PI XEL,REALI .
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione Tesi di Laurea in Disegno industriale
PIXEL, REALI. Uno sguardo sugli sviluppi aperti alle immagini fotografiche dalla cultura del digitale. Dalle teorie post-fotografiche alle nuove pratiche della fotovisione.
RELATORE
CANDIDATO
Prof. Guelfo Tozzi CORRELATORE
Antonio Riccio Matr. 035-100444
Prof. Luigi Frezza
ANNO ACCADEMICO 2003 – 2004
1.
“LA MORTE DELLA FOTOGRAFIA” (?) 1.1 – Falsi allarmi per una morte improbabile. 1.2 - La fotografia della morte. 1.3 - La fine della fase materica: la fotografia “scompare”. 1.3.1 – La fotografia analogica sarà “ibernata viva”.
1.4 - La nuova vitalità fotodigitale. 1.5 – Le “minacce digitali” verso una storia analogica.
2.
IL MITO DELLA VERIDICITÀ FOTOGRAFICA E L’ILLUSIONE REALISTICA DELLE IMMAGINI
2.1 - Foto-verità e foto-inganni: Net-lore e photo-fakes 2.2 - Il realismo della rappresentazione nella storia delle immagini. 2.2.1. Il culto delle immagini: dal II Concilio di Nicea a Nicephore Niepce.
2.3 – Il mito della veridicità fotografica. 2.4 - La soggettività della macchina, il miracolo della fotografia. 2.5 - “Il soggetto si sta distaccando”: l’aderenza del referente. 2.6 - Archeologia della manipolazione fotorealistica.
3.
UN MONDO DI FOTOGRAFIE:
PERCORSI TRA STORIA SOCIALE, TEORIE
SEMIOTICHE E PRATICHE COMUNICATIVE
3.1 - Fotografia e mass-media. 3.2 - Fotografia e sociologia. 3.3 - Analisi ontologico-semiotiche. 3.4 - Verso una “ri-evoluzione” dell’immagine fotografica.
4.
EVOLUZIONI MEDIATICHE 4.1 - Da media ad ipermedia. 4.1.1 – Oltre McLuhan. 4.1.2 - Rimediazioni e convergenze. 4.1.3 – La nascita dei nuovi media.
4.2 – La fotografia da analogica a digitale 4.2.1
Immagine e supporti.
4.2.2
Fotografia digitale e visione oculare.
4.2.3
L’originale e la riproducibilità digitale.
4.2.4
Qualità della fotografia digitale.
4.2.5
Economicità.
4.2.6
Elaborazione e correzione delle immagini.
4.2.7
Manipolazione e creatività degli strumenti digitali.
4.2.8
La stampa digitale.
4.2.9
Archiviazione digitale.
4.2.10 Considerazioni sulla transizione al digitale.
5.
I
PARADOSSI DELLA
POST-FOTOGRAFIA
5.1 - Rivoluzione digitale? 5.2 - La logica paradossale della cultura digitale.
POSTFAZIONE BIBLIOGRAFIE •
TESTI “CLASSICI” SULLA FOTOGRAFIA
•
VISUAL CULTURE
•
NUOVO PENSIERO “POST-FOTOGRAFICO”
•
MEDIA E NUOVI MEDIA
RISORSE DI RETE • PHOTOCULTURE • PHOTOART • PHOTOTECH • PHOTOEXPO • PHOTOBLOGS • PHOTOGRAPHERS • PHOTOAGENCIES
While photographs may not lie, liars may photograph. Lewis Hine
1
“LA MORTE DELLA FOTOGRAFIA” (?)
1.1 Falsi allarmi per una morte improbabile. L’apparizione, sulla scena delle pratiche figurative, di nuovi “ambienti” di lavoro1, assolutamente efficaci, ma estremamente intangibili e volatili, sembra aver generato una sorta di ansia collettiva da rappresentazione, un panico da sparizione, dei nostri territori percettivi (visivi), in un mondo di immagini “foto-irreali”. “Dopo
un
secolo
e
mezzo
di
documentazione
e
memorizzazione della morte, la fotografia ha incontrato la propria morte, a un certo punto degli anni Ottanta, a favore dell’immagine computerizzata. La capacità di alterare digitalmente una foto ha distrutto la condizione di base della fotografia - che qualcosa debba trovarsi di fronte alla lente quando avviene lo scatto, anche quando 2
rimangono dubbi sull’autenticità di ciò che viene registrato”.
1
Le interfacce grafiche computerizzate (GUI, Graphic User Interfaces), che
consentono la gestione e l’archiviazione, attraverso una serie di strumenti virtuali, di “materiali” figurativi codificati in bits ( binary digits, cifre binarie), che risiedono in supporti magneto-ottici sotto forma di cariche elettriche (0/1 ➝ +/-) e vengono poi visualizzati su schermi “materializzandosi” in pixel (picture elements). Questi ultimi rappresentano in qualche modo l’unità minima di alcune delle “immagini informatiche”- quelle cosiddette raster-, mentre altre – ad es. le immagini vettoriali - sono costituite da funzioni matematiche complesse che diventano, opportunamente decodificate, tracciati lineari e campiture di colore. 2
N. Mirzoeff – La morte della fotografia. In Introduzione alla cultura visuale
(1999), trad.it. 2002. cit. pag. 142.
Questa visione deterministica, che vede nell’intervento del digitale
conseguenze
che
porterebbero
direttamente
alla
negazione degli stessi principi fotografici, è certamente limitativa. Come limitative sono tutte quelle posizioni che non tengono conto delle interazioni tra i differenti media, e delle pratiche culturali ad essi connesse, considerati in una prospettiva storico-evolutiva3. Quando guardiamo alle influenze che il digitale sta avendo sulla fotografia, non dobbiamo dimenticare di contestualizzare il nostro discorso rispetto alle funzioni che una determinata immagine svolge presso chi la sta guardando, e poi rispetto al tipo d’immagine che si vuole prendere in cosiderazione, vale a dire di che natura sia la sua ontogenesi – se manuale o meccanica. E’
importante
valutare
un’immagine
tenendo
conto
soprattutto delle intenzioni con cui viene presentata e quindi rapportando queste con il contesto cui ci si riferisce, che può fornirci altri importanti tasselli per un’interpretazione adeguata al suo utilizzo.
3
Ci si riferisce qui a tutte le teorie “definizioniste” della fotografia. Quelle cioè
che mirano alla formulazione di una definizione circa lo statuto della Fotografia, spesso elevando solo una delle sue caratteristiche specifiche ad indicatore della “vera” fotografia, e ciò dipende solo dalla prospettiva di partenza. Queste considerazioni non danno conto della “specificità funzionale” che possiede ogni fotografia, vista nel suo contesto d’uso concreto, e di quanto questi usi possano differire tra loro in termini di valorizzazioni funzionali.
6
Figura 1. Un’immagine acquisisce
differenti
valori funzionali
in re-
lazione al contesto in cui
si
questo valore
inserisce. caso
il
In
mero
meta-testuale
dell’immagine lascia al lettore la maggior parte del
lavoro
di
significazione e di attribuzione di senso. In altri casi è il contesto (che oltre alla collocazione fisica consiste in informazioni su una “lettura corretta”) che ne definisce le valorizzazioni, imponendosi e guidando il lettore verso interpretazioni più precise. Ad esempio questa stessa foto collocata su una rivista di geologia acquista un valore diverso da quello che gli fornirebbe l’essere esposto in una galleria, ma poi di quale lettore si parla, di un geologo o di un critico d’arte? Non è così semplice quanto sembra, quindi, parlare di una lettura sempre corretta e valida dell’immagine.
Il discorso di Nicholas Mirzoeff in primo luogo pare confondere tra loro immagini di natura estremamente differente, quelle fotografiche, che per forza di cose devono essere prodotte “in presenza” del proprio referente, con quelle algoritmiche o sintetiche, prodotte invece interamente in ambienti informatici, senza il bisogno di “essere stati” di fronte all’oggetto che si intende rappresentare, nonostante appaiano come iper-reali - più avanti vedremo cosa comporta questa differenza in termini di referenzialità semiotica - e infatti continua: Oggi è possibile creare “fotografie” di scene che non sono mai esistite, senza che la simulazione sia direttamente osservabile. ( …) “Oltre alla possibilità di aggiungere nuovi elementi a una scena, ciascun pixel (elemento di immagine) in un’immagine digitale può essere manipolato quanto a colore, luminosità e messa a fuoco”
7
( da Ritchin 1990. In Our Own Image: The Coming Revolution In Photography. Aperture). (…) Il punto è che la fotografia non è più indice di realtà; essa è virtuale, come i media visivi postmoderni, suoi simili: dalla televisione al computer. (…) Così, le fotografie non offrono una garanzia superiore a quella di qualsiasi altro medium virtuale.4
Vedremo, infatti, che un’immagine digitale può avere differente natura, nel provenire da una sorgente esterna, come una stampa fotografica o un disegno, passando attraverso il processo di digitalizzazione5, oppure nell’essere creata al computer attraverso strumenti guidati dalla mano, come il mouse o la tavoletta grafica, o ancora nell’essere creata, interamente o in
4 5
Mirzoeff. Ib. Pag. 142-144 Processo attraverso cui un’informazione di tipo analogico (visiva, sonora,
testuale) viene codificata in cifre binarie (binary digits o bits). Per le immagini bidimensionali questo processo viene denominato scansione e viene eseguito da dispositivi di cattura quali gli scanner; i piu diffusi sono detti piani, mentre quelli a tamburo sono utilizzati prevalentemente in ambienti professionali a causa dei loro alti costi, ma raggiungono una qualità in termini di profondità colore incomparabile con quella degli scanner piani. Una nuova frontiera dell’acquisizione di immagini digitali è proprio quella della fotografia digitale, che hanno integrato il dispositivo di cattura analogico/digitale all’interno dell’apparecchio fotografico, basato sul principio della camera oscura, e cioè sulla possibilità di registrare su un supporto bi-dimensionale la realtà fatta di tre dimensioni. In più esistono oggi strumenti di scansione tridimensionale altamente sofisticati come quelli utilizzati in ambito medico (T.A.C.) e in ambito scientifico (3Dscanner).
8
parte, da algoritmi matematici che non comportano alcun intervento manuale.6
Figura 2.
Nonostante la grande differenza di contenuto, queste immagini sono
entrambe digitali. Mentre la fotografia in bianco e nero è stata convertita in pixel da un processo di scansione, l’immagine accanto, denominata frattale, è il prodotto di equazioni matematiche rappresentate attraverso appositi programmi di calcolo. La caratteristica che le accomuna è il fatto di poter essere trattate allo stesso modo (elaborate, visualizzate, stampate, archiviate, trasmesse, ecc.) da un unico strumento: il computer, diventato oggi un potente strumento di ibridazione mediale. (Fotografia di Paolo Woods/ Anzenberger Photo Agency, da “Le strade del petrolio”: Bibi Heybat, Baku, Azerbaijan, 10 marzo 2003 – un lavoratore mostra una moneta manat in un vecchio campo di petrolio del Mar Caspio. Frattale dal sito http://www.ultrafractal.com alla pagina /showcase/kerry/jani.html al 01/2005).
E’ importante, infatti, pensare al computer come uno strumento, un attrezzo, per parlare intermini di bricolage, o una protesi altamente tecnologica -come avrebbe detto il “guru dei media” Marshall McLuhan7- oltre che un veloce calcolatore ed elaboratore di dati; è infatti quasi sempre l’intervento umano a 6
vedi G.Sonesson Visual signs in the age of digital reproduction. Presente
alla pagina internet http://www.arthist.lu.se/kultsem/sonesson/PhotoPost.html (al 01/2005) 7
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare.
9
determinare le scelte da fare. Anche quando tutto sembra funzionare “automaticamente”, infatti, c’è dietro un individuo che ha impostato gli automatismi per farli funzionare in maniera corretta. In secondo luogo, nelle asserzioni di Mirzoeff, le potenzialità manipolative aperte alle nuove immagini appaiono come una discriminante fondamentale, quasi come elemento distintivo del digitale rispetto all’analogico, dimenticando tutta la storia della manipolazione che ha avuto luogo fin dalla nascita della fotografia analogica, e da cui molto hanno ereditato gli attuali “strumenti virtuali” messi a disposizione dalle tecnologie digitali. Infatti, già nel laboratorio fotografico tradizionale si trovano strumenti adatti ad ogni tipo di manipolazione; dalle semplici forbici ed adesivo, precursori del taglia-copia-incolla informatico; agli stampini, sagome di varie forme, filtri di correzione, pennelli da ritocco e tutta una serie di strumenti per la correzione delle immagini fotografiche che hanno trovato dei versatili corrispettivi negli attuali programmi di fotoritocco, come il celebre Photoshop™. Nella cosiddetta camera oscura, ossia il laboratorio di sviluppo e stampa fotografica con la classica luce rossa, già si erano sperimentate innumerevoli tecniche di correzione, miglioramento, trasformazione, montaggio; insomma la manipolazione, subdola o manifesta, delle immagini fotografiche ha una lunghissima storia alle spalle, sulla quale più avanti si tenterà di far luce. Intanto si potrebbe, in questa sede, chiamare in causa un altro autore che, oltre ad aver analizzato con sottigliezza gli aspetti culturali e teorici legati alla manipolazione fotorealistica, ne ha fatto anche un largo uso nelle sue creazioni artistiche.
10
Figura 3.
Dal progetto
Fauna Secreta, di Joan Fontcuberta, 1989. La didascalia
recita
ironocamente:
“Alopex
Stultus
posición
en
característica
de
aproximación
prudente”.
Secondo
il
fotografo
catalano la manipolazione è un fattore intrinseco a tutta la fotografia, e ciò che è importante non è tanto il processo in sé, ma lo scopo che si cerca di raggiungere,
l’intenzione
della manipolazione.
Ci si riferisce al critico e fotografo catalano Joan Fontcuberta, il quale ha osservato che “il computer è diventato una sofisticata protesi tecnologica della quale oggi non possiamo più fare a meno e non sorprende che gli artisti lo usino come un accessorio per il loro lavoro”. Inoltre ha messo in evidenza come precedenti evoluzioni tecniche non abbiano alterato il mezzo fotografico nella sua essenza, e che “la metamorfosi dai granuli d’argento ai pixel non è significante in sé”. “Dopo tutto – avverte Fontcuberta – “la struttura granulare delle fotografie tradizionali aveva già subito una trasformazione, nella stampa tipografica, con il punto fotomeccanico”. Per di più ha focalizzato un aspetto fondamentale da tenere in considerazione durante la lettura di un’immagine, e cioè che tutte le fotografie sono state “alterate”, nel senso che la fotocamera inquadra e mette a fuoco su un determinato soggetto, eliminandone così altri intorno.
11
Questo chiarisce meglio come bisogna trattare la questione dell’alterazione delle fotografie. Infatti, come ci suggerisce Fontcuberta, “la manipolazione è esente da valore morale. Ciò che
deve
essere
messo
sotto
accusa
è
l’intento
della
manipolazione, non il processo in sé”. 8 Sono le intenzioni, quindi, a dover essere prese in considerazione prima di condannare indiscriminatamente le modifiche apportate ad un’immagine come interventi falsificatori. Una cosa è modificare per migliorare, arricchire visivamente un’immagine, senza alterarne il significato, altro è modificare per mentire, occultare, ingannare, far credere, attraverso la realisticità della fotografia, qualcosa che non è mai accaduto. Tornando alla dissertazione di Mirzoeff, in più va notato come, per essere più accreditato, il suo discorso sia supportato, almeno parzialmente, da un’affermazione fatta all’inizio degli anni ottanta da una delle più importanti aziende di effetti speciali per il cinema, la Lucasfilm, la quale dichiarò - un po’ presuntuosamente si potrebbe aggiungere - che il suo lavoro implicava “la fine della fotografia come prova di qualunque cosa”9. A questo punto ci viene però da pensare: che valore hanno le immagini del cinema, un valore di prova che un dato evento sia accaduto, o piuttosto nessun valore di realisticità, visto che sono di tipo narrativo e non documentativo? E’ vero, però, che un certo tipo di manipolazioni applicate ad immagini documentarie possono falsare irreparabilmente il loro 8
dall’Introduzione di Joan Fontcuberta al libro di Pedro Meyer, Truths and
Fictions: A Journey from Documentary to Digital Photography. Aperture Foundation. New York 1995 (t.d.r.). 9
Mirzoeff, op.cit. pag. 142.
12
senso e la loro veridicità, ma come considerare allora le fonti dei documenti giornalistici, come le agenzie di stampa e quelle fotografiche, non dovrebbe essere loro e delle redazioni che vi si rivolgono il compito di fornire un’informazione trasparente10, piuttosto che lasciare al lettore l’arduo compito di verifica dell’autenticità di una notizia? D’altra parte la manipolazione della realtà operata dalla fotografia è riscontrabile anche quando non vi è apparentemente nessuna modifica al contenuto di un’immagine. Le falsificazioni più subdole sono quelle in cui il significato viene modificato attraverso una messa in pagina che usa una fotografia per scopi diversi da quelli per cui è stata scattata. Questo è realmente un problema nel mondo del fotogiornalismo, perché non di rado capita che fotografi autorevoli si vedano pubblicate le loro immagini con dei tagli o delle didascalie che non corrispondono alla realtà da loro ripresa. Ma come si può valutare l’attendibilità di una notizia se non affidandosi a coloro che la mettono in circolazione? Attraverso uno sguardo critico e un confronto tra più fonti diverse - verrebbe da rispondere. Ad esempio,
analisi
comparative
condotte
sulla
copertura
fotogiornalistica di un evento d’importanza storica mondiale come quello della Guerra del Golfo (1990-91), hanno messo in evidenza che le fotografie pubblicate su alcune delle più importanti riviste illustrate di attualità degli Stati Uniti come il Times, Newsweek e U.S. News and World Report ritraevano soprattutto attrezzature e
10
In effetti la trasparenza dell’informazione e la garanzia dell’attendibilità di
una fonte sono tra le caratteristiche più importanti del codice deontologico giornalistico.
13
manovre militari, senza mostrare né combattimenti, né le loro conseguenze, molto più gravi, ma solo quelle “spettacolari” riprese di bombardamenti notturni, che, ai loro pubblici, hanno fornito solo un’immagine molto distante dalla realtà degli eventi. Ciò nonostante, però, nella percezione degli spettatori dei media (ma non della realtà), persiste l’ingenua idea che la famosa Operazione Desert Storm sia stato l’evento testimoniato più da vicino nella storia del telegiornalismo. In quel periodo, infatti, videro un’enorme fortuna alcuni nuovi networks televisivi basati specificamente sull’attualità e le notizie dal mondo come la CNN o la NBC. Questi aprirono però, infelicemente, una nuova stagione per il giornalismo, quella in cui l’informazione, per far presa su pubblici sempre più ampi, si è mescolata con l’intrattenimento, generando polemiche negli strati alti della cultura e guadagnando in più definizioni denigratorie come quella di infotainment,
Figura 5. Le immagini di guerra veicolate dai media spesso non rappresentano le reali conseguenze di queste operazioni di morte. L’immagine a destra, infatti, proviene da circuiti d’informazione non ufficiale. Oggi, attraverso internet, è possibile però accedere più facilmente a questo tipo di notizie. In più si stanno formando veri e propri circuiti di contro-informazione (ovvero l’informazione che non è di pubblico dominio- vedi a questo proposito: http://www.disinfo.com/site/). Anche in questo va’ valutato il potenziale comunicativo dispiegato dalle nuove tecnologie digitali. (a sinistra, da U.S. NAVY Photo Archive; a destra dal sito http://www.thememoryhole.org/ war/gulfwar2/).
14
infomercial, o ancora soft journalism.11 Figura
6.
Alcuni
fotografi
presenti al conflitto del 199091, hanno poi reso disponibili le loro immagini attraverso la rete. È interessante il progetto editoriale
di
Peter
Turnley/Corbis, prodotto nel 2002,
che
rivaluta
le
sue
immagini di dieci anni prima in seguito alla riapertura del conflitto con l’Iraq. Pubblicato su: http://digitaljournalist.org/issu e0212/pt_intro.html
E allora, quest’ingenua considerazione della (di qualunque!) fotografia come prova, nelle corti d’appello, come nei quotidiani, come nei libri di storia, non dovrebbe essere stata messa in discussione (come poi è stato anche fatto) fin dalla sua nascita? Questo avrebbe portato con sé non più una fiducia eterna e duratura
nel
mezzo
fotografico,
ma
una
rivalutazione
e
un’attenzione al compito di “garante” del fornitore d’immagini, sia esso chi ha prodotto (leggi “catturato”) un’immagine, o chi la riutilizza per ulteriori propositi. E’ qui, nel momento della
sua
pubblicazione, infatti, che si costruisce e si determina buona parte del significato, nella fase della sua contestualizzazione.
11
Questi neologismi americani sono nati incrociando la parola information
(informazione) con altri termini quali entertainment (intrattenimento) e commercial (pubblicità), che poco hanno a che vedere col giornalismo, ma che, purtroppo, hanno molta più presa sui pubblici, ed inidividuano chi persegue una logica di profitto, piuttosto che di divulgazione culturale.
15
Così, per meglio comprendere la “forzatura teorica” delle argomentazioni di Mirzoeff, vanno fatte queste precisazioni metodologiche, che ci mettono in condizione di “tarare” il nostro giudizio critico rispetto al valore che le immagini acquisiscono nei differenti contesti in cui si trovano e del valore che viene loro attribuito da chi le sta guardando. Probabilmente, allora, sarà stato il “fascino speculativo” che risiede nel poter teorizzare la morte di un medium ad aver giocato un ruolo determinante nella formazione di questa nuova corrente di pensiero, che potremmo quasi chiamare di fotonecrofilìa. Ma in effetti, come vedremo, è difficile che un medium possa morire. Quello che ci insegnano gli studiosi di comunicazione, infatti, è che i vecchi media, resi obsoleti dall’avvento di nuove tecnologie mediali, vengono integrati nei nuovi, trasformando la loro sostanza materiale in altre vesti, ma lasciando inalterate le loro funzioni tradizionali. Questa evoluzione mediale, infatti, è stata denominata da due autorevoli studiosi del MIT di Boston, rimediazione12. Ma questo discorso di evoluzione mediatica sarà ripreso più avanti (v. cap.4), per adesso, invece, cercheremo di capire quali sono, se non quelli individuati da Mirzoeff, i punti in cui si incontrano, e si sono incontrati dagli anni della sua nascita, il medium fotografico e la morte.
12
Vedi J.D. Bolter e R. Grusin, Remediation. Understanding New Media, MIT
Press, Cambridge - Mass., 2000.
16
1.2 La fotografia della morte. Se guardiamo con attenzione a questi aspetti, ci renderemo conto che, nonostante il passaggio al digitale, molte delle pratiche fotografiche “più anziane”, malgrado la veneranda età di più di un secolo e mezzo, mantengono vive le loro cariche emozionali, e piuttosto che andare incontro alla morte, si trovano in una condizione di tensione continua con essa. Questo tema13, poi, lo ritroviamo in molti degli autori della “letteratura fotografica classica”. Molti sono stati, infatti, i teorici e scrittori che hanno indagato su questi aspetti, fornendoci interessanti contributi sui rapporti che intercorrono tra le pratiche fotografiche e la morte. Vediamone alcuni: Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo (S.Sontag).14
13
E’ interessante a riguardo lo studio condotto da Stefano Ferrari nel suo
saggio Il perturbante della fotografia. Qualche indagine sulle implicazioni psicologiche
del
fotografare.
Reperibile
dal
sito
http://www.unibo.it/estetica/home.htm (al 03/2004). 14
S. Sontag, Sulla fotografia, tr. it. Torino, Einaudi, 1978, p. 15.
17
Se una fotografia ci commuove è perché è vicina alla morte (Christian Boltanski).15 La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull’ala del tempo, un carattere commemorativo, anche se è una foto dell’altro ieri. E la vita, che vivete per fotografarla, è già in partenza commemorazione di se stessa (Calvino).16
È stato forse Roland Barthes, nel suo brillante saggio del 1980, La camera chiara, che più di ogni altro ha sottolineato questo motivo, parlando, per esempio, di quella “cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. E pensando al
grande impegno profuso da ogni
fotografo
professionista per conferire ai suoi modelli un’impressione di naturalezza e appunto di “vita”, Barthes osserva poi con ironia: Si direbbe che il Fotografo, atterrito, debba lavorare moltissimo per far sì che la Fotografia non sia la Morte. (…) Per quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di “rendere vivo” non può essere che la negazione mitica di un’ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti.
15
In K.Robins ¿Nos seguirá conmoviendo una fotografia? in M.Lister (ed.) La
imagen fotográfica en la cultura digital. Paidos, 1997. Ed. orig. in inglese 1995 (t.d.r.). 16
I. Calvino, L’avventura di un fotografo, in Gli amori difficili, Torino, Einaudi,
1970, p. 35.
18
Ma la morte, secondo il critico francese, è presente non solo, come vedremo, nell’esperienza del venir fotografati, ma anche nell’atto stesso del fotografare: Tutti questi giovani fotografi che si agitano nel mondo, consacrandosi alla cattura dell’attualità, non sanno di essere degli agenti della Morte.
Insomma nella fotografia, sotto ogni aspetto, egli non può non riconoscere che: c’è sempre questo segno imperioso della mia morte futura.17
Per non parlare poi delle tante, finissime osservazioni che Barthes propone a proposito delle relazioni della fotografia con il motivo del lutto, e nella fattispecie con il lutto, proustianamente mitizzato, per la morte di sua madre. Sono forse questi, allora, gli aspetti in cui risiede la “mortalità” della fotografia, cioè la sua capacità di metterci di fronte alla morte, di farci vivere in qualche modo un’esperienza di partecipazione della finitezza e della caducità degli eventi. “Per quanto ci riguarda potremmo provare a ribadire ulteriormente questa associazione della fotografia con la morte, segnalando intanto alcuni elementi oggettivi e
documentari
, che
appartengono alle sue origini nel secolo scorso. Quasi a dire, dunque, che questo senso di morte che incombe su di essa
17
Da R. Barthes, La camera chiara, Einaudi , Torino, 1980. Cit. pp. 11, 16, 33,
98.
19
costituisce come una specie di suo marchio di fabbrica”. (S.Ferrari) La conferma di questi stretti rapporti tra la fotografia e la morte si ritrova, infatti, anche nell’osservazione di particolari pratiche che avevano come soggetto il vero e proprio defunto. Infatti, tra i primi curiosi usi che si fecero della fotografia ci fu quello che tentava di sostituire la funzione della maschera mortuaria, pratica a lungo utilizzata sui personaggi di rilievo che consisteva nell’applicare un calco di cera sul viso del defunto per “immortalarne” i suoi lineamenti. Quando si pensò di sostituire la maschera di cera con gli alogenuri d’argento del procedimento fotografico, che avrebbero immortalato ancora meglio la persona nell’atto estremo, non si immaginava ancora con quale forza realistica le immagini fotografiche si sarebbero imposte agli occhi della gente (vedi Figure 7 e 8). Ma fu proprio a causa dell’estrema realisticità di quelle immagini che un’abitudine nata prima della fotografia finì per cadere nel cattivo gusto e quindi nell’oblio.
20
Figura 7. Un dagherrotipo come memento
Figura 8. Con la fotografia nel XIX sec. si
mori (immagine tratta da: Memento Mori:
tentò
Death and photography in 19th Century
maschera mortuaria, generando però una
America, Dan Meinwald).
galleria infinita di morti “foto-viventi”, che
di
sostituire
la
funzione
ben presto fu tacciata di cattivo gusto.
