Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE
Corso di Laurea a distanza in Scienze e tecnologie della comunicazione promossa dal Network per l’Università Ovunque, NETTUNO
Cattedra di Sociolinguistica LINGUA IN MUSICA: La canzone italiana nel Ventennio Fascista
Tesi di Laurea del Dott. Antonio Dilernia Matr. 1070727
Relatore Prof.ssa Ilaria Tani
Correlatore
Anno Accademico 2005-2006
Ai miei settant’anni
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INDICE DEL VOLUME
Introduzione…………………………………………………………..…..…p. 4
- Cap. I – Attualità del linguaggio musicale della canzone italiana prodotta durante il Ventennio fascista I, 1 - Eredità, calchi linguistici e riattualizzazioni………………………...p. 6 I, 2 - Linee di continuità morfologiche………………………………….....p. 9 a) Sintassi e morfologia b) Lessico e semantica I,3 – Il Ventennio e le radici del “canzonettese”……………………….…p. 23 - Cap. II – La canzone italiana e l’avvento della società di massa nell’Italia degli anni Trenta – Quaranta II, 1 - La formazione di un linguaggio nazionale………………………....p. 27 II, 2 - Sviluppo degli organi di informazione di massa…………….……..p. 30 II, 3 - Le canzoni italiane e i mass – media, ovvero: la radio che «canta per voi»……………………………………………...p. 34 . Cap. III - L’organizzazione canora del consenso III, 1 - Il problema socio – linguistico della conquista del consenso politico………………………………….…p. 39 III, 2 - Le canzoni di regime……………………………………………...p. 41 a) Il lessico latino: attualizzazione e destorificazione; b)Il lessico melodrammatico: sradicamenti e residui semantici; III, 3 Registro melanico;………………………………………………….p. 50 III, 4 Le canzoni da svago………………………………………………...p. 53 a) Lo swing o le «parole in libertà» b) Le canzoni della fronda Conclusione………………………………………………………………...p. 57 Appendice…………………………………………………………….…….p. 60 Bibliografia…………………………………………………………………p. 64 3
Introduzione La comprensione della lingua cantata implica un’interpretazione della canzone come testo dotato di una sua fisionomia espressiva. Le parole delle canzoni non sono un surrogato della letteratura, poiché la canzone ha una sua natura testuale, una sua lingua con funzioni proprie. Abbiamo inteso accertare, con la presente ricerca, fino a che punto questo sia vero per la lingua cantata tra la metà degli anni Venti e la metà degli anni Quaranta. Con quali risultati? La lingua della canzone del Ventennio ci si è rivelata sotto tre forme caratteristiche: sotto la forma di una lingua nazionale (cap. I), radiofonica (cap. II) e politica (cap. III). Nel primo capitolo vediamo come questa lingua possa dirsi ‘nazionale’ nella misura in cui, ancora oggi, costituisce l’eredità di un patrimonio culturale, rispetto al quale i testi delle canzoni e della letteratura contemporanei sembrano, talvolta, dei calchi e delle riattualizzazioni (I, 1). Di più: la lingua cantata negli ultimi sessanta - ottant’anni è segnata da alcune linee di continuità morfologiche(I, 2), che la rendono omogenea dal punto di vista sia della sintassi, sia dei meccanismi di scelta lessicale e di composizione semantica (punti a e b). Il cosiddetto “canzonettese”, ancora in uso nelle recenti edizioni del Festival di San Remo, affonda le proprie radici nel Ventennio; nonostante che, tra il Ventennio fascista e la successiva epoca repubblicana, ci si aspettasse di ritrovare, al contrario, dei punti di rottura (I, 3). Nel secondo capitolo si è trattato di individuare alcune tappe della formazione di un linguaggio nazionale della canzone (II, 1); tappe che corrispondono ai vari momenti dello sviluppo degli organi di informazioni di massa e principalmente, dell’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, tra il 1924 e i primi anni Quaranta (II, 2). Da questo punto di vista, la canzone italiana ci è sembrata un elemento fondamentale, sia per il processo di 4
italianizzazione (e di unificazione linguistica) della nazione, sia per il processo di conquista radiofonica del consenso popolare. Abbiamo peraltro rilevato i termini in cui si parlava della radio come di uno strumento di suggestione e di socializzazione (II, 3). Siamo quindi giunti, nel terzo capitolo, ad applicare una problematica di Storia contemporanea in una prospettiva socio-linguistica (III, 1). Per questo, abbiamo esaminato il tema storiografico dell’“organizzazione del consenso” sulla base delle canzoni di regime (III, 2), contribuendo a chiarirne i meccanismi linguistici. Tra i meccanismi esaminati abbiamo individuato fenomeni lessicali di riattualizzazione della Roma latina, da una parte, e di sradicamento e di reimpostazione della semantica amorosa, dall’altra (punti a e b). Nondimeno, rileviamo tracce di residui melanconici nelle canzoni stesse di regime (III, 3). Affianco alle canzoni di guerra e di propaganda, non mancano poi altre canzoni composte da testi ludici che, tuttavia, nascondono parole in libertà (come nel caso dello swing) e parole di contestazione, con le quali si opera un lavorìo linguistico di Liberazione e di Resistenza (punti a e b). In conclusione, analizziamo le canzoni di fine Ventennio, con le quali si “elabora” un linguaggio amoroso e straziante per parlare del tramonto di un’epoca.
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- Cap. I Attualità del linguaggio musicale della canzone italiana prodotta durante il Ventennio fascista
I, 1 - Eredità, calchi linguistici e riattualizzazioni: In un saggio sulla lingua comune e sulla lingua letteraria italiana, L. Serianni esemplifica alcuni fatti grammaticali sulla base di vari brani di testi di canzoni che, quindi, costituiscono un repertorio di esempi, di casi particolari capaci di illustrare i meccanismi della Grammatica italiana1. Secondo Anna Infanti questo uso che Serianni fa dei testi delle canzoni nostrane comporta una notevole implicazione. Dal momento in cui a quei testi si fanno corrispondere le regole che presiedono alla correttezza della lingua italiana, si può dire allora che la canzone stessa si trova investita di «dignità letteraria»2. Oggi ci si accorge che la canzone riesce a dare delle indicazioni linguistiche; ci si rende conto di come, a volte, la canzone possa diventare un modello per chiunque volesse non solo parlare, ma anche scrivere in italiano. Esistono, per altro, dei chiari nessi tra testi delle canzoni e testi letterari che, insieme illustrano le dinamiche della lingua italiana. Si pensi a La canzone dei sommergibili cantata da Michele Montanari la quale, nei primi anni Quaranta, viene condita da espressioni dannunziane, come: «sonante mar», «Monna Morte» e «luce mattinal». A volte la lingua letteraria influenza quella cantata, ma altre volte avviene anche il contrario. Secondo Paolo Giovannetti la poesia moderna stessa si evolve e si modula «accogliendo al proprio interno anche i testi delle canzoni e la loro storia». Questo sarebbe dovuto a un 1
L. Serianni, Grammatica italiana. Lingua comune e lingua letteraria, Torino 1989. 6
fenomeno letterario contemporaneo, per cui i testi delle canzoni del ’900 tendono sempre più ad «essere letti come poesie» e, quindi, ad essere assimilati al genere della letteratura moderna 3. E’ un processo di «spostamento» lento, non pienamente compiuto, ma senz’altro ben avviato. Ad avviarlo sono gli autori stessi di narrativa contemporanea, quando fanno dei riferimenti letterari alla canzone italiana. Facciamo degli esempi, lasciandoci guidare da alcune indagini sull’argomento condotte da Giovannetti4. Nello scritto Pauci sed semper immites, uno dei personaggi del racconto narra l’epopea dello stormo di aerosiluranti che durante la seconda guerra mondiale aveva determinato la leggenda del «gruppo Buscaglia». Ebbene, sono i testi della canzone d’epoca a suggerire all’autore - Daniele Del Giudice - le parole per descrivere poeticamente quei momenti di guerra. L’autore descrive questo personaggio mentre immagina di risalire in cielo con un aeroplano e di captare la musica dalla radio di bordo che trasmette la canzone del 1939 di Gianni Di Palma (Appuntamento con la luna, scritta da Frati E., Lopez F., Schisa M.):
…Ho un appuntamento con la luna, alle nove fuori città, lei che non è donna per fortuna, sono certo che non mancherà5.
Questo «swing nostrano» captato dalla radio di bordo diventa così l’espediente narrativo per evocare l’epopea di quegli aerei. Del Giudice integra nel testo letterario il testo della canzone e nelle sue parole trova un lessico poetico fortemente evocativo. La canzone (come testo) diventa un riferimento letterario. Il racconto del 1990 di Giovanni Raboni Versi guerrieri e amorosi ci offre un secondo esempio della relazione linguistica che intercorre tra prosa/poesia contemporanea da una parte e
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A. Infanti, La lingua della canzone, in «Quaderni dell’Osservatorio linguistico», vol. I (2002), p. 134. P. Giovannetti, La letteratura italiana moderna e contemporanea: : guida allo studio, Roma, Carocci, 2001, p. 51. 4 Id., Retorica dei media. Elettrico, elettronico, digitale nella letteratura italiana, Milano, Unicopli, 2004, pp. 120-121 e pp. 133-134. 5 D. Del Giudice, Pauci sed semper immites, in Staccando l’ombra da terra, Torino, Einaudi, 2000 (1° ed. 1994), p. 66. 3
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la canzone d’epoca dall’altra. In questo caso, lo scrittore racconta la guerra, la descrive nel suo racconto, ma in una forma poetica che ne trasfigura il ricordo. Raboni parla cioè della guerra, ma attraverso l’immagine di una donna amata, poeticamente evocativa di quel periodo bellico. Per mettere a punto questo espediente evocativo l’autore fa cogliere questa donna attraverso i versi del cantante Alberto Rabagliati: «delicati / incidenti di percorso / d’una puntina fuori corso6. Anche in questo caso, come in quello di Del Giudice, la canzone d’epoca costituisce un modello di riferimento lessicale e poetico per la letteratura. Spostiamo ora la nostra attenzione dalla letteratura alla canzone. Nei testi della canzone italiana contemporanea troviamo talvolta delle citazioni di testi d’epoca più o meno velate. Ci troviamo di fronte a dei veri e propri ammiccamenti fatti dai cantautori all’ascoltatore attento, capace di riconoscere le parole riprese da una canzone del patrimonio canoro italiano. Anna Infanti ci fa notare come la recente 1000 euro al mese di Daniele Silvestri richiami la celebre Mille lire al mese anche nel ritornello («se potessi avere..»), attualizzandola all’ingresso della nuova moneta, con ironia e sarcasmo7. Nel testo cantato da Silvestri troviamo un «calco del modello» costituito dal testo della canzone cantata da Gilberto Mazzi e scritta da Sopranzi e Innocenzi nel 19388; canzone nota, per altro, per aver fatto da colonna sonora al film omonimo di Max Neufeld (con Alida Valli, Osvaldo Valenti, Umberto Melnati). Il testo di Mille lire al mese costituisce un documento linguistico d’epoca e offre un lessico specifico, un dizionario dei modi di dire a cui la canzone italiana contemporanea continua ad attingere sfruttandolo dal punto di vista della resa poetica. Un altro cantautore rappresentativo della canzone italiana contemporanea, Lucio Dalla, offre un secondo esempio di rimando intertestuale, di richiamo attuale al lessico offerto dalla canzone d’epoca. Difficilmente il testo della canzone «Caro amico ti scrivo» può non richiamare alla mente le parole cantate nel 1941 «Caro Papà ti scrivo..». Certamente la canzone d’epoca
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G. Raboni, Versi guerrieri e amorosi, in Tutte le poesie (1951 – 1993), Milano, Garzanti, 1997. A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 155. 8 Ivi, p. 139. 7
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Caro Papà appartiene a tutt’altro registro, ovvero appartiene al genere delle canzoni di guerra ed è impostata sul rapporto padre/figlio, ecc. Ma accanto a queste differenze, ci sono notevoli analogie. Una similitudine consiste nei toni “intimisti” di entrambe le canzoni. Il testo della canzone di fine Ventennio sembra, quanto meno, aver offerto un modello narrativo, con formule di narrazione che oggi continuano a circolare nella lingua della canzone italiana. Ci sembra più che altro un problema da approfondire. Resta da verificare se queste linee di continuità con il passato costituiscano una marca stilistica di un particolare autore o, al contrario, illustrano un vero e proprio processo socio-linguistico caratteristico della storia della canzone italiana del ’900.
I, 2 - Linee di continuità morfologiche: Fino a che punto la canzone italiana contemporanea riprende la lingua delle canzoni del Ventennio, dal punto di vista morfologico, della sintassi, del lessico e della semantica, dei registri e della retorica? Per rispondere a questa domanda è necessario avviare in modo sistematico uno studio linguistico-comparato, che metta i testi della canzone italiana ‘della metà degli anni Venti - metà anni Quaranta’ a fronte dei testi contemporanei. Salvo alcuni riferimenti specifici a canzoni particolarmente rappresentative, scegliamo di restringere per lo più il corpus delle canzoni contemporanee a quelle presentate alle edizioni del Festival di San Remo tra il 1989 ed il 2002. In questa ricerca riprenderemo alcune tecniche metodologiche di studio linguistico della canzone italiana contemporanea messe a punto da Anna Infanti e da Federico Della Corte tra le pagine dei «Quaderni dell’Osservatorio linguistico»9 tra il 2002 e il 2003.
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L’Osservatorio linguistico è nato dal Programma di ricerca di rilevante interesse nazionale «Osservatorio dell’italiano contemporaneo. Analisi linguistica e implicazione didattiche e traduttive» e opera in seno al Dottorato di Linguistica e Stilistica Italiana dell’Università di Bologna. E’ un organo permanente dedicato al rilevamento dei fenomeni che caratterizzano la lingua italiana, contemporanea, della quale si propone di registrare tendenze e oscillazioni, tenendo sotto osservazione un orizzonte il più ampio possibile di ambiti linguistici. 9
a)
Sintassi e morfologia:
1§ . Dal punto di vista della sintassi il corpus di testi contemporanei esaminato da Infanti presenterebbe diverse «singolarità costitutive», tra cui ciò che la studiosa chiama «dislocazione». Questo particolare fenomeno della sintassi viene segnalato anche da Della Corte in seguito all’analisi di un altro corpus di testi di canzoni italiane contemporanee. La «DISLOCAZIONE » sta a indicare gli «spostamenti dei costituenti frasali» nel testo della canzone10. Un esempio tipico tra i tanti riscontrati di «dislocazione a sinistra» si trova in Alex Britti: 7000 caffè, li ho già presi. Non è del tutto una novità rispetto a quanto leggiamo nei testi della canzone prodotta durante il Ventennio, dove riscontriamo delle analoghe inversioni tra soggetto e complemento oggetto, o soggetto e verbo, ecc.. Ad esempio La piccinina cantata nel 1939 da Carlo Buti (di E. Di Lazzaro e M. Panzeri) dice: «dolce una frase ti bisbiglia». La sintassi della frase è completamente girata (anche l’aggettivo rispetto al sostantivo). Oppure: «anche se avverso il destino domani sarà» (Parlami d’amore Mariù, Vittorio de Sica, dal film Gli uomini che mascalzoni, 1932). Cambiando di registro, possiamo leggere il testo di Giovinezza: «nella vita e nell’asprezza, il tuo canto squilla e va!». Oppure in Fischia il Sasso: «il nome squilla del ragazzo di Portoria» e ancora: «Dell’Italia il gagliardetto e nei fremiti sei tu». Non riscontriamo tuttavia casi rilevanti di dislocazioni con antecedenti pronominali, a differenza dei testi contemporanei che invece presentano questo fenomeno sintattico in modo ricorrente (p. es. Anna Oxa: «Io lo difenderò sì, questo amore» o Luciano Ligabue: «Dicono che il premio lo prendiamo un’altra volta»). Nel repertorio della canzone del Ventennio tutt’al più leggiamo: «Bambina innamorata stanotte t’ho sognata», con un pronome “ti” che accompagna l’inversione tra verbo e complemento oggetto (Bambina innamorata cantata da Alberto Rabagliati, di Bracchi – D’Anzi).
