architetti napoletani 3 - novembre 2000

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novembre 2000

architettinapoletani

rivista bimestrale dell’ordine degli architetti di napoli e provincia


architettinapoletani rivista bimestrale dell’ordine degli architetti di napoli e provincia numero 3 · novembre 2000

editore Consiglio dell’Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia Paolo Pisciotta Francesco Bocchino Beatrice Melis

presidente vice presidenti

Gennaro Polichetti

segretario

Pasquale De Masi

tesoriere

Francesco Cassano consiglieri Gerardo Cennamo Vincenzo Corvino Pio Crispino Ermelinda Di Porzio Fabrizio Mangoni di S. Stefano Fulvio Ricci Antonella Palmieri Onorato Visone Antonio Zehender

in questo numero:

direttore responsabile Paolo Pisciotta direttore editoriale Vincenzo Corvino

quale futuro per il nostro paesaggio? giuseppe albanese, luca lanini, francesco scardaccione

responsabile di redazione Gerardo M. Cennamo comitato editoriale Pasquale De Masi Ermelinda Di Porzio Fabrizio Mangoni di S. Stefano Antonella Palmieri Giancarlo Smith redazione Antonio Acierno, Giuseppe Albanese, Antonio Ariano, Alba Cappellieri, Giovanna di Dio Cerchia, Claudio Correale, Marco De Angelis, Carmen Del Grosso, Luca Lanini, Giulia Morrica, Aldo Micillo, Mariarosaria Pireneo, Marcello Pisani, Adelaide Pugliese, Francesco Scardaccione, Roberto Vanacore direzione e redazione Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia via Medina, 63 tel. 081.552.45.50 · 552.46.09 fax 081.551.94.86 http://www.na.archiworld.it e-mail: infonapoli@archiworld.it servizio editoriale e pubblicità Eidos s.a.s. via Napoli, 201 Castellammare di Stabia Napoli tel./fax 081.8721910 e mail: eidosedizioni@libero.it stampa Grafiche Somma Gragnano Napoli progetto grafico Michele Esposito Carlo Buonerba foto di Giuseppe Albanese 6, 23 Sonia Bruno 14, 15 Peppe Maisto 8, 21 Lucio Morrica 16, 17, 18 Ufficio Enel 19

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editoriale un paesaggio di paesaggi

franco purini

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argomenti ordine arboreo e ordine urbano

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alta velocità: una “sistemazione a verde” nel Mugello

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recupero ambientale delle cave in Campania

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sostegni per l’ambiente

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lungo la Strada degli Americani

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la nuova cultura della sottrazione

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trasfromare le necessità in desideri

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vittoria calzolari

sonia bruno

lucio morrica

fulvia fazio

fabrizia ippolito

mario fazio

sandro raffone

calendariomostre alba cappellieri

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Registrazione Trib. di Napoli n°5129 del 28/04/2000 distribuzione gratuita agli architetti iscritti all’albo di Napoli e Provincia, ai Consigli degli Ordini Provinciali degli Architetti e degli Ingegneri d’Italia, ai Consigli Nazionali degli Architetti e degli Ingegneri, agli Enti e Amministrazioni interessate spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96-filiale di Napoli Gli articoli pubblicati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano il Consiglio dell’Ordine né la redazione della Rivista. Di questo numero sono state stampate n° 7.000 copie Chiuso in tipografia il 20/11/2000

in copertina lucio morrica, cava di pietra vesuviana a cielo aperto


quale futuro per il nostro paesaggio? Giuseppe Albanese, Luca Lanini, Francesco Scardaccione*

Con il termine paesaggio si è intesa la costruzione culturale dell’ambiente che agisce alle sue varie scale: da quella territoriale a quella minuta del disegno degli arredi della città. All’inizio del nuovo secolo, in Italia, a qualsiasi scala il risultato appare desolante. Oltre cinquant’anni di colpevole incuria e brutale manomissione hanno compromesso in maniera quasi irreparabile sia i caratteri originari sia le possibilità di sviluppo sostenibile del nostro ambiente. Le condizioni attuali pongono con forza l’esigenza di intervenire, da una parte col recupero, e dall’altra, operando con maggiore sensibilità verso la QUALITA’ architettonica. Aspirazione raggiungibile, innanzitutto con lo strumento del concorso di progettazione che, come dimostrano alcune recenti esperienze in Italia, può essere applicato a tutte le scale ed elementi della composizione del paesaggio. Nel curare questo numero della rivista, abbiamo voluto evidenziare alcuni strumenti interpretativi e dar voce ad alcune posizioni culturali operanti nel paese. * architetti napoletani

Programma di riqualificazione urbana del quartiere Scampia a Napoli: …un’altra occasione perduta !!!