21
della
Un altro campo in cui la fotografia ha intrecciato la sua strada – sempre a causa della sua presunta realisticità – è stato quello del paranormale e più in particolare fu di notevole “aiuto” a tutta una schiera di spiritisti del XIX sec. che la utilizzavano per rendere più credibili le loro sedute in cui si evocavano gli spiriti degli antenati scomparsi. Grazie
alla
fotografia,
infatti,
era
“miracolosamente” possibile vedere (o meglio “dare a vedere”) il proprio antenato
mentre
accanto, all’occhio
era
lì
invisibile umano,
catturato
ma
dall’occhio meccanico dell’apparecchio
fotografico,
considerato
quasi come un “garante sull’accaduto”. Durante la “messinscena”, Figura 9. Un esempio di “fotografia di fantasmi”: Raynham hall spirit of Dorothy Walpole of East Anglia, England http://www.rockymountainparanormal.com.
infatti,
veniva realizzata una lastra fotografica
dell’ambiente
agli occhi di tutti, questa però
aveva
ricevuto
–
segretamente - già una precedente esposizione con l’immagine di un parente scomparso, così al momento dello sviluppo, con solenne stupore dei presenti alla seduta, appariva la paranormale fotografia con il “fantasma”.
22
Un altro capitolo stravagante di storia della fotografia, che sembra portarci nella medesima direzione, è quello relativo al cosiddetto “fantasma dell’ultimo istante”, secondo cui la retina del morto
conserverebbe
impressionate
come
su
una
lastra
fotografica le ultime immagini viste. Si tratta indubbiamente di un tema fantastico, che però ebbe nella seconda metà dell’Ottocento una notevole diffusione anche negli ambienti scientifici, dando luogo ad esperimenti davvero singolari. Venne ripreso soprattutto dalla criminologia, nell’ipotesi che il volto dell’assassino rimanesse impresso negli occhi della vittima; “è di questi giorni – scriveva nel 1865 un giornale americano – la scoperta di una nuova applicazione della fotografia alla medicina legale; si è riusciti, sottoponendo al dagherrotipo la retina di un individuo assassinato, a ritrovarvi l’immagine di colui che lo aveva colpito.”18 Si tratta di un motivo che ha avuto poi una larga diffusione sia nella letteratura che nel cinema. Per concludere questo excursus, può essere utile citare di nuovo Roland Barthes che, nella sua indagine molto personale ed introspettiva illustrata nel suo ultimo libro La camera chiara, ci ha ricordato quanto il
senso della morte sia legato anche
all’esperienza dell’essere fotografati, e come, non a caso, ed evidenziandone il fondamento semantico, nel linguaggio comune ci si riferisce a questa situazione con l’espressione essere immortalati. Immaginariamente, la Fotografia (quella che io assumo) rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non 18
Cit. in M. Milner, La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, tr.it.
Bologna, Il Mulino, 1989, che dà un certo spazio a queste ricerche. Si veda anche J.Clair, Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Milano, Leonardo, 1989.
23
sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una microesperienza della morte (della
parentesi): io divento veramente
spettro.19
1.3 La
fine
della
fase
materica:
la
fotografia
“scompare”.
Si ammette quindi la necessità di andare oltre gli aspetti meramente materiali della tecnica, per riconoscere alla fotografia il suo ruolo di artefatto culturale implicato in pratiche concrete di produzione e di consumo. Tenuto conto di ciò, l’unica cosa che potrà effettivamente morire saranno le tecniche e le tecnologie legate all’era della contingenza fisico-chimica dell’immagine fotografica, un’epoca in cui questa è stata indissolubilmente vincolata -incisa- ad un supporto materiale. Ed è solo in questo modo che può essere interpretata la teoria secondo cui: Con la nascita dell’immagine computerizzata e l’invenzione di strumenti digitali per manipolare la fotografia, si può dire che la fotografia sia morta20;
ma non possiamo estendere la validità di questo enunciato alle molteplici pratiche culturali in cui la fotografia è immersa, infatti, lo stesso Mirzoeff, accorgendosi di ciò, ci avverte, seguendo a dire che: 19
Vedi R. Barthes, op. cit.,p. 15.
20
Mirzoeff, op. cit, pag. 111.
24
(…) continuerà di certo ad essere usata quotidianamente e in gran quantità, ma la sua pretesa di rispecchiare la realtà non può più essere sostenuta. La pretesa della fotografia di rappresentare il reale è svanita.21
Così dopo averne parlato come se fosse quasi un “morto vivente”, puntualizza qualcosa che già fu evidenziata in piena vitalità analogica, vale a dire che da sempre la creazione di un’immagine attraverso una lente fotografica non rispecchia oggettivamente la realtà, in quanto coinvolge in una certa misura delle
scelte
soggettive,
dalla
selezione
del
soggetto,
all’inquadratura, fino alle molteplici impostazioni dei parametri interni al dispositivo fotografico, che in qualche modo ne costituiscono il linguaggio. Questo accade anche dove l’intervento umano
sembra
meno
evidente,
come
nel
caso
della
videosorveglianza, dove c’è sempre qualcuno dietro l’occhio fotografico che sceglie cosa guardare e come inquadrare; o anche quando le scelte estetiche sono lasciate alla macchina, si pensi agli automatismi adatti ad ogni situazione, anche lì c’è stato l’intervento di qualcuno che ha impostato l’apparecchio sulla base di norme sociali ed estetiche come quelle di chiarezza e leggibilità. In ognuno di questi casi comunque: Yet, it remains the photographer who frames and takes the image, not the camera itself.22 21 22
ibid. (corsivo aggiunto) M.Sturken, L.Cartwright, The myth of photographic truth, in Practices of
Looking: an Introduction to Visual Culture. 2001, Oxford University Press, cit. pag.16.
25
La fotografia sta scomparendo come immagine materiale, come “superficie nel mondo tangibile” –senza perdere però la sua specificità funzionale– e si va trasformando completamente in pura informazione. In questo secolo e mezzo, infatti, siamo stati abituati a vedere la fotografia solo “dal vivo”, ossia attraverso la stampa (fotografica o tipografica). Oggi, con il trasferimento al digitale degli archivi d’immagini storiche, stanno emergendo nuove problematiche legate anche alla conservazione ed al reperimento dei loro originali materici.
1.3.1 La fotografia analogica sarà “ibernata viva”. È sintomatico, in questa prospettiva, un articolo apparso sul New York Times nell’aprile del 2001 intitolato “Burying the image for the Future”, in cui si pone la questione della conservazione di enormi quantità di materiali accumulati in questi primi 160 anni di storia fotografica. In quest’articolo la giornalista Sarah Boxer illustra la nuova politica dell’archiviazione dei materiali fotografici di una delle più importanti banche di immagini, la Corbis Image. Questa
agenzia
ha
acquisito
l’incommensurabile
Archivio
Bettmann, che conta piu di 17 milioni di fotografie, costituendo una sorta di memoria visuale del XX secolo.
26
Figura 10. La struttura ideata dalla Corbis® è collocata in una vecchia cava
di
precedenza
calcare
utilizzata
in
dall’industria
dell’acciaio di Pittsburgh. Oggi nuove aree nella cava si stanno preparando ad accogliere nuovi centri di conservazione.
Figura 11. Kenneth Johnston, Manager della collezione storica della Corbis, mentre esamina alcune delle migliaia di fotografie scattate durante la Guerra del Vietnam dal fotografo giapponese Kyoichi Sawada, che iniziò a lavorare per la United press International nel 1961 e fu onorato del Premio Pulitzer nel 1965 per la copertura del conflitto. Sawada fu ucciso in Cambogia nel 1970, mentre documentava il feroce regime del Khmer Rouge.
L’archivio si sposterà così in un inaccessibile mondo sotterraneo, rendendone molto più difficile la consultazione da parte di storici dell’immagine e ricercatori. Per rendere però fruibile in qualche maniera questo prezioso archivio, è stato sviluppato un metodo di accesso digitale alle immagini, che però consente – ma ci si augura consentirà ancora di più in futuro - la visione di meno del 2% dell’intera collezione, infatti sono solo 225.000 le immagini attualmente digitalizzate. Gran parte della storia visiva del nostro secolo è stata rimossa dalle sedi metropolitane, per essere rinchiusa, lontano dal fervore di ricercatori e studiosi, in un “obitorio sotto zero”. Infatti si è visto, attraverso dei test a breve termine che prevedono la capacità di
27
conservazione a lungo termine dei materiali fotografici dell’era analogica, che la conservazione a temperature pari a -18 gradi centigradi estenderebbe la vita materiale di un’immagine di 340 volte rispetto ai tradizionali metodi di stoccaggio, ; e a -26 gradi, di almeno 1000 volte. La misura del cambiamento, però, è sottolineata provocatoriamente dalla frase che conclude l’articolo: “Analog is having a burlal and digital is dancing on its grave”.23 Non si tratta semplicemente della morte dell’analogico con i suoi “diritti di sepoltura” estesi all’apparatus tradizionale della fotografia – stampe, negativi e lo sguardo inquadrante dell’occhio del fotografo – ma la scomparsa delle immagini stesse. Perché è proprio questo ad essere messo in gioco nella storia della “necropoli fotografica” ideata dalla Corbis per questo enorme patrimonio d’immagini. Ci sono inoltre senza dubbio dei seri problemi di politica culturale in questa vicenda: problemi di capitalismo monopolistico della digitalizzazione24; l’aver serrato l’occhio della storia fotografica stessa; l’aver sostituito un effettivo archivio fotografico con il suo codificato, e drammaticamente impoverito, corrispettivo digitale. Non più immagini fotografiche, non più le esalazioni maleodoranti di negativi in decomposizione; non più mucchi di palpabili immagini finemente refrigerate; non più immediatezza materiale. Oggi, viviamo nella cultura del recupero remoto
di
immagini
archiviate
digitalmente:
immagini
accuratamente custodite a debita distanza dal contatto umano, incontaminate dallo scorrere del tempo. L’archivio d’immagini è 23
dal New York Times, 15 aprile 2001. “L’analogico è stato sepolto e il digitale
balla sulla sua tomba” (t.d.r.). 24
da Arthur Kroker, The death of analog/The power of analog. Pubblicato il
3/20/2002.
Disponibile
su
http://www.ctheory.net/text_file?pick=331
(al
05/2004)
28
ridotto all’instabile natura del codice cibernetico: igienico, sterilizzato, catalogato su schermi tremolanti, intangibile alla mano,
invisibile
all’occhio,
incontaminato
da
effimere
immaginazioni. Ma cosa significa realmente tutto ciò? È semplicemente un’altra storia del trionfo del digitale sull’analogico, della sovranità della luce su quella “curiosa mistura” di luce, tempo e chimica che è stata la fotografia? Sicuramente i più accaniti sostenitori della morte della fotografia cercheranno in questa storia ulteriori conferme alle loro instabili teorie. Guardando più realisticamente, invece, se la storia fotografica del XX secolo può essere “sepolta viva”, questo può essere semplicemente un indizio del fatto che l’immagine ha preso congedo dalla stabile materialità del mezzo analogico basato sull’apparato fisico-chimico tradizionale, per emigrare verso i territori più oscillanti –fatti di luce e cariche elettriche– dei codici digitali. Oggi l’immagine fotografica si è transustanziata in numero. Senza perdere, però, la sua “anima di luce”. In risposta a queste polemiche speculative di giornalisti e teorici
dell’immagine,
la
Corbis®
stessa
ha
inoltrato
un
comunicato stampa25 il giorno seguente l’articolo del New York 25
Il comunicato della Corbis®, inoltrato il 16 aprile 2001, era titolato: Corbis®
to Build Premiere Sub-Zero Photographic Film Preservation Facility. Efforts ensure preservation and accessibility of the Bettmann Archive® and other historical images for thousand of years. L’intento era far riconoscere l’importanza del progetto di conservazione dandone specifiche più esaustive di quelle fornite dall’articolo del New York Times. L’introduzione al comunicato recita
infatti:
“Embracing
its
role
of
cultural
steward,
Corbis®
(www.corbis.com), a leader in digital photography and imagery, today announced it plans to build a state-of-the art, sub-zero film preservation facility
29
Times. In questo documento si precisano le linee direttive che hanno portato a questo progetto, sottolineando l’importanza di una tale operazione in questo momento storico per la fotografia. Una testimonianza autorevole è quella di Henry Wilhelm, presidente della Wilhelm Imaging Research Inc., la compagnia che ha assistito la Corbis in questo progetto di conservazione: “è meraviglioso che, in questo capitolo finale della storia della fotografia tradizionale, durata più di 150 anni – e che adesso sta venendo rapidamente sostituita dalle tecnologie del digital imaging – è stata intrapresa un’opera cosi importante per preservare un così enorme ed importante corpus di materiale originale, così da renderne possibile una fruizione versatile da parte delle generazioni future, e soprattutto una conservazione dei loro originali materiali”; ed infatti continua dicendo: “la conservazione di queste fotografie renderà inoltre disponibile in futuro la restaurazione dei negativi originali e delle diapositive, attraverso procedure
di
riduzione
della
grana
della
pellicola,
e
di
miglioramento del contrasto e dei dettagli delle immagini. In più, per i fotografi le cui immagini sono contenute nelle collezioni della Corbis, questo nuovo servizio di conservazione proteggerà i loro lavori di una vita – ed il loro posto nella storia della fotografia – lontano nel tempo. Il nuovo impianto della Corbis sarà utilizzato in western Pennsylvania to store and preserve the massive and aging collection of the Bettmann Archive® and other historical images for centuries to come. To accomplish this goal, Corbis is constructing a 10,000 square foot underground storage facility and film digitization lab that will preserve and make accessibile worldwide the millions of photographs in the Corbis collection in their original form for countless generation. Contruction of the facility, and the movement of the Bettmann Archive into it, is expected to be completed by winter 2002. (…) Prior to , and after the move, the acccess will be the same as it has been. Fonte: http://pro.corbis.com/
30
come guida per la creazione di nuovi standard di conservazione in tutto il mondo, sia dalle strutture museali che da quelle commerciali”. Da queste parole possiamo facilmente intuire quale sarà il futuro, riguardo la gestione e l’archiviazione, sia delle immagini prodotte durante la fase materica della fotografia (e che forse, a livello “artigianale”, verranno ancora prodotte), sia delle nuove immagini fotodigitali, che oggi si vanno imponendo con forza sempre maggiore nel panorama della fotografia professionale.
1.4 La nuova vitalità "fotodigitale”. Per questo non possiamo essere d’accordo con la generica e ormai consumata idea secondo cui, con l’avvento delle nuove tecnologie digitali, la fotografia sta morendo. In realtà, più che ad una morte, stiamo assistendo ad un processo di maturazione e rivitalizzazione su almeno due livelli, che poi sono tra loro strettamente collegati ed interdipendenti. Il primo livello di maturazione coinvolge il processo fotografico nelle sue diverse fasi, che possono essere sintetizzate in queste quattro: • ripresa/genesi dell’immagine • trattamento/manipolazione • visualizzazione/edizione/stampa • distribuzione/immagazzinamento/archiviazione Così da una parte l’introduzione delle tecnologie digitali ha comportato l’eliminazione dei processi fisico-chimici cui doveva essere sottoposta l’immagine prima di materializzarsi ai nostri occhi, dall’altra ha condotto ad una più versatile gestione dei
31
parametri interni alle immagini, in termini di elaborazione grafica e controllo dei valori tonali, ed in più ha modificato totalmente i sistemi d’archiviazione, di trasmissione e di distribuzione su larga scala adottati durante la cosiddetta era analogica rendendoli più diretti, o quasi istantanei. La codifica digitale, infatti, riducendo qualunque tipo d’informazione a sequenze di numeri, astraendola momentaneamente da qualunque caratteristica materiale (e cioè trasformandola in cariche elettriche positive o negative), ha mutato la maneggevolezza delle immagini, sebbene si tratti di una versatilità immateriale, virtuale. Considerato questo aspetto, si dovrebbe forse rivedere l’intera terminologia tecnica, per adattarla al nuovo sistema. E proprio lo stesso termine fotografia, la cui etimologia, come tutti sanno, si riferisce alla caratteristica materiale di “abrasione” vera e propria di una superficie, causata dall’azione della luce, ossia la scrittura della luce, parrebbe non funzionare bene come prima, e dovrebbe forse essere sostituito da una definizione più adeguata ai tempi. Si ripropone qui un termine già incontrato altrove26, che definisce l’immagine catturata dai nuovi sensori elettronici27 non più come fotografica, ma come 26
Il termine è proposto come sostitutivo di fotografico per evidenziare la
differenza generativa dei due processi di cattura d’immagini, l’analogico e il digitale. “L’immagine fotografica (fotodigitale?) nasce già manipolabile, falsificabile; nasce copia di se stessa per cui ogni riproduzione (numerica alla base) è sempre lo stesso originale; un positivo in assenza di negativo; la cui autenticità trascina con sé un alone di inautentico che è immediatamente iperautentico; più autentico dell’autentico.” in L. Boccia Artieri L’immagine virtuale: deriva tecnomediale e costruzione della realtà visuale. cit. pag.97, in Mondi da vedere. Verso una sociologia più visuale? - a cura di Faccioli P. Harper D, Franco Angeli, 1999. 27
Ne esistono di differenti tipi: CCD, CMOS, X-Foveon®, SuperCCD sono tra i
più commercializzati. Questi supporti fotosensibili hanno quasi definitivamente
32
fotodigitale (o, piuttosto, fotonumerica, volendo seguire l’esempio francese che, riportando in lingua tutti i termini tecnici, la definisce photographie numérique)28. Questa specifica terminologica serve non tanto per attribuire un nuovo statuto alla fotografia, quanto per porre l’accento sul ruolo che la materialità dell’immagine e la sua tecnologia
generativa
hanno
avuto
nella
formazione
dell’immaginario collettivo circa le caratteristiche specifiche del fotografico. Infatti, ad esempio, è divenuto luogo comune associare alla fotografia l’oramai glorioso rullo di pellicola da 35mm, con la caratteristica dentellatura sui due lati per consentirne un più semplice caricamento29. Probabilmente in sostituito le pellicole e gli alogenuri d’argento, dopo piu di 150 anni dalla scoperta della fotosensibilità chimica. 28
Il termine “digitale”, nella sua prima accezione semantica, come recita il
Devoto-Oli significa: “relativo alle dita; impronte digitali”. La sua accezione nel linguaggio elettronico è, infatti una derivazione dal termine inglese digital, derivato da digit, ossia cifra (di un sistema di numerazione). Entrambi i significati, però condividono la stessa radice che proviene dal latino digitus, dito (su cui si conta). 29
In realtà, il formato da 35mm
fu progettato per adattare la pellicola
fotografica in rullo alle macchine da presa cinematografiche. Per tale scopo, infatti, era necessaria una maggiore precisione di registro, a causa della velocità cui erano catturate quelle immagini (dai 20 ai 25 fotogrammi per secondo),
che
avrebbero
generato
l’effetto
di
movimento
sfruttando
ingegnosamente una peculiarità della visione umana, quella della persistenza retinica dell’immagine, grazie alla quale l’occhio trattiene un’immagine luminosa sulla retina per una frazione di secondo dopo averla visualizzata. Così le migliaia d’immagini sequenziali del cinema ci appaiono alla vista come un flusso scorrevole e non separate tra loro. In modo bizzarro, però, questo supporto è “tornato” alla fotografia, grazie alla brillante invenzione di una tipologia di fotocamera che ha rivoluzionato la pratica fotografica: la famosa Leica. Sfruttando, infatti, questo piccolo formato a favore di una riduzione delle dimensioni dell’apparecchio, ha permesso a nuove schiere di fotografi un uso
33
futuro questo luogo comune verrà dimenticato per essere sostituito con qualcosa di più adatto ai tempi. In questi anni, ad esempio, stiamo assistendo ad una “corsa ai megapixel”, che rappresenta l’attuale sfida tra i produttori di fotosensori elettronici e porterà col tempo, da una parte all’individuazione di nuovi standard professionali, dall’altra alla formazione di un nuovo immaginario tecnologico, che connetterà l’idea di immagine fotografica con le nuove strumentazioni digitali. Le innovazioni e le evoluzioni legate a questo primo livello verranno analizzate con maggior chiarezza nelle prossime pagine, per rendere conto della maturazione tecnologica cui si va incontro. Intanto vanno chiariti quali altri “sconvolgimenti culturali” sono in atto in questa fase di transizione al digitale. Il secondo livello -che più generalmente potremmo definire della cultura visiva- in cui si esprime questa rivitalizzazione digitale, riguarda proprio questo immaginario collettivo connesso al fotografico e come si sia evoluto nel corso di questi 160 anni di storia. Fin dalla sua invenzione nel 1839, infatti, la fotografia è stata considerata capace di rappresentare la “vera realtà”. A testimonianza di ciò, infatti, è stata utilizzata sempre più frequentemente come prova nelle aule di tribunale, ed è stata sostenuta come garanzia che una cosa sia accaduta.
del mezzo fino a quel momento sconosciuto, dando inizio alla stagione d’oro (tristemente conclusa già da tempo…) della fotografia “d’azione” o del “momento decisivo”, tra i cui maggiori esponenti troviamo nomi di culto come H.Cartier-Bresson, R.Capa, J Koudelka, W. Klein, D. Seymour, alcuni dei quali hanno fondato una delle maggiori agenzie fotogiornalistiche, la MAGNUM photo.
34
Questa
idea
-che
la
fotografia
abbia
il
potere
di
rappresentare “la realtà per ciò che è”- nasconde l’innocente pregiudizio culturale che eguaglia una fotografia con “la verità”. È a
causa
dell’estrema
realisticità
delle
immagini
prodotte
dall’apparecchio fotografico, infatti, che nel ricevente si instaura una sorta di fiducia ingenua nei confronti di questo strumento di rappresentazione. Il motivo di questa ingenuità va’ forse ricercato nelle ragioni che hanno portato all’invenzione della fotografia stessa. Dal momento che, inizialmente, era nata dall’esigenza di una fedele riproduzione della realtà (cioè fissare le immagini prodotte dalla camera obscura rivolta verso una porzione di realtà) più che di una semplice rappresentazione (compito fino a quel momento affidato alla pittura ed alla mano dell’artista) , la sua storia è stata segnata da un forte contrasto tra chi l’ha voluta al servizio della scienza (quindi di una riproduzione esatta, verificabile, misurabile) e chi invece tentava di accreditarle una posizione tra le arti (innalzando le potenzialità espressive insite nella rappresentazione fotografica). Questi contrasti, in più, sono stati acuiti dalle idee filosofiche predominanti nella seconda metà dell’ottocento che avevano le loro basi in quel positivismo scientifico che vedeva tutto misurabile, replicabile, verificabile. Così l’atteggiamento nei confronti della fotografia si è costruito di norma su questi presupposti, nonostante gli allontanamenti di alcune pratiche –quelle più espressive che documentative- da questa “normalità”. Durante gli ultimi anni della sua storia, però, questa idea di veridicità fotografica è stata messa in questione. Con
la
diffusione
su
ampia
scala,
non
più
solo
professionale, delle fotocamere digitali – in seguito al ribasso dei
35
prezzi - e con le oramai estese capacità di calcolo dei personal computer domestici (home computer) che, con l’utilizzo dei diffusi programmi di elaborazione d’immagini come i noti Photoshop™ o Illustrator™, diventano vere e proprie workstations30, permettendo pressoché qualunque tipo di trattamento grafico da parte di utenti relativamente poco esperti31, diventa chiaro che la maggior parte di fotografie che vediamo in giro sono, in qualche maniera, sempre più spesso manipolate digitalmente. Così, grazie all’accessibilità di questi strumenti di manipolazione digitale, la credenza che la fotografia sia in grado di rappresentare la “verità” è stata smascherata e ricacciata come un mito. In realtà, come vedremo, durante tutta la sua storia la fotografia si è sganciata più volte da questo ingenuo “postulato”, ammettendo pratiche più o meno “pittoriche” che ne hanno determinato uno spostamento dalla riproduzione obiettiva verso la rappresentazione personale. Ma questa doppia natura è stata a
30
Termine utilizzato per definire una vera è propria “postazione di lavoro” in
grado di gestire un processo produttivo (di immagini qui s’intende) in tutte le sue fasi, dall’input (acquisizione), all’output (stampa o edizione) passando attraverso
l’imaging
(elaborazione
d’immagini).
Questo
processo
era
delocalizzato nelle sue diverse fasi su apparati produttivi che richiedevano competenze molto differenti, rendendo impossibile la gestione dell’intero workflow (flusso di lavoro) da parte di un unico operatore. Si pensi ad esempio all’immagine tipografica, con la sua peculiare fase di creazione del tipo per la produzione di copie; o ancora, nella stessa fotografia amatoriale, la classica “attesa dello sviluppo” per poter vedere le immagini stampate. Oggi, nell’era del digitale siamo in grado di controllare personalmente, e con relativa economicità,
l’intero flusso di lavoro attraverso un unico strumento, il
computer. 31
Per questo motivo si parlerà, più avanti, di democratizzazione del processo
fotografico.
36
lungo sottovalutata, perché in principio le cosiddette “tecniche pittoriche” erano di competenza dei soli artisti o, piuttosto, degli “artigiani dell’immagine”. Per cui le conseguenze di queste tecniche di alterazione delle immagini sono rimaste celate all’occhio inesperto dell’osservatore comune, che ha continuato a valutarne l’attendibilità solo sulla base della forte componente di realisticità da queste veicolata.
1.5 Le “minacce digitali” verso una storia analogica. Quali sono, allora, i motivi per cui si è sentito, e si sente parlare ancora di “morte della fotografia”? Non si vuole, in questa sede, negare completamente ogni fondo di verità che c’è in questa affermazione, ma è importante riconoscerne i limiti, prenderla con la dovuta cautela. Ci possono aiutare, in questa operazione, le riflessioni di Martin Lister, uno dei pionieri dei cultural studies che per primo ha riconosciuto l’incoerenza di queste prime “avvisaglie di morte” nei confronti della fotografia. Secondo Lister, infatti, la spiegazione va ricercata in riferimento ai processi di produzione e ricezione delle opere fotografiche, poiché è stata capovolta una tradizione di rappresentazione perfettamente radicata e stabile in luogo di un’altra, che ha generato un sentimento di insicurezza dovuto alla scarsa padronanza delle nuove tecniche da parte dei vecchi operatori dell’immagine, che si sono trovati a doversi confrontare con un nuovo panorama professionale, perdendone spesso il controllo.
37
Il fotografo si è sempre mosso in un mondo sociale e fisico con il suo occhio specializzato e qualificato, con una macchina che considerava come un’estensione del suo “corpo osservatore”, e nella camera oscura dove si praticavano altre operazioni che richiedevano una grande destrezza artigianale. Oggi queste abilità si sono trasformate nella piccola scatola di plastica grigia del personal computer. A questo livello si esprimono i timori per la possibile scomparsa delle competenze, delle funzioni sociali e delle responsabilità politiche associate alla vocazione o alla professione del fotografo, e in particolare a quella del documentarista tradizionale. E per il consumatore d’immagini fotografiche, ossia una gran parte della popolazione mondiale a differenti livelli, non è più pensabile, ormai, mantenere la convinzione in un vincolo significativo tra l’apparenza del mondo e la configurazione concreta di un’immagine materiale.32
Però,
nonostante
il
timore
espresso
dagli
addetti
all’immagine, che hanno per primi dato l’annuncio di un tale cambio storico dal punto di vista professionale, in realtà ciò che interessa non è il passaggio dalle abilità analogiche ad altre digitali, né tanto meno il cambiamento di ricezione delle immagini su supporti alternativi, quello che importa è guardare come sta cambiando la valutazione circa il compromesso che la fotografia ha realizzato sin dalle sue origini, cioè la pretesa di esibire il referente reale. Gli usi storici che sono stati fatti della fotografia come evidenza o come documento fedele delle realtà, sono stati sempre in continua contraddizione. Ma nonostante siano state molte le 32
In M.Lister (editor) – Introductory Essay in The Photographic Image in
Digital Culture, Routledge, London 1995. Traduzione dall’edizione spagnola, Barcelona, Paidos, 1997, pag. 16.
38
pratiche fotografiche che hanno cercato di far cadere questo presupposto, rifuggendo dalla rappresentazione realistica, quello che resta certo è che l’osservatore comune ha continuato a credere che “dietro una fotografia” ci sia sempre un referente, ed in più, che questo tipo di immagine lo presenti fedelmente.
