OCCH-IO INFINITO Annalaura di Luggo: Un viaggio nello sguardo
“L’occhio è un organo così perfetto da far sembrare assurda l’idea che si sia formato unicamente quale frutto della selezione naturale” Charles Darwin
di Luigi Caramiello
In che senso, i “ritratti”, particolari e suggestivi, che realizza Annalaura di Luggo, rivelano il loro valore artistico? In quale maniera, le sue opere mostrano compiutamente il loro significato sul piano della creatività? Quali sono i percorsi, teorici e tecnologici, concettuali e stilistici, sottesi al definirsi della sua traiettoria estetica? Insomma, con quali tratti peculiari questa produzione di Annalaura di Luggo si presenta sulla scena dell’arte? A quale universo espressivo appartengono i suoi quadri? In definitiva, che genere di arte è? Si tratta, in effetti, di interrogativi che possono riferirsi, come è accaduto da sempre, a qualsiasi artista, quali che siano gli strumenti che adotta, quale che sia la natura delle sue creazioni e il genere cui esse appartengono (cfr. Panowsky, 1962). Sono domande profonde e 1
radicali, questioni ontologiche, che hanno trovato espressione, sempre più viva e nuovo alimento, con il declinare dei canoni classici, sotto l’incalzare della modernità e, secondo alcuni studiosi, della sua fine (Crf. Abruzzese, 1973). Come che sia, intorno al significato dell’arte sono stati versati, letteralmente, fiumi di inchiostro. Naturalmente, non è semplice stabilire cos’è che fornisce al gesto artistico la sua “legittimazione” (cfr. Carchia, 1982), così come non è agevole comprendere quali siano le sue “ragioni”, quale sia, in sostanza, la sua “funzione”, individuale e sociale. Nel tentativo di sciogliere questi nodi aggrovigliati si è spesso incappati anche in grossi equivoci (Cfr., Fischer, 1962), ma sono stati aperti anche scenari culturali di enorme interesse. Per Edgar Morin (1974), l’arte, al pari della religione, dimostrerebbe che l’uomo, lungi dall’essere un animale la cui essenza è fondamentalmente “razionale”, come molti hanno creduto a lungo, si distingue da ogni altra creatura vivente, per la sua capacità di esplorare confini immaginari, di mettere in atto pratiche apparentemente “inutili” e irrazionali Insomma, Sapiens è tale, non solo e non tanto perché costruisce utensili, inventa dispositivi funzionali, ma anche perché è capace di attivare meccanismi “immaginari” di estrema complessità. Homo, insomma, si distingue dagli animali, non solo in quanto è Sapiens, ma anche e soprattutto perché è Demens. Infatti, quando in certi siti paleoetnologici si scoprono quelle attrezzature tecniche, pietre scheggiate, armi, strumenti da taglio, ciotole, segno dell’avvenuta “svolta” nell’evoluzione dell’ominide, si ritrovano anche i rituali di sepoltura dei cadaveri, 2
cioè l’incomprensibile usanza di “sprecare” carne buona e nutriente (i trogloditi erano, ovviamente, antropofagi), per seppellirli i morti, quale procedura rituale per l’accesso all’aldilà, visto d’ingresso per l’altra vita. E risalenti, più o meno, allo stesso periodo, si trovano anche quei meravigliosi graffiti rupestri, pitture parietali del paleolitico superiore, che si possono ammirare nelle grotte di Lascaux, Altamira e persino più antiche come quelle di Les combarelles, dove insieme alle immagini di grandi animali, cioè del cibo, vediamo anche uomini che indossano maschere dalla evidente funzione rituale. Questo che vuol dire? Certo è che tutti gli animali, al pari di noi, creano tecniche e strategie “razionali”, anche quando sono biologicamente assai meglio attrezzati, per catturare prede, meccanismo finalizzato a soddisfare i propri bisogni essenziali, ma solo gli esseri umani dipingono scene di caccia ed altro sulle pareti delle caverne (cosa che, certo, non accresce la quantità di carne da consumare, di proteine disponibili per nutrirsi). Ma gli umani non si fermano qua, poi imparano a realizzare sculture, affreschi, pitture a tempera, ad olio, scoprono la fotografia, il cinema, giungono a comporre sinfonie polifoniche, e pregano nelle cattedrali per salvare la propria anima. Oppure utilizzano una molteplicità di altri codici e congegni comunicativi per mettere in campo quella che Simmel (2001) chiamava l’espressione della spiritualità. Nessun animale fa questo. Quindi a distinguerci, nel mondo vivente, non è “semplicemente”, l’agire razionale, ma anche la capacità di immaginazione: la vocazione artistica, il sentimento religioso. In questo senso, l’arte rivela una sua connessione profonda e inestricabile con una dimensione spirituale (cfr. Kandinsky, 2005). 3
