VILLA ADRIANA di
Ingrid Berniga Dotras Cristina Bonzanni Ilaria Feraco Fulvia Gariboldi Antonella Mora
707716 707804 708106 707739 708871
Politecnico di Milano, A. A. 2008/2009 Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica Prof. Daniele Vitale
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VILLA ADRIANA La tipologia come “idea platonica� di Ingrid Berniga Dotras 707716
Politecnico di Milano, A. A. 2008/2009 Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica Prof. Daniele Vitale
Indice
Premessa
pag. 03
Tipologia Questione tipologia
pag. 04
Tipologia e funzione
pag. 08
Aldo Rossi: tipo, archetipo e figura primaria
pag. 10
Villa Adriana Villa e idea
pag. 15
Villa e tecnologia
pag. 17
Il teatro Marittimo: centro della villa e di una ideologia
pag. 21
Bibliografia
pag. 24
Il catalogo delle forme è infinito: fino a che ogni forma avrà trovato la sua città, nuove forme continueranno a nascere. O. M. UNGERS, L’architettura della memoria collettiva, 1979
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Premessa
Platone è il primo a fare dell’”idea” il perno del suo sistema filosofico, ponendo le basi di tutta la storia della filosofia occidentale. Bisogna intendere però l'idea platonica non come “concetto” bensì come “forma”. L'idea platonica sottintende un’uniformità naturale, in cui alle diverse manifestazioni degli oggetti fa capo un’unica forma pura, o “idea”, che le accomuna tutte, in maniera simile a un modello o un archetipo. E’ partendo da questo concetto che questo breve saggio vuole prima attraverso l’analisi del termine tipologia in senso lato, poi più specificatamente analizzando la figura di Aldo Rossi e dell’imperatore Adriano dimostrare che ogni grande architettura è tale, solo se conseguenza di un’astrazione di rimando tipologico desunto dalla storia dell’architettura senza spazio e senza tempo. La parola tipo presenta l’idea d’un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello e non è prima dell'architettura ma gioca un suo proprio ruolo nella creazione dell'architettura. L'architettura di Aldo Rossi è una continua ricerca di elementi primari, talmente elementari da ricordare i semplici solidi geometrici, ma da essi molto lontani perché questi vengono desunti dalla storia dell'architettura, dall'analisi dell'immenso “catalogo” dell'architettura dalle origini ad oggi, non sono forme astratte calate nella realtà, ma astrazioni da forme costruite. E il nodo della questione, dopo averle individuate, è la possibilità del loro impiego nel progetto nella maniera più coerente con loro il passato e più prolifica per il futuro. Lo stesso fa Adriano perché dalle architetture costruite in precedenza, da lui largamente studiate e ammirate, tenta la via della sintesi, lavorando sulla figura senza semplicemente impiegarla coerentemente alla sua logica formale o costruttiva e indipendente dalla sua destinazione. In seguito a queste osservazioni, possiamo considerare Adriano oltre ad un grande innovatore del suo tempo anche un grande precursore dell’architettura contemporanea.
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Tipologia
Questione tipologica Con la questione della tipologia “questione tipologica” si è soliti indicare tutta quella parte del pensiero architettonico che si è confrontato con il problema di una individuazione condivisibile del significato di tipo. Comunemente l’inizio della riflessione esplicita su questo tema si fa risalire tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo ad opera di A.C. Quatremère de Quincy e alla definizione che egli stesso ne da alla voce Type, nell’Enciclopédie Métodique - Architecture (1788 e 1825). Uno degli elementi di maggiore sollecitazione alla trattazione di questo tema sono state le affermazioni di G.C. Argan Sul concetto di tipologia architettonica1, in cui si sostiene un sostanziale dualismo all’interno del processo creativo dell’architettura.
Argan inizia col richiamare la
definizione di Quatremère de Quincy del termine tipo, che tutt’ora è da considerarsi in larga misura condivisibile e precisamente: «Si adopera eziandio qual sinonimo di modello, quantunque vi abbia fra essi una differenza facile a comprendersi. La parola tipo non presenta tanto l’immagine d’una cosa da copiarsi e da imitarsi perfettamente, quanto l’idea d’un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello. Così non si dirà punto (od almeno non dovrebbe dirsi) che una statua, una composizione d’un quadro terminato ha servito di tipo alla copia che se n’è fatta; ma se un frammento, uno schizzo, il pensiero d’un maestro, una descrizione più o meno vaga, abbaiano dato origine nella immaginazione d’un artista ad un’opera, si dirà che il tipo ne è stato a lui fornito con una tale o tal altra idea, per un tale o tal altro motivo od intendimento. Il modello, inteso secondo la esecuzione pratica dell’arte, è un oggetto che si deve ripetere tal qual è; il tipo è, per lo contrario, un oggetto, secondo il quale ognuno può concepire delle opere, che non si rassomiglieranno punto fra loro. Tutto è preciso e dato nel modello; tutto è più o meno vago nel tipo2». Argan nella definizione della voce Tipologia dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, spiega ampiamente ciò che si possa intendere per tipologia in senso lato, inserendo anche l’accezione secondo la quale ne fanno parte la classificazione degli elementi base dell’architettura (porte, 1 G. C. ARGAN, Progetto e destino, il Saggiatore, Milano 1965. 2 A.C. QUATREMERE DE QUINCY, voce Type, Encyclopèdie Mètodique- Architecture, Paris 1788, 1825, 3 vol., traduzione italiana di A. MAINARDI, Mantova 1844, 2 vol. pubblicata in «Casabella», gen.-feb. 1985, n.509510 4
finestre, colonne, ornamenti ecc.) e alcune categorie nell’ambito delle arti applicate in relazione alla loro ripetizione seriale. E non casualmente in questa prima parte sottolinea che il ruolo del tipo sia di carattere eminentemente classificatorio e sostanzialmente indifferente rispetto alla collocazione storica del singolo caso preso in esame e al relativo giudizio estetico; già qui si può leggere la pregiudiziale che verrà applicata nella formazione del concetto di tipologia architettonica. Poggiando anche sulle argomentazioni di Quatremère de Quincy cerca di superarle proponendo un’idea della tipologia come momento fondativo del processo creativo nella sua parte iniziale e “non- problematica”, indiviuandone poi una seconda nella “definizione formale” come fase problematica in quanto portatrice di un inevitabile giudizio di valore. Precisamente sostiene che «la posizione dell’artista nei confronti della storia ha due momenti: quello della tipologia e quello della determinazione formale, che tuttavia non può farsi coincidere, per l’architettura, con quello dell’ornato, sia perché esiste una tipologia specifica dell’ornato, sia perché la determinazione formale investe necessariamente anche la struttura innovandola rispetto al tipo. Il momento della tipologia è il momento non problematico, quello in cui l’artista pone certi dati, assumendo come fondamento o premessa del proprio progettare un’insieme di nozioni comuni o un patrimonio di immagini, con i loro più o meno espliciti significati ideologici ed il loro incontestabile contenuto di figuratività. Il momento della definizione formale, a sua volta, implica ancora, in una prima fase, il riferimento a valori figurativi del passato , sui quali si forma un giudizio di valore»3. E continua specificando che il «momento dell’accettazione del tipo è un momento di sospensione del giudizio storico; e come tale è momento negativo, ma “intenzionato” nel senso della formulazione di un nuovo valore in quanto, per la sua stessa negatività, pone l’artista nella condizione di dover procedere a una nuova ideazione formale, cioè affrontare la fase attiva , e non più soltanto informativa, della sua progettazione. Per tali motivi, la serie dei tipi forma oggetto della trattatistica architettonica; la quale almeno nel periodo della sua massima fioritura ed efficacia, non ha carattere normativo e prescrittivo ma, piuttosto, ausiliare e sussidiario dell’operazione artistica e cioè mette a disposizione dell’artista un insieme di morfologie e di costrutti sintattici senza troppo limitare la possibilità di varianti e di combinazione»4 La perplessità rispetto a questa posizione essenzialmente si riferisce alla interpretazione di sostanziale neutralità del concetto di tipo a alla reale possibilità di un effettivo sdoppiamento del processo compositivo e creativo. Il tipo infatti non esiste in astratto, ma anche quando viene 3 G. C. ARGAN, voce Tipologia in Enciclopedia Universale dell’Arte, Istituto per la collaborazione Culturale, Venezia 1958- 1967 4 G. C. ARGAN, Enciclopedia, op. cit. 5
considerato come parametro classificatorio di una determinata categoria di forme esso non può spogliarsi della propria storia e del carico di implicazioni che ne derivano. Inoltre appare quanto meno artificiosa la possibilità di scindere in fasi distinte un processo, quello della composizione architettonica, necessariamente non lineare e consequenziale; esso è infatti un chiaro esempio di continua concezione di ipotesi, loro immediata verifica e critica da cui si torna alla riformulazione delle prime e così via. Quella del progetto è dunque una modalità di azione caratterizzata da un forte grado di critica e di interscambio continuo tra
ideazione e
concretizzazione, tanto da rendere poco credibile non solo la compartimentazione temporale dei processi, ma certo anche una eventuale sospensione di tale attività di giudizio critico. Non si dovrebbe inoltre dimenticare che se il figurale, in questo caso l’architettura, ha un ”essenza” di carattere sostanzialmente sintetico, quindi unitario, non costituita dal binomio forma/contenuto, allora non sarà possibile scindere questa entità, come invece sostiene Argan, in un elemento non problematico e impersonale, la tipologia, ed uno che indichi il ruolo attivo e valutativo dell’autore, la definizione formale. Infatti, come egli stesso sostiene in un passaggio dello scritto5, la scelta di una tipologia è anche indirizzo verso una forma; ci si chiede dunque come si possa operare in una direzione piuttosto che in un’altra senza compiere di fatto una scelta definibile, in ultima analisi, figurativa in senso lato. Proprio il concetto di figura fornisce un valido supporto alla confutazione di tale concezione parcellizzante: in realtà infatti, i due elementi protagonisti della composizione, tipologia e figurazione (con la presenza imprescindibile della “storia”) non sono separabili, poiché il loro processo di sintesi costituisce l’unità della figura che si realizza. Il giudizio di valore, quindi, non può non esistere nel momento in cui ci si confronta con una tipologia, non astrattamente, come schema, ma nel suo concreto storico e nella sua evoluzione (metamorfosi).
5 In riferimento particolare alla organizzazione distributiva degli organismi edilizi e a quella urbanistica sempre in G.C. ARGAN, Enciclopedia, op. cit. 6
G. B. Piranesi, Campo Marzio dell’antica Roma.
J. N. L Durand, Insieme di edifici risultanti
dalle
divisioni
del
quadrato, del parallelogramma e delle loro combinazioni con il cerchio.
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Tipologia e funzione Per ciò che riguarda la relazione tra tipologia e funzione, e il ruolo della funzione in architettura in senso lato, bisogna precisare che ci si muove in ambiti diversi: uno di carattere più generale che coinvolge funzione, tipo e figura e un altro più specifico e adatto alla classificazione necessaria per uno studio sistematico. Per la prima questione è interessante osservare come Giudo Canella metta in relazione le diverse componenti: «Dal punto di vista compositivo, delle
figure,
dei
occorre
tentare
il
recupero
sintagmi dell'architettura, attraverso il loro graduale e fondato riscatto
dal rapporto di soggezione al catalogo della storia; occorre tentare il recupero finalizzato a un loro impiego, nella composizione architettonica, capace di coinvolgerne insieme all'emblema, il comportamento ad esso obbligato. Soltanto così, promovendo la scelta della figura a un tutt'uno con la scelta del tipo, essa è in grado di costituirsi in programma contro la separazione, per un diverso e nuovo comportamento, per un diverso e nuovo rapporto tra pubblico e privato, tra collettivo e individuale, eccetera. Soltanto così, infatti, il lavoro sulla forma viene ad assumere una straordinaria importanza, perché, con una scelta conoscitivamente fondata, l'architetto può assecondare, fino a vincolare, il rispetto, appunto, di un preciso programma, di una decisiva trasformazione. Lavorare sulla figura significa, allora, tentare la via della sintesi a fine di relazione e di facilitazione al comportamento e non semplicemente impiegarla, coerentemente alla sua logica formale o costruttiva e indipendentemente dalla sua destinazione. Perciò, in questo lavoro, non si devono trovare i presupposti di una tendenza nella scelta di figure simili valide dappertutto, ma essi vanno verificati in intenzioni e direzioni comuni di conoscenza, capaci di riconoscere e conquistare un contesto nuovo all'architettura»6. Si concentrano qui diversi concetti, condensati in una tensione operativa rivolta non a utilizzare forme per "gusto" o compiacimento, appunto formale, ma a sottolineare come la costruzione di un solido e concreto legame tra forma, tipo e funzione dia origine, in ultima analisi, a ciò che qui si intende per figura. Essa è infatti quella sintesi conoscitiva che le arti figurative (e l'architettura non fa eccezione) hanno quale differenza ontologica dal discorso. In altri termini, ovviamente, anche Aldo Rossi sottolinea che «la spiegazione dei fatti urbani mediante la loro funzione sia da respingere quando si tratti di illuminare la loro costituzione e 6 G. CANELLA, Cinque ipotesi di progettazione, Dispensa della Facoltà di Architettura di Milano 1969; ripub. in «Controspazio» n° 5-6, 1972. 8
la loro conformazione. [...] Occorre dire subito che questo non significa respingere il concetto di funzione nel suo senso più proprio; quello algebrico che implica che i valori sono conoscibili uno in funzione dell'altro e che tra le funzioni e la forma cerca di stabilire dei legami più complessi che non siano quelli lineari di causa ed effetto che sono smentiti dalla realtà. Qui si respinge appunto quest'ultima concezione del funzionalismo, dettata da un ingenuo empirismo, secondo cui le funzioni riassumono la forma e costituiscono univocamente il fatto urbano e l'architettura. [...] Funzionalismo e organicismo, le due correnti principali che hanno percorso l'architettura moderna, rivelano così la propria radice comune e la causa della loro debolezza e del loro fondamentale equivoco. La forma viene così destituita dalle sue più complesse motivazioni: da un lato il tipo si riduce a un mero schema distributivo, un diagramma dei percorsi, dall'altro l’architettura non possiede nessun valore autonomo. L’intenzionalità estetica e la necessità che presiedono ai fatti urbani e ne stabiliscono i complessi legami non possono venire ulteriormente analizzate»7. La critica più evidente è nei confronti di un certo genere di funzionalismo che tendeva a certificare la forma in virtù della funzione attraverso un processo meccanicistico; mentre la tipologia viene declassata a impianto distributivo assumendo così, al contempo, una valenza formale. La tipologia invece si fa interprete delle destinazioni d'uso (funzioni) che si trova di volta in volta ad accogliere e ciò spiega anche il fatto che spesso edifici che sorgono con un preciso scopo, e nel tempo vengono ad ospitare tutt'altre attività, non perdono certo né credibilità né qualità in questi cambiamenti, grazie alla intrinseca versatilità della tipologia assunta. Importante a tale proposito porre l'accento sul fatto che una stessa tipologia possa essere impiegata per assolvere funzioni totalmente diverse con il medesimo grado di attendibilità, poiché la scelta tipologica non è determinata dalla destinazione funzionale, ma è parte di una serie più ampia di fattori che determinano la qualità e le caratteristiche ultime dello spazio architettonico. Per ciò che riguarda il secondo aspetto, il legame tra funzione e tipologia, inteso in modo forzatamente strumentale e letterale, è spesso utile per ordinare una serie di tipi in base ad una particolare destinazione d'uso, per osservarne eventuali maggiori ripetizioni in un ambito o evidenziare consuetudini generate da ricorsi storici o da particolari attitudini intrinseche.
7 A. ROSSI, Critica al funzionalismo ingenuo, in L’architettura della città, Clup, Milano 1978 9
Aldo Rossi: tipo, archetipo e figura primaria In Rossi si ritrovano la divisione tra morfologia urbana e tipologia edilizia, quella tra edilizia comune e quindi diffusa, per massima parte di carattere residenziale, e una "eccezionale" e pubblica che diviene determinante per la costruzione dei "fatti urbani", a ciò si aggiunge la ricerca del tipo come minimo comun denominatore tra una serie di oggetti esaminati, esso viene dunque inteso come la costante che, al di la dei fattori contingenti (linguaggi, stili, funzioni), li renda confrontabili e relazionabili tra loro. Questo non certo in base ad una osservazione schematica « identificare il tipo con la distribuzione è una svista grossolana»8. Ma cercando di procedere sulle opere per via di togliere, riducendo ognuna all'idea, o meglio all’archetipo di quella specifica tipologia. Scrive infatti che: «nell’architettura (modello o forma) vi è un elemento che gioca un suo proprio ruolo; quindi non qualcosa a cui l’oggetto architettonico si è adeguato nella sua conformazione ma qualcosa che è presente nel modello. Esso è infatti il modo costitutivo dell'architettura. In termini logici si può dire che questo qualcosa è una costante. Un argomento di questo tipo presuppone di concepire il fatto architettonico come una struttura; una struttura che si rivela ed è conoscibile nel fatto stesso. Se questo qualcosa che possiamo chiamare l’elemento tipico o più semplicemente il tipo è una costante, esso è riscontrabile in tutti i fatti architettonici. Esso è quindi anche un elemento culturale e come tale può essere ricercato nei diversi fatti architettonici: la tipologia diventa così largamente il momento analitico dell’architettura, ed essa è ancor meglio individuabile a livello dei fatti urbani. Questo processo di riduzione è un’operazione logica necessaria, e non è possibile parlare di problemi di forma ignorando questi presupposti. Anche se più che di processo di riduzione, per cui logicamente il tipo sarebbe il nucleo dell'architettura, è più corretto parlare di processo di identificazione in quanto il tipo non è prima dell'architettura ma gioca un suo proprio ruolo nella creazione dell'architettura. In questo senso tutti i trattati di architettura sono anche dei trattati di tipologia e nella progettazione è difficile distinguere i due momenti»9. Rossi stesso sottolinea come la tipologia sia una componente fondamentale del progetto, non separabile dalle altre fasi del suo 8 A. ROSSI, Tipologia, manualistica, architettura, in AA.VV., Rapporti tra morfologia urbana e tipologia edilizia, Cluva, Venezia 1966. 9 A. ROSSI, Tipologia, manualistica, architettura, in AA.VV., Rapporti tra morfologia urbana e tipologia edilizia, Cluva, Venezia 1966. 10
farsi, nonostante ponga fortemente l’accento sul
suo carattere analitico e di strumentale
rispetto ad uno stadio più sintetico e “creativo”. Inserisce poi un ulteriore elemento di riflessione: «Io penso quindi al concetto di tipo come a qualcosa di permanente e di complesso, un enunciato logico che sta prima della forma e che la costituisce. [...] nessun tipo si identifica con una forma anche se tutte le forme architettoniche sono riconducibili a dei tipi. [...] il tipo è dunque una costante e si presenta con caratteri di necessità; ma sia pure determinati, essi reagiscono dialetticamente con la tecnica, con lo stile, con il carattere collettivo e il momento individuale del fatto architettonico»10. Anche in questo caso lo studio tipologico non può essere disgiunto dalla poetica caratteristica di colui che lo conduce perciò, nonostante questa riflessione sia condotta tenendo conto dei diversi contesti storici, con valenza di variabili, il tipo assume un carattere di tale perentorietà fino ad ipotecare l'esito figurativo dell'opera in cui il suo ruolo è decisamente preponderante, in particolare nella condizione di riduzione all'elemento originario. La ricerca di un principio e di un conseguente ordine nello sviluppo dell'architettura è una delle caratteristiche distintive dell'opera di Aldo Rossi: «Ne discende che i problemi dell'architettura, in quanto tali, sono unici e non ha senso dire che i problemi dell'architettura antica siano diversi dai nostri; mentre ha un senso estremamente concreto dire che le occasioni dell'architettura antica erano diverse dalle nostre. Ciò che riesce difficile è cogliere come queste condizioni siano diverse; si pensi per esempio al problema tipologico dove spesso la modificazione è intesa solo in senso quantitativo o dimensionale o tecnologico mentre le diverse dimensioni hanno un senso solo se operano un salto qualitativo»11. Si possono osservare, qui riassunti, temi certamente rilevanti come l'idea appunto secondo cui vi siano dei principi universalmente validi, che permangono nel tempo e lo attraversano lasciandosi influenzare da esso da un lato, restando riconoscibili e sempre uguali a se stessi dall'altro. Uno di questi è certamente la tipologia, intesa da Rossi quasi come "idea platonica" che non ha spazio ne tempo perché travalica entrambi. L'architettura di Rossi è una continua ricerca di elementi primari, talmente elementari da ricordare i semplici solidi geometrici (cubo, cono, cilindro, parallelepipedo, sfera, ecc.), ma da essi molto lontani perché questi vengono desunti dalla storia dell'architettura, dall'analisi dell'immenso "catalogo" dell'architettura dalle origini ad oggi, non sono forme astratte calate 10 A. ROSSI, L'architettura della città, Clup, Milano 1978 11 A. ROSSI, Introduzione a Boulleé (1967) in ETIENNE- LUOIS BOULLEÉ, Architettura. Saggio sull’arte, Einaudi, Torino 2005 11
nella realtà, ma astrazioni da forme costruite. E il nodo della questione, dopo averle individuate, è la possibilità del loro impiego nel progetto nella maniera più coerente con loro il passato e più prolifica per il futuro. Determinante è la capacità di lavorare anche sugli elementi figurativi per riduzione, esattamente come avviene per il tipo; ma questa apparente elementarità nasconde uno studio approfondito e instancabile, perché l'ordine e il rigore in questo caso non vengono dalla semplicità delle azioni ma sono icona dell’essenza del progetto e di tutto il processo che lo ha prodotto. Così già da piccoli esempi come nel restauro e ampliamento della scuola elementare De Amicis di Broni, dove l'avancorpo di ingresso è posto come simbolo stesso “dell'entrare”, del varcare una soglia attraverso l’uso dei trilite (elemento ricorrente a varia scala anche incastonato nei fronti, ma sempre fortemente riconoscibile). Nei progetti più articolati, tema dominante diviene la composizione di diversi tipi in un unico organismo in cui la ricerca di un equilibrio passa attraverso l'autonomia di ciascuno e la contemporanea impossibilità di eliminarlo se non a scapito dell'insieme. Le parti divengono così essenziali per il tutto mantenendo ciascuna le proprie peculiarità. I tipi più ricorrenti in queste composizioni sono la pianta centrale di solito "pura" come elemento cilindrico o a pianta poligonale regolare, la corte, la combinazione tra corpi longitudinali. Le soluzioni figurative rispecchiano profondamente questa impostazione e ad esempio nella scuola media di Broni la pianta centrale e autonoma, leggibile, ma non prevarica gli altri corpi, anzi mantiene uno stesso timbro figurativo in modo da sottolineare la propria differenza non con il linguaggio ma con la propria “essenza”, cioè il proprio tipo (o meglio archetipo). Lo stesso Rossi accenna alla relazione tra tipo e forma: «Nella casa d'abitazione il rapporto tra il tipo e la forma e sempre più stretto e io credo di poter indicare attraverso alcuni esempi le sole soluzioni possibili. Mi sembra che uscendo da queste soluzioni (ammesso che sia possibile) si creino solo delle varianti. Io stesso penso di cadere in queste varianti e credo che sia meglio attenersi a un tipo unico e ripetibile variante solo per condizioni al contorno. Questo avviene anche per i materiali e persino per i colori poiché non vi è molta scelta tra i colori che sono propri ad un materiale» 12. E ancora «riguardo alla forma sono sempre stato attirato da una forma chiusa e compiuta come dal disastro della forma; questo è forse difficile da capire ma credo che tra una posizione e l'altra non vi sia una grande differenza. Come il confine tra l'astrazione e il naturalismo, in altri termini la tendenza a riprodurre ciò che esiste. Quando questo avviene con piccoli spostamenti o deflagrazione il risultato è particolarmente 12 A.ROSSI, Case unifamiliari a Goito (1979) in (a cura di Alberto Ferlenga), Aldo Rossi opera completa 19591987, vol. I, Electa, Milano 1987. 12
interessante»13. Prova ulteriore del legame fondamentale tra riflessione tipologica ed esito figurativo è visibile anche nella diffusa incomprensione e travisamento del lavoro di Rossi da parte di coloro che, pensando di poterne adottare facilmente il linguaggio, hanno involontariamente sottolineato una volta di più come siano decisivi non solo il talento e la sensibilità personali, ma soprattutto la profondità di pensiero e la capacità di instaurare solide relazioni al di là di immagini superficiali. L'equivoco è nato soprattutto dalla apparente, appunto, semplicità dei componenti figurativi usati da Rossi, ma semplicità ed elementarismo non coincidono certo con un atteggiamento semplicistico, al contrario scaturiscono da un costante e serio lavoro di approfondimento e ricerca.
A. Rossi, Scuola Media a Broni, pianta generale, prospetti e piante e prospetti del corpo esagonale
13 A. ROSSI, Questi progetti, in (a cura di Alberto Ferlenga), Aldo Rossi opera completa 1959-1987, vol. I, Electa, Milano 1987. 13
A. Rosssi, Scuola Mediaa a Broni, schizzzo di progetto.
A. Rosssi, Ristrutturaziione scuola elementare de Amicis di Broni, vista corte intterna.
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Villa Adriana
Villa e idea Il concetto che spesso si sente ripetere: “Adriano volle fare una villa, ma in realtà fece una città” contiene nascosto l'altro: “l’autocrate Adriano, per la sua megalomania, non riuscì a fare una villa”. Non si capisce perché, se Adriano volle costruire una villa, quello che ci ha lasciato debba essere una città. Certo che fu una villa. Fu una villa imperiale romana del II secolo. Siamo piuttosto noi che non avendo le categorie mentali di confronto per questo tema architettonico andiamo magari a scomodare Versailles e Luigi XIV per tratteggiare gli eredi e l'ellenismo per delineare gli antenati in raffronti poco centrati sia dal punto di vista storico sia da quello architettonico. L'estensione della Villa d'altra parte non deve stupire: ci sono esempi nella stessa zona di ville di alcuni secoli più vecchie la cui area costruita si aggira intorno ai 6 ettari. Villa Adriana era certamente bella, ma oltre a questo era anche un organismo perfetto fatta per essere la dimora di un dio o almeno qualcuno che come tale voleva vivere. Dal momento che le tendenze antiquarie di Adriano, che sono un elemento basilare del suo progetto culturale, tradotte in campo estetico hanno indotto a vedere contenuto in Villa Adriana una sorta di “Museo Immaginario”, costituito di copie di tute le epoche dell’arte greca, non pare fuori luogo la suggestione che porta a considerare Adriano con categorie del pensiero moderno e suppone in lui un atteggiamento archeologico, riconoscibile nelle visite a monumenti e luoghi famosi compiute durante i suoi viaggi.14 Più che una residenza imperiale essa era una piccola, perfetta città. In essa vi era tutto quello che si poteva sognare: aree imperiali; grandi quartieri di rappresentanza e alloggi servili; vi erano edifici, palazzi, terme, teatri, caserme, palestre, e persino un’arena per i giochi gladiatorii. Il tutto era inframmezzato da giardini e ampi parchi alberati e si estendeva su un’area di ben 126 ettari15. Ogni luogo con il suo carattere e con la sua identità in competizione con quello che gli stava vicino, in contraddizione ma anche in una situazione di arricchimento reciproco. Era un concetto pluralistico, ogni edificio situato, pensato, progettato e costruito seguendo delle sue proprie regole ed un suo ordine. Ogni parte della città nasconde una scoperta, è progettata come un unico sito, è 14 P. G. GUZZO, Antico e archeologia. Scienza e politica delle diverse antichità, Minerva Edizioni, Bologna 1993 15 E. SALZA PRINA RICOTTI, “Villa Adriana nei suoi limiti e nella sua funzionalità”, Rendiconti Pontificia Accademia di Archeologia XIV 1982 15
un insieeme di even nti, di pezzi,, di frammeenti in confl flitto, che in nteragiscono o, completan no e di qui condenssano il conteesto urbano.16 La pian nta di Villa Adriana A è stata paragon nata dai crittici dell’arch hitettura al p piano degli alloggi per studentii a Enschedee, progettato o nel 1963 da d Ungers e Sawade. Ci sono o infatti mollte ovvie so omiglianze ed i principi delle due piante p non ssono solo siimili ma in conclusiione coinciddono. I pian no esprime una u città quuasi in miniaatura con co omponenti ed e elementi tratti daa piani di citttà reali. I compo onenti ed elementi soprracitati sono o gli archetip pi, le immagiini e le idee primordiali che si dice siano geeneralmente ereditate e comuni a tuutti gli uomini, sono con ntenuto nelll’”inconscio collettivo” (C.J. Jun ng). Questi simboli prim mordiali, chee sono signiificativi in tuutti i tempi eed in tutte le l epoche e che si possono ritrovare in molte form me, nella leetteratura, nell’arte n e n nell'architettuura, questi archetip pi formano le l città. Cosicch hé la città è una storia di fondazio one e trasfo ormazione di d un tipo aall’altro, un continuum morfolo ogico. Villa Addriana, come il piano degli d alloggi per studentti a Enschedde, come un na città o un na qualsiasi compossizione archiitettonica, non è un quaadro uniform me ma un viivido insiem me di pezzi e frammenti 1 di tipi e controtipi.17
G.B. Piiranesi, Pinta di Villa Adriana
O.M. Ungers, J. J Sawade, casa ddello studente a Enschede, E 1963
16 O. M.. UNGERS, L’architettura L d memoria collettiva, della c Lotuus Internation nal, n°24, 19779 17 O. M. UNGERS, L’architettura L d memoria collettiva, della c Lotuus Internation nal, n°24, 19779 16
Villa e tecnologia Chiunque visiti Villa Adriana non può non restare abbacinato dalla sua bellezza: la piacevolezza del posto, l’imponenza delle sue rovine, l’azzurro dei suoi numerosi specchi d’acqua creano un’atmosfera indescrivibile. Se poi si pensa a come essa dovesse essere prima che il lento e continuo decadimento lo spogliasse dei suoi marmi, delle sue statue e dei suoi mosaici, ci si rende conto che questa magnifica residenza imperiale fu una cosa unica: un sogno fatto pietra. Ma Villa Adriana non è soltanto armonia e poesia, e Adriano, l’imperatore, non fu grande soltanto nel concepire la perfetta bellezza che come architetto fu capace di creare: egli superò anche il suo tempo con geniali intuizioni tecniche. Un topos convalidato è quello per cui architettura adrianea significa uso spregiudicato della copertura a volta. La stessa “tipologizzazione” delle cupole finisce coll'essere dimostrazione di perizia tecnica (perizia che peraltro si dimostra da sola) ed avallare quel concetto di virtuosismo architettonico fine a sé stesso che banalizza ed impoverisce la lettura del messaggio adrianeo. Nella realtà la situazione è molto più complessa e densa di significati e valori che hanno intessuto ed intessono ancora l'architettura d'Occidente. Prima di Adriano esisteva una cultura architettonica fondata sull'uso del calcestruzzo che, pur con le varianti proprie dell'ottica progettuale dei costruttori romani, aveva basi collaudate da tempo. Essa si fondava sull'accostamento dominante di cellule quadrangolari e conseguente parallelismo delle pareti; sulle coperture con volte a botte massive nelle sostruzioni, a tetto o terrazza nelle parti abitative; su interi organismi penetrati da assi ottici impossibili da ripercorrere fisicamente, con continuità; su percorsi ortogonali a pettine; sulla scarsa differenziazione dei vani e la prevalenza di un ambiente sugli altri a livello distributivo, sulle prese di luce primarie verticali (atri e peristili) e secondarie con diverse modulazioni (finestre lucifere a strombo variamente direzionate) in una casistica tanto ricca da non poter essere canonizzata. Accanto a questa corrente già pienamente attestata nella tarda repubblica, ne stava, però, nascendo un’altra, portatrice di un differente senso della spazialità. Ne sono testimonianza gli ottagoni della Domus Aurea neroniana e del Palazzo dei Flavi sul Palatino che inseriscono in strutture complesse di impianto tradizionale sconvolgenti ritmi centralizzanti, giocati come nel caso neroniano sull'uso spregiudicato dei percorsi diagonali. Si tratta comunque di esempi tra loro inconfrontabili per funzione, dimensioni, struttura, condizione di illuminazione, accessibilità, collocazione nell'organismo architettonico e per la stessa profonda diversità di considerazione che ne ebbero i progettisti. Sono elementi accomunati dalla geometria della pianta e quasi sempre dal tipo di copertura (il padiglione poligonale), ma anche questo vorrebbe dir poco se non avessero in comune la imprevedibilità dell'effetto spaziale: finché non si fosse entrati non si doveva essere in 17
grado di prevederne l'esistenza. Non si tratta mai di dissonanze accidentali ma sempre accuratamente programmate. Inoltre, trovandosi a svolgere ruoli profondamente diversi nell'organismo costruttivo, sfuggono fortunatamente a qualunque tentativo di inquadramento tipologico che vada oltre il loro essere ottagoni, affermandosi come espressione di un nuovo modo di sentire lo spazio. Si avverte, dunque, l'esistenza di una corrente alla quale forse appartennero gli architetti di Nerone e di Domiziano, di una avanguardia che, consapevole delle potenzialità plastiche del calcestruzzo, lo impiegava per esercitare una maggiore indipendenza dal vincolo costruttivo. L'uso della muratura in calcestruzzo, cioè quella che impiega la malta di calce come legante del pietrame che forma i muri, durava ormai da quasi cinque secoli e la padronanza di impiego era ben matura nelle diverse sfumature. I progressi tecnologici in questo campo erano basati quasi esclusivamente sul miglioramento della qualità delle componenti, sull'accuratezza della confezione e sulla tendenza a raggiungere l'equilibrio tra le grandi masse murarie. Non si deve mai dimenticare che le volte romane erano massive, cioè piene, di notevole spessore e di peso grandissimo. Esse, per reggersi, avevano bisogno tanto di una sapiente progettazione quanto della migliore esecuzione. Un altro concetto da rammentare è quello della doppia anima dell'architettura romana, per cui quasi mai una fabbrica si reggeva per le ragioni che apparivano a prima vista. Una crociera poteva sembrare sorretta da mensole aggettanti o da colonne sottoposte ai pennacchi ma, oggi che le mensole sono spezzate e le colonne asportate, la volta intatta è ancora lì. Perché in realtà quel tipo di volta scaricava le spinte in punti differenti da quelli che si enfatizzavano appunto con mensole e colonne. Adriano conobbe sicuramente queste nuove tendenze espresse materialmente nelle residenze imperiali che frequentava e probabilmente, stando almeno al racconto dello scontro con Apollodoro, partecipò anche attivamente alle polemiche che la nuova problematica provocava. Ma con Adriano cosa succede in architettura? Si tende con maggiore frequenza a far coincidere l'asse ottico con quello di percorso ma spostando quello su questo per ottenere una frantumazione delle visuali (Piccole Terme, Tempio di Venere a Baia), e quindi la possibilità di sorprese spaziali; si ha lo sfruttamento del valore della quarta dimensione (il tempo necessario per conoscere l'edificio) ed una certa gerarchizzazione dei vani; vengono impiegati con valenza di cerniere interi organismi (Teatro Marittimo) o singoli ambienti; si ricorre a complessi disposti secondo assi diversi per sfruttarne, quasi in una sfida compositiva, i valori dissonanti. La spazialità, come è naturale, coinvolge organicamente planimetrie ed alzati (corridoi più bassi dei vani di sosta ecc.) consentendo una maggiore coerenza scalare e conferendo a tutto il complesso una più accentuata articolazione senza però dare la prevalenza ad un unico vano, 18
anzi, sceegliendo uno o scorrimen nto fluido deello spazio. Si S tende inveece a mantenere uniform me il piano di calpesstio. Tutto questo q mettee in gioco, accentuando a lo, il fattoree sorpresa, acccuratamentte ricercato attraversso accorgim menti smalizziati come corridoi c con n soffitti in n piano e p porte archittravate che immetto ono in vani coperti con volte a omb brello (Vestiibolo della Piazza P d'Oro o); attenzion ne costante a masch herare all'esterno la fo orma internaa voltata e gonfia in modo m che restasse imp prevedibile (Piazza d'Oro, Seraapeo, sale teermali ecc.); corridoi vo oltati a bottee che immettono attravverso porte asimmettriche in ecccezionaiità spaziali; s scheermature otttenute con colonnati c un niti da archii su pulvini (Grandi Terme, Terrme con Heliocaminus); accostamen nti di simmeetrie e asimm metrie, distriibuzioni su schemi radiali; r corriidoi di racco ordo; vani un no dentro l'aaltro. Si appro ofondisce anche a la ten ndenza allo sfondamen nto della paarete aprenddo vedute sui s giardini (spesso il fenomeno interessa anche i serrvizi igienici)) e si tendee ad abolire la falsa arcchitettura e quella dipinta. d L'illuuminazione è più ricca e diffusa con c aperturaa delle finesstre nelle ren ni dei vani voltati. A questo si accompagn nano soluzio oni anticlasssiche come appiombi a dii pennacchi su vani di porta (P Piccole Term me), ingressi asimmetricii su corridoi absidati, pulvini su cap pitelli per acccogliere le spinte degli d archi, crociere c sosp pese su men nsole e voltee a ombrello o appoggiatee solo formalmente su colonnee a parete. La rivolluzione di Adriano A in ultima u analissi è consistitta nell'aver permesso p a chi aveva qualcosa q di nuovo da d dire di diirlo, senza per p questo so offocare le voci v antichee, se valide. Accogliend do nella sua villa le molte tenddenze dell’epoca, egli diede d una certa prevaalenza a queelle che, giiustamente, considerrava come appartenenti a al futuro.