Oggi, a dieci anni dalle critiche di Lister (1995) nei confronti di chi vedeva la fotografia in fase di decadenza, possiamo, col senno di poi, dare ragione a ciò che egli prefigurava. L’impatto del digitale sulla produzione, distribuzione e consumo delle immagini fotografiche non può essere ridotto alla collisione di una tecnologia su di un’altra. La misura del cambiamento non deve concludersi in schemi di rivoluzione tecnologica astratti e frettolosamente enunciati, ma va cercata nel disordine, nella complessità del vissuto, guardando alla fotografia –nelle sue componenti materiali ed immateriali- come un oggetto culturale e non solamente tecnologico. Questa prospettiva trova conferma nel pensiero di Hal Foster, riguardo al presente nel passaggio da una cultura moderna ad una cultura postmoderna, e che Lister paragona alla transizione da una cultura analogica ad una digitale. Secondo Foster (1993), non possiamo parlare di un “adesso”, perché il presente è un tempo asincrono, in cui si mescolano tempi differenti. Un presente in cui la coscienza del tempo non può essere tracciata dal solo cambiamento di stato, tra moderno e post-moderno, ma ha origine dal parallasse che si viene a creare tra i due stati, ossia il loro progressivo avvicinamento33. 33
Da Hal Foster, Postmodernism in Parallax, in October, n.63.
39
Riportando questa visione del cambiamento all’immagine fotografica, bisogna evidenziare allora che anche il cambio tecnologico è in tensione con elementi di continuità storica e culturale. Ciò significa che è importante comprendere come le forme culturali, le istituzioni, i discorsi che si erano sviluppati intorno all’immagine fotografica tradizionale, si siano convertiti nel contesto che dà forma alla nuova cultura digitale. Per far questo possiamo iniziare ad analizzare fino a che punto le nuove tecnologie siano in relazione attiva, di dipendenza e di continuità, con la cultura fotografica classica, che ha ormai superato i 160 anni di storia e – possiamo aggiungere – ne avrà almeno altrettanti davanti, durante i quali lo sviluppo tecnologico aumenterà
in
maniera
sempre
più
vorticosa,
generando
continuamente un senso di tensione tra il vecchio ed il nuovo.
40
2
IL MITO DELLA VERIDICITÀ FOTOGRAFICA E L’ILLUSIONE REALISTICA DELLE IMMAGINI.
La pretesa della fotografia di rappresentare il reale, più che svanita – come affermava Mirzoeff34 -, si può dire che sia stata “sovvertita” con l’emergenza del digital imaging. Con l’ausilio della tecnologia digitale, infatti, si può attuare ogni ordine di modifica alle immagini senza che ciò venga percepito da chi le riceve. Questo fenomeno ha generato una sorta di sfiducia nei confronti della considerazione di una fotografia come immagine veridica. In realtà, però, la “falsificazione fotorealistica" non è assolutamente una novità nella storia della fotografia, come avremo modo di vedere più avanti, ma questo fenomeno sta oggi raggiungendo proporzioni sempre più smisurate proprio grazie all’accessibilità di questi strumenti di manipolazione. In più, oltre alle possibilità di interferire sulla trasparenza dell’informazione, attraverso queste alterazioni invisibili, le tecnologie digitali hanno reso molto più diretta la distribuzione e la pubblicazione di queste immagini. Se pensiamo che oggi qualunque utente di internet può letteralmente “pubblicare” su uno spazio virtuale qualsiasi tipo di informazione senza dover rendere conto di ciò che sta diffondendo, come invece avviene per qualunque pubblicazione ufficiale che ha nel direttore responsabile una figura di garante di ciò che viene pubblicato, allora dobbiamo trattare queste fonti 34
N. Mirzoeff – La morte della fotografia. In Introduzione alla cultura visuale
(1999), trad.it. 2002.
incerte con un occhio ancora più vigile. Nonostante ciò, il fenomeno dei cosiddetti photo-fakes35, ha inondato a tal punto la comunicazione visiva attraverso le reti, che non è difficile imbattersi in immagini che ingannano anche i più attenti lettori e persino alcuni editori.
2.1 Foto-verità e foto-inganni: Net-lore36 e photo-fakes. In questa operazione “demistificatrice” nei confronti della veridicità fotografica, Internet ha giocato un ruolo di primaria importanza. Lungo le maglie della
rete, infatti, circolano
quotidianamente milioni di immagini, sia pubblicate all’interno di spazi web, e quindi accessibili a tutti, sia come allegati di posta elettronica, cioè indirizzati verso singoli individui o gruppi37. 35
Espressione usata per riferirsi ad immagini fotografiche altamente
realistiche, ma subdolamente manipolate, che hanno lo scopo di veicolare significati ingannevoli ai lettori meno avveduti. Traducibile come: foto-inganni o falsi fotografici. Questo fenomeno, già esistente prima del digitale, ha raggiunto uno sviluppo incredibile proprio grazie alle nuove potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, la facile alterazione e la comoda e veloce trasmissione mediatica. 36
Neologismo composto dall’unione dei termini internet e folklore. Vedi
http://hoaxinfo.com/chain_netlore.htm. 37
È stato calcolato che, solo in Italia, nel 2005 circoleranno almeno 500
milioni di messaggi di posta elettronica ogni giorno. Da poco, infatti, è stato approvato in Consiglio dei Ministri (28-01-05) un decreto che renderà possibile utilizzare le e-mail al pari delle raccomandate, certificandone la provenienza. Il decreto, ha spiegato il ministro per l'Innovazione e le Tecnologie Lucio Stanca, "disciplina l'utilizzo della posta elettronica certificata non solo nei rapporti
che
cittadini
ed
imprese
intrattengono
con
la
pubblica
amministrazione, ma anche nelle relazioni tra uffici pubblici, come pure tra
43
Così, qualunque contenuto visivo che viene veicolato attraverso
un
formato
elettronico
appare
potenzialmente
manipolabile, per cui diventa chiaro che l’integrità e l’attendibilità dell’informazione visuale –di quel tipo di informazione che richiede attendibilità- vengono minate in maniera sempre più pericolosa. Paradossalmente – come sono paradossali molti aspetti legati alla cultura fotografica, e ne vedremo ancora – le reti elettroniche oltre a costituire una minaccia verso la veridicità delle immagini fotografiche, ne diventano anche la cura. Infatti, oltre a rendere talmente facile la diffusione su larga scala di contenuti visivi poco attendibili, come fotomontaggi in cui il montaggio è invisibile, o la ricontestualizzazione di fotografie attraverso l’uso di didascalie che ne deviano il senso originale, l’uso della rete facilita enormemente
l’individuazione
di
queste
alterazioni.
L’immediatezza della comunicazione globale resa possibile dalle reti informatiche è di grande aiuto, infatti, anche nel far circolare le cosiddette “contro-informazioni”. Si sono sviluppati, in risposta ai sempre più frequenti casi di falsificazione, una serie di circuiti informativi che hanno il compito di “smascherare” queste adulterazioni. Questo tipo di filone culturale può essere considerato un po’ come una prosecuzione di privati". "Il provvedimento - ha aggiunto - è un atto di modernità e siamo tra i primi paesi al mondo ad aver varato una simile disposizione". Ovviamente non avranno valore legale le "semplici" mail ma solo quelle certificate da uno speciale software e da speciali gestori. "Il servizio - ha spiegato ancora Stanca - sarà acquistabile sul mercato e fornito da operatori qualificati e certificati". Da La Repubblica on-line 28-01-05. Questo percorso legislativo potrebbe presto limitare il diffondersi di fonti di informazione “non ufficiali”, a favore di una trasparenza della notizia e dell’evidenza della contraffazione. Non di certo, però, questo servirà a fermare le smanie dell’alterazione e della contraffazione informativa.
44
quei “cacciatori di leggende urbane e credenze popolari" che esistevano già molti secoli prima dell’invenzione della rete, ma che difficilmente riuscivano a determinare con esattezza la natura delle informazioni. Oggi, invece, la circolazione quasi immediata delle notizie lungo questi circuiti elettronici rende più facilmente manifesta questa subdola manipolazione38. Analizzando due particolari photofakes che sono circolati in rete negli ultimi anni appare chiaro come questo fenomeno abbia influito in maniera particolare sulla percezione popolare delle immagini fotografiche. – Il primo esempio è legato ad un avvenimento ormai storico di grande impatto emotivo, oltre che socio-economico, qual è stato l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001. In quella occasione si sviluppò un particolare
fenomeno
mediatico
che
vide
imporre
prepotentemente agli occhi del mondo intero una quantità di immagini –anche piuttosto ripetitive- dell’attentato e delle sue conseguenze, in proporzioni smisurate39. Il contenuto di quelle 38
Spesso con il solo aiuto dei comuni “motori di ricerca” (search engines:
google.com – hotbot.com – altavista.com – yahoo.com – ecc.), infatti, diventa possibile controllare l’attendibilità di un’informazione attraverso il confronto di più fonti alternative. A causa della struttura rizomatica delle reti, però, non sempre è facile arrivare a conclusioni univoche o a determinare con esattezza la vera origine di una notizia, questo a conferma della natura paradossale del fenomeno. 39
Proprio per questo motivo si è deciso di non inserire alcuna immagine di
questo evento, per non spettacolarizzare ulteriormente, attraverso la ripresentazione continua e futile di immagini, un attentato che ha basato forse la sua riuscita proprio su questo, sul rendere spettacolare un atto di terribile disumanità, uniformandolo ad un film.. La scrittrice americana Susan Sontag ha evidenziato problematicamente nel suo ultimo saggio come le fotografie,
45
immagini era agghiacciante proprio per la loro realisticità, perchè queste mostravano qualcosa di realmente accaduto. Allo stesso tempo, però, entrava in forte contrasto con quella “iperrealtà” veicolata dalla produzione cinematografica – soprattutto americana, e quindi intrisa ormai nella loro culturache aveva già abituato, quasi addomesticato, lo sguardo a questo genere di immagini. L’immaginario cinematografico, infatti, era già saturo di scene “spettacolarmente realistiche”, e questo ha senza dubbio generato una difficoltà di ricezione della vera portata di quelle immagini di morte. Chi –anche solo per un attimo- non ha visto in quelle immagini una similitudine con quelle dei film hollywoodiani? Non avranno attinto, allora, anche da questo immaginario quei terroristi che hanno concepito una tale operazione di morte-spettacolo40? In questo scenario di ipertrofia immaginifica, formatosi grazie all’invadenza dei media visivi di massa – televisione, stampa- e alla diffusione dei nuovi media individuali – internet, tv
on-demand-
si
sono
sviluppati
anche
nuovi
canali
“informativi”. Infatti proprio grazie all’interconnettività delle reti nonostante la forza del loro impatto, non ci aiutino a capire la realtà; “la narrazione può farlo, le fotografie no; le fotografie ci ossessionano. Oggi esiste un vasto repertorio di immagini che rende ancora più difficile mantenere una simile forma di carenza morale. Lasciamoci ossessionare dalle immagini più atroci. Anche se sono puramente simboliche e non possono in alcun modo abbracciare gran parte della realtà a cui si riferiscono, esse continuano ad assolvere una funzione vitale. Quelle immagini dicono: ecco ciò che gli esseri umani sono capaci di fare, ciò che – entusiasti e convinti d’essere nel giusto – possono prestarsi a fare. Non dimenticatelo”. Vedi Sontag , Davanti al dolore degli altri, 2003. 40
Per alcune riflessioni su questo aspetto “spettacolare” dell’attentato, vedi
Baudrillard (2001).
46
digitali, la circolazione delle immagini collegate all’attentato ha avuto un largo seguito in questi canali di comunicazione. Ma la cosa singolare è che in questi ambienti virtuali, sono circolati di pari passo documenti provenienti sia da fonti affidabili –agenzie di stampa, agenzie fotografiche, agenzie governative- che da fonti quasi anonime – e-mail, newsgroup – dove cioè diventa molto difficile risalire all’origine della notizia, al suo “artefice”. Figura 12. Un ormai classico esempio
di
“truffa
fotodigitale”. La fotografia è stata trasmessa via e-mail nei
giorni
seguenti
l’attentato alle Twin Towers. In
molti
hanno riportato
inizialmente
creduto. il
fosse Fw: Different Perspective on the New York Tragedy Attached is a picture that was taken of a tourist atop the World Trade Center Tower, the first to be struck by a terrorist attack. This camera was found but the subject in the picture had not yet been located. Makes you see things from a very different position. Please share this and find any way you can to help Americans not to be victims in the future of such cowardly attacks.
Sotto
è
che
la
testo
accompagnava
vi
come
se
un
sensazionale
“documento
amatoriale”.
Dopo
poco
attendibilità
la è
sua stata
screditata, ma non ha certo perso il suo impressionante senso di realisticità che l’ha resa
nota.
Da
http://www.twintowers.net/tourist_guy.htm.
Uno di questi documenti, di incerta provenienza e di dubbia attendibilità, è proprio una fotografia, trasmessa in formato elettronico attraverso la rete (vedi Fig. sopra). L’immagine ritrae un giovane turista – si suppone - che posa
47
per una foto ricordo sul tetto di un alto grattacielo – una delle Torri Gemelle, si suppone - con il panorama della città di New York alle spalle. Ma guardando meglio tra i palazzi si nota la presenza di un aereo di linea che si dirige proprio verso di lui. In più è presente la data dello scatto, ed è proprio quella del giorno dell’attentato. L’immagine ha creato non poco scalpore, nonostante sia stata riconosciuta quasi subito – e con un po’ di buon senso – come un falso (fenomeno conosciuto come email hoax). La credibilità poteva stare nel fatto che non si tratta di un’immagine giornalistica, ma sembra un ricordo di viaggio, una foto amatoriale, per cui mantiene l’alone di ingenuità che di solito è attribuito a questo tipo di documenti. Quando apparve per la prima volta (il 18 settembre ‘01) la convinzione comune era che provenisse da una macchina fotografica trovata tra le macerie del World Trade Center nei giorni seguenti l’attentato, ma arrivarono presto i primi avvisi che ne attestavano la falsità. Non è stato difficile, infatti, scoprirne la contraffazioni, per una serie di banali motivi, primo fra tutti, il fatto che non poteva esserci nessun visitatore a scattare foto da quel punto, perché la terrazza esterna non era presente sulla Torre 1 ma sull’altra, che fu colpita in seguito. In più è inattendibile per l’ora (8:45 di mattina) a cui è stata scattata, dal momento che l’observation deck del WTC 2 era ancora chiuso al pubblico (avrebbe aperto alle 9:30). Segni di manipolazione sono stati altresì notati in corrispondenza dell’aereo. Intanto la faccia del “malcapitato” turista, nelle settimane seguenti, era diventata famosa quasi come quella di Osama Bin Laden, ed il giovane venne conosciuto dal mondo intero come “The Tourist Guy”. Infatti, dopo essere apparso sugli schermi dei computer – da cui è partito – la sua immagine è approdata nelle televisioni e sui
48
giornali di tutto il mondo, quando già si era scoperta la truffa. Ma a quel punto la curiosità era scoprire chi realmente fosse l’oramai celebre turista, una volta accertato che non era stato vittima di quell’attentato. Così altri fenomeni mediatici si svilupparono, e si fece avanti “chi pretendeva essere il vero turista”. Ma dopo che un uomo d’affari brasiliano tentò di sostituire la sua faccia con quella del ragazzo – per smania di celebrità e con l’aiuto degli stessi strumenti digitali con cui era stata manipolata la prima immagine – un quotidiano ungherese annunciò di aver risolto il mistero del giovane turista, screditando definitivamente il brasiliano. Il vero “colpevole”, rivelato ai giornalisti dai suoi amici, era un ragazzo ungherese andato in vacanza a New York nel 1997, e la prova era che poteva fornire l’immagine originale – senza aereo..- ed altri scatti dallo stesso rullino. Il ragazzo, coinvolto in un tale intrigo, ammise di aver manipolato le fotografie per scherzare con i suoi amici. Inizialmente non volle rivelare il suo nome per paura di ripercussioni mediatiche del suo ingenuo scherzo, lui stesso spiegò che non era nelle sue intenzioni guadagnare con il suo gesto una tale platea mondiale. Il suo nome intero fu poi rivelato alla stampa. Il giovane ungherese si chiama Peter Guzil, ha 25 anni, vive a Budapest, e sta ancora cercando di fare i conti con la sua fama inaspettata.
49
Questa vicenda ha poi generato a sua volta un ulteriore fenomeno mediatico di manipolazione fotografica, anche questo reso possibile grazie al digitale. Infatti, con il passare del tempo sono iniziate a circolare in rete, attraverso e-mail e siti internet, alcune
copie
dell’immagine
del
“Tourist
Guy”
che
ne
riprendevano il corpo o la faccia, inserendoli in fotografie di altre tragedie storiche, portando così definitivamente l’immagine ad un livello di significato ironicamente grottesco. Inizialmente le immagini
erano
fotorealistico,
ben
fatte
nonostante
e
fossero
mantenevano
l’inganno
manifestamente
dei
fotomontaggi. Più tardi si sono diffuse anche copie meno sofisticate con chiari segni di alterazione, dovuti al fatto che chi le aveva prodotte, non erano più gli esperti operatori d’immagini digitali, ma semplici “internet-nauti” che, con l’aiuto dei diffusi programmi di fotoritocco, partecipavano a questa operazione di contraffazione beffarda dell’immagine fotografica.
Figura 13. La “celebrità” di questo anonimo turista ha portato perfino alla creazione di un sito internet su questo caso. A fianco il logo e l’indirizzo.
50
Figura 14.
La vivacità delle
espressioni popolari intorno al
fenomeno
della
contraffazione fotografica ha originato un largo seguito di immagini
che
sardonicamente
hanno dimostrato
come le potenzialità aperte dal digitale accompagnino lo spirito
delle
comunità
di
navigatori della Rete. Vedi http://www.touristofdeath.com
In seguito è stato creato anche un sito-archivio (vedi Fig. 2-3) per monitorare questo fenomeno che lo ha definitivamente consacrato come parte del cosiddetto netlore. Storie come questa aiutano a mantenere vivo lo spirito comunitario della Rete. – Un altro caso interessante di photofake che si è diffuso grazie al digitale su internet attraverso la solita anonima mail è arrivato poi sui giornali di tutto il mondo considerato come una delle immagini naturalistiche più spettacolari mai scattate. La fotografia, secondo il testo della mail, sarebbe stata nominata da
un’inconsapevole
e
fantomatica
giuria
del
National
Geographic come “The Photo of the Year ” (2001).
51
Figura 15. Questa
bizzarra
fotodigitale, nonostante la
sua
evidente
stravaganza, che ne fa risaltare
la
contraffazione, è accreditata vera,
come
stata una
sensazionale
immagine documentaria, proprio grazie al testo che l’accompagnava – riportato sotto, il titolo recita: E VOI PENSATE DI AVER AVUTO UNA
AND YOU THINK YOUR [sic] HAVING A BAD DAY AT
BRUTTA GIRONATA DI LAVORO!! (guardate lui
WORK !!
invece….).
Although this looks like a picture taken from a Hollywood
però,
movie, it is in fact a real photo, taken near the South
In
seguito,
è stata ricacciata
come un falso, una volta rivelata
la
truffa
African coast during a military exercise by the British
mediatica
Navy.
dietro. Vedi per questa
It has been nominated by National Geographic as "The Photo of the Year".
che
vi
era
ed altre immagini simili: http://www.snopes.com/ photo.
Solo dopo un’attenta analisi dell’immagine e l’intervento diretto della rivista National Geographic41, che ne ha smentito la dichiarazione attribuitagli – evidentemente falsa – si è iniziata una ricerca dei materiali fotografici utilizzati per il “collage”. È stato accertato che l’immagine è stata composta utilizzando 41
Per una spiegazione dettagliata di questa truffa fotografica vedi il sito:
http://news.nationalgeographic.com/news/2002/08/0815_020815_photoofthey ear.html.
52
due diverse fotografie, la prima è un’immagine dall’archivio dell’U.S. Air Force Photo, scattata durante un’esercitazione nei pressi del ponte Golden Gate di San Francisco, a cui è stata attaccata una foto di uno squalo scattata in Sud Africa da un fotografo che ha anche collaborato con la rivista per alcuni servizi su questi pesci.
Figura 16. immagini
Questa sequenza di è
stata
divulgata
dalla
rivista National Geographic insieme alla smentita della veridicità della fotocomposizione (la prima in alto). In effetti la foto dello squalo è stata scattata proprio da un fotografo della rivista che opera in Sud Africa ed è specializzato subacquea.
in Il
servizi fotografo,
di
foto
Charles
Maxwell, nonostante non desideri che una tale operazione si possa ripetere ha affermato: “"I'd like to make contact with the person who did this—not to get him or her into trouble, but because it's a lot of fun and it is a good job". Peraltro può dirsi
fortunato
perché,
grazie
all’attenzione che la foto-truffa ha attirato sul suo lavoro, è riuscito a vendere anche una discreta quantità di immagini in più del solito.
Questi due esempi ci fanno capire come il fenomeno della manipolazione di fotografie a scopo illusorio si sia sviluppato in misura esponenziale grazie alle nuove tecnologie digitali per due
53
motivi già accennati, da una parte la diffusione degli strumenti di elaborazione digitale che permettono una gestione dei parametri interni alle immagini in maniera totalmente diversa da come era possibile con gli strumenti tradizionali della camera oscura, dall’altra l’interconnessione globale delle reti informatiche ha inaugurato nuove forme di comunicazione visuale che hanno permesso lo scambio di informazioni azzerando completamente i vecchi parametri spazio temporali. Senza
dubbio
queste
innovazioni
hanno
portato
l’immaginario popolare ad un nuovo livello di consapevolezza circa ciò che sono, e come vanno considerate, le immagini fotografiche. Abbiamo evidenziato, infatti, attraverso questi due esempi, come la massima “una fotografia vale più di mille parole” non sia più sostenibile, o come alcuni affermano, non sia più sostenibile all’interno dell’universo digitale. Quello che invece pare ancora più opportuno evidenziare è che da sempre si sarebbero dovute guardare le fotografie con un occhio attento e con una base di scetticismo, proprio perché da sempre – fin dalla data della sua invenzione – la fotografia è stata sottoposta a qualunque genere di manomissione ed alterazione, con scopi ingannevoli nel caso di immagini informative, o semplicemente con finalità “artistiche”, per fornire alla fotografia caratteristiche più adatte a ciò che nel XIX secolo veniva considerata un’opera d’arte. Oggi, a causa -o meglio, grazie- alla crescente prevalenza di questi foto-inganni (photofakes) è diventato senso comune considerare la fotografia –digitale- come probabile oggetto di manipolazione e quindi da prendere con più precauzione e meno fiduciosamente. Il teorico Peter Lunenfeld, in un saggio sui nuovi media recentemente uscito, si riferisce proprio a questo ethos
54
culturale parlando della fotografia digitale come “immagine dubitativa”, sottolineando come nella nostra cultura, il digitale si associato inestricabilmente con il dubbio42. Da qui sorge una domanda, è vero che la manipolazione è una caratteristica specifica dell’era digitale? Nelle prossime pagine vedremo che in realtà la storia della fotografia analogica cela numerosi esempi di contraffazione fin dai suoi esordi. Ma
in
ogni
caso
le
immagini
prodotte
attraverso
l’apparecchio fotografico furono da subito viste come delle “evidenti riproduzioni obiettive e meccaniche della realtà”.
2.2 Il realismo della rappresentazione nella storia delle immagini.
Dopo aver evidenziato in che proporzione stia mutando la loro percezione in seguito all’avvento del digitale, sorgono alcuni
42
vedi P. Lunenfeld, “Digital Photography: The Dubitative Image” in Snap to
Grid: A User’s Guide to Digital Arts, Media, and Culture. MIT Press, Cambridge, 2000.
55
quesiti sulla natura di questa “pretesa credibilità” verso le immagini fotografiche. Uno dei primi tra i più autorevoli testi che hanno analizzato con completezza questo cambio di fase nella storia della fotografia è stato: “The Reconfigured Eye: Visual Truth in the Post-Photographic Era”. Scritto nei primi anni novanta da W.J. Mitchell, professore di Architecture and Media Arts al prestigioso MIT di Boston, è stato forse il primo studio ad aver introdotto il concetto di post-fotografia. Per questo motivo è stato ampiamente citato, vista l’attualità delle sue considerazioni, ma anche aspramente criticato per il suo giudizio eccessivamente negativo nei confronti delle nuove tecnologie43. A questo autore va però riconosciuto il merito di aver sottolineato per primo quali fossero i rapporti intercorsi tra l’immagine fotografica ed il concetto di veridicità dell’informazione lungo i primi 150 anni di storia fotografica, e di aver puntato il dito contro chi, fiducioso del proprio “ingenuo realismo” nei confronti della fotografia tradizionale – chimica – ha tacciato le nuove tecnologie digitali di aver falsificato e reso potenzialmente inattendibile "qualunque fotografia”. Nel condurre il suo discorso, Mitchell ci fa notare che la natura della veridicità fotografica si basa su come nella storia delle immagini è stato veicolato dalle tecnologie visive il concetto stesso di realismo rappresentativo. Così si domanda –e ci domanda: How is it that photographs seem to say of what is that it is? What is the foundation for their undeniably powerful implicit truth 43
Le critiche sono arrivate soprattutto da quella corrente “moderata” dei
cultural studies, vedi ad es. Martin Lister nel suo The Photographic Image in Digital Culture, 1995.
56
claims? When should we be wary of these? Exactly how are these claims subverted by the emergence of digital imaging? Must we now, like jesting Pilate, throw up our hands? Not surprisingly, as we shall see, the most useful answers turn out to be intimately bound up with different philosophical doctrines about the nature of meaning and truth.44
Il primo quesito da porci è quindi, “com’è possibile che queste immagini ci trasmettono un così forte senso di realisticità, nonostante
ne
riconosciamo
il
loro
carattere
costruito
e
soggettivo?” E’ forse giusto, allora, che solo con l’avvento di quello che è stato definito “l’impero del simulacro” (cfr. Baudrillard) in cui il digitale ci proietta, grazie alla manipolazione invisibile, la distorsione e la trasgressione rispetto ai contenuti visuali classici, si sia finalmente riconosciuto che mai l’immagine fotografica è stata così obiettiva, né tanto trasparente, come molti hanno creduto che fosse, parlando di calco della realtà o impronta fisica diretta su un supporto bidimensionale? Non sarebbe stato meglio parlare da sempre di rappresentazione tecnologica, più che di traccia fisica della luce? Per rispondere a queste domande, può esserci utile analizzare come si sono susseguite nella storia della civiltà occidentale le varie forme di rappresentazione visiva e quanto “potere veridico” si è attribuito agli artefatti grafici fin dall’antichità. La capacità umana di rappresentare attraverso immagini, mentali e visive, gli aspetti più disparati della realtà si è intrecciata 44
W.J. Mitchell, The Reconfigured Eye: Visual Truth in the Post-Photographic
Era, MIT Press, Cambridge 1994: 23-57
57
da subito con il bisogno di sentire queste immagini come incarnazioni della realtà stessa e non solo come semplici configurazioni formali di immagini materiali. Così l’esperienza visiva si è modellata, lungo l’evoluzione umana, seguendo le tecniche di rappresentazione e di produzione del reale attraverso immagini concrete. Quando sentiamo parlare di civiltà dell’immagine, parlando della società attuale, dobbiamo attribuire a questa affermazione una valenza non solo quantitativa, che si riflette nella circolazione vertiginosa ed inevitabile di immagini nel mondo, ma soprattutto una valenza qualitativa. L’immagine viene intesa come vero e proprio strumento di conoscenza e di costruzione di senso, dal momento che acquisisce un ruolo centrale nella costruzione delle identità sociali e individuali. Perché è presente ad ogni livello, sia nei processi di comunicazione di massa, che nella formazione di un
immaginario
individuale.
