La caduta del Regno d’Italia, 1813 -1814
La campagna d’Italia del 1813-1814 è generalmente meno conosciuta rispetto alle altre campagne napoleoniche, sia perché non è stata di per sé risolutiva del conflitto continentale tra Impero francese e coalizzati, sia in quanto secondaria rispetto al teatro di guerra tedesco nel 1813 e poi francese nel 1814, sia infine poiché adombrata in popolarità dalle precedenti “campagne d’Italia” napoleoniche. In realtà, oltre ad aver rivestito un’importanza fondamentale dal punto di vista strategico sullo scacchiere europeo, è stata una guerra del tutto significativa per una serie di motivi, non solo militari, che verranno descritti qui di seguito.
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Le vicende possono essere periodizzate nel seguente modo: una prima fase di preparazione diplomatica e militare al conflitto, tra il gennaio e l’agosto 1813 e una seconda fase concernente la guerra vera e propria in due campagne distinte, la prima nelle Provincie Illiriche, tra agosto e ottobre del 1813, e una campagna in Alta Italia tra ottobre 1813 e aprile 1814.
La guerra per il Regno d’Italia inizia ufficialmente il 16 agosto 1813, cioè al termine della tregua di Plaswitz del 2 giugno 1813, con la quale l’Imperatore dei Francesi, fino ad allora impegnato nella Befreiunskriege (“guerra di liberazione”), mirava a mantenere per un verso la neutralità austriaca, dall’altro a recuperare le forze e radunare quanti più uomini possibili in vista della partita decisiva.
Nessuno contava che la tregua, a cui fece seguito un Congresso a Praga, conducesse ad una pace generale europea effettiva. Entrambe le parti, i francesi e i loro alleati da un lato, i coalizzati dall’altro, avevano tutti gli interessi per mettersi ad un tavolo e, fingendo interesse per una pace generale, guadagnare tempo per riorganizzare le forze dopo le battaglie di Lützen e Bautzen nel maggio 1813 e saggiare le intenzioni dell’avversario. Napoleone puntava molto sulla neutralità austriaca, per ragioni politiche, dinastiche e strategiche, ma di certo, leggiamo nella Correspondance, non si lasciò infatuare da questa utopia.
Nell’autunno del 1812, mentre ancora era bloccato a Mosca, aveva mantenuto una intensa corrispondenza con l’Impero e i suoi stati-cliente per la leva di ulteriori forze utili a rimpiazzare le perdite che cominciavano già a quel tempo ad essere ingenti.
La fase che va quindi dal suo rientro precipitoso a Parigi all’agosto 1813, un periodo in cui la guerra non si era beninteso mai interrotta, ma che d’altronde non aveva ancora lambito i confini del Regno d’Italia, fu contrassegnata da una febbrile e concitata riorganizzazione degli assetti militari in preparazione al rinnovato sforzo militare.
La situazione qui, all’inizio del 1813, appariva grave: in meno di un anno il Regno aveva fornito a Napoleone ben tre corpi d’osservazione, poi rinforzati e confluiti in veri e propri corpi d’armata ed inseriti organicamente nell’esercito. Il primo aveva partecipato come IV corpo della Grande Armée alla campagna di Russia, dove subì ingenti perdite.
I suoi reduci furono congedati dopo lo scioglimento del corpo a Glogau nel dicembre 1812. Il secondo era stato creato con decreto imperiale il 5 ottobre, quando Napoleone era ancora a Mosca, posto agli ordini del generale Grenier e spedito in tutta fretta in Germania per assistere i reduci di Russia. Confluirà successivamente nell’XI corpo d’armata. Infine il terzo, composto per la maggior parte da giovani coscritti addestrati durante gli spostamenti e di quei pochi convalescenti e istruttori che si era riusciti a reperire nei depositi reggimentali, fu riunito nel gennaio 1813, posto al comando del generale Bertrand e inviato anch’esso in Germania, a inizio marzo, per partecipare alle operazioni della Befreiunskriege. Di questi corpi, assieme ai contingenti italiani in uniforme francese, erano presenti 8652 soldati del Regno, impiegati al 1° marzo in Germania, e altri 12-13 mila impegnati distribuiti tra la Spagna o l’Illiria.
Non si poteva sperare che la guerra in Germania potesse da sola impedire l’invasione del Regno. Per questo il 26 febbraio 1813 il ministro Achille Fontanelli decretava la leva anticipata del 1814, recuperando sulla carta 15.000 uomini, un po’ meno negli effettivi (14.473), comunque non sufficienti in caso di conflitto contro l’Austria, e sforzo del tutto modesto rispetto alla leva francese (673.000 uomini da tutti i dipartimenti, compresi quelli italiani).
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Il 10 aprile Napoleone ordinava al ministro di costituire un corpo d’osservazione (il quarto in meno di un anno) da riunire a Verona o Brescia per difendere l’Illiria e l’Italia. Infine, il 18 aprile, dette le disposizioni definitive per l’esercito, ora denominato Corpo d’osservazione dell’Adige, che presto sarebbe stato denominato Armée d’Italie, l’ultima delle guerre napoleoniche col decreto imperiale del 18 giugno, lo stesso giorno in cui Eugène rientrava a Milano dopo aver sostato brevemente a Monaco da Massimiliano I di Baviera, suo suocero scongiurandolo di rimanere fedele alla causa imperiale in quel frangente di crisi.
Al 17 luglio, ad un mese dall’inizio della campagna, esso avrebbe contato circa 50.000 uomini, di cui 40.000 effettivamente pronti al combattimento, su più di 80.000 richiesti da Napoleone con la lettera del 24 e previsti dal ministro Clarke, senza contare le enormi carenze d’equipaggiamento. Tutto ciò deve essere considerato alla luce della difficile situazione delle finanze reali: Infatti, dopo la crisi economica del 1811-1812 peggiorata dal prestito
forzoso post-Beresina e il tracollo della fiducia nel debito pubblico italiano, le casse del regno erano letteralmente vuote.
Ultimo punto: Napoleone, ben giudicando la fedeltà e le qualità del figlio adottivo, il 12 maggio gli aveva conferito poteri pressoché illimitati sia nel Regno d’Italia, in cui governava dal 1805 in qualità di viceré, sia nelle Provincie Illiriche e nella 27a, 28a, 29a e 30a divisione militare, corrispondenti rispettivamente ai territori del Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio, dipartimenti riuniti direttamente all’Impero e non facenti parte del Regno. Di fatto, metà della penisola era sotto la sua immediata disponibilità, mentre l’altra metà rimaneva sotto il controllo di Murat, re di Napoli.
In queste condizioni, Eugène operò al meglio delle sue capacità nella riorganizzazione dell’esercito che schierò nelle Provincie Illiriche tra giugno e luglio 1813. Tre questioni contribuivano a problematizzare il quadro geopolitico e strategico dell’imminente campagna. Innanzitutto, il re di Napoli, Murat, nonostante avesse ricevuto l’ordine dall’Imperatore di inviare una certa aliquota di truppe in rinforzo a Eugène, disattendeva gli ordini, mentre sviluppava una intensa corrispondenza con gli alleati in attesa del passaggio al campo dei coalizzati.
La seconda questione concerneva il territorio delle Province Illiriche: non assimilato all’Impero come la penisola italiana ai principi rivoluzionari, era pronto a sollevarsi da un momento all’altro per tornare sotto gli antichi dominatori asburgici. Inoltre, il governatore, duca d’Abrantès, manifestava preoccupanti segnali di insanità mentale, rendendosi inadatto nei suoi ruoli. La situazione non sarebbe molto migliorata con il subentro di Fouché. Terzo e ultimo punto, la squadra navale inglese nell’Adriatico, al comando del viceammiraglio Thomas Fremantle, era riuscita il 2 luglio a prendere Fiume (Rijeka), mentre le forze croate e il governatore della città fuggivano senza combattere. Seppur le forze inglesi non avessero sufficienti uomini per mantenere il controllo della città (che verrà ripresa pochi giorni dopo dal generale francese Garnier), tuttavia questo episodio manifestò chiaramente la debolezza delle guarnigioni a difesa delle coste dalmate. La caduta di Fiume impose quindi ad Eugène un’accelerazione nel dispiegamento e nell’organizzazione delle sue forze.
