logica e paradossi

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Logica, paradossi e intuizioni. Di Paolo Pascucci

1° parte Bertrand Russell e i misteri del pensiero umano. È possibile che un linguaggio con parole dal significato univoco che compongono frasi dal significato univoco racchiuda in sé il paradosso? La maggior parte dei paradossi o delle antinomie non ci creano problemi esistenziali, nel senso che possono inficiare un teorema o possono sembrar rendere una scelta indecidibile, però dal punto di vista della nostra capacità di proseguire l’azione e scegliere non sono così influenti. Noi siamo in grado di verificare che sono paradossi. Ma con che facoltà ci riusciamo? Voglio dire, è grazie allo stesso pensiero logico che li ha generati che noi scopriamo di essere di fronte a paradossi oppure c’è l’interferenza di qualche altro tipo di pensiero? A esempio, sarebbe possibile per un computer, che in definitiva può usare solo linguaggio e pensiero logici, accorgersi dell’indecidibilità di un assunto e quindi “decidere” che non può essere risolto per quella via ma si deve utilizzare un sistema approssimato? Bertrand Russell, di cui ricorreva il 18 maggio il 138° anniversario della nascita, formulò alcuni paradossi che demolivano quello che fu chiamato il programma logicista dei primi anni del secolo scorso, intrapreso per esempio da Frege, inteso a logicizzare tutta la matematica. In particolare, per quanto riguardava la Teoria degli insiemi di Cantor, egli produsse questo paradosso (in realtà la definizione paradosso è inesatta e sarebbe meglio definibile, come per altri esempi, antinomia, ma, un po’ perché così è conosciuto e un po’ per semplificare la nomenclatura, userò qui paradosso con il significato di antinomia) : “Per la maggior parte gli insiemi (classi) che di solito prendiamo in considerazione non saranno elementi di se stessi: l’insieme dei numeri interi non è un numero intero, l’insieme delle nazioni non è una nazione, l’insieme delle donne francesi non è una donna francese. Ma l’insieme di tutto ciò che non è una donna francese è elemento di se stesso poiché non è una donna francese; così è per l’insieme degli insiemi, poiché è un insieme. Tuttavia, l’insieme di quegli insiemi che non sono elementi di se stesso è sia elemento di se stesso sia non elemento di se stesso.” [1] Con quale parte del nostro ragionamento riusciamo a comprendere l’antinomia che bloccò il lavoro di Frege, anche se già pubblicato, al quale egli fece in tempo a aggiungere una postilla con le nuove scoperte di Russell, con la parte logica o con quella intuitiva? In effetti, l’insieme degli insiemi che non sono elementi di se stesso non può appartenere a se stesso, altrimenti sarebbe un insieme che appartiene a se stesso, e per questo fatto di non potervi appartenere di fatto vi appartiene, generando una contraddizione. Queste situazioni però sono in grado di sconvolgere solo un numero relativamente esiguo di persone, mentre la maggior parte, se pure comprende il problema, lo risolve con una scrollata di spalle. Quasi nessuno perde il sonno o vede stravolta la propria esistenza da http://lanostramatematica.splinder.com |