Grandi Terme, Villa Adriiana
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Vestibolo Piaazza d’Oro, Villla Adriana
Serapeo del C Canopo, Villa Adriana
Paantheon, Roma
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Il teatro Marittimo: centro della villa e di una ideologia La rivoluzione nell'architettura romana non avvenne comunque né con Nerone, né con Domiziano e tanto meno con Traiano, ma con Adriano: prima di lui tentativi, anche egregi, ma solo sintomi del futuro cambiamento di rotta. L'equilibrio adrianeo si rivelò, oltre che nella politica, anche nell'architettura: egli non volle stravincere e proprio nella sua villa lasciò che si applicassero, a ridosso di una vastissima gamma di schemi nuovi, anche grandi esempi di costruzioni tradizionali (Palazzo Centrale). Così, insieme al Pantheon, eresse il Tempio di Venere e Roma che, se escludiamo la planimetria, ebbe la tradizionale copertura lignea a doppio spiovente e le pareti in opera quadrata. L'apparente eccezionalità delle soluzioni architettoniche di alcuni complessi di Villa Adriana suggerisce di indagarne retrospettivamente i probabili modelli di riferimento. Riesce infatti innegabile che ciascun tipo edilizio presente nella Villa fosse già attestato in precedenza; tuttavia completamente differente è la modalità secondo cui gli elementi noti riconfluiscono innovativamente a costituire un tessuto nuovo. Il paradigma ineludibile per la villa tiburtina è rappresentato dalle regge di età ellenistica, nei cui confronti essa è debitrice prima di tutto della spazialità pressoché urbana: la modellazione del paesaggio per terrazzamenti ricalca i dislivelli studiati ad arte dei complessi palaziali di Pergamo, mentre Fillusoria dispersione degli edifici si ispira alla planimetria aperta e mutevole dei palazzi di Alessandria, immersi in un calcolato e sempre vario compenetrarsi di paesaggio costruito e di natura ricreata. Non solo il contesto complessivo, ma le singole componenti costitutive della villa tiburtina si riconnettono tutte a tale tradizione, recepita, spesso anche solo episodicamente, nelle ville di età repubblicana: le turres, i triclinia, gli horti e le ambulationes, gli edifici di spettacolo, ricorrevano nell'edilizia palaziale ellenistica. Un elemento inconsueto che incuriosisce ogni visitatore è il Teatro Marittimo, questo edificio datato al 123, di forma circolare, racchiuso entro un anello d'acqua, comprende un atrio, un impianto termale, un tablinum, e vari ambienti di uso incerto, tutti volti su un peristilio a lati inflessi: una piccolissima isola collegata con la terraferma tramite due ponti. Se nella tradizione degli studi si è imposta la lettura romantica del vagheggiato isolamento, la forma ha dato adito alle più diverse proposte esegetiche: il tempio di Abido, forse neppure noto ad Adriano, il mercato di Sparta, pure circondato dall'acqua, ma privo di reali nessi funzionali, l'Atlantide del platonico Timeo, l’isola dei Beati, il Pantheon18. In ragione dell'elemento acquatico, immediato si impone il 18 E. CALANDRA, Memorie dell’effimero a Villa Adriana in Adriano: architettura e progetto, Electa, Milano 2000 21
rimando alla siracusana reggia dei Dinomenidi, sull'isola di Ortigia, nella quale Dionisio il Vecchio si ritaglia uno spazio in una piccola isola ricavata entro la più grande; analogamente, ad Antiochia sull'Oronte, un settore del palazzo si trovava su un'isoletta nel fiume, e ad Alessandria lo scoglio di Antirrhodos, posto di fronte al porto privato dei re, accoglieva una dimora regale munita di porticciolo. L'insularità è dunque una scelta ideologica prima che residenziale, e come tale si perpetua nella sfera imperiale: esule in gioventù a Rodi, Tiberio in vecchiaia vive sull'isola di Capri, dopo aver consegnato il proprio messaggio figurativo all'apparato statuario odissiaco del ninfeo-triclinio di Sperlonga, che ha come cuore programmatico la cenatio fnaritima: su una piccola isola entro lo specchio d'acqua. Ma soffermandoci nuovamente sulla sua forma vorrei analizzare come la pianta centrale che riproduce in certo senso l'armonia dei cosmo: la cupola rappresenta la volta celeste, i quattro archi che la sorreggono nascono dai “lati” dello spazio cubico sottostante che riproduce la realtà terrena, e i quattro bracci identici e absidati che si aprono “equamente” verso tutte le direzioni sottolineano in “nuovo rapporto tra il divino e l’umano”. In questo caso specifico si distacca da questo significato sacrale divenendo qualcosa di diverso. Adriano è da considerarsi innovatore e grande precursore dell’architettura moderna perché dalle forme costruite in precedenza, da lui largamente conosciute e studiate tenta la via della sintesi, lavorando sulla figura senza semplicemente impiegarla coerentemente alla sua logica formale o costruttiva e indipendente dalla sua destinazione. Potremmo quindi affermare che il Teatro Marittimo è un elemento dell’antichità risultato di una operazione di astrazione di rimando tipologico desunto dalla storia dell’architettura senza spazio e senza tempo (la pianta centrale), che diventa “idea platonica”.
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Teatro Maarittimo, Villa Adriana
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Bibliografia
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VILLA ADRIANA Villa Adriana anticlassica di Antonella Mora 708871
Politecnico di Milano, A. A. 2008/2009 Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica Prof. Daniele Vitale
VILLA ADRIANA ANTICLASSICA
Indice pag. 3
Premessa
pag. 4
Significato del classico
pag. 7
Villa Adriana e le altre ville romane
pag. 11
Esempi di edifici anticlassici nella Villa
pag. 17
Villa Adriana: un incontro tra culture diverse
pag. 23
Conclusione: Adriano come Schinkel
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“ Fra le tante definizioni che possiamo dare e che sono state date alla classicità, io aggiungerei questa che trova il suo fondamento nella filosofia non solo greca: l’ essenza e il disegno della classicità sono la ricerca della felicità”. Luciano Semerani, L’ Altro Moderno , Torino, 2000
Hans Lauter, Gli Coo, ginnasio. Peristilio
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Premessa Da quando mi è stato affidato come tema di laurea lo studio e l’analisi di Villa Adriana presso Tivoli,
non ho potuto fare a meno di scontrarmi fin da subito con una grande quantità di
interrogativi e paradossi. Utilizzo il termine “paradossi” perché le risposte alle prime domande che mi sono posta sembravano indicarmi questa conclusione. Non capivo come fosse possibile che la villa di uno dei tanti imperatori romani, realizzata nel periodo più florido dell’architettura romana antica, potesse discostarsi così tanto, per impianto e concezione progettuale, dalle altre costruzioni a lei contemporanee. Non mi sembrava possibile trovarmi di fronte ad un’opera definita con il nome di “Villa” e poi constatare invece che, per dimensione ed estensione, con le altre ville romane aveva ben poco a che fare; presentava invece maggiori somiglianze con le città ellenistiche greche. Trovavo inoltre insolito il fatto che gli allineamenti degli edifici variassero così tanto tra di loro e non seguissero una regola ben definita, la quale invece era uno dei fondamenti caratteristici dell’architettura romana antica. Alla luce degli studi svolti nell’ultimo periodo ho capito che la chiave di tutto poteva essere ricercata nella riflessione sul significato del classico e nel riscontrarne la presenza o meno in Villa Adriana. Per verificare questa tesi ho operato confrontando il complesso della villa con le altre architetture antiche greche e romane del periodo. Con questo lavoro sul significato del classico in Villa Adriana penso di aver avuto l’opportunità di approfondire un tema molto caro sia agli architetti di oggi sia a quelli di ieri. Con le mie riflessioni mi auguro di rendere più chiaro uno degli aspetti caratteristici della villa, che l’ha sempre portata ad essere considerata un “unicum” nella storia dell’architettura. Mi rendo conto che il discorso è molto ampio e non è mia intenzione quella di fornire una conclusione definitiva al problema. Il mio obbiettivo piuttosto è quello di dare uno spunto di discussione per tutti coloro che si interesseranno al tema.
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Significato del classico Prima di iniziare il nostro percorso per stabilire se l’esempio di Villa Adriana sia da considerare classico o anticlassico proviamo a capire che cosa si intenda realmente con la parola “classico”. Una considerazione da fare sin da subito è che non esiste una definizione assoluta e precisa di ciò che si considera tale; nel corso dei secoli ogni epoca ha sostenuto una propria teoria a riguardo. Cerchiamo ora di fare un pò d’ordine. È per tutti certo che quando si parla di storia universale occidentale si parla proprio della storia antica classica. Le forme, la purezza, l’armonia delle architetture moderne e di quelle passate rimettono in luce i valori delle architetture classiche alle quali esse aspirano e di cui ne costituiscono il riferimento. Nell’immaginario collettivo la cultura classica è quella che si riferisce alla cultura greca e romana antica. Molti storici oggi sostengono che solo la storia e l’architettura greca sono alle origini del classico, ma questa visione non è del tutto corretta. Bisogna infatti considerare che la classicità greca ha avuto modo di far conoscere i propri valori e concetti base grazie ai Romani, ingiustamente denominati “Greci di secondo grado”1. È stato invece proprio l’Impero Romano che, grazie alla sua politica ed al suo operato, si è appropriato di quei valori ed ha creato il contesto adatto perché questi si diffondessero in tutto il mondo occidentale. Addirittura secondo alcuni l’arte romana è da considerarsi proprio il culmine dell’arte greca antica. Winckelmann afferma: “Quando parliamo di arte romana ci sbagliamo, perché è invece corretto parlare di arte greca sotto i Romani.”2 Anche se per poter apprendere le caratteristiche fondamentali delle opere Greche i Romani ne effettuarono delle copie, e per questo la loro arte venne considerata come arte classica non autentica, il loro grande merito fu quello di appropriarsi delle discipline dei Greci e adattarle ai propri scopi realizzando delle architetture tali da lasciare una traccia indelebile nella storia. A riguardo Loos afferma: “La nostra cultura si fonda sul riconoscimento della grandezza inarrivabile dell’antichità classica. Abbiamo assunto dai romani la tecnica del nostro pensiero e del nostro sentire; ai Romani dobbiamo il nostro sentimento sociale e la disciplina della nostra anima. Non è un caso che i Romani non fossero in grado di inventare un nuovo ordine di colonne o un nuovo ornamento: per fare questo erano già troppo avanzati. Essi hanno assunto tutto questo dai Greci, lo hanno adattato ai loro scopi.”3
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SALVATORE SETTIS, Il futuro del classico, Einaudi, Torino, 2001. SALVATORE SETTIS, Il futuro del classico, Einaudi, Torino, 2001.
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LUCIANO SEMERANI, L’Altro Moderno, Allemandi, Torino, 2004.
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Attualmente si assiste ad una continua storpiatura del mondo classico. Da un lato esso viene posto su un piedistallo come se fosse qualcosa di estremamente perfetto e ormai concluso che non ha più niente a che vedere con noi. Ciò fa in modo che la cultura antica classica sia considerata solo come un repertorio di immagini e di forme al quale attingere per poterle poi riutilizzare nel mondo moderno attraverso una copiatura filologica e quindi priva di interpretazione. Questo atteggiamento porta alla morte del classico, che non può rimanere altro che un ricordo lontano e distaccato del nostro passato. Dall’altro lato si assiste invece ad una continua dimostrazione e sottolineatura dei limiti che il classico porta con sé. Anche questa volontà di “demolizione” e “separazione” della storia antica dal nostro presente porta inevitabilmente ad una sua sepoltura. Le domande che allora ci nascono spontanee sono: che cos’è quindi il classico? Qual è e quale è stato il giusto modo di rapportarsi ad esso? Per rispondere partiamo da una citazione di Settis, al quale il tema trattato è molto caro: “È classico quel qualcosa che si rifà ad un periodo storico culturale ben preciso e ormai concluso in sé, ma che può continuare a vivere grazie ad un suo ritorno nel presente.”4 Questa frase ci fa capire chiaramente la peculiarità unica del classico: il suo continuo rinascere e morire. La cultura classica si distingue dalle altre culture antiche (per esempio orientali) proprio per la sua capacità di ripetersi ciclicamente nel corso della storia e di ritornare a vivere attivamente in ogni epoca. Il classico è stato più presente nel nostro passato di quanto noi ci possiamo immaginare. Detto questo ci resta quindi da capire cosa di conseguenza si intenda per “classicismo”. Il primo periodo storico di rinascita del classico avviene con il Rinascimento. Ciò che gli artisti e gli intellettuali classicisti fecero fu quello di riprendere in mano l’antico e riutilizzarlo nelle proprie opere reinterpretandolo e mischiandolo con valori nuovi e tipici anche di altre culture. Nel ripristino del linguaggio antico i più famosi classicisti che si ricordino furono i neoclassici (tra i tanti ricordiamo Palladio come uno dei maggiori). Il processo di riutilizzo del classico nel moderno viene spesso confuso e ridotto ad un esercizio di mera copiatura di modelli Greci e romani. A tal proposito i razionalisti del movimento moderno si opposero fortemente a questa tendenza e condannando fortemente l’arido decorativismo richiamarono gli artisti all’auctoritas classica come esempio significativo ed illustre per le proprie opere, ma da adattare al proprio contesto storico.
SALVATORE SETTIS, Il futuro del classico, Einaudi, Torino, 2001.
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Loos scrive: “Da quando l’umanità sente la grandezza dell’antichità classica, un solo pensiero accomuna i grandi architetti. Pensano così: così come costruisco io avrebbero costruito anche gli antichi romani. Noi sappiamo che hanno torto: tempo, luogo, scopo e clima nonchè l’ambiente circostante impediscono che questa intenzione sia realizzata. Ma ogni volta che l’architettura si allontana dal suo grande modello, attraverso i minori, i decoratori, c’è il grande architetto che la riconduce di nuovo all’antichità.”
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Definito il classico e il classicismo rimane ora da chiarire il significato di “anticlassico” che, intuitivamente potrebbe sembrare tutto ciò che si contrappone al classico o che contraddice ogni cosa che invece il classico afferma. In parte possiamo dire che questo è vero, ma d’ altro canto è giusto fare invece un’osservazione. Aiutiamoci con un esempio: durante il periodo di diffusione della grecità classica in Italia (in particolare ricordiamo la zona della Magna Grecia) i valori tipici di questa cultura si mescolarono con quelli dei popoli italici e da qui, secondo alcuni storici, nacque la “grecità occidentale”. Questo passaggio per alcuni studiosi fu molto importante perché venne considerato come la prima reinterpretazione della classicità greca. Pirro Marconi propose un termine nuovo per chiamare quel nuovo genere di classicità greca: anticlassico. Ed ecco quindi che con anticlassico si può arrivare a definire una grecità non autentica, ma spontanea, intrisa di aspetti classici tradizionali e aspetti del tutto nuovi. L’anticlassico nasce proprio per permettere di applicare il classico al moderno. Vedremo a seguire che Villa Adriana è anticlassica sia per quest’ultima definizione di anticlassico, sia perché il suo impianto e le sue regole di composizione architettonica si discostano nettamente da quelle classiche del periodo.
LUCIANO SEMERANI, L’Altro Moderno, Allemandi, Torino, 2004.
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Villa Adriana e le altre ville romane Vediamo ora di concretizzare quanto detto in precedenza comparando Villa Adriana con alcuni esempi di ville romane del suo tempo.
Avendo capito cosa s’intende per classico e cosa per
anticlassico dobbiamo guardare a questo confronto in modo critico e non aspettandoci di riscontrare nell’ impianto di Villa di Adriano qualcosa di completamente nuovo e mai visto. Ricordiamo infatti che in essa vengono ripresi degli aspetti caratteristici dell’ architettura classica romana e delle ville romane , ma mescolati e reinterpretati in modo assolutamente nuovo ed unico. A riguardo il critico M. L. Rinaldi scrive : “La rivoluzione nell’architettura romana non venne né con Nerone , né con Domiziano , né tantomeno con Traiano, ma con Adriano. La sua rivoluzione è consistita nell’aver permesso di introdurre cose nuove , ma senza eliminare le voci dell’antichità”6. La villa romana nasce intorno al II secolo a.C. come complesso formato da residenze e paesaggio agrario. Le tipologie di ville più conosciute sono le tipologie di ville rustiche, situate in zone collinari lontane dalla città. Le attività prevalenti dei proprietari erano quelle di otium e riposo. In particolare esistono due tipi diversi di ville: le ville a blocco, che si diffusero a partire dal II secolo a. C. fino alla metà del I secolo a.C., e le ville a nuclei sparsi, caratterizzanti il periodo che va dalla metà del I secolo a.C. al III secolo d.C. Come possiamo intuire Villa Adriana rientra nella seconda tipologia di costruzioni. A differenza delle ville a blocco che venivano concepite secondo una struttura regolare e chiusa, le ville a nuclei sparsi non si basano su una regola fissa, ma si fondano su piccoli complessi edilizi sparsi nell’area di progetto. In generale la seconda tipologia si adatta bene alle morfologie territoriali di difficile insediamento. Queste ville sorgono quindi in luoghi a picco sul mare o lungo pendici di colli.
Villa Numisia, esempio di “villa a blocchi”, II sec. a. C,
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Villa Punta di Sorrento, esempio di “villa a nuclei sparsi”, I sec. d.C.
M. L. RINALDI, Villa Adriana, Milano, 1998
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Il rapporto natura-edifici per i romani è di particolare rilievo ed è per tale ragione che le residenze fuori città vengono realizzate in punti panoramici strategici per poter godere di tutta la bellezza del paesaggio naturale. Anche in Villa Adriana il rapporto tra il costruito ed il territorio circostante è di fondamentale importanza e viene però affrontato in modo diverso da quello classico Romano. L’imperatore non solo non si attiene alla tradizione di costruire in un luogo di particolare pregio nella vista dell’ager tiburtino, ma sceglie una zona addirittura climaticamente mediocre. Inoltre il rapporto villa-natura che in essa viene trattato è del tutto nuovo: Adriano non si limita solamente a creare i classici giardini e ninfei all’interno dei peristilii come fanno tutti, ma realizza un vero e proprio progetto “urbanistico”, forse addirittura da considerarsi un parco naturale. Prendendo ora in considerazione alcune ville più o meno contemporanee a Villa Adriana vediamo cosa si può notare. Osservando gli impianti si riscontra subito una mancanza di definizione, di limiti e di confini in Villa Adriana. Negli altri complessi si riconoscono un’ inizio e una fine progettuale, ma il nostro caso risulta essere un cantiere aperto, un’opera incompiuta. La grandezza e l’estensione della villa sono eccezionali e mai viste se confrontate con le altre. Adriano vuole realizzare un progetto in grado di racchiudere l’essenza di tutte le altre ville romane, ma la sua megalomania lo porta a distinguersi da tutti gli altri esempi. Egli pensa un’opera di dimensioni mai viste, anche se per lui rimane pur sempre una villa e non una città, come invece potremmo pensare noi oggi.
Planimetria di Villa Adriana, 117-138 d.C.
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Paragonando fra loro i vari progetti si assiste ad una chiara differenziazione dei caratteri distributivi delle costruzioni. In Villa Adriana è certo che le differenti fasi di realizzazione del complesso abbiano influenzato questo aspetto, ma è riconoscibile comunque una ferma volontà del committente nel concepire progetti diversi, eccezioni, giustapposte e interconnesse fra loro in modo atipico e anticlassico. Anche nelle altre ville a nuclei sparsi, in particolare quella di Stabia, i blocchi edilizi cambiano allineamento fra loro, ma questa operazione avviene in modo meno brusco e mantenendo un certo ordine spaziale molto più rigoroso che nella Villa. Nella Villa Oplontis e nella Villa di Orazio gli edifici seguono una precisa ortogonalità e le stanze si collegano sempre direttamente fra di loro attraverso peristilii e corridoi. Nel suo complesso Adriano mantiene sì una connessione tra i vari blocchi, ma per mezzo di percorsi a volte impercettibili, ponendo i nuclei costruiti in netto distacco tra loro. In questo processo diventano dei veri e propri protagonisti i cosiddetti “edifici cerniera”, esempio tra tutti il Teatro Marittimo, che agendo come una sorta di perni di rotazione permettono il passaggio da un nucleo all’altro riarmonizzando gli elementi dissonanti. Nelle ville classiche romane non si erano mai viste architetture con tale funzione; in questo Adriano è un vero innovatore.
Planimetria Villa di Stabia, metà I sec. d.C.
Planimetria Villa Oplontis, II sec. d.C.
Planimetria Villa di Orazio, I sec. d.C.
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Nella “villa unicum”7 si attua l’esaltazione della quarta dimensione e si stupisce il visitatore con l’utilizzo di assi ottici frammentati e non continui. Lo sguardo dello spettatore viene qui indirizzato da assi che raggiungono delle aperture e che permettono viste di scorcio di ninfei , giardini e piazze. Il progettista della villa sembra quindi dimenticarsi della simmetria e della centralità di ingressi e percorsi. Scendendo maggiormente nel dettaglio e analizzando più da vicino anche le tecniche costruttive utilizzate e le forme architettoniche, si constata l’esistenza di soluzioni decisamente anticlassiche. Osserviamo infatti la presenza di ingressi asimmetrici su corridoi absidati, pulvini su capitelli ideati per accogliere la spinta degli archi, volte a crociera sospese su mensole, volte ad ombrello appoggiate solo formalmente su colonne a parete. Anche l’assiduo utilizzo di absidi e nicchie, in certi casi sovrapposte fra loro, e il ripetersi di piante e disegni circolari sono assai insoliti. Per quanto riguarda gli ornamenti e il decorativismo della villa, non esistono casi eclatanti di anticlassicismo, ad eccezione della presenza, in alcuni edifici, degli appiombi di pennacchi sui vani delle porte. Proviamo ora a soffermarci nello specifico sulle dinamiche architettoniche di alcune fabbriche del complesso.
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E. SALZA PRINA RICOTTI, Villa Adriana : Il Sogno di un Imperatore, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001.
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Esempi di edifici anticlassici nella Villa 1. Il Teatro Marittimo Prima di trattare tale argomento mi preme sottolineare ancora una volta il fatto che non andremo ad analizzare degli edifici che nascono dal nulla, ma che appartengono alla tradizione dell’architettura romana antica; di questi però verranno messi in evidenza gli aspetti insoliti ed atipici che ne mostreranno una concezione ed origine anticlassica. Come accennato nel capitolo precedente nella villa si distinguono degli edifici detti “edificicerniera” e l’esempio per eccellenza è il Teatro Marittimo. Non è una novità la realizzazione di un edificio a pianta centrale circolare, ma la funzione e l’articolazione dei suoi spazi è del tutto singolare. Il complesso è da considerarsi una vera e propria isola. Costituto da un portico circolare con copertura a volte sostenuta da colonne, e da un fossato che lo isola dagli edifici vicini, il padiglione appare come una piccola villa dentro la villa. La presenza dell’acqua che separa il portico dalle restanti parti dell’edificio è qualcosa di mai visto nella tradizione degli edifici romani a pianta centrale. Il Teatro Marittimo non è un tempio, come la sua forma ci potrebbe far credere, ma un vero e proprio palazzo, anche se di dimensioni molto contenute. Nell’isolotto sono presenti piccole stanze connesse tra loro; le stesse che ritroviamo nelle residenze e domus romane. L’imperatore viveva questo padiglione proprio come se fosse il suo palazzo. Si riconoscono i bagni, la camera da letto, la sala e anche le piccole terme.
Tempio di Salonicco, esempio di edificio classico a pianta circolare,II sec.d.C.
Pantheon, esempio di edificio classico a pianta centrale, II sec.d.C.
Tempio della Sibilla a a Tivoli esempio di edificio classico a pianta centrale, I sec.a.C.
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Per accedere al complesso per mezzo del portico circolare non ci sono e non c’erano molti ingressi, bensì solamente due, posti lungo degli assi trasversali e non centrali rispetto alla disposizione del nucleo abitativo. Stranezza voluta? Sì, certamente; come anche voluta è stata l’originale forma dell’edificio ottagono nel cuore della piazza interna. A riguardo Pirro Ligorio scrive: “Nel mezzo della piazza d’esso fu un edificio ottagono molto bizzarro che per ogni lato faceva parte e nicchi di statue et altri repositori di Imagini”.8 In questo padiglione-residenza si assiste ad un’eccezionalità mai vista fino ad allora: rendere un edificio a pianta centrale circolare un piccolo palazzo residenziale. Adriano era talmente consapevole di ciò che stava realizzando che volle partecipare in prima persona al progetto del Teatro Marittimo e ultimarlo in pochissimo tempo. La bellezza di tale opera venne riconosciuta da molti artisti rinascimentali e neoclassici, Palladio stesso non poté fare a meno di riproporre questo esempio nelle sue ville ed in particolare nella sua famosa Rotonda.
Pianta del Teatro Marittimo di Villa Adriana, 117-120 d.C.
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E. SALZA PRINA RICOTTI, Villa Adriana : Il Sogno di un Imperatore, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001
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2. Edificio a Tre Esedre Soffermiamoci ora sul sistema di Triclinio più antico della Villa. Esso è formato dalla sequenza Palazzo Invernale, Stadio, edificio a Tre Esedre. Analizziamo l’ultima architettura citata. Come è facile notare dalla pianta anche in questo caso abbiamo a che fare con una pianta centrale circolare. La sua caratteristica fondamentale è di essere una grande aula circondata da tre peristilii a loro volta semicircolari, le cosiddette Tre Esedre. L’atipicità di carattere si riscontra da subito proprio nella forma della pianta dell’edificio. Effettuando delle ricerche all’interno della storia dell’architettura romana classica è stato possibile trovare due piante simili a questa; l’aula centrale delle Terme di Costantino sul Quirinale e la sala dell’ attuale Tor Chiesaccia. Entrambi gli esempi però sono cronologicamente postumi rispetto a quello presente in Villa Adriana. Appare quindi molto plausibile che fu la stanza delle Tre Esedre ad essere il riferimento per queste due costruzioni e non viceversa. I tre peristilii sono tenuti a giardino e al centro di ognuno di essi è presente una vasca d’acqua. La particolare composizione architettonica del padiglione non aiuta a capire quale sia stata veramente la funzione di tale architettura. Molti sostengono che sia stata una sala per banchetti e ricevimenti, ma la numerosa presenza di statue e opere artistiche al suo interno porta piuttosto a pensare che essa svolgesse la funzione di piccola pinacoteca imperiale.
Pianta Terme di Costantino, 306-337d.C.
Pianta dell’edificio a Tre Esedre.
Pianta Sala absidata, III sec d.C.
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3. Lo Stadio Come anticipato nel paragrafo precedente, vicino alla sala delle Tre Esedre si trova lo Stadio, anch’esso uno spazio utilizzato per i momenti conviviali e concepito come un giardino. Formalmente si discosta molto dalla tipologia classica dei giardini delle altre ville. Questi ultimi si sviluppavano principalmente secondo un asse centrale e alternavano la presenza di fontane e sale da pranzo. Nel giardino-stadio è invece presente un cortile centrale, sui lati del quale si aprono due aule. La caratteristica insolita è che lungo tutta la sua estensione verso nord non si trova alcun genere di giardino, fatta eccezione per due vasche con piante galleggianti. Nella parte sud si apre una sala che delimita e conclude l’intero complesso, e all’interno della quale si ritrova invece un grandioso giardino. Qui Adriano compie ancora una volta qualcosa di atipico e strepitoso: porta un giardino, che per tradizione è sempre stato concepito all’esterno, all’interno di un edificio, costituendone quasi una sorta di serra.
Pianta del complesso Triclinio Imperiale con a est la pianta dello Stadio.
Spaccato assonometrico prospettico dello Stadio.
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4. Le Centocamerelle Come ultimi casi di “edifici atipici” in Villa Adriana osserviamo ora la sostruzione del Pecile che genera il sistema delle Centocamerelle ed infine l’affascinante impianto di percorsi e gallerie sotterranee. Per quanto riguarda le Centocamerelle purtroppo le ricerche e gli studi effettuati fino ad oggi non ne chiariscono definitivamente la funzione. L’ ipotesi più probabile è che tale architettura fosse adibita ad abitazioni per la servitù e per le guardie imperiali. Ciò che stupisce osservando il prospetto della fabbrica è che nulla di così monumentale ed imponente fosse stato realizzato prima di allora ad eccezione delle grandi opere entrate nella storia come l’ Anfiteatro Flavio. Non si tratta solo di dimensioni eccezionali, ma anche le forme stesse, per esempio quelle delle aperture, risultano essere uniche nel proprio genere. Soffermiamoci sulle finestre e aperture. È curioso osservare come esse non nascano dal nulla ma formalmente ricordino le arcate degli acquedotti romani; anche se nel nostro caso parliamo di un edificio di carattere completamente diverso. Ciò che rimane veramente sorprendente per la sua anticlassicità è lo sfruttamento di una sostruzione per creare una sorta di piccolo quartiere residenziale per la servitù.
Vista delle Centocamerelle
Prospetto dell’ acquedotto traianeo di Segovia (Spagna).
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5. Le gallerie sotterranee Non di minore importanza e attrattiva è il complesso sotterraneo di gallerie e passaggi coperti. Ne esistono numerosi esempi anche in altri edifici e architetture romane, ma mai frutto di una progettazione così precisa e dettagliata. Si può affermare con certezza che questi sistemi nascosti conferiscano alla villa fascino e spettacolarità. Adriano è stato molto abile nel riprendere la tradizione delle gallerie sotterranee, utilizzate normalmente come collegamenti a magazzini e cisterne d’acqua, e riproporle come vie e strade di una città nascosta. L’approccio con questa realtà della villa ci mette di fronte ad un’identità dentro l’identità, ad una città dentro la città, e si scopre che, come ogni città che si rispetti, anche “Villa Adriana sotterranea” presenta una gerarchia di percorsi. Principalmente si possono individuare due tipologie diverse di gallerie: per il trasporto e il rifornimento di materiali da costruzione e viveri; per il passaggio della servitù, che così facendo può muoversi e passare da un edificio all’altro senza recar fastidio al padrone. È ancor oggi riconoscibile inoltre una grande area sotterranea, il Grande Trapezio, dalla quale si dipartono i percorsi descritti. Poco si sa su tale luogo della villa; a riguardo non sono state trovate delle strutture precedenti che lo ricordino o ne ricalchino la tipologia. Si può osservare invece che la forma così particolare è stata riutilizzata dallo stesso imperatore nel progetto di Antinopoli in Egitto.
Immagine della galleria Sotterranea della Piscina Mirabilis,una delle cisterne d’acqua più grandi al mondo. Schema dei percorsi e delle gallerie sotterranee presenti a Villa Adriana.
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Villa Adriana: un incontro tra culture diverse La nostra analisi e le nostre riflessioni su Villa Adriana anticlassica non terminano qui. Come sottolineato nel primo capitolo una grande peculiarità che questa architettura possiede è quella di riprendere caratteristiche tipiche classiche e riutilizzarle in modo del tutto nuovo, andando spesso a mischiarle con aspetti tipici di altre tradizioni culturali. A riguardo è interessante ricordare che Adriano non fu un imperatore esemplare soltanto per la sua strategia politica vincente, ma anche per la sua grande curiosità e desiderio di conoscenza. E fu per questo che sia durante la sua formazione giovanile in Grecia, che durante i viaggi in Oriente e nelle provincia dell’Impero, egli fece ricchezza di tutti gli insegnamenti e i valori incontrati per poi poterli riproporre nel “suo mondo”. Tutte le architetture di Adriano mostrano una forte influenza da questo punto di vista ed in particolare in Villa Adriana si ritrovano elementi egittizzanti e classico ellenistici. 1. L’influenza dell’Egitto Dopo il viaggio nella provincia dell’Egitto e in seguito alla morte di Antinoo, il famoso amante dell’imperatore, Adriano non potè fare a meno di far rivivere nella sua villa il fascino dei luoghi visitati e della cultura incontrata. Ciò è evidente innanzitutto nelle statue e nelle opere decorative ritrovate nel sito. La rielaborazione della cultura alessandrina è visibile soprattutto nel rinvenimento di copie scultoree ispirate alle icone egizie più importanti quali quelle degli dei; in particolare di Iside ed Osiride. A quest’ultima Adriano aveva associato la figura di Antinoo. All’interno del mondo romano non era una novità l’utilizzo dell’arte decorativa esotica, la quale ad esempio nelle ville di Pompei veniva utilizzata per armonizzare e caratterizzare sia gli ambienti interni che i giardini.
Copie di statue egizie rinvenute a Villa Adriana e oggi conservate nei musei Capiotolini a Roma.
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In particolare la sua espressione più frequente avveniva attraverso la realizzazione di pitture e di mosaici raffiguranti paesaggi nilotici arricchiti da esili architetture, scene di vita quotidiana, esseri grotteschi e soprattutto animali e piante riprodotti con insistito realismo. È proprio questo lo scenario che si ritrova nei giardini del Canopo dove accanto a cervi, a cani e altre specie di animali legate al tema della caccia compaiono quelli tipici della cultura egizia come coccodrilli, ippopotami, pavoni, antilopi, gru. Anche nella decorazione dei fregi delle trabeazioni della Piazza d’Oro è possibile riscontrare un paesaggio di tipo decisamente mediterraneo. Fin qui Villa Adriana non mostra nulla di nuovo, ma anzi la presenza di questi ornamenti e decorativismi rispecchia il suo carattere romano. Ciò che invece è veramente interessante notare è che per la prima volta in questo complesso si possono riconoscere delle strutture architettoniche che ricalcano quelle orientali alessandrine. Si tratta di un edificio, il cosiddetto Antinoeion, e di una scalinata monumentale d’accesso alle Palestre, un complesso recentemente portato in luce dall’ultima campagna di scavi che si trova vicino al Teatro Greco e al Quadriportico. Attualmente sono ancora poche le notizie storiche che riguardano l’edificio eretto da Adriano in memoria dell’ amico morto Antinoo, del quale l’ architettura porta il nome. L’ipotesi più probabile è che esso sia una sorta di tempio-tomba, realizzata secondo la tradizione egizia. Si nota infatti una somiglianza molto forte sia con i templi che con le tombe della provincia orientale in questione. In particolare prendendo in considerazione il complesso del tempio di Iside nell’isola di File è facile dedurre che sia proprio questa architettura il riferimento per l’ Antinoeion di Villa Adriana. Quest’ ultimo si trova lungo la strada basolata per il Grande Vestibolo di fronte alla sostruzione delle Centocamerelle, in un luogo che bene si adattava a contenere un monumento sepolcrale.
Resti dell’Antinoeion a Villa Adriana.
Ricostruzione ipotetica della pianta dell’ Antinoeion.
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Secondo le ricostruzioni moderne e gli studi archeologici il complesso era costituito da un recinto rettangolare che si incurvava in un lato dato origine ad una esedra semicircolare. Contenuti all’interno del recinto erano posti due templi che poggiavano su una sorte di base rialzata molto probabilmente realizzata in travertino. La caratteristica particolare della costruzione era che i due templi fossero concepiti perfettamente identici e simmetrici l’uno rispetto all’altro e i loro ingressi si guardassero e si aprissero su uno spazio aperto centrale. In mezzo a tale spazio era stata sistemata una colonna molto alta che con più precisione oggi chiameremmo obelisco. Il legame tra i due templi , lo spazio centrale, e l’ alta colonna- obelisco non è stato ancor oggi chiarito. Lo studio intrapreso da alcuni nel campo dell’archeastronomia può far pensare però alla colonna come un monumento di grande significato simbolico, legato ai fenomeni celesti e alla leggenda di divinizzazione di Antinoo. Come si è osservato nelle grandi piramidi di Giza anche in questo caso si è riscontrato un cambiamento di ombre e di punti luci sull’obelisco a seconda delle stagioni e degli orientamenti degli astri. L’ordine architettonico utilizzato, tranne la trabeazione che è di tipo ionico, rimane incerto anche se probabilmente presentava dei caratteri non canonici e di forte eclettismo stilistico. Sul muro di fondazione interno dell’esedra si ergevano delle colonne che formavano un portico semianulare. L’area all’aperto venne strutturata tutta come ordinato giardino dove era stata prevista probabilmente la piantumazione di palme che avrebbero suggestivamente evocato il paesaggio egiziano.
Ricostruzione ipotetica tridimensionale dell’Antinoeion.
Tempio di Iside nell’isola di File in Egitto.
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Come accennato sopra l’altro complesso di Villa Adriana che presenta una forte connessione con la cultura egizia è quello delle Palestre. Secondo l’interpretazione di Pirro Ligorio questo insieme di architetture adempivano alla funzione di palestre ginnasio o addirittura di caserme per le guardie pretoriane. Gli ultimi ritrovamenti invece hanno permesso di dare una lettura diversa al complesso. La scoperta di busti scultorei di sacerdoti conferisce alla struttura una natura più nobile, forse di stanze imperiali e di sale adibite a cerimonie religiose. Il richiamo all’Egitto si concretizza attraverso una scala monumentale messa in luce presso lo spigolo delle Palestre vicino al teatro greco. Per la posizione ed il prospetto architettonico questa aveva certamente il carattere di rappresentanza ed ufficialità. Raggiunta da un lungo viale o portico che rasentava il frontescena del teatro vicino si mostrava al visitatore con due colonne centrali con capitelli corinzi. Vicino alle colonne si ergevano due pregevoli statue di sfinge in marmo bianco sostenute da un basso plinto liscio. Le due erano realizzate a grandezza naturale, nella classica rigida posa giacente e con la coda girata intorno alla coscia destra. Con questo sistema d’accesso alle palestre Adriano mostra ancora una volta la sua forte attrazione per la cultura dei faraoni e conferma il carattere egizio presente in alcune parti della villa.
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2. Le città ellenistiche Riprendiamo ora in considerazione un aspetto della villa molto significativo: il suo rapporto con le città ellenistiche. A riguardo Rinaldi scrive: “Villa Adriana fu rivisitata dal suo promotore in chiave ellenizzante, la Grecia fu ossequiata con tanta fantasia da anticipare il Rinascimento di Brunelleschi, l’Umanesimo borghese, il controllo matematico del reale, il possesso dello spazio-ambiente.”9 Osservando alcune città ellenistiche ed in particolare Pergamo, Samotracia, Delo, Colofone ed Olimpia è possibile riscontrare delle caratteristiche comuni con Villa Adriana. Innanzitutto la scelta della morfologia territoriale che prima ci sembrava così atipica per la realizzazione di una villa romana, ora appare giustificata dal suo confronto con queste città. Adriano recupera infatti dalle città elleniche la strategia di costruire in luoghi dove le difficoltà topografiche e la ripidezza del terreno diventavano dei punti a favore per la difesa ed il controllo del territorio circostante. Le città citate si trovano appunto in una posizione elevata. A differenza delle prime città di fondazione greche arcaiche quelle ellenistiche si sviluppano non più mantenendo un reticolo di lotti di terreno omogenei come per esempio era facile riscontrare in Ippodamo di Mileto.
Città di Pergamo.
Città di Colofone.
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M. L. RINALDI, Villa Adriana, Milano, 1998
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Qui come in Villa Adriana si mantengono delle regole fisse quali ad esempio l’articolazione interna degli impianti distributori che cercano sempre una connesione ed un collegamento fra loro, ma si opera una differenziazione nell’ allineamento dei singoli blocchi di edifici. Le architetture non si sviluppano lungo un asse centrale uguale per tutte e molte volte non rispecchiano nemmeno il canone della simmetria. Gli esempi portati, in particolare Pergamo, mostrano una forte gerarchizzazione dei percorsi e delle strade che non risultano quindi più essere tutte uguali fra loro, ma assumono dimensioni e forme diverse. Le piazze e gli spazi tenuti a giardino si alternano con zone interne alla città lasciate libere, non strutturate, ma non per questo escluse dalla progettazione dell’impianto. Anche questo si riscontra a Villa Adriana, specialmente tra la zona dell’attuale accesso al sito ed il nucleo centrale di cui fanno parte le architetture del periodo repubblicano. Nella concezione ellenistica all’interno delle città, ed in particolare nelle acropoli, si tende a raggruppare gli edifici l’uno accanto all’altro mantenendo una stretta connessione fra loro pur presentando orientamenti diversi. Questo aspetto è molto evidente nel complesso di Adriano, e il collegamento tra le varie parti viene sottolineato grazie alla continuità dei percorsi. È possibile notare infine che gli scorci prospettici sulle architetture di Villa Adriana sono pensati nello stesso modo di quelli degli edifici nelle città ellenistiche. Per concludere è comunque importante notare che non tutti gli aspetti tipici della tradizione ellenistica vengono ripresi e riportati uguali nella villa; anche in questo caso Adriano si pone in modo anticlassico di fronte alla possibilità di una mera copiatura ed imitazione. I caratteri che riprende dalle città ellenistiche li reinterpreta riadattandoli al suo progetto. Tale affermazione è sostenuta dal fatto che si possono notare anche delle differenze con gli esempi sopra citati; in particolare se ne rilevano due. La prima è che mentre a Pergamo e negli altri nuclei urbani greci gli edifici sono contenuti entro una sorta di perimetro-limite immaginario, a Villa Adriana l’evocazione di un possibile confine non esiste; essa è come se nella concezione di Adriano si dovesse estendere all’infinito perché infinito ed eterno doveva essere il suo regno. La seconda differenza consiste nel diverso carattere funzionale che possiedono gli edifici della villa rispetto a quelli delle città ellenistiche. L’imperatore, certo del suo valore e della sua grandezza, non si accontenta di prendere come modello per la sua villa altre ville ma bensì delle città.