Il 12 agosto, allo scoppio delle ostilità, le forze francesi schierate sulla linea carnicoisontina assommavano, sulla carta, a 50.574 uomini della fanteria e 1.800 della cavalleria, in maggioranza coscritti, più una piccola parte di reduci fatti rientrare in tutta fretta da vari fronti e inseriti nei quadri degli ufficiali. Immediatamente disponibili al combattimento erano, in realtà, circa 45.000 della fanteria e 1.500 della cavalleria.
Prima di passare alla fase vera e propria della guerra, è utile tenere presente che le forze austriache organizzate per l’invasione dell’Italia, al comando del Feldzeugmeister barone von Hiller, erano composte da una cifra più o meno equivalente a quella dell’armata franco-italiana, 48.982 uomini a inizio luglio, in gran parte coscritti col compito di guadagnare, ad ostilità aperta, la posizione di Laybach (Lubiana) e Trieste, e di tenere impegnato Eugéne e impedirgli di ricongiungersi a Napoleone.
Il 12 agosto 1813 la guerra tornò a infuriare in Germania. Le forze austriache, tuttavia, non si mossero nell’immediato, ma aspettarono l’insurrezione antifrancese in Croazia, accuratamente preparata nelle settimane precedenti il conflitto tramite il reclutamento di ufficiali ritirati fedeli alla casa d’Asburgo e residenti nel territorio, adeguatamente riforniti di 12.000 moschetti provenienti da Körmend. Questa rivolta, oltre ad agevolare la penetrazione
austriaca in Illiria e Dalmazia, avrebbe indebolito l’esercito avversario che ancora faceva largo uso di truppe di nazionalità croata (poco volenterose di combattere per la Francia), e per converso avrebbe rafforzato l’esercito austriaco.
Il 19 agosto gli austriaci svelarono le proprie carte invadendo le Provincie Illiriche. Possiamo sintetizzare questa prima parte del conflitto nel seguente modo: la linea del fronte andava da Villach a Lubiana, circa 80km in linea d’aria. Essendo questo un territorio in prevalenza montuoso il coordinamento tra i reparti si rendeva assai difficoltoso e lento. Tuttavia, lo stesso contesto geografico rendeva assai più agevole un approccio difensivo, in quanto con poche truppe si poteva efficacemente contrastare l’offensiva di un numero superiore di avversari. Di conseguenza, gli scontri, seppur numerosi, furono di modeste dimensioni, e tutti focalizzati a scalzare ora i francesi ora gli austriaci da posizioni chiave per il controllo dei passi montani più importanti.
La battaglia di Feistritz, vinta dalle truppe francoitaliane, è sicuramente la più rappresentativa di questa fase della campagna, ed è giustamente considerata il primo grande confronto militare della campagna. Non c’è qui lo spazio per soffermarsi sui dettagli, che possono essere nel resoconto che ne ha fatto Maurice Henri Weil in “LePrinceEugene et Murat”, unico studio completo non sintetico su questa campagna; basterà qui segnalare che il numero di morti, 60, e di feriti, 300, se confrontato con altre battaglie combattute in altre parti d’Europa, e che contavano a migliaia le perdite, danno l’idea di quanto l’intensità degli scontri fosse per questo teatro di guerra relativamente bassa.
La situazione, dopo settimane di manovre, sembrava rimanere ancorata ad un sostanziale impasse.La svolta giunse invece dal cambiamento nello scacchiere diplomatico internazionale. Il 20 settembre il Feldzeugmeister barone von Hiller ricevette la notizia che il regno di Baviera aveva firmato l’armistizio con l’Austria.
Carta raffigurante le Province Illiriche, invase dall’Austria il 19 agosto 1813
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A questo punto Eugène non poteva più permettersi di coprire efficacemente, con 50.000 uomini circa, le Alpi Carniche, le Alpi tirolesi e le coste dell’Adriatico (dove la squadra navale britannica del viceammiraglio Fremantle continuava le sue incursioni). Decise quindi una prima ritirata strategica sull’Isonzo, lasciando alcune guarnigioni a guardia delle città più importanti, come Trieste, che conoscerà un lungo assedio per tutto il mese d’ottobre 1813. La situazione era assolutamente precaria, non solo dal punto di vista strategico. Lo stesso Eugène in un rapporto inviato al ministro francese della guerra, Clarke, il 2 ottobre scriveva:
“Credo di dovervi far osservare che gli Inglesi, padroni del mare, potranno prendere a bordo delle truppe per sbarcarle alle mie spalle, il che mi darebbe parecchio fastidio, avendo poche truppe. […]
I reggimenti dalmati e croati disertano in una maniera indegna, e i pochi che restano non possono essere impiegati in linea, né possono per la stessa ragione essere impiegati nelle piazzeforti. […] Di più, mi mancacavalleria,eilnemiconehaparecchia. […] Se gli avvenimenti mi forzeranno ad abbandonare l’Isonzo, la mia posizione sarà molto critica in pianura, con soldati troppo giovani senza cavalleria, contro un nemico che ne ha parecchia. Temo estremamente il movimento sull’Italia, perché i reggimenti italiani diserteranno in quantità, così come i reggimenti francesi, che sono quasi tutti reclutaticoncoscrittideidipartimentifrancesi d’Italia. Non ho quasi nessun coscritto francese. La mia armata sarà allora ridotta a niente, e non ne troverò abbastanza che per formare strettamente la guarnigione delle piazze che verranno sguarnite” [1]
Si può riconoscere che Eugène non avesse una grande fiducia nelle truppe italiane, ma non si può dire che fosse totalmente nel torto, perché la diserzione era ampia e particolarmente grave.
L’8 ottobre il viceré riceveva una lettera da parte del re di Baviera, con la quale tentava di persuaderlo ad abbandonare la causa imperiale, al che, per tutta risposta, Eugène gli rispondeva in una lettera successiva:
“TemoperlasalutedellamiapoveraAugusta, appena sarà informata del partito che voi avete creduto d’esser obbligati a prendere. Quanto a me, mio buon padre, qualsiasi sia la sorte che il cielo mi riserva, felice o triste, ho il coraggio di assicurarvelo, sarò ogni giorno degno di appartenervi, meriterò la conservazione dei sentimenti di stima e tenerezza di cui mi avete dato tanto prova. Voi mi conoscete però, ne sono sicuro, per essere convinto che, in questa dolorosa circostanza, non mi scosterò un istante dalla linea dell’onore come dei miei doveri”.
Concludeva la lettera dichiarando che se anche sarebbe accorsa la sua morte in battaglia, era pronto a quel destino, perché valeva per lui più la coerenza personale del calcolo politico.
A questo punto però, l’Isonzo diveniva un fronte insostenibile; dunque l’Armata d’Italia dovette ritirarsi il 20 ottobre sull’Adige. Così terminava la campagna d’Illiria.
L’ultimo atto della guerra si svolse dall’ottobre 1813 all’aprile 1814 in Alta Italia. Il viceré aprì la campagna con un proclama alle genti d’Italia, datato Gradisca 11 ottobre 1813, che è particolarmente significativo:
“Un nemico che per lungo tempo vi ha successivamente assoggettati, e che ne’ secoli scorsi avea contribuito a dividervi a fine di non aver mai nulla a temere da voi, non ha potuto vedere senza inquietudine, e senza gelosia, il vostro risorgimento e lo splendore che lo circondava. Per la terza volta[2], egli osa minacciare oggi il vostro territorio e la vostra indipendenza. Voi avete valorosamente concorso a reprimere i suoi primi sforzi; né tarderete a farlo pentire di quest’ultimo. Quanti nuovi motivi non eccitano oggidì il vostro patriottismo ed il vostro valore! Voi non avete dimenticato ciò ch’eravate, dodici anni sono. Voi siete degni di sentire ciò che siete divenuti da poi.
