà che anche la storia di Leandro non ispiri il regista Jacopino o che un ex lavoratore della Fiat non possa entrare a far parte della rete della cooperativa che ha ridato a molti soddisfazione, oltre che speranze e amicizie. Potrebbe inoltre essere utile, sempre allo scopo di dare diffusione alla storia di Leandro e delle periferie torinesi, contattare l’azienda di Barcellona in cui ho fatto un tirocinio per proporre loro di mettere il mio video in archivio. Tra le altre cose, l’azienda ha infatti creato Towards the Human City, una piattaforma che ha proprio lo scopo di raccontare quelle piccole iniziative urbane che, in giro per il mondo, hanno reso le città più “umane”, più vivibili per tutti i cittadini. Sono molte le storie che mostrano il potenziale degli essere umani e che mettono l’individuo e il cittadino al centro. Certo, nel mio caso non si tratta di un’iniziativa messa in atto da alcuni abitanti di una cittadina, ma sulla piattaforma si possono trovare anche molte interviste a persone che 122
raccontano le proprie storie o le cui storie hanno inspirato un cambiamento. In merito alla mia tesi, ho iniziato questo lavoro per studiare il riflesso che guida la nostra attenzione a trascurare selettivamente gli sfondi della nostra azione di singoli e di cittadini, per studiare un meccanismo della visione che, almeno sul piano della biologia non è invero un limite evolutivo, dal momento che la messa a fuoco umana è praticamente istantanea, ma che piuttosto è determinato da un ossequio ad un “cluster” al quale ci adattiamo istintivamente per fare parte di una comunità, e al quale, significativamente, si adatta anche la nostra tecnologia (il limite o il “pregio” è ricercato intenzionalmente dai progettisti delle nostre ottiche) e di conseguenza le storie che essa ci permette di raccontare. Ho sempre guardato con interesse ma anche con qualche riserva i fotografi contemporanei e non, che professano implicitamente o esplicitamente di voler cambiare il mondo. Gli intimi ritratti di Moyra Peralta, la visione dei poveri di Vivian Maier e, più vicino a noi, il documentario di Corrado Franco girato a Torino, sono tutti ottimi esempi di opere che non so se abbiano cambiato il mondo, ma hanno certamente cambiato la mia visione di esso e delle persone; mi hanno costretta a riconsiderare i miei sentimenti e riconoscere che, nonostante le mie intenzioni di trattare tutte le persone ugualmente, i miei atteggiamenti sono diventati sottilmente contaminati dall’inondazione di miti perniciosi della società. È vero, viviamo in un mondo saturo di immagini e, come ho detto all’inizio di questo lavoro, forse siamo così abituati a vederle da non dar loro più alcuna importanza. In questo panorama, è comune, se non estremamente semplice, affermare che la fotografia e il cinema non 123
abbiano alcun potere sulle persone e nessuna possibilità di muoverle al cambiamento. Tuttavia è curioso notare come, spesso, coloro che non credono nell’efficacia di queste arti siano gli stessi che chiederebbero la proibizione di immagini violente o sessuali per non ferire o condizionare l’osservatore. Riconosco anche che spesso le nostre aspirazioni sul fatto che l’arte possa portare a una svolta, siano idealistiche e perfino un po’ naïf. Certamente non saranno un pezzo di carta, un insieme di pixel o una successione di fotogrammi a capovolgere anni di storia, tradizioni, obiettivi, scoperte e fallimenti ma essi hanno indubbiamente la capacità di impressionare e influenzare la visione - se non la mentalità - di chi le guarda. Ho affrontato questo lavoro come una sfida con me stessa, per andare a scoprire almeno uno di quei mondi che sono così vicino a noi ma a cui non rivolgiamo lo sguardo. Per provare, io per prima, a immergermi in una storia sbagliata, per riappropriarmi dell’atto del guardare. Ed è per questo che metaforicamente - e a volte fisicamente - ho provato a mettere a fuoco con i miei occhiali e la mia macchina fotografica una delle tante realtà che non ci riguardano. Non tanto come esercizio di stile, quanto come tentativo di riflettere su quella rimozione inconsapevole della profondità di campo che confina la nostra attenzione su un solo piano.