E’ un nesso a cui Annalaura di Luggo certo non rinuncia, un legame antico, quello fra arte e spiritualità, che secondo molti, studiosi, scienziati, artisti, non si è mai spezzato. Questo è un fatto che non può essere sottovalutato, in alcun modo. E così, abbiamo già individuato un elemento di comprensione essenziale del fenomeno, ma non possiamo certo ritenere la “questione” risolta. Il fatto é che un’intera enciclopedia non basterebbe a contenere tutto quanto è stato detto e scritto per rispondere alla domanda: che cos’è l’arte? Tutta la storia del pensiero è lì a testimoniarlo. La filosofia, l’estetica, la sociologia, la critica, la psicologia si siano sforzate, in ogni modo, per trovare, probabilmente senza riuscirvi, una soluzione definitiva a questo dilemma, decisamente “troppo umano”. Forse Nietzsche (1970) era pienamente consapevole della sostanziale irresolubilità della questione, quando proponeva la sua lettura del fenomeno, attraverso una concettualizzazione essenzialmente aperta. I generi artistici “genuini” potevano appartenere, per lui, unicamente a due “specie”, quella della “grande quiete” e quella del “grande movimento”. Fuori da queste due dimensioni, pensava vi fosse solo l’epigonalità, oppure l’irrilevanza. Non posso fare a meno di considerare che, fra i due estremi di queste polarità, si situa, praticamente, tutto quanto appartiene al mondo della vita. Non mi stupisce, quindi, che gli occhi, rappresentati nei lavori di Annalaura di Luggo, siano, da una parte, espressione quieta di identità, immutabili, fisse, statiche, ma, allo stesso tempo, evochino pure la memoria dei movimenti infiniti dello sguardo, di cui sono stati protagonisti. Sono immagini, inquadrature, frame, icone, ormai fermate per sempre, in una 4
loro configurazione istantanea. Eppure si tratta di occhi che hanno visto tante, a volte troppe, cose. In qualche caso, o forse sempre, “cose che voi umani non potreste immaginare”, come dice l’ultimo replicante superstite, in Blade Runner, pochi istanti prima di morire. Occhi i quali, come è per tutti, possono essere pensati come finestre aperte, più o meno a lungo, più o meno gioiosamente, sul vissuto. Strade attraverso le quali è passata l’esperienza, giorno e notte, concreta e onirica, finita nei magazzini della memoria, nelle immense gallerie interiori, dell’immaginario e del reale (cfr. Giambazzi, 1999). Occhi che hanno visto scorrere, come in un film, sequenze terribili di sofferenza, dolore, disagio radicale. Ma anche occhi che hanno contemplato le bellezze della vita, le meraviglie del mondo. Occhi marginali, occhi esclusi, occhi semplici, anonimi. Occhi splendenti, occhi glam, in cui si è riflessa la gioia del successo, occhi stanchi, marchiati dai segni di infinite sconfitte. Occhi che hanno subito le violenze del mondo. Occhi che hanno fissato, nell’incrocio di sguardi, nel “bacio” con altri occhi (cfr. Nancy, 2000), le emozioni della com-passione, o quelle dell’amore (cfr. Kristeva, 1985). Occhi abituati al sorriso, occhi che hanno pianto, tanto, ma veramente tanto. Occhi che non hanno più lacrime. Occhi vecchi, occhi giovani, occhi senza età. Di uomini e di donne. Occhi autentici, falsi e sinceri, per questo intrisi di realismo, fino in fondo. Qualcuno, tecnicamente scrupoloso, direbbe di iperrealismo e forse non sbaglierebbe. Come che sia, questo é il tema intorno al quale ruota il progetto artistico di Annalaura di Luggo: la resa, al massimo 5
