LE ARMI ITALIANE NELLE ARMATE NAPOLEONICHE - Atti della conferenza - Prima parte

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ATTI DELLA CONFERENZA LE ARMI ITALIANE NELLE ARMATE NAPOLEONICHE Museo Stibbert 23 Ottobre 2021

I due dipinti di sfondo in copertina sono, dall’alto:

Albrecht Adam, La battaglia vicino a Ostrovno la mattina del 26 luglio 1812, 1855.

Albrecht Adam, La battaglia di Borodino il 7 settembre 1812, 1815-1825.

I soggetti centrali a rappresentanza dei cinque interventi della conferenza raffigurano, da sinistra:

Achille Fontanelli (1775-1838)

Antonio Franzini (1788-1860)

Alessandro Zanoli (1779-1855)

Cesare De Laugier (1789-1871)

Teodoro Lechi (1778-1866)

INDICE I. Atto Primo 4 II. Atto Secondo 15 L’Esercito del Regno Italico (1805-1814) Permanenze di un mito preunitario Giuseppe Lechi e gli italiani in Spagna III. Atto Terzo 28 1812: i soldati del Regno d’Italia in Russia IV. Atto Quarto 39 La caduta del Regno d’Italia, 1813-1814 V. Atto Quinto 48 La memorialistica italiana nel periodo post-napoleonico Appendice 58 Il restauro di un cimelio italiano La bandiera del 2° Reggimento di Fanteria di Linea Ringraziamenti 66

L’Esercito del Regno Italico (1805-1814)

Permanenze di un mito preunitario

Periodicamente la storiografia torna a interrogarsi sul ruolo dell’Italia nel contesto imperiale napoleonico, e ogni volta la domanda è liquidata più o meno sbrigativamente. All’Italia (o piuttosto al Regno Italico e a quello di Napoli, ma dimenticandosi del rimanente) è sovente assegnato un ruolo di stato satellite subordinato ai prevalenti interessi economici e politici della Francia[1]. I 200 anni della morte di Napoleone potevano essere l’occasione per una più attenta e meno scontata narrazione del ruolo della Penisola in quel periodo che, in ogni caso, rappresenta per il nostro paese un passaggio storico fondamentale per l’elaborazione del percorso politico che mezzo secolo dopo portò all’unità nazionale.

Secondo alcuni storici, la politica napoleonica, in particolare quella relativa alla struttura conferita alla società francese, andrebbe osservata in controluce attraverso le decisioni prese da Bonaparte riguardo all’Italia[2]. La creazione nell’Italia non annessa alla Francia di due principati, ventidue ducati e grandi feudi, sono il segno eloquente della politica di Napoleone nei confronti del nostro paese. Nel quadro politico prefigurato da Napoleone per la Penisola, questi territori erano stati creati per i membri della sua famiglia, o per ricompensare gli ufficiali più valorosi e ai ministri a lui più fedeli[3]

[1] Anche il professor Alessandro Barbero si è recentemente espresso in termini poco positivi nel suo intervento al convegno organizzato da Lumen e dalla rivista Limes a Lucca, il 15 maggio 2021. Per chi vuole ascoltare per intero l’intervento del valente professore, riporto qui il collegamento alla pagina internet: https://www.youtube.com/ watch?v=lsrQqe83gLM (NdA).

Napoleone era infatti convinto che nessun francese meglio dei suoi fratelli avrebbe applicato con gli stessi risultati la politica egemonica della Francia imperiale. Certamente l’interesse prevalente fu quello stabilito a Parigi, ma l’Italia rappresentò per Napoleone un laboratorio politico: un territorio dove sperimentare nuovi principi amministrativi e modelli sociali da introdurre successivamente in tutto l’Impero. Un laboratorio politico che crea pertanto una classe dirigente nuova, ispirata ai principi del ceto borghese, ma certamente più moderni e evoluti di quelli dei sovrani che la République aveva rovesciato in Italia. Se ciò non significasse abbastanza, anche la componente demografica appare significativa se osservata dal punto di vista numerico. Nel 1809, il Regno d’Italia (come effettivamente era denominato allora) aveva una popolazione di 6.700.000 abitanti; Il Regno di Napoli approssimativamente 5.500.000.

Bruno Mugnai Società Italiana di Storia Militare (SISM)
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Atto Primo
Antonio Franzini (1788 - 1860) [2] R. Dufraisse: “Le rôle de l’Italie dans la politique napoleonienne”, in AttidelCongresso:IlPrincipatoNapoleonicodeiBaciocchi (Lucca, 1984), p. 41. [3] Nel territorio del Regno Italico, Napoleone istituì tre ducati andati in appannaggio a Francesco Melzi d’Eril, primo ministro e vice del principe Eugene de Beauharnais, Antonio Litta Visconti e Carlo Visconti di Modrone. Oltre a questi titoli furono creati anche 109 conti, 108 baroni e 2 cavalieri (NdA).

Nello stesso periodo l’italiano era parlato da 4.800.000 sudditi della Francia imperiale, cioè da quasi l’11% della popolazione[4], e costituiva pertanto la seconda lingua dello stato.

Per controbilanciare i ricorrenti giudizi negativi sul regime napoleonico in Italia, è sufficiente rintracciare alcune delle permanenze sopravvissute fino ai giorni nostri e capire quanto queste siano assai più profonde di quanto appaia in superficie. In questo ambito, la storia militare del Regno Italico, con tutti i gli annessi e connessi, rappresenta uno scenario estremamente adatto per questo tipo di riflessione. Infatti, non va dimenticato che gli eserciti sono le organizzazione più grandi e complesse di ogni stato, e osservarne le caratteristiche e il funzionamento è molto utile per comprendere la società alla quale appartengono. La nuova classe dirigente formatasi durante quegli anni fu certamente la componente politicamente più rilevante scaturita dal sistema napoleonico e, è bene ricordarlo, si formò in larga parte nell’esercito, considerato che il servizio militare era diventato uno straordinario mezzo di promozione sociale.

Alcune della permanenze sono talmente banali da passare spesso inosservate, eppure hanno segnato profondamente la modernità del nostro paese[5]. Fra queste la creazione del bollo per la posta ordinaria calcolato sulla distanza del destinatario, l’istituzione dei sindaci per i principali municipi, e l’adozione del sistema metrico decimale, solo per citarne alcuni. In ambito più specificatamente tecnico-militare, si può citare la creazione della Gendarmeria. Un corpo di polizia militare declinato secondo i moderni principi di giustizia e pubblica sicurezza, che finalmente sostituisce le lugubri figure dei birri e degli esecutori, spesso reclutati fra gli stessi malviventi, e tetri attori dell’ordine al tempo dell’antico regime. Dalla Gendarmerie francese derivano infatti gli attuali Carabinieri, istituiti nel 1814 nel restaurato Regno di Sardegna[6]. Con loro, anche lo Stato della Chiesa creò un corpo di Carabinieri, subito imitato dal Granducato di Toscana, dal ducato di Parma, dal Regno delle due Sicilie, dove conservano la denominazione alla francese, e infine anche dal piccolo ducato di Lucca, che nel 1826 istituì un corpo di Reali Carabinieri sopravvissuto fino alla reversione dello stato nel 1847. L’introduzione di questi corpi in quasi tutti gli stati preunitari dopo il congresso di Vienna è il segno della loro efficacia, soprattutto se consideriamo che tale creazione non andava nell’originale direzione ‘democratica’, si opponeva al ritorno di quegli ideali.

In definitiva, con l’avvento del nuovo ordine napoleonico il ruolo dei miliari all’interno ella società compì una trasformazione epocale. L’esercito divenne un elemento integrato della società e nelle intenzioni più ideali deve servire l’interesse della comunità, non più quello dinastico. Il principio della compartecipazione del popolo alla difesa del paese venne sancito in maniera definitiva, anche se, evitando di farsi troppe illusioni, in Italia il concetto di Patria e Nazione non fu recepito allo stesso modo da tutte le classi sociali, specialmente quella popolare, la quale, in definitiva, subì duramente gli effetti della trasformazione della società impressa dal grande condottiero corso.

[4] Corrispondenti alla popolazione dei dipartimenti francesi in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Parma e Piacenza, Friuli Orientale, Dalmazia, Istria, Toscana, Umbria e Lazio (NdA).

[5] Fra queste, spicca lo stendardo presidenziale introdotto da Carlo Azeglio Ciampi con decreto del presidente della Repubblica del 9 ottobre 2000, chiaramente ispirato a quello adottato da Napoleone nel 1802.

[6] Un’indagine eseguita esclusivamente sui dati economici e finanziari mostra come ai nostri giorni gli investimenti della Francia nel nostro paese sono concentrati proprio nelle regioni che comprendevani i Dipartimenti Italiani, cioè Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Toscana e Lazio. Tutto ci appare come qualcosa di più di una semplice coincidenza.

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Il Regno Italico nel 1812

Fra le figure chiave di questo processo di trasformazione - e permanenza rilevante per la storia del nostro paese – troviamo senza dubbio i prefetti. La carica venne introdotta in Italia con il decreto del 6 maggio 1802, quale sistema di organizzazione dei poteri che rispecchiava quello francese. Il territorio era ripartito in dipartimenti, distretti, cantoni (a soli fini elettorali) e comuni. In breve i prefetti acquisirono un ruolo di crescente importanza e di grande impatto nella gestione della coscrizione obbligatoria: un’altra delle permanenze ereditate dal periodo napoleonico, almeno fino alla sua cancellazione avvenuta nel 2004. Secondo lo schema classico, il ministro della guerra indirizzava ai prefetti la richiesta con il numero di coscritti necessari che ogni i dipartimenti dovevano fornire e nello stesso tempo

determinava le date entro quale raccogliere le reclute per inviarle ai depositi. A loro volta, i prefetti determinavano il numero di coscritti che ogni comune doveva fornire, aggiungendo per ciascuno di essi un certo numero in più a titolo di riserva.

Introdotta per la prima volta il 29 maggio 1801 sulla base del progetto elaborato dal generale Teulié, la legge per la coscrizione prevedeva che tutti i celibi di età compresa fra 18 e 36 anni fossero compresi nella leva militare. Le eccezioni riguardavano i figli unici, i vedovi con prole, gli inabili, gli studenti delle università, e i religiosi. Da questo bacino si dovevano estrarre per sorteggio 20.000 coscritti da riunire assieme ai circa 15.000 francesi presenti in Emilia, Lombardia e Piemonte e formare il IV corpo della Grande Armée. L’attuazione della legge incontrò notevoli resistenze e, per evitare la temuta coscrizione, molti dipartimenti offrirono in cambio denaro. A Milano i rappresentanti della cittadinanza si opposero fermamente alla coscrizione e nella consulta del 14 luglio respinsero la richiesta di 1.300 reclute assegnate alla Lombardia. Ci fu anche un tentativo per ottenere l’appoggio del generale Murat, il quale si era dichiarato contrario alla creazione di un esercito nazionale[7] .

Il milanese Pietro Teulié (1769-1807), ritratto sopra, divenne il primo ‘eroe’ dell’esercito italico a seguito della sua morte sul campo di battaglia. Laureato in giurisprudenza all’università di Pavia, Pietro Teulié esercitò la professione di avvocato, ma quando nel maggio del 1796 Bonaparte entrò a Milano, fu tra i primi a schierarsi a favore del cambiamento e si arruolò volontario nella Guardia Nazionale cispadana , divenendone subito aiutante del comandante Gian Galeazzo Serbelloni. Dopo aver partecipato a tutte le campagne in Italia, inclusa quella vittoriosa di Marengo, nel gennaio del 1801 fu nominato ministro della Guerra della Repubblica Italiana; ma si dimise nel luglio dello stesso anno. Tornato nell’esercito fu al comandò delle truppe Italiche raccolte sulla Manica nel 1803 per la progettata invasione dell’Inghilterra. Due anni dopo, Teulié fu promosso generale di divisione a seguito della riabilitazione dalle accuse che avevano provocato il suo arresto e la degradazione. Commendatore della Corona di Ferro nel 1806, Teulié partecipò alla campagna di Prussia a capo di una divisione di fanteria. Nel 1807, la sua divisione, forte di 4.500 uomini,partecipò all’assedio di Colberg, difesa da 5.800 soldati regolari con 187 pezzi d’artiglieria. L’assedio iniziò a febbraio e si concluso a luglio a seguito della firma del trattato di Tilsit. Il 18 giugno, nel corso di un cannoneggiamento prussiano, Teulié rimase mortalmente ferito e spirò dopo sei giorni di agonia.

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[7] C. Paoletti: GliItalianiinArmi.CinquesecolidiStoriaMilitare Italiana. 1494-2000 (Roma: USSME, 2001), p. 352.

Ma questa resistenza si rivelò del tutto velleitaria di fronte alla volontà del capo dello stato. Il 13 agosto1802, il ‘presidente’ Bonaparte fece promulgare la nuova legge per la coscrizione obbligatoria, leggermente diversa dal progetto dell’anno precedente, ma altrettanto perentoria. L’età dei soggetti alla coscrizione era modificata a 20-24 anni, si confermavano le stesse esclusioni, estendendole per coloro che avevano già servito al tempo della Repubblica Cisalpina, o non avessero un fratello nell’esercito, oppure se questo fosse congedato entro il 31 dicembre. La durata del servizio era stabilita a quattro anni, tuttavia la legge consentiva di evitare la coscrizione se entro tre giorni dalla chiamata si presentava un sostituto volontario idoneo al servizio. Oltre a ciò, il coscritto poteva evitare il servizio militare pagando una tassa proporzionale alla sua condizione e rendita, comunque non superiore alle 1.000 lire italiane Si trattava di una cifra alta, ma per garantire un afflusso regolare di reclute che col tempo diminuì parallelamente alla ripresa delle campagne di guerra, nel 1813 la tassa aumentò fino a 6.000 lire[8]. La nuova legge introduceva metodi amministrativi decisamente moderni e subordinava la forza numerica dell’esercito a quanto stabilito da un apposito decreto. Benché il più delle volte il totale delle forze fosse stabilito da Napoleone, la decisione di regolare le questioni militari mediate una legge ratificata da una camera di rappresentanti rappresentava un salto epocale considerevole. A partire dal 1803, ogni anno erano chiamati alle armi 12.000 reclute da ciascuna delle cinque classi, in modo da formare un ‘deposito’ di 60.000 uomini al quale attingere a seconda delle necessità. L’esito fu inferiore alle aspettative, perché per timore di servire in paesi lontani dal proprio, molti giovani preferirono il rischio della condizione di renitenti e refrattari. Nel giugno del 1803, invece delle previste 18.000 erano state registrate appena 4.000 reclute[9]

In un mese la Gendarmeria rastrellò 7.500 refrattari, portando così il totale dei coscritti a 11.500, saliti poi a 16.687 nel febbraio del 1804[10]. In vista della guerra contro l’Austria, nell’estate del 1805 fu comunque predisposta una riserva nei depositi e creata una Guardia Nazionale, anch’essa sul modello francese; tutte le forze regolari furono concentrate sul Po per contrastare un assalto proveniente da est. Si trattò di un risultato notevole, se consideriamo che nel giro di pochi anni era stato creato un esercito partendo praticamente dal nulla.

La continua crescita numerica della forza militare del regno Italico è tracciabile a grandi linee a partire dai corpi ereditati dalla Repubblica Cisalpina, compresa naturalmente la Guardia Presidenziale a piedi, creata a imitazione di quella consolare francese. Un’altra caratteristica introdotta seguendo l’esempio francese, fu quella di trasferire i militari con maggiore anzianità di servizio nei corpi d’élite, dove si riceveva un trattamento generalmente migliore, le guarnigioni si trovavano nelle maggiori città e la paga era più alta[11]. La nascita di una forza armata di rilevati dimensioni fu un evento di straordinaria importanza per il nuovo stato, specialmente per il fatto che tutti i cittadini di qualsiasi censo dovevano identificarsi nella comune appartenenza a un esercito nazionale. Questo è un aspetto per niente secondario, se pensiamo che nessuno dei territori che componevano il Regno Italico aveva una tradizione militare consolidata. Ai primi del 1803, sulla carta, l’esercito era composto da 22.000 soldati, supportati da una riserva di 60.000 uomini da raccogliere entro cinque anni mediante la coscrizione obbligatoria introdotta nel 1803.