La mano che vi ha fatto risorgere, vi ha dato le instituzioni più nobili e più generose. Queste instituzioni formano ad un tempo il vostro orgoglio e la vostra felicità; né soffrirete che si osi rapirvele. Italia! Italia! Che questo sacro nome, che produsse nell’antichità cotanti prodigj, sia oggidìilnostrogridod’unione!Aquestonome s’alzinoivostrigiovaniguerrieri,edaccorrano in folla per formare alla patria un secondo baluardo, innanzi a cui il nemico non ardirà pure presentarsi! Il prode, che combatte pe’ suoi focolari, la sua famiglia, per la gloria e l’indipendenza del suo paese, è sempre invincibile.Siailnemicoforzatoadallontanarsi dalnostroterritorio,epossiamnoiconfiducia dire quanto prima al nostro augusto sovrano: Sire, noi siamo degni di ricevere da voi una patria; noi abbiamo saputo difenderla”.[3]
Ciò che Eugène stava effettuando era il tentativo di trasformare la guerra di stampo settecentesco in guerra autenticamente nazionale, appunto risorgimentale. Dobbiamo però distinguere questo conflitto dalle guerre del ’48 o successive. La campagna di Eugène si configura nella pratica come un connubio tra elementi eterogenei: innanzitutto le motivazioni della guerra sono distanti dalla sensibilità popolare, ancora in larga parte ancorata al ricordo dell’Ancien Régime di un conflitto tra sovrani. Non solo, la coscrizione e la crisi economica avevano reso sempre più impopolare questa guerra, inficiando il tentativo di mobilitazione patriottica che Eugène stava tentando. D’altra parte, però, vediamo prepotentemente usato, e non solo da Eugène, lo strumento della nazionalità come ideale su cui far leva per la riuscita del conflitto. Certo come strumento e forse non con vera convinzione da parte di Eugène stesso.
Quindi, se anche di fatto questa guerra rimane incardinata nell’archetipo della guerra napoleonica, diversa dalla guerra d’Ancien Regime ma non ancora propriamente guerra nazionale, mostra in embrione alcuni elementi che saranno ricorrenti e decisivi nei successivi conflitti del nuovo secolo.
Pagina del Giornale Italiano che riporta l’appello completo del quale una parte è stata citata a pagina 42. La sezione interessata è delimitata dai riquadri.
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Si diceva, non con vera convinzione. Né Eugène, né poi i proclami per l’unità e la sollevazione dei popoli italiani firmati dall’ammiraglio Bentinck, che incrociava nel Mediterraneo, o dell’austriaco Nugent a Ravenna, o successivamente del proclama di Rimini nel 1814, si possono considerare sinceri. Tuttavia, inconsapevolmente, contribuirono a stimolare gli intellettuali e la sensibilità popolare verso un tema che solo da pochissimi anni aveva cominciato a penetrare la penisola (sempre attentamente sorvegliata dai governi stranieri). Per confronto con il proclama di Gradisca, si riporta qui sotto il proclama di Ravenna del 10 dicembre, scritto dal generale austriaco Nugent:
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“AI POPOLI D’ITALIA. Siete stati abbastanza oppressi; avete patito sotto un giogo ferreo! I nostri eserciti sono venuti in Italia per la vostra liberazione! Sta per sorgere un nuovo ordine di cose, che vi restituì la felicità pubblica. Cominciate a godere dei frutti della vostra liberazione, in seguito alle benefiche misure già applicate ovunque siano giunte le nostre armi liberatrici. Là dove ancora non siamo, sta a voi franchi e coraggiosi Italiani, operareconlearmiinpugnolarestaurazione della vostra prosperità e della vostra patria. Voi lo farete tanto meglio, in quanto sarete aiutati per ricacciare chiunque si opponga a questo risultato. Dovete diventare una Nazione indipendente. Mostrate il vostro zelo per il bene pubblico e la vostra felicità dipenderà dalla vostra fedeltà a quelli che vi amano e vi difendono. In poco tempo la vostra sorte sarà oggetto d’invidia, il vostro nuovo Stato susciterà ammirazione.” [4]
In realtà il proclama di Nugent appare a noi oggi, con uno sguardo agli eventi successivi, ancora più retorico del proclama di Eugène, ma anche a quel tempo ci furono alcuni, tra i vertici austriaci, che rimasero del tutto infastiditi da questo proclama.
Altro elemento da aggiungere a questo discorso: la leva. Essa permetteva un amalgama tra appartenenti a comunità molto distanti tra loro, che vestivano però le stesse uniformi per un Regno che negli ideali (e nei suoi statuti costituzionali) richiama l’unità della penisola. Possiamo quindi comprendere come le istituzioni militari e la retorica bellica parlino chiaramente di una trasformazione in corso durante gli anni delle guerre rivoluzionarie prima e napoleoniche poi, ossia il coinvolgimento diretto delle masse popolari nella lotta politica.
In questa guerra infatti, la popolazione, volente o nolente, fu costantemente considerata come un’arma nella strategia bellica: ai popoli d’Italia ci si appella per la difesa del Regno o per la sua sollevazione contro di esso, a quelli Croati gli austriaci fanno ricorso cavalcando le indignazioni nei confronti del regime napoleonico per disturbare le operazioni avversarie, e così via. Meno, quindi, nella prima parte del conflitto (la campagna d’Illiria), è soprattutto nella campagna dell’Alta Italia che il combattimento si conduce con ogni mezzo, non solo quelli convenzionali, ma pure politici e propagandistici. Un tale, profondo coinvolgimento della popolazione sarebbe stato impensabile per le guerre prerivoluzionarie, d’ora in poi sarà invece la norma, con tutte le conseguenze sociali, politiche ed economiche che essa porterà.
Tornando alle operazioni belliche conclusive, esse si possono sintetizzare come segue. Dopo la sconfitta di Lipsia i pochi veterani rimasti in Germania e in Spagna furono fatti rientrare. Con loro, tra gli altri, c’era il generale Zucchi, che fu subito nominato comandante della piazzaforte di Mantova. Pochi uomini, a dire il vero, ma veterani di molte campagne e battaglie, dunque essenziali in una armata composta per la maggior parte da coscritti.
novembre Murat, rientrato a Napoli, metteva in marcia il suo esercito. Il 4 aveva scritto all’ammiraglio Bentinck:
“Ho preso il mio partito: intendo unirmi agli Alleati, abbracciare la loro causa, contribuire a scacciare i Francesi dall’Italia, e spero che mi faranno partecipare ai vantaggi che potranno risultarne… Ho già dato l’ordine di mobilitare 30 mila uomini, i quali potranno essere in terra francese prima della fine del mese. Vi entreranno con il pretesto di garantire le frontiere del mio regno, ma in realtà per potere agire più sicuramente in accordo con l’esercito austriaco.” [5]
Nel frattempo, senza dichiarazione formale di guerra l’ex maresciallo occupava la Romagna, tenendo il grosso dell’esercito tra Forlì, Faenza, Imola e Bologna. L’11 gennaio defezionava ufficialmente investendo le città e le piazzeforti italiane. Il 1° febbraio, a malincuore, Eugène abbandonava quindi la linea dell’Adige per portarsi sulla linea del Mincio, meglio difendibile. Qui, sempre inseguito a debita distanza dal Bellegarde, tentava di scalzare gli austriaci dalle loro posizioni per guadagnare abbastanza tempo da permettergli, con l’esercito, d’impartire una severa lezione a Murat. L’8 febbraio ingaggiava una grande battaglia sulla linea del fiume, con vertici Peschiera a nord e Mantova a sud. A metà mattina tutta l’armata austriaca era stata pienamente colta di sorpresa, la sua sinistra era disfatta e respinta, la sua destra impossibilitata a continuare l’avanzata su Peschiera, il centro contrastato duramente dai francesi nel territorio di Monzambano. A questo punto un fortuito presentimento suggeriva al generale austriaco Merville di resistere ad oltranza coi suoi granatieri in una forte posizione, e questo impedì la disfatta all’esercito di Bellegarde. Solo la notte avrebbe arrestato gli scontri. Il 9 mattina le posizioni erano di fatto quelle di partenza: fu quindi una vittoria scialba, che ebbe come unico risultato il togliere al Bellegarde qualsiasi velleità di ingaggiare a fondo i franco-italiani da lì in poi per il resto della campagna.
