Pubblicazione non destinata alla vendita a circolazione interna mediante diffusione on-line
ANNO 1 N. 8 OTTOBRE 2009 ● Supplemento mensile di Appunti Alessandrini ● appunti.alessandrini@alice.it
EDITORIALE
La sinistra alle prese con i ceti più dinamici del Paese
LE REGOLE ED IL CONSENSO
Ipotesi per recuperare un rapporto interrotto da tempo
Agostino Pietrasanta ●
Lo confesso: non voglio entrare nel merito del confronto, non mi sento di affrontare la questione con sufficiente lucidità; i rapporti tra politica e magistratura sembrano aver raggiunto una conflittualità sicuramente esiziale per la democrazia, ma difficilmente individuabile nei suoi percorsi e nelle sue caratteristiche. Troppi interessi particolari, troppi vantaggi (o svantaggi) personali, troppi scontri istituzionali impediscono una qualsiasi analisi serena, distaccata e rispettosa dei singoli soggetti della vicenda. Intendiamoci: non ritengo affatto giusto che si faccia di ogni erba un fascio; dico solo che da qualunque parte si rigiri la questione, ormai i fraintendimenti, sempre dietro l’angolo (dolosi e/o colposi), finiscono per guastare, nonostante le buone intenzioni. Per questo affronto il problema introducendo una diversa prospettiva, che non entra, almeno direttamente, nel merito dello scontro. Parto da una constatazione: la nostra nazione ha preso coscienza delle ragioni storiche del consenso alle istituzioni molto tardi e quando ciò è accaduto, il Paese si trovava in condizioni di gestione totalitaria dello Stato. In effetti il consenso, per una straordinaria eterogenesi dei processi istituzionali, è nato attorno al fascismo. (continua a pag.2)
Marco Ciani ●
Ha fatto scalpore un’affermazione di Franceschini, segretario uscente del PD, che nel corso della campagna per le Primarie si era espresso nel seguente modo: "Con le imprese abbiamo sbagliato. Chiedo scusa". Si tratta di un apprezzamento che non aveva mancato di suscitare reazioni nel suo stesso partito anche perché toccava un nervo che continua a produrre a sinistra solenni dolori. Da molti anni a questa parte le categorie più produttive del nostro Paese, nelle svariate tornate elettorali, si orientano in modo marcato verso la destra. Ciò significa che imprenditori, commercianti, artigiani e ormai perfino gli operai (un tempo croce e delizia della sinistra) preferiscono il PdL e la Lega. Da un certo punto di vista può apparire normale che chi non è dipendente voti in questo modo. Meno scontato è che i lavoratori subordinati si stiano ricollocando sempre più a destra, in assenza di risposte ritenute attendibili per la sopravvivenza del loro posto di lavoro. E si badi bene che non è solo un problema di astensionismo. La domanda a cui rispondere è più o meno questa: come si deve rapportare un partito riformista moderno con la classe dei produttori, pur considerata nelle sue molteplici sfaccettature? Malgrado notevoli espedienti dialettici, il retaggio storico del marxismo aveva portato in passato a etichettare tali segmenti sociali come “borghesia capitalista”, il nemico di classe per eccellenza.
Più recentemente, crollato l’impianto ideologico su cui si reggeva, la posizione della sinistra nei confronti del capitale di rischio è tuttavia rimasta, se non di ostilità, almeno di malcelato imbarazzo. E questo soprattutto nei confronti delle piccole e medie imprese e delle partite IVA, posto che tale parte politica ha privilegiato semmai il rapporto con le grandi aziende dove la regolazione sociale viene assicurata da accordi tra imprenditori e sindacati, non di rado grazie alla mediazione governativa. Uno degli effetti di questo atteggiamento è stato considerare in modo sprezzante tutto il lavoro autonomo come se fosse un ricettacolo indifferenziato di evasori fiscali e sfruttatori. Un errore grave, tanto quanto lo è oggi da parte del Ministro Brunetta e della destra il reputare più o meno indistintamente la macchina statale un ricovero per fannulloni. Probabilmente sarà opportuno partire da un presupposto. Molte imprese considerano la pubblica amministrazione un problema anziché una risorsa. Ciò sembra dovuto in larga parte ad alcuni fattori prevalenti: il peso e la complessità della macchina burocratica, il cattivo rapporto con il fisco, la rigidità delle regolamentazioni, il fatto di essere lasciate spesso a se stesse nei momenti di difficoltà (ad esempio, il frangente attuale). Se questa analisi è corretta risulta abbastanza naturale che, in presenza di un apparato statale oppressivo, inefficiente e incapace di fornire (continua a pag.2)
LE REGOLE ED IL CONSENSO (Editoriale - continua da pagina 1)
La tesi che l’esperienza totalitaria ha retto, indipendentemente dal consenso, viene posta ormai in crisi da una lungo dibattito storiografico. Come dire che le regole condivise della civile convivenza democratica, le ragioni del bilanciamento dei poteri, delle condizioni istituzionali capaci di dare spazio alla dialettica tra maggioranza ed opposizione si sono appannate nel momento stesso in cui la nazione prendeva coscienza di sé, nel contesto di una esperienza autoritaria e dittatoriale, ma supportata da un’innegabile componente di consenso. La reazione a tale esperienza, nella riscoperta democratica e nella ricostruzione dello Stato, nel secondo dopo/guerra, si è espressa nell’enfatizzazione del consenso come fondamento della democrazia. In particolare attraverso due componenti di medio/lungo periodo: la necessità di dimostrare che il consenso non è possibile se non in democrazia e costituisce la componente essenziale delle culture politiche dell’antifascismo; la comprensibile (e, per quanto penso io, condivisibile) esigenza di non ridurre la fondazione della democrazia alle sole regole condivise (democrazia formale), ma di proporre un metodo ed una condizione che rendesse tutti i cittadini consapevoli dell’importanza di tale regole e di supportarle col loro consenso.