[8] V. Ilari, P. Crociani, C. Paoletti: StoriamilitaredelRegnoItalico(1802-1814), (Roma: USSME 2004), vol I, p. 121.

[9] Paoletti: Gli Italiani in Armi, p. 353. Questa forza doveva materializzarsi basandosi sulla media calcolata per la Francia del 2,7 per mille della popolazione, pertanto i sei milioni e mezzo di abitanti del Regno avrebbero garantito almeno 18.000 reclute. Vedi anche in F. Frasca: ‘La Coscrizione nei Dipartimenti Piemontesi dell’Impero Francese (1800-1810)’, in Studi Storico-Militari 1988 (Roma, 1990), pp. 557-612.

[10] Paoletti, Gli Italiani in Armi, p. 353. Secondo l’autore, questi numeri mentivano per omissione, poiché non tenevano conto delle diserzioni, che nel medesimo periodo sarebbero state 4.199, cioè un terzo abbondante dei refrattari rintracciati dalla Gendarmeria.

[11] In un’ottica coerente a questo disegno, nel 1806 furono anche create le cinque compagnie delle Guardie d’Onore, poi incorporate nella Guardia Reale dal viceré Eugenio, formate dai cadetti delle famiglie più agiate e influenti (NdA).

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Il progetto fu ostacolato dagli eventi, poiché meno di un anno dopo la guerra della Terza Coalizione impresse un nuovo corso alla vicenda. L’impatto delle operazioni militari e la coscrizione costituirono una novità per la maggior parte dei giovani italiani chiamati a portare le armi, e nonostante la prova tutto sommato positiva offerta dai soldati italiani, esistono molte ombre. Su questo argomento la storiografia si è spesso divisa, sostenendo che il ruolo di ‘stato satellite’ assunto dal regno Italico fu la prima causa della perdita di favore da parte della popolazione. Secondo certi autori, il sostegno a Napoleone provenne solo dal ceto alto borghese, il solo interessato alla conservazione dell’ordine imperiale. La prova principale del limitato sostegno degli italiani verso Napoleone troverebbe conferma della diserzione dei soldati, che in certi momenti raggiunse dimensioni insostenibili. Tuttavia, un esame più attento e una meno disinvolta esposizione dei numeri, mostrano per la diserzione uno scenario poco differente da quello registrato in Francia o nei dipartimenti non francesi dell’Impero. Inoltre, benché in maniera indiretta, alcune ricerche relative alle province italiane annesse alla Francia ci aiutano a formare un quadro più oggettivo della realtà. All’apogeo dell’impero, la percentuale media dei coscritti francesi registrati nelle classi di leva rispetto alla popolazione fu pari a un iscritto ogni 136 abitanti[12] . Secondo alcune ricostruzioni effettuate sulla base dei documenti conservati a Parigi negli Archives Nationales, a partire dal 1805 nel Regno Italico la percentuale di reclute rispetto alla popolazione fu più alta di quella registrata in Francia.

Nel corso dell’anno, mediamente 16 coscritti ogni 1.000 abitanti lasciarono le loro case per essere avviati ai reggimenti, contro il 4 per mille dello stesso periodo in Francia. Nel 1809, il rapporto salì a 18 su 1.000 contro il 3 per 1.000 registrato nei dipartimenti francesi[13]. Altri dati relativi a questi anni mostrano una proporzione diversa. Dal 1810 al 1814 si passò al 22 per mille in Italia contro il 10 per mille in Francia. In pratica un terzo dei coscritti del Regno Italico era chiamato alle armi, mentre in Francia il rapporto massimo fu del 20 per cento dopo il 1813, contro una media negli anni precedenti mai superiore al 10 per cento[14]. Entrambi questi dati confermano che sebbene i renitenti e i disertori furono in percentuale sempre superiori nell’esercito italico, questa percentuale crebbe con l’aumento dell’impegno dei soldati italiani sui fronti di guerra, cioè a partire dal 1806. Da quell’anno fino 1809 si calcola che i renitenti alla leva e i disertori siano stati quasi 40.000. Obbedendo alle intimazioni giunte da Parigi, il governo italico adotto misure a dir poco drastiche per contrastare il fenomeno della diserzioni[15]. Nel 1812 una gigantesca operazione di rastrellamento permise di arrestare 7.000 coscritti refrattari[16]. Infine, per ricavare una stima ancora più obiettiva dovrebbero essere calcolate anche le percentuali dei soldati riformati che nei dipartimenti francesi, fra il 1806 e il 1810, fu pari a due quinti dell’intera massa dei coscritti, mentre nel Regno Italico fu leggermente inferiore[17]

[12] Nei dipartimenti piemontesi il rapporto era in media leggermente più alto: 1 soldato ogni 134 abitanti, con sensibili differenze tra alcuni dipartimenti, come ad esempio in quello dello Stura, pari a 1 ogni 80 abitanti. Cfr. in Frasca: ‘La Coscrizione nei Dipartimenti Piemontesi dell’Impero Francese (1800-1810)’ p. 567.

[13] Nel gennaio del 1809, Napoleone scriveva da Valladolid al fratello Gerolamo, che il Regno d’Italia poteva fornire almeno 80.000 uomini e successivamente, nell’ottobre del 1810, spiegò che il tasso ottimale di reclute era il 15 per mille della popolazione. Secondo questa proporzione, il regno avrebbe fornito 3.000 reclute l’anno per milione di abitanti, e poiché lo stato contava circa 6 milioni e mezzo di abitanti, il contingente di reclute poteva essere accresciuto fino a 15.000 per il 1811 e 18.000 per il 1812. Vedi in Ilari, Crociani, Paoletti: StoriamilitaredelRegnoItalico (1802-1814), vol I, p. 53.

[14] Frasca: ‘La Coscrizione nei Dipartimenti Piemontesi dell’Impero Francese p. 569.

[15] J. Godechot, Histoire de l’Italie Moderne (Paris, 1971), vol. I, p. 229: ‘La resistenza alla coscrizione prese anche la forma della rivolta, come accadde nel 1805 nelle Marche e l’anno dopo nel Vicentino e nel Padovano. D’altra parte per contrastare le renitenze e le diserzioni, il governo di Milano ricorse agli stessi provvedimenti adottati in Francia: cioè i garnisaires (soldati posti di guarnigione nell’abitazione del renitente o del disertore a spese della famiglia), ‘colonne mobili’, perquisizioni e cattura di ostaggi’.

[16] Ibidem

[17] Frasca: ‘La Coscrizione nei Dipartimenti Piemontesi dell’Impero Francese’, p. 569. Pertanto, quando in dettaglio si considera la proporzione dei riformati rispetto al numero dei coscritti si acquisisce un indizio sull’incertezza e l’irregolarità dei dati relativi ai refrattari e al fenomeno della diserzione nl suo complesso.

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Napoleone riconobbe in molte occasioni il contributo fornito dai soldati del Regno Italico e si espresse spesso in termini lusinghieri nei loro confronti. Secondo il suo autorevole giudizio, i soldati italiani erano i più valorosi dopo i francesi, i russi e i ‘tedeschi’, e sempre secondo l’imperatore, i risultati contraddicevano l’opinione secondo la quale egli non avrebbe ricavato nulla dai soldati reclutati nella Penisola. In questo senso, sovente le citazioni e i bollettini si espressero con toni lusinghieri per segnalare il comportamento delle truppe nei diversi teatri di guerra, ma nonostante ciò, l’esercito offre uno scenario decisamente ambivalente per quanto riguarda l’adesione al nuovo ordine. L’urgenza determinata dalla necessità di completare i reggimenti che si stavano formando, e soprattutto la minaccia austriaca, resero necessario chiamare alle armi tutti i 37.000 coscritti delle classi 1803/1805, sorteggiati fra i nati dal 1777 al 1784. Nel settembre del 1803 erano stati incorporati a questo modo 16.577 reclute. Tuttavia, nello stesso periodo, erano stati perduti o congedati 5.269 soldati, compresi 799 ammalati[18]. Nel febbraio del 1804 erano effettivamente presenti 17.311 soldati invece dei 22.779 previsti dal piano originale.

Nel 1805, le truppe del nuovo esercito esordirono per la prima volta in una campagna di guerra partecipando alle operazioni sull’Adige sotto Massena. Il vero e proprio battesimo del fuoco avvenne il 18 ottobre, quando assieme ai francesi, gli italiani tentarono per due volte di passare il fiume, e finalmente prima della fine del mese costrinsero gli austriaci a ripiegare. Nel corso della campagna si misero in luce alcuni dei comandanti destinati a diventare figure centrali dell’esercito italico.

Carlo Zucchi (1777-1863) ritratto con l’uniforme di generale del Regno d’Italia. Sebbene l’esercito Sabaudo abbia incorporato molta parte del mito del primo esercito italiano, a onorarne la memoria non fu quello del 1861, ma, paradossalmente, l’esercito austriaco, che ne incorporò i resti nel 1814 ed ereditò, col nome di ‘Regno Lombardo Veneto’ e con larga autonomia, lo stato padano creato da Napoleone per puro calcolo strategico. Fu mantenuto, con una diversa insegna, l’Ordine della Corona Ferrea. In Austria, gli ufficiali italiani fecero ottime carriere e furono arciduchi e feldmarescialli a finanziare, con cavalleresche sottoscrizioni, la pubblicazione della Storia delle campagne e degli assedi degl’Italiani in Spagna (1823) dell’ufficiale del genio Camillo Vacani (17851862) e di Alessandro Zanoli (1779-1855), segretario generale del ministero della guerra italico, Sulla milizia cisalpino-italiana (1845).

[18] Ilari, Crociani, Paoletti: StoriamilitaredelRegnoItalico(18021814), vol. I, p. 50.

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Il 15 novembre, la divisione del generale Teodoro Lechi entrò a Padova e assieme ai francesi della divisione di Reyner bloccò Venezia da terra, assicurando poi controllo del territorio fino alla foce dell’Adige[19]. Prima della fine dell’anno, l’artiglieria a piedi della guardia reale partecipò alla gloriosa giornata di Austerlitz: un viatico non trascurabile per la storia del militare del nostro paese, se consideriamo che vi parteciparono anche molti italiani sotto le bandiere francesi.

Con l’estensione della coscrizione obbligatoria al Veneto e al Trentino, il contingente salì a 9.000 uomini nel 1807, 10.000 nel 1808 e 11.400 nel 1810. La metà andò a formare la riserva, e i restanti 21.000 circa furono incorporati nelle unità in armi. Nello stesso periodo fu inoltre disposta una leva di 2.600 marinai e 7.566 reclute dalmate[20]

Appare inoltre rilevante constatare che nella primavera del 1805 la consistenza numerica dell’esercito era aumentata a quasi 28.000 uomini, di cui la metà serviva fuori dai confini nazionali. Tre anni dopo, mettendo assieme gli alunni delle scuole militari, le compagnie degli invalidi, la marina e la gendarmeria si trovavano sotto le armi quasi 88.000 uomini[21]

La crescita dell’esercito italico è brevemente riassunta in questa tabella:

Data: Forza complessiva: Dislocazione Truppe francesi in Italia: in Italia: all’estero:

(in corsivo i valori teorici o ricostruiti per differenza)

[19] La divisione si componeva dei reggimenti fi fanteria di linea 3°, 4° e 5°, due compagnie di artiglieria a piedi, una di zappatori e dal 5° cacciatori a cavallo, per complessivi 6.500 uomini. Paoletti: Gli Italiani in Armi, p. 347.

[20] Ilari, Crociani, Paoletti: StoriamilitaredelRegnoItalico(1802-1814), vol. I, p. 53.

[21] Paoletti: Gli Italiani in Armi, p. 352.

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Settembre 1805 32.000 5.066 26.934 60.191 Maggio 1806 36.000 7.013 28.897 Gennaio 1807 40.000 10.610 29.390 70.096 Settembre 1808 37.264 17.685 19.579 57.527 Aprile 1809 44.985 28.285 16.700 77.543 Agosto 1810 44.791 Gennaio 1811 53.433 33.968 20.464 Gennaio 1812 62.166 43.777 18.389 Maggio 1813 72.132 41.232 30.900 Settembre 1813 76.100

Alla fine dei dieci anni di esistenza del Regno Italico, i 30 reggimenti di tutte le specialità e la marina da guerra coinvolsero quasi 200.000 soldati e marinai e almeno in 40.000 perirono sui campi di battaglia in Italia, Austria, Moravia, Ungheria, Spagna, Russia e Germania.

Dopo i francesi, gli italiani furono la componente più numerosa degli eserciti napoleonici e pertanto il governo italico sostenne attivamente la difesa del nuovo ordine con le armi dei suoi soldati e ufficiali. Spesso ci dimentichiamo che fra il 1821 e il 1831 furono proprio i militari formati negli eserciti di Napoleone a far capire ai sovrani degli stati italiani che le lancette della storia non potevano essere riportate indietro. Non furono soltanto coloro che ricoprivano i gradi più elevati, perché molti di più erano gli ufficiali subalterni quelli che continuarono a servire negli eserciti pre-unitari e soprattutto furono costoro quelli che parteciparono in massa al Risorgimento. Uno sguardo anche superficiale a questa presenza ci mostra un dato fin troppo rilevante per poter essere considerato casuale. Nel 1848, fra i veterani delle guerre napoleoniche, troviamo nell’esercito sardo due generali di corpo d’armata, tre generali di divisione, due generali di brigata e un capo di stato maggiore[22]. In questo gruppo spiccano sicuramente i primi due: Giovanni Battista Eusebio Bava (1790-1854), studente a Saint-Cyr, che aveva servito contro la Prussia nel 1806, poi in Spagna fino al 1814; anche Ettore Gerbaix De Sonnaz (1787-1867) era uscito da Saint-Cyr e aveva combattuto contro la Prussia nel 1806, quindi in Spagna e infine in Italia, meritando la Legione d’Onore servendo agli ordini di Murat. Infine è da rimarcare Alberto Ferrero di La Marmora (1789-1863), inviato nel 1848 a Venezia per organizzare le truppe locali, che dal 1807 era stato ufficiale di fanteria, guadagnando la Legione d’Onore a Bautzen e poi entrare al servizio sardo nel 1814.

Si trattava di professionisti formati all’interno dell’esercito, entrati a volte giovanissimi perfino come semplici soldati. Non era ancora quello dello stato unitario, ma aveva il grande vantaggio di chiamarsi Esercito Italiano: una suggestione potente per la generazione che aveva ammirato la rivoluzione del 1789[23]. Del resto è sufficiente ricordare quale fosse il giudizio che i più avveduti avevano nei confronti degli eserciti dinastici italiani per rendersi conto dell’abisso esistente fra il vecchio e il nuovo ordine. Nel giugno del 1796, il passaggio delle truppe francesi da Pistoia suscitò una profonda impressione nei cittadini di sentimenti repubblicani, e di questo fatto il poeta Filippo Pananti lasciò un’appassionata descrizione. Egli vide sfilare i soldati dell’Armée Républicaine e non seppe sottrarsi al fascino di un esercito composto da uomini da lui definiti ‘liberi’, abituato invece a vedere la scalcinata e triste soldatesca granducale, messa insieme ricorrendo ai ‘discoli’, cioè a coloro che erano stati condannati per piccoli reati da espiare con il servizio militare. Pananti vide ‘un esercito moderno; organizzato secondo criteri che tengono conto del merito e non quello di nascita, che porta anche qui da noi (in Toscana) una dimensione nuova ed epica che suscita l’ammirazione dei giovani ambiziosi, trascurati, malcontenti’[24]

Un’intera generazione di intellettuali italiani fu letteralmente attraversata dall’epopea napoleonica, e questa esperienza segnò in maniera decisiva l’esistenza di molti di loro, specialmente quando la restaurazione li pose di fronte alla scelta fra il vecchio regime che tornava e i nuovi ideali arrivati con Napoleone. Fra coloro che parteciparono alle campagne di guerra e divennero ufficiali con incarico di comando sono ben note le vicissitudini di chi rimase fedele agli ideali napoleonici.