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Conclusione: Adriano come Schinkel Durante lo svolgimento di questa tesi mi sono resa conto che non solo Adriano è stato anticlassico, agli occhi dei suoi contemporanei ed ai nostri se guardiamo alla storia dell’architettura romana classica, ma addirittura potrebbe essere considerato il primo architetto moderno. Se per moderni intendiamo difatti quegli architetti che durante il loro operato sono stati capaci di recuperare le nozioni fondamentali del classico e riadattarle alla propria epoca ed alle proprie architetture, allora Adriano è stato davvero il primo a compiere questo passo rivoluzionario. Il primo a riconoscere nell’“ars combinatoria” la vera innovazione e base per la progettazione di qualsiasi opera architettonica. Nel riconoscere questo mi è stato utile il confronto con Schinkel. Anche egli, visto da sempre come pittore e architetto del neoclassicismo amante del classicismo, non si limita alla semplice copiatura degli stili passati ma ne compie una mescolanza ed una reinterpretazione. Appare quindi evidentemente sbagliata l’opinione comune nei suoi confronti: egli non è un neoclassico, perché il suo rapporto con la storia non è filologico. È invece un eclettico, un moderno perché crea uno stile nuovo rifacendosi a tutti gli stili passati, tra cui anche il classico.
Raffigurazione del Duomo di Milano a Triste, Schinkel.
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Semerani sostiene che la grandezza di personalità come quella di Schinkel, e a mio parere anche di Adriano, è stata nell’aver usato procedimenti teorici e valori riconosciuti del passato trasgredendone le regole convenzionali. Nei disegni di Schinkel, ad esempio il Duomo a Trieste, come nel progetto di Villa Adriana, ogni elemento viene combinato in modo così eccezionale ed inaspettato da avere su di noi un grandissimo impatto immaginativo. Credo che sia proprio per questo aspetto di eccezionale modernità che la villa sia stata considerata e tutt’ oggi rimane tra le architetture più affascinanti del mondo.
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Bibliografia
BENEDETTA ADEMBRI, Suggestioni egizie a Villa Adriana. Electa, Milano, 2006. CHIARA CAPPELLETTO, La traccia della memoria. cuem, Milano, dicembre 2004 E.SALZA PRINA RICOTTI, I giardini delle tombe e quello della tomba di Antinoo. Electa, Milano, 2002 E.SALZA PRINA RICOTTI, Villa Adriana : Il Sogno di un Imperatore, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001 HANS LAUTER, L’architettura dell’ellenismo. Longanesi & c, Milano, 1999. LUCIANO CREMA, L’architettura romana. Einaudi, Torino, 1959. LUCIANO SEMERANI, L’Altro Moderno, Allemandi, Torino, 2004 M. L. RINALDI, Villa Adriana, Milano, 1998 MAC DONALD W. PINTO J. Hadrian’s Villa and its legacy. Yale university, 1995 ROBERTO MARTA, Architettura roman. Edizioni Kappa, Roma, 1990 SALVATORE SETTIS, il futuro del classico. Einaudi, Torino, 2004.
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VILLA ADRIANA Piranesi e la rappresentazione della Villa di Ilaria Feraco 708106
Politecnico di Milano, A. A. 2008/2009 Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica Prof. Daniele Vitale
Indice I primi studi sulla Villa La pianta di Francesco Contini Le accademie e il rilievo della Villa
pag. 02 pag. 05 pag. 08
Il Prix de Rome
pag. 09
La riscoperta della Villa
pag. 10
Piranesi Il dibattito architettonico al tempo di Piranesi
pag. 15
La rinuncia alla pratica
pag. 17
La dissoluzione della forma
pag. 19
Piranesi architetto
pag. 24
L’attualità di Piranesi
pag. 27
Piranesi a Villa Adriana
pag. 29
La pianta
pag. 30
Le vedute
pag. 32
Dopo Piranesi
pag. 35
Conclusioni
pag. 38
Bibliografia
pag. 40
I primi studi sulla Villa.
Villa Adriana è sempre stata oggetto di studio da parte di architetti e archeologi, ma in pochi si sono misurati con uno studio complessivo, e soprattutto con un rilievo generale di tutto il complesso, che è senza dubbio uno dei più grandi in Italia. La costruzione della Villa è datata tra il 118 d.C. e il 138 d.C., cioè fino a quando la morte di Adriano non la interrompe. Successivamente, essa perde quell’importanza che aveva avuto durante la vita dell’imperatore, diventando semplicemente una villa reale. Essa fu sicuramente sfruttata dai suoi successori, ma è difficile capire fino a che periodo, in quanto, dopo un po’, le notizie sulla Villa si interrompono. Con la caduta dell’Impero Romano inizia la sua decadenza, venendo abbandonata, trascurata, e soprattutto saccheggiata dei marmi e delle statue, che finiscono nelle residenze intorno a Tivoli. In pochi secoli i suoi edifici furono ridotti ad un ammasso di ruderi coperti da rovi e i suoi giardini diventarono vigne e uliveti. Nonostante questa carenza di informazioni concrete non è possibile negare i legami che essa ha con i palazzi e le tenute delle epoche successive. La riscoperta della residenza di Adriano avviene soltanto nel 1400, quando Enea Silvio Piccolomini torna a parlarne, e poi ulteriormente con gli scavi di Alessandro Borgia all’Odeon, in cui vengono ritrovate le statue delle muse. Verso il 1465 l’architetto Francesco di Giorgio Martini, visita la villa e lì realizza due piante, una del Recinto dell’Isola e l’altra della Sala Circolare. Questi disegni sono in seguito rivisti e inseriti in un trattato, apportando però una serie di cambiamenti agli edifici. Martini trasforma il modello antico secondo i propri sistemi proporzionali e la sua fantasia, senza preoccuparsi della fedeltà archeologica, che nella sua epoca non è considerata fondamentale.. Infatti gli architetti del Quattrocento quando notavano delle discrepanze tra la pratica reale e quanto teorizzato da Vitruvio correggevano i disegni dei ruderi in modo da eliminare le incoerenze riscontrate. Quasi contemporaneamente, anche un altro grande architetto rinascimentale, Giuliano da Sangallo esegue alcuni disegni del sito. Egli è l’autore di una delle più antiche raccolte di disegni architettonici, il Codice Barberini. Queste riproduzioni, che ritraggono antichi monumenti di Roma e della campagna intorno e anche di siti più lontani, comprendono dei disegni della Villa, occupando tre fogli del Codice. Giuliano da Sangallo sfrutta quanto appreso dallo studio della residenza di Adriano per la decorazione degli edifici fiorentini, soprattutto per Palazzo Scala. Esso infatti, presenta volte stuccate che assomigliano molto a quelle riportate nei suoi disegni.
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F. di Giorgio Martini, Pianta e
F. di Giorgio Martini, Pianta e Sezione della
Sezione della sala circolare,1465
sala circolare, Torino, Codice Saluzziano
Giuliano da Sangallo, disegni architettonici, in alto a destra particolare della volta stuccata
delle
grandi
Terme,
Roma,
Biblioteca Vaticana
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Sappiamo che anche Raffaello e Bramante analizzano le rovine della Villa, prendendone anche misure al fine di riutilizzare nella progettazione questi studi. Ne è un esempio il tempietto di Bramante, infatti, secondo la riproduzione di Serlio, l’edificio a pianta centrale doveva essere posto all’interno di un colonnato rotondo; esso non ha precedenti tra gli edifici del Quattrocento, ma possiamo ritrovare un esempio analogo nel Recinto dell’Isola. Probabilmente esso non è l’unico edificio a cui si è ispirato l’architetto, ma dimostra il ruolo fondamentale che rivestito la Villa come repertorio di forme architettoniche fantasiose. L’interesse per la Villa, ha nel ‘500, il suo apice con Palladio, in quanto nei suoi disegni sulle antichità di Roma c’è anche un accenno ad alcuni degli edifici della residenza imperiale. Egli proietta nelle rovine adrianee i suoi principi di progettazione e le reinterpreta per trovare una conferma dei suoi preconcetti artistici. Tra i suoi disegni compare il Recinto dell’Isola e le piante delle Grandi e Piccole Terme. Probabilmente Palladio rimane incantato dalla serie di spazi con geometrie diverse, che hanno la copertura a volta, ed è a queste che pensa quanto disegna il Palazzo di Thiene, con la monumentale successione di stanze al piano nobile. Bisogna però sottolineare che nei trattati rinascimentali non vengono riportati disegni della Villa, non deve sembrare una cosa strana se si pensa che questi trattati seguono più che altro i precetti di Vitruvio, mentre gli edifici della Villa non hanno un carattere canonico. Questo ha fatto si che chiunque abbia fatto riferimento, in epoca rinascimentale, alla dimora di Adriano, dovesse conoscerla direttamente e non per disegni eseguiti da qualcun altro.
Pianta di Sebastiano Serlio del Tempietto di Bramante La prima pianta. Da Ligorio
a
Andrea Palladio, Pianta del Recinto dell’Isola, 1554 Contini .
Andrea Palladio, Pianta delle Grandi E Piccole Terme, 1554 4
La Pianta di Francesco Contini Per uno scavo sistematico della Villa bisogna aspettare ancora qualche anno, quando il Cardinale Ippolito d’Este decide di mandare l’architetto Pirro Ligorio. All’inizio l’interesse era più che altro rivolto alla ricerca di marmi e statue da poter riutilizzare nella costruzione della villa estense a Tivoli, ma Ligorio rimase così affascinato dai suoi edifici e dalle rovine che iniziò a studiarle e a scrivere relazioni su tutto ciò che vedeva. Esse vennero poi raccolte nella sua Descritione, quello che può essere definito come il primo giornale di scavo mai realizzato. In esso viene enunciata la volontà di fare una pianta dell’intero complesso, e per secoli si è creduto che essa fosse realmente stata fatta, ma ciò è dovuto solo ad un equivoco. Essa non fu mai stata realizzata, una prova è il fatto che nelle sue descrizioni e nei suoi schizzi non figura mai una misura, cosa alquanto strana per chiunque stia effettuando un rilievo. Attualmente infatti si può affermare che la prima pianta sia opera di Francesco Contini. Ligorio riamane comunque un personaggio di primaria importanza, in quanto passa in rassegna tutte le rovine, da nord a sud, esaminando ogni complesso e paragonandolo edifici antichi. Fu quindi lui il primo ad assegnare i nomi alle rovine della Villa, molti dei quali vengono ancora usati ai nostri giorni, altri invece si sono rivelati delle interpretazioni errate. Nella prima metà del 1600, un altro Cardinale, Francesco Barberini, invece di mandare qualcuno a scavare per ritrovare statue e oggetti preziosi, decide di inviare un abile architetto ad eseguire un rilievo teso a ricavarne una pianta. L’incarico viene affidato a Contini, il quale impiega due anni per tracciare la mappa del complesso imperiale. Gli viene però rubata la paternità dell’opera poiché nelle successive edizioni viene ignorata la prefazione in cui descrive la fatica del rilievo, e viene descritto come colui che ha pulito e ridisegnato bene la pianta di Ligorio. Analizzando la sua pianta si può vedere che essa è affidabile e il suo fu un ottimo lavoro, soprattutto se si considera lo stato in cui doveva trovarsi la Villa, egli dovette scavare molto, infatti anche se Ligorio aveva precedentemente effettuato degli scavi, ormai, dopo un secolo, tutto doveva essere nuovamente ricoperto da rovi. Nella prefazione Contini scrive: “Eminentissimo e Reverendissimo Signore e Padrone Colendissimo, mi accinsi prontamente all'opera, animato più dell’ardore di servirla che atterrito dall'impresa molto malagevole. Mi conferii nel luogo: osservai quel sito essere un colle circondato da due valli di circuito di sei miglia e viddi la maggior parte di quelle anticaglie si fattamente atterrate e coperte dalle ruine che non si scorgevano i loro fondamenti, anzi la più parte di esse erano sopraffatte da macchie foltissime e spinose. Tali asprezze mi palesarono le difficoltà che avrei trovato nel ridurle in Pianta. Non mi sgomentai nondimeno tanto mi premeva l'accreditarmi appresso al mondo col palesarmi d’ahuer servito a V.E. Cominciai a far cavare terra per trovare i fondamenti, feci recidere gli intoppi che mi impedivano e più volte calai in vari pozzi et aperture che scopersi in quelli scoscesi e per quelle vigne. Questa diligenza mi ha poi fatto scoprire alcune 5
strade sotterranee per le quali si va al coperto da un luogo all'altro della Villa come si vedono disegnate nella pianta che finalmente ho levato con quell'esattezza che ho potuto rispetto al luogo reso ormai dal tempo in ogni parte manchevole. Gradiscala V.E. anzi ricevala per Sua essendo nata dal suo benignissimo cenno, il quale mi ha fatto superare in essa le difficoltà che parevano insuperabili, degnandosi di riconoscere nella medesima la divota servitù che Le professo”.1 Nonostante l’accurato lavoro di rilievo effettuato, Contini sente la necessità di seguire il più fedelmente possibile, le descrizioni di Ligorio, per questo inserisce alcuni edifici che lui non può vedere per lo stato di degrado in cui si trova il sito. Di conseguenza compie degli errori molto vistosi, che poi verranno ripresi anche da altri architetti e da Piranesi stesso. Osservando la pianta di Contini si può vedere che in un’area posta nell’estrema parte sud-est della Valle di Tempe, nella quale oggi non c’è traccia di ruderi, l’architetto disegna un teatro monumentale, con una grande scena, dei portici laterali e un profondo palcoscenico. Oggi non c’è nessun segno di questo teatro e, anche se Contini dovesse aver visto qualche rovina, è strano che fosse di una tale grandezza. La spiegazione più sensata è quella di pensare che si sia basato sulle descrizioni di Ligorio, che parlano di un teatro latino che sorge più in basso rispetto alla terrazza sui cui è posto il tempietto della Venere di Cnido. Successivamente si è scoperto essere il teatro chiamato greco, ma quando l’architetto estense è arrivò alla villa , la fossa scavata un secolo prima aveva raccolto tutta l’acqua piovana e appariva quindi come un laghetto, che lui segna come Pantanello di Giovanni Cappuccino; decide allora di posizionarlo dalla parte opposta, nella Valle di Tempe, a est della Palestra. Si deve sempre alla sua fedeltà verso il lavoro di Ligorio la scelta di prolungare così tanto la sua pianta nella parte meridionale, arrivando a includere il colle di Santo Stefano. A prescindere dagli errori che può aver fatto, essa rimane comunque per molto tempo la più fedele pianta della Villa che fosse stata disegnata, infatti pur essendoci delle inesattezze nelle ricostruzioni degli edifici, che dato lo stato di rovina, ha dovuto in parte inventare, la struttura del complesso è esatta e restituisce un’immagine fedele di come doveva essere la residenza dell’Imperatore.
F. Contini, particolare del Teatro detto latino, Roma, 1668 E. SALZA PRINA RICOTTI, Villa Adriana. Il sogno di un imperatore, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2001,
1
p.45 6
F. Contini, Pianta di Villa Adriana, Roma 1668
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Le accademie e il rilievo della Villa
Il modo di concepire l’insegnamento dell’architettura in maniera disciplinata nasce nel Rinascimento. Prima, chi voleva diventare architetto iniziava con un apprendistato e poi, progredendo con la sua esperienza, poteva assumere incarichi sempre di maggiore responsabilità. La formazione professionale era condizionata da un approccio autodidatta all’architettura, da uno studio diretto dei trattati, dall’osservazione e dalla conoscenza delle opere dei grandi maestri. Il nuovo status sociale dell’artista nel Rinascimento ha lasciato indeterminata l’immagine professionale
dell’architetto per un lungo periodo. Con la caduta del sistema corporativo
medioevale e il nuovo orientarsi dell’architettura verso le fonti più letterarie e gli edifici dell’antichità, l’accento si sposta, non tanto sulla pratica tecnica, quanto sulla qualità progettuale e le nozioni storiche. Fino alla metà del ‘500 il termine accademia non indicava una istituzione organizzata, ma uomini liberamente riuniti per parlare di arte, filosofia, letteratura. L’artista poteva così riunirsi liberamente nelle accademie, considerate come forme di aggregazione culturale dove si riscontrava l’emergere di una cultura alternativa a quella delle università. Solo tra il 1530 e il 1540 l’accademia comincia a cambiare aspetto diventando un’organizzazione ben regolata e subito dopo un’istituzione governativa. Nel 1593, a Roma, viene aperta l’accademia di San Luca. Dalla seconda metà del ‘500 il viaggio e la permanenza nell’urbe era diventato quasi un obbligo. Da tutta Europa convergevano in città artisti e studiosi alla ricerca di un rapporto diretto con i monumenti, mossi dal desiderio di rilevare e copiare le antichità romane. L’idea del viaggio a Roma assume una nuova valenza nel XVII secolo, per l’accentuarsi dell’interesse per lo studio delle antichità, soprattutto dal punto di vista archeologico. Emerge un nuovo modo di vedere i ruderi, oggetti di studio per architetti e topografi, ma anche elementi di immagine urbana e della vita cittadina. La città appare come uno splendido dipinto da cui ottenere sapere, fatto di rovine antiche e “rovine nuove”, edifici moderni non condotti a termine o abbandonati e incorporati nell’immagine urbana. Nasce il fascino e l’emozione per la rovina, che diventa nel XVII secolo un vero e proprio genere artistico. Con l’apertura dell’accademia di San Luca lo scopo è quello di riformare l’insegnamento artistico. La novità fondamentale risiede soprattutto nell’organizzazione e nel programma educativo, concepito come una scuola di tirocinio. All’inizio l’architettura non era tra le arti figurative e la pittura era valutata superiore all’architettura. Pittura, scultura, architettura erano sempre state considerate 8
accomunate dall’essere prodotto di un’attività che riguarda l’uso della ragione e il senso della vista, cioè la rappresentazione e il disegno, nonostante la disputa sulla diversità dei risultati e dei fini perseguiti, sul diverso grado di implicazione manuale e sulle tecniche proprie di ciascuna forma espressiva. All’interno dell’accademia di San Luca col passare degli anni, l’architettura acquista sempre maggiore importanza e, nel 1675, viene ufficialmente incluso lo studio di questa disciplina. L’architettura viene così concepita come parte, insieme alla pittura e alla scultura, di una scienza divisa in tre pratiche. Le lezioni di architettura comprendono studi approfonditi di piedistalli, di basi, di capitelli e degli ordini architettonici.
Il Prix de Rome Anche in Francia l’artista del XVII comincia ad acquistare una nuova consapevolezza che lo porta a ribellarsi alle organizzazioni corporative del periodo medioevale. Nel 1648 nasce l’Accademia di Parigi, seguendo la scia di quelle italiane. L’influenza romana si riscontra anche nelle manifestazioni organizzate per l’esaltazione del monarca, la più importante delle quali è l’assegnazione del Grand Prix, specialmente di quello di Roma. Esso consiste in una sorta di borsa di studio che permette di vivere per quattro anni all’Accademie de France a Roma. Per circa due secoli gli architetti pensionnaires hanno analizzato i monumenti antichi della città attraverso il rilievo con occhio filologico, o con passione ricostruttiva, per dare le nozioni di base alla produzione in patria e per definire un repertorio di edifici, opere d’arte, dettagli decorativi ormai pienamente storicizzati, testimoniando la passione per Roma, città moderna e antica insieme, l’unica nella quale questi due momenti possono convivere dialetticamente ed esaltarsi reciprocamente. Il tessuto urbano, costellato da realtà differenti, rende il confronto tra città moderna e antica un tema forte e decisivo. Per gli studenti la permanenza a Roma è quindi importante per affinare la cultura dedicandosi allo studio dei monumenti classici. Ai pensionnaires si deve riconoscere un ruolo fondamentale nella formazione della disciplina archeologica. Infatti, l’Accademia di Parigi rendendo obbligatorio il rilievo di un monumento dell’antichità, per le grandi lezioni di bellezza che offriva, ma anche per alcuni obiettivi archeologici, ha contribuito a sviluppare una nuova sensibilità verso le rovine. I pensionnaires hanno iniziato così a rilevare non solo i monumenti celebri, ma anche quelli che a priori potevano sembrare insignificanti.
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La riscoperta della Villa Roma è quindi una tappa obbligata per un’aggiornata formazione culturale e per lo studio dell’antico; anche se le teorie artistiche si elaborano ormai all’estero, in Francia, in Inghilterra o in Germania, un’educazione non si giudica completa se non è preventivamente sottoposta alla verifica del viaggio in Italia. Pensionnaires francesi ed emuli nordici, ricchi viaggiatori inglesi e romantici artisti tedeschi vengono a Roma per verificare nella realtà le teorie apprese in patria. Questi artisti, studiosi di antichità e viaggiatori, non tralasciano di visitare le celebrate località nei dintorni di Roma, come può essere la Villa d’Este di Tivoli e Villa Adriana. Dal seicento in poi si ha un elenco di grandi nomi che riscoprono l’interesse per la villa dell’imperatore Adriano, tra cui Sebastiano Conca, Hubert Robert, Quarenghi e Piranesi. La documentazione iconografica disponibile è molto ampia, per questo non si può pensare di ricostruire interamente un inventario di questi documenti, ma si può perlomeno parlare di coloro che vi hanno dedicato più studi. Uno dei primi visitatori settecenteschi a lasciare una documentazione consistente sulla Villa, grazie anche ai prolungati soggiorni che ha effettuato, è Pier Leone Ghezzi. Il quale non si interessò solo degli edifici più noti della Villa, ma anche di quelli meno conosciuti e meno importanti come l’edificio di servizio nord e le gallerie sotterranee. Del suo lavoro ci rimangono, non solo rappresentazioni pittoresche delle rovine e delle loro strutture, ma anche dei rilievi analitici. Per esempio analizza meticolosamente la tecnica usata nella costruzione di un muro, nel suo disegno riporta con accuratezza le misure, prese in prima persona, dei mattoni e dei blocchi tufacei spiegando come la struttura impedisse l’infiltrazione del freddo e dell’umidità. Egli eseguì anche un rilievo del recinto dell’isola e di altri edifici, cercando di compierli il più possibile in maniera scientifica.
P. L. Ghezzi, studio della muratura della Villa, 1742
P. L. Ghezzi, vedute delle Grandi Terme e dell'edificio di servizio 10
Una tappa importante negli studi sulla Villa Adriana è costituita dalla documentazione lasciata da Giuseppe Pannini, che si preoccupa principalmente di documentare con accuratezza quel che trova sul sito e di ricostruire in maniera plausibile l'aspetto originario degli edifici sulla base di un attento esame dei resti, pur frammentari. Nei suoi disegni, l'astrazione meccanica della forma architettonica, unita alla tecnica rigida si risolve in una serie di immagini aride e spente se paragonate ai più vivaci disegni dei suoi contemporanei. Tuttavia, grazie al suo lavoro le riproduzioni in scala e le ricostruzioni di una importante fabbrica della Villa raggiungono per la prima volta il pubblico. Conduce un’indagine approfondita sul Teatro Sud, che lo portano alla produzione di tre tavole con la pianta, tutti i prospetti e delle ricostruzioni di esso. In questo senso, il modesto studio che egli conduce anticipa le monografie archeologiche dedicate alle varie strutture della residenza adrianea e può quindi essere considerato uno dei primi architetti-archeologi. La Villa dell’imperatore non è stata per gli architetti un oggetto di studio fine a se stesso, ma spesso è servita come fonte di ispirazione per dei progetti. È questo il caso di Charles-Louis Clèrisseau, che si reca più volte a Villa Adriana nel corso degli anni quaranta e cinquanta, spesso insieme a altri pittori e architetti quali Robert Adam e Giovanni Battista Piranesi. Stando a quanto si racconta, Clèrisseau ha attinto alla propria esperienza personale della Villa per la creazione del progetto, rimasto irrealizzato, di un giardino a Santa Maria di Sala, vicino a Padova: si sa infatti che nel 1767 egli ne preparò un disegno per l’abate Filippo Farsetti, prelato veneziano desideroso di avere un esteso giardino in cui fossero rappresentate le rovine di una residenza imperiale romana nello stile di quella adrianea. Egli esegue dei disegni molto raffinati in cui appaiono chiaramente la struttura e la geometria degli edifici, tuttavia non si può parlare di veri rilievi in quanto si prende delle grandi libertà nella rappresentazione degli edifici aggiungendo anche elementi inesistenti. Clèrisseau nel 1756 accompagna alla Villa l’architetto scozzese Robert Adam, che presto si appassiona a questo sito realizzando molte tavole raffiguranti i suoi edifici. Diverse rappresentano gli stessi soggetti raffigurati da Clèrisseau e ne condividono anche alcune caratteristiche compositive, la qual cosa induce a pensare che siano stati eseguiti come esercizi di resa architettonica assegnati dal maestro all'allievo. I disegni della Villa eseguiti da Adam dimostrano una libertà e una creatività che ben si addicono a un giovane architetto tirocinante, ansioso di accumulare un repertorio di forme cui fare riferimento in seguito, al momento di realizzare un progetto. Per questo motivo, l'esecuzione è abbastanza sommaria e mira a cogliere i rapporti essenziali tra spazi e volumi, luci e ombre, evitando il formalismo e l'attenzione al dettaglio dei rilievi in scala; appare chiaro che a spingerlo non è un interesse antiquario, ma architettonico.
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G. Pannini, tre stampe del Teatro Sud, Roma 1753 C.L. Clèrisseau, Veduta dell’interno del Vestibolo del Cortile dell’acqua, 1756
Robert Adam, Veduta del Cortile dell’acqua, interno del Vestibolo, 1756 12
La Villa Adriana continuò a suscitare interesse anche dopo il 1770. L’architetto britannico Thomas Hardwick, si reca a Villa Adriana nel 1777 in compagnia del suo amico Giacomo Quarenghi, un architetto romano che si è formato proprio grazie allo studio delle antichità romane. A lui dobbiamo degli accurati disegni del triclinio scenografico e del teatro sud. Un altro grande architetto che ha collaborato con Hardwick è John Soane, il quale ha senza dubbio avuto modo di vedere i disegni dell’altro relativi alla Villa. Inoltre, risiedendo ha Roma è di sicuro entrato in contatto con Quarenghi, infatti da lui sembrano derivare alcuni disegni effettuati da Soane. Questo mette bene in luce il ruolo fondamentale svolto dal disegno nel diffondere notizie intorno alla Villa e illustra come il sito stesso, attirando architetti da tutta Europa, facilitasse lo scambio di idee e teorie in materia di architettura. Gli interni cupolati della Banca d’Inghilterra e il progetto di un palazzo reale a Hyde Park firmati da Soane devono molto alla conoscenza che egli aveva della Villa Adriana, anche se per realizzarli Soane dovette rifarsi agli studi di Hardwich e Quarenghi. E’ nel progetto per la Banca d’Inghilterra, realizzato in collaborazione con Dance, che Soane dà vita all’idea di un “architettura libera da ogni costrizione”, dove gli ornamenti del linguaggio classico sono ridotti a un sistema di incisioni e scanalature che definiscono spazi a volta illuminati dall’alto, di effetto insolitamente poetico.
G. Quarenghi, Veduta del Triclinio scenografico, 1777 13
(A sinistra) J. Soane, Consols Office nella Bank of England, Londra, 1798-99; (In alto) J. Soane, Old Colonial Office, nella Bank of England, Londra,1818.
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Piranesi.
Il dibattito architettonico al tempo di Piranesi. Piranesi giunge a Roma nel 1740, in un momento in cui la cultura si sta sviluppando su basi pre illuministiche, ma in maniera ancora incerta. In quegli anni si sta promuovendo a Roma un preciso disegno culturale che influisce sulle tesi e sulle convinzioni degli architetti. Dal punto di vista religioso si sta verificando un inizio rinnovamento, un richiamo ad una vita più severa, ad una lotta contro i fanatismi coltivati dalla folla, la retorica e la fastosità barocca, verso una morale più ascetica ed illuminata. Il desiderio era quello di una religione più purificata e libera dalle superstizioni. Dal punto di vista architettonico sono largamente diffusi i miti legati al classicismo e alla sua superiorità rispetto agli altri stili. Anche qui si cerca un carattere più ordinato e controllato, riprendendo la produzione cinquecentesca che era stata accantonata a causa dell’irrompere delle ricerche barocche. Questa situazione si riflette anche sui gusti della committenza ufficiale, quella di papa Clemente XII. Attorno a lui si raccolgono una serie di uomini caratterizzati dal rigorismo, l’architettura richiesta non è più quella barocca, ma si cerca un ordine severo. La svolta di gusto utilizza convinzioni circolanti nell’ambiente romano che si svolge attorno all’accademia di San Luca, le quali rimandano ai criteri di ragionevolezza e semplicità nella conformazione dell’oggetto architettonico. L’architettura deve rispondere alle leggi dell’ordine, della regolata disposizione delle parti, di una geometria semplice, ma deve anche mediare alle esigenze della comodità e dell’ornamento, secondo la tesi funzionalista. Queste ricerche, che vengono portate avanti a Roma, non possono però essere definite ancora neoclassiche, il neoclassicismo si diffonderà più avanti, ma neanche possono essere classificate come un sottoprodotto del barocco. E’ a questo proposito, per cercare di definire i fatti architettonici di un periodo così controverso, che Sandro Benedetti utilizza il termine di ambito letterario “Arcadia”. “Se l’Arcadia letteraria fu in parte notevole una ribellione al gusto del barocco, se, come è stato sostenuto, essa cercò di tradurre in nuove forme di linguaggio i valori di una cultura avviata verso il «razionalismo», se tuttavia in essa è riscontrabile pur nella impostazione anti-barocca un persistere di elementi di continuità seicentesca, se ancora la sua ripresa del classicismo si colloca come pura «restaurazione dell’antico» o pura «autorizzazione» per timide novità estrapolate sulla scorta dei classici, se tutto questo è vero non è chi non veda la speculare corrispondenza di ciò con la tendenza di gusto architettonico fin qui tratteggiata.”2
2 SANDRO BENEDETTI, Per un’architettura dell’Arcadia, in Controspazio, luglio-agosto 1971, p.12 15
Piranesi condivide l’interesse dei suoi contemporanei per le forme classiche, ma lui lavora per liberarsi dalle concezioni architettoniche rinascimentali e barocche, secondo le quali l’architettura si fonda su un’armoniosa integrazione compositiva che cerca di riprodurre i processi formativi del mondo. Ad un esame critico attento, Piranesi lascia quindi emergere autentici caratteri innovatori, che consentono di collocarlo in una dimensione internazionale, partecipando al generale clima di rinnovamento che sta investendo tutta l’Europa attraverso l’illuminismo. Con l’illuminismo la natura cessa di essere vista come una figura creata una volta per sempre, un ordine immutabile che può solo essere imitato o rappresentato. L’uomo, attraverso il suo agire, tende a modificarla, sia concretamente, sia nel modo in cui la conosce e ne prende coscienza. La natura non è più un dato a priori che deve essere appreso come realtà assoluta, ma essa ha molti sviluppi nella mente dell’uomo, in quanto è percepita con i sensi ed appresa con l’intelletto. Sono quindi due i fattori fondamentali che iniziano ad entrare in campo, l’uso della ragione e quello della sensibilità. Questa seconda componente trova la sua collocazione nelle teorie, principalmente inglesi legate alla soggettività del bello e al gusto del sublime. La natura è quindi sorgente di stimoli e di sensazioni, ma essa non conduce solo al sentimento, essa induce anche a pensare, soprattutto alla trascurabile piccolezza dell’essere umano in rapporto all’immensità della natura e delle sue forze. Inizia a delinearsi un gusto che predilige disegni e incisioni interpretati però come visioni immaginarie e fantastiche. “Le posizioni teoriche del Piranesi riflettono la dialettica dualità inerente al pensiero illuminista, nel suo configurarsi verso la metà del diciottesimo secolo, come derivazione da svariate componenti: vi compare il conflitto tra sensibilità e razionalità, tra la capricciosa sensibilità rococò e l’esigenza di un nuovo criterio di ragionevolezza e verità; l’entusiasmo preromantico per il mito dell’«ingegno» libero e inventore dell’artista, e l’impossibilità di fare a meno del riferimento solido e convalidante offerto dalla sancita tradizione dell’antichità classica.”3 Diventa quindi importante la creatività nell’arte, gli artisti si rifiutano di accettare per veri i principi dell’estetica classica, che impone una rappresentazione corretta e scientifica della realtà. Il rifiuto di questi criteri assoluti desunti da una natura superiore, porta al riconoscimento del carattere irrazionale della creazione artistica. Si fa appello all’aspetto emozionale, al sublime, le cui fonti sono le passioni forti provocate dal dolore, da ciò che è terrifico, dal pericolo, dall’oscurità, dalla morte. Le idee oscure se trasmesse opportunamente, hanno un effetto maggiore delle idee chiare. Il piacere nasce dall’orrore o dal timore, dallo sgomento che ci attrae verso ciò che ci supera; lo spettacolo di ciò che è vasto e infinito, della magnificenza, dei colori tristi e foschi, tutto ciò produce reazioni sublimi. In Piranesi si manifesta la prima concreta attuazione artistica del sublime così inteso, potendosi spiegare il suo utopismo con l’accettazione del nuovo ruolo attribuito all’immaginazione, quale strumento di progresso, fonte di ipotesi non formulabili in altro modo. 3 M. G. MESSINA, Teoria dell’architettura in Giovanbattista Piranesi, in Controspazio, agosto-settembre 1970, p.6 16
La rinuncia alla pratica. Piranesi non è ricordato sicuramente dai più per le sue opere architettoniche che, in numero limitato, ha compiuto durante la sua vita; ad un esame superficiale sembrerebbe più che altro un vedutista di tradizione veneziana, un bravo illustratore della magnificenza di Roma. In realtà, pur nella sua pittoricità, egli sottende sempre un’intenzione progettuale. Nel porsi come disegnatore e storico dell’architettura utilizza un linguaggio grafico che esplicita l’impossibilità di conciliare il mito dell’antico con la ragione. Accanto alla tendenza, di natura culturale, che lo porta alla precisa fedeltà al vero, al rigore necessario ad una rappresentazione di ambiente storico, convive in Piranesi una tendenza di natura strettamente fantastica, che lo induce a trascendere dal contesto architettonico, il quale diventa una fonte di inesauribile ispirazione, pur nel rispetto della realtà storica. E’ importante sottolineare anche il fatto che, essendo la sua opera quasi esclusivamente disegnata, ha più libertà nell’adottare generi, tecniche e stili, anche non consueti per la sua epoca. La sua bravura è anche quella di porre le basi del linguaggio del diciannovesimo secolo usando i codici iconografici del suo secolo, per poi stravolgendoli portandoli all’eccesso. Non bisogna pensare che il fatto di non costruire quasi niente sia un ripiegamento, infatti dalle parole con cui Piranesi scrive la lettera al signor Giobbe è chiara la sua volontà di essere “architetto disegnatore”. “…altro partito non veggio restare a me, e a qualsiasi voglia altro Architetto moderno, che spiegare con disegni le proprie idee, e sottrarre in questo modo alla Scultura o alla Pittura l'avvantaggio, che come diceva il grande Juvarra, hanno in questa parte sopra l'Architettura: e per sottrarla oltresì dall'arbitrio di coloro che i tesori posseggono, e che si fanno credere di potere a loro talento disporre delle operazioni della medesima ...”4 Il vantaggio che la pittura e la scultura hanno, è quello di non doversi confrontare con la realizzazione, e quindi essere più libere nell’espressione perché il loro compito è quello di creare delle immagini. Nell’architettura questo spesso passa in secondo piano e si da più importanza alla costruzione, Piranesi invece lavora molto sull’immagine, sia su quella degli edifici, sia su quella costruzione, interessandosi alle tecniche costruttive dei romani. Addirittura la rappresentazione è superiore alla costruzione, perché sul foglio si può realizzare l’irrealizzabile, ed è possibile dare agli edifici una complessità compositiva difficilmente fattibile nella realtà. E’ sempre lo stesso Piranesi ad affermare che ormai è trascorso il tempo della grande architettura, quella dell’antica Roma, e quindi l’architetto non può far altro che inventare, disegnare, progettare. Seguendo il pensiero della cultura di quel periodo anche egli è convinto che l’architetto debba avere una solida preparazione tecnica nel disegno di piante e prospettive.
4 G. B. PIRANESI, Prima Parte di architetture e prospettive, Roma 1743, lettera dedicatoria al signor Nicola Giobbe 17
Con Piranesi entra nella storia dell’architettura moderna il tema dell’immaginazione, con tutto il suo significato ideologico. Nelle sue incisioni prescinde dalle condizioni storiche reali e anticipa i problemi progettuali che esploderanno in seguito. In questo modo esalta la capacità di creare dei modelli che gli servono a contestare la cultura architettonica corrente. Il suo rifiuto alla pratica non deve essere letto come un passo indietro, ma anzi è un forte salto verso il futuro e verso le tendenze europee del secolo. Si lega infatti alla cultura architettonica illuminista, alla cultura dell’ipotesi, che in quanto tale non offre soluzioni e non deve essere necessariamente realizzata. Anticipa il progetto di sfida alla tradizione, quindi anticlassico, distruggendo i linguaggi stilistici e normativi dell’architettura, a vantaggio di una creazione liberata da ogni sistema chiuso. Come afferma Tafuri, Piranesi attraverso le sue incisioni denuncia il ruolo autonomo dell’utopia che essendo svincolata dalla realtà è l’unico modo di uscire dalle costrizioni del presente. “L'invenzione, fissata e diffusa tramite l'incisione, rende concreto il ruolo dell'utopia, che è proprio nel presentare un'alternativa che prescinda dalle condizioni storiche reali, che si finga in una dimensione metastorica: ma solo per proiettare nel futuro l'irrompere delle contraddizioni presenti.”5 Egli si trova in un periodo in cui dilaga il culto per l’arte greca, in una Roma che si è adattata al classicismo fatto di norme. Il passato è usato da lui in senso critico rispetto al proprio tempo, senza però ridurlo ad uno schema rigido. Piranesi si fa autonomo produttore di cultura , spiegando le sue idee liberamente, con i disegni, senza essere legato dalle esigenze della commissione pratica. Propone un’idea di antichità alternativa a quella greca, difendendo l’arte e le virtù dei romani e degli italici. Roma è sicuramente un esempio importante da prendere in considerazione, ma non gli serve per tradurre in senso pratico le sue idee architettoniche, ma per lui assume un valore metastorico, perché è l’esempio di una cultura tecnico-materiale capace di tradursi in forma simbolica. Piranesi viene completamente assorbito dal compito di interpretare le rovine e i reperti di scavo. I suoi rilievi non sono sterili, ma è come se ridessero vita alle rovine che acquistano una nuova personalità, è questo che si intende con parlanti ruine. Il suo scopo è quello di riattivare l’autentico spirito dell’architettura romana sia repubblicana che imperiale, e il mezzo migliore che far ciò non è la pratica costruttiva, ma l’incisione.