L’ultimo scontro fu combattuto tra le truppe francoitaliane e quelle murattiane sulle rive del Taro, tra il 13 e il 15 aprile 1814, cioé dopo la firma dell’atto di abdicazione di Napoleone aveva già abdicato (trattato di Fontainebleau del 4 aprile 1814), tra le truppe franco-italiane e quelle murattiane. Preavvertendo la fine delle ostilità, Murat aveva voluto ingaggiare una battaglia inutilmente fratricida con numerose perdite, senza l’intento di ottenere alcun risultato strategico decisivo, ma con
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l’unico scopo di dimostrare ai coalizzati che la sua condotta fino ad allora ambigua meritava invece di essere rivalutata, al fine di poter sedere al tavolo dei vincitori con un qualche pretesto, idea che ben presto si rivelò malamente concepita.
Qualsiasi tentativo di resistenza ad oltranza all’interno del Regno d’Italia venne comunque neutralizzato da una serie di fatti accorsi nell’arco di pochissimi giorni: dopo le nuove di Francia, Eugène firmò l’armistizio di Schiarino-Rizzino in attesa dell’evoluzione politica interna. Ligio ai suoi principi, preferiva non azzardare colpi di mano, e non schierare l’esercito a Milano per poter forzare la situazione politica a suo favore. Se alla condotta del Senato del Regno che, nella situazione di incertezza dopo l’abdicazione, si spaccò in fazioni arroventando il clima politico e aizzando le folle, aggiungiamo la presenza di individui intriganti e ambiziosi come il generale Pino, di simpatie murattiane (o sicuramente non del partito di Eugène), che di fronte al rifiuto del viceré di schierare l’esercito, prese il controllo delle milizie urbane e non face nulla per impedire il linciaggio del ministro Prina il 20 aprile, possiamo comprendere come ben presto la situazione scivolò di mano da
qualsiasi tentativo di controllo da parte del viceré. Il complesso delle vicende che formano la rivoluzione di Milano del 1814 meritano un discorso a parte, basti però qui considerare la morte di Prina come il simbolico atto finale della stagione napoleonica. Eugène, venuto a sapere del fatto, capì di non poter proporsi come continuatore della politica napoleonica cingendo la corona del Regno, e il 23 firmava una Convenzione a Mantova con la quale concludeva ufficialmente la guerra, e scioglieva l’esercito.
Il 12 giugno veniva decretata l’annessione all’Austria, mentre Eugène lasciava l’Italia, diretto in esilio con la famiglia in Baviera. Due ultime immagini, evocative e quindi particolarmente simboliche, sono alla base della costruzione mitica della stagione napoleonica nella narrazione risorgimentale, attraverso la figura del generale Teodoro Lechi, comandante della Guardia Reale:
“I corpi della guardia vennero a sciogliersi a Milano ma prima di partire per Vimercate, i due battaglioni dei Granatieri
vollero avere i loro stendardi, affidarono a me le due aquile, dateci da Napoleone, abbrucciarono le aste e le drapperie, si divisero le ceneri, le distribuirono nella zuppa e le ingoiarono, sembrandogli così di aver mantenuto il giuramento fatto nel riceverle di non abbandonarle giammai. Io nascosi gelosamente quelle Aquile. Nessun soldato della vecchia Guardia volle servire e tutti si ritiraronoallepatrieloro,portandosecomoltile armietuttil’uniforme,conpropositodirimetterlo quando venisse il sospirato momento.”
Le Aquile sarebbero ricomparse durante la prima stagione risorgimentale:
“Ne conservò gelosamente in casa sua le aquile gloriose, che nel 1848 donava in Cremona al re Carlo Alberto, all’inizio della prima guerra d’indipendenza, magnifico atto che conferma lo stretto legame tra gli Italiani dell’epocanapoleonicaediprimicombattenti delle guerre del nostro riscatto.” [7]
Milano, Museo di Milano
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Atto Quinto
La memorialistica italiana nel periodo post-napoleonico
Laura VigniDopo la caduta dell’Impero Francese, alcuni ufficiali e soldati italiani che avevano militato nell’esercito napoleonico scrissero Memoriali per raccontare la loro esperienza. Pubblicati nel corso dell’Ottocento, e poi alcuni ristampati in edizioni critiche verso la metà del Novecento, rimangono fondamentali per conoscere i dettagli della partecipazione italiana a quella lunga e complessa vicenda bellica. In questo panorama emergono per originalità e approfondimento Cesare De Laugier, Antonio Lissoni e Camillo Vacani.
In genere questi Memoriali risultano scritti a distanza dagli eventi narrati e spesso in polemica con le numerose opere pubblicate in Francia da ministri e generali interessati a discolparsi degli errori commessi, i quali facevano apparire le guerre solo come un epico susseguirsi di atti di eroismo da parte francese per cui le sconfitte sarebbero state frutto solo di misteriosi ed incomprensibili scherzi del destino.
La polemica prese il via immediatamente dopo la fine dell’epopea napoleonica, nel 1814, quando Antonio Lissoni, pubblicò a Londra, GliitalianiinCatalogna, Lettere di A.L. ufficiale di cavalleria italiano L’atmosfera non proprio tranquilla, che si respirava nel 1814, verso chi aveva servito Napoleone, gli consigliò di pubblicarlo fuori dall’Italia e in forma quasi anonima. Il suo scopo era di rivendicare il ruolo decisivo svolto dagli italiani nella guerra di Spagna, dopo che vari autori francesi lo avevano sottovalutato, o peggio disprezzato. Ma in lui lo spirito polemico dominava sulla narrazione obiettiva dei fatti.
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Si basava invece sinceramente sulla propria esperienza, narrando solo fatti cui aveva direttamente partecipato, il generale elbano Cesare de Laugier che nel 1819 pubblicò in forma anonima la “Lettera di un ufficiale italiano agli autori delle Effemeridi militari di Francia”, in cui polemizzava con le Ephémérides militaires di d’Albans perché a suo giudizio denigravano il comportamento dei soldati italiani.
Nella lettera sollecitava i compagni d’arme a narrare la loro esperienza per ristabilire l’onore italiano. Dopo che nessun soldato aveva fatto riscontro al suo invito, produsse quattro opere voluminose e importanti sulla storia militare napoleonica: fra il 1826 e il 27 i 4 volumi de Gl’italiani in Russia, Memorie di un ufficiale italiano per servire alla storia della Russia, della Polonia e dell’Italia nel 1812, Firenze, 1826-27.
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dal 1829 al 1838 i 13 volumi de “Fasti e vicende di guerra dei popoli italiani dal 1801 al 1815 Memorie di un uffiziale italiano”;
nel 1840 i quattro volumi su Le guerre dal 1792 al 1815;
nel 1870 i “Concisi ricordi di un soldato napoleonico italiano”.
Ne “Gl’italiani in Russia” il racconto si concentra sulla campagna di Russia evidenziando il ruolo fondamentale svolto delle truppe italiane nelle varie battaglie. Lo stesso generale Murat aveva elogiato il valore dei soldati italiani in particolare a Witepsk e Smolensk, e nell’occupazione della Lituania.
Accademia Senese degli Intronati Frontespizio del primo tomo “Fasti e vicende degl’italiani dal 1801 al 1815” di Cesare De LaugierGioacchino Murat in un particolare del dipinto “Napoleone dopo la battaglia di Eylau dell’8 febbraio 1807.
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Antoine-Jean Gros (1771-1835)
Parigi, Museo del Louvre
I quattro volumi contengono molte descrizioni monotone che appesantiscono la narrazione, a parte alcuni camei fulminanti su particolari abitudini per lui insolite, come la descrizione degli ebrei di un paese polacco che, per rendergli onore, si gettavano ai suoi piedi baciandogli il lembo della veste.
“Fasti e vicende di guerra dei popoli italiani dal 1801 al 1815” rappresenta il suo lavoro più ambizioso, per il quale aveva impiegato vario materiale. Per la campagna di Russia si basò sul suo Diario personale, mentre per documentare meglio quella di Spagna vi aggiunse documenti, lettere, memorie, diari, scritti di ogni genere inediti e a stampa che era riuscito a rintracciare; inoltre sollecitò ulteriori notizie da ufficiali e soldati che vi avevano partecipato. Ma la sua narrazione ha un tono esclusivamente cronachistico, perché gli mancava la visione d’insieme e non era uno storico.