[22] C. Paoletti: Atooltokeepthepower:Sardiniangeneralsin1849 (presentato al Consortium for Revolutionary Era) Savannah, Georgia, 20 febbraio 2009.

[23] Un dettaglio interessante sul temperamento rivoluzionario degli intellettuali italiani militanti nell’esercito italico è testimoniato da Riccardo Castelvecchio, nella ‘Commedia Storica’ Ugo Foscolo (Milano, 1869) e citata da Alberto Saviane in ‘Les amis de la patrie, Antonio Gasparinetti e i congiurati del 1814’ (Tesi di laura, Università Ca’ Foscari, Venezia, anno accademico 2011-2012), p. 2 : ‘il viceré (Eugene de Beauhrnais) trovava meno complicato governare l’intero esercito del Regno d’Italia, affidatogli dal padre adottivo Napoleone, che non i tre poeti che militavano in quell’esercito. Questi tre, amici e commilitoni, che a causa del loro ardore democratico scalpitavano nell’armata italica, erano all’incirca coetanei: Ugo Foscolo (Zante 1778 – Londra 1827), Giuseppe Giulio Ceroni (San Giovanni Lupatoto 1774– Governolo 1813) e Antonio Gasparinetti (Ponte di Piave, 1777 – Milano, 1824). Se l’importanza del primo è indiscutibile, le figure degli altri due sono rimaste nascoste tra le pieghe della storia e ciò è valido ancor di più per Gasparinetti, che a differenza del Ceroni, i redattori del Dizionario Biografico degli Italiani non hanno ritenuto meritevole di una biografia.’

[24] Vistoni, Diario, cit, in Storia della Pistoia vol. IV, a cura di G. Petracchi (Firenze, 2000), pp. 17-18.

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Durante la Restaurazione troviamo esistenze degne di un romanzo d’appendice, come quella di Carlo Zucchi (1877 – 1863), barone dell’Impero, veterano di lungo corso delle guerre napoleoniche infine e ‘patriota’ nel 1848; oppure Achille Fontanelli (1775-1738), l’eroe di Lindenau,[25] come pure carriere in controtendenza, quale quella di Domenico Pino (1760-1826), nel 1814 capo del partito antifrancese a Milano[26]. Sebbene per molti di loro l’esperienza accumulata durante le campagne napoleoniche fu la base per ottenere nuovi impieghi durante la Restaurazione, la comune appartenenza al giacobinismo prima e alla massoneria conferiscono un tratto permanente della futura classe politica italiana. Si prenda ad esempio Filippo Eustachio Luigi Severoli (1762 – 1822). Considerato da Napoleone in persona il miglior generale del Regno Italico tanto da conferirgli il titolo di conte di Hannover e da volere il suo nome scolpito (tra i pochi generali italiani) nell’Arco di Trionfo a Parigi. La sua adesione al giacobinismo non fu un atto di audacia giovanile, poiché aveva già 35 anni quando entrò nel governo provvisorio della Romagna all’indomani della discesa in Italia dei francesi nel 1797.

Ufficiale dell’esercito della Repubblica Cispadana, Palombini partecipò alle principali campagne della Seconda Coalizione e successivamente promosso generale di brigata e cavaliere dell’ordine della Corona di Ferro nel 1806. Dal 1808 al 1813 combatté in Spagna con la divisione di Domenico Pino e successivamente di Severoli. Dopo la caduta del Regno d’Italia, Palombini entrò al servizio dell’Impero austriaco. con il grado di Feldmarschall-Leutenant. Nel 1815 durante i Cento giorni prestò servizio sul Reno contro i suoi ex alleati francesi. Nel 1817 fu nominato Oberst Inhaber (colonnello proprietario) del K.u.K. Infanterie Regiment Nr. 36. Un onore degno di un vero Junker se consideriamo che il precedente proprietario era stato Karl Johann KollowratKrakowski, mentre il successivo fu Franz ColloredoMannsfeld. Palombini si ritirò dal servizio attivo nel 1824 e fra le tante onorificenze ricevette il titolo prussiano dell’Ordine dell’Aquila rossa di I Classe nel 1846. Suo figlio maggiore Giuseppe Camillo Palombini divenne capitano dell’esercito austriaco.

Un’altra carriera sotto due bandiere, ma in definitiva politicamente più coerente fu quella di Antonio Franzini (1788 – 1860), tenente di artiglieria nell’esercito italico e poi in quello francese. Nel 1814 entrò nell’esercito sardo nel corpo di artiglieria raggiungendo il grado di luogotenente generale nel 1848 e ministro della guerra di Carlo Alberto fino al luglio dello stesso anno. Allo scadere dell’armistizio di Salasco servì in qualità di Quartier Mastro Generale e consigliere nelle operazioni di guerra. Nominato Presidente del Consiglio Consultivo per la guerra nel settembre 1849, Franzini divenne comandante del Corpo di Stato Maggiore. Nel 1850 fu collocato a riposo col grado di generale d’armata. Il 10 luglio 1849 fu nominato senatore del Regno e dal 1854 al 1859 divenne Presidente del Consiglio Consultivo Permanente di guerra del Regno d’Italia.

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Giuseppe Federico Palombini (1774-1850) [25] Alla caduta del Regno d’Italia, Fontanelli entrò nell’esercito austriaco come luogotenente maresciallo e, messo a riposo nel 1816, visse prevalentemente nella sua villa presso Modena. Lascò quella la residenza per trasferirsi a Milano il 2 febbraio 1831, su ordine del governo ducale per evitare che il suo trascorso napoleonico potesse essere utilizzato a fini propagandistici nella congiura capeggiata da Ciro Menotti. [26] Messo inizialmente a riposo dagli austriaci alla proclamazione del Lombardo-Veneto, fu nominato feldmaresciallo dell’esercito Imperial-Regio.

(Ricostruzione grafica dell’autore, pubblicato sull’inserto Storie di Toscana dell’ottobre 2015 allegato al quotidiano “La Nazione”)

L’illusorio tentativo di restaurare l’ordine esistente fino al 1789 aprì dunque la strada a un epoca gravida di cambiamenti e ricca di rivoluzionari appassionati, almeno secondo la vulgata popolare. Tuttavia, le traiettorie di questi e altri ex ufficiali napoleonici appaiono, con poche eccezioni, concentrate nel mantenimento di uno status e dei relativi privilegi che ne derivavano: camaleonti, più che rivoluzionari; un tratto altrettanto permanente della classe politica del nostro paese. Anche per questo, le figure in cui coincidono l’appassionato idealista e l’uomo d’azione coerente fino all’estremo suscitano più ammirazione, forse pure per la loro oggettiva rarità. Personalità iconica di questa generazione, il livornese Cosimo del Fante (1781 – 1812) è diventato suo malgrado l’archetipo del patriota risorgimentale. Abbracciati gli ideali della rivoluzione francese, Del Fante iniziò giovanissimo la carriera militare come volontario nell’esercito del nascente stati italico. La sua carriera fu rapidissima. Secondo una patente rilasciata dal governo di Milano, dopo solo tre giorni fu promosso caporale, dopo otto sergente e tre settimane dopo sottotenente[27]. A gennaio del 1804, per i meriti ottenuti sul campo fu promosso capitano e, in rapida successione, salì fino al grado di colonnello l’11 aprile dello stesso anno, su proposta del colonnello Teodoro Lechi, allora comandante della fanteria della Guardia del presidente della Repubblica Italiana. Dopo la trasformazione della Repubblica Italiana in Regno d’Italia, durante la guerra della terza coalizione (1805), egli combatté in Baviera come sottotenente della Guardia Reale italiana, e fu presente alla resa di Ulm. Partecipò quindi alla campagna d’Austria e a quella in Moravia, culminata con la battaglia di Austerlitz. Il 27 marzo 1806 fu promosso tenente in seconda nella Guardia Reale, L’anno successivo, dopo la ripresa delle ostilità e la guerra con la Prussia, e l’estensione del conflitto nella Pomerania svedese, Del Fante partecipò all’assedio di Stralsunda, e il 26 maggio, per l’eccellente condotta e il valore dimostrato, fu nominato aiutante di campo del generale Pino. Durante le successive campagne in Spagna, le qualità dimostrate da Del Fante furono riconfermate il 15 settembre 1811 con la nomina a capo battaglione della Guardia Reale e il conferimento della croce di cavaliere della Legione d’Onore[28] [27] E’ comunque confermato che il 12 dicembre 1803, Del Fante fu promosso sottotenente della fanteria di linea. Archivio di Stato di Milano, Ministero della Guerra, Matricole, reg. 25, Manuale ufficiali della Guardia Reale; n.1, Sottotenenti in seconda [28] Ibidem, Ministero della Guerra, cartella 1504, ‘Al Capitano Cosimo Damiano Del Fante il quale si è giustamente meritato un avanzamento per i suoi distinti servizi resi all’Armata di Catalogna’.

Combatté infine nella campagna di Russia, come aiutante di campo del viceré Eugene de Beauharnais. Il 16 novembre 1812, alla battaglia di Krasnoe, al comando di un esiguo corpo di truppe, riuscì a sfondare l’accerchiamento russo. Ferito gravemente per due volte in combattimento, l’intrepido capo battaglione fu infine ucciso da una cannonata. In considerazione del suo eroismo, l’anno seguente fu assegnata alla sua famiglia una pensione privilegiata da parte del governo di Milano.

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Cosimo Del Fante (1781-1812)

Il ricordo di Del fante rimase a lungo vivo fra i veterani superstiti delle campagne napoleoniche e, soprattutto in Toscana, la sua figura assunse il simbolo non solo delle ritrovate virtù militari degli italiani, ma anche quello di opposizione ai regimi della Restaurazione. Cesare De Laugier, nelle sue varie narrazioni storiche sulle campagne degli eserciti napoleonici italiani e nel dramma storico Cosimo Del Fante o Nove anni della vita di un livornese[29], più volte rappresentato clandestinamente fino al 1848, ne esaltò il valore e l’abnegazione nei confronti dei soldati, presentandolo come la figura ideale dell’italiano nuovo. Ma già prima, l’orazione commemorativa composta da Francesco Domenico Guerrazzi e declamata all’Accademia

Labronica di Livorno il 19 giugno 1830, suscitò viva emozione negli ambienti liberali, richiamando gli ideali che avevano ispirato la vita del giovane capitano come esempio per la riscossa risorgimentale. L’episodio provocò la reazione del governo granducale che condannò Guerrazzi a sei mesi di confino a Montepulciano. Il testo dell’orazione fu trafugato e pubblicato da Giuseppe Mazzini nel primo fascicolo della Giovine Italia nel 1832. A Cosimo Del fante, le città di Livorno e di Milano hanno dedicato una via.

Nato a poche miglia di distanza, un altro ‘uomo d’azione’ molto meno brillante dell’eroico Del Fante, il viareggino Ippolito Zibibbi (1772-1845), ebbe una carriera altrettanto folgorante. Volontario nella Legione Lucchese durante l’esilio cisalpino, servì poi sotto la Repubblica Democratica di Lucca, quindi nel Principato di Elisa e Felice Baciocchi, Zibibbi divenne infine ComandanteSuperioredi tutti i Corpi e Piazze del Ducato di Lucca fino alla sua morte.

La brevità del periodo napoleonico, al di là del grande slancio di idee che interessò tanti uomini in Italia e nel resto d’Europa, portò risultati che non sembrano comparabili all’energia e al fervore prodotti in quegli anni, ma in fondo sono stati proprio gli ideali e le speranze a costituire la vera eredità (e permanenza) del periodo napoleonico[30]

[29] Stampato a Livorno nel 1840.

[30] Vito Tirelli: ‘Prolusione agli Atti del Congresso’ in Il Principato Napoleonico dei Baciocchi (Lucca, 1984).

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Filippo Luigi Eustachio Severoli (1767-1823)

Giuseppe Lechi e gli italiani in Spagna

Tra tutte le campagne napoleoniche, quella di Spagna segnò più di altre il destino dell’impero condannandolo ad una interminabile guerra che ne prosciugò le casse e inghiottì migliaia di soldati. Napoleone non riuscì mai a decodificare quanto stava succedendo nella penisola iberica: un ripetersi di errori causati dal fatto che l’imperatore considerò la Spagna al pari degli altri paesi conquistati dal 1805 al 1808. Nella sua visione strategica d’insieme, l’imperatore dei francesi era persuaso che sarebbe bastato conquistare Madrid per piegare ai suoi voleri tutto il popolo spagnolo, ma si sbagliava di grosso. La Spagna, infatti, mal governata da Carlo IV di Borbone, era una realtà multiforme, dove ogni provincia formava un piccolo regno a sé stante, ma soprattutto dove la popolazione era dominata da un ardente patriottismo e dal fervore religioso. Non ultimo, Napoleone sottovalutò la conformazione geografica del paese, supponendo che la Spagna fosse un luogo ricco di risorse dove i suoi soldati si sarebbero potuti mantenere alle spalle dei governi locali. Gli spagnoli, invece, si dimostrarono subito ostili; la maniera in cui i francesi erano entrati nel loro paese era stata una mossa subdola e ignobile. Il trattato di Fontainebleau, sottoscritto segretamente grazie alla complicità di Emmanuel Godoy, era un chiaro segno del clima che si respirava alla corte dell’Escoriale dove tutto assumeva l’aria di una tragedia shakespeariana.

Inizialmente l’invasione della Spagna fu dissimulata come un passo obbligato verso il rafforzamento del fronte portoghese dove, nel 1808, le armate di Junot avevano occupato Lisbona detronizzando la casa regnante dei Braganza. Per Napoleone il nemico da battere era il solito: l’Inghilterra.

Il Blocco Continentale, decretato a Berlino nel 1806, aveva arrecato seri danni ai mercati di diversi paesi, compresa la Francia. L’Inghilterra, la cui supremazia sui mari era assicurata dalla Royal Navy, non si diede per vinta e proprio grazie alla complicità di paesi come il Portogallo, continuava a sbarcare merci sul suolo europeo. Ma la Spagna non c’entrava nulla, anzi, negli anni antecedenti la creazione dell’impero, i Borboni di Madrid avevano trovato il modo di convivere con la Francia della rivoluzione e poi del direttorio. Napoleone però, sempre impegnato nella spasmodica ricerca di potere, decise di avventurarsi in questa nuova impresa spronando le sue armate oltre i Pirenei.

La Catalogna

Napoleone considerò la Spagna come un fronte secondario, questo fu certamente il suo errore più grave. Dal momento in cui decise di organizzare un’armata per l’invasione della penisola iberica, scelse di inviare soldati provenienti dai depositi: uomini privi di esperienza poiché – pensò – se il Portogallo era caduto dopo qualche settimana, anche la Spagna non avrebbe richiesto grandi sforzi.

Bottone di un’uniforme dei Veliti della Guardia Reale del Regno d’Italia che presero parte alle operazioni in Spagna.

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Paolo Palumbo Storico militare e Delegato per la città di Torino dell’associazione Le Souvenir Napoleonien
Atto Secondo
Cesare De Laugier (1789 - 1871)

I reduci, insieme ai reggimenti migliori, rimasero nel cuore dell’Europa dove già soffiavano venti di guerra contro l’Austria; per la Spagna si formarono i cosiddetti reggimenti provvisori, formati con le reclute che languivano nei depositi della Francia meridionale[1]. Una parte dello sforzo per la nuova impresa doveva appoggiarsi sull’intervento dei paesi alleati, in particolare il Regno d’Italia. Il 24 novembre 1807, l’imperatore preavvisò il viceré Eugenio sull’imminente mobilitazione militare verso la penisola iberica chiedendogli di mettere a disposizione dell’armata il II battaglione del 2° reggimento di linea con 900 uomini e il III battaglione del 4° di linea al completo con 800 uomini per formare un reggimento provvisorio agli ordini del generale Giuseppe Lechi. A questi si sarebbe aggiunto un secondo reggimento provvisorio composto da un battaglione dei veliti della Guardia Reale, dal 5° di linea e da un altro reparto provvisorio composto dalla cavalleria italiana e napoletana[2]. La divisione italiana di Lechi, insieme a quella del generale Chabran, fu nominata corpo di osservazione dei Pirenei Orientali, ai comandi del generale Duhesme. Dopo essersi assicurato il quantitativo di uomini sufficienti anticipando anche la chiamata per le classi di leva fino al 1810, Napoleone preparò il piano d’invasione il quale, come specificato nel trattato di Fontainebleau, prevedeva l’ingresso delle truppe francesi sul suolo spagnolo solo ed esclusivamente per i tratti che collegavano al Portogallo. Furono distaccati tre corpi d’armata: il II corpo d’osservazione della Gironda, al comando del generale Dupont doveva riunire le sue divisioni tra Vitoria e Burgos, pronto a scattare verso Madrid. La prolungata presenza del comandante francese sul suolo spagnolo poteva effettivamente destare qualche sospetto. Fu per questo che Napoleone ordinò al suo generale di restare confinato entro il suo accampamento così da evitare domande scomode e incontri con le autorità locali. Ordini simili furono inviati anche al corpo d’osservazione delle Coste dell’Oceano affidato al maresciallo Moncey. Se i due corpi francesi potevano accampare qualche giustificazione circa la loro permanenza in Spagna, la stessa cosa non poteva dirsi per il corpo d’armata destinato ad invadere la Catalogna.