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questo genere di contraddizioni. Però molti, o quasi tutti, sono sconvolti da altri generi di contraddizioni. Come reagiremmo se, improvvisamente, quello che credevamo certo e indubitabile risultasse a un certo punto malato di contraddizione? Un esempio di quello che voglio dire, pur se ammantato di finzione, è quello relativo alle trasmissioni televisive del genere Scherzi a parte, in cui una vittima designata, solitamente un personaggio famoso, viene messo in mezzo con la complicità degli amici e parenti della vittima. Lo scherzo consiste nel mettere il malcapitato di fronte a una contraddizione: quello che riteneva saldo e stabile (come il povero Frege prima di un certo Russell e i poveri Russell e Whitehead prima di un certo Godel) un momento prima, crolla inesorabilmente come guidato da una malevola mano. Ora, senza scomodare questo tipo di trasmissioni televisive, è facile osservare esempi di questo genere anche nella nostra vita di tutti i giorni, quando riteniamo che le condizioni in cui ci troviamo siano quelle solite e abituali e da noi perfettamente comprese, eppure c’è qualcosa che non funziona. Alcuni esempi: infiliamo la chiave nella toppa e la chiave non gira, la guardiamo, è proprio la nostra, riproviamo, niente, estraiamo di nuovo, proviamo a guardare se c’è niente che ostruisce il passaggio, riguardiamo la chiave, intatta, ma che diavolo succede? Cribbio! Abbiamo sbagliato porta! La nostra è quella dopo. Lo stato d’animo che sperimentiamo in situazioni in cui perdiamo i riferimenti abituali è composto di incredulità e confusione, e è un momento interessante dal punto di vista mentale perché si osservano all’opera due metodiche di conoscenza: una è la conoscenza abitudinaria e l’altra è la conoscenza orientata alle novità. La conoscenza instaurata dalle abitudini è figlia del consolidamento per esperienza il quale si realizza principalmente nell’emisfero sinistro e basa la sua costanza su una memoria implicita che rende automatici i riferimenti. I due emisferi. Vorrei fare un piccolo excursus sulla memoria, tema importante ma ancora non perfettamente compreso. In generale si associa una diversa caratteristica ai due emisferi, quello destro e quello sinistro. Questo studio[2], per esempio, dimostra come nell’elaborazione di stimoli nuovi, inizialmente vi sia una maggiore attività nell’emisfero destro, quando lo stimolo rappresenta una novità, e in seguito la gestione passi all’emisfero sinistro. Quest’altro lavoro[3] invece verifica come la direzione dello sguardo si orienti verso sinistra quando si è coinvolti in questioni emotive e/o stimoli spaziali e di come si orienti invece a destra per stimoli verbali, sottintendendo l’intervento dell’emisfero controlaterale rispetto al campo visivo. Una conseguenza possibile è anche che nell’elaborazione di attività che coinvolgono principalmente concetti, un ruolo importante sia svolto dalla componente fisico-spaziale degli eventi, a parziale dimostrazione della contiguità motoriocorporeo-simbolico. Un altro lavoro[4], rileva come, in compiti verbali (comprensione metaforica, comprensione letterale, compito di decisione lessicale) siano coinvolte molte aree degli emisferi sinistro e destro, con quest’ultimo maggiormente interessato nella comprensione metaforica. Un aspetto importante da sottolineare, però, è che entrambi gli emisferi sono attivi nell’elaborazione degli stimoli provenienti dall’ambiente, che possono lavorare contemporaneamente a cose diverse (come quando eseguiamo un compito implicito e dirigiamo l’attenzione a qualcos’altro), possono essere in competizione e possono sostenersi a vicenda nel rispondere a stimoli misti. http://lanostramatematica.splinder.com |