La
comunicazione
iconica,
caratterizzata dal prevalere dell’immagine come elemento di conoscenza del reale, diventa nel sociale una figura dell’eccesso: gli eventi comunicativi del sociale sono, infatti, caratterizzati da un eccedere di immagini, sia a livello sistemico (di macro processi) che nella vita quotidiana dei singoli individui. Ma vediamo come si è affermato nella storia della cultura umana – occidentale – questo senso di realisticità attribuito alle immagini. Questo processo sembra segnato da un passaggio dalla diversificazione delle tecniche della rappresentazione, che hanno portato alla comparsa del linguaggio, della scrittura e della pittura, all’affermazione delle tecnologie della presentazione, la tecniche dell’immagine per prime, e l’immagine tecnologica oggi.
58
2.2.1. Il culto delle immagini: dal II Concilio Nicea a Nicephore Niepce. Le immagini, infatti, esistono grazie alla particolare capacità del pensiero umano di rappresentazione simbolica. Ma queste si sono
progressivamente
rappresentazionale;
l’oggetto
svincolate non
è
dalla più
necessità rappresentato
nell’immagine ma tende ad essere ridotto al suo segno-immagine secondo una logica di emancipazione e di autoproduzione. L’immagine quindi sembra incarnare sempre meno il suo valore iconico, nel senso greco di eikon, cioè di raffigurazione della divinità carica di valenze storiche e con funzione testimoniale, e sempre più caratterizzarsi come éidolon. Gli éidola sono immagini ingannatrici, fittizie, simulacri degli dei, che ingannano gli uomini presentandosi come superfici prive di profondità, come se fossero immagini catturate da uno specchio e rese indipendenti dall’esistenza reale del loro doppio45. Paradossalmente il fenomeno idolatrico, che per un certo verso è connaturato all’immagine contemporanea, prende avvio dall’affermarsi di un principio di autenticità delle immagini capaci di
incarnare,
in
qualche
modo,
le
qualità
dell’oggetto
rappresentato. Questo principio è sancito dalla controffensiva iconofila che nel IX sec. d.C. segue l’offensiva iconoclasta. La cristianità veniva tacciata di idolatria, ovvero culto per immagini false – le icone – che contraddicono la natura stessa della divinità. È nel 787 che l’imperatrice d’Oriente Irene convoca il II Concilio di Nicea, grazie al quale viene ripristinato il culto delle
45
Vedi G.Dorfles (1989) 13-15 per una trattazione della differenza tra i
concetti di eikon ed eidolon.
59
immagini ponendo fine alla distruzione di immagini sacre sancita dal Concilio iconoclasta di Hieria del 754. Figura 17. L’imperatrice d’Oriente Irene, convocando il II Concilio di Nicea (787), cercò di porre fine alle lotte tra iconofili e iconoclasti ed alla distruzione di immagini iniziati nel 754 dopo il Concilio di Hieria. Ma con l’assunzione totale del potere da parte del figlio Costantino VI nel 797, riprese anche l’iconoclastia, che era stata condannata come eresia. Ciò dimostra quanto potere politico oltre che “veridico” veniva attribuito allora alle immagini religiose.
Gli argomenti adottati per legittimare nella religione cristiana l’uso delle immagini ed il loro culto furono l’incarnazione e la resurrezione di Cristo: se Dio si è voluto incarnare ciò significa che si è voluto “far vedere” e così anche con la resurrezione la prova di esistenza risiede nell’elemento visivo. Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io. Palpatemi ed osservate […]46
A differenza dell’ebraismo, il cristianesimo sancisce il primato
dell’immagine
sulla
parola
e
quindi
dell’occhio
sull’orecchio: il verbo, ha, per così dire, un senso di legittimazione visuale. Dallo spartiacque del Concilio di Nicea comincia dunque una controffensiva iconofila che attribuisce alle immagini una sorta di realismo rappresentativo, il che ha portato a privilegiare l’immagine ad alta fedeltà descrittiva e dunque ad esaltare la 46
Dal Vangelo di Luca: 24, 38-43.
60
capacità rappresentativa dell’immagine. Questo fenomeno si è strutturalmente
accoppiato
con
una
rapida
evoluzione
tecnomediale che dalle forme di rappresentazione artigianali del quadro ha portato al primato della fotografia, della cinematografia e della televisione. In effetti, ogni epoca storica ha incarnato il suo “paradigma di verità” (o piuttosto di “realisticità della rappresentazione), nelle immagini prodotte dalla tecnologia di ultima generazione, e in ogni nuovo sistema di rappresentazione. Così prima del Rinascimento, erano le immagini piatte e stereotipate del Gotico e del Romanico ad essere lette come quelle che meglio rappresentavano la verità delle cose, visto che riflettevano l’idea preconcetta della cultura popolare circa ciò che venivano considerati essere Dio e l’Uomo. In questo senso possiamo trovare riscontro e conferma nelle teorie di Nelson Goodman quando affermava che la “correttezza di una rappresentazione varia secondo il sistema culturale di riferimento nel quale questa ha luogo”47. Infatti non c’è dubbio che queste immagini senza profondità del mondo medioevale iniziarono a vedersi come ingenue e arcaiche nel momento in cui si scoprì la “profondità spaziale” e la tecnica per rappresentarla attraverso l’artificio della prospettiva.
47
Goodman N. (1978), Ways of Worldmaking, Hackett, Indianapolis. Tr. it. di
C. Marletti (1988), Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari.
61
Da quel momento l’arte della rappresentazione pittorica si rivolse più all’emulazione della percezione oculare –come nuovo “paradigma di verità”– che ai concetti classici di rappresentazione simbolica. Così, prima dell’apparizione della fotografia, il modello di “realisticità della rappresentazione” è stato di dominio della pittura: modello che si è rinforzato durante quasi cinque secoli grazie all’uso della prospettiva rinascimentale. È proprio nella scoperta di questa tecnica che vanno cercate infatti le origini della fotografia.
62
La prospettiva ha, infatti, inaugurato il nuovo schema di rappresentazione basato sulla somiglianza (mimesis) fedele con il mondo fenomenico. Schema reso possibile proprio grazie all’apparato di rappresentazione prospettica, la camera obscura. Grazie a questa invenzione, che inizialmente era utilizzata, oltre che come supporto tecnico per la pittura, anche nelle corti reali come passatempo e svago, si è concretizzata nella cultura visiva moderna
questa
idea
di
coesione
tra
la
realtà
e
la
rappresentazione. Così l’invenzione della fotografia arrivò su un terreno già spianato dalla pittura prospettica. Non è un caso che i primi fotografi e inventori delle tecniche di riproduzione fotografica fossero anche dei pittori. E soprattutto non è un caso che si svilupparono quasi contemporaneamente più artifici atti a fissare le immagini sfuggevoli della cassa scenica.48
Daguerre, inventore della tecnica del dagherrotipo, era un rinomato paesaggista e pittore di diorami, sfondi teatrali fotorealistici. Fox Talbot, era invece un paesaggista frustrato dal ricopiare a mano le immagini che si formavano sulla lastra di vetro 48
Altra apparecchiatura che sfruttava il principio della camera obscura,
permettendo ai pittori paesaggisti di “ricopiare” più fedelmente le scene reali.
63
della camera obscura, infatti, guardando un suo famoso schizzo del lago di Como realizzato con questa tecnica, si nota evidentemente la sua approssimazione pittorica che lo porterà ad investire poi tutte le sue forze nell’invenzione del calotipo, progenitore del negativo fotografico, che lui stesso battezzò la “matita della natura” (the pencil of nature) che finalmente gli permise di abbandonare la matita di grafite, grazie all’artificio del suo “specchio con memoria”.49 In realtà, però, il vero “padre” della fotografia chimica può essere considerato Nicéphore Niepce. Fu lui a sperimentare per primo le tecniche della “scrittura della luce” che battezzò eliografia nel momento in cui riuscì a fissare per la prima volta un’immagine ottenuta attraverso la camera obscura su di una superficie fotosensibile. La prima fotografia della storia, datata intorno al 1826, richiese più di otto ore per potersi fissare su quella superficie.
49
Questa definizione fu data dal medico e appassionato di fotografia O.W.
Holmes in un suo saggio della metà dell’ottocento, recentemente ripubblicato per il suo valore profetico con il titolo di Il mondo fatto immagine. Origini fotografiche del virtuale, Costa e Nolan, 1995.
64
2.3 Il mito della veridicità fotografica La fotografia è nata e si è sviluppata in Europa agli inizi del XIX secolo, quando i concetti della scienza positivista detenevano il potere nel pensiero filosofico. Il positivismo, infatti, implicava la credenza che, attraverso l’evidenza visiva, potevano essere stabilite verità empiriche. Una verità empirica è qualcosa che può essere dimostrata attraverso la sperimentazione, ed in particolare attraverso la riproduzione di un esperimento che dia risultati identici in circostanze attentamente controllate ed identiche. In questo panorama scientifico le macchine erano viste come notevolmente più affidabili degli uomini. Allo stesso modo la fotografia era una tecnica mediante la quale era possibile riprodurre
immagini
attraverso
un
apparecchio
meccanico
piuttosto che con la matita guidata dalla mano. Per cui, in questo contesto positivista, era considerata essere uno “strumento scientifico” di registrazione della realtà molto più affidabile della mano dell’artista. Nonostante ciò, fin dalla metà del XIX secolo si sono sviluppate differenti opinioni a favore e contrarie all’idea che le fotografie potessero essere delle esecuzioni obiettive del mondo reale e che fornissero una visione chiara ed imparziale dovuta al fatto che erano distaccate da qualunque punto di vista soggettivo. Oggi questo dibattito sta riprendendo una nuova intensità proprio grazie all’introduzione delle tecnologie digitali applicate all’immagine fotografica. La conseguenza culturale di questa “nuova” posizione comporta che oggi, l’idea che la fotografia sia capace di rappresentare la verità possa finalmente essere
65
ricacciata ed sbandierata come un mito. Infatti sempre più spesso si sente parlare del mito della veridicità fotografica, e nonostante sia un concetto di origine storica, sta assumendo oggi una portata molto più ampia non solo nelle schiere di fotografi che riprendono accanitamente la realtà, ma soprattutto nei consumatori di queste immagini. Infatti, il dubbio di cui si è già parlato, cui sono sottoposte le nuove fotografie digitali, è un nuovo sentimento di pertinenza del consumatore comune, ma non degli esperti ed addetti al settore fotografico, i quali fin dall’inizio avevano intuito quale grande efficacia illusoria contenessero potenzialmente le immagini fotografiche. Per fare un esempio, quando una fotografia è presentata in una corte d’appello, il suo valore di prova che un dato evento sia realmente accaduto è spesso sopravvalutato, ossia è opinione di senso comune accettare una fotografia per quello che è, e giudicarla di conseguenza come una prova. Allo stesso tempo, però, il valore veridico di un’immagine fotografica ha costituito il centro dell’attenzione di molti dibattiti, a causa delle differenti verità che possono essere veicolate da questa. Un'altra situazione in cui queste immagini vengono considerate affidabili è nel loro uso più comune, cioè nelle foto di famiglia. Un album fotografico viene solitamente considerato una “memoria” collettiva familiare, nel senso che “ricorda” fatti accaduti nel passato, ai quali si attribuisce un’importanza di tipo affettivo. O ancora, la fotografia è stata usata per provare che qualcuno era vivo in un determinato luogo e momento storico. Un esempio di ciò sono le fotografie che molti dei sopravvissuti all’Olocausto nazista mandavano alle loro famiglie per confermare e rassicurarli sulla loro salute.
66
Da quello che si è detto, infatti, appare paradossale che il potere della fotografia risieda ancora nella considerazione comunemente condivisa della sua funzione di registrazione affidabile ed obiettiva della realtà. In realtà la nostra consapevolezza della natura soggettiva e costruita delle immagini fotografiche è in costante tensione con la funzione e l’apparenza di obiettività che queste hanno veicolato e continuano a veicolare. Infatti, la sensazione che le fotografie siano evidenze del reale gli attribuisce anche una sorta di qualità magica che si aggiunge a quella documentativa. Sono molti gli esempi di immagini documentarie che, oltre al loro
valore
informativo,
veicolano
insieme
un
significato
espressivo, anzi, sta forse proprio nella sinergia tra questi due aspetti che viene valutata la forza comunicativa di una fotografia. La forza di una fotografia, infatti, deriva non solo dal suo presentare una determinata evidenza fisica, ma soprattutto dal suo potere evocativo delle emozioni che si incontrano nello scorrere della vita. Questo dimostra la duplice e contrastante capacità di una fotografia, quella di dimostrare una verità ed insieme di evocare una qualità magica, quasi mitologica.50
2.3.1 – Denotazioni, connotazioni e mito. Questo duplice aspetto – o messaggio – di una fotografia è stato messo in evidenza da Roland Barthes. Il critico francese è stato tra i primi a valutare la fotografia in riferimento a questi due aspetti che egli definì con i termini di denotazione e connotazione, che corrispondono alle caratteristiche viste prima di evidenza e 50
Per riprendere le “connotazioni” di Roland Barthes in Miti d’oggi (1957).
67
mito. Con questa distinzione fa riferimento a due livelli di significato che si dovrebbero prendere in considerazione quando si “legge” una fotografia. Un’immagine
può
denotare
alcune
verità
apparenti,
mostrando una configurazione spaziale visiva che conferisce un’evidenza
documentativa
di
circostanze
oggettive,
una
descrizione di una realtà. Il significato denotativo si riferisce al suo aspetto letterale, descrittivo. La stessa immagine può connotare un messaggio di tipo culturale, simbolico, specifico rispetto ad una cultura o anche ad un singolo lettore. Il significato connotativo dipende dal contesto storico e culturale di un’immagine e dal vissuto dei suoi lettori, dalle loro relazioni con quella realtà rappresentata, e da ciò che significa per loro a livello personale e sociale. Questi due concetti ci aiutano anche a capire le differenze tra quelle immagini che funzionano – o che dovrebbero funzionare - più come evidenza, come le fotografie documentative, e quelle che invece lavorano di più nell’evocare stati d’animo ed associazioni simboliche più complesse, come ad esempio le fotografie pubblicitarie o illustrative in genere. Roland Barhes ha usato poi il termine mito per riferirsi ai valori culturali e condivisi in una società, che sono presenti al livello della connotazione. Nel concetto di mito sono contenute quelle regole e convenzioni sociali attraverso le quali determinati significati, che in realtà appartengono a determinati gruppi sociali, si avvertono come universali e dati per un’intera società. Il mito fa sì che determinati significati connotati da un oggetto o da un’immagine appaiano come denotativi, letterali o naturali. Un famoso esempio che Barthes ci sottopone è un annuncio pubblicitario
francese
di
una
marca
di
pasta
italiana.
68
Dall’immagine promozionale, infatti, scaturisce un mito sulla cultura italiana, che lui chiama il concetto di “italianità”.51 Questo concetto, però, è valido non per gli italiani, ma rispecchia il significato della cultura italiana presso la comunità francese. Similmente si potrebbe supporre che le caratteristiche sottointese nel concetto di “bello” nella cultura contemporanea, nonostante ci appaiano come universali, sono in realtà storicamente e culturalmente specifiche. Tornando alla questione della veridicità fotografica, i concetti di connotazione e mito ci possono essere di particolare utilità nell’esaminarne i principi. Nel
panorama
d’immagini
fotografiche
con
cui
ci
confrontiamo quotidianamente, possiamo distinguere differenti significati culturali che guidano la nostra lettura e le nostre aspettative su cosa queste debbano rappresentare. Ad esempio, non riponiamo le stesse aspettative circa la rappresentazione di veridicità nei confronti delle immagini che guardiamo sui giornali, e di quelle dei cartelloni pubblicitari o di quelle del cinema e della televisione. Allo stesso modo i significati culturali e le aspettative che nutriamo nei confronti delle immagini computerizzate differiscono da quelli delle fotografie convenzionali.52 Questo dipende probabilmente dal fatto che queste immagini di sintesi assomigliano sempre di più a quelle realizzate dalla fotografia, e quindi chi le produce ha la possibilità di ingannare, giocando con 51
Vedi R. Barthes, Retorica dell’immagine (1964), il riferimento è al famoso
esempio della pasta Panzani. 52
Non ci si riferisce qui alle immagini fotografiche digitali (che abbiamo
chiamato fotodigitali), ma alle immagini digitali sintetizzate, realizzate con il solo aiuto di programmi di simulazione realistica, che non comportano alcun utilizzo di apparecchiature fotografiche (analogiche o digitali).
69
le convenzioni del realismo fotografico. In più, questo tipo di tecniche digitali può essere utilizzata, invece, proprio per modificare “realisticamente” alcuni elementi di “vere” fotografie. Questo può essere considerato il motivo per cui oggi la larga
diffusione
di
queste
tecnologie
digitali
al
servizio
dell’immagine ha modificato le credenze o i miti circa lo statuto della fotografia, soprattutto nel campo dell’informazione. Le tecnologie del digital imaging quindi possono essere “imputate” di aver in qualche modo scardinato le credenze e la fiducia -ingenua- che era riposta dal pubblico nei confronti del valore veridico di un’immagine fotografica. Tuttavia,
paradossalmente,
l’immagine
alterata
dalle
tecniche digitali -come succedeva anche con le manipolazioni analogiche- può mantenere ugualmente il suo valore di veridicità fotografica grazie alla carica ed al potere realistico insito nella storia della pratica fotografica.
2.4 La soggettività della macchina, il “miracolo” della fotografia. L’apparecchio fotografico, nella sua stessa condizione di artefatto tecnico, richiede un posizionamento ideologico per rendere verosimile e credibile ai nostri occhi qualcosa che poi è nient’altro che un’interpretazione soggettiva della realtà. La sua invenzione senza dubbio provocò a suo tempo uno stupore senza precedenti, dal momento che per la prima volta la soggettività fu dominio di una macchina piuttosto che della volontà umana. Si può immaginare, infatti, quanto fu difficile attribuire ad
70
un essere inanimato una proprietà che fino a quel momento era stata inderogabilmente connessa al genere umano. Forse fu quest’incongruenza terminologica oltre che il carattere automatico e autonomo della strumentazione fotografica, che rendeva apparentemente insignificante l’intervento umano, il motivo per cui questa fu considerata incapace di mentire e quindi dotata della possibilità di offrirci un’immagine obiettiva del mondo. Non a caso il gruppo di lenti della macchina fotografica, che ne costituisce in qualche modo il suo apparato visivo, è stato chiamato obiettivo, definizione quasi fuorviante che, come ci fa notare anche il filosofo Jean Baudrillard, nasconde un paradosso, in quanto: The miracle of photography, of its so-called objective image, is that it reveals a radically non-objective world. It is a paradox that the lack of objectivity of the world is disclosed by the photographic lens (objectif). Analysis and reproduction (ressemblance) are of no help in solving this problem. The technique of photography takes us beyond the replica into the domain of the trompe l'oeil. Through its unrealistic play of visual techniques, its slicing of reality, its immobility, its silence,
and
its
phenomenological
reduction
of
movements,
photography affirms itself as both the purest and the most artificial exposition of the image.53
In ogni caso bisogna ricordare che fin dalla metà del XIX secolo si è discusso sull’idea di considerare la fotografia come una rilevazione obiettiva della realtà che ci trasmette un’immagine 53
da Photography, or the writing of light trad. inglese di Francois Debrix da "La
Photographie ou l'Ecriture de la Lumiere: Litteralite de l'Image," in L'Echange Impossible (The Impossible Exchange). Paris: Galilee, 1999: pp. 175-184. Dal sito http://www.ctheory.net/text_file?pick=12
71
veridica del mondo, e questi dibattiti hanno portato spesso all’individuazione di due schieramenti, che potremmo definire dei realisti da una parte, cioè coloro che guardavano all’immagine fotografica come specchio della realtà, e dei costruttivisti dall’altra, che ne evidenziavano, invece, la componente ideologica nella costruzione di senso. Certamente questi dibattiti hanno riacquistato oggi una valenza centrale, grazie all’attenzione teorica al mezzo fotografico scaturita da nuove problematiche poste dalle tecnologie digitali. Spesso,
però,
nelle
analisi
meno
profonde,
questa
differenza d’opinione, chiaramente di natura ideologica, è erroneamente portata su un piano tecnologico, di natura ontologica, ovvero si sposta sul problema, mal concepito, di quale tecnologia rappresenti più realisticamente, opponendo così le immagini tradizionali ottenute tramite il procedimento chimico, che “garantivano” una traccia concreta della realtà, a quelle ottenute attraverso un dispositivo identico -la fotocamera basata sul principio della camera obscura- ma registrate su un supporto elettronico che non ne dà alcuna percezione di materialità. Ciò ha portato quindi a facili conclusioni d’inattendibilità nei confronti di queste ultime, poiché sembra non ci offrano più quella “certezza dell’impronta” che in qualche modo le legava in maniera indissolubile al referente reale, al soggetto. Questa tendenza attuale di opporre la fotografia analogica a quella digitale, vedendo la prima come uno specchio diretto passivamente verso la realtà fisica o come una finestra attraverso cui osservare direttamente il mondo, deve essere vista piuttosto come la continuazione del dibattito antico quanto la fotografia stessa, tra coloro che ne hanno accentuato come caratteristica privilegiata la sua capacità di rappresentazione meccanica ed
72
affidabile, e chi, invece, ne ha messo in risalto gli aspetti di costruzione ideologica e culturale che ne rivelano la natura artificiosa. La prima posizione enfatizza i mezzi automatici con i quali si produce una fotografia, la seconda evidenzia, invece, le innumerevoli scelte, convenzioni, codici culturali e situazioni contestuali che entrano in gioco nella pratica fotografica in più momenti: nella scelta del soggetto e dell’estetica dell’immagine (fasi di produzione e post-produzione – analogica o digitale), nella scelta del canale attraverso cui veicolare l’immagine (fase di diffusione), e nel momento della lettura ed interpretazione da parte di uno specifico osservatore (fase di ricezione- lettura attiva). Così questo “noioso” ed interminabile dibattito su qualcosa chiamato
medium
fotografico
si
sta
oggi
indebitamente
incorporando nelle questioni relative alle differenze tra l’immagine analogica e quella digitale. Ciò ha comportato persino un cambiamento di opinione per alcuni, nel senso che le due “fazioni” che discutevano prima dello stesso medium, stanno oggi ritrovando nuove posizioni. I realisti sono rimasti attaccati alle loro idee attribuendole all’intera fotografia
analogica, mentre i
costruttivisti hanno trasferito le loro considerazioni sulle nuove immagini
digitali,
spesso
confondendo,
però,
quelle
che
mantengono le caratteristiche di fotograficità (fotodigitali) e quelle che nulla hanno a che vedere con il dispositivo fotografico (luce lente - camera obscura - supporto di registrazione), ricostruiscono
perfettamente
la
realtà
proprio
ma che
grazie
alle
convenzioni ed alle sembianze del fotorealismo.
73
2.5 “Il soggetto si sta distaccando”?. L’aderenza del referente. Analizzando in tal modo il problema, si può comprendere come le conclusioni, talvolta affrettate, a cui sono arrivati alcuni studiosi, portano con loro espressioni spesso contraddittorie, come quella secondo cui la fotografia, con il sopravvento del digitale, sta perdendo le sue radici referenziali, diventando sempre più una pratica senza soggetto54. A questa sbrigativa affermazione si potrebbe rispondere però che la fotografia ha sempre un soggetto, la luce - o la mancanza di luce - riflessa dalle superfici della realtà. E non importa in che maniera sia registrata per renderla poi visibile, ciò che importa è, in primo luogo, che è stata catturata durante un attimo di realtà (che poi questa stessa realtà sia costruita o decostruita di sana pianta è un altro discorso…) attraverso un occhio tecnografico puntato sul mondo da un individuo con precise intenzioni di catturarla. C’è la luce alla base, la luce è già di per sé soggetto. Le considerazioni circa l’areferenzialità delle immagini fotografiche digitali, piuttosto, andrebbero meglio attribuite a quelle immagini, sempre digitali, ma sintetizzate, che nulla hanno a che vedere con la luce (con i fotoni) se non nei punti (pixels) dei monitor su cui sono prodotte e che vanno ad illuminare. Immagini utilizzate, poi, in pratiche comunicative che non hanno nella referenzialità (aderenza del soggetto reale all’immagine) il loro punto
di
forza,
come
avviene
invece
per
la
fotografia
documentaria, ma che, grazie alla simulazione fedele (fotografica
54
vedi M.Costa Della fotografia senza soggetto. Costa & Nolan, 1997.
74
o fotorealistica) della realtà, guadagnano una forte credibilità ed una grande potenza immaginifica facendo leva proprio sulla capacità della fotografia di risultare realistica anche quando non c’è bisogno che lo sia. Infatti la stessa fotografia è utilizzata in pratiche di comunicazione per immagini che non hanno nella referenzialità un principio fondante, ossia non importa che i “referenti” siano necessariamente “reali”. Esempi al riguardo possono essere la progettazione architettonica, l’illustrazione pubblicitaria in generale e la foto di moda in particolare, o anche una certa corrente di foto-arte - in cui il discorso sul referente fotografico viene metaproblematizzato attraverso lo stesso mezzo e portato ai minimi termini, scuotendo le stesse teorie che cercano di “fare ordine” su un panorama di pratiche tanto diversificato come quello in cui si inserisce il fare fotografico. Ma come reagiremmo di fronte ad una perfetta ricostruzione “sintetizzata” di un momento della nostra vita o di noi stessi con qualche anno in più, come se fosse una fotografia, che senso avrebbe? La referenzialità (indicalità) della fotografia, poi, nei casi in cui è importante riconoscerla e ha senso verificarla, non risiede tanto nella sua contingenza fisica (contiguità) con il supporto di registrazione, come cercano di sostenere alcuni studiosi, ma si basa sulla co-presenza di autore e soggetto all’atto fotografico. Per di più la fotografia, in quanto mezzo di comunicazione visiva,
è
stata
da
sempre
utilizzata
in
maniera
“non
convenzionale” - se si vuole utilizzare la referenzialità come parametro di convenzionalità. Quasi dall’inizio della sua storia sono state sviluppate le più incredibili tecniche artigianali per poterne modificare e manipolare i contenuti.
75
2.6 Archeologia della manipolazione fotografica.
Per dimostrare come la fotografia non sia mai stata utilizzata solo per veicolare immagini dirette e obiettive della realtà, è necessario ripercorrerne la storia fin dall’inizio, mettendo in evidenza come da sempre siano esistite tecniche di manipolazione e di alterazione che ne avrebbero dovuto mettere da subito in discussione la sua attendibilità come documento. Anzi,
paradossalmente,
le
prime
alterazioni
dell’immagine
fotografica vennero attuate perché non la si riteneva in grado di cogliere la vitalità del reale come invece si riteneva facesse la pittura55. Era un’accusa che la fotografia non poteva sopportare, così si tentò di avvicinare le sue rappresentazioni a quelle pittoriche attraverso artifici di ogni sorta, e si sviluppò una ricca tradizione per questo tipo di manipolazioni che portò perfino alla creazione di una corrente di autori fotografici che vennero
55
Vedi le tre “accuse” di Baudelaire alla fotografia esposte al cap.3 fig.1.
76
chiamati pittoricisti per il loro desiderio di portare la fotografia ad un prestigio artistico del calibro della pittura. È interessante vedere quanto realmente si colloca indietro nel tempo questa storia della manipolazione. La storia della fotografia ha inizio nelle prime decadi dell’ottocento. Come abbiamo visto la prima fotografia risale al 1826 ed è stata presa dal francese Nièpce. La data ufficiale di nascita del medium fotografico è stata fissata nel 1839, quando Daguerre, un collaboratore di Nièpce (che invece morì nel 1833 senza poter assistere alla messa in opera della sua intuizione), presentò la sua invenzione al pubblico francese. Già nell’agosto del 1840 venne organizzata la prima esposizione fotografica dal pittore svizzero Johann Isenring. In quella sede molti dei ritratti fotografici presentati erano stati colorati a mano e ritoccati per conferire loro un aspetto più “vitale”. Lo storico della fotografia Jean Keim ci tramanda un particolare interessante su quella prima esposizione, che ci fa capire il tipo di considerazione attribuito alle immagini fotografiche. Il pittore Isenring espose le sue fotografie “dopo aver grattato le pupille degli occhi dei personaggi ritratti sulla lastra fotografica per donare vitalità a quelle immagini”.56 Questo era dovuto probabilmente al fatto che le lunghe esposizioni necessarie ai materiali impiegati allora (le prime fotografie avevano bisogno di alcune decine di secondi per ricevere una corretta esposizione), generavano un diffuso “effetto mosso” che faceva perdere il dettaglio dello sguardo, così l’artificio utilizzato da Isenring avrebbe ovviato a quei visi sfuocati, affilandone lo sguardo.