Tra tutte le provincie spagnole, la Catalogna era certamente la più ricca: da secoli godeva di una rete commerciale marittima molto attiva i cui introiti davano ricchezza non solo ai catalani, ma anche a Madrid. Per questo i catalani mal sopportavano il governo centrale: loro erano sempre stati una realtà diversa e da quando Madrid aveva invaso il territorio con i suoi ufficiali controllori, i rapporti erano peggiorati. Questi presupposti e la contiguità territoriale con la Francia, illusero Talleyrand che qualora avessero attaccato la Spagna, la provincia catalana si sarebbe schierata con Napoleone[3]. Le illusioni di gloriose battaglie campali e marce trionfali albergavano anche nella mente del generale Lechi e dei suoi soldati i quali, entrando a Barcellona, si trovarono di fronte ad una popolazione tutt’altro che bendisposta. Il governatore spagnolo, il conte d’Ezpeleta, sapeva che prima o poi i barcellonesi si sarebbero ribellati, ciò nondimeno era conscio che innescare una guerriglia cittadina con i francesi di Duhesme poteva significare solo una cosa: una terribile carneficina.

[1] I primi reggimenti provvisori furono composti organizzando diverse compagnie e battaglioni indipendenti ubicati nelle retrovie. Tra il 1805 e il 1807 esistevano 60 unità di questo tipo che, subito dopo la campagna in Germania, furono disciolte. Con l’inizio della guerra in Spagna furono subito ripristinate e il 15 novembre 1807 si trovavano in servizio ben 12 reggimenti provvisori, da non confondersi con i cosiddetti reggimenti di marcia che servivano per inquadrare e trasportare le nuove reclute dai depostiti al luogo in cui si combatteva così da evitare fughe e diserzioni. G.F. Nafziger, The French Army: Royal, Republican, Imperial, 17921815, Ohio (USA): GNF, vol. 1, p. 16.

[2] CorrespondancedeNapoléonIer. Paris: Imprimerie Impériale, 1864, tomo XVI, pp. 211212, lettera n. 13370.

[3] Il progetto di unire la Catalogna alla Francia apparve per la prima volta in epoca repubblicana, tuttavia dopo la pace di Sant’Idelfonso siglata il 1° ottobre 1800, il discorso cadde nel dimenticatoio. Tutto fu poi ripreso alla vigilia dell’invasione del 1808: dal punto di vista di Talleyrand una volta fatte le giuste pressioni su Madrid, Barcellona si sarebbe alleata all’impero francese. P. Conard, NapoléonetlaCatalogne1808-1814,La captivitédeBarcelone(février1808-janvier 1810), Paris: Felix Alcan éditeur, 1909, p. 36.

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Ufficiale dei Veliti-Granatieri della Guardia Reale del Regno d’Italia.

Per evitare il peggio lo spagnolo fece di tutto perché in città fosse rispettato l’ordine e la disciplina. Gli italiani, dal canto loro, avevano un carattere simile a quello spagnolo: s’infuocavano facilmente per un non nulla. Appena pochi giorni dopo l’occupazione, per le vie di Barcellona l’aria era tesissima: per evitare di peggiorare la situazione, il generale Duhesme aveva lasciato che gli spagnoli gestissero le fortificazioni presenti in città: la Cittadella e il Montjuich. Il resto degli italiani sarebbe rimasto in giro per la città, forieri di ulteriori disgrazie.

Nei ricordi di Cesare de Laugier, ufficiale dei veliti, emersero particolari interessanti su quei primi giorni di occupazione. De Laugier fu uno dei tanti ad ingannarsi circa il comportamento degli spagnoli: «erano già scorsi 16 giorni da che ne stavamo in Barcellona. I nostri ospiti, assicurati dal franco e sincero nostro contegno, presi avevanci in affetto. Essi seco ci conducevano a godere dell’amena piacevolezza dei loro casini di campagna, facendoci partecipare alle ricreazioni, alle feste ed infine trattandoci generalmente quasi come altrettanti individui delle loro stesse famiglie»[4]. Un clima apparentemente tranquillo, quindi, che riguardava però solo una piccola fetta della popolazione poiché per il resto – soprattutto i commercianti – le cose peggioravano di ora in ora. Chi aveva un’attività cercò di fuggire per non essere costretto a sacrificare tutto alle truppe invasori.

Mentre per le strade di Barcellona la tensione si tagliava col coltello, Duhesme ricevette una missiva dal ministero della guerra a Parigi: era importante che l’esercito rimanesse in città per scongiurare una ribellione, ma specialmente per controllare le fortezze. Questa frase impensierì il comandante francese il quale, per non accrescere la tensione, aveva lasciato l’esercito spagnolo nelle fortezze. Un’idea poco accorta, soprattutto perché adesso l’imperatore in persona ne chiedeva conto. Duhesme escluse subito di attaccare secondo un piano militare “vecchia maniera”: questo avrebbe suscitato l’ira degli spagnoli e un grave spargimento di sangue. Serviva dunque uno stratagemma e chi se non Lechi coi suoi italiani poteva risolvere la situazione: «Un dispaccio del ministro della guerra – scrisse Duhesme a Lechi – mi previene che l’imperatore suppone essere io al possesso della Cittadella e del forte Mongiui.

Confesso aver errato non indovinando le di lui intenzioni, così io vi prego generale Lechi di aiutarmi colla vostra opera, affinché prima della notte di domani, io possa annunziare al sovrano, che le sue intenzioni sono adempite»[5]. Il tempo stringeva, per Lechi l’unica soluzione era quella di ingannare il nemico: mentre i soldati si sarebbero schierati per una finta parata, il generale italiano avrebbe chiesto di aprire le porte della Cittadella con la scusa di far visita al governatore, don Giovanni Viard di Santilly. Non appena l’aiutante di Lechi si allontanò dallo schieramento, ai soldati fu dato l’ordine di caricare le armi; molti rimasero sbigottiti dalla richiesta: «io mi rammenterò sempre la sorpresa che destò generalmente in noi un tal comando improvviso; le lentezza e l’esitanza con cui fu desso eseguito, reputandolo un mal inteso»[6] Mentre Giuseppe Lechi si incamminava verso il ponte levatoio, i napoletani iniziarono a schierarsi per coprire l’ingresso principale della piazza; con il resto degli uomini il comandante italiano si diresse verso il ponte abbassato. In pochi attimi i fanti napoletani presero il sopravvento e i venti spagnoli di guardia non ebbero nemmeno il tempo di reagire. La guarnigione di Santilly puntò i fucili sui fanti napoletani con intento provocatorio, ma era troppo tardi e una minima reazione avrebbe scatenato una violenta battaglia nella quale la guarnigione avrebbe avuto sicuramente la peggio. Al fine di scongiurare un inutile spargimento di sangue, il governatore spagnolo fece cenno ai suoi soldati di riporre le armi, mentre scendeva dall’alloggio per presentarsi, come prigioniero, al comandante Lechi. L’incontro tra i due fu molto teso, lo spagnolo ironizzo persino sulla falsità e spregiudicatezza del comandante italiano il quale, per tutta risposta, rispose che aveva soltanto obbedito agli ordini.

[5] Ivi, p. 186.

[6] Ivi, p. 190.

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[4] C. de Laugier, Fasti e vicende dei popoli italiani dal 1801 al 1815 o memoriediunuffizialeperservireallastoriamilitareitaliana, Firenze: 1830, tomo IV, p. 85.

Ritratto del conte Giuseppe Lechi

La presa del Montjuich fu più drammatica: gli spagnoli non cedettero subito alle richieste di resa degli italiani e solo l’intervento del governatore Ezpeleta scongiurò una carneficina. In questa circostanza l’apporto di Lechi fu fondamentale e grazie a lui il generale Duhesme poté allinearsi alle richieste imperiali. Tuttavia qualcosa era destinato a rompersi tra i due comandanti: l’idillio durò ben poco e proprio davanti alla città di Gerona, il generale italiano attirò le ire e il disprezzo del francese. Gerona era un punto chiave della Catalogna: doveva essere assolutamente presa poiché controllava il crocevia delle strade che conducevano verso la Francia. Inoltre, come sottolineò Napoleone stesso, sarebbe stato un colpo molto duro al prestigio spagnolo soprattutto perché, fino a quel momento, i catalani avevano dimostrato una forza inaspettata. Parlare di guerriglia in Catalogna è comunque un errore poiché la guerra contro le truppe occupanti fu combattuta sostanzialmente dall’esercito regolare e da corpi paramilitari: somatenes e micheletti[7] .

Effettivamente a Barcellona un moto popolare vi fu: il 31 maggio 1808, una rissa scoppiata tra italiani e catalani, si trasformò in una vera e propria battaglia urbana. Ciò nondimeno, quanto accadde in Catalogna, è imparagonabile ai movimenti popolari che presero corpo nelle altre province spagnole. Il governatore Ezpeleta presentiva che la rivolta sarebbe esplosa da un momento all’altro: i barcellonesi sapevano che in città l’armata imperiale fosse in netto svantaggio, senza alcuna possibilità di arginare una folla tumultuosa e inferocita. La maggior parte dei soldati italiani, infatti, era impegnata nello svolgimento dei servizi quotidiani di pattugliamento, senza contare i numerosi distaccamenti destinati alla sorveglianza delle fortezze. Eppure nulla accadde e se questo fu possibile fu anche grazie alla mano ferma e autoritaria del generale Lechi. Il giudizio sull’operato del generale italiano non ammette certo scusanti di nessun genere. Padre Ferrer, clerico di Barcellona e attento cronista del periodo di occupazione francese, raccontò diverse volte come la casa di Lechi fosse un punto di raccolta di denaro e bottino proveniente dai paesi saccheggiati. Lo stesso Lechi fu autore di alcuni provvedimenti draconiani che esasperarono i catalani, come ad esempio il rapimento di persone note al fine di chiedere un riscatto per la loro liberazione.

Come dicevamo in precedenza, per un certo periodo Lechi cadde in disgrazia poiché, durante il primo assedio di Gerona, si oppose agli ordini del comandante Duhesme il quale sebbene disponesse di una forza esigua, era deciso ad assaltare la città. Resosi conto della situazione, Lechi cercò di dissuadere in tutti i modi il francese dall’attaccare: “Andiamo a Gerona, ma andiamoci con dei mezzi proporzionati all’impresa, onde non soffrir la vergogna di esservi andati inutilmente”[8] L’ufficiale italiano aveva ragione. Oramai era passato quasi un anno da quando le truppe di Duhesme erano entrate in Catalogna e, nonostante qualche risultato decente ottenuto nell’entroterra e lungo la costa, la provincia spagnola era ancora fuori dal controllo imperiale. Gli esiti dell’assedio confermarono i timori dell’italiano: Duhesme fu costretto a rientrare a Barcellona con la coda tra le gambe, senza però dimenticarsi di saccheggiare alcuni villaggi ubicati sulla via del ritorno.

Partisans and Land-Pirates: Popular mobilization and Resistance in Napoleonic Europe, 1808-1814”, organizzato dall’Università di Liverpool, School of History (19-20 settembre 2003).

[7] Sull’argomento Cfr. Antoni Moliner Prada,

[8] De Laugier, Fasti e vicende, cit., vol. V, p. 59.

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PopularresistenceinCatalonia:somatenesandmigueletsintheFrenchWars, in “Patriots,

Durante il secondo tentativo di prendere Gerona, Lechi fu lasciato a Barcellona in qualità di comandante di piazza. Anche in questa occasione, l’italiano si comportò come un vero e proprio sovrano con tanto di diritto di morte su tutti i suoi sudditi: rapimenti, requisizioni, offese al credo religioso, saccheggi di chiese furono solo alcune delle malefatte del bresciano. Tuttavia, se visto unicamente dal punto di vista militare, Lechi fu capace di mantenere l’ordine in città con pochissimi uomini, scongiurando così l’apertura di un secondo fronte alle spalle di Reille e Duhesme impegnati davanti Gerona[9]. Il generale italiano era stufo della guerra, malgrado fosse per lui fonte di arricchimento personale. Egli, infatti, chiese diverse volte di essere rimpatriato a causa di una fastidiosa artrite reumatoide che gli rendeva difficile e doloroso ogni movimento:

“Io sottoscritto medico civile di questa città di Barcellona e chirurgo maggiore del 2° reggimento di fanteria di linea italiano che di concerto ha curato il generale di divisione Lechi da una artrite reumatoide che principalmente lo attacca al nervo del gran simpatico e alle estremità inferiori […] della quale malattia da pressoché quattro anni è stato più volte attaccato, dichiariamo che la presente ricaduta della sua attuale malattia e causata principalmente dal clima del paese, che in quanto marittimo influenza molto l’esacerbazione di questa malattia, esapendo che il signor generale in capo in questo tipo di clima ha da sempre sofferto

un deterioramento considerevole della sua salute, noi riteniamo indispensabile per prevenire la più funeste conseguenze che potrebbero accadere all’aumentare di questa malattia e che sarà ben difficile debellare, noi giudichiamo necessario e indispensabile che il signor generale Lechi si trasferisca il più presto possibile in un clima più temprato alla portata della sua salute”[10]

[9] Durante le fasi d’assedio, Duhesme fu assillato dalle suppliche del generale italiano il quale pretendeva che gli italiani in servizio a Gerona rientrassero subito a Barcellona: “Privato dei mezzi di difesa che mi furono promessi, scarico in voi, o generale la responsabilità che cadrebbe sul mio capo. Io sacrificherò la mia vita per mio sovrano, ma innanzi perderla gli farò nota la situazione mia; giacché so quanto a lui prema che la sorte di Barcellona non sia compromessa, come lo è pure oggidì, avendole voi sottratta la metà delle forze destinate alla sua difesa in un’epoca in cui il pericolo più grave la minaccia al di dentro ed al di fuori. La posizione mia rendesi ogni giorno più difficile, siccome io appunto lo previdi”. Le invocazioni di Lechi, sebbene fossero considerate “allarmiste”, erano sincere: gli spagnoli stavano facendo progressi e non solo in campo militare. C. Vacani, Storiadellecampagneedegliassedidegl’italiani inSpagnadal1808al1813, Milano, Tipografia Pagnoni, 1845, Vol. 1, p. 427.

[10] Copia di certificato medico che attesta le condizioni di salute di Lechi indirizzato probabilmente al ministro della guerra Polfranceschi. Da Barcellona il 19 marzo 1808. ASMi, Ministero della Guerra, busta 49.