grado di visibilità possibile, di una piccola porzione della nostra realtà fisica, lo spettacolo, mostruosamente ingrandito, di un tratto biologico della nostra immagine, un particolare minuscolo della figura umana, che acquisisce una presenza forte, dirompente, che rivendica la sua pienezza affascinante di realtà. Eppure, una delle contraddizioni più profonde che ha attraversato il dibattito sull’arte, soprattutto in epoca moderna, riguarda proprio il suo rapporto con il reale. L’antagonismo che, da un tempo infinito, caratterizza il confronto fra i più accesi seguaci del naturalismo, più o meno classicamente figurativo e gli accaniti proseliti del partito astratto o variamente concettuale, costituisce una delle manifestazioni più eclatanti di questa frattura estetica ed epistemologica, relativa allo statuto del fare arte, dell’agire creativa/mente. Mi viene in mente la frase di un celebre artista, che dovette fuggire negli anni ‘30, davanti a una barbarie storica, che gli aveva apposto l’etichetta di “degenerato”, Paul Klee: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, rende visibile ciò che non lo è”. E quasi in sequenza si affaccia alla mia memoria il pensiero un altro genio del novecento, Alberto Giacometti, espulso dal movimento surrealista, per la sua troppo tiepida adesione ai dettami di un’altra barbarie ideologica, solo di segno apparentemente opposto (cfr. Vertov, 1975). A suo parere “Il compito dell’arte non è riprodurre la realtà, ma crearne una della stessa intensità”. Giacometti e Klee, due personaggi, vorrei dire due giganti, artisticamente diversi, ma entrambi eclettici, liberi, refrattari ad ogni conformismo. Avevano in comune forse solo l’origine svizzera, ma credo che fra le “visioni” dell’arte, di cui erano portatori, esista un legame molto profondo. Che si apparenta 6
all’opera di demistificazione, di disvelamento, che George Bataille (1972), proprio muovendo dalla centralità dell’occhio, applica, senza troppi sconti, nei riguardi dell’intera costellazione di certa cultura “critica”. Già, perché, anche a mio parere, è possibile creare una realtà nuova, di grande intensità, esattamente rendendo visibile ciò che non lo è, accrescendo le possibilità della sua percezione (cfr., Merleau Ponty, 1989; 1994; 2003) In altre parole, premesso che niente nasce dal nulla e dato che sempre “ogni osservazione è fatta da un osservatore” (Bateson, 1984) la qual cosa non ha un significato marginale o trascurabile, ritengo che la creazione, l’invenzione, la rappresentazione, di una nuova “forma”, possa realizzarsi proprio facendo appello all’indagine, all’esplorazione, alla “scoperta”, di un possibile segmento “nascosto” del reale. Una “forma”, anche assolutamente quotidiana, palese, comunemente accessibile, un particolare fruibile, solitamente e agevolmente, che, purtuttavia, resta, per così dire, “segreto”. Qualche elemento fondamentale, la cui complessità non si può cogliere facilmente, la cui completa configurazione sfugge, qualcosa su cui si posa ordinariamente lo sguardo, eppure possiamo considerare per molti versi sconosciuta e invisibile. Passibile, insomma, di essere portata alla luce, quindi ri/velata. Tutto questo ha molto a che fare con l’oggetto che è al centro della nostra riflessione: l’itinerario espressivo di Annalaura di Luggo, il suo progetto artistico. Annalaura è un personaggio eclettico, sostanzialmente libero da schemi rigidi di appartenenza culturale. Imprenditrice, campionessa di sci-nautico, designer raffinata, figura instancabilmente impegnata in attività benefiche e 7
appassionatamente all’opera nelle attività di volontariato, ha da tempo avviato questa sua nuova ricerca in campo iconografico, dal titolo evocatore e suggestivo: Occh-io. In altre parole, Annalaura è anche una valorosa fotografa. E in tal guisa si colloca già in una zona peculiare del fare artistico, un territorio molto diverso da quello in cui opera il pittore, che può anche creare una forma del tutto originale, recuperandola unicamente dalla sua memoria, oppure ricavandola dalla sua fantasia. Il fotografo, invece, non può quasi mai svincolarsi completamente dalla referenzialità, dall’obbligo di replicare, di “riprodurre” l’immagine di un qualcosa che esiste già, di cui possediamo già, naturalmente, oserei