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Infatti, rispetto alle situazioni standard in cui si effettuano questi esperimenti, il nostro cervello deve lavorare in un ambiente ricco di stimoli, per cui può capitare di dover eseguire un compito che richiede concentrazione e nello stesso istante essere distratto da eventi contemporanei che distolgono l’attenzione, ai quali si presterà tanta meno attenzione quanto più saranno abituali. Il più è meno? Però avere troppi distrattori non è conveniente. Iyengar e Lepper (2000)[5] in quello che rappresenta ormai un classico, dimostrano come la maggior possibilità di scelta non sia sempre un preludio a una decisione. L’esperimento constatò questi fatti: in un banco di un supermercato gli sperimentatori sistemarono una volta 6 diversi vasetti di marmellate e un’altra 24 vasetti. In realtà la gente si fermava più spesso a osservare il banco di marmellate quando vi erano 24 vasetti (60% vs 40%) ma compravano di più quando la scelta era limitata a 6 (30% vs 3%). Questo effetto può essere spiegato assumendo che siamo normalmente attratti dalle novità e dalla varietà, cosa per la quale può essere invocata una spiegazione filogenetica, essendo noi notoriamente onnivori, per cui siamo attirati maggiormente dalla quantità e diversità di stimoli. Però, se si tratta di scegliere, preferiamo farlo all’interno di un range più limitato, perché altrimenti l’operazione risulterebbe troppo dispersiva. A me sembra un effetto di quella che Gould chiamò exaptation, cioè una caratteristica adattiva come la ricerca della varietà del cibo che porta l’organismo a diversificare le fonti di nutrimento si manifesta come fattore motivante assoluto quando la varietà si presenta come mai farebbe in natura, esplodendo, per così dire, ma gettando il soggetto nell’impossibilità di scegliere. Trasportato sul versante che analizziamo, e cioè l’utilizzo di un sistema di analisi cognitivo degli eventi, potrebbe spiegare la predilezione, nella vita di tutti i giorni, per un numero di spiegazioni dei fenomeni sì variato ma non eccessivamente, come invece è tipico di un’analisi logico formale di un evento. Questa sorta di principio di scelta in un numero limitato di opzioni, e che quindi potrebbe essere inibita da un numero più elevato di opzioni, la si scorge anche nell’effetto primascelta, modo di decidere di esperti nei più disparati generi di sport, come dimostrano Johnson e Raab (2003).[6] Lo studio verifica che atleti di elite con grande esperienza, in situazioni di precisione-velocità, assumono intuitivamente per prima sempre la decisione migliore e che quanto più riflettono tanto più la decisione si degrada. Questo fatto mi sembra rappresentare un’analogia con la teoria della scelta: un insieme di memorie implicite relative al gesto tecnico e alla situazione di gara si presentano alla scelta dell’atleta, il quale deve operare in presenza di distrattori (pubblico, avversari, compagni ecc.). Se il numero delle scelte a disposizione è troppo alto si cade nell’effetto vasetti di marmellata, quindi il numero di opzioni a disposizione deve essere limitato (il grafico di Fig. 1 mostra come si degradi velocemente la qualità con l’ordine cronologico e già alla quinta opzione il livello è notevolmente basso rispetto alla prima scelta, a dimostrazione di un range di scelta limitato, per ogni situazione).

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In più, il procedimento che porta alla scelta dell’opzione migliore non è frutto di un processo di pensiero sequenziale e ragionato, ma di una decisione immediata, quasi istintiva (si noti però che questa capacità di decidere “a naso” appartiene solo agli esperti, essendo dimostrato che gli inesperti traggono una scelta migliore da una più lunga riflessione): ora, indipendentemente da come sono state acquisite queste esperienze, sta di fatto che il processo che attiva la risposta migliore alla situazione non segue un percorso ragionato ma intuitivo, essendo diventate quelle conoscenze come un secondo patrimonio istintivo. In più, vi è mai capitato di essere agitati, nervosi, emotivamente coinvolti o semplicemente di fretta? E avete verificato come in quel caso, specialmente l’ultimo, sia se dovevate eseguire un compito di precisione o comunque un compito normale ma in fretta, invece di eseguirlo meglio lo eseguivate peggio? Troppe scelte! La maggior parte dei circuiti motori inibisce l’ampiezza delle scelte: quando sono in circolo troppi neurotrasmettitori, stimolati dalla situazione stressante, l’attività inibente, soprattutto del cervelletto, diminuisce, con la conseguenza di peggiorare l’esecuzione. La differenza tra scelte ponderate e scelte intuitive balza agli occhi: quando la scelta ricade nell’ambito di conoscenze o esperienze del soggetto, la decisione intuitiva è la migliore. Però, se si tratta di affrontare una scelta in una situazione anomala, vale lo stesso principio valido per gli inesperti? (continua) [1]