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Il Grande Giorno di Girona Ramon Martí Alsina, 1863-1864 Museu d’Art de Girona

Ovviamente, Giuseppe Lechi non ottenne mai la licenza sperata e proseguì la sua missione in Spagna al fianco dei suoi soldati e del generale Duhesme. Lechi, comunque, aveva ben interpretato cosa stesse accadendo in Catalogna e lo si intuisce da una lettera che egli stesso scrisse al ministro della guerra Polfranceschi il 12 maggio 1808:

“Dall’occupazione che abbiamo fatto della Cittadella di questa città e del forte di Mont Jouich, gli spiriti di questi abitanti si sono totalmente cambiati e regna una tranquillità come in una delle più quiete città all’interno del medesimo stato. Ognuno pare si attenda un nuovo ordine di cose in questa Provincia ed ognuno vi si presterà sicuramente con la massima quiete e sottomissione. Il clero secolare e regolare tanto abbonante in questo paese più non borbotta ed […] nella quiete generale non avrà certo il coraggio di turbarla. Ecco i miracoli del genio dei geni. Un pungo di gente entra senza prevenzione alcuna in una delle più turbolente province dellaSpagna:occupaasuogradoeilfamoso forte di Figuéras e quelli di Gerona. Marcia sulla capitale ove gli viene rifiutato l’ingresso si presenta alla porta ove vien ricevuto senza ostacoli in mezzo ad un numeroso popolaio stordito e ad una guarnigione assai numerosa. Dopo alcuni giorni si occupano i forti, si ottiene denaro e tutti vi si seconda. Questa spedizione della Catalogna non presenta azioni militari ma presenta combinazioni tali da far stordire […]” [11]

Lechi intuì dunque “la stranezza” che circondava la campagna di Spagna e come lui lo capirono anche molti altri soldati italiani della sua divisione. Una comprensione del conflitto che si spinse ben oltre le considerazioni soggettive su come andavano gli eventi militari, ma che sfociarono, talvolta, in ammiccamenti verso il popolo spagnolo. Cesare De Laugier, ad esempio, assistendo alle crescenti tensioni a Barcellona, espresse solidarietà verso gli spagnoli poiché: “ai loro occhi noi non diventammo, malgrado le particolari qualità che ci avevano attirato la loro affezione, se non gli instrumenti dell’usurpazione straniera. Come tali sentivano il bisogno di odiarci, il dovere di estinguerci unico mezzo per liberare la loro patria da un insofferibile giogo, unico modo per rimanere liberi […]”[12]

De Laugier, pur sapendo di essere un invasore, motivò la presenza militare italica appigliandosi al tipico “senso del dovere” che permeava la vita di ogni soldato: “Noi pure eravamo persuasi che gravissima era l’offesa per opera nostra ad essi arrecata: pure tutto avendo un limite, spronati a vicenda dal dovere, dall’amor proprio, dall’onore militare, cominciammo a tollerare con dispetto, l’aria insultante e spregevole che alcune volte i più audaci e malcontenti ci mostravano”[13]. Al termine delle guerre napoleoniche, il sentimento espresso dall’ufficiale dei veliti, si arricchì di nuovi significati, collegabili ai venti che soffiavano in Italia e nel resto d’Europa quando sulla scena si affacciarono prepotentemente i moti rivoluzionari del Venti e del Ventuno. Dopo pochi mesi, fu subito chiaro a tutti i soldati che la loro presenza in Catalogna era il frutto di un inganno politico e che la guerra sarebbe stata molto diversa da quelle combattute fino a quel momento. Il carattere degli spagnoli, assimilabile per certi versi a quello italiano, non alleggerì le pressioni: per le strade di Barcellona furono innumerevoli i tafferugli scoppiati tra italiani, napoletani e barcellonesi. Una di queste, narrata da De Laugier, fu particolarmente cruenta. Il 27 maggio 1808 il caporale Francesco Gelmi, uno zappatore del reggimento dei veliti, fu insultato mentre stava attraversando pacificamente le strade cittadine. Il graduato italiano replicò con veemenza alle offese ricevute, ma la sua reazione scatenò l’ira dei catalani i quali, armati di bastoni e pietre, lo circondarono con fare minaccioso. A quel punto, sentendosi in trappola:

“TentòilGelmicollasciabolasguainataaprirsi la via fra quella turba furiosa; ma stretto, incalzato,premutoedoppressodaicolpi,poté constentofarsispalladellaportad’ingressodi uncasamento.Scalateilpopololefinestreed assalitolo in schiena dalle scale della strada, vagliato di ferite, infranto dai sassi, cadde quell’infelice soverchiato e coperto di pietre, vendendoperòinnanziacaroprezzolavita”[14]

[11] ASMi, Ministero della guerra, Carteggio, busta 49.

[12] De Laugier, Fasti e vicende cit., vol. IV, p. 284.

[13] Ivi, pp. 284-285.

[14] C. De Laugier, Fasti e vicende cit., vol. V, p. 18.

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Il chiasso attirò l’attenzione dei commilitoni di Gelmi i quali, presentendo che qualcosa di spiacevole fosse accaduto ad un loro compagno, corsero, armi in mano, verso la folla inferocita. Fatalità volle che tra i soldati italiani vi fosse anche il fratello del Gelmi il quale, accecato dalla rabbia, si mise alla testa del drappello di vendicatori. Appena vide il corpo martoriato: “il disperato ed orbo fratello, e con lui gl’irritati compagni non ebbero più freno. Scagliatisi in mezzo all’arrogante e insanguinata moltitudine, menarono si ferocemente le mani, che dileguaronla ben presto, facendo altresì ampia vendetta del morto”[15]

A quel punto i barcellonesi si mossero in cerca di armi, mentre altri si rinchiusero in casa sprangando le porte per impedire l’ingresso ai fanti italiani. Per le strette vie della città si vedeva la gente correre nella disperata ricerca di oggetti o armi improvvisate, mentre i soldati italiani e francesi cercavano di non rimanere isolati. Il generale Duhesme, insieme a Giuseppe Lechi ed altri ufficiali accorsero sul posto, ma furono anch’essi investiti dalla rabbia dei rivoltosi. Questa volta ogni tentativo di mediazione sarebbe stato vano. De Laugier racconta come i mesi di remissività e sopportazione dei suoi camerati si fossero improvvisamente tramutati in sete di sangue e vendetta: “la pazienza dei valorosi aveva un limite, che non era utile al popolo cimentare”. A quel punto i granatieri del 5° di linea e i cacciatori a cavallo del 2° reggimento uscirono dalle caserme per disperdere gli ultimi nidi di ribellione.

Lo stesso avvenimento, che segnò il casus belli tra Duhesme e i catalani, fu riportato, per parte spagnola, nel diario di padre Ferrer il quale offrì una prospettiva diversa su come andarono le cose. Ferrer collocò la ribellione di Barcellona martedì 31 maggio, esattamente tre giorni dopo rispetto al racconto di De Laugier; tali discrepanze temporali erano comunque irrilevanti e abbastanza consuete in questo tipo di testimonianze. In più, il padre spagnolo raccontò un particolare interessante su cosa avesse davvero esasperato i rapporti tra paesani, franco - italiani ed esercito spagnolo.

Sul luogo accorsero una cinquantina di cittadini i quali erano stati informati che il generale Duhesme avrebbe preteso dagli artiglieri ispanici il giuramento di fedeltà a Napoleone. Quale sia effettivamente la verità ci sfugge, ciò nondimeno è noto che i cannonieri, incoraggiati dalla presenza di numerosi compatrioti, ricusarono le richieste del comandante francese. Per quanto concerne i fatti del 31 maggio, padre Ferrer racconta la sua versione su quanto accadde al gastador italiano del reggimento dei veliti.

Fante di una compagnia di Granatieri del 2° Reggimento di Fanteria di linea. L’illustrazione è stata ricavata da una delle celebri tavole di Knötel.

Il 30 maggio, un drappello di artiglieria spagnola fu comandato, insieme ai francesi, per alcune esercitazioni presso una località chiamata Botta o Butte alla francese.

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[15]
Ivi, p. 19.

In molte parti i fatti coincidono con quelli riportati da De Laugier il quale, però, omise che al tumulto parteciparono alcuni artiglieri spagnoli, probabilmente gli stessi che il giorno prima si erano rifiutati di giurare nelle mani dei francesi.

Il tumulto si accese alle cinque di sera quando: “il popolo iniziò a schierarsi in modo deciso, ma senza eccessi” a causa di un incidente che effettivamente coinvolse un contadino del luogo. Secondo Ferrer, però, ad essere offeso non fu l’italiano, bensì il barcellonese, ferito da un fendente vibrato dallo stesso velite. Allo stesso modo Ferrer – di parte –trascrisse nel suo diario come avvenne l’uccisione di Gelmi e la successiva reazione delle truppe italiche:

“Questo fatto attirò sul luogo molti ufficiali francesi e soldati dei veliti, compagni del defunto, armati per la rissa, i militari con le sciabole e i paesani con pietre e bastoni, e alcunisoldatidelcorpodiartiglieriaspagnola con sciabole. Ci furono feriti da ambo le parti tra cui un artigliere spagnolo e un velite. Non appena la voce circolò fu data la chiamata generale ad Atrazanas, dove stavano le truppe alleate. All’interno del fortino prepararono i cannoni caricati a mitraglia con la miccia accesa, dirigendoli verso la Rambla,ildormitoriodiSanFrancescoesulla muraglia di recinzione verso il mare; uscirono dal fortino 300 soldati i quali si diressero verso il punto dove la gente si era riunita” [16]

A quel punto la rissa fu sedata, mentre il conte di Ezpeleta prese i primi provvedimenti organizzando delle ronde di paesani addetti alla pubblica quiete. Inoltre istituì delle commissioni composte da giudici i quali, ogni sera, dovevano uscire accompagnati da fidati, per dirimere le eventuali liti secondo l’urgenza. La presenza massiccia dei militari italiani e francesi assicurò un progressivo ritorno alla normalità, quando in altre località extraurbane iniziò ad ardere il fuoco della vendetta contro gli occupanti.

La guerra fuori da Barcellona

Se le azioni del generale Lechi avevano impedito un’insurrezione di massa a Barcellona, fuori dalla cinta muraria le cose andavano diversamente. Le armate francesi stavano perdendo terreno: la rivolta a macchia di leopardo delle popolazioni dei paesi circostanti la capitale aveva di fatto annullato la superiorità militare degli invasori. Duhesme era costantemente in trappola, ma soprattutto aveva le vie di comunicazioni verso la Francia compromesse dalle azioni delle milizie paramilitari catalane. In sintesi le operazioni militari condotte dai “napoleonici” furono le antesignane della controguerriglia contemporanea: azioni capillari compiute contro obiettivi ridotti per stanare il nemico. Gli spagnoli avevano dimostrato di che pasta erano fatti nella battaglia di El Bruch: una vittoria interamente “popolare” dove i timori e l’incapacità dei generali francesi esaltarono il coraggio e la furbizia degli opponenti. Una vittoria inaspettata che, tuttavia, ebbe dure ripercussioni sui paesi occupati dagli italiani i quali – per mera vendetta – li saccheggiarono e incendiarono, vessando la gente comune con tasse, estorsioni e ruberia di vario genere. Tra gli uomini di Lechi, e poi quelli della divisione Pino, la rabbia crebbe a vista d’occhio poiché, malgrado l’imponente dispositivo militare messo in campo da Napoleone, si trovavano sempre in svantaggio e per di più privi di cibo e denaro per le paghe. Dal generale fino al soldato semplice, le truppe franco italiane furono coinvolte in una serie di violente rappresaglie che lasciarono una traccia di vergogna nelle memorie di De Laugier e anche di Gabriele Pepe.

“ègiustoperòdidichiararechequestacondotta non era universale: molti arrischiarono la loro vita per salvare delle donne senza difesa, e spiegarono altrettanto coraggio nel bene dell’umanità, quanto mostrato ne avevano nelle zuffe recenti. Meritan fra questi una distintaeparticolaremenzioneibravicapitani deiVelitiBianchi,Busi,Bolognini,ediltenente Germain,lacuisolaoccupazioneinmezzoai pericoli ed ai disordini di questo saccheggio fu quella di correre da una casa all’altra, e servendosi ora del rigore ora della dolcezza, sforzarsidiristabilirelatranquillitàdeglianimi e quindi di salvare una quantità di famiglie, che ritrovarono in loro, come in moltissimi altri uffiziali,sott’uffizialiesoldati,invecedinemici, altrettanti angioli di pace e sicurezza” [17]

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[16] E. Ferrer, Barcelona cautiva o sea diario exacto de lo ocurrido en lamismaciudadmeintraslaoprimeronlosfrancesesestoesdesde el13defebrerode1808hastael28demayode1814, Barcelona, En la Oficina de Antonio Brusi, 1815, vol. I, p. 109. [17] C. De Laugier, Fasti e vicende cit., vol. V, pp. 55-57.

Il Generale Duhesme in una carica durante la battaglia di Diersheim del 1797 in una raffigurazione di Charles Thévenin

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La testimonianza di De Laugier circa il rifiuto di alcuni soldati di diventare complici di quell’orribile stupro di massa è conforme a quella di Gabriele Pepe, anch’egli spettatore di quegli episodi riprovevoli:

“Nel mentre si dava saccheggio alla città, lo che fa orrore nel vederlo, io mi rammento con gioia d’aver fatto due buone azioni. Una donzella gridante e scarmagliata si buttò fra le mie braccia scongiurandomi di salvarla dall’ignominia, stando per esser violata da due veliti a’ quali allividii ben bene le spalle con un bastone. Dopo averla messa in sicuro, io mi posi quasi in sentinella innanzi la porta della casa ove avevo alloggiato andando in Barcellona nel passato mese di febbraio, ed impedii di saccheggiarla” [18]

Pepe e De Laugier tentarono di scagionare almeno una parte degli ufficiali che, a loro detta, tentarono in tutti i modi di frenare la furia devastatrice dei soldati. Gli spagnoli stavano effettivamente vincendo e non solo sul piano morale, ma anche dal punto di vista strategico. Il giorno in cui divampò la guerra contro la Francia, il generale José Robolledo de Palafox emanò un proclama generale nel quale delineò la strategia che gli spagnoli avrebbero dovuto seguire per affrontare le truppe di Napoleone:

Il punto più importante si è quello di evitare sempre la battaglia campale e nel persistere nel convincimento ch’essa di esporrebbe al più grave pericolo, senza alcun frutto, senza alcuna speranza. Molte sono le ragioni che dimostrano la necessità di un tale provvedimento; sarà facile a qualunque uomo sensato di ravvisarli. Si conviene adunque di fare la guerra di scaramucceconcorpivolanti,diimbarazzare, di stancare il nemico, intercettandogli i viveri, tagliandoliiponti,sbarrandogliipassaggipiù necessari, ed impegnando altri simili mezzi. LaposizionegeograficadellaSpagna,ilgran numero delle sue montagne e le gole ben strette ch’esse formano, i suoi fiumi piccoli e grandi,laposizioneperfinodellesueprovince, ci insegnano questo genere di guerra, che non può essere che vantaggioso per noi [19]

Il generale Palafox, centrò l’obiettivo poiché sarebbe stato davvero improbo affrontare i francesi in una tradizionale battaglia campale. Un tipo di guerra che, è bene ricordare, era già nota ad alcuni ufficiali francesi ed in particolare a Duhesme; la guerra combattuta in Italia nel 1799 –quella delle Insorgenze – era simile a quanto stava succedendo in Spagna, inoltre l’esperienza in Calabria del 1806 era forse ancor più somigliante alla guerriglia iberica. Eppure quasi nessuno –Napoleone compreso – seppe mai interpretare la guerra combattuta dalle partidas spagnole: l’unico fu il generale Louis Gabriel Suchet il quale, in breve tempo, riuscì a pacificare l’Aragona per poi prendere il comando delle truppe italiane in Catalogna.

Per il resto la guerra in Catalogna, ma anche nelle altre province spagnole, seguiva un copione abbastanza consolidato laddove gli scontri campali furono sempre molto limitati. La guerriglia, le spedizioni punitive e la guerra di assedio occupavano il restante delle giornate degli italiani i quali si dovettero misurare in diversi assedi tra cui quello di Gerona, Tarragona e Figueres. Tra i vari episodi di combattimento nei quali furono coinvolti i soldati italiani, ci soffermiamo su quello di Calatayud il quale è stato spesso trascurato dalla storiografia tradizionale.