5 MANFREDO TAFURI, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980, p.40 18
La dissoluzione della forma Opere molto diverse di Piranesi, compiute anche ad anni di distanza tra loro e con temi che a prima vista non hanno nulla in comune, in realtà sottendono lo stesso principio di dissoluzione della forma e di vuoto di significato. Le Carceri e il Campo Marzio dimostrano questa presa di coscienza da parte dell’autore, attraverso la dissimulazione della geometria e del linguaggio classico. Le Carceri sono le prime ad attrarre l’attenzione su di sé, sia perché hanno il vantaggio di essere state riprese dall’autore quindici anni dopo, sia perché sono la prima raccolta in cui si esprime in maniera indipendente. Essa ci mostra come Piranesi sia in possesso di tutta la sua potenza immaginativa già dal 1745, cioè prima di intraprendere la serie di vedute sulle antichità romane. Le tavole della Prima Parte sono indispensabili per capire come si sviluppa il pensiero di Piranesi, in esse infatti possiamo già ritrovare l’ampiezza delle proporzioni e lo stesso tipo di composizione presenti nella seconda edizione, le Carceri vere e proprie dove però una spinta immaginativa ancora più forte gli conferisce una maggiore potenza e una maggiore drammaticità. In questa seconda edizione vengono aggiunti nuovi accessori che complicano l’aspetto della tavola, le ombre sono più scure e più contrastate, la scena appare più profonda, però tutto è più definito e più concreto. Si nota una certa solidità delle parti, senza che esse siano appesantite, sicuramente il frutto degli studi effettuati sulle rovine romane, sullo spessore dei loro muri e delle loro masse. I lineamenti sono maggiormente definiti, non danno più l’idea di trovarsi in un sogno, ma si inseriscono nella realtà concreta. Infatti, anche se guardandole si sarebbe tentati di ritenere che esse siano libere fantasie, la loro matrice va ricercata nei monumenti romani, ed è lo stesso autore a dichiararlo. La materia è più poderosa e più compatta grazie anche all’effetto che deriva dalla maggiore scurezza. La luce arriva sempre dall’alto, come se ci si trovasse in un sotterraneo e non scaccia mai via completamente le tenebre. Nelle Carceri si ha come un senso di oppressione, ma questo, come notato da Tafuri, non è dato dall’assenza dello spazio, ma dalla sua apertura verso l’infinito. Il senso dello spazio è sovvertito, gli edifici hanno proporzioni così vaste che non si possono cogliere con l’occhio umano, lo spazio si gonfia e si moltiplica. Si ha una distruzione della scatola dell’involucro con una confusione di compenetrazione tra interno ed esterno, i piani non sono continui ma sfalsati, i percorsi sono elusivi con passerelle che non conducono da nessuna parte, scale a spirale che si attorcigliano su se stesse. Con queste tavole Piranesi mostra chiaramente che la geometria euclidea, i solidi semplici e le modularità non rappresentano il fondamento dell’architettura. A questo scopo utilizza una prospettiva che non è centrale, è molto allungata e i punti fuga sono fuori dal foglio, ma non solo, i punti d’osservazione possono essere molteplici. La complicazione prospettica, lo stravolgimento architettonico e spaziale, sono stati spesso letti anche in chiave preromantica per il senso di terrore che proviene dall’infinità 19
degli spazi. Ma è Tafuri a dare forse l’interpretazione più profonda individuando nella tavola IX la chiave di lettura per l’intera opera: “A prima vista, la tavola sembra presentare un polemico ingigantimento del tipico artificio barocco del cannocchiale prospettico, inquadrato da un'apertura ovale (…).Osservando più attentamente l'incisione, ci si accorge che la rete di travature, scale e passerelle sospese nell'aria non solo si proietta al di qua del primo piano dell'occhialone, ma attraversa una seconda struttura ovale, che emerge dal consueto sfumarsi ddl'immagine nelle spire dj fumo e nella profondità dello spazio. E non basta .Il taglio diagonale dell'ombra sulla struttura che fa da base, e lo stesso apparire della forca in primo piano, assente nella prima edizione dell'incisione, avverte che ciò che sembrava un «esterno» è in realtà un « interno » : ci accorgiamo, ora, che lo stesso osservatore è immesso nella struttura formata dai grandi ovali disposti in serie.”6. Lo spettatore è così chiamato a ricomporre i frammenti di un puzzle che, alla fine, si rivela insolubile nella sua incoerenza. Il carcere solitamente è uno spazio finito, invece l’angoscia qui è affidata, in contraddizione con la sua funzione, alla presenza di uno spazio infinito: le Carceri sono “prigioni architettoniche”, tortura del costruire che si svolge in questa contraddizione di fondo. La dialettica tra finito-infinito è qui realizzata attraverso l’artificio dell’equivalenza dei piani prospettici e il moltiplicarsi dei punti di fuga. L’uso così rimarcato delle rette e delle diagonali, se nella complicazione, rimanda alla spazialità barocca policentrica, in realtà nasconde un’intenzione reattiva nei confronti proprio di essa. Infatti, la spazialità barocca ha comunque una propria organicità e continuità che invece Piranesi interrompe, sostituendola con uno spazio discontinuo. Inoltre, la stessa disarticolazione degli organismi, invalidando di continuo i riferimenti storici che egli evoca (l’architettura romana ed etrusca), lascia intuire di non volersi adattare ad un classicismo prefigurato. Nelle tavole viene completamente abbandonato ogni riferimento alla tradizione albertiana della concinnitas come insieme armonioso di parti, e ancora di più vengono abbandonati i tre principi vitruviani di firmitas, utilitas e venustas, per far posto alla tecnica della variazione. Ci si trova di fronte ad una frantumazione dell’ordine architettonico, a distorsioni spaziali, scomposizioni, moltiplicazioni, che lasciano trapelare una critica al concetto di luogo. Queste però non sono tanto lo specchio di una cultura o di una società che si sente smarrita di fronte alla perdita dell’oggettività della natura, ma riflettono più che altro l’interiorità del soggetto. Questo stato d’animo ha un riferimento sia psicologico che spaziale, ed è quello del labirinto. Le Carceri, con le loro scale che non conducono da nessuna parte, di volte che non sostengono e spazi che non sono stanze, appaiono come la riattualizzazione del’archetipo del labirinto.
6 MANFREDO TAFURI, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980, p.33-34 20
Carceri d’invenzione, tav. VII, primo stato
Carceri d’invenzione, tav. VII, secondo stato
Carceri d’invenzione, tav. IX, secondo stato 21
Nel Campo Marzio, la dissoluzione della forma viene portata alla struttura urbana. L’Iconografia è una gigantesca pianta composta da sei tavole con la ricostruzione di Roma alla fine dell’impero. Così, partendo dalla pianta della città, dove i resti del passato sono abilmente inseriti in sistemazioni sproporzionate rispetto agli spazi reali, Piranesi riscopre i tracciati, il tessuto planimetrico con le sue maglie e i suoi punti nodali, quella spazialità insomma, che era il frutto del genio costruttivo e progettuale dei romani. Non si ritrova l’oggettività storica, ma bisogna guardare quella ricostruzione con gli occhi dell’architetto, la cui carica visionaria lo porta a superare i limiti della realtà, finendo col prevalere sull’archeologo. La storia romana viene distorta, in quanto il suo spazio è disarticolato secondo la logica dello spostamento, “Tutta la zona fra il Tevere, il Campidoglio, il Quirinale, il Pincio è configurata secondo un metodo di associazione arbitrario, il cui principio di aggregazione esclude ogni organicità”7, anche gli assi e le griglie che sono riconoscibile servono solo ad esaltare la logica del frammento. In questo modo Piranesi frantuma i modelli tipologici, li ridicolizza, la regola viene data dall’eccezione. Lo spazio non è più gerarchizzato, perde il suo ordine e non è più visto in funzione dell’abitare, non può più essere occupato. Diventa un puzzle di frammenti, risultato di un progetto che procede per successivi accostamenti e agglomerazione di tipologie. La tipologia non è più l’elemento di ordine e di razionalizzazione dentro la città, essa si dimostra tutto l’opposto, mette in luce le contraddizioni. L’uso dell’archeologia e della tipologia viene ribaltato, per esplorare tutte le possibilità della variazione. Nel Campo Marzio Piranesi monta monumenti antichi opportunamente reinventati con ambienti del tutto originali e complessi. Gli edifici di cui esistono riferimenti reali sono ricomposti mediante soluzioni architettoniche creative che non si trovano nell’antichità, essi sono solo un pretesto per l’invenzione “fedele” alle caratteristiche dell’antico. Piranesi disegna complessi accostati l’uno all’altro, fino a saturare lo spazio, che si compongono attraverso elementi autonomi aventi una simmetria propria e attraverso una serie complessi con differente destinazione, fra loro coordinati da un unico asse. Insomma, forme antiche in composizioni nuove, nell’accettazione dell’idea di un’architettura impotente a formulare nuovi disegni. Quello della variazione è l’unico sistema che a Piranesi sembra attuabile, l’unica tecnica adottabile, data l’impossibilità di coniugare il segno e la semantica. Nel Campo Marzio l’eccesso di rumore visivo causa il vuoto semantico. Il disordine, la molteplicità dei frammenti, il montaggio discontinuo delle forme e delle memorie rendono esplicita l’eterotopia, nel senso originario del termine che indica quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano. Non c’è più un ordine complessivo, ma ogni struttura tende alla singolarità, all’eccezione. Per Tafuri l’eterotopia coincide con l’utopia negativa, in quanto in Piranesi convivono in modo
7 MANFREDO TAFURI, G. B. Piranesi: l’architettura come utopia negativa, p.103 22
conflittuale gli opposti, negazione-affermazione, razionale-irrazionale, che non riesco a scindersi, e bisogna accettare questa convivenza. “L’eterotopia piranesiana è proprio nel far parlare in modo assoluto ed evidente tale contraddizione”8. Questa utopia è negativa in quanto, dopo questa scoperta, non tenta di trovare delle alternative, ma accetta la sconfitta, accetta la dissoluzione della forma. Questo, però, può anche essere letto come un primo tentativo di formulare qualche proposta, si accetta che non può esserci organicità, che tutto è frammentario, e si cerca allora di formule delle ipotesi con la tecnica del bricolage. Attraverso l’uso della dialettica il “negativo” viene reinserito nel sistema, e la contraddizione diventa quindi recuperabile. In definitiva, nelle Carceri che nel Campo Marzio, Piranesi mette in scena la perdita del significato, lo spazio frantumato non è più praticabile e ciò che rimane è solo il segno, anticipando dei temi che sfoceranno poi nelle avanguardie storiche e nelle neo-avanguardie del secondo dopoguerra.
Piranesi, il Campo Marzio dell'antica Roma,1762, particolare della Mole Antoniana e dintorni 8 MANFREDO TAFURI, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980, p.63 23
Piranesi architetto Le teorie sull’architettura enunciate da Piranesi nei suoi scritti e soprattutto nelle incisioni, non vengono negate neanche nelle poche opere che realizza nella pratica, che però non hanno riscontrato molto successo. Nel 1764 ricostruisce la chiesa di S. Maria del Priorato; quando gli viene affidato l’incarico, da parte del cardinale Giovan Battista Rezzonico, di risistemare il complesso del Priorato, l’architetto si trova al culmine della sua riflessione storico-teorica, ma, a parte qualche progetto e delle decorazioni, non ha ancora avuto una seria esperienza architettonica. Piranesi vede, nell’intervento sull’antico il luogo ideale dove, l’impronta individuale può continuare ad agire aggiungendo nuovi segni sul palinsesto stratificato. E’ questo il senso dell’intervento al Priorato, dove l’architetto sostituisce e ricompone, ma lavora anche nelle intercapedini, nei recessi. Il cantiere di restauro diventa così un luogo dove l’architetto si spersonalizza, ma quello in cui, paradossalmente, gli è possibile lasciare il segno, proprio perché lavora su un tessuto non anonimo. L’operazione non si limita solo alla trasfigurazione sintattica e lessicale della facciata e dell’interno, ma anche le strutture da rinforzare. Le grandi opere di rifacimento iniziate dalle fondazioni e progrediscono col rialzamento della facciata, ovvero la realizzazione del celebre fastigio, fino ad arrivare al rifacimento del tetto. Il fastigio è senza dubbio la parte più originale aggiunta da Piranesi, si tratta di un’invenzione scenografica che non muta la struttura cinquecentesca della facciata, ma gli serve a cambiare le proporzioni tra le parti, per esempio in questo modo il centro del’oculo preesistente va a coincidere quasi esattamente con il centro geometrico della facciata, e la vecchia facciata non è più il solo luogo di esposizione. Il fastigio non assolve nessun compito funzionale, è solo un elemento che egli utilizza per denunciare il rifiuto di un ordine canonizzato. E’ molto importante anche la decorazione del fronte e del fastigio, infatti gli ornati della facciata sono disposti simmetricamente, ma collocati senza rispetto per un ordine costituito, dando voce a quella dissoluzione dei codici che è uno degli obiettivi dell’architetto. Essi sono costituiti da elementi lessicali dell’antichità già decostruiti, reinterpretati e riproposti nelle “Diverse Maniere”, qui collocati in uno spazio spiazzante. Trovano in questo modo posto gli ornati già esistenti, due corazze lavorate con arabeschi, mascheroni, le aquile bicipiti (simbolo dei Rezzonico), un’iscrizione dedicatoria di modello rinascimentale e, a coronare le paraste della facciata, dei capitelli eclettico-ionici. Nel complesso, dunque, l’intervento mette in atto le indicazioni del “Parere”, che però vanno interpretate come un’apertura dialettica tra innovazione e tradizione, dissoluzione lessicale e difesa di essa. “Ma anche questa rimemorazione, quando pure rimette in gioco i fondamenti della sintassi e della semantica architettonica attraverso la dissoluzione della geometria, il travisamento della storia, il gioco di scarti, o come nel caso di Piranesi, la ricomposizione creativa dei lacerti dell’antichità, impone la consapevolezza di riconoscere che questi atteggiamenti non 24
permetteranno da soli di « uscire dal labirinto che essi obbligano a percorrere». E’ infatti il loro determinarsi come luoghi nel tempo che li rende manifesti dell’esperienza umana che li attraversa”.9 Anche la decostruzione spaziale, affrontata da lui con tanta convinzione nei disegni, ha modo di essere messa in pratica in questo intervento, però non nella definizione della chiesa, ma nella costruzione della nuova piazza, dove è la morfologia spaziale a subire un lavoro di destrutturazione.
G. Cassini, il Priorato, in Nuova Raccolta 1779
Facciata di Santa Maria del Priorato senza il fastigio
9 P. PANZA, Piranesi architetto ,Guerini Studio, Milano, 1998, pag. 15 25
Tra gli interventi compiuti all’interno, quello più significativo è l’altare di San Basilio. Anche questo si presenta come una sommatoria di elementi disposti come se non ci fosse una logica sottesa: il tronco di piramide del sarcofago a pianta ovale posto a coronamento, il medaglione centrale, il globo con il gruppo statuario del volo del santo inserito nella piramide sono ricomposti in maniera confusa. La sommatoria degli elementi ancora una volta conduce alla decomposizione, in quanto le parti si articolano internamente con delle logiche che non creano unità. Anche la disposizione delle fonti di luce contribuisce a creare ambiguità, il complesso si trova controluce rispetto all’abside, ma direttamente investito dalla luce che proviene dall’alto. Il retro dell’altare risulta così illuminato dalla luce che proviene dall’abside, accentuando i volumi geometrici: una nuda sfera e un solido con dalla struttura complessa. Dall’interpretazione che ne fa Tafuri esso risulta essere molto coerente col pensiero del’autore, giungendo alle stesse conclusione del Campo Marzio:“Ciò che è dato come evidente, come immediata sollecitazione visiva, da un punto di vista comune, si ripresenta depurato, reso pura struttura intellettuale, nel suo rovescio, nel suo lato nascosto.(…). Nessun'altra opera piranesiana riesce, come l'altare della chiesa dei Cavalieri di Malta, a rendere così violentemente esplicita l'essenza ultima della sua ricerca. Ciò che le due facce, insieme, dell'altare di San Basilio rendono brutalmente evidente è la scoperta del principio di contraddizione. (…) Si può tranquillamente affermare che la sfera ermeticamente inserita nel muto colloquio dei solidi geometrici, emergenti dall'altare, è il termine ultimo, di continuo sfuggito e temuto, della ricerca piranesiana. Il vuoto assoluto, il silenzio delle cose sole, l’affermazione tautologica del segno puro, rivolto unicamente a se stesso: avevamo intravisto nel Campo Marzio la dimostrazione per assurdo di tale necessario nullificarsi del significato”10. Anche in questo caso ritroviamo il concetto dell’inscindibilità di coppie di opposti che si trovano, nel complesso, costrette a convivere, da una parte l’astrazione e dall’altra la rappresentazione, da una parte il raggelarsi dei segni e dall’altra la esuberanza delle’immagine, e ancora una volta è possibile trovare una soluzione solo accettando questa coesistenza.
Piranesi, altare di San Basilio 1765, Santa Maria del Priorato, fronte e particolare del retro 10 MANFREDO TAFURI, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980, p.66-67 26
L’attualità di Piranesi Dal’analisi delle teorie e delle incisioni di Piranesi, sono già emersi dei caratteri che lo possono far considerare un anticipatore di alcune teorie che avranno piena voce un secolo dopo e anche oltre, fino ad arrivare a i nostri giorni. Piranesi è il primo a trarre le conclusioni più laceranti del discorso dell’illuminismo, mettendo in crisi gli ideali di totalità e di universalità che fino a quel momento erano contenuti nella forma architettonica. Nel Campo Marzio la tipologia invece di essere un elemento di ordine, si dimostra tutto l’opposto. Le contraddizioni non sono risolvibili, i vecchi valori sono distrutti, possiamo ritrovare in questi termini un riferimento alle avanguardie e particolarmente all’esperienza di Dada. Per i suoi fondatori gli oggetti, ormai tutti mercificati, hanno perso ogni significato e sono ridotti a segni, però attraverso i ready-made, oggetti presi dalla realtà di tutti i giorni, essi possono essere recuperati, accettando il reale si può agire su di esso. Le avanguardie “negative” ritrovano così il loro volto costruttivo. Il negativo non viene quindi semplicemente contemplato, ma viene fatto agire, e fondamentale a questo fine risulta la tecnica del montaggio che Piranesi utilizza nel Campo Marzio. Questo, con un ulteriore salto temporale mi rimanda ad un testo scritto nel 1981 da Colin Rowe, anche in questo si parla di utopia e di crisi: “Suggeriamo che l’approccio collage, un approccio in cui gli oggetti siano strappati o traviati dal loro contesto sia, oggi, l’unico modo di affrontare i problemi fondamentali tanto dell’utopia che della tradizione.”11. Il collage agisce improvvisamente, con oggetti che provengono dal mondo, in modo non lineare, per cui anche il tempo risulta spezzettato. In quest’opera si contrappone la città del Movimento Moderno alla città che nasce quasi per caso, seguendo l’idea che la sensibilità contemporanea è fatta di molta frammentarietà. La visione della realtà è frammentaria, è a collage. Nel far ciò non a caso prende a esempio il sistema aggregativo di Villa Adriana, ritrovando in questo complesso la dimostrazione delle sue idee, proprio come fa anche Piranesi. “Abbiamo la curiosità della Villa Adriana, che sembra così disorganizzata e casuale , che propone il contrario di ogni totalità, che sembra soltanto accumulare frammenti ideali disparati”12. La stessa interpretazione viene data anche da un altro architetto contemporaneo Oswald Mathias Ungers, il quale tenta di utilizzare questo processo di aggregazione nei progetti per Berlino. “La città (…) non è un quadro uniforme, ma un vivido insieme di pezzi e frammenti, di tipi e controtipi, una giustapposizione di contraddizioni, un processo più dialettico che lineare”13. Come nel progetto per la casa dello studente a Enschede, tipologie differenti sono sommate per ricreare una piccola città, che però non può 11 COLIN ROWE, Collage City, il Saggiatore, Milano 1981, p.223 12 COLIN ROWE, Collage City, il Saggiatore, Milano 1981, p.149 13 OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva, in Lotus International, n°24, 1979, p.10 27
essere fissata, ma essa è in continua formazione e trasformazione. La città viene vista da lui come un catalogo di forme infinite che continuano a variare. Il tema della variazione è un tema importante anche per Piranesi, esso emerge non solo in riferimento a Villa Adriana ma, come sottolinea Tafuri, anche quando parla delle antichità romane. Pur difendendo con ogni mezzo le costruzioni antiche, Piranesi è costretto ad ammettere che non si possono ritrovare delle radici sicure neanche negli edifici romani. Ancor di più critica rigorismo del naturalismo e il mitico seguace primitivo della Natura, che è da lui definito come inventore in un passo del Parere: “voi biasimate [criticando la necessità del continuo rinnovamento formale] quello stesso spirito, che fu l’inventore che voi lodate, e che accortosi di non aver perciò accontentato il mondo, si vide costretto a variare per quel verso e quel modo che vi dispiace.”14. Piranesi si dimostra anche un anticipatore di quella crisi della professionalità dell’architetto che avrà sfogo due secoli dopo con Adolf Loos, con la distinzione tra architettura ed edilizia. Egli sostiene che gran parte dei moderni compiti dell’edilizia riguardano più la tecnica che non l’arte, e in questo modo toglie all’architetto il suo ruolo. Piranesi però, non accetta questo destino, per l’autore del Campo Marzio è impensabile ammettere che si possa fare architettura attraverso l’uso di forme pure, perché questo porterebbe direttamente all’elementarismo e alla conseguenza che chiunque potrebbe fare l’architetto. La progettazione verrebbe espropriata delle qualità intellettuali per far posto ad una figura professionale puramente tecnica. Il razionalismo e il funzionalismo hanno minato il carattere di unicità dell’opera, spersonalizzandola e togliendo autorità all’autore, che è così destinato a rimanere nell’anonimato. È per questo che Piranesi recupera il passato, perché se l’architetto ormai non può permettersi di lasciare la sua impronta individuale, forse agendo sull’antico può ambire ad aggiungere almeno un segno sulla stratificazione architettonica. Loos, nello stesso tempo non abbandona la continuità con il passato e, proprio come Piranesi, ammette l’appropriazione eclettica della decorazione archeologica, escludendo categoricamente l’invenzioni di decorazioni moderne. Questo suo atteggiamento si riflette soprattutto negli interni domestici che realizza. E’ importante analizzare Piranesi, per capire malesseri che accomunano i diversi secoli diano poi risultati così differenti, ma anche per capire che anche quando sembra che non ci siano soluzioni possibili, la ricerca architettonica è stata sempre capace di trovare nuove risposte.
14 PIRANESI, Parere su l’architettura, in La sfera e il labirinto, M. TAFURI, Einaudi, Torino 1980, p.57
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Piranesi a Villa Adriana
Il Settecento, come già visto prima, è stato un secolo d'oro per gli studi di Villa Adriana. Però la visita a questo sito era nel Settecento un' esperienza lievemente diversa da quel che era stata due secoli prima, ai tempi di Ligorio, quando cioè tutto il suo territorio era di dominio esclusivo del cardinale Ippolito d' Este. Nel corso del Seicento, le terre occupate dalla Villa erano finite in possesso di circa quarantacinque proprietari, che le avevano suddivise in appezzamenti irregolari coltivati o tenuti a pascolo, dove fra le rovine sorgevano i pittoreschi casolari dei fittavoli. Da una pianta redatta nel 1704 da Giovanni Ristori Gabbrielli si vede chiaramente come Villa Adriana fosse frazionata in tanti campi da sembrare un mosaico. Era così molto difficile avere una visione unitaria e una comprensione totale del ricco impianto della Villa che ha uno spazio molto articolato. Probabilmente è per questo che Piranesi decide di tracciare una pianta di tutto il complesso, che verrà pubblicata postuma a cura del figlio Francesco nel 1781. Egli produce inoltre 10 tavole rappresentanti le rovine che inserisce nelle “Vedute di Roma”. Con Piranesi si instaura un nuovo rapporto tra architettura e archeologia: delle scoperte archeologiche viene riconosciuta l’importanza non solo sul piano dell’avanzamento delle conoscenze storiche, ma anche per la revisione delle teorie architettoniche. Inoltre unifica le operazioni pratiche di scavo, rilievo, di indagine strutturale, con lo studio delle fonti, rovesciando il tradizionale procedimento deduttivo che, partendo dalle testimonianze letterarie, le applica ai resti. C’è qualcosa nel processo di rilievo dei monumenti antichi che Piranesi trova particolarmente interessante, è
il lavoro ricostruttivo, infatti c’è una scarsa possibilità di recuperare una visione
completa dell’edificio e del suo contesto, più che i corpi delle antichità si vedono i frammenti. Questi frammenti devono essere ricomposti e riassemblati, procedimenti che Piranesi teorizza possano essere usati per la progettazione. Villa Adriana è uno dei complessi antichi che probabilmente si avvina di più alle sue teorie architettoniche e forse è proprio per questo che si è interessato della Villa e vi ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. Nella residenza adrianea possiamo ritrovare manufatti architettonici appartenenti ad ambiti spaziali e temporali differenti, formalmente citati o, più spesso, reinventati, rivelando una casistica di forme che portano alla concezione del Campo Marzio.
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La Pianta Importantissima per lo studio di Villa Adriana è la pianta tracciata da Piranesi. Il suo rilievo stupisce per la precisione con cui è stato eseguito, non solo le parti direttamente misurate sono esatte, ma anche quelle inventate da lui, e che ha avuto l’accuratezza di disegnare con un tratto diverso, coincidono con i resti venuti in seguito alla luce con gli scavi archeologici. Piranesi dunque, non si è limitato a segnare quello che vedeva, ma per dare completezza all’opera ha aggiunto tutto ciò che non poteva vedere ma che secondo lui esisteva. In questo modo ricostruisce la trama delle relazioni tra le varie parti ricomponendo gli sparsi frammenti del discorso architettonico. Egli arriva anche a inventare completamente alcune fabbriche, seguendo le teorie storico-artistiche del momento, e in funzioni delle utilizzazione assegnate dalla storiografia, ma in questo ci mette tutta la sua profonda conoscenza delle antichità romane e la sua intelligenza di architetto. La pianta che rappresenta Villa Adriana può, a mio parere, essere interpretata come un vero e proprio progetto dell’autore. Una città di eccezioni, in cui si incarnano le sue teorie che vedono nella continua variazione tipologica l’unico metodo di progettazione possibile. Gli edifici della Villa sono, nello stesso tempo, appartenenti a una particolare tipologia, ma anche una variazione di essa, un unicum. Ne è un esempio il Teatro Marittimo, un edificio a pianta centrale con un colonnato circolare, che non trova nulla di simile tra gli edifici conosciuti. Anche la disposizione stessa delle fabbriche è molto importante, sembra quasi casuale, sembra che gli edifici si incastrino tra loro compressi da non una forza superiore, ma in realtà possiamo trovare degli assi generatori lungo i quali si collocano le diverse architetture. Tutto questo fa ancora una volta pensare al Campo Marzio disegnato dallo stesso autore. Della pianta bisogna evidenziare come faccia trasparire il rapporto che le rovine intrattengono con la natura e con il terreno, forse a sottolineare il fatto che Piranesi aveva capito che la disposizione degli edifici aveva uno stretto legame con il territorio e con la conformazione del terreno stesso, e anche con le prospettive che si venivano a creare. Piranesi si rifà comunque alla pianta di Contini, la usa come guida e si lascia influenzare da essa dove non trova niente; questo lo porta però a commettere degli errori che erano già stati fatti dal primo disegnatore. Per esempio ritroviamo l’inesistente Teatro Latino, il passaggio della via carrabile sotterranea per i depositi di neve, l’angolo errato con cui la via Carrabile si immetteva nel Grande Trapezio, l’inesistente connessione tra il Grande Trapezio e il braccio ovest semicircolare del Ninfeo degli Inferi, e il rilievo del ninfeo posto sul lato est dell’Accademia. Tutto ciò non diminuisce l’importanza che la pianta conserva ai nostri giorni, anche adesso che abbiamo a disposizione rilievi più scientifici, non si può prescindere dall’analizzarla quando si affronta la progettazione nella Villa. 30
Piranesi, Pianta delle fabbriche esistenti di Villa Adriana 31Â Â
Le Vedute La serie di 10 vedute delle Antichità di Villa Adriana è la sua ultima serie archeologica ed è quella che meglio esprime le due tendenze che convivono nell’autore: una di natura fantastica, che faceva di lui un pittore scenografo, l’altra di natura culturale che lo portava a mantenere una certa fedeltà al vero. Piranesi non fu fedele alle architetture in ogni cosa, ma non tanto nei particolari architettonici,quanto nei rapporti reali delle fabbriche, che vengono esaltati attraverso la disposizione del chiaroscuro. I monumenti dominano in primo piano incombendo sull’osservatore, il campo visivo è dilatato ben al di là delle possibilità dell’occhio umano, per cogliere contemporaneamente tutti gli aspetti delle strutture e quasi l’intero perimetro degli ambienti. La luce diventa protagonista, con il suo forte contrasto aumenta la drammaticità delle scene ed evidenza la ricchezza e la complessità del linguaggio architettonico, in modo che la profondità sia accentuata, sia quella delle volte che delle nicchie, e perfino una fessura nel muro diventa una caverna oscura. Molto risalto viene anche dato alla natura, la vegetazione è infestante e assedia le costruzione, avvolge le volte, si insinua nelle fratture. Gli uomini sono presenti nella composizione, ma appaiono piccoli e sgomenti di fronte alla grandezza degli antichi e al mistero del tempo. Sono figure in azione, che gesticolano e muovono le braccia per misurare lo spazio che è presentato come immenso. E’ l’architettura che domina incontrastata, le tavole parlano unicamente col linguaggio dei loro segni; non ci sono dotte spiegazioni e le didascalie sono ridotte al minimo, quel tanto che basta per dare una collocazione, una spiegazione funzionale, per far capire che si tratta pur sempre di un lavoro di rilievo archeologico. Esse, per alcuni versi sono molto fedeli alla realtà che rappresentano, riportano con molti particolari lo stato di conservazione in cui i monumenti si trovano in quel momento: i crolli, le cadute delle volte, le mancanze nei filari di mattoni, i fori per il fissaggio delle lastre marmoree dei rivestimenti e molti altri particolari, farebbe quasi pensare che anche gli alberi e i cespugli siano stati accuratamente rilevati. Per questo desta stupore il fatto che Piranesi non abbia prodotto nessuna pianta, nessuna sezione, nessun particolare costruttivo, cosa che invece fa con le antichità romane. Comunque non vi è alcun dubbio sul fatto che le vedute son basate su un rilievo archeologico dettagliatissimo, e su misurazioni prese in prima persona. Piranesi riporta su carta tutto ciò che può vedere e verificare direttamente, per questo sono forse più fedeli della Pianta, in cui si prende la libertà di immaginare le architetture non visibili. Come detto prima solo le proporzioni e i rapporti tra le parti vengono alterati; a volte ambienti piccoli e chiusi acquistano una dimensione eroica, venendo dilatati ed approfonditi; altre volte, grandi strutture all’aperto appaiono meno enfatizzate di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. 32
Analizzare alcune di queste vedute e confrontarle con delle viste attuali può far capire quanto abbia agito l’archeologo e quanto invece la parte visionaria, due aspetti che convivono in Piranesi. La prima veduta rappresenta il muro del Pecile, cioè un muro lungo più di 190 metri che faceva da spina al portico che circondava tutta quell’area, anche se l’autore lo identifica erroneamente con i ruderi degli alloggiamenti della guardia pretoriana. La veduta è caratterizzata dall’allineamento del muro, e nella zona centrale, da un avvallamento in cui possiamo riconoscere la vasca d’acqua. Sullo sfondo possiamo vedere le costruzioni della Sala dei Filosofi e del Palazzo, che però sono più alte della realtà, in questo modo il muro perde un po’ dell’enfasi che dovrebbe avere. Inoltre possiamo vedere come la veduta sia dilatata, aperta fino ad includere tutta l’area della vasca centrale, non pienamente inquadrabile in realtà.
Piranesi rinuncia, in questo caso agli effetti drammatici che avrebbe potuto ricavare
dall’incombere della grandiosa struttura, puntando invece sulla dilatazione dello spazio. A parte questo si nota come sia perfettamente fedele al vero, il rilievo dell’apparato murario riporta perfino le lacune nei filari di mattoni. Le altre differenze con la fotografia sono dovute ai restauri avvenuti negli ultimi 50 anni.
Piranesi, Veduta degli avanzi del castro Pretorio a Tivoli
Fotografia del Pecile 33
La seconda veduta rappresenta invece la sala ottagona centrale delle Piccole Terme, con il suo ricco impianto geometrico a lati alternativamente convessi e rettilinei, con la cupola mistilinea forata da quattro finestroni e le molte aperture. Essa offre a Piranesi l’opportunità di comporre una delle sue tavole più elaborate. Egli, da architetto comprende il significato rivoluzionario di questa complessa architettura e, dilatando all’estremo il campo visivo, racchiude in un solo colpo d’occhio sette degli otto lati della sala, la cupola di copertura e il piano di pavimento, disegnando una scatola spaziale ben più grande della costruzione reale. Questo ovviamente non è possibile con una macchina fotografica, la quale non riesce, come l’occhio dell’artista, a inquadrare tutta la sala neanche con un grand’angolo. Malgrado questa forzatura, la descrizione dei particolari è precisissima.
Piranesi, Dieta, ossia luogo che dà ingresso a grandiosi Cubicoli e ad altre magnifiche Stanze esistenti nella Villa Adriana
Fotografia della sala ottagona delle Piccole Terme
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Dopo Piranesi
Nel ‘800 Agostino Penna, un altro studioso della Villa, compie un rilievo importante. Il suo lavoro viene raccolto nei quattro volumi del Viaggio Pittorico, 1831-1836, in cui riproduce tutti gli edifici, tutti gli ambienti, tutte le decorazioni e le statue della Villa. Come topografo, Penna non vanta l’erudizione dei suoi predecessori, ma il suo commento si lega ogni volta a un’immagine specifica ( a ogni tavola è dedicata una pagina), così che il lettore ha modo di esaminare importanti elementi poi andati perduti, oppure sottovalutati dagli studiosi di epoche successive. Egli infatti, riporta con esattezza ogni angolo del complesso, così com’è ai suoi tempi, e di alcuni edifici solo lui compie delle illustrazioni. Gli scavi per riportare alla luce gli edifici si interrompono nel corso del XIX secolo, e vengono ripresi solo alla fine di esso. Nel 1912 Charles-Luis Boussois intraprende un rilievo della Villa, grazie anche al proseguimento degli scavi e alle nuove scoperte. Egli ha a disposizione più informazioni rispetto ai suoi predecessori, e può quindi conoscere meglio l’area. Non produce solo una pianta del complesso, ma anche dei lunghi prospetti di tutta la Villa. Nelle sue rappresentazioni possiamo notare dei colori più luminosi rispetto ai disegni di coloro che son venuti prima di lui, lo stato delle rovine è meno drammatico e i monumenti emergono con forza rispetto al contesto. Si tratta comunque di un approccio “scientifico” del rilievo, ma dal punto di vista dell’impatto visivo, sono permeati da un nuovo gusto, forse filtrato dall’Art Nouveau. Gli altri rilievi del ‘900 non sono molto ricercati dal punto di vista grafico, ma si concentrano sull’esattezza del disegno, come quello della Scuola di Ingegneria, un lavoro perfetto nelle misure anche se non completo di tutti gli edifici. Dopo sono venuti quelli della Soprintendenza e di Eugenia Salza Prina Ricotti iniziato nel 1969 e durato per ben 30 anni studiando edificio per edificio.
A. Penna, Pianta della Villa Tiburtina di Elio Adriano, Roma 1836. 35
C. L. Boussois, Pianta di Villa Adriana, 1912
Scuola degli Ingegneri, Rilievo topografico di Villa Adriana, Roma 1905
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Il lavoro di rilievo a Villa Adriana è sempre stato una sfida molto dura, in quanto è tutto un lavoro di riscoperta e ogni volta è come se si fosse effettuato un progetto nuovo e diverso della Villa. Testimonianza di ciò è il fatto che agli edifici siano stati attribuiti nomi e funzioni diversi, a seconda di che li ha rilevati, che spesso non coincidono con l’uso reale. Questo perché non ci sono testimonianze dell’epoca di Adriano che possano dirci quale sia la funzione degli edifici, e perché essi, pur seguendo delle tipologie, sono anche un’evoluzione di esse. Per questo ancora oggi si utilizzano dei nomi impropri riferendoci ad essi, nomi che sono stati dati da chi ha studiato il complesso, ma spesso con errori anche grossolani. Villa Adriana è una grande sfida per gli architetti, perché solo chi conosce molto bene l’architettura e la vita dei romani può riuscire ad interpretare in modo corretto gli edifici, a capire il loro valore, il contributo che hanno dato e che continuano a dare al mondo dell’architettura. Ancora oggi è importante studiare la Villa e lo hanno dimostrato grandi architetti come Le Corbusier e Luis Kahn, che hanno intrapreso, nel corso di questo secolo degli studi sulla residenza di Adriano, prendendo ispirazione per alcuni loro progetti.