dire, una rappresentazione (cfr. Caramiello, 1995, pp. 47-49). Annalaura di Luggo fa esattamente questo, ci propone riproduzioni macroscopiche di un qualcosa che esiste e conosciamo da sempre: l’occhio. Ma questo suo originale gesto creativo ha delle peculiari implicazioni, che vanno comprese e rivelate. La prima riguarda l’oggetto che lei mette a fuoco, nell’obbiettivo della sua “macchina”. Ciò che lei fotografa è esattamente un’altra “macchina” fotografica, un congegno presente sul pianeta da milioni di anni, in forme persino maggiormente perfezionate. L’occhio del polipo, per fare solo un esempio, resiste, come quello dei pesci, all’acqua marina, senza mai irritarsi, ed è strutturato in modo tale che è praticamente impossibile il distacco della retina. Problema cui noi umani siamo sovente soggetti. Per il resto è praticamente identico al nostro. Eppure i mammiferi, i vertebrati superiori, Sapiens compreso, non si collocano, direttamente, sulla stessa linea evolutiva di 8
questi molluschi. Questo significa, secondo molti studiosi, addirittura che l’occhio è stato “scoperto” dall’evoluzione più di una volta e anche in forme e tipologie diverse (cfr. Caramiello, 2012, pp. 9-61). Il che da un peso ancora maggiore a quella sublime confessione di incertezza di Charles Darwin, che abbiamo voluto richiamare in esergo. Un’inquietudine dubbiosa, un fattore di scetticismo autentico e insicurezza sincera, che, sempre e ineluttabilmente, attraversa la mente di qualsiasi vero scienziato, e quindi non c’è da stupirsi che siano appartenuti anche al più grande studioso dell’intera storia moderna. Forse è anche in conseguenza della sua ricchezza e complessità, della sua configurazione di meccanismo “perfetto”, che è, pur tuttavia, capace di attivare rappresentazioni credibili, almeno nella stessa misura in cui può farci incamminare sulla strada delle illusioni. Eppure, rimane un passaggio essenziale per accedere alle zone più profonde e misteriose dell’io, per avvicinarci alla comprensione della coscienza (Dennet, 2009), forse è ancora per questo che troviamo ancora una volta l’occhio, quale icona essenziale, al centro delle più sofisticate simbologie (Deonna, 2008) e tradizioni iniziatiche. Come che sia, l’occhio è uno dei dispositivi più raffinati per “tradurre” la percezione dell’habitat esterno, nello spazio sistemico interno, e le immagini rappresentano una soluzione, fra le più raffinate, scoperta dalla natura per realizzare tale interfaccia, fra organismo e ambiente. Basti pensare che, in condizioni normali, quasi il 70% del lavoro del cervello è connesso alla decodifica ed elaborazione di informazioni che giungono dagli occhi (Casula, 1981). 9
Annalaura di Luggo utilizza un congegno di sua invenzione, che accresce, enormemente, le possibilità di ripresa della sua macchina fotografica, per catturare l’immagine dell’occhio, con dei risultati esteticamente sorprendenti. Ma la considerazione che risulta più interessante è nel fatto che, laddove la storia della fotografia è tutta rivolta alla comprensione delle logiche, delle modalità, degli stili, con cui il fotografo, con la sua macchina, fissa le immagini del mondo, qui Annalaura si dedica a costruire le modalità con le quali attraverso la macchina, ritrae, essenzialmente, un’altra macchina. Insomma, quel che vediamo all’opera è un artefatto “meccanico”, in realtà è un apparecchio digitale, che attua la rappresentazione di un altro dispositivo, il quale appartiene, invece, a quella che io chiamo “natura tecnologica” (Cfr. Caramiello, 2012) In qualche modo, vediamo in azione una macchina, la quale viene impegnata nella realizzazione del ritratto di un congegno biologico, che è semplicemente un suo precursore, che esplica il medesimo compito ed appartiene alla stessa “famiglia” funzionale. Si tratta, in questo senso, di una situazione di riflessività, di un gioco di specchi, che tende a produrre, forse inevitabilmente, per chi deve ri-conoscersi in quell’immagine, così intima di sé, eppure totalmente nuova ed “estranea”, una condizione di “spaesamento” (cfr. Boatto, 1981). Così come la terra, e gli esseri umani da cui è popolata, che si osservarono, per la prima volta, in un’immagine via satellite, sperimentarono l’insolita condizione di vedere dall’esterno, quale rappresentazione strana e inattesa, l’oggetto sul quale posiamo i piedi ogni giorno. 10