Alla fine di settembre del 1811, l’esercito spagnolo provò a isolare l’armata principale di Suchet ferma davanti Sagunto. Il generale Durand e il comandante Empecinado diressero i loro miliziani verso Calatayud, paese sulla strada tra l’Aragona e la Castiglia. Pochi giorni prima che l’esercito spagnolo attaccasse, il generale Palombini aveva mandato il III battaglione del 6° reggimento di linea del colonnello Pisa (circa 220 uomini) a presidiare proprio quel punto, onde evitare che cadesse nelle mani di Durand. Accompagnavano gli italiani i francesi del 44° reggimento di linea del capo battaglione Muller. Il 25 settembre, alle prime luci dell’alba, spuntarono all’orizzonte alcuni picchetti di cavalleria nemica: uno cavalcò in direzione della porta di Soria e l’altro sulla carrareccia verso Madrid. A quel punto il capo battaglione Favalelli del 6° di linea, mandò in perlustrazione i granatieri sulla via di Madrid, ma prima di essere caricati dalla cavalleria spagnola, scelsero di ritirarsi.

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1. 2. [18] V. Scotti-Douglas (a cura di), DalMoliseallaCatalogna.GabrielePepeelesueesperienzenellaGuerradelFrancès, Campobasso, AGR Editrice, 2009 cit., vol. 1, p. 341. [19] Documentirelativiallastoriapoliticaemilitaredell’ultimaguerradiSpagna, Milano, Sonzogno e Campigni, 1814, p. 31.

Il vero attacco avvenne il giorno seguente, alle 3 e mezza di mattina, dando luogo ad uno scontro epico tra uno sparuto gruppetto di militari italiani e gli assalitori spagnoli. Oltre alla narrazione di Camillo Vacani, è interessante riportare parte del rapporto redatto da Pietro Pisa, colonnello in seconda del 6° di linea, il quale restituì particolari “di prima mano” sull’opinata resistenza dei suoi uomini[20] Dopo oltre sei ore di combattimenti, i soldati del 6° reggimento di linea ripiegarono all’interno di un convento, trascinando con loro più feriti possibile. Il capo battaglione Favalelli, consapevole di essersi messo in una posizione alquanto pericolosa, capì che se voleva salvare i suoi uomini l’unica soluzione plausibile era rinchiudersi nell’edificio religioso.

L’edifico quale si rifugiò l’ufficiale italiano era un vecchio convento di monache, privo di ogni difesa. Le mura erano fatiscenti, le porte lignee scricchiolavano: “questo edificio non tesseva certamente l’elogio dell’ingegno o della diligenza di chi ne fu destinato la lavoro”[21]. Gli italiani serrarono i ranghi, spalla a spalla, in uno dei due conventi presenti nel complesso, entrambi comunicanti e senza alcun riparo che ne proteggesse il collegamento.

I fanti del 6° si disposero alla bene meglio cercando di presidiare ogni possibile punto di accesso. Dopo una mattinata e un pomeriggio di duri combattimenti, gli spagnoli – più volte respinti– rinunciarono a proseguire, regalando ai soldati di Favalelli un momento di tregua.

Intorno alle due di notte, il sonno ristoratore della fanteria italiana fu disturbato da dei rumori di scavo provenienti dal convento confinante: “accorsi per osservare si riconobbe che scoprivano il tetto in vari siti e crenelavano la parete del detto convento dirimpetto al lato sinistro della chiesa dominanti il tamburo del lato medesimo e cominciavano dal tetto e dalle finestre a gettare una quantità di legna e fasci di canape accesi, spalmati di bitume ed altre materie combustibili per appiccare il fuoco, nel mentre che dalla forata muraglia facevano una viva fucilata per impedire ogni nostra opposizione”[22]

Il III battaglione era dunque destinato ad una fine orribile e solo grazie ad una pronta reazione, i soldati riuscirono a spegnere le prime fiaccole di quello che altrimenti sarebbe divenuto un terribile e mortale incendio. Il giorno seguente, il 27 settembre, le truppe spagnole cercarono ancora di appiccare il fuoco alla chiesa, ma senza alcun risultato. Il problema più grave per Favalelli era l’acqua, fino a quel momento recuperata da un canale attiguo alla chiesa; quando i catalani se ne accorsero costruirono una di diga per impedirne il deflusso. Dopo alcuni tentativi, gli ufficiali spagnoli mutarono strategia, inviando un parlamentare con una formale richiesta di resa. Il capo battaglione Muller, del 44° di linea francese, chiamo a sé tutti gli ufficiali per un veloce consiglio di guerra. La risposta fu unanime: nessuna resa a costo di sacrificare la loro vita.

Il Generale José de Palafox Francisco Goya, 1814 Madrid, Museo del Prado

[20] Il rapporto del colonnello Pisa indirizzato al generale Palombini e datato 14 ottobre 1811 è conservato in ASMi, Ministero della Guerra, Carteggio, busta 50.

[21] Ibidem

[22] Ibidem

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Il rifiuto dei difensori scatenò un nuovo fuoco di fucileria, mentre ripresero le operazioni per carbonizzare i militari italo francesi. Dopo alcune ore, gli spagnoli riuscirono a scatenare l’inferno su una parte della chiesa obbligando i superstiti ad abbandonare velocemente il lato del tamburo (elemento architettonico): una ritirata che costò 30 morti e parecchi feriti.

Il 29, il battaglione di Favalelli velocizzò i lavori di difesa: i soldati sbalzarono delle crene nel muro per creare delle feritoie dalle quali rispondere meglio al fuoco avversario; tuttavia il vero pericolo per gli italiani non sarebbe arrivato dall’esterno. Nonostante fossero stanchi e spossati dalla fatica, i soldati del 6° udirono un leggero picchiettare proveniente dal pavimento della chiesa: “un cupo martellare sottoterra il che si arguì che il nemico travagliasse alle mine”[23]. Gli spagnoli stavano, infatti, stavano scavando una galleria per piazzare l’esplosivo e far saltare la chiesa con tutti i suoi occupanti. Muller e Favalelli decisero allora di allestire una galleria di contromina. Mentre i soldati scavavano, un inviato dell’Empecinado si presentò alla porta della chiesa con una nuova intimazione per la resa. Il messo spagnolo minacciò i soldati che se avessero proseguito con quell’ostinata resistenza, sarebbero tutti morti poiché le mine erano pronte ad esplodere.

Sprezzanti del pericolo, i soldati del 6° rigettarono ogni offerta: “vieppiù eccitandoci alla difesa”! Ad un’altra richiesta, pervenuta il giorno 30 settembre, gli italiani risposero: “fate saltare pure le vostre mine, noi siamo disposti a difenderci fino alla morte!”[24]. Il 3 ottobre scoppiò un ordigno che causò una breccia molto pericolosa: “il capo battaglione Favalelli vi accorse subito, il nemico cominciò a battere la carica alzando terribili strida ma non osò di tentare l’assalto”[25]

Il coraggio degli italiani si protrasse fino al 4 ottobre quando, un’altra terribile deflagrazione, fece saltare parte del pavimento lastricato di tombe: “la mina scoppiando aveva spalancato in varie parti il pavimento e smossi nei sepolcri i cadaveri; l’aria era quindi pregna di esalazioni mefitiche e rendeva insopportabile la respirazione nella chiesa […]. Eravamo certi di perire tutti sotto le rovine, senza fare costare cara la nostra morte al nemico, che ben lontano dal cimentare sé stesso sarebbe stato freddo spettatore del nostro infortunio”[26]

Muller e tutti gli ufficiali si riunirono di nuovo per decidere il da farsi: questa volta tutti furono d’accordo a cessare ogni ulteriore resistenza. Avrebbe condannato tutti ad una morte inutile. Favalelli e gli eroi del 6° uscirono dalla chiesa con le mani alzate consegnandosi al nemico[27] . Mentre i soldati del 6° e del 44° deponevano le armi, le truppe destinate in loro soccorso si stavano avvicinando a Calatayud: tra questi anche un battaglione del 4° di linea italiano[28]

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem.

[27] Nel complesso si arresero 566 soldati di cui 335 erano italiani. C. Vacani, Storiadellecampagneedegliassedij cit., vol. III, p. 312.

[28] “Coll’ordine del giorno del 14 ottobre Sua Eccellenza il signor maresciallo fece noto che la guarnigione di Calatayud, rinchiusa in un convento fortificato, si era il 4 ottobre resa al nemico per capitolazione. Disgraziatamente trovasi tra questi il III battaglione del 6° di linea comandato dal signor Pisa, colonnello in seconda. Gli ufficiali coi domestici e cavalli ed effetti sono stati resi agli avamposti dell’armata francese ed i soldati condotti prigionieri nelle piazze nemiche. Io spedisco questo corriere al ministro della guerra della capitolazione e del rapporto storico rimessomi dal colonnello Pisa riguardante questo infelice avvenimento. Ciò che ha ancor amareggiato l’animo mio è la perdita del capo battaglione Gillot, comandante del III battaglione del 4° di linea. Partito da Saragozza aveva egli ricevuto l’ordine di accorrere in soccorso a Calatayud minacciato dal nemico, ma spinto forse da eccessivo ardore venne inviluppato da forze superiori, ferito e fatto prigioniero dopo la perdita di vari individui. Il resto del battaglione dovette ritirarsi. Informato che il detto comandante Gillot trovavasi giorni or sono a Valenza, io gli ho fatto passare del denaro col mezzo di un parlamentario, onde sollevare questo infelice dai mali che l’opprimono”. Rapporto del generale Palombini al Viceré Eugenio. Da Puig il 29 ottobre 1811. ASMi, Ministero della Guerra, Carteggio, busta 50.

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La lezione spagnola

Al di là delle vicende belliche le quali, come abbiamo visto, si presentarono come del tutto nuove per i soldati italici e anche quelli napoletani, la Spagna segnò più di ogni altra campagna napoleonica l’animo degli italiani. Quando il fervore napoleonico iniziò a raffreddarsi immediatamente dopo i colpi della Restaurazione, emerse una pletora di delusi e nostalgici che portò avanti la memoria dell’epoca imperiale pubblicando le rispettive memorie. Cesare de Laugier, Antonio Lissoni, Costante Ferrari o il dotto Camillo Vacani, diedero alle stampe i loro ricordi esaltando le qualità dei soldati italiani, ma anche la profonda delusione verso gli alleati francesi. Tale rammarico però, fu riservato solo alla catena di comando dell’armata francese, ma non all’imperatore il quale – distante dai luoghi di combattimento – aveva imprudentemente confidato il comando delle sue armate ai marescialli i quali si dimostrarono sempre più interessati alla loro fame e ricchezza che non ai risultati sul campo. La visione di un popolo in rivolta per una causa comune innescò, a posteriori, una sorta di sentimento di biasimo verso i francesi, colpevoli di aver invaso un popolo con l’inganno. Inoltre gli italiani sentirono di avere più cose in comune con la causa iberica, piuttosto che con quella dei francesi i quali mostrarono sempre toni arroganti e sufficienti rispetto i loro alleati.

De Laugier ed altri scrissero spesso la parola “Italia” nei loro racconti, ponendo l’accento sulla bravura e il coraggio dei militari del Regno. Una esaltazione curata ad hoc in un’epoca, quella del primo Ottocento, dove stavano prendendo corpo i fervori nazionali che avrebbero poi portato ai moti del 1821/21 e poi a quelli del 1848. Indubbio fu che chi aveva partecipato alle campagne napoleoniche, deteneva un patrimonio di conoscenza importante su come gestire un campo di battaglia: dal 1800 al 1815, Napoleone forgiò una nuova “classe militare” italiana cosciente di servire un’unica bandiera: un merito, quello dell’imperatore, ambiguo e controverso poiché funzionale alla sua ambizione, ma pur sempre un risultato tangibile che ha lasciato un segno indelebile nel tempo.

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Generale Domenico Pino (1767-1826)

1812: i soldati del Regno d’Italia in Russia

La campagna di Russia ha marcato più delle altre campagne dell’epoca napoleonica l’immaginario collettivo europeo e italiano. Essa costò uno sforzo enorme al Regno d’Italia e contò delle perdite preponderanti per il suo esercito. Per quanto estremamente dura ma breve, la campagna causò in realtà delle perdite meno pesanti che la partecipazione italiana nel lungo conflitto spagnolo, ma annichilì le migliori unità dell’esercito, in particolar modo la Guardia Reale, in un’ecatombe da cui non si rialzerà fino alla fine del Regno. Allo stesso modo che per società civile francese, la campagna di Russia ha risvegliato l’interesse delle masse popolari italiane, con causa il carattere tragico della ritirata e la vastità dei territori attrvarsati nell’avanzata come nella ritirata. La rapida pubblicazione di memorie dei sopravvissuti, nelle quali si descrivono gli orrori vissuti durante la campagna, ebbe un forte impatto sull’immaginario collettivo. Questo studio vuole limitarsi unicamenti ai militari del Regno d’Italia che parteciparono a questa campagna, ovvero un totale di 27.750 uomini (ufficiali e soldati). Per allargare questa analisi a tutti gli “italiani” presenti in Russia, si dovrebbero altresì contare circa 10.000 napoletani, al seguito di Murat, e oltre 24.000 italiani arruolati nell’esercito francese, in quanto prevenienti dai dipatimenti italiani dell’Impero[1]

Gli italiani nel IV corpo

Le truppe italiane furono destinate a far parte, insieme all’Armée d’Italie (13^ divisione Delzons e 14^ Broussier), del IV Corpo agli ordini del vicerè Eugenio. Le due Divisioni francesi erano costituite dal 9e, 35e, 84e, 92e et 106e de Ligne, dal 8e et 18e leger, dal 1er Régiment provisoire croate e dagli spagnoli del Régiment Joseph Napoléon. Le truppe italiane furono organizzate su una Divisione, la 15^ della Grande Armée, agli ordini del generale Pino, una Divisione Guardia Reale, una Brigata di cavalleria leggera, una Brigata di cavalleria di linea ed una Riserva e Gran Parco di artiglieria. Tali disposizioni sono date da Napoleone già nel gennaio 1812 nel quadro dell’organizzazione della Grand Armée per la prevista Seconda campagna di Polonia[2] La Divisione Pino fu formata con il 2° e 3° Reggimento di linea, il 3° leggero, il Reggimento Dalmata su tre battaglioni e rinforzato dal quarto battaglione del 1° leggero, per un totale di sedici battaglioni, quattro compagnie di artiglieria a piedi ed una compagnia a cavallo, due compagnie del treno. Furono inoltre aggregati alla divisione due reparti di zappatori e operai del genio ed il 1° Battaglione trasporti. Riteniamo di dover sottolineare la presenza di numerosi reparti di genieri, zappatori e pontonieri voluta direttamente da Napoleone che in diverse lettere indirizzate al Ministro della guerra Clarke o al viceré Eugenio insiste sulla necessità di essere in grado di attraversare utti i fiumi nel minor tempo possibile.

28
Atto Terzo
Il Generale Teodoro Lechi (1778 - 1866) [1] J.-O. Boudon, Napoléon et la campagne de Russie 1812, ed. Armand Colin, Paris, 2012, pag.73. [2] N. Bonaparte, Correspondance, lett. 29631 au ministre de la Guerre Clarke, 2 janvier 1812, Paris, pag.34.

La Divisione della Guardia reale, agli ordini del generale Lechi, comprendeva l’intera forza di questa unità d’élite: il Reggimento di linea, su due battaglioni, il Reggimento Veliti Reali ed il Reggimento Coscritti, sempre su due battaglioni, due compagnie di artiglieria a piedi ed una cavallo, più due compagnie del treno e la compagnia marinai, oltre ad una compagnia trasporti[3] La Brigata di cavalleria di linea fu formata per volontà di Napoleone solo a fine febbraio[4] , riunendo il Reggimento Dragoni “Regina” della linea, i due squadroni Dragoni della Guardia e le cinque compagnie delle Guardie d’onore. Tale brigata venne però sempre tenuta, a livello di struttura, dentro la Divisione della Guardia Reale, onde fornire una riserva di cavalleria. La Brigata di cavalleria leggera, agli ordini del Villalta, fu formata dal 2° “Principe reale” e dal 3° Cacciatori a cavallo. Tale brigata fu inquadrata nella Divisione di cavalleria leggera del generale D’Ornano che aveva ai suoi ordini anche la Brigata Guyon composta dal 9e e 19e cacciatori francesi. Il Gran Parco e la Riserva d’Artiglieria riunivano due compagnie di artiglieria a piedi, cinque compagnie del treno, due compagnie di pontieri del genio, due reparti di zappatori ed operai e nove compagnie dei trasporti militari, di cui sei su buoi invece che su cavalli. Questo per quanto concerne le truppe italiane. Napoleone ordina più volte a Eugenio di portare l’effettivo al completo e di aggiungere anche 10 uomini per compagnia onde esser certi che all’entrata in campagna tutti i reparti siano a piena forza[5]. Nonostante la reiterazione di questi desideri, Napoleone sottolineerà come ancora a fine febbraio manchino 4.000 uomini per completare i reparti francesi e 2.000 per quelli italiani[6] L’insieme delle truppe arrivava ad un effettivo di 52.000 uomini di cui più di 27.000 mila sono appartenenti alle truppe del Regno d’Italia. Inizialmente furono posti sotto il comando di Eugenio anche il VI Corpo di Gouvion Saint-Cyr composto dalle truppe bavaresi e forte di 25.000 uomini ed all’inizio delle operazioni anche il III corpo della Riserva di cavalleria agli ordini di Grouchy, portando le forze agli ordini di Eugenio a oltre 80.000 uomini. Con questa riunione, Eugenio aveva ai suoi ordini la seconda massa di manovra della Grande Armée, con un ruolo maggiore nei piani di campagna elaborati da Napoleone.