Però rappresenta bene l’esperienza di un giovane che aveva lasciato la famiglia per raggiungere un paese lontano, e nella movimentata vita militare aveva modificato il suo sistema di valori. Entrato in contatto con ufficiali e veterani, ne aveva condiviso l’ambizione di raggiungere gradi, titoli e onoreficenze che nell’esercito napoleonico erano attribuiti solo a chi li meritava senza distinzione di nascita. Nuovi interessi e nuove passioni erano maturati in lui, spingendolo all’emulazione, ad una nuova considerazione per l’onore e la gloria militare, come ripeteva spesso nelle sue lettere alla famiglia.
Nella sua opera su Le guerre dal 1792 al 1815 dimostra di non possedere gli strumenti per un lavoro troppo complesso, e il risultato è disorganico e frammentario e si ferma al 1806, incerto fra la storia militare e politica.
Successivamente nel 1870 mandò alle stampe in forma anonima Concisi ricordi di un soldato napoleonico, ristampato in parte con una interessante introduzione di Raffaele Ciampini nel 1942, che inserì in appendice alcune lettere inedite alla famiglia durante le guerre napoleoniche.
Anche se appare scritto senza troppa cura per la forma letteraria, Ciampini lo giudica un libro interessante e curioso, perché ripercorre con sincerità i cambiamenti di rotta del De Laugier, alla ricerca di un ruolo nella nuova realtà politica dopo la sconfitta di Napoleone, sotto la spinta della sua sconfinata vanità e di una ingenua vanteria. Nel 1814, convinto di obbedire a quello spirito nazionale cresciuto in lui durante le campagne
napoleoniche, si pone dapprima al seguito di Murat, ma dopo quel fallimento, si entusiasma per le guerre di indipendenza e comanda le truppe toscane a Curtatone. Ma ingenuamente convinto che il Granduca sia rimasto costituzionalista, lo sostiene nella restaurazione, e viene abbandonato dai soldati, messo fuori dalla legge dal Guerrazzi (che aveva accusato di essere un demagogo insieme a Montanelli) e freddamente ricevuto anche dal Re di Napoli e dal Papa. Non riusciva a capire come stava evolvendo la restaurazione e si meravigliò che il Granduca avesse nominato commissario straordinario della Toscana un codino come Serristori e non lui.
Nel frattempo anche Lissoni aveva scritto diversi altri volumi, a cominciare dalla traduzione nel 1825 della Storia di Napoleone di Laurent de l’Ardèche, facendovi numerose aggiunte per ciò che riguarda il ruolo svolto dagli italiani dal 1796 al 1815; poi nel 1837 la Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiatedalsignordiBalzacnellesueScenedella vitapariginaeconfutazionedimoltierroridellastoria militare della guerra di Spagna fatta dagli italiani, di Antonio Lissoni antico ufficiale di cavalleria
Nel racconto “La marana”, Balzac aveva attribuito ad un soldato italiano un atto di inaudita violenza. Alla guerra prendeva parte un reggimento quasi interamente composto da italiani che “godevano di grande reputazione sulla scena militare ma detestabile nella vita privata”, perché composto di cattivi soggetti. All’assedio di Tarragona il loro capitano Bianchi aveva scommesso che, se avessero conquistato la città, avrebbe mangiato il cuore di una sentinella spagnola. E così avrebbe fatto.
Lissoni considera l’accusa infamante e la inquadra nel clima antitaliano che serpeggiava in Francia, pur ammettendo che effettivamente nella 6° legione italiana, come nell’esercito francese del resto, erano presenti soggetti irrequieti poco inclini all’obbedienza. Ma a suo parere il capitano Bianchi (in effetti Bianchini) aveva tenuto un comportamento da eroe, mentre al saccheggio di Tarragona non parteciparono solo italiani, ma anche francesi. Rimarcando il valore del generale milanese Pino, Lissoni rivendica che agli italiani sia riconosciuta la “nostra parte di gloria. Essa è un debito che ha la Francia verso di noi”.
Seguirono poi Fatti storici militari dell’età nostra (in 4 volumi pubblicato a Milano fra il 1837 e il 1840) e il Compendio della storia militare italiana dal 1792 al 1815, (Torino, 1844), pubblicato in appendice alla traduzione italiana del volume di E.Marc Saint-Hilaire, Storia popolare aneddotica e pittoresca di Napoleone e della Grande Armata
Il suo scopo era di esporre le gesta militari dei soldati italiani, senza entrare nel merito della strategia, perché “dove erano gli italiani là maggiori furono le difese, glorioso il combattere.. a confronto con l’azioni dei francesi”. In particolare esalta il coraggio dei soldati toscani e del 28° reggimento dei cacciatori a cavallo, nelle battaglie di Smolensk e della Moscova, mentre rivolge critiche severe a tutti i marescialli di Napoleone, pur riconoscendo la grandezza dell’Imperatore. Ma, a differenza di De Laugier che rimase sempre fedele a Napoleone, aveva maturato una profonda avversità verso tutto quello che fosse francese: “dove erano gli italiani questi hanno fatto tutto, ma hanno raccolto solo ingiurie e ingratitudine”.
Seguirono nel 1847 la Storia delle militari imprese dei soldati italiani dal 1796 al 1814 e la Storia di tutta l’Allemagna (una traduzione del tedesco che conteneva una particolare descrizione delle guerre napoleoniche dal 1793 al 1815) in 3 volumi, pubblicati fra il 1842 e il 1851.
Camillo Vacani invece aveva rivolto la sua attenzione soprattutto alla guerra di Spagna, con il volume Storia delle campagne e degli assedii italiani in Spagna dal 1808 al 1813, scritta da Camillo Vacani, maggiore dell’imperiale regio corpo del genio, pubblicato nel 1825. Non era storico, ma un cronista attento alla verità dei fatti; rivendicava imparzialità ma soprattutto italianità. La sua opera venne criticata in un volume anonimo (forse del De Laugier) nel 1828, mentre il Colletta lo aveva elogiato. Vacani pubblicò anche nel 1857 un testo in francese dedicato alla battagliasulMinciodell’8 febbraio 1814, fra il principe Eugenio e Bellegarde.
In quegli stessi anni vennero stampate altre memorie di minore interesse, fra cui: nel 1845 un’opera di Alessandro Zanoli, sulla MiliziaCisalpinaeitalianaconcennistoricistatistici dal 1796 al 1814 (contenente soprattutto notizie tecniche); fra il 1855 e il 1858 una Storia delle armi italiane dal 1796 al 1814 di Felice Turotti (troppo palesemente ispirata alle opere del De Laugier) e nel 1851 I napoletani alla guerra di Spagna dal 1807 al 1813 ed alla guerra di Russia nel 1812 e 1813, pubblicata a Napoli da Gennaro Marulli.
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Hanno invece un taglio memorialistico in cui l’esperienza in guerra si mescola con quella personale e intima, i due volumi delle Memorie di Francesco Baggi, edite da Corrado Ricci, Bologna, Zanichelli, 1898.
In effetti il testo originale del milanese Baggi era molto più lungo di quello pubblicato da Corrado Ricci. Appena concluso il percorso di studi a Carpi si arruolò nell’esercito napoleonico e partecipò a numerose battaglie nel 1805 e 1809, prima di rientrare a casa a Milano.
Nel 1810 entrò nelle Guardie d’Onore e dopo la nomina a tenente, nel 1812 venne inviato a Verona dove si riunivano le truppe italiane al comando del vice re Eugenio de Beauharnais per partecipare alla campagna di Russia. Dopo aver preso parte alla battaglia di Smolensk era giunto a Mosca, quindi aveva partecipato alla disastrosa ritirata durante la quale aveva patito inaudite sofferenze, e per trovare qualcosa da mangiare si era ridotto a rubare vettovaglie ai contadini. Nel percorso aveva anche riportato il congelamento di due dita del piede.