Ritorniamo così alle premesse: l’enfatizzazione del consenso, con la conseguente subalternità delle regole, assicurate sì da una tra le migliori Carte costituzionali dei Paesi democratici, ma non del tutto assimilate dalla coscienza della Nazione e talora non proprio recepite da alcune componenti di una cultura politica egemone che vedeva, con sospetto, una loro eccessiva valorizzazione, in quanto richiamo ai principi della liberal/democrazia. Non pretendo di aver colto i fondamenti del problema, ma personalmente non mi stupisce più di tanto che, a fronte di una simile tradizione, le cui responsabilità sono diffuse e comprendono certamente anche gli attori della sinistra italiana, si presenti sulla scena istituzionale, ed ottenga una diffusa udienza, la tesi che il consenso elettorale possa sostituirsi in tutto alle regole e che le regole che assicurano la legittimazione delle parti e la dialettica tra maggioranza ed opposizione, siano di impedimento. Né mi stupisce che qualcuno arrivi ad affermare che la fondazione dei rapporti democratici non sta nelle regole, istituzionalmente garantite, ma nella sua personale volontà e capacità. Non sarà totalitarismo, ma le premesse dell’autoritarismo e della dittatura ci sono tutte. Non bisognerà ripartire di qui? Forse le istituzioni liberal/democratiche non bastano, ma sono sicuramente indispensabili. Le regole, da sole, non bastano, ma senza di esse non c’è che l’autoritarismo personale.
Ap ● Supplemento ANNO 1 N.8 Ottobre 2009 Coordinatore: Agostino Pietrasanta Staff: Marco Ciani ● Walter Fiocchi Dario Fornaro ● Roberto Massaro Carlo Piccini Per ricevere questa Newsletter manda una mail all’indirizzo
appunti.alessandrini@alice.it
con il seguente oggetto: ISCRIZIONE Per non ricevere questa Newsletter manda una mail all’indirizzo
appunti.alessandrini@alice.it con il seguente oggetto: RIMOZIONE
UNA DERIVA INQUIETANTE
Fai un clic sull’immagine sopra!
(continua da pagina 1)
risposte concrete, si tenda a reagire mettendo in atto comportamenti ritenuti, a torto o ragione, difensivi. E che non di rado sfociano nell’infrazione alle norme, a cominciare dalla disciplina fiscale. Ma è sensato pensare al mondo imprenditoriale come ad un problema di legalità? A fronte delle richieste che vengono dai ceti produttivi, si può rispondere tendenzialmente in due modi. Con il populismo, elargendo alcuni contentini come i condoni, le invettive contro le banche che non erogano credito, le inutili suggestioni sui dazi doganali, gli incentivi senza contropartite, le banche del Sud di cui non si intuiscono missione ed utilità. Oppure in modo responsabile, aiutando le aziende che vogliono rendersi maggiormente competitive. Ciò significa principalmente investire in alcune direzioni. Migliorare il sistema dell’istruzione e metterlo in connessione con il mondo dell’impresa. Sviluppare la ricerca di eccellenza (alle aziende la parte restante interessa poco). Incentivare l’aumento dimensionale delle ditte. Puntare di più sulla contrattazione decentrata. Ridurre drasticamente ed informatizzare le procedure burocratiche. Assicurare attraverso fondi di garanzia i prestiti alle aziende che attraversano crisi di liquidità temporanee. Sono alcune misure su cui sarebbe possibile trovare una convergenza con le imprese allo scopo di stipulare un patto per la crescita. A quel punto sarà più semplice chiedere a tutti di mantenere fede ai propri impegni con lo stato. Diversamente, il rischio è che l’Italia continui a crescere con il contagocce ed assista alla distruzione di aziende più o meno grandi con danni rilevanti per i redditi e per l’occupazione…che, sfortunatamente, non si crea per decreto. Ma si tratta di un’occasione anche per il PD (e il suo nuovo segretario Bersani) se, dopo le primarie di ieri, vorrà dimostrare di poter essere interlocutore credibile per categorie finora diffidenti e polo di aggregazione di un progetto ragionevole di rilancio del Paese. Ne sarà capace?
Questa Newsletter non é una testata giornalistica, pertanto non deve essere considerato un prodotto editoriale soggetto alla disciplina della legge n. 62 del 7.3.2001
Ap ● Supplemento
2