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A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 141-143; F. Della Corte, Note sulla canzone italiana, in «Quaderni dell’Osservatorio linguistico», vol. II (2003), p. 26 dove si trovano ulteriori esempi. 10
A proposito di «dislocazione», Della Corte arriva a parlare di «INVERSIONI “perverse” della normale linea sintattica»11, a cui non sempre la lingua cantata negli anni del fascismo risulta estranea, sebbene prevalentemente si dimostri grammaticalmente più avveduta. Si pensi alla canzone di regime Giovinezza: «Dell’Italia nei confini / son rifatti gli Italiani /, li ha rifatti Mussolini», di difficile lettura. Le inversioni dell’ordine sintattico fanno parte della tradizione canora italiana; probabilmente del tradizionalismo della lirica che influenza sia la lingua contemporanea, che quella di cinquanta, sessant’anni fa. Umberto Fiori osserva come sia quasi un tic nella pratica del paroliere italiano che non dice mai, ad esempio, «i tuoi occhi», ma «gli occhi tuoi»12. I testi cantati da De Sica sono un esempio ancora attuale: «negli occhi tuoi blu» (Parlami d’amore Mariù).
2§ . Sempre a proposito della sintassi, Gabriella Cartago osserva come nella lingua della canzone contemporanea italiana «la sintassi rifiuta, naturalmente, la complessità architettonica della subordinazione. Piuttosto si affida alla ripetizione»13. E’ una considerazione che vale anche per la lingua della canzone del Ventennio:
Il valor dei tuoi guerrieri La vision dei tuoi pioner La vision dell’Alighieri Oggi brilla in tutti i cuor (Giovinezza)
Dimmi che illusione non è; Dimmi che sei tutta per me! […]
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F. Della Corte, Note sulla canzone italiana, cit., p. 32. U. Fiori, Scrivere con la voce. Canzone, rock e poesia, Milano, Unicopli, 2003. 13 G. Cartago, La lingua della canzone, in I. Bonomi, A., Masini, S. Morgana (a cura di), La lingua italiana e i mass media, Roma, Carocci, 2003, p. 205. 12
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So che una bella e maliarda sirena sei tu; So che si perde, chi guarda quegli occhi tuoi blu (Vittorio De Sica, Parlami d’amore Mariù)
Il valor dei tuoi guerrieri La vision dei tuoi pionier La vision dell’Alighieri Oggi brilla in tutti i cuor (Giovinezza)
Si preferisce ancora oggi questo genere di struttura ripetitiva che evita di costruire frasi di una complessità inadatta alle contingenze melodiche e ritmiche strutturali. I tre brani di testi sopra riportati sono morfologicamente e sintatticamente ancora attuali; si distinguono dai testi contemporanei solo dal punto di vista del lessico (bellico in Giovinezza; melodrammatico in Parlami d’amore Mariù). Per altro, le ripetizioni illustrate dai brani sopracitati costituiscono un esempio di come nella lingua della canzone si pratichi un «andamento paratattico della sintassi», ancora attuale. Ancora oggi i parolieri tendono a disporre le proposizioni di un periodo, secondo un rapporto di coordinazione che evita di articolarle con espliciti nessi logici. Si preferisce allora ripetere la frase principale e affiancare, di volta in volta, le varie subordinate così da creare varie frasi di senso compiuto, senza chiarire grammaticalmente il rapporto di dipendenza che le lega l’una all’altra. La paratassi (grammaticalmente poco articolata) «si presta più facilmente alle esigenze di un testo veicolato dalla musica»14. Si veda il brano del testo cantato da De Sica che abbiamo trascritto nella pagine precedente: «Dimmi che illusione non è; Dimmi che sei tutta per me! »: è un tipico esempio. Al contrario la sintassi ipotattica (secondo la quale ogni proposizione è subordinata a un'altra) ha un livello di incassatura dei periodi musicalmente poco maneggevole ed è, non a
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caso, sempre stata poco praticata nella lingua della canzone. Nel caso di Parlami d’amore Mariù, si è evitato una sintassi che subordinasse l’idea della possessione della donna amata («sei tutta per me) all’idea di una possibile «illusione». Si preferì creare due frasi indipendenti, di senso compiuto, usando la RIPETIZIONE. Le considerazioni di Anna Infanti sulla paratassi contemporanea sono delle chiavi di lettura anche della sintassi della lingua della canzone italiana del Ventennio.
3§ . Avanziamo nel nostro studio comparato esaminando fenomeni non soltanto di semplificazione (la paratassi), ma anche di complicazione della sintassi. E’ il caso dell’uso ambiguo (polivalente) che si fa di alcune particelle grammaticali. La lingua cantata contemporanea presenta, ad esempio, diversi casi del cosiddetto «CHE POLIVALENTE », rilevabile in una molteplicità di contesti d’uso. Il che viene sempre più usato in ogni occasione in quanto «particella musicalmente conveniente, docile a ogni melodia, funzionale alle urgenze del testo cantato»15. Nella canzone contemporanea, a volte, la particella che è polivalente cioè ambigua, poiché ha un valore non solo causale, ma anche di subordinazione. Il valore causale della particella che sfuma in un generico segnale di subordinazione, ad esempio in Luciano Ligabue: «La musica ti gira dentro le vene/ che ognuno a suo modo è un tossico vero», o in Daniele Silvestri: «L’estate da noi non è mica un periodo felice/ che il caldo ti toglie la pace». L’analisi fornita da Della Corte offre numerosi altri esempi16. L’uso del CHE polivalente illustra un ampio fenomeno linguistico che, tuttavia, non si manifesta pienamente nella lingua usata per cantare durante il Ventennio. Diciamo che questo fenomeno linguistico era raro, ma non del tutto assente. Ad esempio, nel testo cantato da Carlo Buti Faccetta Nera (scritta da Micheli – Ruccione) salta agli occhi il passo seguente: «Aspetta e
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A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 143. Ivi, p. 142. 16 F. Della Corte, Note sulla canzone italiana, cit., p. 22, con una analisi di testi di canzoni nella nota 16. 15
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spera che già l’ora si avvicina!», dove riscontriamo una voluta modulazione del verbo «avvicinare». Il verbo non è al congiuntivo, come avrebbe dovuto essere per esprimere l’idea dell’augurio («spera che si avvicini»). Si preferisce invece cantare: «spera che si avvicina» e quindi usare l’indicativo che serve ad esprimere i fatti reali e certi. La particella che diventa ancora più ambivalente in quanto, allo stesso tempo, sembra che si voglia con essa indicare seppur in modo vago e abbreviato - la congiunzione causale “perché” (cioè: «Aspetta e spera [per]ché l’ora si avvicina»). La polivalenza prodotta con questo espediente linguistico non mostra solo un raro punto di congiunzione con un modo di cantare diffusosi solo settant’anni dopo; più che altro è un interessante documento linguistico d’epoca che registra le incertezze e le forzature tanto dei modi dei verbi e della sintassi, quanto dell’esito della guerra coloniale in Abissinia. Nei testi della canzone del Ventennio prevale comunque l’uso consueto e convenzionale del che come pronome relativo in funzione di soggetto o di complemento oggetto. Tra i molti esempi: «Tu che mi fai piangere, tu che mi fai fremere» (Tu che mi fai piangere) (V. De Sica); «Viva i pompieri di Viggiù che quando passano i cuori infiammano» (Clara Jaione); «tutte le cose son come le rose, che vivono un giorno, un’ora e non più!» (Ma l’amore no, Lina Termini). Altre volte la particella che introduce diversi tipi di proposizioni subordinate, del genere: «Se avverrà che in mezzo alla battaglia ti uccida la mitraglia» (La canzone dei volontari, V. De Sica); «Del nemico e dell’avversità se ne infischia perché sa che vincerà» (La Canzone dei sommergili, Michele Montanari). Già in quegli anni, il che costituiva una particella molto usata per la sua versatilità. Ad esempio veniva usata spesso anche con un valore esclamativo (ancora oggi diffuso); un esempio per tutti: «Che disperazion, Che delusion..» (Mille lire al mese, Gilberto Mazzi).
4§ . Facciamo un’ultima considerazione sulla sintassi.
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Nel corpus di testi della canzone italiana contemporanea è stato segnalato l’impiego rilevante di «E» IN APERTURA di frase. In particolare, Anna Infanti osserva questo fenomeno linguistico della e in apertura nella canzone di Roberto Vecchioni Il mago di Oz (2002) che, a suo avviso, costituirebbe un tentativo di «assecondare la mimesi linguistica del racconto fiabesco». In effetti va detto che questa e iterata in capo alla strofa pone un nesso tra «il detto e il non detto» che ci lascia «sondare con la fantasia propaggini e ramificazioni nel tempo e nello spazio»17. Allo stesso modo e con la stessa valenza simbolico – fiabesca ritroviamo questo uso iterato della e in una famosa canzone di fine Ventennio, Bella Ciao: «E se io muoio da partigiano / Tu mi devi seppellir / Seppellire lassù in montagna / sotto l’ombra di un bel fior / E le genti che passeranno / e diranno o che bel fior / E’ questo il fior del partigiano / morto per la libertà». Con la «e in apertura» Bella ciao acquisisce la sintassi tipica della fiaba e, in questa forma, dà al racconto della Liberazione un carattere estetico – pedagogico che il linguaggio e la grammatica della fiaba esaltano. Tanto la canzone di Vecchioni quanto la lotta partigiana (su due livelli ovviamente distinti dal punto di vista delle implicazioni umane e politiche) acquisiscono la sintassi caratteristica di un racconto meraviglioso e straordinario che inizia sempre con «…e». Per altro, la e si ritrovava nel ritornello della canzone di guerra Vincere («Vincere! Vincere! Vincere! E vinceremo in terra, in cielo, in mare!») e ne La Sagra di Giarabub («Quei fantasmi in sentinella sono morti o sono vivi? E chi parla a noi vicino?»).
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Abbiamo esaminato vari fenomeni di dislocazione (§1), di semplificazione (§2), di polivalenza (§3), di apertura (§4) della sintassi. Altri ancora ne potremmo addurre, ma questi sono sufficienti per apprezzare le linee di continuità che attraversano gli ultimi sessanta,
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A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 144. 15
settant’anni della lingua della canzone italiana. Accertiamoci dei risultati mettendo nuovamente alla prova il medesimo problema, ma questa volta dal punto di vista del lessico e della semantica.
b)
Lessico e semantica:
1§ . Nel 1964 E. Jona notava come il tema dell’amore dilagasse nei testi delle canzoni portandosi appresso pochi vocaboli dal valore fortemente simbolico, quali: mare, luna, sole acqua, casa, monte, fiore e così via18. Nel 2002 la canzone italiana risulta ancora composta dallo stesso identico lessico19, già ampiamente adoperato per scrivere canzoni negli anni TrentaQuaranta. Prendiamo in esame i testi cantati da uno degli esponenti di spicco della canzone d’amore italiana d’epoca: Vittorio De Sica. Passiamo quindi in rassegna un piccolo campionario del suo repertorio, in ordine cronologico; ed evidenziamo con una nostra sottolineatura il lessico caratteristico delle canzoni a tematica amorosa di cui parlava Jona:
«Piccolo fior d’amore»; «un po’ di sole con queste tre parole [ti voglio bene]» (Sono tre parole, 1933) «donne, ragazze mie gettate un fiore / passa la gioventù, passa l’amore» (Suona fanfara mia, 1933); «Se guardo il cielo, se guardo il mare» (Dicevo al cuore, 1934); «con braccia colme di fior» (Tu, solamente tu, 1938).
Gli esempi possono essere facilmente moltiplicati e ampliati: «senza mai più conoscere cosa è l’amore / cogliere il più bel fiore»: Vivere, Tito Schipa; «semplice così sei come un fiore»: La piccinina, Carlo Buti; «non sfiorirà»: Ma l’amore no, Lina Termini; e qui ci fermiamo. Basta per osservare come questo genere di scelte lessicali costituiscano una prigionìa strutturale per il genere di testo romantico. Anna Infanti non si stupisce di trovare ancora nel 2002 la «famigerata
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E. Jona, I temi del disimpegno, in M. L. Straniero (a cura di), Le canzoni della cattiva coscienza, Milano, Bompiani, 1964, p. 173. 19 A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 152. 16
RIMA
cuore : amore»20 che costituiva negli anni Trenta una delle rime più usate nelle canzoni
interpretate, ad esempio, da De Sica:
«Qui sul tuo cuore non soffro più/ parlami d’amore Mariù» (Parlami d’amore Mariù, 1932); «Piccolo fior d’amore, stringiti a me sul cuore»; «è stanco già il mio cuore / non crede più all’amore» (Sono tre parole, 1933) «col tuo perfido amor / hai lacerato il mio cuor» (Tu che mi fai piangere, 1937); ecc.
e anche in altri autori:
«Qual menestrello d’amor / piccola bimba nel cuor» (La Canzone dell’amore (solo per te Lucia), Beniamino Gigli); «Non conosci i palpiti del cuore, ma se un dì saprai cos’è l’amore […]» (La piccinina, Carlo Buti); «con tutto il cuor / alle stelle parlerai di lei/ di vero amor» (La canzone del Boscaiolo, Alberto Rabagliati e Trio Lescano).
E’ difficile parlare di inerzia linguistica dato che ci troviamo agli albori della canzone italiana, quando la lingua della canzone si stava ancora formando. Mario Sgalambro parla di «pappa del cuore» che per lustri avrebbe impastato i palati dei fruitori di musica leggera, ma riferendosi all’uomo degli anni Cinquanta21. Certamente, però, queste rime schematiche non lasciano pensare che i testi della canzone d’amore degli anni Trenta e Quaranta costituiscano un luogo deputato alla sfida al linguaggio e alla sua innovazione. In parte, la canzone contemporanea si dimostra diversa rispetto a quella del Ventennio, più innovativa poiché (secondo quanto Anna Infanti osserva nel 2002) registra «un palese svecchiamento di alcuni contesti triti». Tuttavia Infanti fa allo stesso tempo notare come la famigerata rima rimanga a tutt’oggi rilevante22. Gabriella Cartago, dal canto suo, osserva in generale come nel 2002-2003 la
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Ivi, p. 146. M. Sgalambro, Teoria della canzone, Milano, Bompiani, 1997, p. 63. 22 A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 147. 21
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rinuncia alla rima stessa risulti ancora «una scelta controcorrente» e come le rime seguano ancora «le orme collaudate»23.