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Bibliografia Antonella Licata, Elisa Mariani Travi, La città e il cinema, Editore Dedalo 1993 Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980 Bate D., Il primo libro di fotografia, Torino, Einaudi, 2017 Bauman Z., Vite che non possiamo permetterci: conversazioni con Citlali Rovirosa-Madrazo, trad. it. Marco Cupellaro, Roma, Editori Laterza, 2011 Benjamin W., Piccola storia della fotografia, Roma, Skira editore, 2011 Berger J., Capire una fotografia, trad it. Maria Nadotti, Roma, Contrasto, 2014 Boeri S., L’Anticittà, Roma, Editori Laterza, 2011 Calvino I., Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988 Culicchia G., Brucia la città, Milano, Mondadori, 2009 Di Marino B., Pose in movimento, Torino, Bollati Boringhieri, 2009 Florentino G., L’occhio che uccide: la fotografia e la guerra: immaginario, torture, orrori, Milano, Booklet Milano, 2004 Freedberg D., Il potere delle immagini: il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, trad. di Giovanna Perini, Torino, Einaudi, 2009 Malaparte C., La pelle, Milano, Adelphi, 2010 Maloof J., Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, Contrasto, 2015 127
Moholy-Nagy L., Pittura Fotografia Film, trad. it. Bruno Reichlin, Torino, Einaudi, 2010 Moscariello A., Come si guarda un film, Roma, Dino Audino editore, 2007 Murri S., Krzysztof Kieslowski, Milano, Il castoro cinema, 1996 Orwell G., Down and Out in Paris and London, Penguin, Harmondsworth, 2001 Perissinotto A., Le colpe dei padri, Milano, Edizioni Piemme, 2013 Secchi B., La città dei ricchi e la città dei poveri, Roma, Editori Laterza, 2013 Sennet R., Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Bruno Mondadori, 2009 Sontag S., Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi, 1978 Tornaghi E., La forza dell’immagine, Torino, Loescher Editore, 2009 Wenders W., L’atto di vedere. The act of seeing, Milano, Ubulibri, 1992 Zamperini A., L’indifferenza. Conformismo del sentire e dissenso emozionale, Torino, Einaudi, 2007
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Riferimenti siti web disphotic.com artribune.com ugomulas.org filosofico.net/levinas.htm nadir.it spitalfieldslife.com lemondediplomatique.fr wikipedia.org treccani.it torinocittadelcinema.it fctp.it towardsthehumancity.org rayplay.it
stampa La Stampa La Repubblica L’Espresso Libero Vita Magazine Il Post Il Foglio Il Fatto Quotidiano Le Monde Diplomatique
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Filmografia Ladri di Biciclette, regia di Vittorio De Sica (1948) Blow-Up, regia di Michelangelo Antonioni (1966) Le petit soldat, regia di Jean-Luc Godard (1970) Alice in the Cities, regia di Wim Wenders (1974) Once Upon a Time in America, regia di Sergio Leone (1984) Trois couleurs: Bleu, regia di Krzysztof Kieślowski (1993) Trois couleurs: Blanc, regia di Krzysztof Kieślowski (1994) Trois couleurs: Rouge, regia di Krzysztof Kieślowski (1994) Tutti giu per terra, regia di Davide Ferrario (1996) Saving Private Ryan, regia di Steven Spielberg (1998) Così ridevano, regia di Gianni Amelio (1998) 40% le mani libere dal destino, regia di Riccardo Jacopino (2010) The Woodmans, regia di Scott Willis (2011) Finding Vivian Maier, regia di John Maloof e Charlie Siskel (2013) Mirafiori Lunapark, regia di Stefano Di Polito (2014) Al di qua, regia di Corrado Franco (2017)
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Ringrazio il professore Di Salvo per la fiducia riposta nei miei confronti. Ringrazio i miei amici e compagni per questi anni passati insieme. Ringrazio la mia famiglia anche se non vuole essere ringraziata. 132
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