M. Clark, I paradossi dalla A alla Z, Raffaello Cortina Editore 2004. Aretz, Anthony J., PERCEPTUAL SKILL AND THE CEREBRAL HEMISPHERES, Human Factors and Ergonomics Society Annual Meeting Proceedings, VISUAL PERFORMANCE , pp. 1373-1377(5) 1992 [2]

[3]

GE Schwartz, RJ Davidson, and F Maer, Right hemisphere lateralization for emotion in the human brain: interactions with cognition , (1975) Science, Vol 190, Issue 4211, 286-288 [4]

G. Bottini, R. Corcoran, R. Sterzi, E. Paulesu, P. Schenone, P. Scarpa, R. S. J. Frackowiak, and D. Frith, The role of the right hemisphere in the interpretation of figurative aspects of language A positron emission tomography activation study, Brain 1994 117: 1241-1253.

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[5]

Iyengar SS, Lepper MR., When choice is demotivating: can one desire too much of a good thing?, J Pers Soc Psychol. 2000 Dec;79(6):995-1006. [6] Joseph G. Johnson, Markus Raab, Take The First: Option-generation and resulting choices, Organizational Behavior and Human Decision Processes, Volume 91, Issue 2, July 2003, Pages 215-229, ISSN 0749-5978, DOI: 10.1016/S07495978(03)00027-X. (http://www.sciencedirect.com/science/article/B6WP2-48VTFFK-3/2/1c3f0475077d405acfc878d93548d622)

2° parte Linda la cassiera. C’è una cosa che si chiama fallacia della congiunzione, scoperta da due autori, Amos Tversky, psicologo cognitivo israeliano e il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, sempre israeliano e psicologo, nel classico lavoro Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases [1][2]ovvero Decisione in condizioni d’incertezza: euristica e pregiudizio, sfociate poi nella Prospect Theory[3], la Teoria del Prospetto, una teoria delle decisioni che elimina l’aura di razionalità nelle decisioni umane individuando una serie di biases (pregiudizi) che influenzano le scelte.

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“Immaginate che vi chiedano di partecipare a un esperimento psicologico. Lo sperimentatore vi sottopone il seguente problema: Linda ha trentun anni, sta da sola, ama parlar chiaro ed è parecchio intelligente. È laureata in filosofia. Da studentessa si interessava molto dei problemi di discriminazione e giustizia sociale, e andava alle dimostrazioni antinucleari. Quale di queste due alternative è più probabile? Linda fa la cassiera in banca. Linda fa la cassiera in banca ed è attiva nel movimento femminista. Quale alternativa avete scelto?” [4] La maggior parte delle persone sceglie la seconda opzione, quella che propone due attività invece di una. Ma è la scelta sbagliata, dal punto di vista logico. Tersky e Kahneman ci spiegano che questa risposta è una violazione alla logica. Osserviamo perché. Si immagini Linda, e una serie di caratteristiche di Linda. Da una parte mettiamo il lavoro che potrebbe svolgere, dall’altra un tratto saliente della personalità. Facciamo due liste:

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cassiera in banca insegnante cameriera manager impiegata

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Personalità femminista punk pacifista sportiva testarda. http://lanostramatematica.splinder.com |

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Ora, è facile verificare che le probabilità che Linda faccia il lavoro indicato sono

e che abbia un certo tratto di personalità sono

indicando con p(A) la probabilità che si verifichi un certo evento A (lavoro) e con p(B) un certo evento B (personalità), con n i casi in cui si verifica e con m i casi possibili. Questo vale, singolarmente, sia per il lavoro che per la personalità, ma se noi vogliamo che Linda possieda entrambe le proprietà, noi chiediamo che si verifichino contemporaneamente due eventi indipendenti l’uno dall’altro, cioè ci troviamo di fronte a una probabilità composta