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un paesaggio di paesaggi Franco Purini

Franco Purini è nato a Isola del Liri nel 1941. Nel 1966 costituisce lo studio Purini/Thermes con Laura Thermes. Partecipa a numerosi concorsi nazionali ed internazionali, a numerose edizioni della Biennale di Venezia, quelle di Cracovia e Cordoba, varie Triennali di Milano. Tra le opere realizzate ricordiamo la casa del farmacista, le tre piazze e casa Pirrello a Gibellina, un complesso per abitazioni a basso costo a Napoli e la cappella di S. Antonio a Padova. E’ attualmente ordinario presso lo IUAV di Venezia.

Il paesaggio è un’entità metamorfica. Esso vive e vivendo cambia, evolvendo verso configurazioni diverse, a volte con continuità, a volte con mutamenti improvvisi. Quella di paesaggio è inoltre una nozione dall’incerta natura. Essa può infatti designare sia regioni del mondo nelle quali l’intervento umano è scarso, se non assente, come avviene ad esempio per gli scenari più estremi delle Alpi, per le gelate distese dei ghiacciai che attraversano la Terra del Fuoco e per tutti i deserti del mondo, sia parti del territorio quasi modellate del tutto dall’azione antropica. L’Olanda non ha praticamente alcunché di naturale, e il suo paesaggio è una creazione integrale, a partire dallo stesso suolo. In realtà anche nel primo caso il paesaggio viene considerato tale solo attraverso una sorta di progetto di riconoscimento, ovvero di attribuzione di senso estetico a qualcosa che solo a posteriori viene chiamato a far parte di un sistema di elementi costruito su valori artificiali: in ogni caso l’oscillazione dell’idea di paesaggio tra l’assenza totale dell’intervento umano e la sua massima estensione non fa che confermare l’impossibilità di costringere questa stessa idea in definizioni troppo precise. Le difficoltà di separare nel paesaggio il ruolo dell’artificio da quello della natura ha ovviamente un peso considerevole nel rendere quanto mai arduo stabilire criteri progettuali certi, restando qualsiasi azione su di esso ampiamente congetturale. Il paesaggio è poi un’entità ambigua. Esso è una realtà fisica ed insieme il risultato di una complessa rappresentazione estetica, una costruzione parallela di significati e contenuti artistici la quale, a partire da scritti, poesie, dipinti e mitologie orali, crea un doppio immateriale del paesaggio reale. Il processo di definizione di questa replica ideale di un sistema di segni terrestri è del tutto particolare. Il paesaggio si struttura per fasi progressive, sulla base di esigenze primarie. Prevalgono a lungo motivazioni insediative e produttive fino a che, per così dire, il paesaggio prende coscienza di sé constatando di possedere una forma compiuta, una sua bellezza. Da allora in poi ha inizio quella costruzione parallela di significati e contenuti artistici cui si è fatto riferimento. Ovviamente tale immagine non si definisce tutta in una volta, ma raggiunge una sua completezza attraverso una serie successive di fasi. Una volta formato, questo simulacro tende a non modificarsi più, opponendo in qualche modo la sua assolutezza iconica al paesaggio reale, che è invece sottoposto a continue modificazioni. Si determina così un contrasto a volte insuperabile. A livello culturale si ritiene che un certo paesaggio pervenuto a un alto livello estetico – il paesaggio toscano, tanto per citare uno scenario ambientale giustamente famoso – debba conservarsi autoproducendo costantemente il proprio modello, ma tale volontà si scontra con l’impossi-