E. Salza Prina Ricotti, Rilievo di Villa Adriana, Roma 1969-73 37
Conclusioni
Arrivati alla fine mi sembra doveroso spiegare perché, nel mio approfondimento sulla Villa, ho voluto dare tanta importanza a un personaggio come Piranesi, e cosa ho cercato di dimostrare. Dalla breve analisi dei rilievi e delle rappresentazioni fatti dai grandi architetti prima di Piranesi, si nota un approccio molto diverso, egli non vive l’esperienza del rilievo solo come un momento di studio in cui apprendere nuove forme o trovare conferma di teorie già espresse, ma per lui è già lavoro di progettazione. Piranesi compie, attraverso l’immagine, ciò che non è possibile mediante la costruzione: la consistenza di due logiche diverse: una parte l’osservazione precisa del dato, l’esattezza di uno studio archeologico e storico; dall’altra, l’invenzione della forma di edifici che appartengono al passato. Anche Palladio, abbiamo visto, si interessa a Villa Adriana ed è uno dei più grandi studiosi di antichità, nonché uno dei più grandi architetti, ma lo fa con un approccio totalmente diverso da quello di Piranesi. Palladio guarda i frammenti dell’antico, li ridimensiona e li colloca dentro un nuovo ordinamento, vede nell’antichità un corpus da cui attingere per risolvere specifici problemi compositivi della sua epoca. Invece Piranesi utilizza la sua forza immaginatrice per ricomporre i frammenti del passato in modo che rievochino la magnificenza dell’antichità, ma senza che ci diano delle sicurezze su come agire nel momento della progettazione. Può sembrare che in questo modo rinunci a trovare delle soluzioni, al contrario, così facendo individua una via da seguire, che è quella della composizione per sommatoria di elementi, proprio come succede nella residenza di Adriano, una città di eccezioni. Abbiamo visto come questo suo atteggiamento sia anticipatore di teorie che avranno piena voce più di un secolo e mezzo dopo. Per comprendere Piranesi ho ritenuto fosse importante capire il periodo storico in cui viveva, un momento di grande cambiamento, in cui tra correnti artistiche e di pensiero ormai consolidate, si stavano facendo spazio nuove idee. Questo spiega come la sua opera fosse frutto, sicuramente di una mente geniale, ma anche di una condizione storica particolare. Tutto ciò non sminuisce affatto il suo lavoro, ma spiega perché questo grande architetto abbia avuto molta influenza sulle generazioni dopo lui, e anche perché da molti sia considerato solo come un grande vedutista e incisore. Chi, come me, sta facendo un progetto a Villa Adriana non può esimersi dallo studiare la pianta e le vedute che Piranesi fa del sito. Non perché in questo modo si capisce come fosse realmente la Villa ai tempi dell’imperatore, infatti le incisione rappresentano solo rovine e non edifici interi e nella pianta le ricostruzioni sono a volte dei progetti nuovi dell’autore anche se molto fedeli al vero, ma perché è come se questi progetti si fossero stratificati sopra i resti. Non si può quindi non conoscere tutti i varie studi 38
se si vuole fare un progetto che ridia identità al luogo dove ne ha bisogno, e che non distrugga la bellezza di quello che già c’è. Nel progetto di tesi che sto sviluppando con le mie compagne stiamo cercando proprio ritrovare il senso che aveva quell’architettura e, per quanto possibile, dargli anche un significato attraverso il nuovo. Questo è possibile solo per chi ha compreso totalmente la Villa, sicuramente c’era riuscito Piranesi, noi stiamo cercando di farlo.
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Bibliografia
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VILLA ADRIANA Villa Adriana. Paradigma del contemporaneo di Fulvia Gariboldi 707739
Politecnico di Milano, A. A. 2008/2009 Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica Prof. Daniele Vitale
Indice pag. 3
Premessa
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Come il movimento moderno e le correnti successive hanno visto e interpretato l’architettura classica antica
pag. 4
Villa Adriana. Regole compositive.
pag. 4
Louis Khan
pag. 4
Oswand Mathias Ungers
pag. 4
Le Corbusier
pag. 4
Frank Lloyd Wright
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“La Villa era la tomba dei viaggi, l’ultimo accampamento del nomade, l’equivalente in marmo delle tende da campo e dei padiglioni dei principi asiatici. Quasi tutto ciò che il nostro gusto consente di tentare, già lo fu nel mondo delle forme: io volli provare quello del colore: il diaspro, il verde come i fondi marini, il porfido poroso come le carni, il basalto l’ossidiana opaca… Il rosso denso dei tendaggi si ornava di ricami sempre più raffinati; i mosaici delle mura e degli impiantiti non erano mai abbastanza dorati, bianchi o cupi a sufficienza. Ogni pietra rappresentava il singolare conglomerato di una volontà, d’una memoria, a volte di una sfida. Ogni elemento sorgeva sulla pianta di un sogno.” Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano
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Premessa
Con questo lavoro si tenta di dimostrare come Villa Adriana sia oggi come oggi un esempio molto attuale per la progettazione architettonica. Nel corso del Novecento alcuni tra i piÚ grandi architetti, come Le Corbusier o Louis Kahn, hanno attinto direttamente o indirettamente, denunciandolo o negandolo, alle forme, alla disposizione spaziale, ai fondamenti teorici su cui è costruita la Villa. Attraverso la comprensione dei linguaggi architettonici dei diversi progettisti si cercheranno di comprendere le motivazioni e i criteri dell’influenza del complesso tiburtino all’interno della produzione contemporanea.
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Villa Adriana
Regole di composizione In tarda età repubblicana e nel primo Impero la grande villa di campagna era intesa come il luogo dell’otium in cui riposare nel tempo libero, in antitesi all’attività svolta nell’urbe, cioè il negotium. La letteratura, l’arte e l’erudizione coltivate nelle capitali quali Pergamo, Alessandria e Atene mutarono profondamente e permanentemente la cultura romana; le ville di campagna vennero così trasformate in luogo di studio a cui era necessario conferire la ricca e sontuosa organizzazione che caratterizzava le residenze urbane: Villa Adriana incarna non solo l’essenza del luogo dell’otium ma anche, e soprattutto, il luogo della rappresentazione economica, sociale e culturale dell’Impero e dell’Imperatore. Per capire le scelte e le dinamiche di questo progetto è necessario rievocare non solo la concezione filosofica nella quale vive la figura dell’imperatore Adriano, ma la concezione antica della meccanica, le cui leggi e le cui conoscenze si applicano necessariamente alla lettura degli edifici, agli interventi sul paesaggio, alla realizzazione di tutte quelle opere i cui resti ancora affascinano per le dimensioni, per la riuscita, per la resistenza alla durata del tempo. La rilettura di questi resti deve dunque confrontarsi con la concezione del mondo al centro del quale Adriano costruisce il proprio potere e la propria residenza interpretandone la filosofia e le capacità tecniche;
sarà così forse possibile intuire la molteplicità di significati che le antiche architetture
intendevano avere per i contemporanei e dilatare i limiti artificiosamente imposti alla comprensione dello spazio e delle tecniche antiche da interpretazioni forzatamente classicistiche o romanticamente decadenti. Villa Adriana non è solo il risultato di un preciso programma politico e di un’idea poetica, ma soprattutto una sintesi di una scienza e conoscenza che interpreta le relazioni biunivoche tra la sfera del logos e quella più concreta e connessa al fare e alla tekne. La stessa posizione di Villa Adriana rivela una logica di lettura che comprende lo spazio che la circonda e che, seguendo la valle dell’Aniene, giunge direttamente alla valle del Tevere, a Roma, o, per meglio dire, al mausoleo di Adriano. Questa linea di continuità ideologica e ottica tra due poli, fortemente voluti e caratterizzati dal princeps, ne riassumono l’intero programma ideologico. Lo spazio della Villa è strutturato con chiara evocazione del dominio imperiale universale, lo spazio della morte è concepito come apoteosi del sovrano e in vista della continuità dinastica. La continuità fisica e territoriale tra essi suggerisce la totale inutilità di stabilire per Villa Adriana un limite o un confine. Villa Adriana venne costruita su un terreno collinoso che, discendendo dai colli di Santo Stefano, si apriva verso la pianura dell’Aniene con due rilievi principali divergenti verso nord e divisi da una valletta naturale 4
nella quale fu creato il Canopo. Ai lati esterni di questi rilievi si allungavano altre due valli percorse da fiumiciattoli, oggi quasi sempre asciutti, che costituivano i confini est e ovest del complesso. La definizione dei confini settentrionali e meridionali è invece più complessa. Esaminando la pianura a nord dell’attuale ingresso le prime tracce da collegare a Villa Adriana le troviamo vicino all’attuale ingresso, e precisamente all’altezza del Pantanello, un laghetto basso e paludoso che venne bonificato e asciugato alla fine del 1700 dall’inglese Hamilton. Questi, sul fondo, vi trovò un considerevole numero di opere d’arte che probabilmente erano state nascoste lì in un periodo di disordini e saccheggi. Ciò fa supporre che il laghetto si trovasse all’interno nel predio imperiale, in quanto mal si spiegherebbe la scelta di un luogo ad esso esterno per nascondervi i suoi preziosi tesori d’arte. Continuando verso est, più o meno all’altezza del teatro, esistono i resti di un complesso di edifici, oggi in gran parte coperti ancora da terreno, mentre al di là del rivo non esistono altre tracce consistenti di costruzioni e sembra che il fantomatico Teatro Latino rilevato da Piranesi non sia mai esistito. Ciò posto, dato che tutti i ruderi si trovano nell’area inclusa del fiumicello, si può considerare questo come limite delle costruzioni, mentre il confine nord del pendio imperiale doveva correre sul costone esterno della Valle di Tempe e poi piegare a nord del Pantanello fino a giungere alla valle occidentale. Passando al confine meridionale notiamo che fino a poco tempo fa esso veniva posto a sud dei Colli di Santo Stefano, nella zona che Pirro Logorio chiamava Pritaneo. Recentemente invece viene messa in discussione l’appartenenza a Villa Adriana di questa parte della residenza imperiale in quanto Pirro Logorio, nella sua Descriptione di Villa Adriana, afferma di aver trovato numerose costruzioni funerarie tra il Pritaneo e i Licei. E’da escludere l’ipotesi che su un pendio imperiale si trovasse un cimitero, fosse esso costituito da tombe precedenti la costruzione del predio stesso, che ad esso posteriori. Si è perciò portati a pensare che il confine meridionale del predio adrianeo fosse posto poco dopo il Liceo. Villa Adriana è sempre stata vista dalla storiografia architettonica come un episodio eclettico. Come si è già affermato in precedenza Villa Adriana può essere considerata come una realizzazione caratterizzata da evidenti- intenzioni fondative, nell' ambito di un progetto culturale globale che si proponeva la rifondazione di una civiltà. In quest'ottica la Villa si presenta come una residenza di stato, con tutta l'imponenza che il tema richiede, e nella quale l'imperatore ha voluto esprimere tutti i fondamenti della sua politica culturale. Al tempo stesso, però, è anche una straordinaria prova d'artista nella quale Adriano segue, quasi come se le avesse coscientemente assegnato il ruolo di "pretesto" compositivo, la traccia della propria biografia: un episodio eclettico, come lo definirà la storiografia, che diventerà fonte di ispirazione per molti architetti. L’imperatore infatti raccolse le copie dei monumenti classici, visitati durante il suo viaggio attraverso l’impero, così da riunire i momenti più alti della storia dell’architettura. In tal senso può essere definita come il primo esempio di architettura della memoria, che raccoglie in se differenti testi della composizione architettonica del mondo antico. 5
Dopo aver livellato tutto il colle secondo le necessità, ordinandolo su più piani, Adriano procede a comporre la sua residenza come una specie di città di fondazione, nella quale ogni singola parte pretende di assurgere al rango di monumento e di distinguersi quindi da tutto il resto. La Villa può dunque essere definita “città”, ma al tempo stesso non può essere identificata con nessuno dei modelli di città di fondazione che la storia ci tramanda come tali e cioè come schemi urbani. Villa Adriana è un monumento che si sviluppa in estensione, complessità e articolazione come una città, ma in effetti è un unico manufatto, di un'unica mano. Non è possibile tracciare cesure vere e proprie tra gli edifici: l'architettura trasfigura da un blocco all'altro, incastrando tra i rimandi a ciò che segue o a ciò che precede, costruendo un ordine distributivo complicato, vivibile come ordine solo da chi conosce la Villa assai nel profondo, intimamente. Pertanto, la città di Adriano è tale, ma solo per un occhio privato: è una città privata. Al di sopra dell'isola ogni piano, ogni livello di spiccato delle architetture è controllato al centimetro, tutto è artificiosamente delimitato e collegato alla perfezione, senza lasciare nulla al caso sebbene le giaciture sembrino spesso rincorrersi e girarsi le spalle una all' altra. Ma questo stesso piano di spiccato è costruito a partire da sotto: l'architettura nasce nel sottosuolo con un elemento che all'epoca di Adriano era già stabilmente acquisito nell' architettura delle grandi ville patrizie: la basis villae. Nel caso di Villa Adriana questa base diventa una zoccolatura vastissima, impostata su più livelli, in modo da compensare l'andamento irregolare delle quote del terreno circostante. Al suo interno ospita una rete di gallerie, di vie di comunicazione percorribili anche a cavallo e con carri che, a partire dalla via principale di accesso, si ramifica collegando tra loro tutte le architetture in più punti, con molte scale di risalita, formando quindi un vero e proprio sistema di spazi ctonii, la cui progettazione viene curata da più punti di vista. Le facciate della basis villae sono di per sé un elemento fondamentale nella composizione e dei fronti della villa verso il paesaggio esterno. Tali fronti si costruiscono canonicamente con muri sostruttivi, cioè con muri di contenimento delle terre, che diventano aree per la piantumazione di giardini pensili. Questo stesso terreno diviene dunque base di fondazione sulla quale sono impostate le elevazioni degli edifici, ma è in effetti già parte del progetto e della costruzione. Gli edifici “superiori” sembrano così costruiti su lunghissimi e spesso anche altissimi podi basamentali al di sopra ei quali, le architetture, quasi sempre, si arretrano e si chiudono verso l'interno, mediante la propria recinzione muraria cieca. La Villa soprastante assume non più di tre direzioni fondamentali e due cerniere all'interno del proprio organismo distributivo. La direzione principale è quella dell'asse maggiore del Pecile, che è anche quella a cui si conformano tutte le costruzioni a essa aggregate, avvero il blocco formato dall'Edificio con tre esedre, dal Giardino- ninfeo e dall'Edificio con peschiera o residenza imperiale invernale. È anche la direzione più evidentemente voluta, dato che è costruita con una spianata totalmente artificiale che si protende nel vuoto, in direzione della pianura sottostante e di Roma. Le due direzioni secondarie che vi confluiscono seguono regole che lasciano al solo Pecile il compito di instaurare un rapporto vero e proprio 6
con il paesaggio, mentre la parte restante della villa “è affacciata” sul cielo e sulle montagne dalle quali è dominata a est. In realtà gli edifici del primo gruppo si articolano seguendo due assi ortogonali e si dividono in due sottogruppi. Il primo comprende la Sala absidata, l’immensa terrazza del Pecile (lunga circa 230 m) e la parte di servizio sottostante i margini occidentale e meridionale della terrazza che prospetta la valle ovest. Il secondo sottogruppo è costituito da un insieme di fabbriche caratteristicamente disposte a croce e composto dal Triclinio con arcate, il Giardino- stadio e l’Edificio a peristilio con peschiera. I rapporti con gli edifici vicini si limitavano a piccoli varchi e corridoi di modeste dimensioni. In pianta la Sala a tre esedre sembra essere un semplice spazio di transito fra la vasta terrazza e il recinto dell’isola. L’asse che dalla terrazza est- ovest raggiunge il Canopo determina anche l’orientamento dei due complessi termali e del Grande vestibolo. Le due Terme, con i calidari orientati a sud- ovest, formano con il Vestibolo un edificio a T, benché situati a un livello diverso. Alle spalle delle Grandi Terme, il ripido terreno in salita fu tagliato allo scopo di creare un palestra, fiancheggiata lungo il lato orientale da un criptoportico che si collegava con atri sotterranei. Il Vestibolo fornisce un geniale esempio romano di impianto ortogonale. Lasciate sulle sinistra le Grandi Terme, appare in lontananza l’ampia volta del triclinio scenografico: il Canopo. Il blocco del canale ( di cui si è conservata la metà del pianterreno) e il prospiciente vialetto colonnato imprimono alla prospettiva una spinta in avanti e così i canale; tale spinta viene intensificata dal muro con contrafforti del parco superiore in alto a sinistra e dall’erto fianco terrazzato dell’alveo. La seconda direzione è quella determinata dalla preesistente villa repubblicana. I suoi resti vengono in parte mantenuti e riutilizzati, e il suo asse principale viene assunto quale asse di tutta l'ala di Villa Adriana che si trova allineata alla cosiddetta “Valle di Tempe”. Ci si trova di fronte a un insieme compatto e precisamente definito di elementi rettangolari che contrasta nettamente con la direzionalità variata e l’impianto insolito degli edifici vicini. La maggior parte delle costruzioni di questa zona sono situate a livello del cortile della residenza e dunque ben più a valle della residenza stessa. L’orientamento e la chiarezza rettangolare di quest’ultima si ripetono nelle nuove fabbriche presso l’angolo nord (il Salone dei cubicoli, l’Appartamento con portico, il Belvedere est) e nei contorni delle terrazze est adiacenti; la situazione appare invece radicalmente diversa per quanto riguarda le strutture della zona, che ignorano del tutto tale indirizzo (hanno infatti un generico orientamento a settentrione che crea una forte contrapposizione diagonale con la pianta del nucleo). Il nucleo e gli edifici lungo il suo perimetro sono contemporanei, nel senso che tutte le opere adrianee risalgono al periodo compreso tra il 118 e il 125. L’architettura tradizionale non viene abbandonata, ma a essa si affiancano costruzioni di straordinaria originalità. Ogni edificio adiacente al nucleo residenziale si situa in posizione nettamente separata dagli edifici vicini, tranne il Salone dei cubicoli; vi sono scale e corridoi di raccordo, ma si tratta perlopiù di comodità esterne alla fabbrica vera e propria.
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A raccordo tra la seconda direzione e la prima (dunque una “delle cerniere”), vi è l'edificio forse più rappresentativo della Villa e tra i più significativi per contenuti di invenzione tipologica, il Teatro Marittimo. La terza direzione è quella assunta dalla parte di Villa Adriana che si allinea approssimativamente all’andamento del fiumiciattolo occidentale e che costituisce quindi il fianco ovest della Villa. Questo lato, però, non affaccia verso l'esterno: infatti, la sezione degli edifici viene mantenuta a una quota tale da infossarli in una sorta di controavvallamento che ha il proprio sfogo verso l'esterno solo assialmente, e cioè ritorna verso il Pecile. Quest'ultima rappresenta, dunque, anche per questa ala, il vero punto di apertura verso l’ esterno. Si suppone che l’ingresso principale alla Villa originariamente avvenisse proprio dal lato occidentale in corrispondenza di quello che viene definito il muro delle Cento Camerelle. Si tratta delle sostruzioni che sorreggono la grande terrazza del Pecile all’interno delle quali vennero realizzati gli alloggi per la servitù. Di fianco a questa imponente struttura infatti sono stati trovati i resti di un’antica strada lastricata che conduceva al Grande Vestibolo. A circa metà di questa in periodi recenti sono stati trovati i resti di quella che con molta probabilità era la tomba di Antinoo, l’Antinoeion. Questo asse comprende anche il sistema della Torre di Roccabruna e dell’Accademia, l’estesa Terrazza ovest e il complesso sud composto dal Liceo e dall’Odeon. I restanti edifici, cioè i due teatri, il Ninfeo di Venere Cnidia e altri di cui non si è ancora certi della funzione, posti per lo più a settentrione, sono effettivamente slegati dal nucleo centrale della Villa e si trovano in posizioni sufficientemente isolate da legittimare questa slegatura. Il tempio si ergeva entro un’area semicircolare amplificata da aggiunte absidate che promanano dal centro del tempio medesimo. L’effetto che originariamente si voleva dare era probabilmente quello di evocare il promontorio di Cnido con la Tholos aperta che ospitava la famosa statua di Prassitele raffigurante Afrodite. A nord-est del tempio, ma molto più a valle, ci sono i ruderi di un nutrito gruppo di edifici di vario impianto dei quali non è ancora chiara la destinazione funzionale. A ovest, incassato in un rilievo, sorge il teatro nord sul cui lato occidentale doveva affiancarsi un enorme quadriportico probabilmente adibito a uso pratico, forse militare. Per quanto riguarda più esplicitamente l’architettura dei singoli edifici bisogna sottolineare che Adriano si pone come sperimentatore di una nuova corrente costruttiva, che si andava diffondendo fin dai tempi di Nerone, anche se in maniera non sistematica. Alla tradizionale ottica progettuale romana fondata sull’accostamento di cellule quadrangolari e parallelismo delle pareti, sulle coperture con volte a botte massive nelle sostruzioni, su percorsi ortogonali a pettine, sulla scarsa differenziazione di vani e la prevalenza di un ambiente sugli altri a livello distributivo, gli imperatori iniziano a inserire nelle loro residenze edifici che non possono avere una collocazione tipologica definita, ma che sono espressione di
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un nuovo modo di intendere lo spazio. Ma come interpreta questi cambiamenti Adriano, e come realizza la sua rivoluzione all’interno della grande villa tiburtina? Egli tende con maggior frequenza a far coincidere l’asse ottico con quello del percorso ma spostando quello stesso per ottenere una frammentazione delle visuali (Piccole Terme), e la possibilità di sorprese spaziali; sfrutta il valore della quarta dimensione ed una certa gerarchizzazione dei vani; impiega con valenza di cerniere interi edifici (Teatro Marittimo) o semplici vani; ricorre a complessi con assi differenti per sfruttarne i valori dissonanti. La spazialità coinvolge organicamente planimetrie e alzati, consentendo una maggiore coerenza scalare e conferendo a tutto il complesso una più accentuata articolazione, senza però dare la prevalenza ad un unico vano, anzi, scegliendo uno scorrimento fluido dello spazio. Tutto ciò mette in gioco il fattore sorpresa, accuratamente ricercato attraverso accorgimenti accorti come corridoi con soffitti piani e porte architravate che immettono in vani coperti da volte ad ombrello (Vestibolo della Piazza d’Oro); attenzione costante a mascherare all’esterno la forma gonfia della volta interna; corridoi voltati a botte che immettono attraverso porte asimmetriche in spazi eccezionali; schermature ottenute con colonnati uniti da archi su pulvini (Grandi Terme, Terme di Eliocamino); accostamenti di simmetrie e asimmetrie, distribuzioni su schemi radiali; corridoi di raccordo; vani uno dentro l’altro. Adriano lavora anche molto sullo sfondamento delle pareti aprendo vedute su giardini, abolendo contemporaneamente la falsa architettura e quella dipinta. L’illuminazione è più ricca e diffusa con apertura delle finestre nelle reni dei vani voltati. A questo si accompagnano soluzioni anticlassiche come appiombi di pennacchi su vani di porta, ingressi asimmetrici su corridoi absidati, pulvini su capitelli per raccogliere le spinte degli archi, crociere sospese su mensole e volte a ombrello appoggiate solo formalmente su colonne a parete. Da tutto traspare la volontà di legare i singoli episodi con vie e cerniere architettoniche non solo a livello di terra, ma anche con complessi percorsi a piani rialzati e sotterranei. Attraverso questi nuovi schemi compositivi, come abbiamo già accennato in precedenza, si accentua un nuovo tema nella cultura architettonica romana: l’avvio di un nuovo “discorso continuo”, più organico e complesso di quello “popolare”, fino ad allora usato nella progettazione. Nonostante le numerose novità che Adriano introduce in campo architettonico, egli lascia pure spazio alla
tradizione (Palazzo Centrale), cercando di unire tutto in maniera, che oggi possiamo affermare, geniale.1
“La sua rivoluzione in ultima analisi è consistita nell’aver permesso a chi aveva qualcosa di nuovo da dire di dirlo, senza per questo soffocare le voci antiche, se valide. Accogliendo nella sua villa le molte tendenze dell’epoca, egli diede una certa prevalenza a quelle che, giustamente, considerava come appartenenti al futuro: per questo si limitò ad amalgamare il tutto in un unico geniale contesto”. Adriano. Architettura e progetto. Electa, Milano, 2000. Catalogo della mostra tenuta a Tivoli nel 2000- 2001, a cura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza Archeologica per il Lazio; p. 47. 1
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Planimetria di Villa Adriana. Grazie alla colorazione delle curve di livello è possibile comprendere i suoi confini naturali.
Vedute aeree delle Grandi Terme e del Canopo (a sinistra), del Teatro Marittimo e delle Biblioteche (a destra).
Prospettiva della sostruzione delle Cento Camerelle (a sinistra), le volte delle Grandi Terme (a destra).
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L’interpretazione di Villa Adriana da parte degli studiosi dopo il 1800 Nel corso dell’ Ottocento la percezione intellettuale e artistica di Villa Adriana subì un profondo cambiamento. Il sito archeologico diventò luogo da documentare nei particolari, cui si dovesse accostare maggior scientificità per cui gli studiosi iniziarono a parlarne evitando il romanticismo storico che aveva prevalso fino a quel momento. Nonostante ciò ci vorrà ancora del tempo prima che, per all’indagine sulla Villa, vengano applicate le stesse metodologie usate per i grandi scavi di Ercolano e Pompei, anche se gli architetti si interessarono molto alle ricostruzioni, o utilizzarono liberamente le sue forme per i loro edifici. Antonio Nibby può essere indicato come il primo di coloro che iniziarono a reinterpretare gli scritti di Pirro Ligorio in maniera critica dando una lettura moderna al complesso adrianeo e rivedendone la nomenclatura (ad esempio alla definizione di Teatro Marittimo preferisce quella di Natatorio). Egli si servì di prove materiali per confutare le incoerenze rilevate nelle interpretazioni precedenti. Successivamente Luigi Canina, architetto piemontese giunto a Roma nel 1818, progettò i propilei egizi e gli obelischi presso il laghetto di Villa Borghese (1825- 1827). Egli paragonò esplicitamente il suo lavoro a quello realizzato a Villa Adriana, una trasposizione in un altro contesto di elementi appartenenti ad altri luoghi e culture (in questo caso a quella egizia)2. Negli anni che vanno dal 1831 al 1936 Agostino Penna redige, in quattro volumi, Viaggio Pittorico, un minuzioso e attento studio su Villa Adriana. Egli, attraverso le numerose tavole che descrivono le rovine, si propose di fornire una panoramica storica del sito e degli scavi, dedicando particolare attenzione ai bolli laterizi e alle tecniche di costruzione. La sua grande opera di raccolta e precisa rappresentazione, attraverso disegni e stampe di tutte le opere d’arte disperse, rappresenta un enorme patrimonio e punto di partenza per tutti gli studiosi successivi. In realtà lo studio propriamente moderno del sito si fa risalire all’uscita della monografia di Hermann Winnefeld, pubblicata a Berlino nel 1895 con una pianta commentata comprendente anche zone e fabbriche di proprietà privata, seguita l’imponente pubblicazione di Pierre Gausman del 1904, illustrata grazie a molte fotografie e disegni. Le due opere si possono però considerare complementari in quanto la prima più di stampo archeologico, mentre la seconda con un carattere storico- artistico. Nel corso dell’Ottocento molti furono i giovani studenti francesi e americani che, come vincitori del Prix de Rome, vennero in Italia per studiare le antichità classiche e produssero un numero enorme di proposte di ricostruzione fondate su solidi dati di fatto. Laddove le decorazioni possono sembrare piuttosto “Considerando che codesta Villa Borghesiana quella che più di ogni altra si avvicina per la sua magnificenza, per la sua vastità e per la sua varietà di fabbriche alla celebre Adriana Tibutina, e contando già essa tra le sue fabbriche una fortezza, un Ippodromo e diversi tempj all’uso degli anti edificati, era ben conveniente che, ad imitazione del Canopo dell’Adriana, avesse pure essa un qualche edificio consimile a quello degli Egiziani”. L. CANINA, Le nuove fabbriche della Villa borghese, Roma, 1828. Riportato in W. L. MACDONALD, J. A. PINTO, Villa Adriana. La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn. Electa, Milano, 2006, p. 348. 2
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fantasiose e improbabili, volumi e spazi furono documentati con maggiore accuratezza di quanto non fosse mai stato fatto prima. Contemporaneamente Villa Adriana divenne anche meta di studio per architetti che si iniziavano a discostare dalla tradizione Beaux- Arts: ne è un esempio emblematico Le Corbusier, che fu il primo personaggio di rilievo del movimento moderno a dedicare uno studio attento alla Villa. Come vedremo in seguito la visita che egli fece nell’ ottobre del 1911 fu un’esperienza talmente sconvolgente da influenzarne la produzione e lo sviluppo delle teorie architettoniche. Per avere una nuova importante pubblicazione e nuovo impulso alla ricerca si dovrà aspettare il 1950 e l’opera di Heinz Käjler, che aprì una nuova visione del sito. Egli descrisse sei edifici che reputava progettualmente più avanzati, ne analizzò le qualità architettoniche e spaziali e concluse con un’acuta dissertazione su Adriano e sui suoi obiettivi. La pubblicazione di Salvatore Aurigemma (1961) fu meno rigorosa, mentre negli ultimi decenni sono state molte le monografie che cercano di dare risposte nuove, talvolta più convincenti, riguardo ai molti interrogativi che propone ancora questo importante sito archeologico. Se i concetti dominanti di ordine e armonia diedero forma alle reazioni che la Villa suscitò negli architetti rinascimentali, i progettisti del Novecento ne interpretarono le rovine alla luce di una percezione della struttura formale decisamente moderna. Forse più di ogni altro sito dell’antichità la residenza adrianea si presta alla frammentazione poiché per forza di cose i visitatori esplorano la Villa in sequenza, venendo a crearsi molteplici e provocatorie relazioni formali. Non esiste un solo punto dal quale si possa godere una veduta generale dei ruderi; la memoria deve integrare i frammenti. Le piante sommarie dei singoli edifici abbozzate sul posto ispirano una reintegrazione in immagini a collage che rimandano alle prime composizioni cubiste di Picasso e Braque. Persino le piante generali della Villa, vedi quella riprodotta da Le Corbusier in Vers une Architecture, sollecitano una risistemazione. Quelle curve di livello, non registrando alcun rapporto architettonico tridimensionale, assumono addirittura il carattere di astrazioni pittoriche: ne è un esempio la pianta inserita in Design of Cities di Edmund N. Bacon che mostra solo la parte centrale della Villa lasciando gli edifici che ne fanno parte liberamente sospesi sulla pagina, senza un unico segno convenzionale che li fissi al terreno ondulato; le linee assiali sovrapposte, tracciate con colori diversi, la rendono ancor più astratta. Nel commento, Bacon riconosce le relazioni dinamiche esistenti tra le parti e il tutto. Altro importante architetto che studia e si ispira a Villa Adriana è Louis I. Kahn. Il suo lavoro degli anni 1950-1951 si presenta tanto importante per l’eredità architettonica del complesso adrianeo quanto l’opera di Piranesi del 1781 e l’acquisizione statale della proprietà nel 1870, perché dall’ora quello con la Villa è diventato per la prima volta un appuntamento fisso nelle pubblicazioni di architettura e gli architetti hanno riconosciuto la capacità ispiratrice delle sue forme come non accadeva più dal Seicento.
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Oggi gli architetti traggono spesso ispirazione dalla Villa. Il luogo, per lungo tempo conosciuto solo tramite le vedute, rivive adesso non soltanto nelle parole e nelle fotografie, bensì nell’architettura stessa con le sue geometrie, i suoi edifici originalissimi e lo straordinario repertorio complessivo. E il paesaggio con padiglioni, caratteristica immancabile di quell’arte pubblica e privata della quale Adriano definì uno degli indirizzi principali, aiuta a chiarire la portata che egli riuscì a realizzare.
Veduta assonometrica della Villa, Boussois, 1912.
Rilievo dello stato di fatto (sopra) e ipotesi ricostruttiva del fronte nord- ovest, Daumet, 1860.
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Le Corbusier
Viaggio in Oriente: la lezione dell’antico. Nel 1911, all’età di ventiquattro anni, Charles- Edouard Jeanneret decide di intraprendere un viaggio nel Mediterraneo che rappresenterà il punto di partenza della sua produzione sia teorica che architettonica. Nell’impatto con la perfezione delle forme architettoniche dell’acropoli, egli ha l’intuizione di quelli che devono essere i valori morali necessari a tale realizzazione, citandoli ad esempio di un modo che investe l’intera “missione”
dell’architetto. Il tempio greco diventa il simbolo dei simboli, la costruzione
paradigmatica alla quale è possibile comparare la qualità d’ogni altra opera architettonica. E’ l’eterno ritorno dell’architettura, nei momenti di crisi, verso un luogo dove sembra abolita ogni certezza. Vent’anni dopo, quando Le Corbusier risale all’Acropoli con gli architetti del IV CIAM, ricorderà questo primo incontro come la scoperta di una verità assoluta, attribuendole un valore emblematico. Egli arriva perfino a stabilire un rapporto di causa effetto col Partenone: “In ogni cosa che ho fatto avevo in mente, nel fondo del mio stesso ventre, questa Acropoli.”3 Affermando in piena polemica modernista la superiorità del tempio dorico su ogni altra “creazione dello spirito”, Le Corbusier riporta indietro di cento anni l’idea di architettura ristabilendo il concetto stesso di canone e norma; egli le chiama standard ma intende la stessa cosa. “Bisogna tendere all’adozione dello standard per affrontare il problema della perfezione. Il Partenone è un prodotto di selezione applicato allo standard.”4 Ogni altra esperienza, anche quelle riferite all’Acropoli sono accettate in quanto idealmente riferite al modello e tanto meno quanto più dal modello si discostano. Il Partenone viene letto in virtù di tutto quello che lo circonda, mai analizzato nella sua singolarità, ma visto come facente parte di un complesso, formato da sito, cielo, mare, profilo dei monti sullo sfondo. E’ una lettura integrata, possibile solo a chi ha una cultura moderna dello spazio. Quando arriva a Pompei, l’impressione che gli fanno i nuovi scavi è enorme5. Abbiamo un’ampia documentazione della visita tra schizzi, nei quali annota anche dimensioni, quote e dettagli, e fotografie. Accurate descrizioni fanno intuire una maggiore consapevolezza dello spazio in cui si trova, che è riscontrabile nella descrizione che fa della Casa delle Nozze d’Argento: “Si dispone di muri dritti, di un suolo ampio, di buchi che non sono altro che passaggi per l’uomo o per la luce, porte o finestre. I buchi fanno chiaro o buio, rendono LE CORBUSIER, Air, Son, Lumièr, in Texinika Xponika, 15, Atene 1933, relazione al IV congresso CIAM, Atene 1933. Ora in Parametro, 52, dicembre 1976, p.34. Riportato in LE CORBUSIER, Viaggio in Oriente, Marsilio Editori spa, Venezia, 1984 4 LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1973, p. 126-127. 5 “Quando il sentimento trabocca, superando i propri limiti, soggiogando la volontà e lasciandosi foggiare sulle tendenze particolari delle genti, diventa fine a se stesso, s’impone quale imperativo e guida, arbitro e misura di tutte le cose.” LE CORBUSIER, Urbanisme, Editions Vincent, Fréal & C., 1925. Oggi in LE CORBUSIER, Urbanistica, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 46. 3
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gai, sereni o tristi. La vostra sinfonia è pronta. Il fine dell’architettura è quello di farci contenti e sereni. Abbiate il rispetto dei muri. Il Pompeiano non li buca, ha la devozione per i muri, l’amore della luce.”6 Da queste parole si è in grado di comprendere l’interesse che Jeanneret nutre per il rapporto tra luce e ombra, tema peraltro già affrontato sull’acropoli, dove nota la totale assenza di penombra. La classicità esplorata sulle vestigia di quanto rimaneva di ancora intatto in quelle terre lontane, ha quindi il significato di un ritorno all’essenza stessa dell’architettura. E non saranno solo le origini culturali del pensiero occidentale quelle che egli ricerca durante i mesi del voyage; l’arco dell’intera sua vicenda intellettuale resterà, da questo momento, segnato dalla certezza di non potersi sottrarre al peso di quella eredità e di quella cultura fino a convincersi, negli ultimi giorni della sua vita, di lontane ascendenze greche. L’accostamento delle architetture che egli fa nei suoi carnet sono una traccia essenziale per comprendere il legame tra la lontana esperienza del viaggio e la sua prima fase progettuale. La grande importanza del capitolo “La lezione di Roma” all’interno dell’economia generale di Verso un’architettura, è messa in evidenza dallo sforzo compiuto tentando di leggere in chiave attuale, usando cioè il suo innato senso della modernità, le caratteristiche di un codice architettonico che, senza le interpretazioni grafiche del tempo di Pompei, sarebbe rimasto oscuro. “Passeggiare nella Villa Adriana e dirsi che la potenza dell’organizzazione moderna, che è “romana”, non ha ancora fatto nulla, quale tormento per un uomo che si sente partecipe, complice si questa disfatta disarmante!”7. I resti adrianei, non meno di quelli dell’Acropoli di Atene, devono quindi aver svelato al giovane Le Corbusier la strada da seguire per trovare un’architettura veramente universale fondata sul significato primo degli strumenti dell’architettura: forma, composizione e ordine. Proprio perché si tratta di rovine, forme quasi primigenie che rivelano l’essenza del processo costruttivo, archetipi postumi dell’architettura, le rovine di Tivoli hanno interessato Le Corbusier. Egli, come Kahn, vi ha scorto il grado zero del’architettura, la materializzazione dell’ordine che preesiste ed è implicito alla natura e all’architettura. In quanto archetipi la ricostruzione filologica ne sminuirebbe il significato, tanto che ne dà una lettura basata sul valore e sulla forma, rifuggendo il formalismo8.
LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1973, p. 126-127. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1973, p. 126-127. 8 “Dovendo determinare e collegare tutti i mezzi che la nostra epoca ci mette a disposizione- gli strumenti con cui cercheremo di costruire qualcosa- avremo dunque a che fare con il sentimento, il quale, superando i limiti dei nostri modesti lavori quotidiani, li ricondurrà verso una forma ideale, verso una stile (uno stile è un modo di pensare), verso una data cultura: generosi sforzi di una società che si sente matura per assumere un nuovo atteggiamento estetico, dopo uno dei più fecondi periodi di gestazione che la storia dell’umanità abbia conosciuto.” LE CORBUSIER, Urbanisme, Editions Vincent, Fréal & C., 1925. Oggi in LE CORBUSIER, Urbanistica, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 48. 6 7
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Visita a Villa Adriana. Carnet de Voyage n° 5. Nell’ottobre del 1911 Charles- Edouard Jeanneret giunge a Villa Adriana, che visita con molta attenzione, schizzando su un piccolo quaderno i ruderi della proprietà demaniale, allora visitabile, seguendo l’itinerario suggerito dalla guida di Baedeker. I disegni, ad esempio quello raffigurante il muro del Pecile o le Piccole Terme, si possono considerare come vedute pittoriche all’interno delle quali trapelano promemoria architettonici; altri sono invece più analitici e mostrano come egli sia venuto a patti con la complessità dell’architettura adrianea. Ad esempio nel primo, che ritrae il grande e imponente muro del Pecile e la spianata della terrazza est ovest, con sullo sfondo i profili del monte Ripoli e delle colline di Tivoli, l’architetto coglie la fusione tra architettura e paesaggio.9 Egli inoltre disegnò più volte piante, sezioni e prospettive dei principali edifici della Villa, quale il Cortile della Residenza e il Cortile dell’Acqua, usando la matita per ricreare i principi architettonici radicati nelle loro rovine; raffigura sequenze di archi e volte, scelte dai suoi studi sulle Grandi Terme, espresse come forme pure. Si può dedurre che il ricco linguaggio architettonico, fondato su elementi canonici facilmente riproducibili con strutture in cemento armato, risalga proprio agli studi effettuati a Villa Adriana. Le Corbusier fece numerosi schizzi del Triclinio Scenografico (anche tetto Canopo), nei quali si rivela il fascino che esercitò su di lui l’illuminazione del prolungamento assiale. In uno di questi il protagonista è il drammatico contrasto tra il fascio di luce che illumina l’abside terminale e le pesanti ombre del corridoio a volta in primo piano; la didascalia indica che a interessarlo no era il gioco di luci e ombre, ma anche l’atmosfera misteriosa che conseguentemente si creava. Sulla pagina a fronte l’architetto tracciò uno schema analitico di quella colonna di luce verticale, cui fece riferimento quarant’anni più tardi nella progettazione della chiesa di Notre- Dame- du- Haut a Ronchamp, dove le cappelle laterali sono illuminate tramite fessure che si innalzano a raccogliere i raggi del sole per indirizzarli verso il basso, inondando di luce l’interno buio e cavernoso. Gli storici dell’architettura moderna hanno sottovalutato il ruolo svolto da Villa Adriana nello stimolare la visione poetica di Le Corbusier, che la invocò quale sprone per i modelli progettisti impegnati nella trasformazione creativa del passato. Com’era sua caratteristica egli esaltò la Villa a spesa degli elementi canonici dell’architettura classica tanto ammirati dai suoi maestri, radicati ancora nella tradizione dei Beaux- Arts. “Fuori Roma, all’aria aperta hanno fatto la Villa Adriana. Qui si medita sulla grandezza di Roma. Là, hanno fondato un ordine. E’ il primo grande ordine occidentale. Se si evoca la Grecia in quest’ottica, si dice: “il greco era uno scultore, niente Lo stesso schizzo lo inserirà in Vers un’Architetture, appunto per sottolineare l’importanza che assume il paesaggio nella composizione di Villa Adriana, posta come esempio di architettura da imitare. Egli scrive: “Nella VILLA ADRIANA, piani orizzontali stabiliti in accordo con la piana romana; montagne che chiudono la composizione stabilita, del resto, rispetto ad esse.”. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1973, p. 126-127. 9
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di più”. Ma attenzione, l’architettura non è che ordine. L’ordine è una delle prerogative fondamentali dell’architettura.”10 Sembra un paradosso che il modernismo di Le Corbusier sia strettamente legato alla sua romantica visione del passato e, in particolare, della tradizione mediterranea. Ma la Villa come ci appare ritratta negli schizzi è un’esemplificazione della sua famosissima definizione dell’architettura come il sapiente, rigoroso e magnifico gioco dei volumi composti nella luce e le dimensioni monumentali, l’uso creativo di forme elementari nella progettazione e l’applicazione costante del calcestruzzo nella costruzione la collegano direttamente alle teorie sull’architettura moderna elaborate da Le Corbusier. Vale la pena notare che l’influenza della Villa si farà avvertire ancora nella produzione dell’architetto francese e precisamente quando, deluso “dall’estetica della macchina”, ricorrerà a un vocabolario più elementare per evocare le forme naturali. In monumenti espressivi di singolare potenza quali la cappella di Ronchamp e il centro governativo di Chandigarh, eroicamente commisurati all’ambiente naturale che li circonda, riconosciamo affinità formali e spirituali con la Villa. La sequenza di volte massicce che coprono il Palazzo di Giustizia di Chandigardh ricorda gli schizzi dell’edificio di servizio centrale e, sempre a Chandigardh, la rozza tessitura del calcestruzzo grezzo utilizzato evoca la muratura cadente delle Grandi Terme raffigurate in uno dei disegni giovanili. Così come i nudi muri della Villa privati del rivestimento e coperti dai rampicanti assumono una qualità organica che li lega alla terra, le superfici di calcestruzzo di Le Corbusier, in apparenza modellate da secoli di vento e pioggia, acquisiscono un carattere che sembra renderle eterne.
Schizzo della spianata del Pecile e, sullo sfondo, le colline di Tivoli.
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LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1973, p. 126.
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La Cappella Notre- Dame- du- Haut a Ronchamp, Francia
Nel 1950 Le Corbusier accetta l’incarico di costruire la Cappella di Notre- Dame- du- Haut a Ronchamp. Come abbiamo già accennato in precedenza, descrivendo sommariamente il Carnet de Voyage, Villa Adriana ha influito notevolmente sulla progettazione di quest’opera, sia da un punto di vista ideologico che formale. Sin dai suoi primi schizzi si nota come la cappella sia concepita quale risposta al paesaggio, un fenomeno di “acustica visuale” che fa da contrappunto alla linea delle colline circostanti; acustica visuale che è anche “acustica spaziale” perché, nonostante l’apparenza massiccia dei muri, la separazione fra spazio esterno e spazio interno, non è netta e le linee del paesaggio che determinano lo spazio circostante trovano una rispondenza nelle linee dell’edificio che determinano lo spazio architettonico. Le forme paragonabili a quelle di un crostaceo che compongono l’insieme (il tetto a conchiglia con il suo gigantesco doccione, le cappelle laterali e l’altare) sono tutti elementi perfettamente sintonizzati per rispondere alla “acustica visiva” di un paesaggio ondulato. Molti critici hanno parlato di un abbandono dei principi razionalisti, ma queste posizioni derivano dall’identificazione del Razionalismo lecorbuseriano con l’Internetional Style che , invece era una degenerazione del linguaggio dal quale aveva preso l’avvio. In realtà i principi ai quali si era sempre ispirato Le Corbusier si trovano anche nella Cappella di Romchamp: l’aderenza alla realtà del contesto, l’interpretazione poetica ma rigorosa delle esigenze funzionali sono pienamente leggibili in quest’opera. Se la traduzione funzionale delle esigenze dell’abitare dava luogo a spazi esattamente calcolati, il rapporto con la trascendenza era “funzione” non esattamente calcolabile, che non poteva essere espressa secondo rapporti del tipo causa- effetto- architettura, ma solo attraverso uno spazio di elevata intensità poetica, suggestivo, capace di suscitare le emozioni indispensabili a stabilire rapporti con qualcosa o qualcuno che sfugge ad una comprensione rigidamente razionale. Nella cappella di Ronchamp si trovano espressi i valori della cultura mediterranea, in effetti, la massa bianca dell’edificio, situata com’è su un colle che domina un’ampia vallata, si qualifica come fenomeno di “acustica luminosa”, una specie di faro che riflettendo la luce del sole richiama l’attenzione anche da grande distanza. E’ costruita, infatti, attorno ad una struttura nascosta alla vista in calcestruzzo rinforzato, il linguaggio spontaneo, in questo caso, è simulato piuttosto che reinterpretato in termini monumentali. Il riempimento in muratura rustica è intonacato da una mano di gunite, ma l’intonaco desiderato non corrisponde più alla precisione meccanica del purismo, ma alla tessitura irregolare imbiancata a calce dell’edilizia spontanea mediterranea. Tutto ciò può essere paragonato all’Acropoli di Atene e a Villa Adriana in quanto identifica allo stesso modo il rapporto fra l’edificio e l’intorno, rapporto nel quale l’architettura diviene anche cassa di risonanza 18
dei valori paesistici a fini celebrativi (basti pensare al forte rapporto che la grande terrazza del Pecile instaura con la campagna romana, e ai forti significati simbolici racchiusi nella scelta del suo orientamento). Per quanto riguarda i riferimenti formali, non dobbiamo pensare ad una trasposizione filologica di forme, quanto a una interpretazione degli spazi, e in particolar modo di come la luce agisce su di essi. Tra i temi fondamentali del progetto, infatti, assume particolare importanza la luce solare e il suo modo di penetrare gli spessi muri dell’edificio. Da alcuni schizzi che raffigurano il Pretorio e alcuni suoi particolari emerge che Le Corbusier si sia ispirato alle sue grandi arcate per progettare i giochi di chiaro- scuro all’interno della chiesa. Attraverso la fessura di circa 10 centimetri che separa la copertura dalla parete sud entra la luce che illumina radente la volta variando di intensità durante le diverse ore del giorno, ma senza mai venire meno se non al sorgere, al calare del sole. Proprio per l’esposizione a sud risulta annullato il senso d’incombenza che la convessità verso il basso avrebbe potuto determinare, conferendole invece una leggerezza e un’ampiezza imprevedibili. Nella stessa parete è disseminata una serie di aperture che sono la controfaccia di quelle esterne; quelle interne sono, comunque, di forma e dimensione diversa da quelle esterne. Mentre all’esterno si presentano come riquadri neri su fondo bianco, all’interno appaiono come sorgenti luminose su un fondo scuro. L’effetto cromatico che viene raggiunto è arricchito dalla colorazione che la luce riceve dai vetri collocati nel punto in cui le aperture si restringono al centro del muro. All’interno delle cappelle laterali, orientate in direzione della traiettoria del sole, la luce entra dall’alto attraverso lucernari sferici, si riflette sui muri e arriva sugli altari diffusa. La concavità dei muri stessi favorisce la diffusione dei raggi solari in modo molto soffuso all’interno della chiesa. Particolari analogie si riscontrano anche con le lunghe fessure del “campanile” e delle sue due torri gemelle. Le Corbusier infatti, all’esterno della cappella di Ronchamp, riproduce lo stesso gioco di luce e ombra che mette in evidenza nel disegno del Pretorio, contrapponendo il bianco dell’intonaco del muro alla sottile linea nera della presa di luce. All’interno, come succedeva per le aperture della parete sud, avviene esattamente il contrario: dove fuori si ha buio dentro si ha una striscia luminosa.
Veduta aerea de sud-est grazie alla quale si comprende il rapporto con il paesaggio circostante.
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Sopra: schizzo dei particolari delle aperture del Pretorio (a sinistra) e particolare del lato sud, esterno, della Cappella (a destra). A fianco: particolare della parete sud, interno, della Cappella.
Schizzo del Pretorio dove Le Corbusier evidenzia i chiaroscuri (a sinistra), particolare del “Campanile� e delle sue torri gemelle.
Schizzo dell’interno del Canopo dove emerge l’interesse di Le Corbusier per il sistema di illuminazione.
Campidoglio di Chandigarh, Puniab, India
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Nel progetto originale la complessità dei quattro edifici che componevano il Parco del Campidoglio di Chandigarh porta Le Corbusier ad un approccio più cartesiano di quello utilizzato per la composizione della cappella di Ronchamp. Al perimetro del Campidoglio si associa un sistema di assi intorno ai quali viene ordinato il posizionamento degli edifici dell’Alta Corte, del Parlamento e del Palazzo del Governatore. Il Primo, pensato per cercare una continuità con la città, attraversa in direzione nord il parco per raggiungere il Palazzo del Governatore, spostato rispetto all’asse per non impedire il prolungamento visivo verso la catena dell’Himalaya. Il secondo disposto in maniera ortogonale, viene delimitato dagli edifici del Parlamento (ovest) e dall’Alta Corte (est). Un sistema di assi secondari permette di ottenere una relazione tra edifici e lo spazio circostante. L’architettura, come a Villa Adriana, assume nel gioco di scomposizione e ricomposizione storica filosofica e simbolica, un ruolo mistico che trova nelle composizione volumetriche la forza di richiamare i riti iniziatori delle divinità degli elementi naturali veri destinatari del progetto. Inoltre la dialettica tra l’opera dell’uomo e paesaggio circostante emerge con molto chiaro nella prospettiva dell’Alta Corte di Giustizia, dove l’edificio, la Mano Aperta, lo specchio d’acqua e le colline sono letti come elementi intergrati. Se paragoniamo questa vista a quella disegnata da Le Corbusier a Tivoli che rappresenta il muro del Pecile come una fuga prospettica in rapporto alle colline e alla valle, con linee del paesaggio che fanno tutt’uno con quelle del muro, ci si accorge della forte influenza che la Villa ha esercitato sul giovane architetto: sono praticamente identiche. La sequenza di volte massicce che coprono il Palazzo di Giustizia di Chandigardh ricorda, inoltre gli schizzi dell’edificio di servizio centrale, mentre la rozza tessitura del calcestruzzo grezzo utilizzato evoca la muratura cadente delle Grandi Terme raffigurate in uno dei disegni giovanili. Così come i nudi muri della Villa privati del rivestimento e coperti dai rampicanti assumono una qualità organica che li lega alla terra, le superfici di calcestruzzo di Le Corbusier, in apparenza modellate da secoli di vento e pioggia, acquisiscono un carattere che sembra renderle eterne.
Prospettiva del Campidoglio dove emerge lo stretto rapporto con il paesaggio retrostante.
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Pianta del Campidoglio: 1. Parlamento, 2. Segretariato, 3. Palazzo del Governatore, 4. Alta Corte di Giustizia, 5. Torre dei venti, 6. Bacino, 7. Mano Aperta.
Veduta del Pecile da est a ovest, dove il costruito viene messo in forte relazione col costruito (a sinistra) e prospettiva dell’Alta Conrte di Giustizia. Dal confronto è evidente come Le Corbusier per il progetto indiano si sia ispirato a Villa Adriana.
Veduta che abbraccia le tre sale delle Grandi Terme (a sinistra) e prospettiva dell’ingresso all’Alta corte di Giustizia.
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Louis I. Khan
“In architettura, la monumentalità si può definire come una qualità; una qualità spirituale, che manifesta quanto vi è di più eterno in una struttura. E’ la qualità che percepiamo nel Partenone, il simbolo inequivocabile della civilizzazione iniziata in Grecia.”11 E’ con queste parole, pubblicate nel saggio Monumentalità del 1944, che Louis I. Kahn comincia a porsi in maniera critica nei confronti dei canoni della “modern architecture” che fino ad allora aveva ampiamente condiviso e a nutrire una nuova attenzione verso la storia.12 Sono degli anni successivi, infatti, le considerazioni che nel 1955 lo porteranno a pubblicare Ordine è, nel quale sembra dare un nuovo inizio a tutta la sua riflessione futura in materia di teoria dell’architettura.13 Egli propone per la prima volta la coppia ordine/ progetto, ossia i fondamenti del fare artistico: l’ordine è ciò che è, antecede la consapevolezza dell’individuo, mentre il progetto è necessariamente vincolato alle circostanze, quali tempo, luogo, materiali. A questo abbinamento Khan, nel 1959, aggiungerà quello di forma/ progetto affermando che “la forma ha una natura e delle caratteristiche. Sono parti inseparabili. Se ne si elimina una, la forma svanisce. Questa è forma. Il progetto è la traduzione di tutto ciò nella realtà. La forma esiste ma non possiede la presenza, mentre il progetto mira alla presenza”14. Nei progetti di questo periodo è infatti riscontrabile come la forma e l’ordine siano alla base della sua composizione architettonica, spesso fatta di strutture reticolari formate da tetraedri e ottaedri. Questi solidi platonici assumono importanza fondamentale nelle teorie del movimento tecno- organico, che li riconosce come elementi primi di una geometria archetipa capace di conferire una “monumentalità senza tempo, sconosciuta”15 alle opere dell’uomo. Un Ordine, quindi definito attraverso archetipi geometrici!
L. I. KAHN, Monumnetality, in New Architecture and City Planning, a cura di P. ZUCKER, New York, 1944. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 56. 12 “ Celebri costruttori hanno indicato all’architetto come scegliere e tradurre in termini semplici la complessità dei bisogni moderni; hanno ridefinito il significato del muro, del sostegno, della trave, della copertura e della finestra, e dei modi del loro rapportarsi allo spazio, è giunto il momento di ripristinarne il senso, liberandoli dalle commistioni con le quali sono stati torturati dall’imitazione stilistica.” Monumnetality, in New Architecture and City Planning, a cura di P. ZUCKER, New York, 1944. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 60-61. 13 “Quando ho iniziato a pensare all’ordine, ho compilato, sino a stancarmi, una lunga lista di cose chhe ritenevo l’ordine fosse. Alla fine ho constatato che ogni volta che scrivevo quello che l’ordine è, perdevo qualcosa. Così ho buttato via tutto e ho conservato solo è: Ordine è. A questo punto, la questione mi è apparsa più chiara […] Da allora, tutto quello che ho scritto reca questa impronta: ordine è. Così ho iniziato a scrivere veramente, perché avvertivo che in quello che dicevo vi era qualche cosa non riconducibile al modo in cui le cose vengono dette usualmente”. L. I. KAHN, From a Conversation with Robert Wemischner, 17 aprile 1971. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 5. 14 L. I. KAHN, Louis I. Kahn: Talks With Students, in Architecture at Rice, 26, 1969. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 6. 15 Louis Khan to Anne Tyng. The Rome Letters1953- 1954,a cura di A. Tyng, New York 1997, p.39. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 9. 11
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Ma la ricerca di Kahn non si ferma e va oltre indagando in modo più profondo sul significato del fare architettonico. Nella conferenza del 3 dicembre al Guggenheim Museum di New York intitolata Silence and Light egli afferma: “L’architettura non ha presenza ma esiste come creazione dello spirito. Un’opera di architettura è un’offerta, che riflette la natura di quello spirito […] La natura crea senza l’uomo, ma ciò che l’uomo crea, la natura non può produrlo senza l’uomo.”16 Tra natura e forma si viene a formare un profondo distacco: là dove l’ordine viene definito dalle leggi di natura e in quanto tali armoniose, la forma è invece intesa come un’organizzazione di spazi che risulta armonica in quanto luoghi destinati alle attività dell’uomo.17 In realtà queste riflessioni prendono corpo nel pensiero di Louis Kahn già alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, quando egli affronta un’altra importante tematica ossia la capacità del progetto architettonico di rendere evidenti i principi fondativi del proprio tempo, elevandoli a memoria collettiva. “L’architettura ha una sua natura […] è un fare che ha una precisa connotazione sociale. Ha una sua responsabilità, perché la sua essenza non è meramente temporale e io ho sempre pensato- “sempre”, intendo da due anni a questa parte- che noi dobbiamo rafforzare le istituzioni in tutti i modi in cui l’architettura, quale espressione individuale degli uomini, può rafforzare le istituzioni.”18 Domandarsi quale sia la “natura” di uno spazio significa interrogarsi su cosa effettivamente tale edificio voglia essere, cercando di comprendere quale attività umana vi verrà svolta all’interno. Tali ragionamenti lo porteranno verso un particolare “funzionalismo” che propone l’architettura come mezzo di espressione delle istituzioni che rappresentano il “fare umano”. E’ grazie a questi presupposti e al viaggio in Europa (compiuto tra il 1950 e il 1951), che Kahn trova nell’architettura classica antica, e in particolare in quella romana, nuove fonti di ispirazione e nuove soluzioni compositive alternative a quel linguaggio modernista che aveva già messo in discussione quindici anni prima.19 Il progetto per il Centro civico di Philadelphia (1959- 1962), ad esempio, presenta un modello riconducibile a quello delle città antiche, totalmente recintato attraverso una struttura ad archi sovrapposti che celebra chiaramente gli acquedotti romani. Inoltre, da questo momento in poi, in tutti i suoi progetti è riscontrabile una sovrabbondanza delle masse murarie MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 56. “[…] bisogna cambiare davvero le regole perchè solo le leggi non possono venir mutate e le leggi funzionano non l’una separata dall’altra ma all’interno di una grande armonia.[…]L’uomo produce le regole. La natura produce le leggi. […] Tutti dovrebbero considerare le regole modificabili e la legge immutabile.” LOUIS I. KHAN, Law and Rule, (conferenza tenuta all’Università di Princeton il 29 novembre 1961), trascrizione non corretta dall’autore. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 78- 82. 18 LOUIS I. KAHN, The Sixties. A PIA Symposium on the state of Architecture: Part I, in Progressive Archiecture, 42, marzo 1961. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 28-29. 19 Dalle raccolte epistolari risalenti al periodo del viaggio risulta, ad ogni modo, che l’esperienza nel Mediterraneo, e in particola modo in Italia, influenzeranno in modo permanente la concezione architettonica di Khan. “Mi sto rendendo definitivamente conto che l’architettura dell’Italia resterà la fonte d’ispirazione per i miei lavori futuri. […] qui le forme pure sono state sperimentate in tutte le varianti dell’architettura. Bisogna comprendere come l’architettura dell’Italia si rapporta a quanto sappiamo del costruire e dei bisogni.” MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 50. 16 17
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perimetrali (basti pensare ai progetti di casa Esherick di Philadelphia (1959-1961) o della Unitarian Church di Rochester (1959-1969)) derivanti dall’ammirazione dell’architetto nei confronti della “forza del muro” delle costruzioni romane.20 Nelle rovine, tuttavia, non sembra vedere il banale passare del tempo o la precarietà dell’opera umana, ma al contrario la interpreta come l’essenza dell’architettura stessa. Svuotati dei loro contenuti funzionali e spogliati dagli orpelli decorativi, gli edifici riacquistano il loro significato primo e le regole compositive che li hanno generati tornano a essere chiare ed esplicite.
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Oltre che dalla magnificenza e potenza delle strutture Kahn è affascinato, in sede teorica, dall’idea di architettura intesa come ricerca intorno al significato delle istituzioni. In Roman Architecture 22, Brown afferma che la società romana antica era organizzata in “riti”, come il culto degli dei, la vita familiare, l’ordine civile e che tale irrigidimento sia il modo in cui questo popolo riuscì a dare un ordine al caos23. La vita dei Romani, dai tempi della repubblica fino al tardo impero, è regolata da un ordine etico, determinato dall’azione comune del singolo e della comunità. In
questa logica
l’architetto antico deve progettare i luoghi idonei a permettere lo svolgimento dei “riti” dei quali si compone la vita quotidiana. Lo spazio assumeva quindi forma in virtù dell’atto formale che in esso si svolgeva, “diveniva una capsula, atta a riconfigurarsi ogni volta che il rito venisse ripetuto.”24 Secondo l’archeologo americano perciò, l’architettura romana può essere definita come l’accostamento di differenti “capsule spaziali” indipendenti tra loro, la cui forma è definita dall’attività rituale che in essa viene svolta. E’ proprio questo carattere paratattico dell’architettura romana, chiaramente esplicito a Villa Adriana, che Louis Kahn reinterpreta nella sua produzione matura, basti pensare al Salk Insitute o al progetto per il St. Andrew’s Priority di Valyermo.25 Si tratta di un’attenta ricerca di composizione di più elementi messi in relazione all’interno di un sistema unitario attraverso la relazione tra spazi serviti e spazi serventi, ma ciò che egli vuole sottolineare è l’importanza che
“Architettura è il meditato farsi degli spazi. Il manifestarsi dell’architettura riflette l’attimo in cui i muri si divisero e comparvero le colonne. Fu un evento incantevole: ne è derivata pressoché tutta la vita dell’architettura. L’arco la volta e la cupola ricordano un passato indimenticabile, quando si sapeva cosa fare a partire da come fare e come fare a partire da cosa fare. Ancor oggi, queste espressioni della forma e dello spazio sono valide quanto lo erano nel passato e sempre lo saranno, perché hanno dato prova di verità nel dare ordine e hanno rivelato col tempo la loro intrinseca bellezza.” MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 72. 21 “Quando l’uso si esaurisce e la costruzione diventa rovina, ritorna a essere percepibile la meraviglia del suo inizio.” MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 34. 22 F. E. BROWN, Roman Architecture, New York 1961, tr. It, Milano 1963. 23 “L’impero Romano, come Roma antica, era soprattutto un ordine di valori […] Era un ordine realizzato nelle istituzioni e nella prassi […] Era un ordine umano, giustificato dall’intima natura dell’uomo e del suo universo […] L’architettura imperiale, poiché si trattava di un’architettura romana, fu un ordine spaziale conformato in modo da costruire l’ambiente dell’ordine morale.” F. E. BROWN, Roman Architecture, New York 1961, tr. It, Milano 1963. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 37. 24 F. E. BROWN, Roman Architecture, New York 1961, tr. It, Milano 1963. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 37. 25 In realtà Khan nega sempre la diretta influenza della Villa di Adriano. Ad ogni modo più avanti analizzando i due progetti si dimostrerà la relazione col progetto adrianeo. 20
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l’architettura assume come mezzo di trasmissione dei valori del vivere civile. L’architettura romana diventa l’espediente per recuperare lo “spirito pubblico”, il solo in grado di ridare significato alla città, intesa come luogo in grado di creare opportunità per il vivere umano. Per Khan i rapporti tra le forme, sia materiali che simboliche ha implicazioni strutturali: l’apertura tra due elementi di sostegno scandisce le proporzioni. Nelle case Adler e DeVore, le stanze sono slittate fuori asse, o sono centrifughe, come nelle torri Richands e nell’edificio per la comunità di Mille Creek. Ma è a Bryn Mawr che il problema delle connessioni è affrontato con ingegnosità: i tre quadrati ad angoli sovrapposti hanno suggerito a Kahn una soluzione di estrema intensità architettonica. Questi denominatori comuni nell’opera di Kahn lasciano intendere che le sue opere testimonino qualità che hanno sempre determinato il valore architettonico attraverso il tempo. Tuttavia il suo lavoro è “astorico” nel senso che non si pone come estensione lineare dei temi dell’architettura moderna, né come semplice soluzione razionale di dibattiti storici. Forse è senza tempo, ma non in conflitto con le necessità moderne. Mentre strumenti ed accenti cambiano nel tempo, ci sono qualità nell’architettura essenzialmente a-storiche. Come disse Kahn: “Boullée esiste, dunque esiste l’architettura”26
Villa Adriana come riferimento? “Egli (Scully) mi fece notare che anche un mio edificio -credo si trattasse del Salk Institute- era influenzato dalla Villa di Adriano. In effetti qualcun altro nel mio studio mi mostrò un’immagine della Villa di Adriano e mi colpirono molto le vicende di questi due edifici. Mi fece notare come fosse simile al mio edificio, una cosa che non avevo notato prima perché sono nonstorico per natura. Scully, che è uno storico, ha percepito il desiderio, ha visto queste fotografie, e poi ha messo le cose in questi termini, ma è proprio il contrario.”27 In realtà nell’opera di Kahn troviamo notevoli esempi della concezione secondo la quale Villa Adriana era una fonte dalla quale attingere idee a piacimento. Nel 1951, Khan trascorse tre mesi all’Accademia Americana in Roma e in quel periodo visitò la Villa. Thomas Vreeland, che lavorò con lui per molto tempo, ricorda che quest’ultima aveva “uno stile architettonico di cui Kahn era un fervido ammiratore.”28 Kahn continuò a meditare sulla Villa anche in seguito, indagando nei suoi progetti l’essenza di “un luogo dell’incommensurabile”. Probabilmente le affermazioni sopra riportate sono la prova del fatto che la 26
ROMALDO GIURGOLA, Louis I. Kahn, Zanichelli Editore, Bologna, 1981. Da una conversazione con Robert Wernischner/ 17 aprile 1971, in R.S. WURMAN, What Will Be Has Always Been; The Words of Luois I. Kahn Access Press and Rizzoli, New York , 1986. Riportato in GIOIA GATTAMORTA, LUCA RIVOLTA, ANDREA SAVIO, Louis I. Kahn. Itinerari, Officina Edizioni, Roma, 1996, p. 43. 28 THOMAS VREELAND, L. A. Architect, febbraio 1987. Riportato in WILLIAM L. MCDONALD, JOHN A. PINTO, Villa Adriana. La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn, Electa, Milano, 1997, p. 364 27
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definizione di “architetto della citazione” non era condivisa da Kahn, che si considerava più un progettista e costruttore. L’articolazione di spazi combinati come soluzioni al problema dei rapporti tra le forme che avviene nella Villa, come abbiamo già accennato, viene più volte ripreso da Kahn in molti suoi progetti, basti pensare al progetto per il Domenican Congregation Motherhouse, dove la composizione planimetrica composta da un chiostro regolare che avvolge i volumi a pianta pressoché quadrata che si incastrano sugli spigoli creando della piccole corti interne, richiama agli articolati incastri degli edifici adrianei. Tra il 1959 e il 1965 progetta l’edificio comunitario del Salk Institute di La Jolla, nel quale la sala da pranzo e la sala riunioni vengono immaginate completamente avvolte da strutture parietali, allusive a scheletri murari di rovine. Kahn propose di prendere Villa Adriana a modello per la realizzazione di un complesso di sale da pranzo e residenze chiamato Accademia, che tuttavia non fu mai costruito. Vreeland, che in quell'occasione lavorava al suo fianco racconta: “[…] tracciai su un foglio di carta lucida i confini irregolari e facilmente riconoscibili del sito di Salk; poi lo poggiai sul libro, e incurante delle differenze di scala ricalcai solo quella parte della pianta antica che rientrava nei confini. Quando Kahn ritornò nella stanza, si illuminò tutto e si congratulò con me per l’ottimo progetto, senza accorgersi minimante del plagio.”29 L’innesto della pianta adrianea nel sito destinato al Salk Institute inaugurò una fase nuova del progetto:
lasciati da parte i riferimenti specifici alla Villa si
adottarono criteri più generali di distinzione gerarchica e integrazione, che Kahn ottenne tramite un’abile manipolazione di proporzioni, geometrie, materiali ed elementi di raccordo.
Schizzo progettuale dove si vede l’inserimento di una parte di Villa Adriana all’interno del progetto per il Salk Institute. THOMAS VREELAND, L. A. Architect, febbraio 1987. Riportato in WILLIAM L. MCDONALD, JOHN A. PINTO, Villa Adriana. La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn, Electa, Milano, 1997, p. 364 29
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Salk Institute for Biological Studies, La Jolla, California
“Le esigenze dei laboratori e dei servizi si sono integrate con la disposizione dei giardini, degli studi, delle sale per riunioni e il riposo, intercalate a spazi senza nome, nella configurazione di un ambiente totale.”30 E’ un progetto di grande complessità articolato in più parti e del quale sono stai realizzati solo i laboratori. Si tratta di un’architettura che conferisce valore monumentale al Centro di ricerca scientifica: un gesto simbolico che riflette il desiderio di primato tipico della cultura americana. Il contrasto tra la natura monumentale e il carattere prettamente moderno di quest’opera è il primo elemento di fascino che colpisce l’osservatore. Il rapporto con l’ambiente circostante, la piazza, l’oceano, comunicano un senso del luogo che nella sua magnificenza appare come se fosse del tutto naturale: un’architettura posta in questo punto non poteva essere fatta altrimenti. Le relazioni con il contesto però non si limitano solo al rapporto tra natura e costruito: il contesto è definito dallo stesso Kahn nel disegno di un’insieme di parti che non vivono se non nella loro appartenenza ad un unico organismo. Fin dai primi disegni il progettista previde la differenziazione di due ambiti principali: i laboratori, la meeting house e la foresteria. Le esigenze di studio, di riposo e di incontro venivano nettamente separate tra loro e suggerirono a Kahn l’idea di tre differenti complessi di edifici, distanti tra loro oltre un centinaio di metri e disposti hai vertici di un triangolo comprendente l’area di più intenso rilievo geomorfologico. Nel progetto finale, i laboratori venivano orientati in direzione est, nord- est/ovest, sud- ovest; gli alloggi si sviluppavano fedelmente tra est e ovest; la meeting house, ideata come l’insieme più ricco dal punto di vista compositivo, era situata nelle posizione più settentrionale. Sia la foresteria che il complesso comune risultavano sottoposti ai laboratori, il cui edificio, simmetrico rispetto ad una piazza centrale allungata, si stagliava sulla sommità della collina e guardava verso la ripida valle che, idealmente, sembra solcare anche la piazza soprastante, divisa in due da un rigagnolo d’acqua che scorre verso il pendio. Laboratori, Meeting House e Residenze erano le parti, le frasi di un discorso unite dal loro significato e anche dalle distanze e dai percorsi che le collegano. Nello stesso modo, cambiando di scala, il contrappunto di significati e di intervalli si ripeteva: ecco dunque la cittadella della Meeting House con l’anfiteatro, il colonnato, gli spazi per l’incontro. Di estremo interesse, perché ci illumina sui riferimenti classici cari a Kahn, è uno schizzo del progetto del 1960 dove appare la pianta della Villa Adriana di Tivoli. Ed a ben guardare il progetto che dovrà essere realizzato ha conservato tutta la suggestione dell’antico disegno adrianeo. Una serie di corpi, ben differenziati tra loro ruotano attorno alla sala principale che risulta la cerniera di un sistema di gravitazione LOUIS I. KHAN, Forma and Design, in V. SCULLY, Louis I. Khan, New York, 1962. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 98. 30
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al quale neppure l’ampio auditorium riesce a sottrarsi. L’ingresso è posto a sud-est e funge da cerniera tra l’edificio principale e l’auditorium. In sequenza lungo l’ideale anello che racchiude il centro della composizione, si delineano: gli uffici informazione, alcune camere per gli ospiti, gli ambienti per i direttori, la biblioteca a pianta rettangolare con le due appendici (a pianta interna quadrata, ma a sviluppo esterno cilindrico) destinate agli spazi per la lettura, tre sale per il pranzo (a pianta circolare, ma a sviluppo esterno parallelepipedo) che con la cucina formano un sottoinsieme unico incentrato su uno spazio- filtro. Infine, secondo la migliore tradizione antico-romana, una vasta superficie è destinata alla sauna per uomini e per donne. Il corridoio anulare che racchiude l’ambiente centrale si completa ad est con quattro moduli per l’alloggio degli ospiti, concepiti con lo stesso criterio degli alloggi per i residenti, ovvero con una zona servizi, un ambiente pressoché quadrato ed una loggia che si presenta come un accentuato bow- window. La sala centrale, destinata ai banchetti conviviali, è perimetrata da una solida muratura tagliata, lungo l’asse nord- sud, in soli due punti allineati che indirizzano, secondo un sapiente cannocchiale ottico, lo sguardo direttamente verso l’esterno dell’edificio, le altre due pareti, est ed ovest, sono ritmate da cinque aperture che indirizzano, da un lato, verso l’uscita, gli alloggi e le saune e dall’altro verso la biblioteca. Le pareti che avvolgono le sale della lettura e del pranzo consentono la vista verso il mare riparando però lo spazio interno dal riverbero della luce. E’ la prima volta che Khan ha la possibilità di sviluppare la sua concezione dell’antiriverbero, che consiste nel disporre “un edificio all’interno di un edificio” e che sarà destinata a influenzare gran parte della sua produzione successiva (vedi ad esempio il Palazzo del Parlamento costruito a Dacca). Concludono lo spazio destinato alla meeting house, a nord, una piscina dalla bizzarra forma di lente allungata ed a sud un ampio giardino solcato da un corso d’acqua che nasce da una vasca quadrata in prossimità della scala d’accesso generale e termina in un’analoga, ma più ampia, vasca posta al centro di un duplice e serrato porticato che si
infittisce fino a costituire una parete continua all’esterno del
semiperimetro d’angolo sud-ovest. Questo porticato perimetra un’area che potrebbe essere utilizzata anche per informali riunioni all’esterno. L’edificio destinato ai laboratori è composto da due corpi simmetrici comunicanti dall’interno solo nel cantinato, ove un ampio locale per gli impianti funge da raccordo fra i due e attraversa la piazza, insieme ad un corridoio di servizio. Anche in questo caso può essere visto un riferimento alla Villa di Adriano, dove l’imperatore aveva ideato un complesso sistema di criptoportici che collegavano i diversi punti della residenza. 31 Ciascuna costruzione ha uno sviluppo rettangolare allungato, impostato secondo tre fasce longitudinali: quella centrale ospita un’unica vasta area di laboratorio, quella verso la piazza corrisponde agli studi che, a Questi passaggi, percorribili anche da cavalli e carri, erano stati concepiti per evitare il traffico quotidiano a livello superficiale. 31
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coppie, formano cinque piccole torri autonome anche nel collegamento verticale, mentre i settore esterno è occupato da cinque volumi aderenti all’anello perimetrale che conclude i laboratori ospitanti sale e ascensori. Anche in direzione trasversale l’impianto planimetrico dell’edificio si può considerare tripartito: alle testate dei laboratori si assestano ad est, verso l’aera di parcheggio, i blocchi degl’impianti verticali; verso ovest, le teste accolgono uffici al piano superiore, la biblioteca al piano terra e depositi nel sotterraneo. Per l’università ho progettato tre torri di studi; ognuno può lavorare nel suo regno personale e ogni studio ha un’uscita di emergenza e una torre secondaria per le scale, mentre un’altra torre smaltisce l’aria esausta infetta. Un edificio centrale, intorno al quale sono riunite le tre torri principali, sostituisce l’area dei servizi che, nella tipica pianta a corridoio, si trovano su un lato. Questo edificio centrale ha narici per l’immissione dell’aria fresca, separate dalle torri per lo smaltimento dell’aria viziata.32 I locali sono chiaramente distinti secondo classificazioni funzionali: laboratori destinati a ricerche in equipe sono divisi dai piccoli studi, che permettono l’isolamento per le analisi individuali; tutti gli spazi sono collegati da scale e passerelle, ma sono accessibili anche singolarmente. I laboratori sono situati in spazi abbastanza alti con comparti dell’altezza di un piano contenenti anche lo spazio per le installazioni, mentre i laboratori più piccoli, separati delle aree di lavoro, sono posti alternativamente nei piani allo stesso livello dei servizi. La separazione tra sale di studio e i laboratori è sottolineata dalla diagonale della scala che conduce alle sale di studio. Gli spazi serviti e spazi serventi prendono forme molteplici e scandiscono il ritmo della composizione. L’elemento che coinvolgeva Kahn nella ricerca di nuove e più forti espressioni era l’involucro esterno, il muro. In questo edificio il calcestruzzo armato, lasciato a vista, assume un’insolita poesia grazie ad alcuni accorgimenti costruttivi che ne esaltano la tipicità di “pietra liquida”. Tale materiale, accostato con il travertino di cui è rivestita la piazza conferisce all’insieme edificio- piazza una monumentale monolicità.
LOUIS I. KHAN, Forma and Design, in V. SCULLY, Louis I. Khan, New York, 1962. Riportato in MARIA BONAITI, Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, 2002, Mondadori Electa spa, p. 98- 99. 32
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Schizzo prospettico da nord- ovest dove si vede l’oceano Pacifico a destra, le torri dei laboratori a sinistra, in primo il Meeting Place e sullo sfondo la foresteria.
Schema planimetrico definitivo del Meeting Place.
Vista prospettica verso l’oceano della piazza dei laboratori. L’immagine può essere associata alla proiezione della spianata del Pecile verso la campagna e Roma.