dal che si vede subito che la probabilità che si verifichino entrambe le condizioni p(A) e p(B) è inferiore alla probabilità che se ne verifichi una sola. Gerd Gigerenzer è psicologo cognitivo che si è occupato, tra l’altro, dell’euristica nelle decisioni. Ha scritto anche un libro che mette in evidenza la nostra difficoltà nel gestire il calcolo delle probabilità (Quando i numeri ingannano, Raffaello Cortina 2003). In questo caso però, egli ritiene che l’errore o il presunto errore che la maggioranza degli intervistati compie nel definire quale delle due alternative è più probabile, dipenda dall’ambiguità del termine usato –probabilità- e dal fatto che noi tendiamo a associare una pertinenza superiore a una doppia definizione, se siamo in presenza di una descrizione composita (ricordate? Linda è stata definita “… ha trentun anni, sta da sola, ama parlar chiaro ed è parecchio intelligente. È laureata in filosofia. Da studentessa si interessava molto dei problemi di discriminazione e giustizia sociale, e andava alle dimostrazioni antinucleari.”) Noi tendiamo a associare a una descrizione così ricca più facilmente un numero maggiore di caratteristiche, perché si legano al tipo di personalità evocato dalla descrizione, rispetto a quella striminzita del lavoro di cassiera. Infatti, Gigerenzer dimostra che se invece di probabile si usa quanti?, gli intervistati rispondono correttamente dal punto di vista logico e quindi in maniera inversa a come rispondevano prima. Egli dice che il significato di probabile non è solo quello matematico, in cui si misura la probabilità in cui può verificarsi un evento, ma può essere anche “ciò che è plausibile”, “ciò che è credibile” e “ciò che ha indizi a favore”. Sostiene inoltre che via sia una regola della pertinenza sotterranea che agisce inconsciamente nella comprensione del linguaggio verbale. A questo scopo, insieme al http://lanostramatematica.splinder.com |

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collega Ralph Hertwig, chiede agli intervistati di parafrasare, per un individuo non madrelingua, il significato della parola probabile, e il risultato che ottiene è “[…] la maggioranza ha usato significati non matematici, come possibile, concepibile, plausibile, ragionevole e tipico; solo pochissimi hanno usato “frequente” o qualche altro significato matematico.” [5] A questo scopo, come notato sopra, ha modificato la domanda cercando di renderla meno ambigua. Nella nuova versione suonava dunque così: “Ci sono cento persone che corrispondono alla descrizione [di Linda] data sopra. Quante di queste sono: cassiere di banca? cassiere di banca e attive nel movimento femminista?” [6] i risultati [7] ottenuti dimostrano che la nuova versione del test produce le risposte attese (vedi Fig. 2). Egli ritiene che il risultato sia in linea con quelli storici ottenuti da Jean Piaget, in cui si chiedeva a bambini “Ci sono più fiori o più primule?” ottenendo risposte corrette. E’ dunque all’interno del linguaggio che si annidano, per Gigerenzer, le relazioni tra logica e intuizione, e cioè quei meccanismi che generano le comprensioni delle varie proposizioni.

(continua) [1]

Amos Tversky and Daniel Kahneman, Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases , Science 27 September 1974: Vol. 185. no. 4157, pp. 1124 – 1131 DOI: 10.1126/science.185.4157.1124 [2] D. Kahneman, P. Slovic, A. Tversky, Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, Cambridge University Press 1982 [3] Daniel Kahneman e Amos Tversky, Prospect Theory: An Analysis of Decision Under Risk, Econometrica, 47(2), 1979, 263-291 [4] G. Gigerenzer, Decisioni intuitive, Raffaello Cortina 2009. [5] G. Gigerenzer, op. cit. p. 95 [6] G. Gigerenzer, op. cit. p. 96 [7] RALPH HERTWIG* and GERD GIGERENZER, The `Conjunction Fallacy' Revisited: How Intelligent Inferences Look Like Reasoning Errors, J. Behav. Dec. Making, 12: 275±305 (1999)