2§ . Tra la canzone del Ventennio e quella contemporanea non mancano altre analogie lessicali. Tra queste, in particolare, va segnalato il frequente richiamo all’io e al tu più volte osservato nei testi recenti della canzone italiana. L’uso dei due pronomi personali soggetto si trova ripetutamente nella lingua cantata già tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta. Uno dei casi più lampanti sta in Bella Ciao «Se io muoio da partigiano / tu mi devi seppellir». Nella lingua della canzone ci si dava già del “tu”, anche se non poteva mancare l’uso del “Voi”: «signorina permettete? / chi siete pardon?» in E’ una piccola bionda di De Sica. Altrimenti il “Voi” è usato in un dialogo immaginato con un pubblico (Eulalia Torricelli, cantata da Gigi Beccaria e Coro; Ludovico, V. De Sica). Il DIALOGO, che secondo Infanti rappresenta «il tratto costitutivo» di certi testi-canzoni contemporanei24, segna una delle linee di continuità più rilevanti rispetto alla lingua cantata nel Ventennio; soprattutto se questo dialogo viene inteso nella forma di un «dialogo dimezzato» (per usare l’espressione di A. Scholz), cioè un dialogo dove parla soltanto la prima persona25. Ne deriva una completa mimesi lessicale del «parlato dialogato» già nella prima lingua della canzone italiana:
«Caro papà / ti scrivo e la mia mano / quasi mi trema» (Caro papà, Jone Cacciagli); «Io ti saluto: vado in Abissinia» (Vado in Abissinia); «io penso: “domani saranno appassite”» (Ma l’amore no, Lina Termini); «Lei disse: Ah, no! Ah, no! No!» (Adagio …Biagio); «Gli chiedi mille lire / e sono tue» (Ludovico, V. De Sica).
3§ . Abbiamo rilevato l’uso ricorrente dei pronomi personali soggetto (prevalentemente alla prima e alla seconda persona: «io», «tu»), nonché la mimesi lessicale del «parlato
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G. Cartago, La lingua della canzone, cit., pp. 201 - 202. 24 A. Infanti, La lingua della canzone, cit., pp. 140. 18
dialogato». In queste forme, si trova innestato un processo linguistico che porterà gli autori della canzone contemporanea a fare delle «scelte lessicali, di parole sempre più spesso inerenti a un mondo quotidiano, racchiuso nel campo visivo dell’ascoltatore medio»26. Questo fenomeno già inizia con Ludovico, canzone interpretata da De Sica che parla del «portafoglio» e di «mille lire». Pensiamo anche alle «bollette» di Mille lire al mese, alle «stazioni», ai «treni» e ai «finestrini» di Vado in Abissinia, al «magazzino» dove una ragazza si prova allo specchio un cappello (in La Piccinina), ai «caffè» come luogo di ritrovo (Signorina grandi firme), al «cantiere» e all’«officina» (di cui si parla in Inno a Roma) o alla radio, che era un oggetto ormai di uso quotidiano. Non a caso alla radio venne dedicato un vero e proprio filone di canzoni27: Quando la radio, oppure L’uccellino della radio che si riferisce al caratteristico cinguettio che l’EIAR usava trasmettere nelle pause tra un programma e l’altro, ecc. La famiglia canterina elenca nel 1941 i nomi dei cantanti all’epoca più popolari. Per comporre i testi delle canzoni, già durante il Ventennio, si adopera un linguaggio ordinario, quotidiano e riferito a cose e a fatti comuni della vita di tutti i giorni. Ciò contribuisce a trasformare le canzoni in una specie di «specchio della nostra società», per usare un’espressione di Giuliano Merz. E’ in questo modo possibile ripercorrere attraverso le canzoni l’«evolversi del Paese» con le sue parole, con i suoi testi cantati i quali diventano un vero e proprio «documento sociale»28. Soffermiamoci su questo aspetto.
4§ . In quanto documento storico (“d’epoca”) la canzone del Ventennio risulta ovviamente inattuale; e, tuttavia (meno ovviamente), conserva un forte carattere di attualità. Ciò può essere ben capito anche con un semplice e singolo esempio che ci fornisce il testo di Caro 25
A. Scholz, Neo – standard e variazione diafasica nella canzone italiana degli anni Novanta, Frankfurt am Main, P. Lang, 1998, p. 211. 26 A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 160. 27 AAVV, Le canzoni della Radio. I più grandi successi italiani degli anni ’30 e ’40, a cura della redazione della Reader’s Digest, s.l., 1980, p. 8. 28 Giuliano Merz si è recentemente interessato al tema de L’Italia del Novecento: 50 anni di canzoni, proponendo su questo argomento un corso presso l’Istituto di Romanistica dell’Università di Zurigo: http: // culturitalia. Iubk. ac. at./SS2006/ canzoni. Htm. 19
Papà del 1941. In un particolare passo, la canzone parla del figlio «balilla». In questo caso, la scelta del lessico risulta oggi decisamente inattuale, dato che l’Opera Nazionale Balilla (sorta nel 1926 poi assorbita nel 1937 dalla Gioventù Italiana del Littorio) costituisce ormai un ricordo prerepubblicano di quando, con quella parola si denominavano i ragazzi di età compressa tra gli 8 e i 14 anni. Tuttavia e allo steso tempo, «balilla» è una denominazione che aveva dimora nella quotidianità e che era entrata nell’uso comune; esemplifica e documenta, quindi, un processo di aggiornamento del linguaggio a cui ancora oggi la canzone italiana partecipa, sebbene con le proprie e contemporanee scelte lessicali. Oggi nelle canzoni si parla di cose diverse (di «Coca – cola», di «codice pin»)29 e non più dei balilla, ma il processo lessicale di aggiornamento della lingua è lo stesso dal punto di vista strutturale sebbene non, naturalmente, dal punto di vista dei contenuti. Nondimeno, oggi come allora, la lingua della canzone si dimostra lessicalmente dinamica, viva, ovvero sensibile alle trasformazioni, alle evoluzioni della società, alle sue novità, ai suoi neologismi. Oltretutto, anche dal punto di vista dei contenuti, il lessico della lingua cantata nel Ventennio presenta notevoli analogie con quello attuale, per certi aspetti sorprendenti. Ad esempio, il cosiddetto FORESTIERISMO – in particolare nei riguardi della lingua inglese – non può essere considerato semplicemente come uno degli effetti previsti dal Piano Marshall, né tanto meno come un fenomeno di quasi attualità30. Al contrario il forestierismo inizia già in pieno Ventennio, nonostante l’Italia, negli anni Trenta, rappresenti un tipico esempio di politica autarchica. Eppure non mancarono numerosi casi di apertura del dizionario italiano a quello inglese: Silenzioso slow (Abbassa la tua radio..) (cantata da Norma Bruni, scritta da D’Anzi – Bracchi nel 1940); e in particolare, con Natalino Otto, Mister Paganini e Olga for nacelli, ecc. Avremo modo di tornare sul tema dei forestierismi (e su altri), nel terzo capitolo dove tratteremo delle implicazioni politiche di queste trasformazioni lessicali e della retorica. Qui
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A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 148. Per una analisi del forestierismo nella canzone contemporanea italiana cfr. A. Infanti, La lingua della canzone, cit., pp. 149 – 150; F. Della Corte, Note sulla canzone italiana, cit., p. 30. 30
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possiamo già dire che in virtù del “meccanismo di aggiornamento”, la lingua della canzone italiana offre un campo di studio privilegiato per datare le trasformazioni sociali in atto in Italia. Nello specifico, l’anglismo nei testi delle suddette canzoni ci consente di collocare in pieno Ventennio un notevole contatto culturale con gli Stati Uniti e di misurarne il grado di influenza in corrispondenza al grado di assorbimento del lessico anglofono.
Accanto al lessico che si rivela ancora oggi “moderno”, troviamo tuttavia un lessico che potremmo definire propriamente d’epoca. Sotto quest’ultima denominazione possiamo fare rientrare il lessico patriottico, quale: «popolo di eroi», «Patria bella», «Patria immortale» (Giovinezza), «noi ti daremo un’altra legge un altro Re», «un tricolore sventolar per te» (Faccetta Nera); «innalzeremo ovunque il tricolor» (Vado in Abissinia). Nel ritornello del testo di Vincere sembra addirittura riecheggiare una frase dell’inno nazionale: «siam pronti alla morte», mentre in Vincere leggiamo «son pronti […] / son pronti […] / o vincere o morir». E’ un richiamo (probabilmente mediato dagli slogan di regime) che, dato il contesto, difficilmente può sembrare casuale o impertinente. Il lessico patriottico è usato assieme alle parole di regime («Duce», «Benito Mussolini», «camice nere», «eja eja alalà»; «fascismo», «balilla», ecc.) a cui si attinge frequentemente nelle canzoni di propaganda, di cui Giovinezza è il tipico esempio. Allo stesso tempo al lessico di regime si aggiungono scelte lessicali orientate verso il settore specificatamente militare: «Centurie, coorti, legioni […] elmetto, pugnale moschetto» (Vincere); «tornano alle tue case i reggimenti» (Inno a Roma), «si formano le schiere e i battaglion», (Vado in Abissinia), «Colonello […] dammi piombo pel mio moschetto» (La Sagra di Giarabub), ecc. Anche questi sono, per lo più, fenomeni di aggiornamento lessicale della lingua cantata.
5§ . E’ difficile tirare una linea di demarcazione netta che separa chiaramente il linguaggio d’epoca dal linguaggio moderno. In alcuni casi troviamo aspetti del linguaggio 21
contemporaneo che sembrano “d’epoca”, ma che si manifestano con funzioni del tutto diverse e in forme parzialmente modificate. Un aspetto tra questi è rappresentato dai cosiddetti TRONCAMENTI
i quali sono, a tutt’oggi, «dettati dalle esigenze di tenere il ritmo» del testo
cantato (Della Corte)31. In questo caso, è il lessico italiano a costringerci ora, come allora, a tagliare in particolare l’ultima vocale, per ottenere delle parole fonicamente più ritmiche di cui l’italiano è sprovvisto. Va detto subito che la canzone del Ventennio ha praticato i troncamenti delle parole in misura maggiore. Se ne trovano addirittura due consecutivi nello stesso verso: «l’amor sentimental» (Dammi un bacio e ti dico di si, V. De Sica); «canzon d’amor» (La canzone del boscaiolo, Alberto Rabagliati e Trio Lescano); o addirittura tre di seguito: «che delusion dover campar» (Mille lire al mese, Gilberti Mazzi). Non si tratta tuttavia solo di una differenza quantitativa, né semplicemente formale. Talvolta i troncamenti sono un espediente per creare una rima, come in Reginella campagnola (eseguita da Carlo Buti): «là nell’Abruzzo tutto d’or[o]../ […] discendono le valli in fior[e]»; ma abbiamo a che fare qui con un caso particolare, che non esaurisce minimamente l’intero fenomeno linguistico e neanche quello rinvenibile solo durante il Ventennio. A parte le eccezioni, non è escluso che i troncamenti delle parole siano invece e soprattutto un retaggio della lirica, poiché negli anni Trenta molti dei testi della canzone vengono scritti per essere cantati da numerosi tenori e baritoni interpreti sia radiofonici, sia cinematografici della canzone italiana. Si pensi a Tito Schipa, o a Beniamino Gigli in Non ti scordar di me (1935), in Mamma (1940), o a Giuseppe Lugo in La mia canzone al vento (1939), o, infine, a Ferruccio Tagliavini con La donna è mobile (1942) e ad altri ancora. La canzone italiana durante il Ventennio usa quindi un lessico operistico che per lo più ci sembra adottato (quando le parole dei testi delle canzoni vengono troncate: «amor», «scordar»...) allo scopo di rendere il linguaggio più
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F. Della Corte, Note sulla canzone italiana, cit., p. 32. 22
drammatico e teatrale come quello lirico. In questa forma, la teatralità lirica viene assorbita dal linguaggio della canzone italiana. Ora, è interessante vedere come i troncamenti siano ancora oggi praticati, ma in forme nuove e per motivi del tutto diversi. In alcuni testi della canzone contemporanea troviamo dei troncamenti non finali, ma iniziali, come ad esempio: «[que]’sto», «[que]’sti», oggigiorno molto usati. Questo genere di troncamenti tendono a una imitazione dell’«allegro parlato», come dice Della Corte32. Dei troncamenti vengono quindi ancora praticati, ma hanno una funzione opposta rispetto a quella per cui si praticavano durante il Ventennio quando, invece, servivano a rendere il linguaggio più drammatico e teatrale. Al contrario, oggi servono a rendere il linguaggio più leggero, più reale e quotidiano.
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Così come abbiamo sintetizzato i risultati in conclusione della parte dedicata ad un esame della sintassi, riassumiamo ora questi nuovi dati. Possiamo dire che le scelte lessicali della lingua cantata in questi ultimi 60 – 70 anni sembrano regolate da ricorrenti registri (il melodramma: § 1), stili (“dialogato - parlato”: § 2; «quotidiano»: § 3 ), meccanismi (l’aggiornamento linguistico: § 4) e esecuzioni (i troncamenti: § 5). Nonostante evoluzioni e trasformazioni, questi fenomeni collegano la lingua di oggi a quella cantata più di sessant’anni fa. Passiamo ora a commentare questi risultati e a rimetterli alla prova.
I, 3 - Il Ventennio e le radici del “canzonettese”33: Nel 2004 Emanuela Ersilia Abbadessa presentava i risultati ottenuti da un esame analitico svolto sulle canzoni più celebri del Ventennio. In conclusione Abbadessa sosteneva che esiste una linea di continuità formale tra il prodotto del Ventennio e la successiva canzone di consumo
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Ibidem. 23
italiana34. Una precedente indagine sulle canzoni trasmesse alla radio tra gli anni ’30 e ’40 già rilevava come dal 1944-45 al 1949 «non si riscontrano differenze col precedente repertorio radiofonico»35. Il problema della «continuità tra la canzone italiana del ventennio fascista e del secondo dopoguerra» ha assunto ormai la dimensione di un vero e proprio problema storiografico che ha dato luogo fondamentalmente alla «tesi della innovazione mancata». Di recente, il problema è stato nuovamente sollevato da Claudio Vedovati in un articolo pubblicato su «Il manifesto». Vedovati osserva come il «25 aprile per gli storici della canzone italiana» rappresenti per lo più un’«occasione mancata», poiché «la caduta del fascismo, la fine della guerra e la liberazione» non corrisponderebbero «secondo i più a un rinnovamento dei linguaggi musicali». Questa tesi della «innovazione mancata» avrebbe trovato sostegni nell’affermazione di Tullio De Mauro secondo cui il processo di svecchiamento della canzone italiana avrebbe «cinquant’anni di ritardo» rispetto, ad esempio, alla poesia. «Un ritardo di linguaggio sia sul versante della forma, che del contenuto». Questa stessa affermazione è stata ripresa più di recente da Lorenzo Coveri, che parla di un «ritardo del linguaggio della canzonetta rispetto all’evoluzione linguistica della società italiana»36. A fronte di queste considerazioni, ci sembra che la canzone italiana contemporanea presenti elementi nuovi e antichi allo stesso tempo. Abbiamo già avuto modo di notare alcune trasformazioni linguistiche, rilevandone sia l’aspetto innovativo, sia l’eredità culturale. Va detto poi che altre e più radicali novità linguistiche non hanno tardato più di tanto a manifestarsi. Alcune di queste hanno «preso avvio» già a partire dagli anni ’60 (forse prima, sebbene in forma latente); tendenze che, ad esempio, trovano la loro massima manifestazione nel cosiddetto TURPILOQUIO.