Se ci accontentassimo di una semplificazione, potremmo dire che il tutto deriva da una sfida, quella di sempre: la natura, contro la tecnica, e viceversa. Ma sarebbe una lettura schematica e riduttiva. Questa dicotomia, in realtà, non è mai stata così radicale, soprattutto per gli uomini, soprattutto oggi. E quindi? Quindi, nell’opera di Annalaura di Luggo, vediamo un dispositivo “artificiale”, meccatronico, come si direbbe oggi, che indugia nell’osservazione del suo omologo congegno, sul terreno organico. E dietro la camera, l’Occh-io di un osservatore che, in fondo, penetrando lo sguardo dell’altro, tenta, fino all’estremo limite, di osservare se stesso, le sue reazioni, il segnale di ritorno, la “risposta”. Siamo, insomma, sul terreno del feedback. Come sempre. In altre parole, la splendida operazione fotografica di Annalaura di Luggo, prima ancora di essere macro-fotografia è meta-fotografia. E il suo discorso, conseguentemente, non può che declinarsi coi caratteri del meta-discorso. In tal senso si giustifica anche il gioco di parole che denomina il suo progetto: “Occh-io”. L’esplorazione dell’occhio come strategia per accedere al contatto, all’evocazione, alla com-prensione di quello che c’è dietro uno sguardo: Una soggettività, una storia, un’esperienza umana, un’identità. Insomma, anche in campo artistico, il lavoro di Annalaura, è ancora uno dei momenti del suo impegno irrinunciabile, sul terreno della ricerca spirituale e dell’empatia. Del resto gli antichi pensavano esattamente questo, che gli occhi fossero lo specchio dell’anima. Ma se è vero che lo sguardo ci fornisce, da sempre, la possibilità di carpire qualcosa del sé, tutto questo è avvenuto, sin dalla notte dei tempi, in modo impalpabile, misterioso, 11
impercettibile, “perturbante” persino (cfr. Freud, 1991). Come può esserlo guardarsi negli occhi. Una cosa è certa, se c’è nella luce, nel colore, nel movimento degli occhi, nella loro configurazione, qualcosa che ha a che fare con il pensiero, con l’identità, con l’emozione, questa possibilità di percezione, che forse esiste da sempre, non è mai stata messa a nudo in maniera così chiara, evidente, macroscopica, appunto, di quanto non avvenga ora con le opere di Annalaura. Laddove, nella vita reale, verso il rischio di essere “scoperti”, di rivelare qualcosa di se, ognuno ha sempre, quale strenua arma di difesa, il distoglimento dello sguardo, l’abbassare gli occhi, il chiudere le palpebre, insomma, il trinceramento dietro una cortina di distacco, di distanza, di pudore, l’operazione espressiva che mette in campo Annalaura di Luggo è deliberatamente o/scena, perché opera un totale disvelamento, che nega, a chiunque accetti di giocare la partita, qualunque via di fuga, qualsiasi camuffamento, ogni genere di messa in scena. Il “blow up” di Annalaura non riguarda l’antica frusta e falsa dialettica fra ciò che è e ciò che appare, ma attiene piuttosto alla eventualità di osservare qualcosa che è lì, che esiste da sempre, ma che non ci è mai stato possibile “leggere” con tanta chiarezza ed evidenza, che non è mai stato penetrato con tanta intrusiva violenza, come invece oggi può avvenire, grazie alla tecnologia. Forse solo Luis Bunuel e Salvator Dalì, nella celebre scena del taglio dell’occhio, di “Un chien andalou” si erano spinti più avanti, evocando, in modo brutale, l’imperativo della psicanalisi surrealista di vedere ciò verso cui in genere si tende a distogliere lo sguardo. Ma l’operazione di Annalaura, pur nella sua 12