La campagna di Russia

Le truppe italiane si mossero a febbraio, per arrivare con le prime formazioni il 14 aprile a Glogau e raggiungere la Vistola il 30 maggio, varcandola il giorno successivo[7]. Era stata premura di Napoleone richiedere a Eugenio di mascherare il più a lungo possibile i movimenti del IV Corpo in Italia, in modo da tenere nascosta la sua destinazione finale almeno fino al passaggio della Baviera. Valicate le Alpi, il IV e VI Corpo avrebbero dovuto lanciarsi il più velocemente possibile in direzione della frontiera passando per Ratisbona. Tale precauzione deriva dalla scelta di Napoleone di fare del comando di Eugenio il punto centrale del movimento, supportato a sud dal corpo polacco del generale Poniatowski e le truppe di Gerolamo ed a nord da Davout, Murat e la Guardia Imperiale al seguito di Napoleone. Il movimento viene eseguito sotto il comando di Junot, inviato come vice in comando ad Eugenio, mentre quest’ultimo ha ordine di abbandonare Milano solo all’ultimo momento. Infatti ne riceve l’ordine solo a fine aprile[8] dovendo raggiungere entro il 5 maggio Glogau, data alla quale i reparti del IV Corpo sono già in marcia verso Plock. Il 29 giugno, i soldati italiani si distinsero al passaggio dello Niemen a Piloni, dove marinai della Guardia e zappatori gettarono un ponte per l’attraversamento delle truppe, varcandolo poi nei giorni seguenti insieme a tutto il IV Corpo, che il 2 luglio si mise in marcia verso Wilna. Primo problema che si trovarono ad affrontare le truppe italiane, al pari di tutte le truppe di Napoleone, fu quello dei viveri e foraggi e dei rifornimenti in generale. I trasporti intralciati dalle pessime condizioni delle strade e dalle incursioni delle truppe nemiche, i soldati dovettero affidarsi alle requisizioni sul territorio che attraversavano, di cui i russi avevano già fatto terra bruciata.

[5]

[6]

[7]

[8]

29
[3] E. Pigni, LaGuardiadiNapoleoneRed’Italia, ed. Vita e Pensiero, Crema, 2001. [4] N. Bonaparte, Correspondance, lett. 30070, 27 febbraio 1812, Paris. N. Bonaparte, Correpsondance, lett. 29647, à Eugene, 3 gennaio 1812, Paris, pag.50. N. Bonaparte, Correspondance, lett.30090, à Eugène, 29 febbraio 1812, Paris. G. Cappello, op.cit., pag.62. N. Bonaparte, Correspondance, lett. 30527 à Berthier, 30 aprile 1812, Saint-Cloud.

Ritratto di Eugenio di Beauharnais

Johann Heinrich Richter, 1830-1833

San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

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Per la prima parte della marcia, le truppe italiane furono impegnate, con il IV corpo ed i corpi dei Marescialli Davout (I Corpo) e Murat, Re di Napoli (Grande Riserva di Cavalleria), ad impedire la riunione delle truppe dei generali russi Bagration e Barclay de Tolly, sostenendo in particolare Davout che battè separatamente Bagration il 23 luglio a Mohilew. Il 24 luglio, il IV corpo e con esso le truppe italiane raggiunsero Bechenkovitschi sulla Dvina, dove furono passate in rassegna dall’Imperatore. Napoleone fu accolto da alte grida di entusiasmo, in particolare da molti italiani che lo vedevano per la prima volta. Alla battaglia di Ostrowno, il 26 luglio, le truppe francesi avanzarono su quattro successivi scaglioni d’attacco, di cui il terzo composto dalla Guardia Reale ed il quarto dalla Divisione Pino. L’artiglieria della Guardia reale, forte di sette compagnie, avendo riunito anche quelle reggimentali, si distinse prima nel duello con l’artiglieria russa e poi impegnando le truppe russe che forzavano il fianco destro francese[9]. Alla crisi dell’ala destra francese posero rimedio i due battaglioni dei Coscritti della Guardia comandati dal colonnello Peraldi ed il battaglione del 1° leggero, esortati dal Vicerè che li incitò con la frase “Oggi confido nella mia brava Guardia!”. Lo scontro fu infine alleggerito dalle cariche di cavalleria, a cui prese parte anche la Brigata leggera di Villalta. Al tramonto le truppe italiane si accamparono nei dintorni di Witebsk. Il 28 luglio, in marcia dietro il III corpo di cavalleria di Murat, reparti di cavalleria italiani e due battaglioni del 1° e 2° leggero sostennero il Re di Napoli in uno scontro con i cosacchi, ottenendone gli elogi. Il 29 l’Imperatore sostò al bivacco delle truppe italiane e pose la sua tenda al centro dell’accampamento della Guardia Reale a Suraj, dove il IV corpo si fermò per alcuni giorni per far riposare le truppe stremate, ora, non solo dalla mancanza di viveri e foraggi, ma anche da un caldo torrido e dalla sete che opprimevano le truppe in marcia, rendendone le condizioni ulteriormente più dure. Durante questa sosta la cavalleria si impegnò per catturare alcuni convogli di viveri del nemico. Vi riuscì il 31 luglio, grazie all’azione di uno squadrone dei Dragoni Regina e, sempre lo stesso giorno, ad opera di due squadroni del 2° Cacciatori a cavallo agli ordini del colonnello Banco, i quali raggiunsero un convoglio, scortato da fanteria e cavalleria nemica in superiorità numerica, oltre un fiume in direzione di Velij.

Dopo aver caricato e costretto alla ritirata la cavalleria russa che proteggeva l’imboccatura di un ponte, i cacciatori di Banco caricarono con foga ed al grido di “Viva l’Italia!” il quadrato nemico, riuscendo a romperlo, conquistando oltre cento vetture e quasi cinquecento prigionieri. Il reparto ottenne gli elogi di Napoleone e la menzione sul bollettino dell’Armata[10]. Lo scontro, per quanto un successo, costò comunque oltre cinquanta tra morti e feriti, ovvero un quarto della forza italiana che prese parte al combattimento. Il 7 agosto fu sempre la cavalleria leggera italiana che sventò un attacco russo su Velij recentemente occupata, sostenuta dal alcuni battaglioni leggeri e respingendo i cosacchi. Lo stesso giorno il capitano Marcheselli del 3° di linea, al comando di soli 18 uomini, conquistò un convoglio di duecento vetture e liberò cinquecento prigionieri polacchi. Inseguito dai russi, riuscì a mettersi in salvo insieme a quasi quaranta vetture di viveri[11] Il 21 agosto le truppe italiane (eccettuata la Divisione Pino impegnata a controllare le linee di rifornimento) furono passate nuovamente in rassegna dall’Imperatore, che concesse quarantanove decorazioni della Corona di Ferro. Continuando ad inseguire la ritirata russa, il IV corpo giunse il 29 agosto sotto Smolensk e proseguì l’avanzata, impegnando in piccole azioni contro la retroguardia russa solo la cavalleria. Il 2 settembre si distinsero i Dragoni della Guardia, che caricarono delle bande cosacche che minacciavano il Vicerè ed il suo Stato Maggiore durante una ricognizione. Il 4 ripeterono l’azione i cacciatori di Villalta, che respinsero i cosacchi caricandoli con alla loro testa Eugenio. La stessa sera venne impegnato il 3° cacciatori, che ricevette il sostegno del 2° e poi dei Dragoni Regina e della Guardia, in uno scontro contro i cosacchi del generale Platoff, dando origine ad un grosso scontro di cavalleria in cui gli italiani riuscirono vincitori, aprendo la strada a tutto il IV corpo.

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[9] Cfr. G. Fedele, G. Martignoni e G. Garuti, Italiani contro lo Zar. Vol.1° dal Niemen a Smolensk, ed. Camelot, Milano, 2006, pag.80. [10] Onzième Bulletin de la Grande Armée, in Bulletins de la Grande Armée,CampagnedeRussie1812, sotto la direzione di Stéphane Le Couedic, ed. La Vouivre, Paris, 1997, pp.29-31. [11] Cappello, op. cit., pag. 137.

Impegnato il 5 settembre in scontri minori su Borodino, il IV corpo fu impegnato nella battaglia della Moscowa del 7, contro i 130.000 uomini di Kutusov. Al momento dello scontro, privato della Divisione Pino, rimasta a coprire le linee di approvvigionamento, il corpo agli ordini di Eugenio è forte di soli 22.000 uomini[12]. Nella grande battaglia, focalizzata intorno all’espugnazione delle due grandi ridotte di artiglieria costruite dai russi, le truppe italiane furono schierate all’ala sinistra francese, impegnando i corpi russi con tentativi di avvolgimento e riuscendo a conquistare, solo a tarda sera del 5, le alture di Borodino. Trascorso il giorno successivo senza scontri, i combattimenti ripresero all’alba del 7 agosto: le truppe di Eugenio aprirono il fuoco contro il villaggio di Borodino, ancora occupato da forze russe, ed alle sei e mezza iniziò l’attacco con forze francesi. Dobbiamo segnalare che il IV Corpo di Eugenio fu rinforzato dalle divisioni Morand e Gérard del Corpo di Davout, e che furono schierate di fronte alla grande ridotta russa, pagando il più pesante tributo in fatto di perdite. L’artiglieria italiana venne impiegata per supportare, col proprio tiro, l’attacco francese della divisione Morand contro la grande ridotta, ma i francesi vennero infine respinti.

Proprio mentre Napoleone fermava la controffensiva al centro, una massa di cavalleria russa minacciò il fianco sinistro di Eugenio. Nello stesso momento era stato infatti lanciato il I Corpo di Cavalleria di Ouvarov. La misura che permise alle truppe appiedate di salvare le artiglierie e disporsi a quadrato fu la pronta carica della Divisione D’Ornano che caricò con entrambe le brigate il corpo di Ouvarov forte di oltre 2.500 cavalieri. Inferiore di numero, la cavalleria leggera franco-italiana pagò l’azione con pesanti perdite e riuscì infine a ritirarsi dietro lo schermo dei quadrati di fanteria. Nel mentre l’artiglieria italiana era stata costretta a difendersi su due fronti, girando parte dei cannoni. Lo stesso Vicerè, mentre tentava di raggiungere le batterie italiane, fu costretto a rifugiarsi dentro il quadrato dell’84° fanteria, e l’artiglieria venne salvata dalla Guardia Reale che riuscì a raggiungerla ed a disporsi in quadrato, respingendo la cavalleria nemica.

Il Corpo Italiano di Eugenio di Beauharnais attraversa il Niemen il 30 giugno 1812 in un dipinto del pittore tedesco Albrecht Adam (1786-1862)

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[12] F. G. Hourtoulle, La Moscowa Borodino 1812 la battaille des redoutes, ed. Histoire et Collection, Parigi, 2003, pag.93.

Alla decisione di Napoleone di dare il colpo decisivo all’armata russa, Eugenio ricevette l’ordine di attaccare il lato sinistro della grande ridotta. Assalita con la carica dei corazzieri del generale Montbrun, la ridotta fu espugnata da questi e dal 9° di linea francese (dell’Armée d’Italie) guidato da Eugenio. Si distinse anche il Capitano Del Fante[13], facente parte dello Stato Maggiore di Eugenio. La battaglia cessò con la presa delle posizioni più elevate da parte delle truppe e delle artiglierie francesi, mentre i russi si ritiravano in buon ordine. Napoleone, parimenti a Kutusov, dichiarò propria la vittoria, che era costata 13.000 morti e 9.000 feriti alle truppe imperiali e 13.000 morti, 30.000 feriti e 2.000 prigionieri ai russi. Tra le sue comunicazioni alle diverse parti dell’impero, Napoleone ordinò anche di cambiare il nome di via Santa Teresa a Milano in Via della Moscova[14] . Il giorno successivo alla battaglia giunse anche la 15^ divisione di Pino, impegnata a coprire le spalle dell’armata, ed il giorno successivo il IV corpo riprese la marcia, con sempre maggiori problemi per gli approvvigionamenti.Il 15 settembre le truppe entrarono a Mosca ed il IV corpo fu acquartierato fuori della città, mentre la sola Guardia Reale prendeva alloggio intorno al Cremlino insieme ai reparti della Guardia Imperiale.

Un’altro dipinto di Adam; in questo caso si tratta della battaglia vicino a Ostrovno la mattina del 26 luglio 1812

Gli effettivi del IV Corpo sono già scesi a 1331 ufficiali e 26996 soldati e solo 2679 cavalli. Il I battaglione della Guardia di linea fu impegnato a reprimere i saccheggi che si scatenarono il 18 agosto a causa dell’incendio che distrusse la città e rischiò di rimanere imprigionato tra le fiamme, riuscendo a salvarsi per uno stretto passaggio che raggiungeva il fiume. Durante la permanenza a Mosca, le truppe italiane, al pari di quelle francese, continuarono ad essere impegnate nel respingere gli attacchi della cavalleria russa contro avamposti e colonne di rifornimenti. Il 29 agosto il 3° cacciatori respinse una colonna russa, riuscendo a riprendere dei pezzi di artiglieria persi dalle truppe westfaliane[15]

33
[13] Hourtoulle, op.cit., pag.87. [14] Cfr. Cappello, op. cit., pag.147, rinviamo anche all’opera di Hourtoulle, op.cit. per una maggiore descrizione della battaglia. [15] Cfr. Cappello, op. cit., pag.219.