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bilità che le attività che nel tempo hanno costruito strutturalmente quel particolare paesaggio possano proseguire. Conservare significa allora non tanto confermare un particolare paesaggio così come ci è pervenuto, ma far sì che esso possa creare altre configurazioni dotate della stessa potenzialità estetica, legate alla prima da una relazione di necessità analogica. Occorre allora procedere verso una comprensione più articolata e dialettica del paesaggio, - per Bruno Zevi la più avanzata anticipazione del nuovo - una visione intrinsecamente progettuale nella quale le relazioni tra il sito originario e le trasformazioni indotte dall’uomo nel tempo siano considerate come fattori dinamici, volti a stabilire mobili soglie qualitative. Da questo punto di vista conservare o restaurare un paesaggio non significherà più arrestare l’ibrido ciclo biologico/ estetico che lo ha formato, ma avviarlo verso nuove forme dotate della stessa intensità figurativa. Tranne il caso di particolari parchi e giardini storici, di visuali eccezionali e di ambienti costruiti dal carattere formale talmente unitario da assimilarli a un unico manufatto, ogni altro paesaggio dovrà quindi essere accompagnato, con il massimo delle conoscenze e con ogni cautela previsionale, verso evoluzioni il più possibile libere, anche se orientate alla generazione di un’ulteriore bellezza. In questo quadro sarà necessario approfondire con grande accuratezza il rapporto tra ciò che un paesaggio trasporta con sé come una sorta di residuo, seppure pregevole, e quei segni/materiali che più o meno esplicitamente esso rinnova dal proprio interno. Si dovrà ricorrere sempre di più alla demolizione, ma senza la deriva mediatica e la provocarietà pedagogica dispiegata nel caso delle Vele di Secondigliano; sarà necessario risarcire elementi e segni compromessi o alterati; altre parti, rimosse, andranno ricostruite. Particolare attenzione andrà rivolta all’essere il territorio anche un hardware il cui funzionamento, quando non adeguatamente controllato, può essere molto pericoloso per chi lo abita. In poche parole si tratta di affidare la permanenza di un paesaggio non tanto alla continua ricostruzione di una sua fase ritenuta matura ma, una volta decifrata la sua memoria genetica, far sì che essa si esprima in forme che siano compatibili con ogni singolo momento della sua esistenza. Purtroppo una linea aperta e sperimentale come quella appena esposta non trova nel paese un apprezzabile ascolto. In larga misura prevalgono infatti impostazioni ispirate a una concezione esclusiva del paesaggio, una concezione più estetizzante che estetica. Ne sono evidenti prove sia il recente convegno promosso da Giovanna Melandri, dal quale è stata esclusa del tutto la presenza del progetto, sia le posizioni di coloro tra i quali Mario Fazio, - autore di un recente pamphlet, pie-


no delle cose che un pubblico genericamente responsabilizzato verso il paesaggio e la città vuole sentirsi dire - Pierluigi Cervellati e Vezio De Lucia. Quest’ultimo, a dire il vero, più consapevole della necessità che il progetto continui a pronunciarsi sull’esistente, ma pur sempre troppo prigioniero di una astratta prevenzione verso i rischi insiti in ogni scelta trasformativa che non sia garantita dal rifacimento dell’esistente stesso. Personalità, questi tre rappresentanti del fronte protezionista, che all’interno di una sorta di colta nostalgia oppongono la bellezza della cultura preindustriale agli errori/ orrori della contemporaneità, senza porsi ancora il problema di come ricreare la bellezza del nostro tempo, - il tempo della velocità, della distrazione e del frammento, - nel paesaggio attuale e nelle città che lo abitano. Mario Fazio, Pierluigi Cervellati e Vezio De Lucia, ma anche molti altri con loro, credono in sostanza che la bellezza sia qualcosa di incompatibile con ciò che può essere prodotto nel presente, nella convinzione che essa consista in un fatto testimoniale, in una preziosa rovina estetica, in una realtà in fondo perduta di cui si può contemplare solo l’immobilizzata effige. Al contrario la bellezza del paesaggio sembra darsi come

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una sorta di instabile natività permanente, come un avvicendarsi di adattamenti che è di per sé portatore di contenuti leggibili secondo i modi dell’arte. Queste posizioni conservatrici, che ottengono un grande credito nella stampa, affiancate dall’elitaria distanza dalla realtà attuale di cui sono portatori nelle Facoltà di Architettura e nel mondo professionale pressoché tutti gli architetti del paesaggio, ancora intrisi dai raffinati umori distillati in tempo ormai remoti della aristocratica arte dei giardini, stanno contribuendo in larga misura all’emarginazione della cultura progettuale italiana dal contesto internazionale. Un contesto pervaso, al contrario del nostro, da un forte spirito innovativo, capace di sperimentazioni tanto audaci quanto meditate. Anche se l’ingannevole slogan che vede l’Italia detenere la maggior parte del patrimonio artistico dell’umanità può motivare nella penisola una certa interdizione verso tutto ciò che crea differenze e variazioni rispetto a immagini conosciute, ogni atteggiamento di chiusura più o meno esplicita nei confronti di iniziative trasformative paragonabili alle difficoltà tematiche del paesaggio italiano - un paesaggio di paesaggi - non può che risultare a breve termine più che dannoso letteralmente distruttivo.