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Domenican Congregation Motherhouse, Delaware County, Pennsylvania
Questo progetto è forse il più significativo risultato di quel pensiero di Kahn che tende a isolare gli elementi del progetto per poi ricomporli istituendo rapporti di tensione reciproca che restituiscono valore organico all’insieme. E’ un’architettura di contrasti dunque nella quale alle dissonanze della complessa composizione volumetrica si contrappongono il rigore e la regolarità geometrica di ogni singolo elemento. A questo proposito va segnalata l’esistenza di un disegno realizzato da Kahn secondo la tecnica del collage: documento atipico e originale, questo disegno mostra come le sagome delle piante dei vari elementi, dormitorio, refettorio, cappella, scuola, ecc. siano state ritagliate da una copia su carta e successivamente assemblate secondo un schema che metteva in comunicazione i diversi edifici tramite il contatto tra gli spigoli. La ricerca è tesa a qualificare gli spazi di relazione tra i singoli blocchi edificati ed è soprattutto mirata ad identificare il convento non come singola unità volumetrica bensì come un vero e proprio organismo complesso e articolato, in grado di riprodurre i caratteri morfologici e spaziali di un brano di tessuto urbano che si esprime nella polifunzionalità dagli edifici, oltre che nel differenziato carattere degli spazi aperti. I dormitori sono disposti su tre bracci di due piani, disposti secondo uno schema regolare, volto a definire un chiostro di impianto ortogonale chiuso su tre lati: gli angoli fra i bracci delle celle sono rafforzati dalla presenza sei locali di soggiorno. Vi è dunque un chiaro riferimento all’impianto monastico tradizionale, anche se non concluso su un lato. Gli edifici collettivi sono stati “risucchiati” nella concavità del chiostro disposti secondo un tessuto irregolare già analizzato in precedenza che rende dinamica la composizione. La rotazione degli assi di giacitura, se da un lato suggerisce una rete di percorsi di distribuzione varia e complessa, con la chiesa posta in posizione baricentrica, dall’altra porta alla creazione di diversi “vuoti” che hanno il carattere di sottospazi del chiostro. Corti pavimentate o a verde, di varie forme e dimensioni, cadenzano la superficie esterna agli edifici: un contrappunto di pieni e di intervalli sostenuto architettonicamente dal perimetro lineare del chiostro. Una torre in posizione centrale è ortogonale al perimetro del chiostro: il disegno delle facciate è studiato in stretta relazione con gli impianti planimetrici dei singoli edifici. Un ritmo cadenzato di aperture squadrate scolpisce le “mura” del convento: i volumi delle funzioni che ospitano le funzioni collettive hanno forme più rigide e squadrate. Nel 1969 il venir meno delle affinità di aspirazione tra l’architetto e la committenza porteranno Kahn ad abbandonare il progetto e a rinunciare all’incarico.
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Pianta del Domenican Congregation Motherhouse, 1968 (a sinistra) e particolare della planimetria di Villa Adriana (a destra). Anche se Khan non lo ammeise mai, è riscontrabile l’influenza del progetto adrianeo, al quale l’architetto americano probabilmente si ispirò per progettare le aggregazioni dei suoi edifici.
Sopra: schizzi di ipotesi di prospetti. A fianco: schizzo progettuale (prima fase).
Owald Mathias Ungers 33
L’opera di Oswald Mathias Ungers rappresenta il tentativo di reclamare per l’architettura un ruolo e un significato che nel corso dell’ultimo secolo sembra aver oramai perso. Il programma originale della ricerca di un’idea pura (intesa in senso platonico) contenuta nell’architettura rimane costante per tutta la sua produzione, denunciando una linea di pensiero solida e immutabile. Si può affermare, inoltre, che i principi di tutto il suo lavoro si basino su una citazione di Blaise Pascal: “La varietà che non si basa sull’unità è negazione. L’unità che non poggia sulla diversità è tirannia”; ed è proprio ciò che lo rende differente da tutti i suoi contemporanei. Egli ha rivolto il suo interesse alla pratica dei processi costruttivi, ma ricercando sempre un “confronto con la tradizione”, sforzandosi di mantenere vivo quello “spirito creativo” che è alla base del processo progettuale. Egli ha costantemente rivendicato l’autonomia del linguaggio architettonico sulle leggi della costruzione, delle richieste degli utenti o delle funzioni: “E’ qui che sta la responsabilità spirituale dell’architetto; […] l’architettura non è la tecnica del costruire, ma l’arte del costruire”.33 L’architetto agisce attingendo alla propria capacità di percepire e di appropriarsi delle esperienze del passato sulla base delle quali formula modelli che poi trasforma e modifica. L’affermazione di questo metodo di lavoro, della storia intesa come “problema esistenziale” dell’architettura rappresentano per Ungers una vera e propria missione, contemporaneamente alla quale egli propone un’interpretazione del passato in maniera creativa per legittimare la pratica dell’architetto in quanto artista. Facendo della storia delle idee e dell’architettura l’oggetto costante del suo lavoro, è diventato egli stesso parte di quella storia. Egli avverte che l’architettura contemporanea nega completamente la dimensione temporale andando incontro ad una progressiva perdita della memoria. E’ proprio questo uno dei valori che vuole riaffermare attraverso le sue architetture, contrapponendosi con forza al Movimento Moderno che, trascurando il passato come custode di valori culturali e storici, ha prodotto ambienti anonimi basati sulla sola organizzazione funzionale.34 Ungers ha cercato con tutti i mezzi a sua disposizione di salvare i resti di ciò che per secoli ha legato l’architettura all’uomo, ossia la possibilità di essere parte della “memoria” collettiva con la propria singola opera, e di creare immagini che si possono trasformare ulteriormente. Anche a livello teorico l’architetto tedesco è molto legato alla tradizione storica affermando che qualsiasi teoria dell’architettura, per essere seria e generale, deve basarsi sui principi vitruviani di “firmitas, utilitas e venustas”. Ogni opera dovrebbe essere strutturalmente stabile, adeguata nella collocazione e nell’utilizzo OSWALD MATHIAS UNGERS, Das Recht der Architektur auf eine autonome Sprache, in Kunst und Gesellschaft- Grenzen der Kunst, a cura di Heinrich Klotz, Frankfurt/main, 1981. Riportato in MARTIN KIEREN (a cura di), Oswald Mathias Ungers, Zanichelli Editore, Bologna, 1997, p. 9. 34 “I luoghi che si sono trasformati nel tempo e i caratteri storici specifici sono stati sacrificati sull’altare dei contenuti utilitaristici delle funzionalità. Nel corso di questo cammino, non solo l’architettura è stata distrutta, ma i luoghi stessi, intere città e paesi.” OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura come tema, Milano, 1982. Riportato in MARTIN KIEREN (a cura di), Oswald Mathias Ungers, Zanichelli Editore, Bologna, 1997, p. 12. 33
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dello spazio e dall’aspetto piacevole. Allo stesso modo di Vitruvio Ungers pone a fondamento della progettazione tre categorie -costruzione, spazio e forma- affinchè l’architettura abbia un linguaggio autonomo. Il confronto con la storia, intesa come raccolta di ricordi, assume quindi una posizione centrale in tutta la produzione di Ungers, sia a livello teorico che progettuale.35 Attraverso un’analisi dei diversi temi che egli affronta nei suoi progetti è possibile ricostruire il profondo legame che lo lega agli episodi del passato. Innanzi tutto egli intende la trasformazione come processo di continuità dell’architettura, che permette di mettere in relazione passato, presente e futuro. I processi di trasformazione, intesi come leggi naturali in grado di modificare le condizioni da uno stato all’altro, possono essere imitati per generare forme in architettura. Come vedremo per il progetto del pensionato per studenti a Enschede, i vocabolari formali esistenti possono essere così manipolati attraverso la rottura, la riflessione, la divisione, il capovolgimento, la duplicazione, la specularità e l’allineamento. Grazie a questo processo è possibile fondere in unità poli opposti quali natura e arte e per recuperare e poi superare il “genius loci”. Da questo processo di aggregazione di elementi deriva il tema dell’ assemblaggio :: la città non è costituita da elementi unitari, ma da un insieme di episodi che risalgono a epoche differenti, da stili e da idee assemblati e sovrapposti. Ungers insiste sul diritto dell’architetto di apportare modifiche personali, aggiunte, riduzioni o ampliamenti, i quali costituiscono una tappa del processo evolutivo; il suo obiettivo è quello di riconciliare gli opposti risolvendone le contraddizioni.36 Perciò il compito del progettista consiste nel continuare a lavorare sul collage costruito dalle precedenti generazioni, ma per fare questo è necessario studiare le relazioni contestuali di un luogo, il linguaggio, il vocabolario formale. Gli architetti dovrebbero recuperare le strutture e gli edifici che si sono evoluti nel corso della storia e dar loro una nuova espressione artistica. E’ questo il tema dell’assimilazione attraverso il quale contesta la negazione della memoria quale portatrice di valori storici e culturali. Infine egli affronta il tema dell’architettura come realizzazione dell’immaginazione, riprendendo la percezione del mondo di Schopenhauer: il mondo come volontà e come rappresentazione. Trasferendo questo concetto al mondo architettonico Ungers cerca di elaborare forme idonee a determinare un’insieme unitario, ma allo stesso tempo capaci di riflettere in esso tutta la ricchezza dell’immaginazione. Villa Adriana rappresenta un esempio all’interno del quale sono raccolti tutte queste tematiche e che l’architetto tedesco assumerà infatti come modello ed esempio.
Villa Adriana: città ideale o idea di città? Nel suo saggio Die Thematisierung der Architektur Ungers riflette sulle analogie e sulle scoperte formali che si trovano nella storia, nel tentativo di dare ordine e di spiegare il suo lavoro precedente per ottenere una visione d’insieme di tutte le sue opere. 36 Al concetto di assemblaggio va associato quello di frammentazione, come vedremo più avanti a proposito del progetto per il progetto di concorso per i musei del Preussischer, Kulturbesitz per Berlino del 1965. 35
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Secondo Ungers la Villa dell’imperatore Adriano a Tivoli può essere considerata l’apice conclusivo di un’epoca di creatività e allo stesso tempo il punto d’inizio del “classicismo”. Essa infatti è il primo esempio di architettura nella storia che si configura come raccolta di testi compositivi e immagini visive che hanno lasciato un segno nella memoria dell’imperatore. In questo senso si prospetta come un “monumentum memoriae”, che traendo ispirazione dal passato diventa modello per il futuro37. Proprio per il suo essere una “raccolta” di elementi la composizione si configura come un’aggregazione di differenti edifici ognuno dei quali era situato, pensato e progettato seguendo le proprie regole e il suo ordine, ma allo stesso tempo seguendo dei principi compositivi comuni.38 La Villa viene considerata anche come la antesignana delle “città ideali” umanistiche in quanto edificata come luogo dove coltivare le arti e le scienze. Molti sono infatti gli edifici dedicati alla cultura e le biblioteche, latina e greca, sono gli elementi simbolo di tutta la composizione39. Ma per Adriano non è solo la “città ideale”, anzi è la realizzazione concreta della sua idea di città. La Villa si configura così come l’antitesi della città ippodamea, organizzata secondo un reticolo regolare e ortogonale come quello di Mileto e Priene. L’idea di Adriano fu quella creare diverse polarità attorno alle quali si sviluppavano i differenti sistemi, poi tra loro connessi, mentre Ippodamo crea la città attraverso la ripetizione di unità modulari uguali tra loro. E’ un’insieme di immagini mentali che diventano realtà grazie a un processo di determinazione che partendo da un’idea generale porta alla definizione di oggetti specifici: “La sua realtà è ciò che la sua immaginazione percepisce che sia”40. La Villa in virtù del fatto di rappresentare un modello di formazione e trasformazione di modi di pensare, fatti e oggetti nel tempo può assumere il ruolo di esempio per l’architettura contemporanea. Infine Ungers mette in relazione il significato storico dell’intera città di Berlino a quello di Villa Adriana, nel senso di modello urbano per il futuro. Le trasformazioni che Federico Guglielmo IV mette in atto per la città tedesca furono ispirate dagli stessi principi umanistici che stanno alla base del progetto di Adriano. Il re infatti voleva che tra Berlino e Potsdam si interponesse un paesaggio culturale educativo, all’interno Ungers si riferisce al significato del termine latino “moneo” ossia ricordo, in quanto percepisce Villa Adriana sia come momento di raccolta dei ricordi del viaggio dell’imperatore, sia come collezione di edifici presenti al tempo di Adriano e che oggi possiamo comprendere solo grazie alle rievocazione adrianee in quanto scomparsi. In tal senso è un monumento della “memoria collettiva”. OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva. L’infinito catalogo delle forme urbane. in Lotus International, 32, 1979, p. 5- 11. 38 “Ogni parte nasconde una scoperta, è progettata per un unico sito, è un insieme di eventi, di pezzi, di frammenti in conflitto, che interagiscono, completano e di qui condensano in contesto urbano.” OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva. L’infinito catalogo delle forme urbane. in Lotus International, 32, 1979, p. 5- 11. 39 Scrive Ungers: “Il luogo più centrale della villa è la biblioteca, pensatoio di Adriano, il posto saturo di conoscenza dell’antichità.” Tra gli altri edifici che collaborano a creare una città della “cultura” troviamo la Sala dei Filosofi, l’Accademia, la Torre di Roccabruna (probabile importante punto di osservazione astronomica), il teatro Greco, l’Odeion e molti altri. OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva. L’infinito catalogo delle forme urbane. in Lotus International, 32, 1979, p. 5- 11. 40 OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva. L’infinito catalogo delle forme urbane. in Lotus International, 32, 1979, p. 5- 11. 37
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del quale fossero inseriti esempi architettonici di differenti culture e epoche storiche, il tutto a partire dal modo classico- ellenistico. Ogni architettura deve suscitare nei suoi visitatori ammirazione e curiosità tanto da creare nella sua mente immagini visionarie in grado di proiettare le forme del passato in un futuro prossimo. Tuttavia a Berlino non si può parlare ancora di architettura della “memoria collettiva” se non nel caso di alcuni parchi e giardini urbani progettati da Schinkell e Lenné.
P. J. Lenné, Sansouci, particolare dei giardini.
Progetto di concorso per la casa dello studente, Th. Twente a Enschede (Olanda), 1964
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L’organizzazione della pianta del complesso fa pensare, a una prima lettura, a una zona di scavi archeologici; tuttavia essa è basata esclusivamente su un’enorme quadro di categorie morfologiche, derivate dalle figure base: cerchio quadrato e rettangolo. Le tre figure geometriche vengono modificate e variate con diverse operazioni: spezzate, curvate, ripartite, ribaltate raddoppiate, contrapposte in forma speculare, allineate, ripetute , sovrapposte, per ottenere la massima varietà possibile. Scopo di questa ricerca teorica era quello di creare un’enciclopedia delle forme spaziali e fisiche che abbracciasse tutta la gamma combinatoria. Dopo qualche tempo ci si perse in un’infinità di figure non più concepibili, per cui il vocabolario formale andò oltre il principio teorico. Ma già questo fu una conquista in quanto, applicato alle situazioni concrete, si è rivelato essere un intelligente e flessibile mezzo di modellazione formale. Le trasformazioni furono applicate non solo allo spazio - dall’ambiente unico, a un’associazione di vani, fino all’intero complesso - ma anche dalle varie forme di vita: l’unità isolata è stata trattata analogamente ai modi di vita intellettuale, il raggruppamento spaziale alla vita di gruppo e la configurazione complessiva al collettivo. Il risultato è una piccola città nella quale sviluppa un vivace gioco di pareti, volumi, piazze e strade. Le variazioni del vocabolario di base danno devono riflettere i differenti modi di vita all’interno della comunità: con lo stesso metodo sono concepite, stanze singole per la vita individuale e gli spazi intermedie grandi per le riunioni ristrette e generali. Un microcosmo che rifletta la molteplicità del macrocosmo, quasi fosse il modello di una città pluralistica- non tuttavia in modo accidentale e casuale, ma in un processo che vede tutti i settori collegarsi razionalmente tra di loro e integrarsi. Non un libero caos, ma un ordine razionale ottenuto con il processo della trasformazione formale: spazio singolo e complesso spaziale, strada e piazza, individuale e collettivo. Questa ricerca di una complementarietà costituisce il vero intento progettuale per Enschede. Molti sono qui i riferimenti a Villa Adriana tanto che le planimetrie non sono solo simili, ma si può affermare che coincidano. In primo luogo, come si è già detto, entrambi i progetti possono venire associati all’idea di città pluralistica, in quanto i loro elementi sono tratti da parti di città reali.41 In quanto composizione di edifici, ognuno di essi viene ad assumere una forma autonoma: ci si troviamo di fronte così a una esposizione delle differenti tipologie architettoniche e spaziali, rielaborate e reinterpretate a seconda della funzione che devono accogliere, sia essa pubblica o privata.
“Come la villa di Adriano è composta sul modello della città, così il progetto per gli alloggi studenteschi di Enschede riassume l’idea di una città basata su principi umanistici. E’ pluralistica nel carattere, complementare belle relazioni spaziali, complessa nella struttura urbana, articolata nel linguaggio architettonico e con la Villa Adriana, architettura di ricordi collettivi.” OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva. L’infinito catalogo delle forme urbane. in Lotus International, 32, 1979, p. 511.
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Sopra: veduta del modello di studio. A fianco: schema planimetrico del piano terra. Sotto: studio del sistema strade- piazze.
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Progetto di concorso per i musei del Preussischer, Kulturbesitz, Berlino, 1965.
L’area del progetto per il Museo del patrimonio culturale Prussiano, situata nel quartiere di Tiergarten, viene letta da Ungers come una sorta di “area panoramica”. Il tema del progetto, ossia la “frammentazione”, si relaziona all’area circostante che comprende edifici di differente carattere architettonico: blocchi abitativi, vie, piazze. Lo sviluppo formale del progetto per i musei del Tiergarten tenta di rendere in modo adeguato il carattere di multifomità espressiva di un forum del pensiero e della cultura. Il progetto per i musei berlinesi non è sorretto da un piano unitario: forma e materiale dei diversi edifici seguono concezioni differenti a seconda dei contenuti espositivi; una costruzione quasi arcaica sorge accanto ad un’altra di assoluta perfezione tecnica, un edificio classico accanto a un capannone industriale, un palazzo di vetro accanto a uno in pietra, una costruzione finemente articolata accanto a un blocco monumentale, una’architettura anonima accanto a una in stile. Così Ungers decide di disporre diverse forme spaziali e architettoniche lungo una galleria. Un museo di arti decorative, sale dedicate alla scultura, una galleria di pittura, una biblioteca d’arte e una esposizione di incisioni su rame. Ogni edificio ha un proprio linguaggio; il vocabolario artistico è molteplice come il materiale raccolto nei vari musei. Le forme stereometriche di base delle costruzioni rimangono tuttavia molto leggibili e il loro rapporto reciproco nel paradossale “ordine frammentario” produce una calma che caratterizza tutto il progetto e si irradia sull’intorno. Ungers riesce a comporre l’ordine utilizzando il tema della frammentazione piuttosto che ricorrere a esercizi di stile. L’ordine della frammentazione è dato anche dal fatto che ogni edificio richiama, attraverso i temi dell’esposizioni allestite al suo interno, a modelli architettonici o a eventi storici della città. “Il mueso è concepito come “città della mente”, in cui i luoghi del passato sono proiettati in un futuro visionario”.42 In questo caso è chiaro il riferimento a Villa Adriana in quanto monumento della memoria collettiva e luogo di raccolta di un mondo culturale e architettonico (per il complesso adrianeo riferito alla totalità dell’impero, mentre per il progetto museale connesso alla sola identità berlinese)
OSWALD MATHIAS UNGERS, L’architettura della memoria collettiva. L’infinito catalogo delle forme urbane. in Lotus International, 32, 1979, p. 5- 11. 42
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Assonometria della cittĂ - museo dalle molteplici soluzioni tipologiche.
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Frank Lloyd Wright
Il rapporto con la storia dell’architettura La lunga attività di Wright abbracciò due periodi culturale profondamente diversi, ed ebbe una parte non certo trascurabile nel dar vita nel secondo di essi, che nonostante il suo continuo rinnovarsi non smise mai di essere collegato al primo. Wright opera nel clima culturale ottocentesco americano. Egli ne incarnava i caratteri più salienti: l’enorme fiducia nell’avvenire collettivo e il bisogno di simboli e immagini preindustriali ai quali attaccarsi. Tema fondamentale della sua poetica compositiva è il divenire, il fluire continuo dello spazio.43 Suo proposito era quello di celebrare in forma architettonica il paesaggio con cui aveva a che fare. E’ caratteristico che per raggiungere tale scopo egli si rifacesse ai metodi compositivi della cultura cretese dell’età del bronzo, del Giappone o dell’America precolombiana, civiltà per le quali provava profonda ammirazione. Disprezzava invece quella ellenica, nei metodi e nei principi che la ispiravano, tanto che non la considerava nemmeno architettura. Cercava di riecheggiare, sebbene in forma astratta, le forme e i ritmi dominanti del paesaggio in cui edificava, evitando di introdurvi quell’immagine singolarmente lucida dell’isolamento dell’uomo dalla natura che fu uno dei caratteri principali dell’architettura ellenica che solo pochi architetti successivi alla generazione di Wright compresero fino in fondo (esempio emblematico è come abbiamo già visto Le Corbusier). L’arte greca presupponeva un reciproco isolamento delle cose che era estranea all’architetto americano e al suo tempo, portati invece a considerare l’uomo e la natura accomunati in una specie di flusso evoluzionistico. L’impostazione di Wright era abbastanza complessa. Amava allo stesso tempo fondersi con la natura come un cretese e tuttavia come un maya isolare piattaforme astratte e massa plastiche che condensassero le forme della natura nel rigore dell’umana geometria. Nella tarda maturità, quando l’ansia di abbracciare la totalità delle cose si fece più pressante sotto l’incalzare della “morale maturazione”, arrivò a comprendere, sembra, l’ideale e i sistemi di organizzazione spaziale della Roma imperiale e di tutta la tradizione mediterranea non greca. L’opera di Wright fu direttamente o indirettamente influenzata da tutte le architetture già citate, ma a differenza di quanto fa Le Corbusier nei confronti dei suoi predecessori, Wright non lo ammetterà mai. Il suo rifiuto nasceva dalla necessità di mantenere vivo in sé il mito romantico dell’artista come creatore unico e solo, superumano.
“Spazio, l’eterno divenire, indivisibile sorgente da cui tutti i ritmi e alla quale tutti devono tornare. Al di là del tempo e dell’infinito”. FRANK LLOYD WRIGHT, The language of Oraganic Architecture, Architectural Forum, maggio 1953. Riportato in VINCENT SCULLY JR., Frank Lloyd Wright, Il Saggiatore, Milano, 1960, p. 9. 43
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Raffronti e confronti con Villa Adriana Alcune somiglianze tra il progetto della Villa e quello che Frank Lloyd Wright ideò nel 1938 per il Florida Southern College parrebbero indicare che l’architetto americano conoscesse e sfruttasse il progetto adrianeo; le piante della Villa erano, infatti, facilmente accessibili giacché quella di Winnefeld e soprattutto quella di Gusman si potevano reperire in biblioteca come forse quella di Piranesi. Nel 1910 Wright e la signora Cheney, che soggiornavano a Fiesole, si dedicarono per vari mesi all’esame dell’arte, la scultura e l’architettura italiana, ma a quanto sembra non esiste alcuna testimonianza particolareggiata su ciò che videro; certo è che il progettista americano non avesse buona considerazione dell’architettura italiana. Supporre l’analogia psicologica tra l’imperatore Adriano e Wright potrebbe non sembrare avventato: entrambi infatti erano consapevoli di vivere sul finire di una lunga stagione culturale, e contro la fugacità del tempo cercano radici e conforto in tradizioni remote. Al passato preellenico doveva aver guardato Adriano ordinano certi edifici della Villa, come ad esempio il Serapeo, la cui forma gli antichi culti ctonii del Mediterraneo orientale. Agli stessi ideali si ispirano, consapevolmente o no, i progetti della tarda maturità di Wright. Il progetto del Florida Southern College sembra desumere la piscina circolare con funzione di perno, i lunghi collonati diagonali che aprono e chiudono il complesso forse perfino il teatro all’aperto e l’illuminazione dall’alto degli edifici di svariata forma (la cappella, la biblioteca ad esempio) dai piani di Villa Adriana a Tivoli; tuttavia le prove sono ambigue. Il progetto, commissionato da Ludd Spivey nel 1938, comprendeva numerose strutture: una cappella, una biblioteca, uffici amministrativi, una edificio adibito allo svolgimento delle lezioni, dormitori per gli studenti, centri di ricerca scientifica e cosmografica, galleria d’arte e laboratori per gli artisti. Questi elementi erano disposti seguendo una geometria ortogonale o collocate ad angoli di trenta e sessanta gradi. L’intero schema compositivo era governato da una grande esplanade che connetteva tra di loro i diversi edifici attraverso passaggi coperti che, nel progetto originale, dovevano attraversare diagonalmente degli aranceti disseminati nel complesso. Il tutto si doveva affacciare sul lago Hollingsworth. Ogni edificio era caratterizzato da una forma particolare: la cappella Pfeiffer si abbassa su un doppio triangolo, su un diamante, mentre la biblioteca Roux, connessa all’Esplanade, è un circolo di diamanti; l’edificio amministrativo si configura come una doppia struttura, riconnessa da una corte intermedia. Il realtà il raffronto tra i due progetti non è comunque in grado di provare la diretta influenza del progetto adrianeo su Wright. La pianta di Villa Adriana non presenta linee diagonali (delle quali si è molto parlato a proposito dei metodi di progettazione di Wright), a meno che non si voglia intendere come tale la deflessione di 60° della Terrazza angolata rispetto alla Terrazza est ovest. Ma gli assi angolati non sono uniti l’uno all’altro come i passaggi coperti di Lakeland, che consentono di sostarsi da edificio a edificio 43
senza incontrare ostacoli; il progetto sopra citato che si basa sopra un reticolo è decisamente geometrico e lineare, rigido e inflessibile quantunque la Water Dome con la sua grande forma rotonda e il teatro semicircolare che fronteggia una piscina a forma di stadio ricordino la Villa. Visto dall’alto il sito fa pensare effettivamente a una versione più rarefatta della Villa, ma se si provasse a sovrapporre il wrightiano sulla pianta della Villa, nessun angolo combacerebbe nemmeno approssimativamente e il lavoro studiato a tavolino dell’architetto americano appare comunque in netto contrasto con le forme dense e relativamente eccentriche del complesso adrianeo. Se Wright aveva davvero memorizzato la struttura della Villa non solo il progetto di Lakland ma forse anche Taliesin West, Broadacre City, una decina di altri suoi progetti e persino Ocotilo Camp potrebbero essere in qualche modo progenie della Villa. Le forme dell’architettura alto- imperiale erano in ogni caso conosciute dagli gli architetti di fine Ottocento, come dimostra il progetto di casa Cooper che Wright ideò alla fine degli anni ottanta dell’Ottocento. Le planimetrie delle opere di questo periodo risultano aperte e distese orizzontalmente e si strutturano attorno a un nucleo centrale, mentre gli assi perpendicolari di simmetria sui quali è impostata la disposizione planimetrica si prolungano senza soluzione di continuità fra l’interno e l’esterno, dove si trovano portici e terrazze. Gli spazi infrangono la cortina muraria e si spandono con plastica continuità all’interno e all’esterno dell’edificio. La spazialità wrightiana si può definire come basata su composizioni fluide, espansive e proiettate verso l’esterno. Anche questa caratteristica della progettazione di Wright può essere assimilata come un riferimento all’impianto adrianeo, dove, come si è già affermato, si ha una spazialità che mette in relazione organicamente planimetrie e alzati. Tuttavia ciò essere semplicemente giustificato dal fatto che Wright appartiene al mondo culturale americano di fine Ottocento e a una sua personale visione spaziale dell’archiettura. Vincent Scully afferma inoltre che anche l’acqua, spesso racchiusa da un cerchio, ha nell’ultima fase progettuale wrightiana valore di archetipo, come già lo aveva avuto nel Teatro Marittimo della villa tiburtina.44 Molti dei progetti di quest’epoca esplorano il tema della curva, delle sue modulazioni e rigonfiamenti, ma tutto ciò sembrerebbe una forzatura, in quanto nulla prova la relazione tra l’opera di Wright e Villa Adriana.
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VINCENT SCULLY JR., Frank Lloyd Wright, Il Saggiatore, Milano, 1960. 44
Prospettiva dall’alto del complesso. Da disegno di possono riscontrare delle somiglianze con Villa Adriana, che però non sembrano essere dimostrabili.
Casa e studio di Frank Lloyd Wright. Pianta (a sinistra): 1. Ingresso dello studio, 2. Atrio d’ingresso, 3. Sala da disegno, 4. Ufficio, 5. Biblioteca, 6. Ingresso dell’abitazione, 7. Soggiorno, 8. Camino, 9. Studio, 10. Sala da pranzo, 11. Cucina. Vista dell’esterno. Anche se in pianta è possibile ritrovare un certo organicismo spaziale simile a quello di Villa Adriana, il prospetto denuncia un forte legame alla tradizione della casa colonica americana.
Chiesa greco-ortodossa dell’Annunciazione, Wauwatosa, Winsconsin. Secondo V. Scully, nell’ultimo perodo progettuale, Wright assume il cerchio come valore archetipo e secondo lo storico americano il Teatro Marittimo può essere stato lo spunto per una sperimentazione del tema della curva.
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Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre, contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città. […] Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare col tempo nel suo aspetto di “passato”, coglierne lo spirito, modificarlo, protenderlo, quasi, verso un lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti.
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VILLA ADRIANA Archeologia e progetto di Cristina Bonzanni 707804
Politecnico di Milano, A. A. 2008/2009 Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica Prof. Daniele Vitale
Indice pag. 3
Premessa
pag. 4
In breve: nascita dell’archeologia
pag. 7
Archeologia, il mondo sommerso e il mondo in superficie
pag. 8
Archeologia urbana
pag. 10
Innanzi tutto: comprendere per progettare
pag. 11
Studio di casi tipo
pag. 12
1. Lavori di restauro per la città di Carcassonne, Viollet Le Duc
pag. 14
2. Il Castello Sforzesco: la torre del Filarete, Luca Beltrami
pag. 16
3. Siviglia e l’antichità, Progetto per le colonne romane dette “Mármoles”, Daniele Vitale
pag. 19
4. Restituzione e riabilitazione del teatro romano di Brescia, Giorgio Grassi
pag. 21
5. Intervento nelle terme romane di Sant Boi de Llobregat (Barcellona), Antoni González Moreno Navarro
pag. 24
6. “Urbs et civitas”, riqualificazione del Mausoleo di Augusto e della piazza di Augusto Imperatore a Roma, Francesco Cellini
pag. 26
Conclusioni
pag. 27
Bibliografia
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“Compito (dell’archeologo) è descrivere pezzo per pezzo anche e soprattutto ciò che non riesce a finalizzare a una storia o in un uso … A questo si arriverà in seguito, forse; oppure si capirà che non una motivazione esterna a quegli oggetti, ma il solo fatto che oggetti così e così si ritrovino in quel punto già ci dice tutto quel che c’era da dire. Analogamente noi vorremmo che il nostro compito fosse indicare e descrivere più che di spiegare: perché se abbiamo troppa fretta di dare una spiegazione il nostro punto di partenza tornerebbe a essere quello che non è nemmeno un punto di arrivo, cioè noi stessi … ” Italo Calvino, Una pietra sopra, Milano, 1995
Giorgio De Chirico, Gli archeologi, 1927.
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Premessa Questa breve tesi, mi è servita per avvicinarmi ulteriormente al tema dell’archeologia, poiché in tesi di laurea il progetto verterà su un intervento architettonico a Villa Adriana presso Tivoli. Le problematiche di progettare in un sito come questo, in cui è ancora in atto il processo di scavo, sono molteplici; personalmente m'interessava concentrarmi sul rapporto tra il nuovo progetto e l’antico. Per cercare di capire come affrontare tale problema, ho analizzato diversi casi esempio, in modo tale da trovare una direttrice plausibile nel progetto di Villa Adriana. Prima di discutere sulle problematiche della progettazione in siti archeologici è bene fare un’introduzione alla disciplina archeologica (con l’aiuto, soprattutto, del testo di R. B. Bandinelli), per poter meglio definire le questioni scientifiche che oggi ci stanno dinanzi. E’ necessario affermare subito che la disciplina archeologica ha mutato volto nel corso degli anni. Abbiamo, infatti, un’archeologia ottocentesca, prettamente filologica, che arriva fino agli anni della prima guerra mondiale (1914-1918), un’archeologia storico artistica nel periodo intermedio tra le due grandi guerre ed un’archeologia storica affermatasi dopo la seconda guerra mondiale (1945) in poi. Tuttavia questa non era vera e propria archeologia, ma un suo punto di partenza. Si può dire che si trattava di una ricerca e conoscenza dell’arte antica che, fino ad allora, non era ancora stata studiata; diciamo che era un limite da raggiungere per capire e riconoscere se stessi. La ricerca del passato e l’amore delle cose antiche sono in ogni uomo; più le cose ci appaiono lontane e indecifrabili, più ci affascinano.
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In breve: nascita dell’archeologia La nascita dell’archeologia che studia i monumenti come opere d’arte e come documenti del passato la può attribuire a Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), il quale si occupò essenzialmente della ricostruzione del tessuto cronologico dell’arte antica. Egli scriveva di trovare “l’essenza dell’arte” studiando gli antichi. Il suo scopo era dunque quello di trovare le leggi che regolano la perfezione di un’opera d’arte facendone un esempio di Bellezza: ricerca di un Estetica assoluta. All’epoca il mondo dell’arte antica era “un blocco unico senza prospettiva storica”1. Si trattava di tutte quelle opere fra i secoli della Grecia e i secoli di Roma. Tuttavia, ciò che il Winckelmann ancora non sapeva, tutte le statue (di età romana) che erano state ritrovate a Roma non erano degli originali, ma delle copie da statue greche non ancora riportate alla luce. Winckelmann propose per la prima volta nella storia, di creare un metodo per la lettura stilistica delle opere d’arte, in modo tale da fondare una cronologia storica. Egli distinse quattro stili fondamentali: “stile antico”, “stile sublime” (o della massima fioritura, con Fidia, V-IV secolo a. C.), “stile bello” (seconda metà del IV secolo), “periodo della decadenza” (ultimo secolo a. C. ed età imperiale romana). Egli non solo stabilì questa suddivisione del periodo dell’arte antica, ma coordinò anche le notizie sulle opere d’arte tratte dalle fonti letterarie (specialmente di Plinio e di Pausania). Il suo principio fondamentale era: quello che deve importare allo studioso è di capire l’intima essenza (“das Wesen”) dell’opera d’arte, al fine dell’acquisizione di un'estetica. Con l’inizio dell’Ottocento si hanno le prime campagne di scavo che porteranno alla luce numerosissime opere greche originali; si tratta di una fase dell’archeologia detta militante che culminerà nel 1870. Allo stesso tempo si sviluppava la fase filologica dell’archeologia, basata sulla critica delle copie di età romana. Ciò nonostante, nessuno tra gli archeologi militanti e filologici si preoccupò di rivedere il criterio fondato dal Winckelmann. Lo scopo principale era quello di raccogliere materiale da costruzione per un futuro edificio storico. Soffermiamoci sull’archeologia filologica, che dà inizio appunto al periodo filologico dopo il Winckelmann. Essa si affermò soprattutto in Germania e fu la prima a scoprire che il Winckelmann non aveva mai visto opere originali greche.
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R. B. BANDINELLI, Introduzione all’archeologia, Laterza, Bari, 2006, pag. 13.
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Gli studiosi filologici cercarono di identificare numerose copie con gli originali descritti dalle fonti al punto tale che si finì per studiare più le copie di età romana che gli stessi originali che erano messi in luce nelle varie campagne di scavo. Si finiva così nel pericolo di ricostruire l’arte greca attraverso le copie; questo perché si cercava, attraverso l’analisi critica delle fonti letterarie antiche, di stabilire la versione migliore tra le copie e l’originale. Tutto questo portò a una visione distorta dell’arte greca. Mentre il Winckelmann aveva instaurato un rapporto vivo con l’arte greca, i filologici dell’Ottocento non avevano più questo tipo di relazione, perché erano disposti a riconoscere alcune opere come capolavori solo basandosi su fonti letterarie. Quali sono queste fonti letterarie? Erano molteplici, dirette e indirette. Le prime sono quelle scritte da autori che si sono occupati di cose d’arte; le seconde, invece, sono quelle in cui è contenuta incidentalmente la notizia su un’opera o un’artista. Le opere più importanti, di cui ho già citato prima gli autori, sono la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio e la Periegesi della Grecia di Pausania. L’opera di Plinio era un insieme di notizie raccolte da un autore che di arte non se ne intendeva; egli riferiva ciò che trovava, a volte senza capire ed esprimendo un'opinione propria, altre volte traducendo termini greci cercando nuovi vocaboli. Tutto questo ha portato a non pochi equivoci. L’opera di Pausania rientra invece negli scritti del tardo ellenismo, i cui autori erano appunto detti, “periegeti”, in altre parole descrittori di viaggi. Il suo scopo era di scrivere un libro di lettura e non turistico che fornisse la conoscenza dei luoghi e dei monumenti antichi. Durante le grandi imprese di scavo l’opera del Pausania era spesso “tenuta sotto mano” dagli archeologi, come fonte fondamentale di conoscenza e aiuto. Fino a qui abbiamo quindi capito come lo studio dell’arte antica comporta la conoscenza delle fonti letterarie, dei materiali ritrovati durante gli scavi e un “criterio metodologico per portare quelle nozioni a giuste conclusioni storiche”.2. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento iniziarono le grandi imprese di scavo, soprattutto da parte degli inglesi che, in principio, partirono per scopi colonialistici. Numerose furono le opere asportate dal loro luogo di origine, atto assolutamente lesivo di una situazione storica ma che, tuttavia, se ciò non fosse avvenuto, la nostra cultura non si sarebbe arricchita di numerose nuove conoscenze. A mio parere è bene parlare, in questa sede, anche della fase che, tra il 1830 e il 1870, vede come protagonista la cultura francese in merito al concetto di restauro; questa fase ha, infatti, portato a una nuova concezione di stile, inteso come una realtà storica formale limitata nel tempo e ben 2
R. B. BANDINELLI, Introduzione all’archeologia, Laterza, Bari, 2006, pag. 71.
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definita nei suoi modi figurali. Ne consegue che ogni monumento, nella sua forma originaria, costituisce un'unità stilistica, che il restauro è chiamato a restituire, riportandosi ai modi generali dello stile. Si arrivò così a legittimare e a imporre ricostruzioni, rifacimenti ed anche aggiunte, basate soltanto su analogie tipologiche e stilistiche con altri monumenti, alterando la struttura e la forma dell’opera in nome di un’astratta coerenza di stile. Per meglio capire questa fase, analizzerò in seguito dei casi tipo, mostrando appunto l’inefficacia di questi tipi d'interventi effettuati su monumenti antichi. La prima metà del Novecento ha visto, invece, iniziare numerosi problemi riguardanti l’archeologia e ai suoi ritrovamenti passati. L’essenziale era ora quello di tracciare una nuova metodologia di lavoro nei confronti delle antichità: “La storia dell’arte consiste nel definire le singole opere nella loro storicità individuale e nel legarle con la storia della cultura definendo il rapporto dell’opera d’arte con il suo determinato ambiente”.3. Possiamo affermare che, senza dubbio, Bianchi Bandinelli è riuscito a stabilire una relazione viva con le opere d’arte messe alla luce dagli scavi; il suo pensiero e il suo insegnamento furono dunque fondamentali per gli studenti dell’università che iniziavano a farsi spazio nel modo dell’archeologia. Avendo dunque visto come la disciplina archeologica sia nata recentemente e come gli uomini si siano approcciati a essa col trascorrere degli anni, iniziamo ora ad affrontare tutte quelle problematiche che fanno riferimento al progetto di architettura in ambito archeologico. Per farlo inizio col parlare, molto brevemente, del rapporto tra ciò che è sommerso e il mondo in superficie.