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L’espressione «canzonettese» è presa da G. Cartago, La lingua della canzone, cit., p. 209 inteso come lingua dotata di individualità rubricabili sotto formule largamente ricorsive. 34 E. E. Abbadessa, La canzone italiana nel Ventennio fascista tra “mammismo” e “superomismo”, http: // www. sidm.it/ sidm/ convegnisidm/ 11 conveabstr. html #top. 35 AAVV, Le canzoni della radio, cit., p. 12. 24
A proposito del «turpiloquio», Anna Infanti parla di una tendenza che «continua a padroneggiare il linguaggio della canzone italiana, portandola verso le derive dell’ordinario, del quotidiano, del colloquiale»37. Secondo Cartago, i testi scritti in funzione del genere musicale rap si fanno «specchio fedele del parlato spontaneo […] con i suoi eccessi»; di un parlato «non curante» che arriva a scavalcare «il confine dell’informalità»38. Non solo il rap di una minoranza di fruitori, ma anche la musica commerciale di più ampio consumo possiede ormai una «naturale amalgama di registro colloquiale […] picchiettato di elementi paragergali giovanili confinanti a volte con il turpiloquio», ci fa notare Della Corte39. Questo processo di volgarizzazione della lingua cantata italiana risponde a delle logiche linguistiche di «desublimazione della cultura», per usare un’espressione che Herbert Marcuse adoperò negli anni Sessanta, inizio anni Settanta: periodo in cui questo fenomeno si stava manifestando anche sulla scena musicale40. La lingua della canzone italiana si sarebbe quindi rinnovata rispetto al Ventennio nell’arco di 2 o 3 decenni dopo la fine del fascismo. Non entreremo nello specifico del problema della desublimazione linguistica della cultura (ovvero, del turpiloquio). E’ utile però accennarne per capire come un’analisi sociolinguistica della lingua cantata non possa guardare appassionatamente solo al 25 aprile per individuare delle forme culturali di insurrezione linguistica. Forse perché la Liberazione non scandisce il momento di maggiore e incondizionata trasformazione della società italiana, quanto meno dal punto di vista del modo di cantare; o forse perché dall’8 settembre 1943 l’Italia ha iniziato non proprio una rivoluzione, quanto piuttosto un’inesorabile evoluzione che prende forma già negli anni Cinquanta e aspetta il «Sessantotto» per mettere in scena una rivoluzione culturale sostanzialmente già in atto da anni (continuando tra l’altro a parlare di «antifascismo»). 36
C. Vedovati, Non solo canzonette, si può leggere anche nella versione on line http: // www. ilmanifesto. It/25 aprile/09_25Aprile/ 9509rs28.01.htm 37 A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 148. 38 G. Cartago, La lingua della canzone, cit., pp. 210-212. 39 F. Della Corte, Note sulla canzone italiana, cit., p. 30, p. 26; A. Infanti, La lingua della canzone, cit., p. 149. 40 Si veda ad esempio di H. Marcuse Controrivoluzione e rivolta, traduzione italiana di Silvia Giacomoni, Milano, Mondadori, 1973. 25
Comunque sia, il problema non è capire se la canzone italiana dopo la Liberazione abbia o meno rotto con il Ventennio. Usando una metafora politica, potremmo dire in altre parole, che il problema non è capire se la canzone offra o meno la possibilità di un antifascismo linguistico, ovvero la possibilità di una tendenza a non cantare più allo stesso modo rispetto a quando si indossavano le camicie nere. Il problema che noi ci poniamo in questa sede è un altro. Non è di carattere ideologico, ma sociolinguistico. Da questo punto di vista diventa rilevante capire cosa, assieme alla lingua delle canzoni (il “canzonettese”), colleghi la società attuale a quella del Ventennio. E’ quanto ci proponiamo di esaminare nel secondo capitolo.
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- Cap. II La canzone italiana e l’avvento della società di massa nell’Italia degli anni Trenta – Quaranta
II, 1 - La formazione di un linguaggio nazionale: Le origini della nostra canzone vengono fatte risalire abitualmente al primo Novecento, quando gli autori della canzone napoletana iniziarono a scrivere in lingua: sono del 1906 La spagnola di Vincenzo Di Chiara, del 1912 Fili d’oro di Capurro e Buongiovanni, del 1913 Amor di pastorello di Bovio e Nutile, del 1917 Chi siete di De Filippis e Cosentino, del 1918 Come pioveva di Armando Gill, Come le rose di Genise e Lama e Cara piccina di Bovio e Lama, del 1919 Le rose rosse e Vipera di E. A. Mario. Ma è un periodo che, più che alla storia, sembra appartenere alla preistoria della canzone italiana, poiché lo stile linguistico elegante e ricercato aveva come obiettivo un pubblico limitato di estrazione borghese e cittadino. Siamo lontani dalla canzone propriamente italiana, ovvero di tutti gli italiani. Negli anni Venti la situazione non sembra cambiata. Abbiamo canzoni come Scettico blu (De Filippis – Rulli, 1920) Gastone (famosa parodia del viveur dannunziano di Petrolini, 1921) Addio tabarin (Borella – Rulli, 1922), Come una coppa di champagne (Borella – Rampoldi, 1926). Petrolini è l’esempio più chiaro di come, per la canzone, si faccia uso di un linguaggio ricercato, non privo di acrobazie linguistiche caratterizzate da scioglilingua e da una sofisticata interpretazione. Non è questo il luogo adatto per svolgere un’analisi accurata della lingua cantata prima della seconda metà degli anni Venti. E’ tuttavia utile fare alcune considerazioni e quindi fissare alcuni punti particolarmente interessanti nell’economia del nostro discorso. E’ utile, ad esempio, 27
rimarcare come, in un primo momento, alla lingua della canzone manchino del tutto i mezzi di diffusione, fatta eccezione dei pianini ambulanti, se tali possono ritenersi. La diffusione della lingua cantata è per altro affidata alle case discografiche (in fieri) che, tuttavia propongono un prodotto di lusso e quindi riservato a pochi. Ancora nella prima metà degli anni Venti la canzone italiana non solamente è ad uso e consumo della ristretta borghesia cittadina, ma dimostra anche di essere fortemente legata ai confini regionali. A Claudio Vedovati, il panorama musicale italiano appare «segmentato socialmente e regionalmente». Le canzoni si legano all’identità culturale dei centri urbani, tant’è che diventa difficile pensare ad interpreti quali Petrolini, Gill o Spadaro fuori dalle loro città d’elezione41. Petrolini esalta in modo estroso la tradizione romanesca, cosi come altri si legano a quella genovese, milanese, torinese, bolognese mai uscite dal ristretto ambito d’origine e prive in sostanza di una vera continuità. In questo senso è corretto dire che le «canzoni degli italiani», di tutti gli italiani42 non avevano ancora fatto la loro comparsa. In altri termini e da un altro punto di vista possiamo anche dire che la lingua italiana non aveva ancora trovato nella canzone uno strumento di diffusione e di unificazione nazionale. Una breve riflessione sulla cosiddetta musica folkloristica non fa che confermarci quanto detto sopra e, anzi, offre nuovi argomenti. Con una certa banalità, ma con tutta esattezza si può dire che i canti popolari sono così legati ai dialetti da avere una diffusione esclusivamente locale. Inoltre, l’urbanizzazione provoca una divisione tra ambiente cittadino e ambiente rurale; una divisione che non manca di avere ripercussioni anche sul piano della lingua cantata, nella misura in cui i canti popolari trovano nuovi limiti sociali e culturali di fronte al centro cittadino. Canti e canzoni si separano tra ambiente rurale e ambiente urbano svolgendo tra l’altro funzioni sostanzialmente diverse, dato che la musica folkloristica mantiene una funzione prevalentemente
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C. Vedovati, Non solo canzonette, si può leggere anche nella versione on line http: // www. ilmanifesto. It/25 aprile/09_25Aprile/ 9509rs28.01.htm. 42 AAVV, Le canzoni della radio. I più grandi successi italiani degli anni ’30 e ’40, a cura della redazione del Reader’s digest, s.l., 1980, p. 4, il paragrafo Le canzoni degli italiani. 28
religiosa che pone un altro limite separando il sacro dal profano. La lingua veicolata dalla canzone (in senso largo) risente di queste divisioni sociali e culturali. Da un altro punto di vista va rilevato come i canti popolari seguano tutt’altre dinamiche rispetto a quelle seguite dalla canzone cittadina veicolata dal disco fonografico. Mentre in questo caso la lingua dei singoli interpreti rimane “incisa” e difficilmente diventa un canto popolare (o come si dice: un “motivo popolare”), quella usata nei canti popolari è invece una lingua orale (che mai si cristallizza), è ingovernabile perché priva di singoli autori e affidata alla tradizione. La canzone non è ancora uno strumento di governo perché non crea alcun circuito linguistico di comunicazione sul piano nazionale. Sotto certi punti di vista l’opera lirica fa eccezione, nella misura in cui (ad esempio) la morte di Giuseppe Verdi, nel 1901, fu sentita come un lutto nazionale. Tuttavia, nonostante il respiro risorgimentale di questa lirica, l’opera non si dimostra altrettanto a favore dell’unità nazionale dal punto di vista linguistico, poiché produsse un linguaggio per dei teatri che ancora non accoglievano (e che forse mai avrebbero accolto e rappresentato) solidalmente l’intera società. Dalla morte di Verdi mancavano ancora meno di Trent’anni perché in Italia facessero la loro comparsa degli strumenti più capaci dei teatri a veicolare sul piano nazionale la lingua cantata. Dobbiamo a questo punto datare con maggiore precisione il momento in cui l’Italia si munisce di mezzi di unificazione musicale. L’attenzione va spostata verso il problema dell’avvento della radiotrasmissioni nazionali, ovvero degli strumenti di diffusione di massa quali la radio e, poco successivamente, la cinematografia. Sembra quindi che per fare la storia della lingua italiana sia necessario conoscere la storia della radio, poiché le vicende della radio ci consentono di individuare e mettere a fuoco alcune dinamiche e modalità degli strumenti che misero in circolazione la voce dei cantanti e i loro linguaggi.
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II, 2 - Sviluppo degli organi di informazione di massa : La data di nascita ufficiale della radio in Italia è il 1924 quando a Roma una stazione gestita dalla Unione Radiofonica Italiana (URI) inizia le sue trasmissioni regolari, in base ad una concessione governativa. L’URI formata dal gruppo Marconi (azionista di maggioranza) e dalla SIRAC (Società Italiana Radio Audizioni Circolari) aveva come principale obiettivo quello di assicurare il mercato degli apparecchi radioriceventi prodotti dalla Western Electric. Si arriva così alla convenzione del 27 novembre 1924, quando lo Stato concedeva all’URI l’esclusiva delle trasmissioni per la durata di 6 anni: nasce il monopolio radiofonico italiano. E’ interessante notare, a questo punto, come la concessione all’URI sia preceduta, nel febbraio 1923, da una prima regolamentazione delle comunicazioni senza filo che stabilisce i poteri di controllo da parte del Ministero delle Poste (poi, Ministero delle Comunicazioni). Un esempio di queste norme è dato dalla facoltà governativa di imporre il licenziamento o di vietare l’assunzione del personale da impiegarsi in tale servizio, per motivi di pubblica sicurezza. L’alto costo degli impianti di trasmissioni degli apparecchi riceventi e del canone d’abbonamento richiesto agli ascoltatori rallentò tuttavia notevolmente il processo di diffusione nazionale della radio e attraverso la radio. Radio Milano cominciò a trasmettere nel 1925, Radio Napoli solo nel 1926 e lentamente nel 1928 entrarono in funzione le stazioni di Torino e Bolzano. In quell’anno si contavano in Italia poco più di 60.000 abbonati contro i milioni di radioascoltatori di Inghilterra e Germania; e ciò nonostante l’inventore della radio fosse un italiano, Guglielmo Marconi. Fu sotto Mussolini che il Governo attuò una serie di provvedimenti a favore dello sviluppo dei mezzi di diffusione di massa. Insieme alla radio, l’Italia vede sorgere nel 1925 l’Istituto LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa) impiegata dal governo in funzione di propaganda. Già dall’anno successivo la proiezione dei suoi cinegiornali è resa obbligatoria per tutte le sale cinematografiche. Nel gennaio del 1927 viene istituita una commissione di controllo della situazione generale della radiofonia. In base ai suggerimenti di questa commissione, tra la fine 30
del 1927 e l’inizio del 1928, l’URI si trasforma nell’Ente (privato) Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR), a cui lo Stato concede il monopolio per 25 anni. Anche qui, è opportuno rilevare alcuni dati circa la tendenza programmatica del governo a controllare la radio. Presso il Ministero delle Comunicazioni, ad esempio, viene istituito un Comitato superiore per la vigilanza sulle radiodiffusioni composto da 4 membri di nomina governativa, tra cui Arnaldo Mussolini che ne diviene il vice-presidente. Il canone dell’abbonamento è intanto ridotto da 96 a 75 lire e scuole, ospedali e istituti di cultura ne sono esentati. Nel 1930 vengono inaugurate due nuove e più potenti stazioni a Roma, cui fanno seguito nel 1931 quelle di Palermo e di Trieste, nel 1932 quelle di Bari e di Firenze e, nel 1933, le seconde stazioni di Milano e di Torino. Ciò è reso possibile grazie alle direttive del governo sull’incremento della diffusione radiofonica, che sotto forma di sgravi fiscali concedevano all’EIAR i finanziamenti necessari allo sviluppo degli impianti. Tra il 1931 e il 1933 il controllo di maggioranza delle azioni dell’Ente IAR passa alla SIP, società a sua volta controllata dall’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) appena creato dal governo per intervenire nei vari settori economici. Sempre nel 1933, con la legge del 15 giugno n. 791, viene creato l’Ente Radio Rurale (ERR) «al fine di contribuire alla elevazione morale e culturale della popolazione rurale». Nel 1934 l’ERR passa sotto il diretto controllo del PNF mentre, in quello stesso anno, si sopprimeva il Comitato di Vigilanza dell’EIAR con un decreto legge (3 dicembre, n. 1981) per sostituirlo con una commissione di controllo più ristretta che includeva un rappresentante del Sottosegretariato per la Stampa e Propaganda, ufficio diretto da Galeazzo Ciano e trasformatosi nel 1935 in vero e proprio Ministero (poi Ministero della Cultura Popolare). Il momento di massimo controllo delle trasmissioni radiofoniche coincide con il momento di massimo sviluppo dell’EIAR che, proprio nel 1935, riesce ad avere 530.000 abbonati (a fronte dei 60.000 mantenuti fino alla soglia del 1933, mentre già nel 1934 gli abbonati erano passati da 328.000 a 440.000), quando la maggior parte delle radio si trovavano 31
in luoghi pubblici. Nel 1935 l’Istituto LUCE dà vita all’ente Nazionale Industrie Cinematografiche. Nasce l’idea di un complesso industriale per la lavorazione dei film, “Cinecittà” edificato tra il 1936 ed il 1937 come Ente di Stato, che Mussolini inaugura nel “Natale di Roma” del ’37. Nell’ambiente cinematografico intanto circolano i motti di regime quali: «la cinematografia è l’arma più forte»43; e il numero degli abbonati della EIAR non fa che crescere: dal 1936 al 1937 passano da 697.000 a 825.000, per superare finalmente nel 1938 la cifra di un milione (i due milioni verranno superati, nonostante la guerra, nel 1942).