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3° parte Ma l’intuizione, la logica ingenua, non sono sempre la migliore risposta agli eventi della vita. Matteo Motterlini (Motterlini 2008) ha scritto un interessante libro in cui si collezionano alcune di queste fallacie del pensiero intuitivo. Per esempio, i tempi in cui questo pensiero intuitivo decide spesso sono molto brevi, dell’ordine dei trenta millesimi di secondo, lasso di tempo durante il quale non è possibile attivare la coscienza secondaria. È dunque alla coscienza primaria, quella motoria, che si deve l’intuizione e la decisione, in tempi così rapidi, necessari per rispondere adeguatamente all’ambiente ostile dal quale questo tipo di coscienza è stata formata. Questo genere di decisioni si basa, come visto, su pochi elementi, a volte uno solo, che spesso è quello che ha il collegamento più macroscopico con l’evento in questione. E così, in una scelta che riguarda i numeri, restiamo legati a cifre che non hanno attinenza con i fatti ma hanno la proprietà di essere stati detti, oppure ci concentriamo talmente su un particolare da lasciarci sfuggire un elemento dissonante, oppure utilizziamo metodi di giudizio diversi su di noi e sugli altri, oppure usiamo in maniera fallace i contesti in cui si verifica uno stesso fenomeno, oppure ci adeguiamo alle scelte collettive senza riflettere, oltre chiaramente a tutti gli errori di giudizio legati alla probabilità e la capacità di confabulare per arrampicarsi sugli specchi in seguito a scelte illogiche. Questo cercheremo di vedere, in ordine sparso, nel prosieguo di questo articolo. Cominciamo. L’ancora. L’influenza che certe informazioni hanno sulle nostre scelte future è ragguardevole, anche se queste informazioni non hanno niente a che fare con le nostre scelte. Kanheman e Tversky, nel loro classico lavoro (Tversky, Kanheman 1974) hanno sottoposto a dei soggetti domande di cultura generale dopo aver fatto girare la ruota della fortuna. Per esempio, alla domanda “In quale percentuale i Paesi africani aderiscono alle Nazioni Unite?” (Motterlini 2008 p. 22) se prima della domanda veniva fatta girare la ruota della fortuna e usciva il 65, i soggetti rispondevano in media 45%, ma se usciva il 10 i soggetti rispondevano in media il 25%. Ma che valore predittivo può avere un numero casuale sulla risposta a una domanda specifica? Eppure i soggetti dell’esperimento dimostravano di tenerne conto, quasi come se la ruota fosse un punto di riferimento sul quale calcolare la risposta. Ma questo non è forse quello che facciamo abitualmente quando non conosciamo qualcosa? Se per esempio incontriamo uno sconosciuto in ascensore, non ce ne facciamo un’idea sulla base del suo aspetto fisico? Non costruiamo cioè un insieme, seppure piccolo, di informazioni sulla base dell’aspetto, che è l’unica cosa alla quale possiamo ancorarci? L’ancora è dunque il fast and frugal dell’euristica dell’intuizione, che si aggancia all’elemento più forte del raggruppamento di conoscenze riguardo a un fatto o un fenomeno. È come quando ci chiedono che azioni compreresti, quelle di una grande azienda molto conosciuta o quelle di una sconosciuta, scegliamo la maggior parte delle volte la prima, e non sbagliamo. E così è anche per un giudizio sommario e immediato su una persona: valutiamo il suo viso, com’è vestito, se sorride o è serio e così via, e su questi pochi elementi tracciamo il nostro giudizio personale. Ora, se questo è un meccanismo potente e scelto dalla selezione naturale, è da aspettarsi che agisca anche in quei frangenti dove non ci sono elementi per una scelta fast and http://lanostramatematica.splinder.com |