56
Vedi Jean Keim (1970), Breve storia della fotografia, Einaudi, 1976.
77
Questo fu solo il primo espediente di una lunga tradizione di “corruzione delle immagini”. Dawn Ades, un altro storico della fotografia, ha concentrato la sua attenzione proprio su questa antica abitudine di alterazione, focalizzando maggiormente sulle tecniche di fotomontaggio. Ci descrive così le impressionanti procedure che già erano conosciute nella metà dell’ottocento per manipolare le immagini fotografiche: It was common practice in the nineteenth century to add figures to a landscape photograph, and to print in a different sky. The latter type of “combination printing” was to compensate for the defects in early cameras, because it was almost impossibile […] to obtain in one exposure both sharp foreground detail and impressive metereological effects like clouds.57
Dal 1859 la oramai familiare tecnica della multipla esposizione (che consiste nello scattare due o più fotografie sullo stesso supporto fotosensibile ottenendo così immagini composte) fu descritta con dovizia di particolari dal fotografo inglese Henry Peach Robinson in un libretto dal titolo “On printing photographic pictures from severals negatives” (ossia “Come stampare immagini fotografiche utilizzando diversi negativi”). Questo espediente fu alla base della fotografia “spiritica”, infatti, le doppie esposizioni di uno stesso negativo generarono immagini che funzionavano da prove convincenti per dimostrare l’esistenza dei fantasmi nella seconda metà del XIX secolo.58 57
Da Dawn Ades, Photomontage, Thames and Hudson, London, 1976,
pag.89. 58
Vedi l’esempio alla figura n.9 del paragrafo 1.2.
78
Un’altra testimonianza ci è fornita da una serie di aspre lettere apparse nel 1856 in una prestigiosa rivista inglese, il Journal of the London Photographic Society, nelle quali si protestava contro la falsificazione delle fotografie della Società. In particolare si richiedeva di bandire qualunque fotografia ritoccata dalle esposizioni dell’associazione. E lo storico Aaron Scharf scrisse su questo punto che “il ritocco fotografico raggiunse dimensioni tali da rendere difficile trovare fotografie che non erano state in qualche maniera abbellite e snaturate dalla mano dell’artista. Non era più solamente la “matita della natura”, come Fox Talbot l’aveva definita, a generare le immagini fotografiche, anzi, già un decennio dopo la loro invenzione
divenne difficile
incontrarne qualcuna che non fosse passata anche per il “pennello dell’artista”. Le proteste che si erano sviluppate sull’argomento erano più che altro lamentele di “puristi” della sola tecnica fotografica, che per questo non potevano servire da critiche costruttive. Infatti, a giudicare dalle pubblicazioni che si andavano diffondendo nell’oramai progredito mondo del divertimento fotografico, la distorsione e il miglioramento delle immagini erano diventati un diffuso passatempo per chi si dedicava a questo hobby. Per evidenziarne l’importanza e la diffusione raggiunta già nella seconda metà dell’ottocento può essere utile presentare una lista di libri di quel periodo che ne trattavano l’argomento: 1861 – Alfred Wall, A manual of artistic colouring as applied to photographs – Una prima descrizione del già popolare metodo di colorare a mano le stampe fotografiche e i dagherrotipi in bianco e nero.
79
1866 – Antoine Claudet, A new means of craeating harmony and artistic effect in photographic portraits. – Il metodo consisteva nel cambiare la messa a fuoco della lente durante lo scatto. Dopo tutto, in quel periodo, i tempi di esposizione erano ancora abbastanza lunghi da permettere tale operazione. 1869 – Henry Peach Robinson, Pictorial effect in photography. – Una descrizione dettagliata delle esposizioni multiple fatta dal “padre della combination printing”. Alcuni effetti prevedevano l’uso di lastre con sfondi naturalistici, con nuvole ad esempio, da sovrapporre ai ritratti in studio. 1889
–
Jacques
Ducos
du
Hauron,
Photographie
transformiste – Uno dei più divertenti manuali di distorsione fotografica. Descriveva trucchi per fare caricature fotografiche, usando lenti deformanti, specchi a cilindro, negativi con forme coniche, stampe con la carta inclinata, o addirittura lenti speciali che potevano cambiare l’immagine durante la stampa. Questo testo includeva anche una discussione sulla sofisticata tecnica di separazione dell’emulsione da una lastra fotografica per ottenere altri effetti speciali. 1893 – Bergeret e Drouin, Les recreations photographiques – Un’enciclopedia di tecniche per la manipolazione fotografica. 1896 – Walter Woodbury, Photographic amusements – Un libro che descriveva svariati trucchi fotografici. Ad esempio la tecnica chiamata multifotografia consisteva nel produrre ritratti utilizzando una serie di specchi per ottenere un’immagine che dava l’illusione di guardare la persona da differenti punti di vista contemporaneamente. Questo libro fu ristampato almeno in undici edizioni tra il 1896 ed il 1937.
Questa lista di manuali rivela l’influenza che avevano acquisito i molteplici procedimenti utilizzati nella pratica fotografica con lo scopo di alterare, migliorare, divertire, illudere, e giocare
80
con le immagini. Inoltre ci fornisce la misura della “normalità” di queste tecniche in un periodo che era lungi dall’immaginare quale sarebbe stato il futuro della manipolazione. Nel novecento, infatti, non si arrestò la ricerca di nuove tecniche per demistificare il valore di rappresentazione realistica che era sempre e comunque attribuito alla fotografia. Intorno al 1920, John Heartfield e George Grosz, artisti appartenenti al gruppo dadaista berlinese, furono tra i primi ad utilizzare la tecnica del fotocollage in un contesto artistico. Heartfield divenne presto famoso per i suoi aspri fotomontaggi diretti contro l’ascesa al potere di Hitler nella Germania prenazista. Verso la fine del XX secolo le tecniche di manipolazione e montaggio fotografico erano migliorate di gran lunga già prima dell’introduzione degli strumenti digitali, ma è solo con l’avvento di questi ultimi che il dibattito ideologico sull’adulterazione delle immagini va acquisendo un’eco sempre più forte. Un grande personaggio, artista-artigiano dell’immagine fotografica, operativo nell’ultima fase analogica a cavallo con quella digitale può essere considerato Jerry Uelsmann.59 Può essere considerato, infatti, colui che, perfezionando le esposizioni multiple del XIX secolo, le ha integrate nel modo più originale con le moderne tecniche di camera oscura. Egli è infatti capace di “costruire” immagini fotograficamente utilizzando per una sola stampa fino anche a dieci ingranditori (strumenti del laboratorio di stampa che ingrandiscono le dimensioni del negativo per poterlo stampare su superfici di maggiori dimensioni).
59
Vedi Uelsmann, Silver Meditations, Morgan&Morgan, New York, 1976.
81
Da queste considerazioni si può capire meglio la storia che c’è dietro la manipolazione fotografica, e dimostrare che dal 1840 (dall’esposizione di Isenring) all’epoca pre-digitale (ai complessi lavori di Uelsmann) ci sono stati infiniti casi in cui la fotografia è stata sottoposta ad ogni sorta di cambiamento ed alterazione del significato “letterale”. Questo a dimostrare che tutto – o quasi – può essere fatto – ed è stato fatto – per modificare un’immagine fotografica. La domanda, più attuale, che scaturisce da questa breve archeologia della manipolazione fotografica è allora la seguente: perché tanta
preoccupazione per
le
odierne tecniche di
contraffazione e gestione digitale delle immagini fotografiche?
82
3
UN MONDO DI FOTOGRAFIE: PERCORSI TRA STORIA SOCIALE, TEORIE SEMIOTICHE E PRATICHE COMUNICATIVE.
Il discorso sulla fotografia nel Novecento si presenta estremamente eterogeneo. Esso si inscrive in differenti ambiti disciplinari, sviluppandosi spesso al loro incrocio: fra teoria e storia
dell’arte,
sociologia
della
comunicazione
e
dei
comportamenti di massa, indagine epistemologica e semiologica, cultural studies e visual studies. Di conseguenza anche la forma di questo discorso varia dall’analisi teorica, passando per il saggio o l’articolo da feuilleton, fino al pamphlet e al manifesto. La
fotografia,
denominata
all’inizio
dagherrotipia,
o
calotipia60 fu messa a punto, a partire dagli anni Venti del XIX secolo, attraverso il fissaggio chimico su supporto di vetro o di carta di un’immagine generata attraverso la camera obscura.
60
Questi termini si riferiscono ai primi procedimenti utilizzati per fissare su un
supporto fotosensibile le immagini prodotte attraverso il dispositivo della camera obscura, conosciuto da tempo da pittori ritrattisti e paesaggisti. La scoperta
di
diversi
materiali
sensibili
alla
luce
avvenne
quasi
contemporaneamente in Francia ed in Inghilterra, grazie ai progressi nel mondo della chimica. Così il francese Daguerre (dal cui nome è derivato il la definizione di dagherrotipo) e l’inglese H. Fox Talbot (che soprannominò il processo da lui inventato calotipo – dal greco kalos= bello) arrivarono a conclusioni simili percorrendo strade differenti.
Questa tecnica realizzava per la prima volta nella storia il mito dell’acheiropoietos, un’immagine non generata da mano umana. Il dibattito teorico che senza soluzione di continuità dall’Ottocento prosegue fino ai primi decenni del Novecento aveva conosciuto sovente delle polarizzazioni fra gli ammiratori (E. Zola) della precisione imparziale della macchina e coloro che sdegnati volevano la nuova tecnica asservita all’arte (C. Baudelaire). Figura 18.
Le tre celebri accuse rivolte
da Baudelaire, al Salòn del 1859, nei confronti di chi guardava alla fotografia come una forma d’arte denotavano quale fosse
nell’ottocento
dell’arte:
1)
la
concezione
l’automaticità
della
riproduzione meccanica del mezzo 2) la conseguente facilità di esecuzione che sminuiva
le
abilità
dell’artista
3)
la
presupposta inconciliabilità tra l’arte e un prodotto dell’industria. Logicamente oggi non è più possibile sostenere queste accuse, dal momento che quei canoni artistici sono stati stravolti già con le avanguardie artistiche del primo novecento, e forse oggi si sono ribaltate divenendo
proprio
quelle
le
caratteristiche dell’arte contemporanea post-moderna. Baudelaire in una fotografia di Etienne Carjat,
1862
ca.,
woodburytype.
Metropolitan Museum of Art, New York.
Walter Benjamin (1892-1940) è il primo che valuta la fotografia nell’intreccio dei cambiamenti sociali e ideologici che caratterizzano la modernità. Nella sua Kleine Geschichte der
85
Fotografie (1931)61 egli rivolge uno sguardo ammirato ai primordi della
fotografia.
Le
dagherrotipie
degli
anni
Quaranta
dell’Ottocento ritraevano gli uomini in un atteggiamento di sicurezza e dignità che derivava loro dal raggiunto status sociale e dal rispetto nei confronti dell’operatore fotografico. La progressiva commercializzazione delle immagini, la decadenza del gusto borghese, la nascita della fotografia amatoriale (Kodak lancia sul mercato nel 1888 la prima macchina di facile uso) distrussero l’aura che emanavano i primi clichés. La perdita dell’aura è diventata però secondo Benjamin, grazie ad alcuni grandi fotografi di inizio secolo, come Eugène Atget (18561927), un tema rappresentativo dell’alienazione fra uomo e spazio urbano, anticipando motivi sviluppati in seguito dai surrealisti. La riproducibilità tecnica garantita dalla fotografia rende possibile una ricezione di massa dell’arte e stimola l’elaborazione di categorie estetiche in sintonia con un nuovo ritmo di vita.
Dal Futurismo italiano giunge uno dei primi documenti di questa ricerca artistica applicata alla fotografia. Nel 1911 Anton Giulio
Bragaglia
(1890-1960)
pubblica
il
manifesto
del
Fotodinamismo futurista62: la fotografia doveva lasciarsi alle spalle 61
W. Benjamin [trad.it.] Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Einaudi, 1966. 62
Vedi A.G. Bragaglia Futurismo, Mazzetta, Milano, 1970.
86
le riprese statiche che congelano la realtà, essa doveva esprimere la vita quale puro movimento. Bragaglia stesso mette in atto questa rivoluzione attraverso le sue fotodinamiche: una tecnica di ripresa
che,
tramite
un
tempo
di
apertura
prolungato
dell’otturatore, imprime sulla pellicola le traiettorie di un corpo in movimento. Le fotodinamiche sono per Bragaglia espressioni di un’arte più autentica di qualsiasi rappresentazione realistica in quanto in grado di rappresentare assieme al reale anche il trascendente. Non sorprende dunque che egli praticasse anche sedute di fotografia spiritica, che, come abbiamo già visto nel primo capitolo, erano volte a cogliere il fantasma della realtà. La fotografia di Bragaglia risentiva, del resto, del fiorire, caratteristico dei primi decenni del Novecento, di dottrine esoteriche che si proponevano di riconferire alla realtà quell’aura che il progresso tecnico, come aveva rilevato Benjamin, aveva dissolto. Se il Futurismo esaltava il movimento, l’ungherese Laszlo Moholy-Nagy (1895-1946) individuava nella luce la rivoluzione del XX secolo e mirava a farne un mezzo espressivo nell’arte. Nelle sue teorie, influenzate dal costruttivismo e dal Bauhaus, la fotografia rappresenta un passaggio nodale fra passato e futuro: essa forniva soluzioni nuove all’antico problema della luce, al centro dell’arte figurativa occidentale fin dal Rinascimento, e preludeva al linguaggio del cinema che, attraverso il movimento e il sonoro, rendeva possibile una percezione sinestetica della realtà. Un uso creativo della fotografia apriva all’artista inesplorati territori di ricerca. Moholy consiglia e sperimenta lui stesso, ad esempio, inquadrature stranianti che colgono la realtà dal basso o dall’alto, l’uso dei raggi x che penetrano la struttura dell’oggetto, la tecnica del fotogramma cioè dell’impressione diretta dell’impronta
87
degli oggetti su carta fotosensibile senza l’uso della macchina fotografica. La modernità delle riflessioni di Moholy risiede nel suo approccio intermediale alla fotografia anticipando il dibattito contemporaneo degli studi di cultura visuale63. La riflessione sulle relazioni fra fotografia e arte ha favorito nel corso del Novecento il diffondersi di una considerazione della fotografia, vista non più come semplice tecnica di riproduzione della realtà, ma sempre più come mezzo di produzione estetica. Una concezione di segno opposto alla fotografia artistica si affermò in America fra gli anni Dieci e Quaranta negli ambienti culturali newyorkesi, in particolare attorno alla figura del fotografo Alfred Stieglitz (1864-1946) e al teorico Paul Strand (18901976). Il realismo fotografico americano esalta il fotografooperatore che fa un uso franco e diretto (straight) della tecnica: la fotografia non deve mirare a modificare la realtà o addirittura a costruirne una nuova, deve semplicemente documentarla. Alla base di questa esaltazione della referenza pura vi è la fiducia, tipica del pragmatismo americano, in una realtà che si rivela conoscibile attraverso l’osservazione e rappresentabile attraverso una macchina amica dell’uomo. Il realismo fotografico americano contribuì alla nascita del fotogiornalismo (nel 1936 esce il primo numero del settimanale Life) e con esso del mito del fotoreporter, pronto a catturare i fatti 63
Fu probabilmente Moholy-Nagy a parlare di un’arte “multimediale”,
riferendosi al cinema prima ed alle sue sperimentazioni in seno al Bauhaus dopo. Vedi L.Moholy-Nagy, Pittura, fotografia, film. (1927). [trad.it.] Einaudi, Torino, 1987.
88
nel luogo e nel momento stesso in cui avvengono. Si tratta di una svolta epocale: l’affermarsi nella mentalità collettiva di un nesso immediato fra fotografia e credibilità dell’informazione. Il progressivo inserimento della fotografia nel sistema della comunicazione di massa costituisce un dato imprescindibile per ogni approccio critico alla fotografia a partire dal secondo dopoguerra. In tale contesto si possono individuare, con buona dose di approssimazione, tre tendenze fondamentali.
3.1 Fotografia e mass-media. Numerose analisi critiche si concentrano sulla fotografia quale artefice, assieme agli altri media, di una ridefinizione della percezione collettiva della realtà. Una riflessione critica che si appunta contro l’obiettività fotografica decantata dai giornali fu formulata, già nel 1927, da Siegfried Kracauer (1889-1966). Egli collega il fenomeno quantitativo della “marea” di immagini dei media a un’analisi qualitativa della percezione fotografica. La fotografia che offre all’osservatore la totalità spaziale di una scena è strettamente dipendente dal momento in cui viene effettuata la ripresa. Venendo meno quella totalità diminuisce il valore segnico della fotografia; ne consegue che, quanto più lungo è il tempo trascorso fra il passato dello scatto e il presente dell’osservazione, tanto più difficile risulta la lettura della fotografia. In questo modo viene sminuito il mito giornalistico dell’attualità della fotografia che ormai si riduce a immagine opaca. Al contrario le immagini dell’arte e perfino le immagini volatili della memoria comunicano in virtù della
89
propria trasparenza: esse possono essere penetrate dalla critica e mediare
una
vera
conoscenza
della
realtà
(Erkenntnis).
Paradossalmente nessun’epoca conosce così poco se stessa come la presente che crede di rispecchiarsi nelle immagini della stampa. Non è lecito del resto idealizzare la fotografia, prodotto della società capitalistica alienata dalla falsa coscienza64. In conclusione Kracauer disegna l’inquietante scenario di un mondo tutto in superficie, prigioniero in una dimensione d’eterno presente: una crosta patinata di fotografie di dive, politici, sportivi impedisce qualsiasi scavo da parte della coscienza storica. Lo scetticismo mediatico di Kracauer, nutrito di materialismo storico e di storicismo diltheyano, anticipa di alcuni decenni le analisi di una critica della cultura (vedi M. McLuhan) che agita lo spettro di un mondo irreale, costituito soltanto da immagini (G. Debord). Una linea di continuità si riscontra, inoltre, fra Kracauer e l’analisi dei miti del quotidiano compiuta da Roland Barthes (1915-1980), nella prima fase della sua opera, in Mythologies (1957). Il metodo del primo Barthes è informato, infatti, da una concezione marxista dell’ideologia concepita come contraffazione della realtà storica; egli mutua però la sua strumentazione critica dalla linguistica strutturale di Ferdinand De Saussure. La fotografia non è ancora analizzata da Barthes come un linguaggio dotato di valori comunicativi propri: essa è ritenuta un potente strumento al servizio di usi sociali (stampa, pubblicità, propaganda politica, mostre, ecc.) che la fanno portatrice di un’ideologia di potere.
64
S.Kracauer, La fotografia, in La massa come ornamento (1963), [trad.it]
Prismi, Napoli, 1982.
90
L’analisi della fotografia di Barthes in Mythologies s’incentra sulla manipolazione sempre più raffinata del messaggio iconico da parte dei canali della comunicazione di massa. Questo approccio sarà alla base delle indagini più propriamente semiotiche degli anni Sessanta nelle quali Barthes affiancherà all’analisi dalle tecniche e delle strategie di emissione lo studio della ricezione del messaggio fotografico. La brillante critica iconoclastica di questo libro rimarrà un punto di riferimento per le analisi strutturali successive dei miti della cultura di massa (cfr. U. Eco). Ad una critica della cultura che si concentra sulle trasformazioni antropologiche determinate dalla comunicazione di massa si ricollega Susan Sontag (n. 1933) nel suo On photography (1977). Per Sontag la constatazione di un mondo d’immagini che si sostituisce al mondo reale è riconducibile ad una profonda trasformazione, tipica della modernità, dell’idea di realtà. Non è più valido il disprezzo platonico dell’immagine quale analogo imperfetto della realtà: gli
uomini contemporanei
attribuiscono alle immagini un carattere di veridicità di grado non inferiore alla realtà che esse rappresentano. Il consenso di cui gode la fotografia è riconducibile, dunque, alla generale attendibilità attribuita alle informazioni trasmesse dalle immagini fotografiche: esse sono custodite oggi in innumerevoli dossiers (cartelle cliniche, archivi di biblioteche, schedari della polizia, ecc.) che fanno della fotografia un efficace strumento di controllo da parte del potere. Esiste inoltre, secondo Sontag, un lato oscuro della fotografia: un’attrazione magica che è un
residuo
di
irrazionalità
primitiva,
sopravvissuto
alla
secolarizzazione. La magia della fotografia è riscontrabile soprattutto nei comportamenti privati: ad es. la venerazione feticista di foto di
91
personaggi famosi, l’identificazione sacrale fra ritratto e persona amata, la diffidenza di alcune popolazioni nei confronti della macchina fotografica, rea di derubare, assieme all’immagine, l’anima. Un carattere irrazionale è individuato nella fotografia anche dal filosofo e studioso della comunicazione Vilèm Flusser (19201991) nel suo Für eine Philosophie der Fotografie (1983). La magia della fotografia è tuttavia inquadrata da Flusser all’interno della dialettica fra immagine e scrittura che percorre l’intera storia della civiltà. L’invenzione della scrittura rappresentò l’inizio della storia poiché segnò la nascita del pensiero concettuale attraverso la linearizzazione
delle
immagini
tradizionali.
L’avvento
della
fotografia si colloca, invece, precisamente alla fine della storia. Le immagini tecniche si rivolgono contro la testolatria della società ottocentesche instaurando un’idolatria diversa da quella che caratterizzava le società preistoriche. L’idolatria nella nostra società postistorica e postindustriale consiste nell’incapacità di decifrare le immagini che ci scorrono quotidianamente davanti agli occhi e di cogliere il senso stesso dell’atto fotografico. L’azione caratteristica del fotografo è il gioco: benchè la scelta dei suoi soggetti sia libera, egli deve attenersi alle regole di un gioco che conosce solo in modo parziale, vale a dire il programma
di
funzionamento
della
macchina
fotografica
(Apparat). Il programma della macchina è inserito, a sua volta, in programmi
più
(metaprogrammi):
grandi,
gradualmente
produzione,
distribuzione,
più
complessi
comunicazione,
consumo, ecc. Una filosofia della fotografia rappresenta per Flusser un atto indispensabile di presa di coscienza contro la delega della
92
capacità critica agli apparecchi simulatori di pensiero che riducono l’uomo a funzionario o giocatore. La macchina fotografica rappresenta dunque il prototipo di ogni altro apparecchio subentrato successivamente: un prodotto del pensiero calcolatore riversatosi nell’hardware della materia.
3.2 Fotografia e sociologia. La diffusione di massa della fotografia amatoriale ne ha fatto l’oggetto di numerose analisi sociologiche. Nella prima metà degli anni Sessanta un gruppo di ricerca coordinato da Pierre Bourdieu (n. 1930) ha studiato gli usi sociali della fotografia. Bourdieu si concentra sulle motivazioni e funzioni di cui la pratica fotografica è investita presso differenti classi e gruppi sociali. Il campo del fotografabile, ad esempio, è strettamente dipendente dal contesto sociale: un uso rurale-provinciale della fotografia ritiene degni di essere immortalati solo eventi eccezionali dell’esistenza (matrimoni, comunioni, vacanze, ecc.), mentre un uso piccolo borghese ritiene interessante anche il fatto curioso o quotidiano riversandovi un desiderio di autopromozione culturale. Il metodo di Bourdieu fa dunque della fotografia un indicatore
attendibile
Quest’acquisizione
è
delle rilevante
costruzioni anche
dal
della punto
realtà. di
vista
dell’ontologia del medium. Essa dimostra su base empirica che la fotografia non riproduce il reale, ma produce esclusivamente rappresentazioni simboliche.
93
Le scoperte che riserva la pratica fotografica amatoriale hanno incoraggiato studi sociologici sulla fotografia in ogni parte del mondo Il lavoro di un sociologo americano (Boorstin 1964) ha condotto, ad esempio, alla formulazione del concetto di pseudoevento: la simulazione di un evento di fronte all’obiettivo dura solo il tempo della ripresa e rivela una partecipazione sociale (ad es. un bambino mostra in una posa improbabile, suggerita dai genitori, l’uso di un nuovo elettrodomestico; un corteo si forma appositamente per essere fotografato). Un’esauriente valutazione complessiva dei regimi percettivi instaurati
dalle
immagini
analogiche
(fotografia,
cinema,
televisione) è stata fornita in tempi recenti (1997) dal sociologo Pierre Sorlin. Egli dimostra che, a partire dall’invenzione della fotografia l’uomo ha l’impressione di vivere in un mondo in cui accadano più fatti; in realtà nella maggior parte dei casi i fatti hanno luogo solo per essere ripresi dagli obiettivi.
3.3 Analisi ontologico-semiotiche. L’indagine ontologica sulla fotografia è spesso legata ad un’indagine semiotica. Le risposte alla domanda che cos’è la fotografia sembrano impensabili al di fuori del conferimento alla scrittura della luce dello statuto di un sistema di significazione. André
Bazin
individua
in
Ontologie
de
l’image
photographique (1945) nell’obiettività la qualità principale della fotografia. La fotografia aderisce perfettamente al referente tanto da coincidere con esso: il procedimento tecnico permette alla
94
natura stessa di esprimersi senza implicare alcuna interpretazione estetica. L’affermazione
di
Bazin
dell’obiettività
fotografica,
apparentemente non nuova, ha conseguenze rilevanti dal punto di vista teorico: da un lato la fotografia libera l’arte figurativa dal problema della verosimiglianza (fenomeno constatabile nel xx sec.) dall’altro lato si nega alla fotografia ogni carattere di linguaggio. Il problema del linguaggio è affrontato anche dal secondo Roland Barthes a partire dagli anni Sessanta. In due studi apparsi su Communications, Le message photographique (1961) e Rhétorique de l’image (1964), Barthes tiene conto della trasparenza del mezzo fotografico messa in rilievo da Bazin. La fotografia non può prescindere dalla realtà che rappresenta (denotazione).
Nonostante
questo
rimando
tautologico
al
referente, anche la fotografia, alla pari di ogni altro linguaggio, possiede uno stile e una retorica che permette all’immagine di essere decifrata (connotazione). Il paradosso fotografico consiste per Barthes dunque nello scaturire di un atto d’interpretazione all’assenza di un codice: ciò inserisce la fotografia nel sistema della cultura. Barthes, pur rilevando il carattere non linguistico del messaggio fotografico, sceglie significativamente per le sue analisi due generi di immagini integrate nel mondo della comunicazione: la foto giornalistica e la foto pubblicitaria. Ciò suggerisce
l’intenzione
di
ricondurre
anche
la
fotografia
all’archetipo epistemologico del sistema verbale. Egli, infatti, esaminando i meccanismi di percezione dell’immagine fotografica, si chiede se esistano delle fotografie neutre, refrattarie a qualsiasi tipo di lettura: egli propende a
95
credere che ogni osservazione della fotografia implichi nel soggetto una verbalizzazione, se pur solo mentale, di ciò che vede. La
profonda
revisione
di
convinzioni
estetiche
ed
epistemologiche a cui, dalla fine degli anni Sessanta, Barthes sottopone il suo pensiero, si ripercuote evidentemente sulla sua riflessione sulla fotografia. Rifiutando una prospettiva logocentrica, l’ultimo Barthes individua nel corpo il centro della conoscenza e nel piacere il principio euristico fondamentale. Per questo perde gradualmente d’importanza il problema del linguaggio delle immagini: ora sono le aporie della fotografia ad affascinarlo. Ne La chambre claire (1980) Barthes riconsidera la questione ontologica non più con metodo semiotico ma attuando una commistione fra analisi fenomenologica e suggestioni della psicanalisi lacaniana. La sua analisi parte da un corpus di immagini messo insieme secondo il suo gusto. Egli classifica le sue reazioni di spectator secondo due categorie che denomina studium e punctum. Lo studium è l’interesse umano risvegliato dalla contemplazione della maggior parte delle fotografie: una curiosità soddisfatta da una serie d’informazioni che solo la precisione dell’immagine analogica può fornire. Il punctum è invece una puntura inferta solo da alcune immagini: esso consiste in un dettaglio che spiazza l’osservatore senza che egli possa spiegarne facilmente il motivo. Nella seconda parte del saggio si assiste ad un mutamento di prospettiva. Barthes insegue la fotografia della madre che la rappresenti nel modo più autentico: egli ricerca, deduttivamente, l’unicità dell’immagine che ha in mente nella molteplicità delle immagini fotografiche.