Abbiamo così tracciato alcune tappe che descrivono la formazione e lo sviluppo dei mezzi attraverso i quali la canzone viene veicolata in tutta Italia, ovvero attraverso la radio e il cinema; non quindi attraverso il disco fonografico. Non esiste ancora una vera e propria industria del disco, sebbene nel 1933 nasca la prima casa discografica pubblica, la «Cetra» controllata dal gruppo SIP – EIAR. Il mercato dei dischi dava ancora dei guadagni relativi e condizionati al successo ottenuto dalle canzoni alla radio e al cinema. Primeggiava quindi il circuito cinema radio. Il cinema, dal canto suo, prendeva in prestito dalla radio cantanti e canzoni e, a sua volta, dava attori alla radio. Si pensi al filone cinematografico (cosiddetto:) dei “telefoni bianchi” e, per fare un esempio, a Parlami d’amore Mariù, cantata da Vittorio De Sica (tante volte citata nel capitolo precedente), tratta dal film Gli uomini che mascalzoni (1932)44. Ma prima ancora di discutere sul primato della radio nei confronti degli altri mezzi di diffusione (problema sul quale avremo modo di tornare nel capitolo successivo), dobbiamo
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Per una ricostruzione più dettagliata, si veda di F. Montenapoleone, Storia della radio e della televisione in Italia: storia, politica, strategie, programmi 1922-1992, Venezia 1992; AAVV, Cento anni di radio, da Marconi al futuro delle comunicazioni, catalogo a cura di Maria Grazia Janniello, Franco Monteleone, Giovanni Paoloni, Venezia, Marsilio, 1995. Nonché: A. Papa, Storia politica della radio in Italia, Napoli, Guida, 1978. 44 Altri esempi: Tu solamente tu di Tina Silenzi tratta dalla commedia diretta da Amleto Palmieri Napoli che non muore (1939), Mille lire al mese di Gilberto Mazzi, dal film omonimo del 1939, Non sei più la mia bambina di Delia Lodi tratta da Nonna Felicità diretto nel 1938 da Mario Mattoli, Tu, musica divina di Alberto Rabagliati tratta da La scuola dei timidi (1941), La canzone dell’usignolo di Lilia Silvi da Il diavolo in collegio 1943, ecc. Allo stesso tempo il cinema scelse come protagonisti di una serie di film alcuni fotogenici baritoni e tenori: Tito Schipa in Tre uomini in frack (1932), Vivere (1937), Chi è più felice di me (1938); oppure Beniamino Gigli in Non ti scordar di me (1935), Mamma (1940) e Vertigine (1941), ecc. con questa duplice veste di attore e cantante possiamo ancora ricordare i nomi Giuseppe Lugo, Ferruccio Tagliavini, Gino Bechi, ecc. 32
discutere sul modo in cui i mezzi di comunicazione di massa furono adoperati nel Ventennio. Possiamo allora rispondere in due modi e quindi fare due considerazioni. La prima considerazione ci consentirà di concludere il discorso iniziato nel precedente paragrafo, l’altra di iniziarne uno nuovo che ci impegnerà nella seconda metà di questa tesi. La prima considerazione è che la radio è servita ad accelerare il processo di italianizzazione della lingua cantata. Secondo Vedovati: «Attraverso la radio e le canzoni [trasmesse] passa anche l’unificazione linguistica del paese, con funzioni antiregionali. E’ un’operazione di ingegneria linguistica e sociale, che attraverso un mezzo immateriale scioglie i legami locali e li ricompone dall’altro»45. La radio è lo strumento che rese la canzone un «elemento non trascurabile nel processo di italianizzazione» (per usare un’espressione G. Cartago)46, in quanto la lingua della canzone si è italianizzata in funzione di una trasmissione a “radio unificate”. La seconda considerazione è che la radio senza la gestione fascista non si sarebbe sviluppata pienamente come strumento di diffusione e di unificazione nazionale. In effetti fu il fascismo a promuovere la radio come mezzo di controllo delle masse, utile per ottenere il consenso popolare in tutta Italia. Di conseguenza, proprio nel Ventennio, le canzoni trovano il contesto politico (e tecnologico) idoneo per diventare canzoni popolari, canzoni italiane in corrispondenza all’«avvento delle società di massa», come dice Vedovati47. Questa seconda questione non è semplice come sembra, quanto meno se posta in relazione al problema a cui ci interessiamo in questa sede, ovvero il problema della canzone. Se indubbiamente durante il Ventennio si fece un uso politicizzato dei mezzi di comunicazione di massa (come possiamo constatare dalla cronologia appena tracciata), resta tuttavia ancora da capire se e in che misura la canzone abbia effettivamente partecipato alla ricerca radiofonica del consenso popolare; e con quale preciso ruolo. Bisogna a questo punto verificare in quali termini
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C. Vedovati, Non solo canzonette, cit. G. Cartago, La lingua della canzone, in I. Bonomi, A. Masini, S. Morgana (a cura di), La lingua italiana e i mass media, Roma, Carocci, 2003, p. 199. 46
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la canzone abbia svolto un ruolo in questa politica culturale di sviluppo della radio per una conquista sociale delle masse. Risponderemo a questa seconda questione in termini socio – linguistici, considerando sia la retorica usata nei testi delle canzoni, sia i vari registri tematici adoperati e strumentalizzati. Ce ne occuperemo minuziosamente nel capitolo successivo (cap. III). Ma prima di ciò, vogliamo fare un breve preambolo. Non ci proponiamo di dare solo una risposta socio-linguistica a un problema storico (l’organizzazione del consenso). Vogliamo anche, prima di ciò, tradurre il problema stesso in termini socio-linguistici. Senza dilungarci (poiché l’argomento della tesi è la lingua della canzone) ci sembra tuttavia coerente offrire questo breve preambolo all’interno di un lavoro che vuole pienamente rispondere alla disciplina alla quale si propone. La questione dell’«organizzazione del consenso» attraverso la radio può anche essere tradotta da un punto di vista socio – linguistico se si considerano i modi in cui nel Ventennio si parlava della radio. Lo scopo è quello di analizzare i termini con i quali si dava significato alle radiotrasmissioni.
II, 3 - Le canzoni italiane e i mass – media, ovvero: la radio che «canta per voi»: Raoul Chiodelli, direttore generale dell’EIAR, diceva nel 1939 che la radio aveva trasformato «tutto il paese in un colossale arengo»48. Già dieci anni prima, nel 1929, si usa l’espressione di «coscienza radiofonica» in un articolo pubblicato tra le pagine dell’«Annuario dell’EIAR»49; mentre in altre pagine, del 1931, si parla della radio come «luogo di incontro» totale, posto tra «il focolare domestico» e la «piazza elettrica»50. Il linguaggio e l’immaginario della propaganda relativo alle radiotrasmissioni assume una forma tale da influenzare persino la letteratura degli scrittori degli anni ’60 come Carlo Emilio Gadda, secondo il quale il fascismo si sarebbe sostenuto grazie ad una radio che si proponeva
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C. Vedovati, Non solo canzonette, cit. R. Chiodelli, discorso pubblicato nell’«Annuario» dell’EIAR del 1939, pubblicato nel 1940 a Torino. 49 EIAR, «Annuario 1929», Torino 1930, p. 35. 48
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come «mezzo di conquista [..] strumento di regno»51. In modo simile, Aldo Palazzeschi trova nell’immagine di una comunicazione radiofonica autoritaria, pubblica (gli «altoparlanti») i termini allegorici dell’Italia fascista52. Lo studio condotto da Paolo Giovannetti sulla retorica della radio, risente di questa terminologia, tanto da indurlo a parlare di «socializzazione radiofonica» sulla base di alcuni documenti dell’Italia degli anni Trenta, relativi alle canzoni radiotrasmesse di Tito Schipa53. Non solo l’«Annuario dell’EIAR», ma anche la pubblicazione periodica del «Radiocorriere» offre dei documenti interessanti per individuare il modo in cui, nel Ventennio, si parlava non soltanto genericamente della radio, ma precisamente del ruolo delle canzoni nei processi radiofonici di socializzazione. Citiamo un brano particolarmente stringente di un articolo pubblicato in un fascicolo del 1932:
La voce – si legge nell’articolo di «Radiocorriere» sul tema de La radio nel mondo – che esce dall’altoparlante unisce in un unico collegamento ideale tutti quelli che la odono. Poveri e ricchi, abitanti della città e della campagna, persone istruite o incolte, tutti si lasciano vincere infatti in quel momento dal fascino della stessa parola, trasportare dalla melodia della stessa musica 54.
Abbiamo sottolineato alcune parole significative. Il lessico al quale esse appartengono rientra nel registro medico della psicopatologia; nello specifico, appartengono al linguaggio generico adoperato per parlare di fenomeni di suggestione alienante suscitati dalla parola melodica. L’articolo di «Radiocorriere» parla (oltre che di unificazione sociale), appunto, di «fascino della stessa parola» melodica dal quale ci si «lascia vincere» e «trasportare». Facciamo altri esempi.
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EIAR, «Annuario 1931», Torino 1932, p. 124. C. E. Gadda, Eros e Priapo (Da furore a cenere) [1967], in Saggi giovanili, favole e altri scritti, vol. II, Milano, Garzanti, 1992, pp. 356-357. 52 A. Palazzeschi, Il Doge [1967], Milano, SE, 1994, p. 131. 53 P. Giovannetti, Retorica dei media : elettrico, elettronico, digitale nella letteratura italiana, Milano : Unicopli, 2004, p. 115. 54 E. Legato, La radio e il mondo, in «Radiocorriere», 7 – 14 marzo 1932, p. 8. 51
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Il 18 dicembre 1936, il giornalista-scrittore Delio Tessa raccontava l’estasi ambientale determinata dalla voce radiotrasmessa dal tenore Tito Schipa, grande interprete della canzone italiana del Ventennio:
…un altoparlante trasmette il programma Radio – pomeriggio. Sul marciapiede c’è gente ferma in ascolto. Dentro, nell’atrio del negozio ove la trasmissione si effettua, c’è folla. Il canto non sembra venire da nessun punto in particolare. E’ nell’aria. Chi è qui, ci vive in mezzo 55.
Nel testo dedicato al tenore Tito Schipa ricorrono espressioni che insistono a tradurre la canzone radiotrasmessa con il linguaggio della fascinazione e della trance: «facce estatiche!», «malìa del canto», «veli di un sogno»56. Abbiamo tenuto per ultimo il documento più significativo del modo di parlare della canzone italiana trasmessa alla radio; da questo abbiamo preso l’espressione per sottotitolare il presente paragrafo («la radio canta per voi»). Si tratta di un discorso pronunciato da Alessandro Pavolini nel 1942, a quei tempi Ministro della Cultura Popolare. Ritroviamo la stessa terminologia che ci riporta al registro generico psicologico dell’alienazione. Ne riportiamo un brano:
La radio – diceva Pavolini – vi fa da giornale quotidiano; vi dà il Bollettino, che è la cosa più importante della giornata … vi fa da posta, portando a vostra moglie le vostre notizie e dando a voi le sue; e se non avete moglie, la radio vi sposa, la radio canta per voi, se siete stanchi, e insegna ai vostri figli lontani le canzoni vostre.. 57
55
D. Tessa, Canta Schipa [1936], in Ore di città, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi, 1988, pp. 25-26. Ibidem. 57 A. Pavolini, discorso tratto da una trasmissione di «Radio del combattente», inizi del 1942 trascritto in AAVV, Le canzoni della radio, cit., p. 3., corsivo nostro. 56
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Si induce il fruitore a pensare alla radio con delle parole che impongono (o quanto meno propongono) alla coscienza l’idea di un’irresistibile fascinazione, per cui l’ascoltatore perde la propria individualità nella dimensione radiofonica; i limiti tra l’«io» e la radio diventano labili. Il discorso di Pavolini sottintende aspetti che ripropongono il tema della “invasione mentale” su cui si sofferma anche P. Giovannetti quando parla del primo uso e della prima raffigurazione della radio58. A questo proposito Giovannetti prende sul serio il gioco di parole (mass - )media / medium, inteso come stato di trance e di possessione spiritica. Questo gioco di significati si può ulteriormente apprezzare facendo riferimento ad un altro documento d’epoca. Si tratta questa volta di una lettera scritta dal poeta Clemente Rebora nel 1926, appena due anni dopo l’inizio dell’EIAR (inizialmente URI). La lettera usa il lessico della radio: le «onde radiotelegrafiche» come simbolo esistenziale di comunicazione e usa, pertanto, la metafora di una «radio dei cuori» da impiantare59, così come si impianterebbe nei cuori una radio come mezzo di comunicazione esistenziale. Non si tratta qui di una possessione spiritica, ma di qualcosa di simile, ovvero di una radio che prende biologicamente possesso dell’uomo, sostituendosi all’organo vitale del cuore. Non è qui il luogo per entrare nello specifico della poetica di Rebora. Basta fermarci a quanto abbiamo finora rilevato per completare il discorso che stiamo conducendo. Cioè, tanto basta per capire che se da una parte si usò il linguaggio generico della psicopatologia dell’alienazione per descrivere gli effetti della canzone radiotrasmessa (Legato, Tessa, Pavolini..), d’altra parte si usò il lessico della radio per parlare di una capacità esistenziale straordinariamente efficace di trasmettere e comunicare con gli altri. E’ un circolo linguistico che si tiene e che si svolge durante il Ventennio. Questo rende bene i termini della questione, ovvero rende con il linguaggio degli anni Venti – Quaranta il problema del processo di conquista delle
58
P. Giovanetti, Retorica dei media, cit., pp. 115 – 118, nel paragrafo: In una trafila suggestiva. C. Rebora, Lettere. Vol. I (1893 – 1930), a cura di M. Marchione, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1976, p. 504 e p. 501. 59
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masse attraverso la radio e, per quel che più ci interessa, attraverso le canzoni trasmesse intese nel loro aspetto, “suggestivo”, “affascinante”, “alienante”. Vedremo nel successivo capitolo in che forma e con quali effetti le canzoni hanno modificato la «coscienza radiofonica» (per riprendere un’espressione dell’«Annuario dell’EIAR») attraverso l’elaborazione di un linguaggio melodico dal quale ci si sarebbe lasciati vincere.