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frugal, veloce e semplice, perché, come nella domanda sopra, la richiesta riguarda assai poco il comparto emotivo e molto quello razionale: in quale percentuale i Paesi africani aderiscono alle Nazioni Unite? Ecco che, se non avessimo avuto nessun suggerimento, per quanto sbagliato, avremmo dovuto frenare l’intuizione, la quale non avrebbe avuto nessun retroterra dal quale pescare: nessuna conoscenza implicita che fungesse da serbatoio dal quale trarre d’acchito la risposta migliore. Se invece questo contesto viene fornito, anche se sotto forma di un numero casuale ottenuto dalla rotazione di una ruota, improvvisamente abbiamo un contesto minimo sul quale operare una scelta, che in questo caso sembra essere un’euristica del tipo: se il numero casuale è uguale o superiore a 50 scegli una percentuale inferiore a questo, tanto più, in proporzione, quanto più il numero è superiore a 50; ma se il numero è inferiore a 50, scegli un numero superiore a questo, tanto più, in proporzione, quanto questo è inferiore a 50. Ma perché, seppure inconsciamente, questo numero casuale ha un valore di ancoraggio? Chiaro: per la logica intuitiva non esistono regole logiche formali e algoritmi, ma euristiche, cioè ricerche per prove e errori, come quando per dividere due numeri come 1793 diviso 199, in mancanza di calcolatrice e carta e penna, ci accontentiamo di un risultato approssimato, approssimando 1793 a 1800 e 199 a 200. Anche in questo caso, il numero della ruota funziona solo perché c’è e solo se non abbiamo idea della risposta e rispondiamo d’intuito. Il numero è dunque un’informazione, e la contemporaneità di rotazione e domanda è sufficiente per la nostra coscienza primaria per stabilire una connessione tra i due fatti: se non interviene la coscienza secondaria la coscienza primaria ha via libera (nell’eterna lotta tra le due). Incorniciamento (framing). Un esempio di questo effetto è dato dal classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Sher e McKenzie (Sher e McKenzie 2006) hanno provato a verificare se due bicchieri con esattamente la stessa quantità di liquido sarebbero stati giudicati indifferentemente mezzi pieni o mezzi vuoti. L’esperimento consisteva nel porre un bicchiere pieno e un bicchiere vuoto uno a fianco dell’altro su un tavolo e di chiedere di volta in volta al soggetto di versare metà del contenuto del bicchiere pieno in quello vuoto e poi di portare allo sperimentatore il bicchiere “mezzo vuoto”. I bicchieri erano numerati e così si è verificato che la maggior parte dei soggetti riportava quello che inizialmente era il bicchiere pieno, che era stato parzialmente versato in quello vuoto su ordine dello sperimentatore. Questa diversa etichettatura dovuta al cambiamento di riferimenti della nuova situazione (il passaggio del bicchiere pieno a una situazione di svuotamento seppure parziale e inversamente il passaggio del bicchiere vuoto da una situazione di vuoto a una di riempimento, seppure sempre parziale) è quella che emerge da un altro classico esperimento dei soliti Tversky e Kanheman (Tversky e Kanheman 1981). L’esperimento riguarda una malattia definita asiatica che minaccerebbe la salute pubblica e potrebbe provocare la morte di 600 persone. Vi sono però due possibilità: a) con una si salveranno sicuramente 200 persone; b) con l’altra si avrà una probabilità su tre di salvale tutte e due su tre di non salvarne nessuna. Quale scegliereste? La maggior parte delle persone sceglie di salvarne sicuramente 200, l’opzione a).