Ma il peggio doveva ancora venire perché fu catturato dai russi e tenuto prigioniero molti mesi, obbligato ad una marcia continua in quelle terre desolate. Poté rientrare in Italia solo nel 1815. Anche in lui l’esperienza nell’esercito napoleonico aveva fatto maturare una coscienza nazionale, tanto da spingerlo a partecipare ai moti del 1831 e del 1848.
In quel periodo videro la luce altre pubblicazioni di taglio autobiografico, come le Memorie del generale Guglielmo Pepe intorno alla sua vita e ai recenti casi d’Italia/scritte da lui medesimo, Parigi, Baudry Libreria Europea, 1847. Pepe era un rivoluzionario della prima ora, avendo partecipato alla rivoluzione napoletana del 1799, che gli era costata l’esilio. Dal 1810 combatté nella brigata napoletana in Spagna fino al 1813, quando venne chiamato alla campagna di Germania e partecipò alla difesa degli italiani prigionieri a Danzica nelle truppe napoletane. Nel 1820 aderì alla carboneria e fu costretto a fuggire a Londra, convinto assertore dell’indipendenza italiana che sostenne in un opuscolo anonimo pubblicato nel 1832 a Parigi.
Aveva invece un tono più descrittivo delle gesta di vari militari italiani, l’opera di G.Lombroso, Biografia dei primari generali e ufficiali, la maggior parte italiani,chesidistinseronelleguerrenapoleonichein ogniangolod’Europa, Milano, Libreria Sanvito, 1843.
Qualche tempo dopo vide la luce un controverso testo di Bartolomeo Bertolini ,“Il valore vinto dagli elementi. Storica narrazione della Campagna di Russia degli anni 1812-1813 e successivi fatti d’arme fino alla battaglia di Waterloo” . Prima di darlo alle stampe, l’autore lo aveva sottoposto al re Vittorio Emanuele II, dedicandoglielo. Il re accettò e in 5 anni, nel 1869, quando Bertolini aveva 102 anni, il lavoro fu consegnato in tipografia.
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Il volume è stato ripubblicato a cura di Ettore Fabietti nel 1940 (Mondadori) con il titolo: La campagna di Russia e il tramonto di Napoleone: 1812-15 Memorie di un veterano trentino
Il racconto di Bertolini presenta un tono romanzesco e avventuroso, tanto che molti particolari della sua vita appaiono incerti, spesso forzati e non documentati. Nato a Trento da una famiglia modesta, afferma di essersi arruolato volontario nelle legioni repubblicane, combattendo per la Rivoluzione con l’armata del Reno e in Vandea. Raggiunto il grado di Sergente dei granatieri nel 93° Reggimento, aveva seguito Napoleone in Egitto e successivamente combattuto ad Austerlitz.Tornato in Italia fu incorporato nel Reggimento cavalleggeri Principe Reale con il quale partecipò alla campagna del 1809 contro l’Austria, mettendosi in evidenza nelle battaglie di Raab e di Wagram. Nel 1812 a Pavia ebbe l’ordine di partire per la Russia nel IV Corpo d’Armata , in luglio promosso Capitano, poi aiutante di campo del gen. Saint-Germain.
La campagna di Russia viene descritta da Bertolini come una lunga avventura piena di sorprese, anche se afferma di raccontare solo episodi cui aveva assistito personalmente “nella loro semplice verità”.
Sarebbe riuscito a proteggere, insieme a pochi altri commilitoni, il conte Pino e il maresciallo Oudinot il 29 novembre quando erano stati circondati da cosacchi. Dopo aver descritto alcune battaglie, si vanta di aver avuto un colloquio personale con Napoleone a Mosca, nel quale avrebbe cercato di convincerlo ad abbandonare la capitale Russa entro settembre, per ritirarsi verso Pietroburgo , Minsk o Vilna. Catturato dai cosacchi per il tradimento di un castellano che lo aveva prima ospitato poi tradito, aveva vissuto gli stenti della prigionia, malmenato spesso e tenuto senza mangiare. Era riuscito a fuggire uccidendo il cosacco di guardia, e poi a ricongiungersi con l’esercito, anche se aveva continuato il viaggio per lo più da solo o con qualche compagno, in zone sconosciute e inospitali.
Partito insieme alla moglie, per risparmiarle troppi disagi l’aveva lasciata nella fortezza di Glogau, poi rimasta sotto assedio. Dopo essere riuscito a tornare dalla Russia, era stato mandato a Lodi al deposito di cavalleria, dove ricevette notizie del disastro di Lipsia e poi della caduta di Parigi, dell’abdicazione di Napoleone e del suo esilio all’Elba. Ma, appena saputo della fuga lo aveva seguito a Parigi, partecipando alla vittoria di Fleureus e alla disfatta di Waterloo.
La sua narrazione fu severamente contestata da Pietro Pedrotti, Emmert e Zieger su “Studi Trentini” del 1927, avanzando il sospetto che si fosse sostituito ad un altro soldato e di aver fatto la spia per l’Austria durante i moti del Risorgimento. Lo difese Ferdinando Pasini che pure ammetteva i suoi difetti, l’aria spavalda da guascone e un tono troppo fantasiosa nel raccontare aneddoti.
Nel suo saggio in “Studi Trentini”, dal titolo Bartolomeo Bortolini, Il sedicente “Veterano d’Oriente”, Pietro Pedrotti spiega le ragioni delle sue critiche. Lo considera un “parassita del culto napoleonico”, “non distintosi in fatti d’arme o in campagne, ma riputato qualche cosa in seguito alla sua continua e costante propaganda apologetica”. Ricostruendo la sua biografia stabilì che , dopo essersi stabilito a Lodi, venne arrestato nel febbraio 1831 per aver millantato la sua collaborazione con i moti unitari, ma, spaventato dalla polizia, si prestò a fare il delatore sui suoi compagni di lotta. Nemmeno le autorità austriache si fidavano però di lui, giudicandolo un ubriacone, violento e ostile all’Austria. Si vantava di aver ricevuto la Legion d’Onore, ma non aveva il brevetto.
Venne poi inviato a Gratz dove restò 8 anni. Qui era riuscito ad entrare in possesso delle carte dell’autentico capitano Bartolomeo Bartolini del reggimento Dragoni della Regina, morto prima del 1815, e prese a spacciarsi per lui, falsificando documenti. Aveva chiesto più volte alle autorità austriache di poter tornare a Trento, ma gli venne negata l’autorizzazione. Si stabilì poi a Trieste dove cominciò a scrivere due volumi pieni di falsità. Aveva mandato le sue memorie anche ad Alessandro Manzoni ricevendone un generico apprezzamento.
Nella stessa rivista venne pubblicato un testo di Bruno Emmert dal titolo Scritti di Bartolomeo Bertolini, con tutte le contestazioni dei fatti narrati, che risultavano palesemente falsi perché contenevano errori di date e persone.
Rimase invece a livello di progetto la pubblicazione delle Memorie del tenente di artiglieria Filippo Pisani, ferrarese, che furono stampate (in parte) in: Con Napoleone nella campagna di Russia. Memorie inedite di un ufficiale della Grande Armata, a cura di Carlo Zaghi nel 1942 che lo fece precedere da una importante introduzione dal titolo: Napoleone e gli italiani nella campagna di Russia. Partito per la campagna di Russia nel 1812 Pisani aveva avuto l’incarico di compilare il giornale di marcia da spedire mensilmente al ministro delle guerra. Lo scrisse e lo conservò in una scatola di ferro per preservarlo dall’umidità, ma lo perse al momento in cui venne catturato dai cosacchi e sottoposto a maltrattamenti che lo portarono quasi alla morte. Ne riscrisse una parte durante la prigionia - sotto la protezione del colonnello Savoini un italiano al servizio della Russia - e poi lo continuò nei vari ospedali in cui venne ricoverato a Vilna e Minsk, durante il viaggio da prigioniero verso l’interno della Russia. Alla fine della guerra tornò in patria, coltivando la nuova aspirazione all’unità nazionale, che lo spinse nel 1848 a partecipare alla difesa di Venezia, ma dopo la sconfitta tornò a Ferrara dove morì nel 1883 a 96 anni.