96
Avendo ritrovato finalmente la madre in una foto che la ritrae da bambina in un giardino d’inverno, Barthes induce da quest’immagine vera il noema di ogni immagine fotografica. Il carattere essenziale della fotografia è individuato nella forza di certificazione del passato: ciò che si vede si è trovato realmente davanti all’obiettivo (ça a été). La fotografia spinge l’osservatore a meditare sul tempo: essa non gli restituisce il “tempo perduto”, ma restituisce lui stesso al fluire del tempo. Questa consapevolezza, non inscrivibile in un sistema di sapere, arricchisce ogni volta di uno stupore magico l’atto della contemplazione. Nell’ultimo Barthes dunque la fotografia non è tanto oggetto di studio, quanto piuttosto testo inteso, alla maniera post-struttalista, quale spazio di libera interazione fra referente e soggetto. Nell’importanza conferita alla complessità dell’osservazione è riassumibile il contributo dato da Barthes allo sviluppo della teoria della fotografia. Nella teoria della fotografia successiva a La chambre claire i concetti di referenza e processo assumono una particolare rilevanza. Il carattere referenziale della fotografia viene sempre più relativizzato e separato dal problema del realismo della rappresentazione. Per alcuni studiosi, tra cui Jean Baudrillard (n. 1929), l’interesse della fotografia non va ricercato nel mostrarsi del referente, ma nel negarsi della sua vera essenza allo sguardo dell’osservatore, il quale può percepire solo tracce della sua alterità. Per altri, come Massimo Cacciari (n. 1944), questa discrepanza
fra
consustanziale
immagine alla
e
fotografia,
realtà la
è
quale
considerata diventa
come
emblema
97
inquietante della società della crisi, prigioniera di untempo frammentato in momenti non relazionati fra loro – gli scatti – e lontana da ogni esperienza dell’Essere. Per Philippe Dubois, che si rifà alla teoria dei segni di Charles S. Peirce (1839-1914), la fotografia appartiene alla categoria degli indici: i segni uniti al proprio referente tramite un rapporto di contiguità fisica (come le impronte e i segnali di fumo). Questo statuto indiziale rinvia necessariamente la fotografia ad una situazione di enunciazione: il senso del referente fotografico è realmente comprensibile solo se visto come preceduto e seguito da atti culturali. La semantica della fotografia coincide dunque con la sua pragmatica. Ripensare la fotografia inserendola nel suo carattere di processo: questa tendenza del discorso sulla fotografia più recente mira a superare quel potenziale impasse teorico rappresentato dal punctum barthesiano. Dallo stupore afasico provocato dall’unicità del referente si passa a una distensione o espansione del punctum in una dimensione di durata (Derrida 1990) che comprende le tecniche di produzione, diffusione, archiviazione dell’immagine.
3.4 Verso una “ri-evoluzione” dell’immagine fotografica. L’avvento della tecnica digitale ha rivoluzionato il mondo della fotografia ed è gravida di conseguenze anche dal punto di vista teorico. Le nuove immagini informatiche presentano qualità nuove: esse non presuppongono necessariamente la realtà del referente, sono facilmente modificabili, cancellabili e velocemente trasmissibili a media differenti, non sono più legate a supporti
98
materiali come la pellicola o la carta. Le categorie della ricerca ontologica, modellate sulla vecchia tecnica analogica, non sembrerebbero dunque più valide per la nuova. Proprio oggi, tuttavia, il dibattito teorico sulla fotografia si presenta particolarmente vivace forse perché stimolato da una logica contrastiva: da un lato la tecnica digitale fa apparire più nitidi i tratti ontologici della tecnica analogica; dall’altro lato una comprensione reale del digitale non può non inserirsi nell’intera storia delle immagini analogiche. Nuovi interrogativi, come quelli posti da una realtà virtuale dimidiata dal proprio referente, sembrano conferire alla teoria della fotografia un’urgenza esistenziale e indicare alla ricerca nuovi percorsi.
99
4
EVOLUZIONI MEDIATICHE
Da circa un ventennio, il mondo “occidentalizzato” sta assistendo
ad
tecnologica e
un
progressivo
culturale,
il
fenomeno
di
riconversione
cui sviluppo, tuttora in pieno
svolgimento, ha determinato non pochi mutamenti di prospettive teoriche e ha generato altrettante nuove pratiche comunicative del vivere quotidiano. Sono di questa portata, infatti, le conseguenze dell’acclamata e criticata rivoluzione digitale65.
4.1 Media e ipermedia.
4.1.1 Oltre McLuhan.
I media tradizionali, di massa e individuali, hanno sempre vissuto un legame estremamente materiale con i loro supporti di registrazione-visualizzazione-trasmissione, ovvero con le loro 65
Viene qui utilizzato il termine rivoluzione per trasmettere l’effettivo impatto
che il digitale, come tecnologia, ha avuto sulle pratiche comunicative. Nonostante ciò, sarebbe più corretto parlare di ri-evoluzione, per rimarcare il carattere di continuità con i cosiddetti vecchi media, che sta alla base della comprensione di questo processo di trasformazione. Peraltro, questa diatriba tra sostenitori e diffamatori del progresso tecnologico ha da sempre contraddistinto i periodi di transizione tra la nascita di nuove tecnologie e la loro sedimentazione nelle pratiche d’uso – vedi ad es. le accuse di Baudelaire alla fotografia al Salon del 1859 -.Uno studio specifico su queste due prospettive ideologiche è stato condotto da Umberto Eco nel suo saggio Apocalittici e integrati (1964).
tecnologie66, dando luogo ad un processo evolutivo che potrebbe definirsi di “deriva tecnomediale”67. La loro evoluzione ha attraversato momenti di maggiore transizione proprio durante le cosiddette “rivoluzioni industriali”, rinforzando ancora di più il loro legame con la tecnologia. C’è stata, infatti, una prima fase, contraddistinta da nubi di vapore e braccia meccaniche, alla quale ha seguito l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, che, nell’era dell’elettricità, hanno visto l’aprirsi di una nuova strada verso la totale de-materializzazione dei segnali informativi, come 66
La storia dei media è soprattutto storia delle tecnologie materiali che hanno
inglobato, appunto mediandoli, gli oggetti della cultura umana, e allo stesso tempo hanno prodotto nuove forme di cultura, divenendo delle vere e proprie “protesi sensoriali”, estensioni culturali (vedi McLuhan- Gli strumenti del comunicare). L’oralità si fa scrittura grazie al gesto fisico che, nella sua materialità, diventa “dif-ferenza” culturale (Derrida- Della grammatologia e W.Ong- Oralità e scrittura). Il concetto di valore economico della merce diventa materiale grazie alla moneta. La stessa scrittura “prende corpo” nei caratteri mobili della stampa inaugurando nuove strade alla cultura umana (McLuhan- La galassia Gutenberg). Le arti plastiche innovano invece il panorama sensoriale visivo e tattile, raggiungendo livelli sempre più alti di simulazione e allo stesso tempo di dissimulazione del mondo reale. Ciò che si è salvato- per fortuna verrebbe da dire- dalla “furia mediale” sono forse i due sensi più importanti, quelli che ci mantengono in vita, il gusto e l’olfatto, i quali però, estremamente deprivati, sono ormai visti solo come funzionali al mantenimento (nutrizione) e alla riproduzione (feromoni), decurtati, a vantaggio degli altri sensi, delle loro capacità comunicative. 67
Un percorso in cui l’uomo e la tecnologia si specificano reciprocamente,
sono co-autori dei prodotti culturali osservabili, che “derivano” dalla loro interazione. “La tecnologia modifica l’uomo nelle misura in cui l’uomo modifica la tecnologia, non adattandosi reciprocamente ma secondo una logica di processi indipendenti”. Questa prospettiva ci viene suggerita da Giovanni Boccia Artieri- L’immagine virtuale: deriva tecnomediale e costruzione della realtà visuale- in Mondi da vedere, a cura di Faccioli.
102
profetizzato dal pioniere dei media studies, Marshall McLuhan. E qui vale la pena riportare le righe introduttive del suo testo più discusso e criticato, ma anche idolatrato e saccheggiato, Understanding Media (1964): Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. Nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistemo nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media, abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi.68
Così lo studioso canadese aveva capito con grande anticipo sui tempi quali potessero essere gli sviluppi futuri delle tecnologie della comunicazione, e da qui emerge il senso profetico del suo postulato secondo cui “il medium è il messaggio”, ovvero: …il “messaggio” di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani.69
68
M.McLuhan- trad.it “Gli strumenti del comunicare”, 1967- ed.cit. Il
Saggiatore EST, 1997, p.9. 69
Ibid. p.16
103
Purtroppo, però, non è riuscito a verificare la validità delle sue previsioni, ma non sorprende che i suoi seguaci70 abbiano avviato un nuovo filone di ricerca sui digital studies, considerati l’ultima frontiera delle teorie della comunicazione71.
4.1.2 Rimediazioni e convergenze Oggi, infatti sono sempre di più -fortunatamente- gli studi che affrontano le problematiche culturali introdotte dalle nuove tecnologie digitali. Tra i più autorevoli vi sono senza dubbio quelli pubblicati dai tipi del MIT, il Massachusetts Institute of Technology,
dove
si
trova
un
importante
laboratorio
di
sperimentazione dei nuovi media, il MediaLab. Tra i testi che hanno fatto luce su questo territorio fino ad ora solo superficialmente esplorato, mettendone in evidenza la continuità storico-culturale con i “saccheggiati territori” dei media di massa ne citiamo due, in ordine di apparizione. Il primo (1999) è quello di Bolter e Grusin, Remediation, il secondo (2001) è The Language of New Media, del critico russo Lev Manovich.72
70
Tra questi, il suo prosecutore, ex-direttore del centro di studi McLuhan,
Derrick De Kerckhove 71
Lo stesso De Kerckhove ha avviato, lo scorso anno accademico (2002-03)
anche presso l’Università Federico II di Napoli, un corso di laurea sulle tecnologie digitali della comunicazione. 72
I due testi hanno avuto un largo seguito nella ricerca; per questo motivo si
consiglia
di
fare
riferimento
alle
pagine
internet;
per
Remediation,
http://www.mediahistory.com; per The Language of New Media vedi il sito http://www.manovich.net su cui sono reperibili numerosi testi dello stesso autore.
104
Il primo testo ci aiuta a comprendere come le nuove tecnologie siano in una relazione di dipendenza e derivazione dalle vecchie tecnologie mediali. Gli autori parlano, infatti, di rimediazione nel considerare il percorso evolutivo dei nuovi media in genere – computer graphics, realtà virtuale, videogames, internet -
come anche dei “vecchi” – libri, stampa, fotografia,
televisione. Figura 19.
Ralph Goings. Still life with
creamer. Olio su tela 38x52 inch. fotorealisti
come
questo
Quadri
“rimediano”
esplicitamente la fotografia. Un altro artista che utilizza questo stile è Chuck Close (sotto una sua opera).
Figura 20.
Chuck Close, self-portrait,
2000. Close è stato uno tra i maggiori esponenti
della
cosiddetta
corrente
iperrealista, che ha basato la sua ricerca pittorica
proprio
fotorealistica
del
sulla quadro.
rimediazione Oltre
alla
fotografia ha rimediato nella pittura anche il concetto di pixel, o punto immagine, da cui parte, utilizzandone la griglia, e che contemporaneamente
decostruisce.
È
interessante che la sua ultima opera sia un costituita da ritratti in dagherrotipo, la più antica tecnica fotografica, che esiste solo come unico pezzo originale, mancando di negativo.
105
La rimediazione si attua anche quando vediamo un film tratto da un libro, o una “leggiamo” una fotografia descritta a parole, o ancora quando un quadro riprende le caratteristiche di una fotografia (vedi figure alla pagina precedente). Ogni nuovo mezzo sorge dalle radici di quelli precedenti, e non è possibile, quindi considerare i nuovi media senza fare riferimento ai media che li hanno preceduti. In più questo processo segue una doppia logica, ossia è possibile
rintracciare
due
strategie
che
guidano
queste
rimediazioni. La prima è la logica dell’immediatezza, che si esprime in un desidero di trasparenza del mezzo che tende a scomparire come oggetto tecnologico complesso per mostrarsi ai suoi utenti come facilmente utilizzabile senza possedere un particolare know-how (conoscenza tecnica specifica). La seconda strategia
che
guida
l’evoluzione
mediatica
è
la
logica
dell’ipermediazione (hypermediacy), ossia la fascinazione per le nuove tecnologie che emerge dal fatto che ci persuade di avere un’azione diretta sulla realtà. Una caratteristica interessante della rimediazione digitale sta nel fatto che oltre a nascere nuovi media dalle “ceneri” dei vecchi, gli stessi media tradizionali analogici convergono nel nuovo metamedium, il computer73. Quindi è plausibile parlare oltre che di rimediazione, anche di convergenza digitale. Con l’ausilio di apparecchiature dedicate, che ormai sono diventate di dominio pubblico come il computer, è possibile trasformare in cifre
73
Vedi
Bettetini-Colombo,
Le nuove tecnologie della comunicazione,
strumenti Bompiani, Milano, 1993.
106
numeriche o bits (da binary digits) qualunque informazione di tipo testuale, sonora e visiva. Una volta trasformata in codice binario l’informazione, di qualunque tipo essa sia, può essere trattata, veicolata ed archiviata attraverso un unico strumento, il computer. L’altro testo che è stato citato ci può aiutare maggiormente nel definire cosa effettivamente sono e come sono nati i nuovi media ed in più ad individuarne le caratteristiche. Manovich ci illustra come in realtà i nuovi media digitali siano una conseguenza evolutiva di due traiettorie tecnologiche che hanno viaggiato in parallasse, e che oggi hanno trovato visto una convergenza reciproca.
4.1.3 La nascita dei nuovi media.
Le origini dei nuovi media digitali sono rintracciabili nella sintesi di due vicende storiche che hanno viaggiato di pari passo. Queste sono, da un lato, la storia della fotografia ed il suo sviluppo come tecnologia mediale dell’immagine analogica continua che ha portato come conseguenze quelle del cinema e della televisione. Dall’altro lo sviluppo delle scienze matematiche e dei primi calcolatori informatici, anche questo datato intorno ai primi decenni dell’ottocento. Paradossalmente, fa
notare
Manovich, esisteva
una
macchina in grado di “sintetizzare” immagini ancora prima dell’invenzione della fotografia. Intorno al 1800, infatti, fu inventato un telaio automatico comandato da schede perforate, mutuate in seguito per la registrazione dei primi dati informatici. Attraverso questo telaio era possibile intessere figure geometriche piuttosto
107
intricate, ed immagini figurative complesse, come il ritratto – ancora non fotografico – del suo stesso inventore, J.M. Jacquard. Nel 1833 il matematico Charles Babbage costruì un apparecchio denominato la “macchina analitica”, perché era in grado di processare dati matematici attraverso l’uso di quelle stesse schede perforate del telaio. Ada Augusta, che può essere considerata la prima programmatrice informatica della storia e sostenitrice di Babbage sostenne che “la macchina analitica intesse operazioni algebriche, così come il telaio di Jacquard intesse foglie e fiori”. Così le tecnologie mediali delle immagini e l’elaborazione dei dati compaiono quasi contemporaneamente, si sviluppano parallelamente per poi incontrarsi solo un secolo più tardi. L’anno-chiave per la storia dei media e dei computer è, infatti, il 1936, quando il matematico Alan Turing fornisce la descrizione teoretica di un computer, che è rimasta alla base dell’architettura
dei
moderni
calcolatori
elettronici.
Ma
curiosamente in quel momento l’evoluzione storica dei media e dell’informatica si intrecciò ancora di più. In quello stesso anno l’ingegnere tedesco Konrad Zuse realizzò il primo computer digitale, ma una delle sue innovazioni fu proprio l’uso di un particolare nastro perforato per il controllo dei dati e dei programmi, quel nastro era in realtà proprio una pellicola de scarto da 35mm, di quelle utilizzate per i proiettori cinematografici. Per Lev Manovich questo evento simboleggia l’unione tra queste due tecnologie “separate alla nascita” che si incontrano grazie ad una casualità rivelatasi poi funzionale; è forse per questo che nella versione americana del suo testo ha utilizzato come immagine di copertina proprio uno spezzone di nastro del computer di Zuse, la curiosità è proprio che questo brandello
108
storico di pellicola evidenzia la perforazione di un codice binario sopra le immagini sbiadite di un interno domestico. Questo aneddoto storico serve in realtà a sottolineare quanto le due tecnologie in questione –media visivi e informaticasiano state legate fin dalla nascita. Così Manovich ci presenta l’epilogo di questa storia: Finalmente le due traiettorie storiche separate s’incontrano. I media e il computer – il dagherrotipo di Daguerre e la macchina analitica di Babbage, la macchina cinematografica dei Lumière il tabulatore di Hollerith – si fondono. Tutti i media preesistenti vengono tradotti in dati numerici, accessibili al computer. Ed ecco il risultato: grafici, immagini in movimento, suoni, forme, spazi e testi diventano computabili,
diventano cioè, degli insiemi di dati
informatici. In sintesi, i media diventano i “nuovi media”. (…) Completando un circuito storico, il computer è tornato alle sue origini. Non è più solo una macchina analitica, adatta unicamente a masticare numeri, ma è diventato il telaio di Jacquard, una macchina in grado di sintetizzare e manipolare i media. 74
Grazie a questa fusione, l’identità dei media è cambiata ancora più radicalmente di quella dei computer.
74
Da Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, 2002, pagg.44-
45.
109
4.2 La fotografia: da analogica a digitale In questo lavoro si stanno considerando in particolare gli sviluppi che si sono aperti al medium fotografico dopo la sua rimediazione nell’universo del digitale. Cerchiamo di capire adesso quali sono i sostanziali cambiamenti che ciò ha comportato. Le possibilità che il digitale ha offerto alla fotografia sono numerosissime e riguardano un ampio raggio di pratiche in cui questa è inscritta, ma le ragioni stanno sicuramente nel cambiamento tecnologico che, come abbiamo visto, porta con sé -ed è trasportato da- quello culturale. Si cercherà per questo di analizzare le principali possibilità offerte dal digitale confrontandole con quelle della fotografia analogica tradizionale.
4.2.1 Immagine e supporti
Esistono molteplici differenze tra la fotografia analogica chimica e quella digitale, ma probabilmente la più significativa, da cui ne dipendono molte altre e da cui derivano i principali vantaggi della seconda è la differenza del supporto di registrazione dell’immagine. Nella fotografia chimica immagine e supporto si fondono, s’imprimono indissolubilmente, laddove nella fotodigitale questa coincidenza non si verifica. Il supporto elettronico fotosensibile, dopo aver inviato i dati registrati al processore d’immagine, ritorna ad essere “vergine”(come una pellicola nuova) per poter catturare altre immagini.
110
Consideriamo una diapositiva, esso è un pezzo di pellicola che dopo essere uscita dalla macchina fotografica ha subito il processo chimico dello sviluppo, per poi ridarci l’immagine che era stata
catturata.
Il
supporto
di
registrazione
e
quello
di
visualizzazione in questo caso coincidono esattamente, non vi è alcuna rimediazione. E non vi è alcuna possibilità di “staccare” fisicamente l’immagine dal supporto se non proiettandola su di una parete. Nel digitale il supporto di registrazione non coincide con quello
di
memorizzazione,
né
tantomeno
con
quello
di
visualizzazione. Sono necessarie almeno tre mediazioni per poter osservare una fotodigitale, quella dell’apparecchio fotografico, quella della codifica digitale su supporto magnetico, e quella della decodifica per la visualizzazione su schermo o la stampa. Possiamo, però, dividere le immagini fotografiche digitali in due categorie fondamentali: • Immagini realizzate con materiali fisico-chimici e solo in un secondo tempo digitalizzate attraverso il processo di scansione. • Immagini realizzate interamente in digitale, con apparecchi che utilizzano un sensore elettronico fotosensibile che traduce i segnali luminosi in sequenze di bits al posto del classico rullo di pellicola. In realtà già da molti anni tutte le immagini stampate sulle riviste o più in generale tutte le immagini tipografiche, anche se originate da una diapositiva o da una stampa fotografica tradizionale,
sono
passate
attraverso
un
processo
di
digitalizzazione per essere poi stampate. L’editoria è stato il primo settore
a
sperimentare
le
tecniche
di
gestione
digitale
111
dell’immagine, e quello che viene pubblicato è un prodotto di una rimediazione digitale. Non è questa la sede per approfondire le caratteristiche prettamente tecnologiche dei sensori digitali di cattura delle immagini, ma è forse importante capire un po’ più in profondità cosa sia una fotografia digitale (o come già la si è definita, fotodigitale). La composizione di un’immagine digitale (raster) si basa su una griglia di celle chiamati pixel (da picture element). La sua qualità dipende dalle dimensioni di questa griglia, ovvero dalla quantità di pixel utilizzati.
4.2.2 Fotografia digitale e visione oculare.
Una fotocamera digitale è in principio del tutto identica a quella tradizionale per quello che riguarda il dispositivo fotografico (lente-diaframma-otturatore-camera oscura), è il supporto di cattura dell’immagine che come abbiamo visto, fa la differenza. In realtà la fotografia digitale ricorda, in maniera molto più evidente di quella analogica, il funzionamento della visione oculare umana, ma vediamo in che senso. L’occhio percepisce i segnali luminosi attraverso elementi fotosensibili (coni e bastoncelli) e li converte in segnali elettrici (nervosi) che invia al cervello per l’elaborazione. Una schema di funzionamento molto simile a quello dei CCD e dei processori d’immagine. Ritornando così per un attimo alla questione della “presunta incapacità dell’immagine digitale di risultare attendibile solo perché carente di una prova fisica dell’impronta sulla pellicola”,
112
questo parallelismo appena instaurato (fotografia digitale-visione umana) può esprimere ancora di più la sua infondatezza. Utilizzare la dimensione fisica dell’immagine fotografica analogica, ossia il suo essere “traccia fotochimica” registrata attraverso un dispositivo ottico su un supporto materiale tangibile, come “unica spiegazione e garanzia della veridicità di ciò che viene ritratto”, equivale a rinnegare l’evidenza di ciò che viene percepito attraverso l’occhio umano. Nel processo della visione non
avviene
nessun
fenomeno
di
“scrittura
analogica”
dell’immagine, ma al contrario l’informazione visiva, catturata dall’occhio attraverso coni e bastoncelli, viene trasformata (codificata) in impulsi elettrici ed inviata al settore cerebrale preposto alla decodifica (ad es. il capovolgimento) e solo dopo questa fase può essere “vista con gli occhi dalla mente”. Questo spiega per deduzione che il principio fisico-chimico della fotografia analogica non la mette in salvo dalle possibili insidie manipolatorie e dalla presentazione del falso. Il processo della fotografia digitale è molto simile, infatti, il sensore
è
composto
da
milioni
di
elementi
fotosensibili
(megapixel) chiamati diodi (coni e bastoncelli) che sono in grado di “ricordare” l’intensità luminosa che li colpisce durante l’esposizione e di convertirla in una carica elettrica. Ogni carica elettrica tradotta in un numero viene inviata al processore (cervello) della fotocamera che lo elabora. Dopo lo scatto, i dati della ripresa vengono memorizzati su di un supporto ben preciso come una memoria fissa (hard disk) o più comunemente su di una scheda di memoria. Non può dirsi lo stesso, purtroppo, della funzione di memorizzazione del cervello umano, un meccanismo ancora in gran parte ignoto che non prevede la stessa sistematicità numerica del digitale.
113
In più attraverso il collegamento con il computer le immagini possono essere visualizzate a monitor, stampate, archiviate su hard disk o masterizzate su supporti magnetici quali CD e DVD.
4.2.3 L’originale e la riproducibilità digitale.
In fotografia per originale si intende il negativo o la diapositiva, cioè quel pezzo di pellicola che era nella macchina al momento dello scatto. Da questo è possibile ottenere delle copie (duplicati), ma, come avremo modo di vedere, queste anche se di ottima fattura introducono sempre una scadimento qualitativo che si manifesta con una perdita d’informazione. Un occhio esperto sarà sempre, o quasi, in grado di distinguere una copia dall’originale. In digitale il discorso si complica o si semplifica secondo i punti di vista. Infatti, poiché la copia di un file immagine, se non compressa, sarà sempre uguale all’immagine di partenza, ecco che automaticamente la parola originale perde di valore. Attualmente la difficoltà d’individuare il file sorgente di una fotografia digitale sta mettendo in discussione la loro veridicità, per questo motivo si stanno sviluppando già sistemi per determinare se un’immagine è stata, o meno, manipolata dopo la ripresa. Questo sistema renderà la fotografia digitale ancora più affidabile di quella analogica, che pure, nonostante il “presunto valore di prova” del negativo, nascondeva spesso la sua “identità originale”, mediante sottili stratagemmi tecnici. Infatti, ciò che ad un primo sguardo potrebbe apparire come un punto debole, si rivela poi essere uno dei principali punti di forza della tecnologia digitale.
114
Il concetto di originale al quale ci siamo abituati è, così, una pura contingenza tecnologica. Le conseguenze culturali scaturite dalla perdita del valore di questo concetto nell’epoca moderna, nella considerazione di un’opera d’arte, sono state ampiamente descritte nel famoso saggio di Walter Benjamin del 1936. Molti hanno sostenuto l’ipotesi che si stia passando dall’epoca della riproducibilità tecnologica a quella della producibilità digitale, intendendo che attraverso il digitale più che ri-produrre si “produce la realtà”. Forse è un’affermazione un po’ troppo azzardata, ma possiamo certamente
ipotizzare
che
verrà
presto
dell’immagine
la
riproducibilità
soppiantata
tecno-grafica
dalle
possibilità
riproduttive (e perché no, forse anche produttive) introdotte dalla tecnologia digitale. Si
può
quindi
parlare
di
una
rimediazione
della
riproducibilità nell’universo digitale.