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I due psicologi però hanno previsto anche una versione alternativa dello stesso problema, ma che fornisce esattamente le stesse percentuali di salvezza e morte, anche se “mascherate”. Infatti, questa nuova versione, sempre rispetto alle 600 persone, prevede: c) l’intervento causa la morte di 400 persone; d) l’intervento ha due probabilità su tre di causare la morte di 600 persone e una probabilità su tre di salvarle tutte. In questo caso la scelta si rivolge verso l’opzione d). C’è da considerare che tutte e quattro le possibilità prevedono l’eguale numero di vite salvate e vite perse, però il differente effetto incorniciamento evidenzia, di volta in volta, l’effetto positivo del salvare 200 vite o l’effetto negativo di perderne 400. Questo comportamento noi lo ritroviamo in tutte quelle situazioni in cui ci viene chiesto di confrontarci con vincite e perdite. E il risultato degli esperimenti è che noi proviamo avversione verso il rischio quando siamo in situazioni di vincita e invece proviamo propensione al rischio in quelle situazioni in cui ci troviamo in perdita. Queste conclusioni di Tversky e Kanheman sono state dimostrate su base neurofisiologica in uno studio (De Martino et alii. 2006) che utilizzava la fMRI (Risonanza magnetica funzionale). Si è così osservato che nei soggetti che subivano l’effetto incorniciamento si attivava in maggior misura l’amigdala, un’area coinvolta nella gestione della paura, mentre in quei soggetti che rispondevano più razionalmente si attivava maggiormente la corteccia prefrontale, mediale e orbitale, che si occupa delle decisioni che implicano l’utilizzo di coerenza e razionalità. In più, altri studi hanno dimostrato che è possibile eliminare l’effetto framing. Per esempio, l’uso del doppio incorniciamento (Bernstein et alii. 1999), cioè la presentazione in contemporanea di tutte le opzioni, come nell’esempio sopra a), b), c) e d) rendeva non significativa la preferenza per una opzione o per l’altra, collocando le scelte su un piano di parità. È la presenza, come nel caso dell’effetto àncora, di un riferimento orientato, cioè la presenza di una doppia opzione orientata o al “salvare” o al “sacrificare” a dirigere la preferenza empatica dei soggetti, che si attenua se tutte le varianti sono presentate insieme. Probabilmente un effetto simile, di neutralizzazione, lo si potrebbe osservare anche nel caso dell’ancoraggio, se la ruota fosse fatta girare due volte, con risultati pilotati, in modo da fornire due numeri, uno alto e uno basso, che si neutralizzino a vicenda. Un’ultima considerazione. Credo però che anche un altro effetto si manifesti in questi esperimenti: la differenza di autorevolezza tra sperimentatori e soggetti dell’esperimento, fa si che di fronte alla richiesta di scegliere un’alternativa tra due opzioni, molto spesso il soggetto la interpreta come un obbligo a scegliere, a manifestare una decisione, a non mettere in discussione l’autorità degli sperimentatori iniziando a porre domande. L’aura di autorevolezza e ufficialità che circonda queste sperimentazioni dissuade dal discuterne le conclusioni, implicite nelle diverse opzioni, delimitando l’ambito di risposte a quelle previste dagli sperimentatori e solo a quelle. Questo articolo e le prime due parti partecipano al Carnevale della matematica n. 26 che si tiene dal 14 giugno sul blog di Gianluigi Filippelli. Link diretto qui.

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Bibliografia L.M. Bernstein, G.B. Chapman, A.S. Elstein, Framing effect in choice between multioutcome life-expectancy lotteries, Medical Decision making, 1999, 19, pp. 324-338. B. De Martino, D. Kumaran, B. Seymur, R.J. Dolan, Frames, biases and rational decisionmaking in the human brain, Science, 2006, 313, pp. 684-687. M. Motterlini, Trappole mentali, Rizzoli 2008. S. Sher, C.R.M. McKenzie, Information leakage from logically equivalent frames, Cognition, 2006, 101, pp. 467-494. A. Tversky, D. Kanheman, Judgment under uncertainty: heuristics and biases, Science, 1974, 185-211, pp. 1124-1130. A. Tversky, D. Kanheman, The framing of decisions and the psychology of choice, Science, 1981, 211, pp. 453-458

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