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Cap. III L’organizzazione canora del consenso
III, 1 - Il problema socio – linguistico della conquista del consenso politico: Nel 1939 l'EIAR (di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel precedente capitolo) indice un referendum tra i suoi 1.200.000 abbonati al fine di accertarsi dei gusti e delle preferenze degli radioascoltatori. Oltre 900.000 abbonati rispondono al questionario, forse motivati anche da un previsto sorteggio di premi (100.000 lire in Buoni del Tesoro al primo estratto). Il sorteggio ha luogo a Torino il 10 giugno 1940, lo stesso giorno in cui a Roma, Mussolini annuncia l'entrata in guerra dell'Italia. Una volta elaborati i dati raccolti si appura che, se il pubblico radiofonico preferisce il «Giornale Radio» (con 95% di indice di gradimento), subito al secondo posto, dimostra di apprezzare i programmi di varietà e di selezioni di canzoni, che registrano l’87-88 % di ascolto. Le interviste e i discorsi di carattere politico – giornalistico, invece, ottengono solo 45 % di gradimento. Ne tiene conto il Ministero della Cultura Popolare, che si impegna a favorire, ma anche a controllare la produzione di canzoni propagandistiche, in occasione dell’imminente sforzo bellico. Viene costituito un apposito organo tecnico, presieduto dal Maestro Giordano, accademico d'Italia. L'EIAR si occupa di selezionare canzoni e, quindi, istituisce un’apposita rubrica quotidiana, intitolata ''Canzoni del tempo di guerra''. L'editore Campi di Foligno ne pubblica una raccolta a stampa dallo stesso titolo che ottiene un notevole successo, tanto da richiedere tre ristampe, per un totale di 500.000 copie prodotte. Alcune di queste canzoni, come Caro papà, La canzone dei sommergibili o La sagra di Giarabub (che adesso andremo ad esaminare) ottengono rapidamente una grande popolarità. 39
Il fascismo sarebbe una vera e propria «fabbrica del consenso», una tirannia, ma non tanto dei ‘corpi’, quanto piuttosto delle ‘anime’. Oltre al «manganello» e all’«olio di ricino», il fascismo avrebbe adoperato anche strumenti di obbedienza non coatta. Questa «fabbrica» è stata attentamente riesaminata dagli storici, soprattutto a partire dagli anni ’60. Oggi, la ricerca vanta numerosi e innovativi studi sulla politica culturale del Ventennio, tra i quali ricorre il tema dell’«organizzazione degli intellettuali», ampio e fruttuoso problema storiografico del ’900 italiano. Si pensi alle tesi di Renzo de Felice sui meccanismi di conquista del potere basati sull’organizzazione del consenso (tra il 1929 ed il 1936)60. Si prenda in considerazione gli studi di Gabriele Turi sulla Enciclopedia Italiana Treccani, diretta da Giovanni Gentile: documento interessante per illustrare Il fascismo e il consenso degli intellettuali61. Ora, se il problema del consenso intellettuale (quindi non coatto) è stato ampiamente trattato, fino ad accertare il ruolo avuto dai filosofi, dagli storici, dagli scrittori, ecc.. tuttavia, i cantanti non sembrano aver meritato la stessa attenzione storiografica. A fronte di ricerche come quelle di Emanuela Ersilia Abbadessa La canzone italiana nel Ventennio fascista tra “mammismo e “superomismo” (di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel capitolo precedente e di cui riparleremo), troviamo studi che ricostruiscono la scena culturale fascista, trascurando del tutto la canzone italiana. Un esempio recente è rappresentato dal libro di successo di Mirella Serri I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938 – 1948, Milano 2005, pubblicato in una collana editoriale diretta da Sergio Romano. Proponiamo allora di orientare la problematica storiografica dell’organizzazione degli intellettuali verso il settore della canzone italiana, in una prospettiva socio-linguistica. Da questa prospettiva, avremo modo di accertare se e in che misura la lingua della canzone sia uno strumento della nuova dittatura, ovvero di una tirannia che si esercita non sui corpi dei sudditi,
60
R. De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere 1921 – 1925, Torino, Einaudi, 1966, ed anche dello stesso autore i volumi successivi della biografia mussoliniana, in particolare: Il duce I. Gli anni del consenso (1929 – 1936). 61 G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980; oppure il più recente Il ecenate, il filosofo e il gesuita. L’enciclopedia della nazione, Bologna, Il Mulino, 2002. 40
ma attraverso le radio degli ascoltatori. Questa scelta interdisciplinare ci consentirà di cogliere i meccanismi linguistici che stanno alla base dell’organizzazione canora del consenso.
III, 2 - Le canzoni di regime: a)
Il lessico latino: attualizzazione e de – storificazione:
Iniziamo ad esaminare le canzoni di regime e, nello specifico, la ricorrente divisione che si usa fare tra diversi “filoni”: le canzoni – inno, le canzoni di guerra e le canzoni coloniali. Non si tratta, tuttavia, di una distinzione sostanziale. Sembrano piuttosto solo tre indirizzi dati alla canzone di propaganda orientata innanzitutto a celebrare il governo, poi a motivare i corpi militari durante sia la seconda guerra mondiale, sia la guerra di conquista prevalentemente dell’Etiopia (1935- 1936) per la fondazione dell’Impero italiano. Per lo più, i tre filoni che compongono il genere della canzone di regime si distinguono dal punto di vista del lessico, nella misura in cui le canzoni coloniali assorbono il vocabolario della geografia fisica delle nuove terre. E’ così, ad esempio, che si parla di «duna» e di «palmeto» ne La sagra di Giarabub, canzone dedicata all’oasi Al Jaghbub della Libia nord orientale. La canzone aveva fatto da colonna sonora alla difesa italiana dagli attacchi delle truppe inglesi tra il 1940 ed il 1941. Altrimenti, in Vado in Abissinia, si fa rimare «fior» con «Equator». Al contrario Inno a Roma parla del «Campidoglio», del «colle», ecc.. Non sono tuttavia queste banali distinzioni lessicali che ci lasciano cogliere i meccanismi più caratteristici della lingua della canzone fascista, quanto piuttosto la scelta che in quelle canzone si fa di un lessico latino. Inno a Roma fa riferimento al concetto latino di pace: «la pace del mondo oggi è latina». In questo punto, il testo ammicca al culto della Pax romana istituito da Augusto, primo imperatore, per celebrare tanto la raggiunta pacificazione dell’impero quanto, allo stesso tempo, il dominio di Roma sul mondo. A sua volta, la canzone coloniale italiana più celebre, Faccetta Nera, non manca di parlare di Roma: «ti porteremo a Roma, liberata», «Faccetta nera, sarai 41
Romana». Non si trattava ovviamente di portare tutti gli abissini a Roma. Qui non ci si riferisce ad una Roma fisica, ma ad una Roma ideologica. Si intende la Roma così come era stata concepita dai latini, cioè la Roma come «Grande città» - civitas di cui tutti (nonostante le proprie connotazioni genetiche, etniche, ecc.) potevano diventare «cittadini», ovunque si trovassero nel mondo. Da Roma all’impero (con il concetto di pace latina) e dalla conquista di un impero si torna a Roma (con il concetto latino di cittadinanza e di civilizzazione). Da questo punto di vista, il lessico latino impedisce di distinguere il genere di canzone coloniale dal genere di canzone di celebrazione nazionale, nella misura in cui non solo la Roma civitas (Grande città) avrebbe una vocazione ecumenica, ma l’idea stessa di un mondo unificato troverebbe il suo punto di riferimento a Roma. Ma cosa comporta questo meccanismo linguistico di riattualizzazione della Roma imperiale e, più in generale, del mondo latino?
Nei diversi generi della canzone di regime, la lingua usata si intona al periodo storico in cui viene cantata. Inno a Roma, ad esempio, rielabora il Carmen saeculare di una delle Odi del poeta Quinto Orazio Flacco, grazie alla musica composta da Giacomo Puccini, 21 secoli dopo Orazio e tre anni prima dell'avvento del Fascismo. La retorica fascista si sarebbe così impossessata di quell’inno, sebbene con un testo rinnovato da Fausto Salvatori che si ispira alle parole di Orazio62. Il testo - notevolmente modificato rispetto a quanto il poeta di Venosa aveva scritto - aggiorna la «pace latina» rispetto al nuovo periodo storico contrassegnato dal «tricolore» che sventola «sul cantiere, su l’officina», di cui si parla subito dopo nel testo della canzone. E’ il cosiddetto fenomeno di «aggiornamento» di cui abbiamo parlato nel cap. II. L’aggiornamento del lessico consente di rendere attuale un canto antico. Un testo può così attraversare secoli di storia è rimanere in sintonia con la società che ancora lo canta o lo legge. In questo senso, l’Inno a Roma è lo strumento linguistico di una specie di rito dell’eterno ritorno alla (e della) Roma latina, ma nelle condizioni dell’esistenza attuale. Non usiamo
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http://www.alalba.it/Letteratura-Latina-Orazio-Tito-Livio.htm. 42
l’espressione «eterno ritorno» a caso, ma in riferimento agli studi sul pensiero mitologico svolti da Mircea Eliade63. Questi studi offrono un’utile chiave di lettura per capire anche quanto accade nel linguaggio dell’Inno della X° flottiglia MAS. L’Inno della X° flottiglia MAS è il canto di uno dei corpi militari organizzati della Repubblica Sociale Italiana, guidato da Valerio Borghese. Anche qui, il lessico latino porta con sé frammenti della Roma arcaica e li ripropone nel 1943, in corrispondenza dell’«ignobile otto di settembre», quando si «abbandonò la patria al traditore». La X° Mas canta la canzone della «decima legione», che già «sorse invitta» per liberare la patria ai tempi della Roma arcaica invasa dai barbari, «quando pareva vinta Roma antica». Il lessico latino offre uno strumento operativo che padroneggia la narrazione, costituendo degli stabili registri della “Roma vittoriosa”. L’Inno della X° MAS denuncia il desiderio di vivere in eterno in un modello ideale (Roma), che non faccia portare il peso storico dell’armistizio nella sua irreversibilità. Il lessico latino instaura un regime protetto di esistenza, in base al quale si sta nella storia come se non ci si stesse, come se si fosse ancora ai tempi delle «centurie, coorti, legioni» che sono state già vittoriose. L’esercito si muove a «passo romano» (Vincere). Il percorso che porta il fascismo a munirsi di un linguaggio militare è complesso, tanto quanto lo è il processo che lo induce a ricercare nella lingua della canzone una forza armata. La retorica di regime adotta termini latini (sebbene italianizzati), più efficaci dei semplici termini presi in prestito al lessico bellico del Ventennio. Nel testo di una canzone diventata popolare verso la fine del 1943 fra i volontari della RSI, la Marcia delle Legioni, si legge: «dei Cesari il genio e il fato rivivono nel Duce liberator». Non mancano Gli Stornelli e La Preghiera del Legionario, che accompagnano la caduta della Repubblica Sociale. E’ così che la lingua delle canzoni ri-attualizza la Roma arcaica che - mi si conceda la metafora - acquisisce ‘leggerezza storica’, nel senso in cui dicevamo prima che la canzone non fa portare il peso della storia, né dell‘antica Roma idealizzata, né della giovane Italia in cerca di 63
M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno : archetipi e ripetizione, traduzione di Giovanni Cantoni, Roma, 43
ideali. Potremmo anche dire, in altri termini, che la canzone de-storicizza, porta al di fuori della storia attuale e, quindi, dà leggerezza storica. Quanto meno, la lingua della canzone è un veicolo storicamente leggero, tanto da dare delle indicazioni che possono subito dopo essere smentite dalla storia. E’ il caso della popolare Faccetta Nera che usava la metafora della donna abissina italiana («Faccetta nera, sarai Romana»), a soli tre anni di distanza da Il manifesto degli scienziati razzisti e dalle Leggi razziali del 1938. Il regime ha affidato il suo pensiero a dei veicoli tanto veloci a circolare, quanto leggeri a decadere. I testi della canzone di propaganda ne sono un esempio. La lingua della canzone è il supporto più adatto alla dinamicità e ai cambi improvvisi della politica culturale promossa dal governo fascista.
Il lessico di regime non è semplicemente composto da «motti» e da «slogan»; non si limita alla ripetizione cantata dei vari: «Per l'Italia e per il Duce eja, eja, eja, alalà!» (Inno degli Universitari Fascisti; Giovinezza); oppure delle esortazioni: «A Noi», «Me ne frego» (Inno della vecchia guardia). Il testo di Me ne frego dice: « Il motto pregiudicato e schietto / Fu detto da un baldo giovanotto / Fu trovato molto bello se ne fece un ritornello». In realtà il linguaggio della canzone di regime è estremamente più complesso. Abbiamo appena rilevato alcuni riflessi mitologici del processo di de-storificazione linguistico. Per altro, le canzoni di propaganda offrono un esempio di rielaborazione semantica del lessico amoroso.
b) Il lessico melodrammatico: sradicamenti e residui semantici: Nel primo capitolo (2° sotto - capitolo, punto b “Lessico e semantica”, §1) abbiamo già avuto modo di parlare del lessico melodrammatico delle canzoni d’amore. Nei testi interpretati da Vittorio De Sica abbiamo quindi rilevato come si usasse mettere in corrispondenza la parola «cuore» con la parola «amore» che, a sua volta, si trova a fare rima con «fiore», oppure con
Borla, 1999 (prima edizione 1949). 44
«sole», «calore» e simili. Sono tutti topoi dell’amore melodrammatico che trovano in questi raggruppamenti lessicali, un’affinità, rafforzata dalla coesione fonetica prodotta dalla rima. Tuttavia in alcuni casi, il linguaggio della canzone di regime è sottoposto a un lavorìo formale che stravolge le base semantiche dell’amore. E’ un procedimento che attenua e annulla quel «certo tipo» di amore il quale, nei testi delle canzoni, si porta dietro un corrispondente «tipo di rapporto estenuato e idilliaco con la natura» («sole», «fiore»..) 64. Per il regime si praticano invece nuovi abbinamenti lessicali e si propongono altri generi di rapporti, a favore di un nuovo tipo di immaginario amoroso.
Amore / tricolore: Nell’Inno degli Universitari Fascisti «amore» rima con «tricolore»: «Bocche di porpora ridenti, / date amor, date amor, /e noi domani a tutti i venti / daremo il tricolor». Il testo de La canzone dei volontari cantato insolitamente da De Sica, offre un altro esempio di come si formino significative corrispondenze con l’«amore», in rima:
Quando la bella mia m’ha salutato piangendo m’ha donato il tricolore «il bianco» ha detto «è il pianto che ho versato il rosso è tutto il fuoco del mio amore» (La canzone dei volontari, 1935).
L’«amore» della donna amata è in corrispondenza con il rosso del «tricolore» della «patria bella» che il soldato volontario (di cui si canta la canzone) dovrà difendere in battaglia. La ricomposizione in rima dell’amore porta dietro, con sé, nuovi rapporti di dedizione e di attaccamento rispetto all’amore sentimentale usualmente cantato da De Sica.