sostanziale invadenza, perviene ad una poetica altra, ad un’espressività di matrice completamente diversa. Il ritratto dell’Iride è come l’impronta digitale, unica e inconfondibile, forse solo la mappa del DNA può risultare più precisa. Un elemento questo che è già in uso in diversi contesti sociali, soprattutto nel campo della sicurezza. Oggi la lettura dell’Iride fornisce l’accesso a computer, banche dati, e banche tout court, il riconoscimento dell’Iride consente di aprire casseforti ed è un lasciapassare infallibile, in ambito militare, per zone ad alto rischio. In effetti, anche in ambito estetico, alcuni artisti si stanno cimentando con operazioni, per certi versi analoghe a quella di Annalaura di Luggo, penso al fotografo armeno, Suren Manuelyan, oppure all’artista britannico Thomas Tolkien, che sta tentando di tradurre artisticamente un algoritmo ideato da John Daugman. Ma, da quel che si può cogliere, nessuno ha raggiunto risultati espressivi comparabili a quelli che consegue con i suoi lavori Annalaura di Luggo. Ma guardiamo ora, da vicino e con più attenzione, le opere di Annalaura di Luggo. Esse hanno una confezione particolare, le immagini vengono impresse su lastre di una speciale composizione e possono essere di grandezza e formato variabile. Sono di dimensione circolare oppure classicamente quadrate, fino a un metro per un metro. E forse, in futuro, persino più grandi. I suoi lavori si identificano per la proposizione di fattori di fortissima differenza e variegazione, accanto alla presenza di elementi di continuità, caratteristiche che possiamo dire standard. Come gli uomini (e le donne), che sono tutti derivanti 13
della stessa “omologia genetica”, fabbricati in base alle medesime invarianti, dotati delle stesse identiche prerogative, psichiche e somatiche, eppure sono tutti irrimediabilmente e radicalmente diversi. I quadri di Annalaura raffigurano, sempre, una corona circolare, variamente multicromatica, sia nel formato a cerchio, sia in quello quadrangolare. Tranne quando l’artista sceglie di “tagliare” la circonferenza esterna, rinunciando agli spigoli, “vuoti”, per avere un’immagine che spagina, che riempie completamente la “tela”. In questo caso il centro, scurissimo, impenetrabile, che sempre è il “cuore” dei suoi lavori, finisce, ancora di più, per sembrare un vero e proprio cratere, o forse un lago, privo però di qualunque riflesso, di ogni trasparenza. Insomma, Annalaura riprende, dalla distanza minore possibile, e con il maggiore ingrandimento realizzabile, tutto quello che si può ritrarre dall’esterno dell’occhio: l’Iride, con al centro il vuoto, a dimensione variabile, della pupilla. E l’Iride, fotografata con la sua particolare attrezzatura, rivela tutta la sua complessità, differente per ogni individuo al mondo. Non soltanto per la infinita serie di sfumature di colori che rivela, per la poliedrica diversità delle loro combinazioni, che danno vita alla tinta, così come appare a noi, in condizioni normali, ma anche per la incredibile variegazione dei geometrismi che lo compongono. In alcuni casi, ci sembra di vedere vere e proprie catene montuose, o forse dune desertiche, che circondano uno specchio d’acqua. Altre volte si evoca l’idea di una bocca di vulcano 14
spento, divenuta un lago, così come si trovano, talvolta, su certi altopiani. In altri casi, l’Iride rivela, invece, una intessitura di linee, di forme, di nuance, di emergenze e depressioni, di unità geometriche che si presentano, e si nascondono, alternativamente, per far posto ad altre, assecondando vagamente l’andamento circolare, oppure manifestandosi come in una raggiera, sempre sagomabile, cangiante, come è del resto il nostro occhio. Dal quale, non a caso, deriva il termine “iridescenza”, che indica proprio la prerogativa di mutevolezza nel colore delle cose, dipendente appunto dalla diversa possibilità che hanno le superfici di riflettere la luce. E i lavori di Annalaura sono, per l’osservatore, ogni volta una sorpresa. A volte ci colpiscono per il chiarore, la luminescenza, la brillantezza, il contrasto, altre volte, invece, a emergere in modo dirompente è la forma, l’effetto di profondità, la tridimensionalità, in cui coesistono rilievi e avvallamenti, presenze e assenze, con un’alternanza, apparentemente caotica, ma che ha molto a che vedere con quelle strane regolarità che si ritrovano scandagliando la “struttura” degli oggetti frattali (cfr. Mandelbrot, 1987). Eppure, l’Iride, con la sua eterocromia (anche riguardo a porzioni dello stesso occhio) con quella combinazione di tonalità, con quel grado, letterale, di umoralità che contiene, con le variazioni che è capace di produrre, con quella sua incomparabile bellezza, nella quale ci si può anche perdere, per sempre, è soltanto un muscolo e il suo molteplice cromatismo, di cui non è ben chiara neppure completamente la funzione, dipende solo dalla diversa distribuzione di melanina e analoghi pigmenti. Certo è che quando più l’Iride è chiara, tanto più essa si mostra 15