4.2.4 Qualità della fotografia digitale.
Parlando di fotografia digitale si è tentati comunemente di fare un paragone diretto con tra questa e quella tradizionale, precedendo ad un confronto che tiene conto della qualità come unico parametro di scelta. Questa è sicuramente una posizione sbagliata. Da una parte perché il continuo sviluppo tecnologico porterà presto il digitale a superare di gran lunga la qualità della pellicola, dall’altra perché parlare di qualità senza riferimento ad un particolare utilizzo della fotografia, e quindi a particolari esigenze qualitative, è come abbandonarsi ad uno sterile discorso
115
tecnofeticista, che tiene conto solo dell’aspetto tecnologico senza curarsi di quello funzionale. Per il momento la fotografia analogica e quella digitale sono due cose diverse, ognuna con le sue caratteristiche e, da un punto di vista funzionale, rispondono ad esigenze qualitative differenti. Esistono pellicole che forniscono una nitidezza ed un dettaglio superiore ad altre, ma questa differenza ne separa gli utilizzi, infatti, in fotografia il potere risolutivo è inversamente proporzionale
alla
sensibilità
luminosa,
ma
direttamente
proporzionale alla qualità (una pellicola da 25 ASA ha bisogno di una luminosità 5 volte superiore ad una di 800 ASA per dare risultati ottimali). Diventa chiaro, quindi, che secondo lo scopo -e le condizioni di luminosità- per il quale fotografiamo la nostra scelta ricadrà su una pellicola, e quindi una qualità, piuttosto che un’altra. Ad esempio la fotografia teatrale, per lo scarso livello di luminosità, richiede un alta sensibilità di materiali, a scapito di una perdita di qualità complessiva. Si può dire per questo che la qualità in fotografia è sempre una questione di compromessi. Difatti, qualunque fotografo non potrà mai negare la qualità di un’immagine realizzata con un banco ottico che produce originali di 20x25cm (fotocamera di grande formato), rispetto a quella di una comune pellicola da 35mm (24x36mm), ma questo non diventa un buon motivo per dedicarsi al fotoreportage utilizzando un apparecchio di un tale ingombro e difficoltà di operazione. Mentre è evidente che per un fotoreporter impegnato a documentare un evento irripetibile in una zona impervia del mondo
valga
molto
di
più
la
possibilità
di
trasmettere
immediatamente il suo lavoro in redazione attraverso un
116
trasferimento digitale (via satellite o via cellulare), piuttosto che avere un’immagine ad alta definizione. Quest’ultima, infatti, realizzata con una buona diapositiva (standard per l’editoria in epoca analogica), avrà sicuramente un’ottima qualità, ma difficilmente riuscirebbe ad arrivare in tempo per la pubblicazione. Da questi esempi risulta evidente che la scelta di quale mezzo utilizzare per un servizio fotografico (pellicola ad alta sensibilità, o ad alta definizione, o apparecchi digitali) dipenda molto di più dalle condizioni di utilizzo piuttosto che da una pura e sterile ricerca di qualità. C’è anche da dire, poi, che nella fotografia professionale è difficile che il prodotto finale sia costituito da una stampa ad alta definizione (fine art print) o da una diapositiva. Più probabilmente sarà, invece, commercializzata sotto forma di stampa tipografica o, oggi sempre più spesso, pubblicata su una pagina internet. Per rendere più chiaro il divario qualitativo nel mondo professionale si può dire che, dato alla diapositiva un ipotetico indice di qualità 100, ed all’attuale fotografia digitale uno di 70, potremmo dare alla stampa tipografica media un indice di 20. È evidente che il divario tra i due metodi risulta del tutto annullato dalla bassa qualità di stampa delle riviste. E in fin dei conti, purtroppo, è questo ciò che conta nel mondo della fotografia professionale.
4.2.5 Economicità.
Un altro punto di forza della fotografia digitale è sicuramente la sua economicità di gestione.
117
Non vi è dubbio che una delle ragioni che portarono alla nascita ed alla diffusione della fotografia tradizionale fu la necessità di trovare un metodo più semplice, ma soprattutto più economico, per realizzare ritratti e paesaggi che fino a quel momento restavano appannaggio esclusivo dei pittori e quindi di quei pochi che potevano permettersene l’opera. Tutta la storia della tecnica fotografica, dalla sua nascita ad oggi, è una continua ricerca di metodi meno costosi. Dall’utilizzo delle lastre di vetro si è passati alla carta fotografica, quindi alla stampa tipografica. Possiamo dire che lo schermo sul quale si proiettano le classiche diapositive dei viaggi rappresenta il primo supporto di visualizzazione riutilizzabile. Il
passaggio
successivo
è
stato
quello
di
rendere
riutilizzabile anche il supporto di registrazione dell’immagine, è così che dalla pellicola si è passati al CCD (il più comune dei supporti elettronici fotosensibili, Charge Coupled Device). La fotografia digitale rappresenta la risposta a questa esigenza trasformando in realtà quello che è stato il sogno di molti fotografi: avere a disposizione una pellicola cancellabile e riutilizzabile all’infinito ( o almeno fino alla sua obsolescenza potremmo dire). Fino a qualche anno fa l’uso di questa tecnologia era quasi esclusivamente
riservata
ai
professionisti
o
ai
cosiddetti
“fotoamatori evoluti”, ma anche molto facoltosi. Infatti, per avere immagini accettabili era necessario investire cifre significative. Oggi vi sono macchine digitali di ottima qualità a prezzi paragonabili a quelli degli apparecchi tradizionali a pellicola. Anche i costi dei supporti di memorizzazione (memory cards, Compact Flash, ecc.) sono diminuiti notevolmente, e questo pare essere il trend cui vanno incontro, e per di più,
118
nonostante appaiano comunque più alti di quelli di un singolo rullino, l’uso che possiamo farne è praticamente illimitato, sempre grazie all’immaterialità dei dati digitali. Possiamo quindi affermare che dopo aver acquistato una fotocamera digitale ed una scheda di memoria, saremo in grado di produrre immagini fotodigitali per il resto della vita (almeno della macchina) senza dover spendere in materiali di consumo. Infatti, ragionando in termini analogici, il costo di una macchina digitale sarebbe ammortizzato già nel momento in cui raggiungiamo un numero di scatti che corrispondono alla somma delle pellicole che avremmo utilizzato in analogico (ad esempio 3600 scatti corrispondono a 100 rullini da 36 che in media avremmo pagato intorno 4€ l’uno, quindi in tutto circa 400€, che è il prezzo attuale di una fotocamera digitale di fascia media), così possiamo considerarci in qualche modo perfettamente “rimborsati” dal digitale. Nel campo professionale, poi, questo vantaggio è ancora più evidente, ed in più ne scaturisce un altro, forse ancora più importante. Poiché, come abbiamo visto, ogni fotografia – analogica- che vediamo pubblicata è stata prima digitalizzate attraverso il processo di scansione, con un costo sia in termini economici che temporali, è evidente che l’utilizzo della tecnologia digitale fin dallo scatto, eliminando questo passaggio, rappresenta già di per sé un consistente abbattimento di costi e di tempi di consegna. Questo è sicuramente il motivo per cui il mercato professionale si sta convertendo completamente al digitale. Infatti, a parità di bravura del fotografo, il cliente sceglierà molto probabilmente chi è in grado di fornirgli il prodotto richiesto in meno tempo e con costi minori, cioè chi lavora in digitale.
119
4.2.6 Elaborazione e correzione delle immagini.
La possibilità di utilizzare gli strumenti digitali per la correzione
di
errori
in
ripresa
o
semplicemente
per
il
miglioramento della visualizzazione di un’immagine rappresenta certamente uno degli aspetti che rende tale tecnologia appetibile non solo per i fotografi professionisti. Per illustrare questo argomento considereremo due fasi, dato che le immagini possono essere regolate e corrette sia in ripresa che di post-produzione, e per maggiore chiarezza, nell’impossibilità
di
esaurire
le
considerazioni
su
questo
argomento, si procederà con l’esposizione di alcuni esempi. Utilizzando
una
fotocamera
tradizionale,
molte
delle
possibilità di lavoro dipendono dalla pellicola che in quel momento abbiamo caricato. Se ad esempio abbiamo una pellicola da 100 ASA ed abbiamo bisogno improvvisamente di fotografare in condizioni di scarsa luminosità, per non rinunciare alla ripresa abbiamo due soluzioni, o fotografare con un’altra macchina (o altro caricatore nel caso di apparecchi di medio formato, tipo 6x6) oppure sostituire la pellicola con un’altra di maggiore sensibilità. Utilizzando un apparecchio digitale, invece, possiamo variare
la
sensibilità
semplicemente
impostando
il
valore
desiderato nei menu corrispondenti. Infatti, tutte le regolazioni che sovrintendono
alla
registrazione
effettiva
delle
immagini
(sensibilità-ASA, temperatura colore-bilanciamento del bianco, contrasto) avvengono sulla fotocamera, e possono variare per ogni momento.
120
In conclusione possiamo dire che laddove con la fotografia analogica occorre pensare prima alle condizioni dello scatto e quindi scegliere la pellicola più adatta a queste, con l’uso di apparecchi digitali è possibile adattare la “pellicola virtuale” alle esigenze di ripresa di ogni singolo scatto, senza doversi preoccupare delle condizione nelle quali ci si troverà ad operare. In più è diventato possibile lasciare questo tipo di scelta ad una fase successiva, quella di post-produzione, grazie all’introduzione di nuovi software dedicati alle macchine digitali professionali che permettono di tarare la temperatura cromatica anche dopo lo scatto, solo se questo avviene nel particolare formato RAW, e non in uno compresso come il JPEG. Un’altra fase di regolazione e correzione delle immagini è quella di post-produzione, che viene cioè dopo lo scatto, la produzione dell’immagine, e che con il digitale può essere considerata una vera e propria fase post-fotografica. Gli strumenti digitali coinvolti in questa fase sono i programmi di elaborazione d’immagini (come il già citato Adobe Photoshop) che permettono sofisticate operazioni di ritocco e di manipolazione. Con questi strumenti è possibile apportare correzioni ed ottimizzare così la qualità delle nostre immagini sia dal punto di vista cromatico che dell’esposizione. Si possono facilmente correggere fotografie sottoesposte o sovraesposte –nei limiti dell’informazione che si ha a disposizione- o anche compensarne il contrasto. È possibile inoltre, con un po’ di esperienza, lavorare anche su precise zone dell’immagine, senza modificarne totalmente i valori. Un esempio di correzione più interessante e i cui risultati sono spesso sorprendenti, è quello dato dalla possibilità di eliminare effettivamente alcuni elementi dall’immagine procedendoad una vera e propria cancellazione.
121
Spesso capita di voler eliminare dalle fotografie elementi di disturbo che non sono necessari alla lettura dell’immagine, come ad esempio nell’illustrazione dell’architettura può disturbare la presenza di elementi quali fili elettrici o cartelloni pubblicitari. Ebbene, con uno strumento –quasi magico- chiamato timbro o “clone”, è possibile campionare un pezzo di muro o di cielo o di pavimento circostante e con questo ricoprire gli adiacenti elementi di disturbo. Avendo la possibilità di lavorare a fortissimi ingrandimenti le correzioni possono essere realizzate con estrema precisione senza essere individuate in alcun modo –almeno da un occhio non esperto.
4.2.7 Manipolazione e creatività degli strumenti digitali.
Anche in questo caso occorre distinguere tra le due fasi del processo fotografico di ripresa e post-produzione. Nella ripresa digitale sono due gli aspetti che determinano spesso il raggiungimento di un buon risultato: la possibilità di scattare a costo zero e quella di verificare immediatamente il risultato dopo lo scatto. Queste due caratteristiche costituiscono una vera e propria molla per la creatività. Non avendo costi sui materiali di consumo si è stimolati a scattare molto di più, e questo garantisce sicuramente un risultato ottimale. Spesso, infatti, i costi dei materiali limitano le scelte creative. Lavorando in digitale nella fase di ripresa è possibile realizzare gli schemi di luce più arditi senza che questo influisca sul budget di lavoro, se le soluzioni non dovessero rivelarsi adatte. In molti casi un fotografo professionista non si azzarda a sperimentare nuove possibilità durante un servizio importante per
122
non metterne a repentaglio la riuscita. Oggi, grazie alla verifica istantanea dello scatto su monitor –quello che prima si faceva con le costose Polaroid- al lavoro del fotografo professionista si sono aperte
migliaia
di
nuove
possibilità
che
prima
venivano
considerate appena. Questa possibilità “rivoluzionaria” nel modo di operare di un fotografo professionista, è stata accolta con grande entusiasmo anche dal fotoamatore, infatti, poter controllare subito il risultato di uno scatto eviterà di scoprire solo in un secondo momento che non si era caricata prima la pellicola (!) perdendo così l’immagine di un momento importante. La post-produzione digitale (che abbiamo anche chiamato fase post-fotografica) offre delle possibilità creative ancora più ampie, i cui limiti sono dettati solo dall’abilità tecnica dell’operatore e dalla sua immaginazione. Quella che è stata definita la camera chiara digitale è, infatti, una versione assolutamente efficiente ed in più anche ecologica della tradizionale camera oscura con i vari acidi e vasche di sviluppo. Abbiamo già visto a quali pratiche di manipolazione è stata sottoposta l’immagine fotografica nel laboratorio tradizionale. Questi procedimenti, ottenuti fino a poco fa solo attraverso tecniche complicatissime di camera oscura con plurimi passaggi su pellicola e registri di precisione a costi elevati, possono essere oggi raggiunti attraverso l’utilizzo di un buon programma di elaborazione digitale (il solito e ”miracoloso” Photoshop). Quando si parla di elaborazione digitale non dobbiamo però pensare solo ai fotomontaggi che manipolano irreparabilmente il significato letterale di una fotografia. Queste tecniche, infatti, sono di grande aiuto anche in molte situazioni di elaborazione ordinaria.
123
4.2.8 La stampa digitale.
Fino a poco tempo fa il vero “tallone d’Achille” della fotografia digitale era rappresentato dal costo elevato e dalla scarsa qualità della stampa della immagini. La questione riguarda principalmente la fotografia amatoriale e solo in alcuni casi quella professionale. Per affrontare questo aspetto occorre chiarire subito alcuni termini quali: stampa fotografica, stampa digitale, stampa tipografica. Per stampa fotografica si intende quella realizzata su carta sensibile alla luce in camera oscura o in laboratorio. Per stampa digitale si intende invece quella realizzata con stampante a getto d’inchiostro o a sublimazione termica (di qualità superiore) su carta non fotosensibile. La stampa tipografica è quella utilizzata nell’editoria cartacea. Questa, infatti, sui grandi numeri è ancora la più economica, ma certamente non è indicata per produrre una singola stampa fotografica di qualità (come abbiamo visto nel par. 4.2.4). Il problema del costo elevato delle stampe ottenibili con procedimenti
digitali
ad
inchiostro
è
stato
superato
con
l’introduzione sul mercato dei nuovi minilab digitali che sono in grado di stampare i file immagini su materiale chimico e tradizionale, quale la carta fotosensibile, a costi di poco superiore rispetto al normale. La qualità di queste stampe, poi, non è
124
distinguibile da quelle ottenute, nello stesso minilab, da negativo tradizionale. Questa nuova possibilità ha aperto la strada ad una diffusione rapidissima del digitale anche nel mercato amatoriale.
4.2.9 Archiviazione digitale. Nell’ambito della conservazione e archiviazione delle fotografie, il sistema digitale offre sicuri vantaggi. Vediamone i principali: • La non deteriorabilità delle immagini digitali. • Il costo contenuto dei supporti di memorizzazione dei dati. • Lo spazio ridotto necessario per l’archiviazione. • La facilità di gestione degli archivi digitali. Anche per ciò che riguarda l’archiviazione, quindi, la non coincidenza tra immagine e supporto rappresenta la caratteristica più interessante della tecnologia digitale. Il cd o la scheda di memoria non “sono” l’immagine, sono solamente dei contenitori di dati che, opportunamente decodificati, “materializzano” l’immagine su di un supporto che potrà essere, di volta in volta, il monitor, la carta o quant’altro. Considerato
che
l’immagine
digitale
viene
creata
decodificando un insieme di numeri, paradossalmente si può affermare che potrebbe essere sufficiente trascrivere quei numeri anche a mano su un foglio di carta per poterne ricavare in seguito una copia identica, la calligrafia non avrebbe alcuna influenza sul risultato finale. Questa caratteristica risolve completamente il problema del deterioramento che affligge tutti coloro che conservano fotografie
125
“materiali”. Un supporto magnetico, infatti, non soffre l’umidità o l’esposizione prolungata alla luce come invece succede per i materiali fotografici tradizionali. In più l’economicità dei supporti di registrazione dei dati informatici rende possibile creare a basso costo una seconda copia dell’archivio assolutamente identica da conservare in un luogo separato, questo permette una maggiore sicurezza nella conservazione dei dati importanti. Si potrebbe obiettare, non senza fondamento, che la continua evoluzione che caratterizza il mondo dell’informatica potrebbe rendere presto obsoleto un supporto di registrazione che attualmente viene considerato uno standard. In realtà si tratta di un falso problema, infatti, nonostante l’evoluzione della tecnologia porti sempre nuove soluzioni di archiviazione sarà sempre possibile, nel periodo di transizione tra il vecchio ed il nuovo, trasferire i dati dai supporti antiquati su quelli in via di sviluppo. Ad esempio, i primi dati informatici, che 40 anni fa venivano archiviati su schede perforate, sono tuttora disponibili essendo stati trasferiti su supporti più attuali. Lo stesso sta accadendo per il medium fotografico, infatti, sono sempre più frequenti le operazioni di digitalizzazione di interi archivi analogici, fatti di pellicole e stampe fotografiche, che stanno trovando il posto all’interno dei nuovi “magazzini virtuali”. Oggi possiamo diffondere le nostre immagini senza rischiare di rovinare i preziosi originali, perché è proprio il concetto di “originale” che ha perso tutto il valore che gli era attribuito in epoca analogica. Questo aspetto, come abbiamo già sottolineato, ha comportato e comporterà una totale riconfigurazione dei principi giuridici alla base del diritto d’autore.
126
Per i motivi sopra enunciati sarà, poi, sempre possibile creare copie di immagini assolutamente identiche tra loro, purché non si utilizzino algoritmi di compressione a perdita d’informazione (lossy compression), anche dopo una serie infinita di passaggi, senza che questo comporti alcuno scadimento qualitativo. Realizzando, invece, il duplicato di una diapositiva o di un negativo si determina una perdita d’informazione in termini di grana e di aumento del contrasto che crescerà in modo esponenziale procedendo ad ulteriori passaggi fino a portarci, anche
senza
volerlo,
nel
mondo
grafico
della
pittura
impressionista. L’altro grande problema che è stato aggirato dagli attuali sistemi di archiviazione digitale, che scaturisce sempre dalla sua immaterialità, è quello dello spazio fisico necessario per custodire tutte le immagini che lo costituiscono. Per chiarire meglio questo aspetto è opportuno procedere con degli esempi. Su di un normale CD è possibile registrare fino a circa 600 immagini di una risoluzione medio-alta (4Mpixel in jpeg), in più oggi sta diventando sempre più comune l’uso dei DVD come supporto per l’archiviazione dei dati, questi sono stati inizialmente introdotti sul mercato per la riproduzione di video ad alta qualità (oggi sono diventati, infatti, il corrispettivo del sistema VHS per il digitale) grazie alla loro particolare densità di spazio di registrazione che arriva ad essere dalle 6 alle 12 volte maggiore di quello dei CD (esistono già numerosi formati di DVD: +R, -R, RW, Dual Layer). Così si arrivano a contenere su un normale disco ottico di pochi centimetri di diametro fino a 7200 fotografie (!). Basta pensare a quanto spazio occupano le stesse nel “mondo fisico” delle scatolette per diapositive o dei fogli per negativi e
127
paragonarlo con quello occupato da uno o più CD (se fosse necessario averne più copie). Un ulteriore vantaggio è costituito dalla velocità di gestione degli archivi digitali. Esistono, infatti, programmi di archiviazione e consultazione sempre più sofisticati che ci permettono di recuperare in pochi istanti l’immagine che desideriamo, anche a distanza, e, in caso di necessità, di spedirla attraverso internet dovunque nel mondo, il tutto senza esserci spostati ed a costi irrisori.
4.2.10
Considerazioni sulla transizione al digitale.
È abbastanza credibile ormai l’idea di un futuro molto prossimo nel quale camera oscura e pellicole diventeranno termini desueti proprio come lo sono oggi le lastre al collodio umido o i dagherrotipi. Un parallelismo si potrebbe fare con l’immagine video, che già ha abbandonato da un po’ gli standard analogici. Infatti le vecchie cineprese Super8, e i materiali di consumo per utilizzarle, si trovano solo in qualche banco dell’usato o presso rivenditori specializzati in antiquariato tecnologico. Si può immaginare per questo che gli stessi motivi che hanno portato alla loro sostituzione con le attuali telecamere (prima VHS e BETACAM, poi DV) decreteranno in buona parte anche il definitivo passaggio dalla fotografia chimica a quella digitale (almeno per il mercato amatoriale). Così come i costi dei computer nel corso dell’ultimo ventennio (dal 1984, anno del primo Macintosh) sono diminuiti in maniera
rilevante
e
proporzionalmente
inversa
alle
loro
prestazione in termini di capacità di elaborazione, anche i prezzi
128
delle fotocamere digitali sta prendendo questa direzione, che peraltro è quella imposta dalla legge della domanda e dell’offerta. Pur non potendo considerare già obsolete le tradizionale fotocamere a pellicola, l’attuale riluttanza di alcuni professionisti nel considerare il digitale come il futuro della fotografia nasconde una “miopia” più che uno sguardo sano verso gli avanzamenti della tecnologia. Non bisogna poi pensare che il “valore artistico” di un’opera fotografica dipenda soltanto dall’utilizzo di una tecnica piuttosto che un’altra. Alla base di ogni buona immagine, infatti, deve sempre esserci una buona idea, senza la quale non si potranno raggiungere risultati degni di nota. È vero che con gli strumenti digitali si possono correggere molti errori dovuti ad un utilizzo improprio del mezzo fotografico, come abbiamo visto. Ma non è possibile correggere errori di inquadratura o di scelta del soggetto. È sempre e comunque lo sguardo, guidato dalla mano, a creare un’immagine, non importa poi che questa sia analogica o digitale.
129
5
I PARADOSSI DELLA POST-FOTOGRAFIA
5.1 Rivoluzione digitale? Dopo aver mostrato come la logica fotografica sia stata sottoposta ad una profonda revisione da parte di operatori e consumatori di immagini in seguito all’avvento delle tecnologie digitali, è interessante sottolineare come questo nuovo carattere che va acquisendo l’immagine fotodigitale stia paradossalmente distruggendo e allo stesso tempo rinforzando le logiche della fotografia tradizionale. È ormai chiaro che oggi le tecnologie di produzionemanipolazione-visualizzazione-trasmissione delle immagini sono diventate incredibilmente semplici ed alla portata di tutti grazie all’utilizzo dei moderni personal computer. Tutto ciò ha cambiato radicalmente la concezione di cosa sia una fotografia. Oggi è possibile creare delle immagini di impeccabile realisticità utilizzando parti di fotografie unite perfettamente con disegni computerizzati
anch’essi
d’impressionante realismo.
Esistono sistemi di fotografia satellitare che permettono di vedere immagini dettagliate anche da distanze stellari; o ancora esistono armi intelligenti (smart weapons) che sono in grado di “vedere” il proprio bersaglio e così di poterlo di seguire facilmente. Anche l’immagine delle tecnologie mediche sta raggiungendo livelli di visibilità mai conosciuti; è possibile, infatti, guardare fin dentro le cavità più oscure del nostro corpo per poterne studiare sia i
meccanismi di funzionamento che le disfunzioni (raggi X – T.A.C.). In più, diventa sempre più facile accedere a librerie infinitamente dense di immagini attraverso gli archivi fotografici via internet, senza così dover essere per forza davanti al documento che si intende consultare. Tutte queste nuove possibilità sono rese disponibili grazie alle tecnologie digitali. Proprio per questo le logiche sottostanti le nuove immagini digitali differiscono ampiamente da quelle della fotografia tradizionale – basata sulle sola ottica e chimica fotografica. Intanto differiscono in primo luogo nella loro materialità. Le immagini digitali “esistono” solo come dati matematici che vengono visualizzati grazie ad appositi programmi di decodificazione. C’è chi afferma che le funzioni della fotografia digitale siano completamente differenti da quelle della fotografia tradizionale. Possiamo essere d’accordo? È
possibile
accettare
l’idea
che
l’immagine
digitale
rappresenta una rottura totale con la fotografia per come è stata considerata negli ultimi 150 anni? È vero che un’immagine mediata dalla tecnologia digitale e incorporata nell’uso del computer differisce, nella sua essenza, da una fotografia ottenuta attraverso la lente ed incorporata nella tecnologia della pellicola fotosensibile? Come dobbiamo riconsiderare i concetti, fondamentali per la lettura della immagini, di realismo e di rappresentazione nel nuovo panorama aperto dalle tecnologie digitali? Queste domande cruciali sulla natura delle nuove immagini ci portano problematicamente ad analizzare parecchie questioni relative a come il digitale stia portando la visualità verso nuovi orizzonti percettivi e come questo momento storico, che
132
casualmente coincide con la fine del secondo millennio di storia, sia testimone di un nuovo cambio paradigmatico nella storia della cultura visuale. È di nuovo Lev Manovich che, dimostratosi uno dei più attenti critici di questo passaggio al digitale75, ci indica alcuni spunti di riflessione e soprattutto di metodo nel considerare questo fenomeno, astenendosi sia dal prendere posizioni estremiste di euforia rivoluzionaria nei confronti del digitale sia di rinnegarne completamente il valore di cambio epocale nella storia della visualità. Piuttosto come lui stesso afferma: I will present the logic of the digital image as paradoxical; radically breaking with older modes of visual representation while at the same time reinforcing these modes. I will demonstrate this paradoxical logic by examinating two questions: alleged physical differences between digital and film-based representation of photographs and the notion of realism in computer synthetic photography. The logic of the digital photograph is one of historical continuity and discontinuity. The digital image tears apart the net of semiotic codes, modes of display, and the patterns of spectatorship in modern visual culture - - and, at the same time, weaves this net even stronger. The digital image annihilates photography while solidifying, glorifying and immortalizing the photographic. 75
Vedi Lev Manovich (2001) , Il linguaggio dei nuovi media, Olivares 2002.
Questo testo è stato considerato come il primo studio sistematico, a livello internazionale, sull’evoluzione dei nuovi media con particolare riguardo all’ultimo
decennio.
Pubblicato
dal
MIT
(Massachusetts
Institute
of
Technology), offre la prima visione organica e competente sui nuovi media digitali,
collocandoli
in
un
percorso
di
continuità
di
sviluppo
della
contemporanea cultura mediatica e visuale.
133
In short, this logic is that of photography after photography.76
La logica sottostante le nuove immagini digitali dovrebbe quindi essere presentata come paradossale nel senso che costituisce una rottura, ma allo stesso tempo si intreccia solidamente con la precedente storia della cultura visuale. “L’immagine digitale lacera la rete dei codici semiotici, dei modi di visualizzazione, e dei modelli di consumo della cultura visuale moderna e, allo stesso tempo, intesse questa rete ancora più saldamente”. Le questioni esaminate sono quindi collegate alle “presunte” differenze fisiche tra i metodi di rappresentazione dell’immagine fotografica analogici e digitali, e soprattutto a come la nozione di realismo si sia applicata alle nuove
immagini sintetiche
fotorealistiche. Per dimostrare più facilmente come questa (ri)evoluzione digitale intessa legami molto forti, più che distruggerli, con le logiche della fotografia tradizionale, Manovich si riferisce al cinema, un medium che ne condivide l’apparato tecnico-materiale della pellicola.
5.2 La logica paradossale della cultura digitale. Le nuove tecnologie stanno per un verso minando profondamente l’apparato generativo tradizionale fatto di pellicole 76
Da Lev Manovich The Paradoxes of Digital Photography, in Hubertus Von
Amelunxen,
(ed.)
Photography
After
Photography:
Memory
and
Representation in the Digital Age. A project of Siemens Kulturprogramm with G+B Arts, 1996. Reperibile su www.manovich.net.
134
fotosensibili, materiali di sviluppo, ottiche, ma anche macchine da presa, illuminazione e soprattutto di ambienti reali da “catturare” – registrare. E con questi stanno mutando anche le tecniche basilari dell’apparato filmico tradizionale, come l’uso di attori veri, di effetti speciali artigianali. Oggi le macchine da presa sono sempre più spesso aiutate da “telecamere virtuali” che simulano scene reali ricostruendole interamente in computer grafica o addirittura ricostruiscono veri e propri attori virtuali77. Così le distanze tra produzione e post-produzione si stanno accorciando sempre di più lasciando sfumare le differenze tra la ripresa e la fase di editing. Allo stesso tempo, mentre le tecnologie e le tecniche filmiche tradizionali stanno lentamente scomparendo, i vecchi codici cinematici stanno trovando nuovi ruoli all’interno della cultura visiva inaugurata dal digitale. Infatti è sempre più frequente nella progettazione di interfacce grafiche computerizzate il riferimento ai vecchi modelli di visualizzazione attraverso metafore che ne riprendono le caratteristiche. Ad esempio i nuovi software di video-editing ( Final Cut, Director, Premiere) e di photo-editing (Photoshop, Illustrator) hanno attinto all’immaginario analogico per rendere le funzionalità di questi nuovi strumenti più chiare ad utenti cresciuti in epoca filmica (fatta di forbici, colla e ingegno artigianale). 77
Questa è la direzione che stanno prendendo oggi i nuovi colossal
hollywodiani (Matrix, Il Signore degli Anelli, Star Wars) sulla scia di quelli che hanno inaugurato il genere (Jurassic Park, Terminator 2). Per il momento l’utilizzo di queste sofisticate tecniche di simulazione fotorealistica rimane appannaggio di queste grandi produzioni che possono contare su budget miliardari o joint ventures con case di produzione di effetti speciali ( ILM, Pixar).