45
Cuore / motore / muore: Lo scenario bellico crea una nuova rete di riferimenti alla realtà, in modo tale che il «cuore» non si riferisca più all’amore, bensì ad un motore. Il testo de La canzone dei sommergibili dice in effetti: «cuori e motori d’assaltatori». Anche nell’Inno dei Carristi troviamo: «Se canta il cuore / l’accompagna col suo ritmo anche il motore». Altre volte, è l’«amore» a trovarsi in corrispondenza con «motore», ma mediato dal verbo «morire» in una forma impersonale dell’indicativo: «si muore». Leggiamo il ritornello di Gira l'elica:«E gira gira l’elica romba il motor siam paracadutisti si vince o si muor, / scendiam giù dal cielo per fare l’amor». Per altro, ne Il Canto degli Arditi, «cuor» e «muor» compongono una rima incrociata65. La Sagra di Giarabub costituisce un ulteriore esempio di sconvolgimento dei circuiti di significato del «cuore», rispetto alle corrispondenze poetiche instaurate, per esempio, in Dicevo al cuore al quale De Sica parlava appunto di «amore», in rima. Il linguaggio della canzone di guerra, invece, trasforma poeticamente il «cuore» attraverso il «fuoco distruggitore» e, quindi, l’«acqua» in «sangue»:
Colonnello, non voglio l’acqua: dammi il fuoco distruggitore: con il sangue di questo cuore la mia sete si spegnerà (La sagra di Giarabub)
Sulla base di una coesione fonetica «cuore» / «distruggitore» si compone un linguaggio poetico, per cui la distruzione provocata dal fuoco fa sanguinare il cuore che disseta più dell’acqua. E’ evidente quale sia il peso della guerra nella creazione e nella diffusione di queste nuove metafore cardiache.
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E. Jona, I temi del disimpegno , in M. L. Straniero (a cura di), Le canzoni della cattiva coscienza, Milano, Bompiani, 1964, p. 173. 65 Il Canto degli Arditi: «Mamma non piangere se c'è l'avanzata / tuo figlio è forte dall'assalto dei cuor / asciuga il pianto della fidanzata, / chè nell'assalto si vince o si muor» . 46
Si tratta di un ampio fenomeno di scardinamento lessicale dell’«amor sentimental» di De Sica (Dammi un bacio e ti dico di sì), a favore di un «amor di Patria» (Caro Papà: «Fiamma d'amor di Patria che consola»). Nella stessa linea di significato, la «schiavitù d’amore» - in Faccetta Nera - rima con «libertà e dovere» e, quindi, con «camice nere».
Cuore / fiore: Nel registro della lingua usata per le canzoni a tematica amorosa melodrammatica, l’«amore» si trova in corrispondenza con «mare», «fiore», ecc. formando un rapporto di tipo naturale, o meglio, naturalistico, come sosteneva Jona66 e come abbiamo già avuto modo di vedere nel primo capitolo. Questo rapporto naturalistico viene annullato nella canzone di guerra. Fermiamo la nostra attenzione sul fiore come simbolo di amore di cui, anche qui, De Sica offre un esempio. Nella canzone I Quattro amori, i «quattro amori» corrisponderebbero a quattro diversi fiori. In Vado in Abissinia, invece, il «fior» è un simbolo di conquista che, appunto, rima con «Equator»: «Ti manderò dall’Africa un bel fior / che nasce sotto il ciel dell’Equator». E’ interessante quanto accade in Duce A Noi! dove «fior» continua a rimare con «cuor», ma da due strofe diverse. Si crea così una distanza nel testo che rompe il legamento armonico tra le due parole e interferisce sulla loro identità di suono. Abbiamo a che fare con una variante della cosiddetta «rima ripetuta» (tra il terzo e il sesto verso) in due strofe distinte che, per altro, non rimano tra primo-secondo verso da una parte e quarto-quinto verso, dall’altra. Si creano così due orbite distinte: Nell'Italia dei fascisti anche i bimbi son guerrieri, siam balilla o moschettieri del regime il baldo fior. con il Duce qui sul petto, fa da scudo al nostro affetto e l'orgoglio accende in cuor. 66
E. Jona, I temi del disimpegno, cit., p. 173. 47
Da una parte «fior» trova nella parola «regime» un complemento di appartenenza che, grammaticalmente, sembra anche un cosiddetto “genitivo dichiarativo”, nel senso che «regime» specifica appunto il nome di valore generico «fiore». D’altra parte, il «cuore» si lega in un rapporto di relazione «con il Duce» il quale, allo stesso tempo, diventa il soggetto della frase, nel senso che non solo «con il Duce», ma il Duce stesso accenderebbe in cuore l’orgoglio. In questa equazione sintattica, «fiore» sta a «cuore», così come il «regime» di guerrieri sta al «Duce». Si creano nuove orbite di significato dell’«amore» che (nella strofa subito successiva) diventa complemento oggetto del «cuore» stesso del duce:
L'occhio del duce brilla vivo nei suoi balilla, siam la scintilla d'amor che un dì dal suo cuore uscì:
Sì, Sì.
Per concludere questa serie di esempi - che potrebbe agevolmente prolungarsi - , facciamo riferimento ad una delle metafore più adoperate nella canzone a tema amoroso: il bacio.
Il bacio trasfigurato: Il racconto del bacio dell’amata, ne La canzone dei volontari, è ambientato in uno scenario bellico: «E se avverrà / che in mezzo alla battaglia / ti uccida la mitraglia / un bacio mio ti raggiungerà». Anche in Faccetta nera il bacio è trasfigurato rispetto, ad esempio, al linguaggio de «l’amor sentimental» dei classici testi di De Sica (Dammi un bacio e ti dico di sì). Il bacio alla «piccola» e «bell’abissina» corrisponde alla sua liberazione, ovvero alla conquista italiana dell’Etiopia: «ti porteremo a Roma, liberata / Dal sole nostro tu sarai 48
baciata». Il bacio che in De Sica dà inizio all’amore («Dammi un bacio […] / nell’amor si comincia così» (Dammi un bacio e ti dico di sì) assume tutt’altre funzioni, poiché comporta l’inizio non di una relazione amorosa, bensì dell’impero del Regno d’Italia (Faccetta Nera)67 e sancisce la morte valorosa (La canzone dei volontari). Nelle canzoni di guerra e coloniali, il lessico dell’immaginario amoroso subisce uno sradicamento semantico che imposta nuovi circuiti di significato, ma non senza complicazioni. Faccetta nera, ad esempio, trasfigura la guerra di conquista in una storia di amore con una «bell’abissina» di cui si canta nel ritornello. Orbene, il linguaggio della canzone non coincide con il linguaggio del Ministero della Sanità che, ufficialmente, interviene contro il richiamo della canzone alla bellezza africana. Se la Faccetta nera diventa nella canzone di guerra una metafora di conquista politico - amorosa, per il Ministero è una questione di «igiene» e di prevenzione dalle «donne di colore», sulla base di istruzioni da fornire alle truppe destinate all’Africa Orientale. Il Ministero prescriveva di «sfuggire i contatti con la popolazione indigena».
*
*
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Come si può riscontrare in tutti i testi sopracitati (e in altri), la tendenza che si manifesta è quella che va verso la fondazione di un “uomo nuovo”, di cui il regime consolida la semantica con un lavorìo linguistico della canzone. Tanto i cambio di sensi, quanto le reimpostazioni delle affinità lessicali consentono di fondere i temi dell’amore melodrammatico con quelli della forza e della conquista, dell’orgoglio nazionale e nazionalista, nelle canzoni di guerra. Tuttavia l’uomo che ne deriva ha, per molti versi, un significato contraddittorio e oscillante, come dice
67
La canzone di conquista coloniale scritta nell'aprile del 1935 da Giuseppe Micheli (storico della canzone romana) e dal maestro Mario Ruccione era stata lanciata per la prima volta da Carlo Buti al Teatro Capranica la sera del 24 giugno a Roma. Erano passati solo pochi mesi da quando Mussolini, il 2 ottobre 1935, aveva annunciato l’inizio delle ostilità in Etiopia, pronunciando un discorso trasmesso, via radio e altoparlanti, in tutte le piazze d’Italia. 49
Abbadessa68. Come se questo sradicamento lessicale avesse, sì, risolto l’amore nella retorica “superomista”, ma lasciandone un residuo melanconico.
III, 3 - Registro melanico: Il ritorno del Volontario dall’Africa Orientale, ricostruisce scenari di battaglia con un lessico superomistico, che forma l’immagine eroica e valorosa di un soldato colto nel ‘crepitio della mitraglia’. Per esempio, un «fiore» si trova inserito in uno scenario bellico, in quanto sarebbe stato colto dal soldato «in mezzo alla battaglia». Non è più il fiore dell’«amor sentimental», eppure qualcosa di quella raffigurazione dell’amore sopravvive, quanto meno nella rima «fiore» / «amore» che permane. Ciò che più colpisce è il tema della «mamma […] amata» dalla quale il soldato ritorna: «Nella valigia t'ho portato un fiore / io lo raccolsi in mezzo alla battaglia / il suo profumo aspira con amore / se crepitasse ancora la mitraglia». Il riferimento alla «mamma» è ricorrente nei testi di guerra. Anche in Fiamme Nere, per esempio, il soldato esorta: «Mamma non piangere, c'è l'avanzata». Cara Mamma è un altro racconto di guerra in cui torna la figura materna: «Quasi ogni dì mi giunge qui la bianca letterina / c’è dentro il cuor, l’immenso amor tutto di te mammina». Ricorderemo poi: La mamma del soldato, Mamma bisogna vincere.. Cara mamma, parto volontario è una canzone dei volontari della Repubblica Sociale: «Cara mamma, parto volontario, / dammi un bacio senza lacrimar. / Sono giovane, forte e bene armato, / vittorioso voglio ritornar!». E Cadorna manda a dire (testo di una canzone della prima guerra mondiale, ripreso dopo le campagne d’Africa) propone, anch’essa, la struttura narrativa del dialogo immaginato tra il soldato e sua madre: «Mamma mia vienimi incontro / vieni incontro a braccia aperte / io ti contero' le storie / che nell'Africa passo'». La medesima struttura compone il racconto cantato in Caro papà. Il padre del soldato è una figura meno presente, forse perché rischiava di interferire poeticamente con la figura del padre della nazione, sulla quale si praticava tutt’altro culto. Entrambe le figure, materna e 68
E. E. Abbadessa, La canzone italiana nel Ventennio fascista tra “mammismo” e “superomismo”, 50
paterna, sono tuttavia proprie di un repertorio poetico intimistico e melodrammatico. Nello specifico la lettera al padre di Caro papà, viene scritta con la mano tremante e in lacrime:
Caro papà, ti scrivo e la mia mano, quasi mi trema, lo comprendi tu? Son tanti giorni che mi sei lontano e dove vivi non lo dici più! Le lacrime che bagnano il mio viso son lacrime d'orgoglio, credi a me.
Da una parte il linguaggio delle canzoni di guerra sradica le basi semantiche dell’«amor sentimental» e ne fonda delle nuove, «superomistiche», su cui regge l’uomo nuovo a cui il «cuore» rima con «motore». Tuttavia, d’altra parte, un secondo serbatoio di canzoni assume dei toni ben diversi. Emanuela Ersilia Abbadessa parla di «mammismo» in contrapposizione a «superomismo», in occasione dell‘undicesimo convegno della Società Italiana di Musicologia69. Da un punto di vista linguistico, vediamo che il «cuore» del soldato torna a rimare con “amore” e, nello specifico, con l’«amore» della madre (Cara Mamma). Non è il soldato della Roma imperiale, ma della casa materna. C’è quindi un’ambivalente identità. La canzone fascista narra di un uomo teso verso due direzioni opposte per cui, contemporaneamente, egli partirebbe per il duce e tornerebbe per la madre. Non è una caso se proprio nel 1940, anno in cui l’Italia entra in guerra, Beniamino Giglio canta alla radio la famosa Mamma: «Mamma son tanto felice / perché ritorno da te». La lingua della canzone evidenzia quelli che sono i due assi cartesiani della società fascista. Queste due coordinate, così divergenti tra loro, creano una tensione psicologica che si ripercuote nel linguaggio della canzone, lasciando dei residui emotivi.
http://www. sidm.it/ sidm/ convegnisidm/ 11conveabstr.html#top. 69 E. E. Abbadessa, La canzone italiana nel Ventennio fascista tra “mammismo” e “superomismo”, cit. 51
Tra le canzoni di guerra circola un linguaggio con dei residui melanconici. Numerosi studiosi della canzone fascista sono giunti alla medesima conclusione, seguendo percorsi di ricerca diversi. In un saggio sulle Canzonette del ‘900, Igor Principe osserva come, dai versi di Caro papà, emerga «un sottile velo di melanconia», nonostante l’indiscutibile «amore per la causa»70. Secondo Gianni Borgna, la malinconia è il «denominatore comune delle canzoni legate alla guerra, anche quelle intese ad esaltarne gli aspetti eroici»71. Nelle canzoni di guerra, impegnate nello sforzo di propaganda del regime, dominerebbe in genere un «registro melanconico»72. La famosa canzone di guerra Lillì Marlen costituisce uno degli esempi più chiari di come la canzone di guerra assuma dei toni meno che mai patriottici e ‘superomistici’. Questo cambio di registro non si è compiuto senza attriti. Non è qui il caso di ricostruire nei dettagli la storia di questa canzone. Nondimeno, ricorderemo l’ostilità dimostrata dalle autorità tedesche che la reputarono una canzone disfattista. Si racconta che Goebbels stesso distrusse l’incisione originale di Lillì Marlen. Ciò non impedì alle truppe tedesche di apprezzare quella canzone e, quindi, a Hitler di ordinare che venisse quotidianamente radiotrasmessa. Anche la versione italiana del testo di Lillì Marlen, incisa nel 1942 (come quella tedesca composta nel 1938), reintroduce alcuni temi dell’amore melodrammatico: «Addio piccina dolce amor / ti porterò per sempre nel cuor», oppure: «Dammi una rosa da tener sul cuor / legata col filo dei tuoi capelli d’or». I soldati vengono ritratti come normali malinconici innamorati. Il testo è quello di «una canzone d’amore un po’ triste»73.
La canzone Lillì Marlen, interpretata da Lina Termini, venne tradotta e adattata all’italiano da Nino Rastelli, autore di genere frivolo come Il pinguino innamorato o I pompieri
htm.
70
I. Principe, Canzoni e canzonette - dal 1936 a Sanremo, www. cronologia.it/ storia/ tabello/tabel1557.
71
G. Borgna, Storia della canzone italiana, Roma, Laterza, 1985. www.girodivite.it/antenati/XX2sec/9b_canzo.htm.
72
52
di Viggiù. Le canzoni da svago, assieme al filone “melanconico”, costituiscono un secondo repertorio, che non può mancare in una ricostruzione del quadro canoro del Ventennio.