fotosensibile. Per il resto si tratta soprattutto di una minuscola struttura muscolare, che ha la semplice funzione di aprirsi, oppure di chiudersi, in rapporto alla quantità di luce che arriva dall’esterno e che deve filtrare all’interno, per impressionare la retina. Esattamente come fa il diaframma di una macchina fotografica. Rendendo, così, più grande, oppure più piccolo, quel “cratere”, talvolta vagamente lunare, che compare nei quadri di Annalaura, quel foro che chiamiamo solitamente “pupilla”. Già, la pupilla, quel cerchietto di nulla, che si allarga o si restringe, in rapporto anche alla condizione emotiva, allo stato d’animo. Quella pupilla che vediamo enormemente dilatata, negli occhi di chi ci ama, porta d’ingresso verso un universo possibile, meraviglioso e infinito (cfr. Levinas, 1990), che abita in noi, ma a cui si può accedere proprio attraverso il rapporto con l’altro. Forse non c’è da desiderare che questo: trovarci sgomenti ed estasiati davanti a quell’assenza, quel baratro emozionale, quell’idea di vuoto, così cruciale in certe forme di pensiero e di arte orientale, (Cfr. Pasqualotto, 1992), così come si viene travolti dallo stupore, infantile persino, di fronte a certe opere di Anish Kapoor; e, magari senza volerlo, entrare in quel vuoto, cadervi dentro, così come si può piombare dentro un precipizio, mentre intorno si spande solo l’eco di un silenzio metafisico. Forse è proprio questa una delle sensazioni più forti che suscitano le opere di Annalaura, un senso di vuoto, di vertigine, di paura, che convive con un sentimento di contemplazione del sublime. I lavori di Annalaura sono costruiti intorno a un Black Hole, che ha il potere di risucchiare ogni cosa. Davanti ai suoi suggestivi lavori, non possiamo che subirne la seduzione, l’attrazione potente, come dei marinai, che contemplano le 16
fattezze leggiadre di una sirena, e non si accorgono in tempo che, dentro il suo involucro seducente, si cela, una creatura sanguinaria, dalla quale saranno irrimediabilmente sbranati. Ecco dov’è la centralità, irrimediabilmente dialettica, della sua operazione estetica. Annalaura di Luggo mette in campo, rivela, ambiguamente, come sulla scena di un delitto, la realtà di un conflitto, ci parla di una scissione irriducibile e crudele, fra il sublime e il vuoto. L’iride e la pupilla, inseparabili, eppure irrimediabilmente divise, denunciano una “questione” di questo genere. Alla quale non si può sfuggire. Del resto, il punto più bello per ammirare un paesaggio, spesso si presenta proprio sull’orlo di un burrone, come sa bene ogni viandante che si affacci su un mare di nebbia, ogni pastore che guardi il cielo stellato, ogni persona che si sporga alla finestra della vita. Come sa ogni individuo che riconosca se stesso, guardandosi nello specch-io (Lacan, 1978) ritrovando, in questo paradosso, la sublimità infinita di stare al mondo, la bellezza dell’esistenza, la gioia incomparabile di esserci nel cosmo e la malinconia inguaribile per la consapevolezza della finitudine, la coscienza piena della solitudine, il senso di vuoto. L’occh-io di Annalaura di Luggo, in dimensione immaginaria e verbale, mette in campo questa metafora, che è allo stesso tempo anche una metonimia e si accosta subdolamente alla sinneddoche. L’iride come arte, l’iride come figuratività (retorica) totale. L’iride come metafora dell’uomo.
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Luigi Caramiello Napoli, 24 giugno 2015
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