135
Così anche se le tecniche e le tecnologie analogiche scompariranno, rimarranno certamente presenti nell’universo digitale ad un livello “feticistico”, di attaccamento quasi morboso. È questo il motivo per cui oggi, guardiamo all’immagine fotografica chimica con una fiducia ed un rispetto maggiore a quello che attribuiamo alle fredde e perfette immagini computerizzate. E se una volta si considerava l’immagine fotografica come quasi ripugnante per la sua perfezione tecnologica rispetto a quella calda e “realistica” rappresentazione fornita nel quadro dalla mano dell’artista, oggi pare che i ruoli si siano capovolti. La fotografia sembra acquisire caratteristiche più “umane”, più familiari all’occhio, rispetto alle immagini alienanti che si formano sugli schermi dei computer. In definitiva, se da una parte le nuove immagini digitali minacciano di sostituire per sempre i vecchi processi fotografici, dall’altra questi ultimi trovano nuovi ruoli e nuove metafore proprio grazie ai nuovi sistemi del digital imaging. Per cui il primo paradosso dell’immagine fotodigitale sta nel suo fornire nuovi valori all’apparato fotografico tradizionale, nonostante la sua imposizione tecnologica rispetto a quest’ultimo che va guadagnando invece un carattere più familiare, e paradossalmente “più realistico”. Ma resta chiaro che ciò che il digitale preserva sono solo i codici culturali dei vecchi metodi di rappresentazione. È chiaro, infatti, che esistono profonde differenze fisiche tra le immagini su pellicola e quelle codificate in bits.
136
Come abbiamo già visto, uno degli studi più sistematici su questo argomento è il testo di Mitchell The Reconfigured Eye.78 Questo testo concentra l’intera analisi sulle tecnologie digitali dell’immagine intorno alle differenze fisiche tra le immagini digitali e quelle analogiche. Queste caratteristiche fisiche nascondono però delle conseguenze logiche e culturali enormi, ma quanto sono fondamentali queste differenze? Se ci limitiamo a prendere in considerazione solo i principi astratti delle immagini digitali, come sembra fare Mitchell, allora le differenze tra i due tipi di immagini appariranno enormi, ma se consideriamo gli usi concreti delle tecnologie digitali, le differenze scompaiono, e allora, come ci suggerisce Manovich, “la fotografia digitale semplicemente non esiste”.
La prima presunta differenza riguarda il rapporto tra i concetti di copia e originale nella cultura analogica e in quella digitale. Su questo punto Mitchell afferma che “le variazioni tonali spazialmente continue delle immagini analogiche non sono esattamente replicabili senza una perdita di informazione, mentre le immagini digitali, in quanto costituite da valori discreti e non continui, sono replicabili con gran precisione, senza così che la qualità della copia risulti distinguibile dalla sorgente originale. Perciò nella moderna cultura visuale digitale un’immagine può essere copiata all’infinito, e l’unica differenza sarà nella “data di creazione”, visto che non si avrà alcuna perdita di qualità”. Secondo Manovich, tutto questo discorso è vero, ma solo in principio. Infatti, mette in evidenza come nella realtà le immagini 78
W.J.Mitchell - The Reconfigured Eye: Visual Truth in the Post-Photographic
Era, MIT Press, Cambridge, Mass. 1992.
137
digitali subiscano una perdita di informazione maggiore dei loro corrispettivi analogici, a causa del problema della compressione. La spiegazione sta nel fatto che le immagini digitali sono costituite da una certa quantità di pixel, che richiedono spesso uno spazio considerevole di memoria sugli hard disk dei computer. Quanto più un’immagine digitale è dettagliata, tanto più spazio richiede. Mentre per quanto riguarda la trasmissione delle immagini attraverso i networks digitale, vale lo stesso principio rapportato alla velocità di trasferimento, cioè quanto più un’immagine è “pesante” (in termini di mega bytes) tanto più tempo è necessario per trasferirla da un computer all’altro. Ma non dobbiamo dimenticare che tutto questo è subordinato al costante sviluppo tecnologico dei computer e delle reti. Infatti, all’epoca in cui Manovich rispondeva alle affermazioni di Mitchell (nel 1995), i computer e internet erano ancora in una fase di sviluppo embrionale. Oggi il
progresso tecnologico ha moltiplicato
esponenzialmente la capienza dei computer e la velocità delle reti, così i parametri di stoccaggio e di trasferimento si sono assestati su ben altri standard. In dieci anni è mutato a tal punto il panorama tecnologico che ha invalidato quasi completamente quello che si teorizzava a metà degli anni novanta, ma le affermazioni di Manovich conservano ancora una parte di validità. È diventata infatti una pratica comune, per chi lavora con immagini digitali, quella di comprimere i dati per limitarne lo spazio occupato. Oggi, la maggioranza delle immagini reperibili in rete ha subito questo processo di compressione. Si possono distinguere, però, almeno due tipi di compressione, lossy e non-lossy (con e senza perdita di informazione). E la ricerca informatica sembra
138
andare nella direzione di quella senza perdita d’informazione.79 Questo tipo di problema si applica a qualunque altro tipo di informazione veicolata attraverso canali digitali, ad esempio, per quanto riguarda le informazioni sonore, uno standard utilizzato nella codifica digitale come il famoso MP3, con tutte le conseguenze legali che ha portato con sé, ha basato la sua riuscita proprio sulla compressione lossy, riducendo fino a dieci volte lo spazio necessario a memorizzare un brano musicale.80 Per cui rimane valido il principio di corrispondenza biunivoca, secondo cui si instaura una sorta di “compromesso”, tra la qualità e la dimensione: quanto minore è la dimensione di un file digitale – visuale o sonoro – tanto maggiore sarà la perdita di qualità della sua riproduzione. Per le immagini poi vale un’ulteriore principio: ad ogni successiva modifica o alterazione cui segue un nuovo salvataggio, corrisponde un’ulteriore perdita d’informazione. Nel darci, queste indicazioni di massima, inoltre, Manovich aveva già messo in evidenza come questa perdita di qualità, piuttosto
che
scomparire
gradualmente
con
l’evoluzione
tecnologica ed il conseguente ribasso dei prezzi dei prodotti 79
Un valido esempio sono i nuovi algoritmi di compressione per le immagini
come il JPEG2000. 80
Sullo stesso spazio (in Mega Bytes) di un album musicale ad alta qualità si
possono contenere fino a otto-dieci album insieme con la codifica MP3. Questa perdita di qualità va però a discapito dei consumatori, che stanno gradualmente perdendo coscienza delle “riproduzioni di qualità”, quelle che, paradossalmente sono nate anche grazie alla codifica digitale- il compact disc è, infatti, un contenitore di dati codificati in bit. A causa della compressione, quindi si stanno ridefinendo i parametri percettivi della musica in generale. Oggi, però, si stanno sviluppando nuovi standard, come l’AAC, formato proprietario della Apple, che a parità di spazio occupato, garantiscono una qualità superiore degli MP3.
139
informatici, abbia in realtà avviato un trend culturale che vede nella lossy compression una condizione di “normalità”, più che di transitorietà, per la rappresentazione delle informazioni visuali fisse. Se poi pensiamo che una singola immagine digitale già contiene una considerevole quantità di dati, nel caso delle immagini in movimento questi aumentano drasticamente (un secondo di video contiene, infatti circa trenta immagini fisse). Così, in definitiva, per usare le parole di Manovich: …rather than being an aberration, a flaw in the otherwise pure and perfect world of the digital, where even a single bit of information is never lost, lossy compression is increasingly becoming the very foundation of digital visual culture. This is another paradox of the digital imaging – while in theory digital technology entails the flawless replication of data, its actual use in contemporary society is characterized by the loss of data, degradation, and noise; the noise which is even stronger than that of traditional photography.81
Così, un altro paradosso, questa volta di carattere tecnico, in cui è coinvolta la fotografia digitale sembra quindi essere quello della compressione. Infatti, nonostante il digitale permetta una potenziale replica delle informazioni senza alcuna perdita di qualità, gli usi che se ne fanno nella società attuale sono caratterizzati da una perdita di informazioni, dovuta alla compressione, con una conseguente degradazione qualitativa. Da
questo
punto
scaturisce
un’altra
differenza
che
caratterizza la fotografia digitale rispetto a quella analogica. Mitchell la enuncia in questo modo: 81
Da Lev Manovich, ibid.
140
There is an indefinite amount of information in a continuoustone photograph, so enlargement usually reveals more detail but yields a fuzzier and grainer picture (…) A digital image on the other hand, has precisely limited spatial and tonal resolution and contains a fixed amount of information.82
Ancora una volta Mitchell pare avere ragione, come Manovich sottolinea, solo in principio. È vero che la fotografia digitale è costituita da una quantità finita di pixel, ognuno dei quali contiene informazioni di luminosità e colore. Per cui il dettaglio e la qualità dell’immagine dipendono dal numero totale dei pixel contenuti in un file.83 Ma è anche vero che
la
definizione
raggiunta
dagli
attuali
apparecchi
di
digitalizzazione d’immagini – scanners e fotocamere digitali - ha equiparato e persino superato quella delle comuni pellicole da 35mm. Infatti, il tono continuo della fotografia analogica rivela una quantità indefinita di informazione solo fino ad un certo punto, oltrepassato il quale ci appaiono agli occhi gli “elementi minimi” dell’immagine, i granuli di alogenuro d’argento di cui sono composte le pellicole fotosensibili. Ma a differenza dei pixel, che sono generalmente dei “quadratini” colorati, la grana fotografica si percepisce come un addensarsi e diradarsi di coaguli cristallini di dimensioni variabili. Il suo aspetto è più vicino alla pigmentazione pittorica che non ad una figura geometrica fissa e costante. Da questo parallelismo però scaturisce una domanda, di quanti pixel c’è bisogno per arrivare alla definizione di una pellicola analogica? 82 83
W.J. Mitchell, ibid., pag.6 La quantità totale di pixel è matematicamente calcolabile moltiplicando
quelli dei due lati. Così un’immagine di 1600x1200 pixel ne contiene quasi due milioni (1.920.000).
141
Intanto bisogna fare una precisazione di ordine fisico. Le pellicole, come i sensori elettronici, occupano una determinata superficie, a cui generalmente si dà la definizione di formato. Il formato 35mm, uno standard della fotografia analogica (vedi nota 29 cap.1) occupa uno spazio di 24x36 mm (1x1.5 inches). Lo standard delle fotocamere digitali di livello prosumer84 pare invece essersi stabilito su un formato più piccolo che corrisponde a quello delle pellicole APS, pari ad un quarto della superficie del 35mm. La figura in basso ci aiuta a capire come variano le dimensioni dei sensori digitali e le loro proporzioni rispetto a quelle della pellicola da 35mm, standard dell’era analogica.
Figura
21.
illustra
i
L’immagine differenti
formati
degli attuali sensori digitali paragonati pellicola
a
da
quello 35
della
mm.
È
evidente che una superficie fisicamente più grande, quale è
quella
della
pellicola,
contenga
un
numero
maggiore
di
recettori
fotosensibili; per non parlare poi delle pellicole di medio e grande formato che vanno dai 6x4,5 a 18x24 cm ed oltre e garantiscono
una
qualità
ancora impareggiabile per il digitale.
84
Termine di mercato usato per definire i prodotti che si situano a metà tra
quelli professionali e quelli definiti consumer.
142
In ogni caso, il mercato del digitale è destinato a progredire ancora di più, per cui è plausibile immaginare che presto anche le dimensioni dei sensori si standardizzeranno su formati più grandi di quelli attuali.85 Per quanto riguarda invece la digitalizzazione delle pellicole fotosensibili, l’attuale livello tecnologico ci permette di ottenere immagini digitali di queste ultime di grande definizione e qualità. Gli apparecchi a scansione che convertono in pixel le immagini analogiche sono in grado di fornirci una definizione che arriva a rivelare gli stessi granuli di alogenuro. Questo processo è subordinato alla capienza ed alla velocità dei personal computer, infatti, secondo la definizione che si desidera ottenere dal processo
di
scansione,
si
ottiene
un
file
di
dimensioni
proporzionali. La tabella seguente è un comodo riferimento per calcolare quanto spazio è necessario ad archiviare una pellicola in digitale rispetto alla definizione che si desidera.
85
Già esistono, infatti, sensori di dimensioni uguali ed anche maggiori delle
pellicole 35mm, ma sono per il momento destinati al mercato professionale per gli alti costi e la veloce obsolescenza tecnologica.
143
Questo
punto
–
della
definizione
desiderata
da
un’immagine- ci conduce ad un altro paradosso della fotografia digitale evidenziato da Manovich. Come dicevamo, è vero che una fotografia digitale – o digitalizzata – contiene una quantità finita di informazione (che si esprime in DPI- dot per inch) rispetto a quella “indefinita” della fotografia a tono continuo, ma avendo visto che la prima raggiunge una definizione -potenziale- impossibile alla fotografia tradizionale, questa distinzione (quantità finita digitale vs. quantità indefinita analogica) perde di senso e di valore. Una questione di rilevo maggiore diventa invece la seguente: quanta informazione -o dettaglio- è utile realmente per la lettura di un’immagine da parte di un osservatore?
144
È chiaro che non sempre abbiamo bisogno di tutta l’informazione contenuta in una fotografia per poterne leggere il significato. Quando guardiamo una foto di famiglia, le dimensioni da album sono più che sufficienti a determinarne il contenuto, e non abbiamo bisogno di ingrandirne un particolare per capire meglio il suo significato. Allo stesso modo, le piccole foto di identificazione che portiamo nei nostri documenti vanno bene così come sono, le loro dimensioni sono funzionali al loro utilizzo. A che scopo averne una copia gigante? Non si può dire lo stesso di immagini che richiedono grande dettaglio, dove cioè la possibilità di
ingrandimento
rivela
dei
particolari
determinanti
per
l’interpretazione e la corretta lettura. Ad esempio nella fotografia scientifica si richiede grande precisione di ripresa ed enorme capacità risolutiva (che ne permette l’ingrandimento) per avere a disposizione una riproduzione di un fenomeno chiara e dettagliata. Oggi la tecnologia digitale rende disponibile una quantità di informazione molto più estesa di quella richiesta dai consumatori. La differenza con l’analogico sta però in un aspetto fondamentale, e cioè che nel fotogramma di pellicola è contenuta sempre tutta l’informazione disponibile, che può essere rivelata attraverso l’ingrandimento ottico dell’immagine. Figura 22. L’attuale tecnologia digitale rende potenzialmente disponibile una quantità d’informazione tale da superare quella richiesta dai consumatori. Quanto è importante ai fini della lettura di un’immagine la quantità di dettaglio presente? Dipende, ancora una volta, dal contesto di riferimento.
145
Un file immagine, invece, ci permette di rendere disponibile ai lettori solo la quantità d’informazione desiderata o richiesta per uno specifico utilizzo. Un esempio che ci rende chiara l’importanza di questo aspetto è quello delle fotografie per l’editoria. In “epoca analogica” era spesso necessario inviare all’editore una riproduzione su pellicola invertibile (diapositiva) per la pubblicazione di una fotografia. In tal modo si rendeva disponibile tutta la quantità di dettaglio, e così la qualità dell’immagine era preservata e garantita dal procedimento ottico dell’ingrandimento.
Oggi,
la
semplice
ridimensionamento di una fotodigitale
operazione
permette di
di
inviare
direttamente un’immagine che corrisponde né più né meno alle dimensioni in cui dovrà essere stampata. Così la qualità della stampa viene garantita ugualmente, e in più viene tutelato maggiormente il diritto autoriale sull’immagine. Diventa più facile controllare gli eventuali utilizzi futuri dell’immagine non autorizzati. Da
questo
aspetto
dipendono
infatti
anche
nuove
disposizioni giuridiche sul diritto d’autore e sulla facoltà di pubblicazione
di
un’opera
fotografica.
Anche
questo
lato
nasconde le sue contraddizioni in quanto se da una parte la distribuzione di immagini in formato
digitale permette di
controllarne meglio gli utilizzi indesiderati, allo stesso tempo ne rende più facile l’appropriazione indebita. La diffusione di immagini attraverso la rete potrebbe danneggiare gli autori a causa della possibilità di “scaricare” sul proprio computer qualunque contenuto visibile su internet. Infatti, nonostante la consuetudine di ridurre la dimensione delle immagini pubblicate in rete, per motivi di sicurezza e di velocità di trasferimento, si è diffusa presso le più grandi banche dati di immagini fotografiche
146
l’abitudine di apporre una sorta di filigrana che ne “marchia” in qualche modo la fonte86. Questa “frontiera dei pixel”, che pare essere la caratteristica specifica della fotografia digitale, è in realtà stata già superata da alcuni software di image editing, ad esempio Live Picture, un’applicazione per la piattaforma Macintosh, converte la griglia di pixel in una serie di equazioni numeriche. In tal modo è possibile lavorare su immagini di dimensioni virtualmente illimitate. Un’altra caratteristica che Mitchell evidenzia della fotografia digitale è la sua intrinseca manipolabilità. Infatti, nonostante egli ammetta l’esistenza di una lunga tradizione di alterazione fotografica anche in epoca analogica –come abbiamo già visto nel secondo
capitolo-
riferendosi
alle
tecniche
di
stampa
“combinatorie” che Henry Peach Robinson e Oscar Reijlander svilupparono già nella metà del XIX sec. o ai fotomontaggi di John Heartfield del primo novecento come pure le fotografie sovietiche dell’epoca stalinista dove, a seconda della congiuntura politica, venivano inseriti o rimossi personaggi come Lenin o Trotszkij, Mitchell identifica nella fotografia diretta – straight –
non
manipolata, l’essenza della “vera” fotografia. Questa equazione è giustificata dal fatto che l’alterazione di un’immagine con scopi illusori è tecnicamente difficile e richiede grande destrezza artigianale e lunghe ore di lavoro. Questo sarebbe il motivo per cui quando guardiamo una fotografia la consideriamo come una riproduzione limpida e non adulterata della realtà, se non abbiamo chiare indicazioni di una qualche manipolazione. E proprio per questo motivo Mitchell ha sostenuto l’idea che la fotografia digitale 86
Questo processo viene definito watermark.
147
è radicalmente differente da quella analogica a causa della sua intrinseca mutabilità e così ci avverte: the essential characteristic of digital information is that it can be manipulated easily and very rapidly by computer. It is simply a matter of substituting new digits for old… Computational tools for transforming, combining, altering, and analyzing images are as essential to the digital artist as brushes and pigments to a painter.87
Da queste differenze puramente tecnologiche tra una fotografia e un’immagine digitale, Mitchell presume dedurre le differenze nel modo in cui queste sono culturalmente percepite. Per cui dichiara che, a causa della difficoltà di manipolazione delle prime
e della intrinseca manipolabilità delle seconde, si
percepisco le une come riproduzioni affidabili della realtà, mentre le altre chiamano in causa concetti inerenti alla distinzione tra reale e immaginario. In più, la relazione che si instaurerebbe tra significante e significato, nelle immagini digitali, è di totale incertezza, laddove, invece, la fotografia chimica conserverebbe la “garanzia” della traccia. Possiamo
essere
pienamente
d’accordo
con
questo
discorso? Ancora una volta Manovich ci fa riflettere con più attenzione su queste affrettate considerazioni. Infatti, se guardiamo con più attenzione ci rendiamo conto che Mitchell, nel contrapporre la fotografia analogica a quella digitale, non fa altro che opporre in realtà due differenti linee di condotta delle immagini che corrispondono a due diverse tradizioni di cultura visuale, entrambe esistite già prima della fotografia. Egli identifica il lavoro realista di 87
W.J. Mitchell, ibid., pag.7.
148
una certa corrente di fotografia, come quella rappresentata dalle figure di Ansel Adams e Edward Weston, e dalla pittura del realismo prospettico rinascimentale come la “vera essenza” della fotografia – analogica -, dall’altro lato identifica invece il lavoro costruttivista dei fotomontaggi futuristi, della contemporanea illustrazione pubblicitaria e della pittura fiamminga del seicento, che enfatizzava attraverso un simil-montaggio la finezza dei particolari rispetto alla rappresentazione dell’insieme, come la caratteristica essenziale dell’immagine digitale. Non è condivisibile, però, sotto questo punto di vista, l’idea secondo cui la fotografia diretta (straight) e non manipolata sarebbe la tipologia “normale” o naturale del mezzo fotografico. Abbiamo visto, invece, che esistono numerosissime pratiche di comunicazione visuale in cui la fotografia viene utilizzata in maniera del tutto differente da questo modo, per cui non possiamo generalizzare l’uso franco e diretto del mezzo come la “vera fotografia”. Consideriamo ad esempio l’uso dell’immagine fotografica nella comunicazione pubblicitaria e propagandista. In questo campo non vi è alcuna pretesa di utilizzare la fotografia in un senso di certificazione che qualcosa sia accaduto (che è quello che Mitchell ritiene essere il modo in cui leggiamo qualunque fotografia). Piuttosto la fotografia diventa semplicemente un elemento grafico tra gli altri, infatti, diviene sempre più facile operare a partire da elementi fotografici per costruire un messaggio promozionale, grazie alla facilità di gestione che questi hanno acquisito con il digitale. Se un tempo era più facile partire da un disegno a mano per creare una composizione grafica, piuttosto che commissionare una fotografia, oggi la situazione si è invertita, infatti, le fotografie pubblicitarie sono costruite proprio
149
sulla base di precise informazioni grafiche che provengono da disegni, dai quali viene riprodotta esattamente un’immagine fotografica. Queste coesistono in schemi compositi, miste a testi, scontornate, separate da altri elementi grafici, e così via. Il risultato finale fa sì che non vi sia più differenza concettuale tra un’immagine fotografica e un disegno. L’immagine
fotografica
utilizzata
nella
comunicazione
pubblicitaria, infatti, ha lo stesso valore illustrativo di un disegno, ma è associato alla realisticità rappresentativa di una fotografia, dal momento che non ha nessun obiettivo di documentazione, non ci comunica, ad esempio, “questo profumo si trovava sul tale bancone in tale giorno…”, ma ci illustra semplicemente un contenitore di profumo (e spesso il contenuto non è neanche profumo!) senza alcun riferimento ad un tempo ed un luogo. Questi esempi mettono in discussione l’idea secondo cui l’immagine digitale sta distruggendo l’ “innocenza della fotografia”, come immagine obiettiva ed in cui credere ciecamente, a causa della mutabilità intrinseca che possiede. La cosiddetta fotografia diretta rappresenta solo una delle tradizionali pratiche fotografiche, ed infatti coesiste da sempre con altre pratiche in cui l’immagine fotografica è stata apertamente e visibilmente manipolata e letta come tale. In più, non è mai esistito una modalità dominante con cui leggere la fotografia. È sempre il contesto di un’immagine, nelle sue componenti interne ed esterne, a guidare il lettore verso un’interpretazione che enfatizza gli aspetti di certificazione o di illustrazione che acquisiscono le singole fotografie.
150
La tecnologia digitale, in tale prospettiva, non sovverte la fotografia “normale”, dal momento che una modalità “normale” o “convenzionale” di immagine fotografica non è mai esistita.
151
P OSTFAZIONE L’analisi filologica, certamente non esaustiva, avviata sull’argomento del presente lavoro di tesi – I rapporti tra l’immagine fotografica e le culture del digitale – ha portato all’individuazione di vari filoni tematici di riferimento. La metodologia di che si è resa necessaria nell’impostazione del lavoro è stata quella di un approccio pluridisciplinare, qual è quello delle Scienze della Comunicazione, supportato da continui riferimenti “incrociati” e incursioni nei differenti domini della materia. La letteratura riguardante l’immagine fotografica, infatti, è gia di per sé caratterizzata da una forte eterogeneità di interventi e di proposte teoriche e soprattutto da una frequente tendenza all’opposizione dei discorsi al suo interno, sia in termini diacronici ed inter-disciplinari che sincronici ed intradisciplinari. La difficoltà del trovare un “accordo”, una via di mezzo, una definizione sempre vera, sta proprio nel fatto che la fotografia stessa è una pratica “mediana”, e cioè, seguendo l’accezione ancora valida proposta da Bourdieu negli anni sessanta, si riferisce ad un insieme di funzioni largamente distanti tra loro che, paradossalmente, sono accomunate dalla stessa unitarietà metodologica, l’apparecchio fotografico. Queste differenti modalità di utilizzo del mezzo fotografico sottintendono fotografia,
per
altrettanti cui
differenti
diviene
livelli
chiaro
che
di
identità una
della
trattazione
dell’argomento, se non completa almeno “imparziale”, debba rifiutare quelle teorizzazioni “forti” che basano la loro validità sulla chiusura terminologico-disciplinare dei loro apparati logici, e sia in grado di discernere, con adeguata competenza
contestuale, i punti di vista chiari ed obiettivi da quelli viziati da dualismi che cadono inevitabilmente in cancrena. Bisogna, quindi, trattare con delicatezza le “definizioni indistinte” sulla fotografia – del tipo: “…quindi la Fotografia è… non è… - per considerare innanzitutto i contesti e le funzioni cui la nozione di fotograficità fa riferimento, e così articolare discorsi paralleli, non esclusivi, che siano in grado di collocare la sua natura non nel mero processo tecnologico, bensì nei processi cognitivi che scaturiscono dalle sue letture funzionali. Risultano, infatti, sicuramente più attendibili “definizioni circostanziali” – del tipo: “…qui, in questo contesto, la fotografia funziona come…oppure- per me questa fotografia può significare che…” – perché aiutano a mantenere un discorso aperto ed a chiarire che della fotografia non esiste uno statuto unico, ma piuttosto uno statuto speciale, fatto di letture mirate a formare identità culturali. N.B. I testi qui di seguito proposti – senza alcuna pretesa di esaustività - vogliono funzionare da guida per una ricerca interdisciplinare sulla fotografia che è ancora da venire, sebbene l’attenzione
sia
focalizzata
su
quelli di matrice
prettamente
fotografica. Così come sono presenti, poi, quelli utilizzati nello svolgimento del presente lavoro di tesi, si troveranno altresì riportati quei testi che, per la loro non facile reperibilità, non sono stati consultati, se non attraverso recensioni su internet o riferimenti da altri testi, ma che costituiscono un dato bibliografico imprescindibile per la realizzazione di una ricerca in questo campo che, purtroppo, nel nostro paese deve ancora arrivare ad una maturazione teorica e didattica.
153
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RISORSE DI RETE
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ELENCO E COPYRIGHT DELLE TAVOLE A COLORI:
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CAPITOLO 1: “The Flooded grave” © Jef Wall
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CAPITOLO 2: Iranian asylum-seeker Mehdy Kavousi sewed up his lips and eyelids and went on hunger strike to protest against his threatened deportation from the Netherlands. (2nd prize People in the News – World Press Photo 2004) © Paul Vreeker / Reuters
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CAPITOLO 3: From the serie “Albino Portraits”: Vinkosi Sigwegwe, Cape Town, 2003 © Pieter Hugo
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CAPITOLO 4: Photocomposition from: “Nickel Tailings No. 34 & 35” - Sudbury, Ontario 1996 © Edward Burtynsky
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CAPITOLO 5: From “Dystopia Series”: Chris 1994 © Aziz + Cucher
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POSTFAZIONE: Requesting Buddha Series No. 1, 1999. © Wang Qingsong
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BIBLIOGRAFIA: The Giant, 1992 © Jef Wall