III, 4 Le canzoni da svago: Nel 1942, il Ministro della Cultura Popolare, Lorenzo Pavolini, sosteneva che era utile, a fine giornata, inserire nel programma della radio la trasmissione di «un ballabile»; e diceva quindi che i «camerati dell’EIAR» avevano «fatto benissimo, anche
in tema di musica e
canzoni, a seguire quelle che erano e sono le richieste dei combattenti»74. Igor Principe parla quindi delle canzoni nate per non dare «troppo da pensare», per le quali si elabora un linguaggio adatto ad esprimere temi frivoli. Lo scopo è quello di arginare «il senso della tragedia» inesorabile della guerra75. In particolare allo swing è dedicato buona parte del tempo per cercare serenità benché, ad una più attenta analisi, il suo linguaggio sembra tutt’altro che ludico.
a) Lo swing o le «parole in libertà»: Lo swing contrabbanda un prodotto americano, con i suoi caratteristici ritmi sincopati. Quei ritmi non solo contribuiscono a rendere particolarmente gaia e ballabile la nostra canzone, ma costituiscono anche un «frutto proibito»76. Merce di contrabbando, merce proibita: il regime ostacola chi lo smercia, come ad esempio Natalino Otto, legato a successi come Polvere di stelle, Mister Paganini, Ho un sassolino nella scarpa. Si impedisce quindi a Otto l’accesso all’EIAR perché la sua musica è considerata una «barbara antimusica negra»77. Durante l’autarchia e soprattutto con l’alleanza italo-tedesca si ha un notevole inasprimento dei toni: la casa
73
AAVV, Le canzoni della radio. I più grandi successi italiani degli anni ‘30 e ‘40, a cura della redazione del Reader’s Digest, s.l., 1980, p. 11. 74 Discorso di A. Pavolini trasmesso in una trasmissione di “Radio del combattente” agli inizi del 1942, ripubblicato parzialmente in AAVV, Le canzoni della radio. I più grandi successi italiani degli anni ‘30 e ‘40, cit., p. 3. 75 I. Principe, Canzoni e canzonette - dal 1936 a Sanremo, cit. 76 AAVV, Le canzoni della radio. I più grandi successi italiani degli anni ‘30 e ‘40, cit., p. 12. 77 I. Principe, Canzoni e canzonette - dal 1936 a Sanremo, cit. 53
discografica Fonit di Milano, che cercava di continuare l’importazione di dischi nordamericani, viene assaltata da squadristi che buttano per strada interi pacchi di dischi. Il caso di Natalino Otto evidenzia due fenomeni, in particolare. Il primo fenomeno ci porta a mettere in discussione l’idea di un monopolio dell’informazione controllata dal regime attraverso la radio. La radio veicola le canzoni e le diffonde, ma a fronte di questo strumento (più o meno) vigilato, esistono percorsi alternativi come quelli discografici più autonomi e liberi. Se Otto è escluso dai microfoni radiofonici italiani, tuttavia egli continua ad avere successo con i suoi dischi e a costringere la radio ad interessarsene. La lingua della canzone gode quindi di supporti diversi e, tra loro, alternativi. In questo senso le parole dello swing sono parole in libertà discografica. Veniamo quindi al secondo fenomeno a cui prima accennavamo. Un esempio di libertà del linguaggio dello swing cantato da Natalino Otto è dato dal cosiddetto forestierismo, tema già esaminato nel primo capitolo. La presenza di anglismi nei testi da lui cantati, (p. es. Mister Paganini) contravviene alle prescrizioni di regime che indicavano il percorso linguistico inverso: dall’inglese all’italiano. Così voleva una circolare del Partito Nazionale Fascista che, già dal 1924, recava l’ordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole «comunque tradotte»78. Sono parole in libertà, ma non sempre. I testi stessi di Otto talvolta non riescono a non assoggettarsi alle prescrizioni linguistiche di governo, per le quali ogni suggestione esterofila era vietata. Otto fu costretto a cambiare i titoli di alcune canzoni: Saint Louis Blues fu tradotto letteralmente in Le tristezze di San Luigi; Mister Paganini divenne Maestro Paganini. Lo swing è legato al ricordo dello sbarco delle truppe americane in Italia, seguite dall’orchestra diretta da Glenn Miller. Ma i testi delle canzoni di Otto non hanno comunque nulla di sovversivo, a differenza di altre canzoni che sviluppano un linguaggio satirico. Sono le canzoni cosiddette “della fronda”.
54
b) Le canzoni della fronda: Maramao… perché sei morto? È una tipica espressione delle canzoni ironiche e dissacranti nei confronti del fascismo. Composta pochi mesi dopo la morte del gerarca Costanzo Ciano, nel ritornello del 1939, si dice: «Maramao perché sei morto / pane e vin non ti mancava / l’insalata era nell’orto / e una casa avevi tu». Il titolo del brano è ispirato all’iscrizione fatta da alcuni studenti sul piedistallo del monumento funebre, che il governo aveva deciso di costruire al gerarca defunto a Livorno. Un altro esempio è offerto dalla canzonetta del 1940 Pippo non lo sa: nel protagonista, che gira per la città vantandosi – senza sapere che tutti ridono di lui – la gente riconobbe (o volle riconoscere) Achille Starace, segretario del PNF, che amava passeggiare impettito in divisa. L’autore del testo, sia di Maramao… perché sei morto?, che di Pippo non lo sa è Mario Panzeri che adotta un linguaggio candido per non destare sospetti da parte di alcun censore. Con la tesi del sostanziale “candore” linguistico di Panzeri sembra concordare anche Giovanni Borgna, autore di una Storia della canzone italiana. Panzeri è il principale autore di quel filone di “canzoni della fronda”. Un altro esempio è offerto dalla canzone del 1943 Il tamburo della Banda d’Affori, dove si parla di «550 pifferi», cifra che richiamava alla mente quella dei 550 consiglieri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni . Di conseguenza, il «Tamburo» che li comandava doveva essere Mussolini. Panzeri garantì trattarsi di inaudita coincidenza, ma da quel momento tutti i parolieri furono costretti a sottoporre a preventiva approvazione i testi delle canzoni79. Contemporaneamente, nasce la psicosi del linguaggio cifrato di cui fu vittima il Trio Lescan, per altro vittima delle discriminazioni antisemite negli anni delle Leggi razziali. L'accusa
78
G. De Marzi, I canti del fascismo, in http://www.frillieditori.com /books/cantifascismo_primo.htm oppure si veda di M. Targa, Anni '20: Il regime e la censura http://www. hitparadeitalia.it/mono/censura.htm. 79 Mario Panzieri e il fascismo http: // www. galleriadellacanzone.it /canzoni/ anni40/ schede/ pippononlosa/ maramao.htm. Nonché di I. Principe, Canzoni e canzonette - dal 1936 a Sanremo, cit. 55
era che cantando Tuli-tuli-tulipan mandassero in realtà messaggi al nemico, secondo quanto apprendiamo dal racconto biografico di Alessandra Leschan. Il linguaggio delle canzoni della fronda è velato, allusivo, dissimulato e, in questo senso, è un’espressione di quella tendenza alla “dissimulazione onesta” di cui parlava Carlo Muscetta80. Muscetta difende l’idea che, durante il Ventennio, si siano praticate forme velate (ma oneste) di antifascismo, seppure senza mai dissentire dichiaratamente dal regime. In questa forma, le canzoni radiotrasmesse costituirebbero una tribuna legale di opposizione politica, di cui i testi costituiscono i giocosi, ma pungenti proclami. Non quindi una lotta clandestina armata, bensì un pubblico lavorìo del linguaggio, che mira a sabotare le basi semantiche delle parole del regime (p. es. i 550 consiglieri della camera dei Fasci, diventano dei «pifferi»). I testi delle canzoni “della fronda” sono un esempio di antifascismo linguistico. Torniamo al discorso iniziale di questo capitolo e così lo chiudiamo. A una organizzazione canora del consenso vediamo corrispondere uno scompiglio linguistico da parte della Resistenza, che canta il suo dissenso. E’ così che un gerarca diventa «pippo»: si sdrammatizza il linguaggio, si indebolisce la retorica di regime e si interferisce su uno dei meccanismi psicologici dell’organizzazione del consenso.
80
M. Serri, I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1939 - 1948, Milano, Corbaccio, 2005, p. 58. 56
Conclusione
Vogliamo congedarci dal lettore con due ultime canzoni. Non ne potevamo scegliere di più adatte per concludere questo nostro lavoro, nella misura in cui entrambe vennero cantate in conclusione del Ventennio. Ritroviamo in esse un linguaggio che esprime la melanconia di una società disorientata, in contrasto con l’euforia per la Liberazione. Entrambe le canzoni esprimono
un
disorientamento
esistenziale.
psicologizzante, che queste canzoni
Potremmo
dire,
usando
un’espressione
“elaborano”, in forma velata, un distacco luttuoso da
un’epoca che tramonta. La prima canzone di cui vorremmo parlare è Ma l’amore no, interpretata da Lina Termini e scritta da D’Anzi e Galdieri nel 1942; forse la canzone italiana di maggior successo e più trasmessa dall’EIAR, tra la primavera e l’estate del 1943. Tratta dal film Stasera niente di nuovo di Mario Mattoli (dove viene interpretata da Alida Valli), accompagnò per radio lo sbarco degli alleati e la caduta del fascismo: dal governo Badoglio all’armistizio dell’8 settembre. In questo contesto storico, la canzone Ma l’amore no, che non contiene apparentemente alcun esplicito riferimento politico, sembra invece averne molti, ma tutti trasfigurati in un linguaggio della canzone a tema amoroso. Nei termini, ad esempio, delle «rose sfiorite» si operano delle scelte lessicali che evidenziano l’elaborazione di un sentimento della fine e della perdita: E tutte le cose / son come le rose, / che vivono un giorno / un’ora e non più.
Il processo psichico descritto da Sigmund Freud in Lutto e melanconia (1915)81 è simile, in quanto l’oggetto scomparso tende ad essere trasfigurato, “incorporato” da chi ne elabora il lutto. Nella canzone cantata da Lina Termini, appunto, il racconto descrive una vicenda interiore
81
Freud S., Lutto e melanconia, OSF Volume 8°, Boringhieri, 1980. 57
(la storia di un amore perduto) di cui si tralasciano i fatti esterni: «Ma l’amore, no. L’amore mio non può / disperdersi nel vento, con le rose. Tanto è forte che non cederà / non sfiorirà / io lo veglierò / io lo difenderò». Per altro, il verbo stesso «vegliare» richiama l’espressione «vegliare il morto», «veglia funebre». Si dice, subito dopo: «lo difenderò / da tutte quelle insidie velenose / che vorrebbero strapparlo al cuor»: anche qui il lessico costruisce uno scenario funebre, poiché si sceglie l’espressione «strapparlo», che si usa nel linguaggio comune per dire: «strappare alla vita». Il processo di “incorporamento” della persona scomparsa si compie pienamente alla fine del testo: «fin ch’io vivo, sarà vivo in me». Il processo psichico del lutto si caratterizza anche da una diminuzione della libido nei confronti degli oggetti esterni. Ne deriva uno stato di depressione e di mancanza di interesse per il mondo esterno. Questo aspetto si ritrova, in particolare, nella seconda canzone a cui prima accennavamo: In cerca di te, cantata da Nella Colombo nel fatidico 1945, l’anno della Liberazione e della morte di Mussolini. Il testo della canzone - composta da Sciorilli e Testoni descrive appunto un senso di distacco dal mondo esterno, che appare anonimo e indifferente: «sola me ne vo per la città / passo tra la folla che non sa / che non vede il mio dolore […] Ogni viso guardo e non sei tu / ogni voce ascolto e non sei tu». Nel lavoro del lutto si verifica un graduale distacco dall’oggetto scomparso e un progressivo riadattamento alla realtà. In In cerca di te si tenta «di dimenticar», sebbene «invano». In Ma l’amore no si accenna ad una partenza della persona amata, forse la fine del tormento amoroso, ma una fine dolorosa: «forse te ne andrai.. d’altre donne le carezze cercherai!..». Sono molte le considerazioni che potremmo fare a proposito di questi meccanismi psicologici. Ad esempio, possiamo osservare come, con queste canzoni, gli italiani conquistino dei “discorsi protetti” che elaborano e prescrivono una narrazione della “fine”. Il «dolore» viene vincolato. Lo strazio della crisi è riplasmato in ritornelli stereotipati, da ripetere con una regola di frequenza. Si offre alla narrazione della crisi un orizzonte, con una sua durata e una sua stabilità. 58
Per approfondire questi aspetti, sarebbe istruttivo fare un confronto con gli studi svolti dall’etnologo, Ernesto de Martino, sul lamento funebre popolare italiano, poiché la sua opera Morte e pianto rituale nel mondo antico (Torino, Einaudi, 1958) offre le chiavi di lettura qui adoperate (discorsi protetti, ritornelli stereotipati, crisi del cordoglio, ecc.). Ma al di là dei molti e particolari meccanismi tecnici di elaborazione canora del lutto, possiamo dire fondamentalmente che i testi della canzone di fine Ventennio indicano come “saper piangere” i propri morti (o la fine di un’era). Si adopera un linguaggio che modula una lirica del patire, per cui il «dolore» (In cerca di te) viene regolato dal lessico della canzone d’amore. Si sposta così la tensione della crisi del cordoglio su un piano simbolico, che dischiude nuovi valori. L’“amore” di una donna costituisce uno dei valori in cui il Ventennio fascista viene fatto passare nel linguaggio della canzone.
59
APPENDICE
60
Parlami d’amore, Mariù: di Neri e Bixio, interpretata da Vittorio de Sica (1932) Come sei bella, più bella stasera, Mariu; splende un sorriso di stella Negli occhi tuoi blu!… Anche se avverso il destino domani sarà, oggi ti sono vicino, perché sospirar?.. Parlami d'amore Mariù tutta la mia vita sei tu! Gli occhi tuoi belli brillano Come due stelle scintillano. Dimmi che illusione non è; dimmi che sei tutta per me!.. Qui sul tuo cuor non soffro più, parlami d'amore Mariù. So che una bella e maliarda sirena sei tu; so che si perde, chi guarda quegli occhi tuoi blu! Ma che m'importa se il mondo si burla di me? ... Meglio nel gorgo profondo ma sempre con te! …
61
Ma l'amore no di Galdieri e D'Anzi, interpretata da Lina Termini (1942). Guardando le rose sfiorite stamani io penso: domani saranno appassite E tutte le cose son come le rose che vivono un giorno un'ora e non più! Ma l'amore, no L'amore mio non può disperdersi nel vento, con le rose Tanto è forte che non cederà non sfiorirà Io lo veglierò io lo difenderò da tutte quelle insidie velenose che vorrebbero strapparlo al cuor, povero amor! Forse te ne andrai d'altre donne le carezze cercherai! ahimè e se tornerai già sfiorita ogni bellezza troverai in me Ma l'amore no L'amore mio non può dissolversi con l'oro dei capelli. Fin ch'io vivo sarà vivo in me, solo per te
62
In cerca di te: di Sciorilli e Testoni, interpretata da Nella Colombo (1945). Sola me ne vo per la città passo tra la folla che non sa che non vede il mio dolore cercando te, sognando te, che più non ho. Ogni viso guardo e non sei tu ogni voce ascolto e non sei tu Dove sei perduto amore? Ti rivedrò, ti troverò, ti seguirò. Io tento invano di dimenticar il primo amore non si può scordar è scritto un nome, un nome solo in fondo al cuor ti ho conosciuto ed ora so che sei l'amor, il vero amor, il grande amor. Sola me ne vo per la città passo tra la folla che non sa che non vede il mio dolore cercando te, sognando te, che più non ho. E'scritto un nome, un nome solo in fondo al cuor ti ho conosciuto ed ora so che sei l'amor, il vero amor, il grande amor. Sola me ne vo per la città passo tra la folla che non sa che non vede il mio dolore cercando te, sognando te, che più non ho.
63
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