Malojaroslavetz

e la ritirata

Abbandonate le speranze di un accordo di pace con lo Zar, Napoleone ordinò di iniziare la ritirata il 20 ottobre dirigendosi su Kaluga. Il IV corpo procedette all’avanguardia, raggiungendo il 24 ottobre Malo-Jaroslawetz, che il generale Delzons aveva avuto ordine di occupare la sera prima. Le truppe francesi di Delzons furono impegnate da un improvviso attacco russo che respinse i soli due battaglioni lasciati ad occupare il villaggio, dopo che era stato ripristinato un ponte ad opera degli zappatori italiani. Accorsero in rinforzo i Dragoni italiani agli ordini di Eugenio, che con l’ordine “Correte bravi italiani” [16] richiamava al più presto le altre divisioni. Inviate tutte le forze francesi a prendere il villaggio di Malo-jaroslawetz che si ergeva in cima ad un piccolo colle, le divisioni Broussier e Guilleminot (che aveva sostituito Delzons morto nello scontro) furono costrette a ritirarsi al sopraggiungere di rinforzi nemici. Nella necessità di riconquistare il villaggio e rompere la resistenza russa il Vicerè inviò all’attacco la divisione Pino, mantenendo di riserva la Guardia reale e tutta la cavalleria italiana. Mentre una batteria russa prendeva d’infilata il ponte e le truppe di Pino in avanzata ed anche gli uomini della Guardia reale che, seduti, aspettavano di essere impiegati, intervenne l’artiglieria italiana, la quale con un efficace fuoco di controbatteria mise a tacere rapidamente i cannoni russi. I reparti di Pino fortemente provati dal tiro d’artiglieria russo, raggiunsero il villaggio, vi penetrarono e furono costretti ad ingaggiare un violentissima lotta alla baionetta per conquistare la posizione. Tra gli ufficiali morì l’Aiutante maggiore Pino, fratello del generale, vennero feriti il capitano Fontana, aiutante maggiore di Pino e lo stesso Pino venne colpito ad una mano, ferita che lo costrinse a cedere il comando della divisione al generale Galimberti. Avuto notizia del combattimento, Napoleone ordinò ad Eugenio di mantenere il possesso del villaggio a tutti i costi. Vennero inviate sul colle le batterie della Guardia Reale ed anche il Reggimento di linea della Guardia ed i Coscritti, che impegnarono i russi alla baionetta agli ordini del colonnello Peraldi, sloggiandoli dalle ultime case, ma spingendosi poi eccessivamente allo scoperto per conquistare le artiglierie russe e venendo attaccati da reparti di cavalleria. Di nuovo sottoposti ad un contrattacco russo, gli italiani furono respinti fino al limitare dell’abitato, dove Peraldi continuò a guidare la resistenza incitando gli uomini dicendo “Rammentatevi

che è questa la battaglia degli Italiani!”. Le truppe italiane restarono asserragliate nella chiesa ed in alcuni edifici vicini che erano riusciti a fortificare[17]. Nel mentre, i Dragoni furono impegnati a respingere reparti di cosacchi che, guadato più a nord il fiume Lusha, tentavano di impadronirsi dei carriaggi dell’Armée d’Italie Dopo il tramonto Kutusov tentò un ultimo attacco per sloggiare gli italiani dal villaggio, ma questi, ormai raggiunti dalle divisioni Morand et Gérard di Davout che ne sostennero i fianchi, riuscirono a respingere le colonne russe ed alle undici di sera il combattimento ebbe termine, permettendo il passaggio dell’armata napoleonica. Nel cruento scontro che vide in gran parte solo le truppe del IV Corpo, tre generali furono feriti ed uno ucciso, feriti sei colonnelli, feriti sei capibattaglione e due uccisi. Da parte franco-italiana caddero oltre 5.000 uomini. Alle truppe italiane furono riconosciuti tutti i meriti dovuti ed il reggimento Coscritti guadagnò sul campo il nominativo di Cacciatori, mentre, anche fra i nemici, l’aiutante di campo dello Zar, colonnello Boutourlin, così scrisse: “Non possiamo fare a meno di confessare che il combattimento fa il più grandeonoreagliitalianichesostennerogliattacchi con un valore ed una costanza ammirabili” [18] . Ed anche il generale Rapp scrisse nelle sue memorie: “Le truppe italiane si coprirono di gloria. È stata una giornata che l’Armata d’Italia deve iscrivere nei suoi fasti.” E così affermò pubblicamente il generale inglese Wilson durante la sua presenza a Mantova, nel 1814: “L’armata italiana a Malo-Jaroslawetz mi sorprese pel suo eroismo, sedicimila di questi bravi ne batterono ottantamila dell’esercito di Kutusov” [19]. Sebbene le stime di Wilson fossero più che lusinghiere, le truppe di Eugenio erano di circa 25.000 uomini, sebbene non tutte impiegate, a fronte sì di 80.000 russi, ma di cui solo 50 o 60.000 furono impiegati. Resta comunque condivisa da tutti l’opinione che la battaglia di Malo-Jaroslawetz sia stata uno dei maggiori scontri delle truppe italiane ed uno dei più gloriosi. Le truppe italiane ripresero la ritirata e furono poste alla retroguardia insieme al I Corpo di Davout, giungendo il 30 ottobre a Borodino e venendo impegnate il 31 per sostenere Davout sotto attacco.

[16] Cfr. Cappello, op. cit., pag.232.

[17] Sir Robert Wilson, The French invasion of Russia, ed. John Murray, London, 1860, pag.223.

[18] Cfr. Cappello, op. cit., pag.241.

[19] Cfr. Cappello, op. cit., pag.245.

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Il

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Generale di Divisione Delzons in testa ad una colonna di truppe francesi a Malojaroslavetz in un dipinto di Aleksandr Yurievich Averyanov

Il 3 novembre, prima di giungere a Viazma, gli italiani furono impegnati in combattimenti, da un lato per allontanare una colonna russa inseritasi tra il Corpo del Vicerè e quello di Davout, dall’altro per sostenere il III Corpo di Ney che li precedeva, anch’esso sotto attacco. A questo momento il IV Corpo conservava ancora oltre 13.000 uomini, pari a un terzo degli effettivi[20] Pur esposti all’artiglieria russa, i reparti riuscirono a manovrare respingendo le colonne russe e ripresero la marcia. In particolare si distinsero i cacciatori a cavallo ed il colonnello Banco che cadde ucciso da un colpo di cannone. L’armata napoleonica aveva perso altri 5.000 uomini ed altri 2.000 prigionieri, riprendendo il giorno successivo la ritirata già con temperature abbondantemente sotto lo zero. Il 5 novembre il IV di Eugenio fu inviato fuori dalla direttrice della ritirata per portare aiuto ai Corpi, ormai riuniti, di Saint Cyr e Victor attaccati dai russi, minacciando questi ultimi alle spalle. Sebbene di difficile attuazione, la manovra riuscì e permise alle truppe italiane, muovendosi in territori mai occupati, di razziare vettovaglie per la marcia, che la scarsità di viveri rendeva ancora più dura. Il IV Corpo aveva ormai già perso due terzi delle sue artiglierie. Il 9 novembre i genieri ed i marinai della Guardia Reale iniziarono la costruzione di un ponte sul Vop, ma furono sorpresi da truppe russe e, prima che il ponte fosse completo, tutte le truppe italiane con le poche artiglierie ancora in loro possesso guadarono il fiume, continuando a respingere gli attacchi dei cosacchi e tentando di portare in salvo più materiale possibile. Il 10 giunsero nei pressi del villaggio di Doukhovtchina, dove furono assalite da due reggimenti di cavalleria russa, ma la Guardia Reale, formata in quadrato, ne respinse le cariche. Una tale resistenza è sicuramente indice della buona tenuta che avevano ancora i reparti italiani, nonostante le sofferenze di freddo, fame e continue scorrerie del nemico. Catturando il villaggio, i soldati riuscirono ad ottenere viveri e ricovero tra le case[21] Il 14 la Guardia Reale si batté sotto Smolensk e nel prosieguo della ritirata si distinsero ancora zappatori, genieri e marinai italiani che si adoperarono per rendere agibili le strade ai pochi carriaggi e cannoni ormai rimasti. Il 16 i russi tentarono nuovamente di sbarrare il passo al Corpo di Eugenio. Una colonna di oltre mille uomini agli ordini del generale Guilleminot, comprendente oltre a truppe francesi ciò che restava dei genieri italiani e dei marinai, fu circondata dai russi. Chiusasi in quadrato, riuscì con incredibile risolutezza a forzare le linee russe, rifiutando più volte la resa e raggiungendo le truppe di Eugenio dopo aver perso oltre metà degli uomini.

Costretto ad aprirsi la strada verso Krasnoi combattendo, e ormai senza più cavalleria, il Vicerè rifiutò l’offerta di resa. Respinto dai russi un primo tentativo di sfondamento della fanteria, e poi un secondo ad opera di un battaglione di volontari, scese infine la notte. Eugenio inviò la divisione Broussier sul fianco destro nemico come diversivo, mentre riunite le restanti truppe in un’unica colonna, sfondò il fianco sinistro, riuscendo a raggiungere gli altri Corpi francesi. Solo diverse ore dopo fu raggiunto dalla divisione Pino, che si era persa nella notte non rintracciando il percorso fatto dal grosso del Corpo. Il 27 novembre il IV corpo raggiunse la Beresina e ne compì l’attraversamento la notte stessa[22] Della Guardia Reale non restavano che 700 uomini. Il 2 dicembre le truppe italiane ebbero modo di riposarsi e riorganizzarsi a Smorgon, mentre la temperatura continuava a scendere fino a -29 gradi. Il 9 le truppe erano a Wilna, il 12 a Kowno e ripassarono il Niemen, il 28 giunsero a Marienwerder. Qui avvenne l’ultimo scontro della campagna tra italiani e russi, in data 10 gennaio 1813, in cui i Dragoni della Guardia sventarono un attacco della cavalleria cosacca contro il comando del Vicerè, impedendone la cattura.Alla fine della campagna, ovvero al momento dell’assestamento della linea ormai nel gennaio 1813, degli oltre ventisettemila italiani dell’esercito reale partiti con Eugenio, ne tornarono poco più di un migliaio. Della Guardia restavano 570 uomini, di cui la metà fu inviata in Italia insieme ai generali Pino e Lechi il 24 gennaio, mentre con i complementi giunti dall’Italia si formò un battaglione provvisorio di cinquecento uomini. Anche la fanteria ricevette, già nel gennaio, i primi complementi, che permisero di riorganizzarla su un unico battaglione di oltre cinquecento uomini. La cavalleria aveva perso completamente i cavalli, e non restavano che 203 cavalieri appiedati, inclusi quelli della Guardia. Dopo i rimpatri e con i complementi furono riuniti un totale di 390 cavalieri solo di Cacciatori e Dragoni Regina. L’artiglieria aveva perso tutti i cannoni, inclusi i due della Guardia salvati al passaggio del Vop ma abbandonati a Krasnoi[23]

[20]

[21] Cfr. Cappello, op. cit., pag.256.

[22] Cfr. Cappello, op. cit., pag.293.

[23] Cfr. Cappello, op. cit., pag.363.

36
P. Del Negro, « Les Italiens dans la Grande Armée. La campagne de Russie et le patriotisme italien.» in Revue Historique des Armées, n.250, 2008, pag.23.

L’immaginario italiano e le memorie

L’impatto sulla società civile del disastro di Russia non fu ininfluente. Durante tutta la campagna Napoleone aveva continuato a scrivere, a più riprese, al Gran Cancelliere Melzi[24] chiedendogli di indirizzare giornalmente una nota al suo omologo francese Cambaceres sull’opinione pubblica a Milano e nel Regno. Da questi documenti si rileva che l’inquietudine diffusasi dalla mancanza di notizie prima, e dalle cattive notizie poi, non tocca il sostegno politico al regime napoleonico che sarà messo in discussione solo al momento dell’invasione militare del Regno d’Italia. Nello stesso modo che la società francese, le notizie filtrate atraverso le corrispondenze private o il 29 bollettino della Grande Armée colpirono in vario modo l’opinione pubblica. La paura per la sorte dei cari scomparsi in Russia perché morti o più fortunatamente prigionieri iniziò a radicarsi nella società, in particolare in legame alle successive chiamate della coscrizione. Tali apprensioni si diffusero nelle famiglie dei coscritti ma non impedirono il buon funzionamento della leva obbligatoria.

Cacciatore della Guardia Reale in un disegno di Massimo Fiorentino.

L’unità ricevette da Napoleone la denominazione di Cacciatori, prima Coscritti, proprio a seguito della loro condotta durante gli scontri a Malojaroslavetz

La pubblicazione di memorie che poterono descrivere in maniera più ampia avvene solo successivamente alla caduta di Napoleone ed all’instaurazione del governo austriaco nell’Italia settentrionale. In questa linea si iscrivono le memorie di Bertolini, ufficiale di cavalleria italiano. Tali memorie giocano su due livelli differenti: uno anti-bonapartista che descrive la campagna di Russia come un errore e come causa di enormi sofferenze; secondo sull’aspetto tragico, quasi orrido, degli scenari della ritirata tra novembre e dicembre 1812. Questi aspetti permisero il grande successo di tali pubblicazioni che ebbero un ampia diffusione e pubblicazione.

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[24] Francesco Melzi d’Eril, già Vice-Presidente della Repubblica Italiana tra il 1802 e il 1805 dopo il passaggio in Regno é nominato Grande Cancelliere e allontanato dal governo in favore del Viceré. È comunque richiamato a dirigere lo stato durante le campagne del 1809, 1812 e 1813-14. Cfr. N. Del Bianco, Francesco Melzi d’Eril,: la grande occasione perduta, ed. Corbaccio, Milan, 2002..

Dall’altro lato troviamo però delle memorie, non tutte pubblicate, che cercano di sottolineare, aldilà delle sofferenze e delle situazioni estreme vissute, le gesta compiute sia a livello personale che da parte dei propri reparti italiani o del IV Corpo. Abbiamo la possibilità di analizzare in questo modo le memorie di Cesare De Laugier[25] che pubblica il suo testo col titolo Gli italiani in russia nel 1812. Altre memorie che riteniamo di dover citare, sebben all’epoca non riuscirono ad essere pubblicate sono quele di Filippo Pisani[26], tenente di artiglieria al IV Corpo, e che sono tra le poche a permettere di rintracciare tutti gli aspetti della campagna del 1812. Bloccato già a Pilon a causa della carenza di cavalli per il Parco d’Artiglieria, segue l’avanzata napoleonica fino a Mosca, per poi seguirne la ritirata fino ad oltre Krasnoi e cadere prigioniero dei russi. La prigionia lo conduce in una lunga serie di peregrinazioni fino alla firma della pace ed al rientro a Venezia nel febbraio 1815. Pubblicate una prima volta nel 1942 da Carlo Zaghi e da poco ripubblicate, offrono una visione molto reale e precisa della situazione. La gran parte del testo, basata su un giornale perduto al momento della cattura, è ricomposta già durante la prigionia e solo minimamente integrata dalle descrizione di altre opere memorialistiche o a carattere storico. Quel che ne possiamo trarre è, come sottolinea anche Piero Del Negro[27], che c’è stato uno slittamento dei sentimenti personali nei confronti della questione nazionale in seno all’esercito. Punto centrale dell’esperienza militare negli anni 1803-1807, la questione nazionale è passata in secondo piano, lasciando maggior spazio al desiderio di carriere, affermazione professionale, successo nella nuova società creata dal regime napoleonico che è, bisogna dirlo, vissuto come assolutamente normale e fonte di identità.

Conclusioni

Il bilancio della campagna di Russia segnava, per l’esercito del Regno, la perdita di 58 cannoni, 8.300 cavalli, inclusi quelli dei trasporti, e ventiseimila uomini. Di questa cifra non tutti sono da considerarsi come caduti, poiché una parte dei dispersi rimase prigioniera dei russi o fu lasciata indietro in una lunga scia di ospedali, riuscendo parzialmente a tornare in Italia solo dopo molti mesi, a causa dello stato di guerra quasi continuo sul continente. Il comportamento dei soldati italiani in questa spedizione mise in luce non solo le loro buone qualità personali, ma anche l’importanza che il IV corpo rivestì dalla ritirata da Mosca in poi, grazie all’ottima tenuta e coesione che mostrarono i reparti. Si può ritenere che tale risultato, anche nella catastrofe militare che culminò alla Beresina, non sia stato dovuto solo alle capacità militari e all’addestramento, ma anche allo spirito di nascente orgoglio nazionale che univa le truppe italiane, nel confronto con le altre truppe dell’armata francese, che per questa spedizione riuniva polacchi, tedeschi, austriaci, prussiani, spagnoli, etc. Il IV Corpo conserva, alla battaglia per Viazma, ancor ail 30% degli effettivi, cifra battuta solo dalla Guardia Imperiale.

[25] Cesare De Laugier (1789-1871), entrato nei Veliti Reali nel 1807, cavaliere della Corona Ferrea nel 1808, sergente nel 1809, sottotenente nel 1810, tenente aiutante maggiore nel 1813. Capitano nel 1815 nell’esercito napoletano di Murat, capitano sotto Ferdinando III di Lorena nel 1819 nei Cacciatori toscani, colonnello nel 1847. Partecipò alle battaglie di Curtatone e Montanara il 29 maggio 1848, dove gli venne conferita la medaglia d’oro al valor militare del Regno di Sardegna, unico caso nella storia di soldato del Regno italico che ottenne sia il cavalierato della Corona di Ferro che la medaglia d’oro sabauda. Cfr. Pigni, op. cit., nota 120 pp.149-151.

[26] In guerra con Napoleone, Memorie di Filippo Pisani Russia 1812, a cura di Ernesto Damiani, ed. Nordpress, Chiari, 2006..

[27] Del Negro, op.cit., pp.16-24.

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