Rientrato in Italia nel giugno 1815, compilò un manoscritto contenente le sue memorie, ricontrollate su testi pubblicati nel frattempo: nella prima parte narrava la vicenda fino alla cattura nel corso della ritirata; nella seconda la prigionia, la terza doveva trattare del viaggio di rimpatrio. Un altro manoscritto – che si conservava nella biblioteca comunale di Ferrara – doveva forse servire alla stampa, progettata dal Pisani nel 1846.
Ma il testo era troppo lungo e ridondante, e non trovò chi lo volesse pubblicare, così rimase alla stadio di manoscritto: Carlo Zaghi, nel 1942 ne pubblicò una parte molto limitata eliminando le parti che ritenne ridondanti.
Quello stesso testo di Pisani è stato ripubblicato in tempi più recenti, nella versione di Zaghi perché l’originale nel frattempo è andato perduto, da Ernesto Damiani: In guerra con Napoleone. Memorie di Filippo Pisani, Russia 1812, nel 2006. Egli evidenzia l’intento quasi didattico di Pisani (la sua storia non è né aneddotica né cronachistica): racconta la sua prigionia per avvicinare il lettore a luoghi, genti, usi e costumi lontani, corredando il testo con disegni dei luoghi attraversati e schizzi che descrivono le torture subite dai cosacchi (che lo fecero marciare nudo nella neve).
In tempi più recenti molti Diari e corrispondenze sono stati stampati mano a mano che qualche studioso appassionato, o gli stessi discendenti di quei soldati li rintracciano negli archivi familiari e decidono di dar loro visibilità. La ricerca di manoscritti inediti in archivi pubblici e privati e biblioteche, ha portato negli anni a diverse pubblicazioni. Alcune sono di difficile reperimento, per cui non mi è chiaro se si tratti di lettere, diari o memoriali come l’opera di Zecchini, Un patrizio faentino nella campagna napoleonica in Russia: Giacomo Zauli Naldi¸ Faenza 1938. Sembra che ne esista una sola copia presso la Biblioteca di Faenza. Invece in tempi più recenti sono state pubblicate testimonianze come:
Lettera di un contadino pisano coscritto mercenario sotto le bandiere napoleoniche (1812-1814), a cura di Nedo Rossi, in “Rivista di studi livornesi”, Belforte Editore, 1971, pp. 117- 134.
Il bracciante pisano, Gaetano Zanobini, entrò come coscritto nel 113° di linea, in sostituzione del patrizio Ulisse Bardi, per 2.940 franchi, da versare a rate, parte alla famiglia, parte da inviare allo stesso Gaetano. Il coscritto inviò 20 lettere, che non scrisse di suo pugno perché analfabeta, ma dettò a qualche compagno, nelle quali descriveva le varie tappe di trasferimento verso il fronte di guerra, oltre a lamentarsi dei ritardi nell’arrivo della ricompensa. Partì da Viareggio alla fine di dicembre 1812, poi raggiunse Genova, Torino, Orlèans (dove rimase per circa 2 mesi) e Parigi dove venne assegnato alla guarnigione. I primi di ottobre fu inviato ad Orléans, dove rimase fino alla fine di dicembre 1813. All’inizio di gennaio aveva raggiunto Troyes da dove scrisse la sua ultima lettera, preannunciando che stavano per mettersi in marcia per raggiungere l’armata. Della sua restante vicenda militare non si sa nulla, ma nel 1817 risultava ancora assente da casa.
A. Malerba,1811-1814. Il carteggio con la famiglia di due piemontesi arruolati nelle armate napoleoniche, in “Studi piemontesi”, 1984, n.2.
Ilio Calabresi, Le memorie del veterano napoleonico Paolo Fabbrini, pubblicate
In guerra con Napoleone
Memorie di Filippo Pisani
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Russia 1812
a cura di Ernesto Damiani
-in Lingua degli uffici e lingua del popolo nella Toscana napoleonica, pubblicato nel 1985.
Nordpress, 2006
Fabbrini (detto Chiò Chiò) era di Montepulciano (una cittadina in provincia di Siena), di professione calzolaio e venne chiamato con la coscrizione del 1809 a far parte del 113° di linea. Morì nel 1876.
Nella biblioteca di Montepulciano sono raccolti 16 frammenti, in genere ripetitivi, in cui in un impasto di chianino senese, italiano letterario e francese, dice di narrare solo gli avvenimenti bellici a cui aveva partecipato: nella campagna di Spagna una battaglia contro gli inglesi presso la riva del mare e azioni repressive contro bande di spagnoli insorti; il precipitoso rientro in Francia nell’ottobre 1812, la repressione della congiura di Malet (avrebbe fatto parte del plotone di esecuzione), la partecipazione alle battaglie di Lutzen, Bautzen e Lipsia dove fu gravemente ferito.
La narrazione di questi stessi eventi, più organizzata e scritta in un migliore italiano, è stata rintracciata da Daniele Vergari fra le domande per ottenere la medaglia di Sant’Elena (presente nell’Archivio di Stato di Firenze come copia di quelle trasmesse a Parigi e andate distrutte in un incendio). Una nuova fonte documentaria già analizzata da Vergari, e pubblicata solo in parte. Fabbrini non compare nell’elenco dei soldati cui la medaglia venne concessa, eppure la sua testimonianza sembrerebbe attendibile.
Inviata nel 1856, inizia con omaggi deferenti alla memoria del “nostro immortale Napoleone I°”. Descrive le stesse fasi della guerra, da quella in Spagna, alla congiura di Malet, la partecipazione alla battaglia di Lutzen e a quella di Lipsia nella quale restò ferito gravemente ad una gamba, rischiò di essere catturato dai cosacchi, fino all’avventuroso attraversamento del fiume grazie ad un cavallo prestatogli da un capitano francese. Dedica infine alcune pagine alla descrizione della battaglia di Lutzen.
D. Presotto, Coscritti e disertori del Dipartimento di Montenotte, lettere ai familiari (1806-1814), Editrice Liguria, 1990.
A.Viti, Memorie istorico-medico-chirurgiche di un chirurgo aretino nell’armata di Napoleone, medico illustre a Montevarchi e nel Valdarno Superiore, a c. di Paolo Bonci, pubblicato nel 1994.
Nel 1808 fu arruolato nel 28° reggimento dei Cacciatori a Cavallo, da dove venne assegnato come chirurgo all’armata che nel 1812 partecipava alla campagna di Russia, poi a quelle di Germania e di Francia del 1813 -1814 quindi nella fortezza assediata di Glogau in Slesia. Per la sua partecipazione alle guerre napoleoniche aveva ricevuto la medaglia di S.Elena.
Il diario iniziava nel 1813, alternando informazioni sull’andamento della guerra e sui suoi interventi chirurgici. Si trovò presente alle battaglie di Lutzen e di Bautzen, nonché all’assedio della Fortezza di Glogau dove si scatenò un’epidemia di scorbuto. Rientrò in Toscana nel giugno 1814.
A.Panaja, Souvenirs di un Ussaro pisano al servizio della Francia. Lettere di Burgundio Leoli, sous Lieutenent dans le 9me Rég.t des Hussards à Cheval (1810-1814), ETS, Pisa 2003.
Il giovane nobile pisano Burgundio Leoli entrò nel reggimento degli Ussari non per la coscrizione obbligatoria né come volontario per ambizione militare, ma sembra per la ripicca di Elisa Baciocchi, di cui era stato paggio, per essere stata respinta. Così lo spedì in Alsazia, nella piccola città di Selestat, in attesa di partire per la Russia. Il piccante episodio è confermato da Lazzareschi nella sua biografia di Elisa e da Pietro Loi in un breve saggio.