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R. B. BANDINELLI, Introduzione all’archeologia, Laterza, Bari, 2006, pag. 137.
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Archeologia, il mondo sommerso e il mondo in superficie “L’universo archeologico si compone anche di luoghi, di siti, di montagne, di cave, di strade, di posizioni rispettive della città in rovina, dei rapporti geografici, delle relazioni di tutti gli oggetti fra loro”.4. “Siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o di solo potenziale o ipotetico, di cui seguiamo le tracce che affiorano sulla superficie del suolo … La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto. Per far questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, con rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza parole”5. Sono due citazioni, che a mio parere, bene introducono il problema del rapporto tra quello che è il mondo sommerso non ancora riportato alla luce e quella che è la traccia visibile che sta in superficie. Lo scavo stratigrafico (che sottopone il monumento a una scomposizione dei suoi elementi base, individuando le azioni significative che contiene, attribuibili a fasi e a periodi diversi), consente di avvicinarsi con rispetto alle cose perché possano manifestare il loro linguaggio linguistico senza perdita di informazione. Bisogna fare molta attenzione, successivamente, alla rielaborazione di ciò che viene trovato, perché spesso vengono fatte delle ipotesi di ricostruzione inadeguate: i frammenti di muro che vengono riportati alla luce sono insufficienti. I ruderi non vanno ricostruiti, ma vanno studiati, capiti, dobbiamo trarre da essi più informazioni possibili. Spesso le ricostruzioni che vengono fatte oggi con modelli tridimensionali o plastici si rivelano fasulle col tempo, perché gli studi portano alla luce nuove ipotesi e siamo soggetti quindi a continui cambi di idea che portano allo smontaggio ed al montaggio della rovina. Si tratta quindi di un lavoro molto complesso, di sintesi, perché dobbiamo ricomporre la realtà spezzettata secondo nostre ipotesi. Sta all’archeologo ammettere quello che non è possibile vietargli di immaginare. Il lavoro di “ricostruzione” è quindi un lavoro di combinazione di ipotesi. Questo breve capitolo vuole dunque sottolineare quel delicato rapporto che abbiamo tra il mondo che è sommerso ed il mondo in superficie. E’ difficile rapportarci con muri o tracce antiche lasciate dal passato, soprattutto all’interno del territorio urbano in cui oggi viviamo. Proprio per questo il capitolo successivo tratterà dell’archeologia urbana. A. QUATREMERE DE QUINCY, Lettres à Miranda, 1796, riportato in A. CARANDINI, Giornale di scavo, Einaudi, Torino, 2000, pag. 96. 4
I. CALVINO, Lezioni americane, 1985, riportato in A. CARANDINI, Giornale di scavo, Einaudi, Torino, 2000, pag. 96. 5
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Archeologia urbana “Riallacciare il rapporto con l’archeologia urbana significa, per il progetto di architettura, farsi protagonista di un’azione sovversiva; ovvero cercando di capire l’appartenenza di ogni singola parte alle diverse stratificazioni storiche della città”6. E’ importante il rapporto tra l’archeologia e la città, soprattutto perché l’archeologia, operando all’interno della storia, diventa punto di riferimento per i progetti di architettura. Nelle città accade che le aree archeologiche siano confinate in un recinto, sospese in una dimensione quasi senza tempo; quello che è storico è messo al di fuori del continuo spazio-temporale, quindi è posto al di fuori dello scorrere del tempo e della storia. Alcune aree archeologiche non raggiungono soglie d'interesse per il pubblico e vengono quindi presto dimenticate, diventando quindi dei non luoghi destinati a degradare col trascorrere degli anni; altre, invece, vengono “sfruttate” economicamente come luoghi di forte interesse e quindi diventa necessaria la loro tutela e il recinto. Il recinto permette davvero di vivere fino in fondo le antichità che fanno parte del nostro passato? Forse non del tutto, ma è necessario. L’organizzazione urbana mediante criteri tassonomici è nata con la Carta di Atene (1933), documento che stabilisce l’idea di una città compartimentata attraverso la zonizzazione, per “assegnare a ogni funzione e a ogni individuo il suo giusto posto”7. Questo permette le condizioni di una possibile convivenza all’interno del tessuto urbano, nel senso che essa sancisce anche i territori di competenza. Compare così, per la prima volta, l’area archeologica modernamente intesa. Tuttavia la Carta di Atene si avvicina molto al concetto di Giovannoni del diradamento, dove la conservazione del passato prevede esigenze funzionali e igieniche, portando a volte alla distruzione dei monumenti antichi. La questione è che l’area archeologica, intesa come zona funzionale urbana, segni la separazione delle sorti del patrimonio archeologico dal resto del patrimonio monumentale, già legato alle vicende evolutive della città, proprio grazie al contributo di Giovannoni.
A. TORRICELLI, Memoria e immanenza dell’antico nel progetto urbano, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura, Gangemi, Roma, 2002, pag. 218.
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LE CORBUSIER, La Carta di Atene, cit. Osservazioni generali, punto n. 15. Cfr. anche LE CORBUSIER, Manieri di pensare l’urbanistica, Laterza, Bari, 1965, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura, Gangemi, Roma, 2002, pag. 46.
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La vera caratteristica dei non luoghi è la solitudine del suo frequentatore; infatti, quando le persone s'incontrano, creano dei luoghi. I non luoghi accolgono invece soltanto degli individui: “clienti passeggeri, utenti, ascoltatori”8. Vieri Quillici, (nel seminario di studi tenuto a Roma e pubblicato su Archeologia urbana e progetto di architettura 9), parla delle preesistenze definendole delle tracce; il nuovo progetto di architettura che va a costruirsi su questi segni deve tradursi in traccia e sovrapporsi alle stratificazioni esistenti (traccia su traccia). Il problema rimane sempre quello di misurare la distanza tra queste due storie. La lettura delle tracce esistenti è molto importante perché permette di capire le fasi di un processo evolutivo che hanno portato alla conformazione attuale della città: come ho accennato all’inizio del paragrafo, l’archeologia diventa il punto di riferimento per il progetto urbano di architettura. La città si compone quindi di tracce, simboli, linguaggi differenti già preesistenti che gli individui subiscono; questi elementi tuttavia mutano col passare del tempo perché cambiano i riferimenti che li circondano. Il progetto nuovo che interviene sull’esistente funziona solo se rivela nuove connessioni, nuove relazioni tra le parti, solo se viene rinnovato il significato dei segni esistenti. Quindi come intervenire su un sistema già esistente? E come definire un rapporto tra di esso e gli antichi resti?
M. AUGÉ, Nonluoghi, cit. pag. 108, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura, Gangemi, Roma, 2002, pag. 49.
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M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi. Gangemi, Roma, 2002.
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Innanzi tutto: comprendere per progettare Il rapporto tra la storia, ovvero l’antico, ed il progetto è sicuramente inevitabile; ed è una situazione a cui gli architetti dovranno sempre far fronte. Il progetto, anche se non diventa un oggetto concreto e rimane solo un disegno, entra comunque a far parte della storia diventando fonte di dialogo con le generazioni future. Bisogna far ricorso all’antico per avere utili suggerimenti su come progettare il nuovo. Quest’ultimo non deve sovrapporsi pesantemente a ciò che oramai è consolidato da tempo. Il problema rimane quello di imparare a leggere in profondità quello che ci troviamo di fronte, perché il progetto dovrà fare comunque i conti con una Storia stratificata. Solo tutelando le rovine possiamo davvero dare dignità al progetto del nuovo costruito. Le carte storiche sono un grande aiuto per l’architetto, tuttavia esse non bastano a parlare delle rovine se quest’ultime addirittura non sono più presenti. L’originale non è surrogabile con le carte, con la sua descrizione per frammenti. E’ il monumento, il primo documento da leggere e da capire. Le letture e le carte storiche sono un elemento di completezza di questi documenti concreti. Compito dell’architetto è quindi quello di raccogliere la complessa eredità del passato e di progettare, accanto ad essa, una nuova architettura che possa diventare un’ulteriore risorsa collettiva per il futuro. L’architetto ha anche il dovere di saper calare nuova materia nel sistema già presente, senza che ciò penalizzi la stratificazione e la distinguibilità delle fasi e degli apporti storicamente dati. L’antico e il progetto del nuovo non devono entrare in conflitto tra di loro; non deve essere una sovrascrittura sull’esistente, piuttosto una scrittura nella scrittura, ovvero deve dare un valore in più al sistema già presente. Ecco perché è importante non sottrarre materia al contesto, bisogna rispettare le stratificazioni e aggiungere con estrema cautela. Ora posso iniziare ad analizzare concretamente dei casi tipo per aiutarmi a capire quale sia l’intervento più adatto in un sito come Villa Adriana.
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Studio di casi tipo I progetti che ho scelto di analizzare sono molto differenti tra loro e vanno da un periodo storico che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Proprio questa diversità, data dai mutamenti della società nel corso degli anni, mi ha permesso di capire quale direzione intraprendere per un progetto d'intervento in un sito archeologico molto importante come Villa Adriana. Sono certo consapevole del fatto che lavorare in un luogo come la Villa, non ha nulla a che vedere con gli altri contesti progettuali analizzati. Questo perché Villa Adriana, pur essendo definita come villa, rappresenta in tutto e per tutto una vera e propria città. Non tanto per le dimensioni, ma per tutto l’insieme di funzioni che la caratterizzano. Si tratta inoltre di un vero e proprio progetto topografico, di modellazione del territorio: si costruisce molto sui dislivelli e utilizza lo stesso materiale su cui nasce (cave di tufo) per costruire gli edifici stessi che la compongono. Come intervenire allora in un sito come questo? Analizzando vari esempi d'intervento cercherò di rispondere quindi a tale quesito fondamentale.
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1. Lavori di restauro per la città di Carcassonne, Viollet Le Duc Viollet Le Duc (1814, 1879) dà il nome ad un tipo di intervento sugli edifici antichi detto stilistico o mimetico. Egli definisce il concetto di restauro: “Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, sono ripristinarlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo”10. Secondo Viollet Le Duc quindi, il progettista dell’intervento di restauro deve avere in mente un modello ideale, che riassuma tutti i caratteri che per un certo tipo di edificio è dato di riscontrare negli esempi migliori. Se anche il modello può non essere mai esistito, è tuttavia possibile il completamento di un edificio non ultimato o la ricostruzione totale di uno distrutto, di cui non si ha noto neppure lo stato originario. E’ compito del restauratore creare un legame di continuità con l'intenzione dell’antico progettista. Questo tipo d'intervento, pur ponendo il principio del mantenimento dell’integrità degli antichi edifici e pur avendo restituito alla Francia l’immagine tradizionale della sua architettura nazionale, quella gotica, dà luogo a interventi che oggi ci appaiono molto discutibili e aberranti. Dal 1852 al 1879 Viollet Le Duc dirige i lavori di restauro per la città di Carcassonne, un complesso urbano fortificato (nel meridione della Francia). I bastioni, dopo essere stati utilizzati come residenza di notabili e borghesi, vengono venduti e diventano cave a cielo aperto per gli imprenditori di Carcassonne. In seguito a pressioni d'intellettuali locali, sensibili a questa distruzione programmata, l’antica piazzaforte viene restituita nel 1820 all’elenco degli edifici militari di seconda categoria. La città storica appare così come un luogo “arretrato”, le cui mura in rovina danno libero coro alle visioni romantiche dell’epoca: le fortificazioni sbrecciate, la modestia dell’architettura civile e la povertà dei cittadini si uniscono in una percezione volta a cogliere il lato miserabile di un mondo lontano. Viollet Le Duc, procedendo a una lettura minuziosa, instaura un nuovo approccio alla fortezza, nella quale il progetto di restauro deve essere il frutto di una comprensione intima della costruzione. Compie un lavoro per il quale fa riferimento a tutte le tracce materiali visibili nelle murature suscettibili di far luce sulle conoscenze dell’edificio: tacche, ferramenta, fori di sigillatura, ecc.. E’ a partire da questi indizi, talvolta tenui, che egli stabilisce i principi di restituzione della fortezza scegliendo come riferimento la fisionomia che le avevano dato gli ingegneri del XIII secolo. I risultati delle sue analisi archeologiche sulla città, permettono a Viollet Le Duc di proporre nel 1853 un progetto e un primo preventivo su cui stabilire i lavori di restauro. Sono così disegnate le coperture coniche delle torri cilindriche, realizzate in lastre di ardesia rifacendosi alle coperture del E. E. VIOLLET LE DUC, Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’ XI al XVI secolo, 1854, riportato in M. DEZZI BARDESCHI, Restauro: punto e da capo. Frammenti per una (impossibile) teoria, Ex Fabrica Franco Angeli, Milano, 2004, pag. 82. 10
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nord della Francia, i merli della doppia cinta muraria, le porte della città, il castello con le balconate in legno, i camminamenti, le scale, ecc.. Le scelte che attua Viollet Le Duc provocano vivaci critiche, soprattutto dal movimento romantico inglese (capeggiato da John Ruskin), che ritiene di lasciare il monumento così come lo si trova, in quanto ogni tipo di intervento su di esso equivale ad una menzogna, poiché sostituendo le antiche pietre si distrugge il monumento. Probabilmente veder riemergere i bastioni di Carcassonne nella loro completezza è affascinante. Tuttavia non ritengo plausibile l’intervento di Viollet Le Duc; la ricostruzione totale e concreta senza la certezza delle fonti, ipotizzando totalmente le intenzioni dell’antico progettista va a intaccare una rovina che, molto probabilmente, avrebbe avuto molto più da dire del suo passato se fosse rimasta come era. Ovviamente un intervento del genere in un sito come Villa Adriana non è nemmeno da prendere in considerazione. Le ipotesi ricostruttive si possono lasciare ai plastici e alla modellazione tridimensionale. Progettare in un sito come Villa Adriana significa quindi non intervenire direttamente sulle rovine cercando un'ipotesi ricostruttiva che si avvicini il più possibile all’originale (anche perché sarebbe impossibile), ma progettare qualcosa di evocativo che individui la mancanza, ridia identità a quello che oramai non c’è, solo se si ha la certezza di ciò che era.
Fotografia: Carcassonne prima dell’intervento di restauro, 1852.
Fotografia: Carcassonne dopo l’intervento di restauro, 1879.
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2. Il Castello Sforzesco: la torre del Filarete, Luca Beltrami La creazione dell’opera architettonica non è mai separata dalla valutazione, dalla considerazione dei luoghi, dei personaggi del passato che in qualche modo gli erano riferiti. In questo senso il restauro non si distingue dalla progettazione architettonica. Quando Beltrami deve intervenire su un edificio del passato, si preoccupa innanzi tutto di fare una ricerca documentaria la più estesa possibile sull’edificio, dal contesto più generale ai materiali che lo costituiscono. Dove è possibile egli riproduce le forme perdute, sostituisce i materiali deteriorati con quelli nuovi perché attraverso la forma l’idea dell’architettura si esprime e con essa la cultura che l’ha prodotta. Quando tutto questo non è possibile egli si ritiene in grado di ricostruire il mondo dei valori del passato attraverso una progettazione che ricostruendo forme verosimili renda comunque immediata la percezione dei valori morali. Beltrami interviene così in uno dei suoi restauri più famosi, il Castello Sforzesco, dove recupera un’integrità storica. I lavori iniziano nel 1893 e si protraggono fino ai primi anni del ’900; egli libera il castello dalle sovrastrutture, si sforza di raggiungere la forma, la realtà distributiva e funzionale del periodo in cui l’edificio è compiutamente definito. Nel Castello colloca anche i frammenti di alcune delle case milanesi distrutte: si tratta dell’esemplificazione di un tipo costruttivo. Il Castello diventa così l’archivio materiale della città. Per quanto riguarda la torre del Filarete, colpita da un fulmine nel 1521 e distrutta perché ospitava il deposito delle polveri da sparo che si incendiarono esplodendo, Beltrami fa riferimento ad un’ampia documentazione iconografica: quadro del Bevilacqua, graffito della Cascina Pozzobonelli, progetto per la fronte del Castello di Leonardo da Vinci, graffito all’abbazia di Chiaravalle, intarsio nel coro della Cattedrale di Cremona, torre del castello di Vigevano, tavole della scuola lombarda, disegno di scuola leonardesca: S. Ambrogio in aiuto dei milanesi nella battaglia di Parabiago, dipinto di Francesco Napoletano. Egli la ricostruisce completamente; consapevole degli inevitabili arbitri, non ha mai comunque spacciato la torre per quella filateriana anzi, la dedica a Umberto I (ucciso a Monza nel 1900), sottolineando la contemporaneità della propria opera. Beltrami si rende conto che il proprio intervento entra a far parte della storia dell’edificio, che come gli interventi importanti del passato, deve essere conosciuto e deve insegnare; a questo scopo fa mettere dei graffiti su alcune pareti del maniero, che raccontino, oltre alla storia del Castello, le vicende del restauro. Senza dubbio si tratta di un intervento differente da quello visto in precedenza realizzato da Viollet Le Duc, anche se, entrambi, ricostruiscono completamente le architetture andate perdute. 14
Beltrami si basa su fonti storiche certe e ricostruisce la torre esattamente pari al progetto originale del Filarete. Anche un intervento di questo tipo, pur basandosi su documentazioni iconografiche sicure, è assolutamente da escludere in un sito come Villa Adriana; in primo luogo perché di fonti certe non ce ne sono; in secondo luogo perché non avrebbe senso riportare a come erano delle rovine che hanno già avuto il loro tempo. Intervenire in modo filologico su di esse non farebbe altro che portare a una falsificazione del passato. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di conservare il più possibile di ciò che è rimasto della villa romana.
Graffito: Il Castello in un graffito della Cascina Pozzobonelli.
Francesco Napoletano, La Madonna, detta Lia, dettaglio, 1490 ca.
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3. Siviglia e l’antichità, Progetto per le colonne romane dette “Mármoles”, Daniele Vitale Le colonne in questione sono inserite nel tessuto fitto e stratificato di Siviglia; per metà visibili (la parte superiore) e per l’altra affondate in uno scavo stretto, sostenute da protesi metalliche; esse identificano il tempio di Ercole, fondatore della città. Le tre colonne di calle Mármoles appartenevano a un gruppo originario di sei; una andò spezzata nel tentativo di trasportarla all’Alcázar, il palazzo reale musulmano; altre due si trovano tuttora alla Alameda de Hércules, spazio alberato; queste ultime sono le autentiche “colonne romane” di Siviglia. Queste tre colonne rappresentano il legame di Siviglia con l’antico: la difficoltà sta nel ridare significato a questo luogo, reinventare il passato della città, per dargli luce e coscienza. Sono poste su di un'altura, al riparo dalle inondazioni, ove si trovava il primo insediamento urbano e appartengono a un edificio ricostruito in epoca romana: il tempio di Ercole, posto sull’ incrocio tra cardo e decumano della città. Siviglia ha cancellato le tracce della città romana; ogni città si è susseguita a quella precedente comprendendola. Possiamo dire che ha intrattenuto un rapporto diverso con il passato rispetto alla città di Roma: mentre a Siviglia il passato si è annullato rimanendo come matrice sottostante, a Roma il passato rimane sempre presente e tangibile. Importante il rapporto che lega Siviglia al fiume lungo il quale è sorta: il Guadalquivir; esso è un termine di raffronto e di misura che ha determinato il significato dei luoghi, tra questi, quello delle colonne. Quelle portate ad Alameda de Hércules, sulle quali sono state poste le statue di Ercole e di Giulio Cesare, i due fondatori, hanno un significato allusivo, perché rappresentano l’antica presenza del fiume: esse segnano ed evocano. Le colonne di calle Mármoles e dell’Alameda risalgono all’epoca di Adriano (tra il 120 ed il 150 d.C.) ed hanno le caratteristiche di tale periodo e di quello successivo: grandi dimensioni, prive di scanalature, rapporti semplici, i fusti sono un blocco unico in granito, le basi sono in marmo bianco, i capitelli di calle Mármoles non sono presenti, mentre quelli all’Alameda sono corinzi e restaurati. L’area di progetto è in unico isolato disomogeneo, e rappresenta l’antico foro, dove si incrociavano il cardo e il decumano; numerose sono le stratificazioni edilizie e i processi di modifica, soprattutto a livello di interventi minuti e singolari, anche perché la conformazione degli isolati è rimasta pressoché la stessa da quanto rivela la prima carta topografica del 1771 ad opera di Francisco Coelho.
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La tipologia prevalente è quella della casa a patio, in diverse versioni; i primi segni di rottura con tale tradizione tipologica si hanno negli anni cinquanta, quando nascono i primi edifici estranei al contesto. “Le colonne sono diventate con il tempo un elemento di alterazione del tessuto”11. Analizziamo ora le varie fasi d'intervento sull’area di progetto: Primo evento: demolizione della casa che inglobava le colonne nel 1886; per metà però le colonne rimarranno nel suolo: “Rapporto con la terra” 12 (che efficacemente rappresentavano i disegnatori del Rinascimento in Roma), “la terra è metafora del tempo che seppellisce le cose, e da cui le cose a stento emergono”13. Finché le colonne erano inglobate nella casa, facevano parte della vita quotidiana della città, dopo essere state riportate alla luce, sono diventate dei reperti, degli elementi a sé. Secondo evento: demolizione e ricostruzione della casa adiacente a ovest delle colonne; la nuova casa è più alta e dista dalle colonne solamente 1.50 m. Gli scavi continuano e portano alla demolizione la zona a ovest delle colonne, senza alcun risultato in quanto il tempio si sviluppa sul lato opposto; la situazione attuale rimane quindi ancora quella di scavo e di area demolita abbastanza vasta e, inoltre, lo scavo si va riempiendo continuamente di acqua, sia per la pioggia che per la falda freatica. Il progetto prevede di ridare un ruolo alle colonne e accompagnarle con un piccolo museo; l’idea è che le colonne debbano appartenere allo spazio interno dell’isolato e non a quello della strada. Devono essere considerate come elementi di una stratificazione lenta: il progetto prevede così di inserirle in una corte ribassata rispetto al piano stradale e posta al livello delle basi delle colonne, chiusa con una cancellata di modo da permetterne la visibilità; la corte non ha dimensioni maggiori, in quanto l’obiettivo è quello di ricostruire la continuità edilizia e formale del tessuto circostante. Il progetto è interessante, soprattutto per quanto riguarda l’idea di ridare un senso allo spazio in cui le colonne sono inserite; insieme a questo spazio esse diventano un tutt’uno, non sono più dei reperti a sé da osservare nostalgicamente, ma fanno parte di un progetto ben più complesso, che si riallaccia a ciò che lo circonda. E’ un progetto evocativo.
D. VITALE, Siviglia e l’antichità, Progetto per le colonne romane dette “Mármoles”, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi. Gangemi, Roma, 2002, pag. 247.
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D. VITALE, Siviglia e l’antichità, Progetto per le colonne romane dette “Mármoles”, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi. Gangemi, Roma, 2002, pag. 249. 12
D. VITALE, Siviglia e l’antichità, Progetto per le colonne romane dette “Mármoles”, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi. Gangemi, Roma, 2002, pag. 249.
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Questa è una delle prime difficoltà che s'incontrano progettando in un’area archeologica come Villa Adriana; la costruzione del nuovo si rapporta con le preesistenze antiche, ma non deve nascere indipendente da esse; devono correlarsi a vicenda, senza però, che il nuovo sovrasti l’antico anzi, ne permetta il riconoscimento e la comprensione.
Pianta dell’area di progetto con i piani terreni degli edifici.
Veduta delle colonne e del nuovo corpo retrostante.
Pianta al livello inferiore della corte e sezione trasversale del nuovo corpo retrostante le colonne, con la scalinata per scendere al livello inferiore della corte.
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4. Restituzione e riabilitazione del teatro romano di Brescia, Giorgio Grassi Il teatro di Brescia oggi appare come un restauro di liberazione interrotto a metà; liberazione perché su di esso era costruito il palazzo Maggi-Gambara, andato quasi completamente distrutto per riportare appunto alla luce l’antico teatro. Si tratta quindi di un pentimento tardivo nei confronti del palazzo di cui oramai rimane ben poco. Le fondazioni rimaste non permettono di leggere la forma caratteristica dell’antico teatro, specialmente la relazione tra l’orchestra e la ima cavea. Da notare che parte della facciata del palazzo Maggi-Gambara, più precisamente la facciata est, al di sopra del parascaenium ovest del teatro, ingloba reperti appartenenti alla struttura della scaena, dandone, ad oggi, un valore evocativo. Il progetto ha assunto come base un rilievo planimetrico abbastanza esaustivo eseguito dalla sovrintendenza nel 1978 a cura dell’architetto Kasprzysiak; questo è molto importante, in quanto avere una buona cartografia di partenza per un progetto in siti archeologici è essenziale. Per il progetto di tesi da noi portato avanti a Villa Adriana, è stato necessario consultare numerose cartografie storiche oltre all’attuale planimetria del sito; i nostri studi e le nostre ricerche ci hanno portato ad assumere come cartografia base la carta di Giovanni Battista Piranesi del 1700, la quale si può considerare un vero e proprio progetto di architettura oltre che di rilievo. Ovvio che, dopo la carta, è bene fare riferimento a ciò che realmente emerge dal suolo. Primo obiettivo del progetto è quello di ridare unità spaziale al manufatto antico, cioè la ricostruzione il più possibile prossima alla verità; questo porta alla demolizione delle ultime parti delle fondazioni del palazzo Maggi-Gambara. Secondo obiettivo, ma non meno importante, è quello di dare nuovamente al teatro un ruolo pubblico all’interno della città. Questo comporta la ridefinizione della scena del teatro anche nel suo alzato, coerente con la città contemporanea in cui s'inserisce. Ridefinizione quindi della cavea e della scena: per quanto riguarda la ridefinizione della cavea si è deciso di adottare un sistema costruttivo simile a quello romano, ma comunque reversibile, provvisorio, cioè la costruzione in legno. Soluzione che dichiara la sua diversità, proprio nel suo adattarsi alla rovina senza confondersi. Per quanto riguarda la scena invece bisogna tenere conto del suo ruolo di monumento e allo stesso tempo di emergenza all’interno della città: essa quindi è costituita in parte da frammenti originali per mantenere un rapporto visivo, fisico con le antiche pietre della città. In questo intervento si tratta di ridefinire qualcosa che non c’è, o c’è solo in parte, per potergli ridare un ruolo all’interno della città; è estremamente difficile, per non dire impossibile ridare forma a qualcosa di cui non si ha la completa certezza; per questo è importante mantenere un certo 19
distacco, lo si può fare con un materiale differente; oppure si può semplicemente progettare in modo “evocativo”, ovvero non vado ad intaccare direttamente il sito archeologico, non ricostruisco formalmente ciò che oramai non esiste più, ma cerco di trattare lo spazio in modo tale che evochi le mancanze, senza che abbiano una forma definita. Questo forse può accadere in siti come Villa Adriana, dove il competere con l’antico diventa piuttosto difficile; il progetto di Grassi ricostruisce il teatro romano all’interno di una città contemporanea, si tratta quindi di un rapporto diverso; è l’antico questa volta che risulta essere “in minoranza” rispetto al nuovo che lo circonda; deve rapportarsi ad esso, deve assumere nuovamente il suo ruolo di teatro. Naturalmente viene fatta un’ipotesi ricostruttiva, basandosi anche sulla conoscenza tipologica dei teatri romani.
Disegno: Sezione trasversale verso est e longitudinale verso la cavea, 2000.
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5. Intervento nelle terme romane di Sant Boi de Llobregat (Barcellona), Antoni González Moreno Navarro
La città di Sant Boi de Llobregat è capoluogo della Catalogna e si trova a 13 km da Barcellona. Il centro storico rappresentava, nell’antichità, un luogo strategico dato che dominava la foce del fiume. Nel II secolo a. C. il territorio su cui sorgeva il primo insediamento della città, apparteneva alla città di Barcellona e ospitava una villa romana. Quest’ultima era costituita da una zona residenziale, da edifici agricoli e da terre coltivate; solo nel 200 d. C. fu aggiunto il complesso termale, dato che la villa si arricchì grazie all’esportazione delle merci da lei stessa prodotte. Non si sa di preciso quando le terme caddero in disuso, però di certo, avvenne parecchi secoli dopo la loro nascita. Nel 1600 fu costruita una casa sopra di esse, che utilizzava come cantina parte della costruzione antica. Nel 1953 s'iniziarono i lavori di scavo per riportare alla luce queste antichità, riscoperte grazie al ritrovamento di un documento nell’Archivio Parrocchiale da parte di uno studioso locale. Tra il 1954 e il 1959 i lavori passarono nelle mani del Museo Archeologico della Deputació de Barcelona (Provincia); solo pochi anni dopo, nel 1975, la zona fu abbandonata a se stessa, lasciando che le rovine si rovinassero in modo irreparabile. Grazie alla nuova Amministrazione comunale democratica, che nel 1988 si rese conto della gravità della situazione, furono chiesti nuovi finanziamenti alla Provincia per interventi di restauro, protezione ed esposizione al pubblico delle antichità. L’obiettivo dell’intervento è quello dunque di restaurare, proteggere ed esporre al pubblico questi antichi resti romani. Tuttavia la decisione su come affrontare questo intervento è cambiata molte volte durante i lavori di ricerca: diciamo che andava parallelamente ai lavori di scavo. Il come trattare i resti dipende molto da come li si vuole esporli al pubblico. Alla fine i resti sono stati puliti, consolidati, valorizzati e conservati tali e quali sono arrivati fino ai giorni nostri. In questo modo si rinunciava a qualsiasi tentativo di ricostruzione ideale. I visitatori passano in un percorso esterno alle rovine per evitarne il deterioramento, inoltre si è deciso di costruire un edificio a un unico spazio per proteggerli. “L’architettura storica da proteggere e l’architettura nuova dovevano differenziarsi e rispettarsi a vicenda senza ambiguità” 14.
A. G. M. NAVARRO, Intervento nelle terme romane di Saint Boi de Llbregat (Barcellona): proteggere la memoria, sottolineare l’identità, riportato in M. M. SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi. Gangemi, Roma, 2002, pag. 181. 14
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Il monumento non doveva essere aggredito dalla nuova architettura, mentre quest’ultima non poteva essere esteticamente condizionata dalla rovina. Il nuovo edificio consiste in una sala semiaperta che dà il massimo protagonismo alle rovine e, allo stesso tempo, mantiene le condizioni topografiche del posto (2-4 metri al di sotto del livello stradale). Il nuovo stabile ha un carattere espressivo autonomo, senza alcuna contaminazione storicistica, ed è un riferimento formale rispetto alla città circostante, sia per manifestare la sua funzione e il suo contenuto, sia per rivalutare il tessuto urbano oramai degradato. Le antiche terme rappresentano il patrimonio sentimentale del luogo, sono il patrimonio della gente del posto, quindi degne di essere così musealizzate e conservate. In questo progetto si decide di non intaccare assolutamente la rovina, e di costruire un edificio “contenitore” che protegge gli antichi resti; è un intervento che, sicuramente, deve rapportarsi con la realtà urbana che lo circonda, molto vicina e pericolosa per le rovine. E’ giusto proteggere le rovine dalla modernità che le circonda, ed è giusto che, in questo caso, si sia intervenuti così; a Villa Adriana il modo di vivere le rovine è diverso; le rovine stesse rappresentano parte di una città antica, e non possono essere rinchiuse all’interno di un edificio contenitore, perché altrimenti perderebbero la loro funzione all’interno di quel sistema di riferimento che è la loro antica città. Le terme del progetto analizzato non sono più inserite all’interno del sistema “villa”, e possono essere chiuse in un contenitore che le protegga da un altro sistema, la nuova città, che le potrebbe intaccare. In questo modo antico e moderno convivono insieme e si arricchiscono a vicenda: le terme arricchiscono il nuovo con la loro memoria, il nuovo valorizza l’antico mettendolo in evidenza con un involucro di protezione che si distingue formalmente all’interno della città.
Fotografia: Facciata nord dell’edificio di protezione delle terme, 1998.
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Disegno: Pianta generale dell’edificio di protezione delle terme, 1998.
Disegno: Sezione est ovest dell’edificio di protezione delle terme, 1998.
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6. “Urbs et civitas”, riqualificazione del Mausoleo di Augusto e della piazza di Augusto Imperatore a Roma, Francesco Cellini Il progetto muove dalla considerazione della straordinaria centralità storica e caratterizzazione identitaria di un luogo urbano nel cuore di Roma, che ha avuto vicende oltremodo mutevoli lungo due millenni e una brutale trasformazione moderna, la quale ha messo in crisi l’autenticità dell’immagine e il ruolo urbano, sia del suo baricentro monumentale, che le demolizioni hanno isolato, che dell’immediato contesto architettonico. Questo è giunto a noi frammentato e incoerente, tanto da farne un sito freddo, sgradito e marginalizzato nonostante la sua centralità urbana e la non comune varietà di presenze monumentali: dal grande rudere, al san Carlo e le altre chiese, al Museo dell’Ara Pacis. In un luogo ricco di storia ma di cui è urgente una rianimazione funzionale, sono state percorse le due vie della conservazione e dell’innovazione: affidando al restauro, inteso come recupero del senso, il monumento antico; e all’innovazione, intesa nella proposizione di una nuova socialità urbana, il frammentato intorno urbano. È il progetto ´Urbs et civitas', del gruppo di Francesco Cellini, il vincitore del concorso internazionale per la riqualificazione del Mausoleo di Augusto e della piazza Augusto Imperatore a Roma. Prevede la realizzazione di due cordonate che partono dall'abside di San Carlo e dal nuovo museo dell'Ara Pacis. Queste giungono a una piazza che avrà le misure della piazza del Pantheon, una piazza dove sarà impiantata una bassa vegetazione, creando così un nuovo giardino pubblico. Una scelta, questa, che permetterà di realizzare, anche in momenti successivi, nuovi scavi per la conoscenza archeologica dell'area. Per quanto riguarda il mausoleo, tomba che l'imperatore Augusto fece costruire nel 29 a.C., si è voluto rispondere al tema dell’integrazione tra due opposti modelli: l’isolamento e la contestualizzazione. Esso dovrà essere di nuovo fruibile, svuotato dalle aggiunte degli anni ’30 e animato dalla dinamica labirintica, mentre le sale disposte ad anello intorno al grande cilindro saranno rese accessibili alla visita. Anche qui non sarà pregiudicata la possibilità di realizzare in futuro interventi di ricostruzione. Viene così ridata uniformità ad uno spazio che oggi risulta essere informe. Si tratta di un progetto che vedrà senz'altro delle modifiche, alla luce dei ritrovamenti archeologici scoperti nel corso degli scavi già avviati nel settembre del 2007, che hanno portato alla luce importanti reperti e due antichi obelischi, posti ai lati del monumento in posizione simmetrica. E’ questo un progetto che dà molta attenzione sia al contesto urbano che al protagonista indiscusso: il mausoleo di Augusto. Riesce a riqualificare un’area che chiama in campo diversi protagonisti fondamentali, come il nuovo museo dell’Ara Pacis e la chiesa di San Carlo. Analizzando tale progetto mi sono venuti in mente gli scritti di Camillo Sitte riguardanti l’arte di costruire le città. Egli sottolinea la banalità nel costruire le città moderne, dei loro spazi e delle loro piazze, che 24
diventano soltanto dei sistemi che vanno alla ricerca di aria e luce, piuttosto che di un imperativo vitale per la popolazione, come accadeva invece per la città antica. A mio parere in questo caso la piazza rappresenta un punto vitale e d'incontro per i cittadini. C’è un armonioso rapporto tra la piazza pubblica e i vari protagonisti che vi si affacciano; la rovina del mausoleo riacquista un significato, è riaperta e può essere vissuta dagli abitanti. Ritorna a far parte del contesto urbano che, di conseguenza recupera di nuovo valore grazie alla rovina stessa; diciamo che il rapporto che si instaura tra antico e moderno contesto urbano dà un nuovo significato al luogo. E’ l’antico che detta le regole dell’intervento e ridà importanza a ciò che lo circonda.
Francesco Cellini, Pianta nuovo progetto mausoleo di Augusto, 2007.
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Conclusioni Arrivata alla fine di questo percorso che mi ha visto dare un’introduzione alla disciplina archeologica, capire l’importante rapporto che si instaura tra le antiche rovine ed il mondo in superficie e studiare casi tipo differenti, posso dire di aver trovato un metodo di intervento in un sito come Villa Adriana. Un metodo che già stiamo intraprendendo per portare a termine il nostro iter progettuale di tesi, e che è già evidente nei diversi casi tipo che ho scelto di analizzare. Il nostro intervento, che prevede un museo e una biblioteca con annessa sala conferenze, si rapporta fortemente con le rovine esistenti, che fanno da “linee guida” al progetto. Nulla viene ricostruito, rinchiuso in un nuovo involucro o sovrastato dal nuovo progetto. Quest’ultimo si lega alle rovine con un forte rapporto lasciando comunque a esse il compito di essere le vere protagoniste del progetto. L’antico grazie al nuovo assume nuovamente i significati perduti. Il nuovo, invece, deve essere il meno invasivo possibile, lasciando spazio, come già detto, al mondo antico. Il progetto analizzato che tra tutti si avvicina maggiormente al nostro e può essere direttrice plausibile per un progetto a Villa Adriana, è quello di Francesco Cellini. Anche qui è l’antico che detta le regole, ed è all’antico che viene ridato un significato senza delle ipotesi ricostruttive totali. Il mausoleo ritorna a far parte della città, che oramai lo aveva perso da tempo. Allo stesso modo agiamo noi a Villa Adriana, il nuovo progetto va a ridefinire quegli spazi che hanno perso la loro identità e che necessitano di una nuova rivalutazione per permettere ai postumi una facile comprensione di ciò che oramai non c’è più.
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Bibliografia RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI, Introduzione all’archeologia. Editori Laterza, Bari, 2006. ITALO CALVINO, Lezioni Americane. Mondadori, Milano, 2002. ANDREA CARANDINI, Giornale di scavo, pensieri sparsi di un archeologo. Einaudi, Torino, 2000. GIOVANNA CRESPI E NUNZIO DEGO, Opere e progetti Giorgio Grassi. Electa, Milano, 2004. MARCO DEZZI BARDESCHI, Restauro: punto e da capo. Frammenti per una (impossibile) teoria. Ex Fabrica Franco Angeli, Milano, 2004. MARIA MARGARITA SEGARRA LAGUNES, Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi. Gangemi, Roma, 2002.
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