Nel volume si pubblicano le lettere intercorse con i suoi familiari, conservate nell’archivio della famiglia Leoli che iniziano il 31 maggio 1812 da Bologna, da dove partirà per Milano, poi per l’Alsazia attraverso il Sempione. Quindi il noioso soggiorno a Selestat dal 22 giugno 1812; le forti spese per dotarsi della divisa da ussaro e per acquistare un cavallo a Strasburgo. Continuò a scambiare lettere con la famiglia fino al novembre 1812. Poi a dicembre fu spostato ai confini con l’Olanda, vicino a Dusseldorf, per rientrare a Selestat alla fine del mese, perché erano in corso i preparativi per la partenza verso Berlino. Nel viaggio fecero sosta a Magonza, poi raggiunsero Ulm nel giugno 1813. Qui avvenne l’incontro con le Guardie d’Onore toscane, reduci da intensi scontri con i cosacchi, che gli raccontarono della morte di due giovani conoscenti, il Pesciolini e il Norci, in seguito ad una cannonata che li aveva uccisi entrambi il 2 aprile 1813 sul fiume Elba nei pressi di Magdeburgo. A luglio raggiunsero Erfurt diretti a Dresda dove aspettavano di essere passati in rivista da Napoleone. Nelle lettere continuava a narrare la quotidianità, la tranquillità nel soggiorno a Gruneberg, durante l’armistizio; ma poi con la ripresa delle ostilità la sosta in un bivacco a 4 leghe da Dresda e la partecipazione ad una battaglia rivelatasi disastrosa per i francesi che si erano ritirati nelle vicinanze, rimanendo per 40 giorni di guardia, obbligati a dormire all’aperto, senza rifornimenti.
Memorie istorico-medico-chirurgiche di un chirurgo aretino nell’armata di Napoleone, medico illustre a Montevarchi e nel
Valdarno Superiore
Antonio Viti
Assessorato alla Cultura e Biblioteca comunale di Terranuova Bracciolini, 1994
Infine aveva partecipato alla ritirata, raggiungendo Coblenza il 10 novembre 1813, dove si erano fermati in un villaggio sulle rive del Reno. Qui si concludeva la corrispondenza, perché il 4 gennaio 1814, a 19 anni, moriva in un ospedale di Hasselt per una “febbre putrida”, forse tifo.
F. De Caprio, Nell’esercito di Napoleone, Un modenese dalla Dalmazia alla Russia, Società Dante Alighieri e Archivio di Stato di Spalato, Spalato, 2010.
Si tratta del carteggio fra Paolo Magelli e il fratello Giustiniano conservato alla Biblioteca Estense di Modena, composta da 145 lettere. Aveva prestato servizio dal 1804 (nei Veliti della Guardia Reale di Eugenio) al 1814: in Dalmazia dal 1806 al 1808 in cui narrava della crudeltà dei montenegrini e i cannoneggiamenti degli inglesi dal mare. Partecipò alla battaglia di Castelnuovo di Cattaro e alla repressione della rivolta in Tirolo; nel 1809 alla campagna in Ungheria e Austria, prendendo parte alla battaglia di Wagram nel luglio. Successivamente venne inviato a Vienna, dove si ammalò e restò un mese in ospedale.
Nel 1812 descriveva le varie fasi della campagna di Russia, dal concentramento delle truppe a Verona, all’arrivo in Polonia che lo colpì per miseria, poi la marcia verso Mosca. Qui descriveva con dettagli l’incendio della città abbandonata, dove fece bottino di una notevole quantità di argento, del valore di 4.000 franchi. Non poté poi godere del furto, perché il materiale era troppo pesante e lo dovette abbandonare durante la ritirata. In alcune lettere si fa riferimento al fratello Cesare, chirurgo militare, che nel 1806 venne fatto prigioniero nel Regno di Napoli e recluso in Inghilterra a Portsmuth, sui pontoni. Anch’egli, come altri ex soldati napoleonici, dopo la restaurazione partecipò ai moti del 1831 a Modena.
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Da Bautzen al Volga. Diario di un ufficiale italiano dell’esercito napoleonico, a c. di Associazione Amici del Museo Stibbert, Tenente Alberto Beccio, 2019.
Il diario, che è stato acquistato sul mercato antiquario, si presenta come un “Giornale di prigionia” , con appunti quotidiani che non sembrano essere stati rielaborati. La sua cattura, insieme all’intera brigata di cui faceva parte, avvenne il 19 maggio 1813 nei dintorni di Bautzen. Come ufficiale ebbe un trattamento privilegiato rispetto ai soldati, anche se soffrì spesso la fame per le scarse distribuzioni di cibo, mentre alcuni soldati morirono di fame. Il gruppo era forzato a sostenere marce quotidiane, esposti alla pioggia, in un clima gelido che ne fece morire alcuni di freddo.
Attraversarono la Polonia per arrivare al confine con la Russia. Di quel territorio lo sorprese la grande quantità di ebrei, che facevano pagare ogni cosa carissima. Nel dicembre 1813 il gruppo dei prigionieri attraversava sulle slitte sterminati campi innevati, battuti da un vento gelido.
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A maggio 1814 cominciarono a circolare voci sull’occupazione di Parigi, quindi venne la conferma della caduta di Napoleone. Ciò permise al gruppo di cominciare il lungo viaggio di ritorno verso l’Italia. Solo nel novembre 1814 raggiunsero i confini con la Galizia austriaca, e da qui cominciarono a ricevere una paga. Ma le distanze erano ancora grandissime: alla fine di dicembre passarono per Budapest e a gennaio 1815 raggiunsero Lubiana. Solo il 18 febbraio 1815 arrivarono a Milano.
Come si vede gli autori italiani finora pubblicati (in forma e anni diversi) sono pochi, di cui quasi la metà toscani.
Oggi cresce il numero delle testimonianze toscane con la pubblicazione del Diario di guerra dal 1812 al 1814 della Guardia d’Onore Giuseppe Bargagli di Siena, che ho curato e stampato grazie all’Associazione Napoleonica d’Italia e all’Accademia Senese degli Intronati. Questa pubblicazione contiene una prima parte in stile Memoriale e una seconda costituita dal Diario, integrata con alcune corrispondenze private rintracciate negli archivi.
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Entrato come volontario nelle Guardie d’Onore della Granduchessa Elisa nel 1809, per poter sfuggire alla coscrizione, rimase a Firenze per alcuni anni svolgendo le funzioni cortigiane di accompagnamento alla sovrana. Pensava che non avrebbe mai fatto la guerra, ma nell’agosto 1812 venne chiamato a partecipare alla campagna di Russia. La prima parte della testimonianza è redatta a posteriori (perché anche Giuseppe come Pisani perse in un agguato di cosacchi il Diario quotidiano che aveva scritto fino ad allora), e descriveva il viaggio di trasferimento del battaglione fino a Varsavia. Successivamente passò nell’esercito regolare entrando come sottoufficiale nel 16° reggimento dei cacciatori a cavallo. Non prese parte a grandi battaglie, ma piuttosto alla guerriglia con i cosacchi che costrinse il suo battaglione a continui spostamenti, a vivere al bivacco, pronti a difendersi in caso di agguato.
Dal 19 ottobre 1813 inizia il Diario vero e proprio, quando condusse il suo Deposito di soldati feriti e malati nella fortezza di Neuf-Brisach sul Reno, che dal gennaio 1814 vene posta sotto assedio.
Rispetto a quelli più famosi, questo assedio è poco conosciuto, direi quasi ignorato dalla storiografia. Eppure vi si trovarono rinchiusi 4.000 militari, con
Laura Vigni
Associazione Napoleonica d’Italia e Accademia Senese degli Intronati, 2021
le inevitabili difficoltà nei rifornimenti, la diffusione di malattie epidemiche, l’inizio delle diserzioni. Le notizie sull’andamento della guerra arrivavano incerte e contraddittorie; malgrado l’arrivo di un rappresentante del nuovo re Luigi XVIII, il generale comandante Dermoncourt non voleva credere alla caduta di Napoleone. Finché il 20 aprile tutti gli ufficiali furono invitati a firmare il riconoscimento del nuovo governo. Giuseppe scrisse: come italiano presterò giuramento al mio sovrano, dimostrando di aver anche lui maturato un nuovo sentimento di appartenenza nazionale. L’assedio finì e progressivamente Neuf Brisach si vuotò, ma Giuseppe ebbe ancora qualche incarico militare, finché non fu ufficialmente congedato. Da quel momento si sentì libero di viaggiare e approfittò per visitare tranquillamente Parigi. Da persona colta qual’era , amante del teatro, della musica e dell’arte partecipò a concerti e spettacoli, osservando e descrivendo tutto quello che vedeva con grande interesse e competenza.