ordine arboreo e ordine urbano Vittoria Calzolari

Vittoria Calzolari laureata in architettura all’Università di Roma, Master in City Planning all’Università di Harvard, USA, e Ordinario di Progettazione del Territorio presso la Facoltà di Architettura dell’Università “La Sapienza” di Roma - ha promosso e diretto presso la stessa Università il “Corso di Perfezionamento in Progettazione Paesistica e Ambientale” (1989-1997) e la “Scuola di Specializzazione in Progettazione del Paesaggio” (1997-1999). Tra le principali esperienze di progettazione: il progetto per il Parco dell’Appia Antica a Roma (1976 e 1984), i giardini e parchi realizzati per il Comune di Napoli (1981-’86), il Piano del sistema del verde e delle attrezzature sociali di Brescia ((1986-’89), il Piano per il territorio agricolo e per il sistema del verde di Siena (1988-’90), il Progetto del Parco del fiume Imera a Palermo (1990), il progetto del Parco ambientale e Termale tra Tivoli e Roma (con M.Ghio, 1994), lo studio preliminare al progetto di un sistema di parchi per il Comune di Roma (incarico di Roma-Natura, 1998-’99).

Alberi, sistemi verdi e città A Roma, in un pomeriggio di marzo, gelido, ventoso e chiaro, ripercorrevo in macchina per l’ennesima volta una sequenza di strade ben note: Via dei Fori, l’aggiramento del Colosseo, Via di S. Gregorio, V. Guido Baccelli, l’uscita dalle Mura Aureliane sulla Via Cristoforo Colombo. Si ritrovano sempre, in questo percorso, alcuni complessi arborei o alberi isolati emergenti: il grande pino inclinato sostenuto da tiranti sul terrapieno attorno al Colosseo, l’albero di Giuda, allora fiorito, sotto il Palatino a fianco del portale su Via di S. Gregorio (il più bello come forma, se non il più grande, Cercis Siliquastrum esistente a Roma); e poi le masse di lecci e pini della Passeggiata Archeologica e i filari di cipressi di Via G. Baccelli. Ma in quella particolare occasione, forse per la qualità della stagione e della luce o forse perché avevo in mente gli argomenti di questo scritto, le immagini e i giudizi sulle presenze vegetali si sono moltiplicati e articolati. Ho notato come immagini positive le piantagioni regolari di alcuni orti e il disegno classico di un giardino al di là di una recinzione; mentre un insieme inusuale di canne, aceri campestri, fichi e pruni selvatici fioriti sulla scarpata a ridosso della porta Ardeatina testimoniava che al di là delle mura, nel territorio dell’Appia Antica, esistono ancora tratti di autentica campagna. A parte queste ed alcune altre immagini positive, per il resto appena fuori dalle mura colpiva il grande disordine che impregnava il verde e gli spazi liberi non pavimentati di Roma, così come il costruito e le strade: disordine nella casualità delle speci arboree, nelle loro collocazioni e associazioni, nel degrado da smog e da potature incongrue, nel disseccamento delle zone a prato. Un albero in questa situazione rischia di apparire quasi altrettanto poco vitale e intruso quanto un palo di cemento o un cartellone pubblicitario. Questo disordine apparentemente epidermico e casuale ha in realtà motivazioni profonde. Tra queste sono: - la mancanza di attenzione, all’atto delle trasformazioni di siti più o meno vasti in luoghi urbanizzati, alle loro qualità e potenzialità naturali: si perdono così risorse preziose – acque sorgive o correnti, terreni fertili, alberature esistenti o potenziali – e si sprecano occasioni per qualificare anche formalmente le nuove strutture urbane; - la mancanza di un progetto complessivo che preveda fin dall’inizio il rapporto verde-costruito: e questo vale per la creazione dei grandi parchi come per le opere in cui il verde si deve integrare con il costruito e per il disegno di strade e viali: questi non sembrano pensati per accogliere alberi ma semmai caricature d’alberi; - le molteplici insufficienze nella attuazione e

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Pini sul terrazzo fluviale a Grottarossa.

gestione degli spazi aperti urbani da parte dei numerosi responsabili coinvolti: tra queste sono la generale mancanza di coordinamento, la non predisposizione di spazi sotterranei o in superficie per cavi e cabine elettriche – con la conseguente continua aggressione alle radici degli alberi – i metodi assurdi di potatura. Queste considerazioni valgono per la situazione romana ma anche per molte altre città italiane dove a una struttura amministrativa, per altri aspetti molto meglio funzionante, corrisponde una debolissima struttura responsabile della pianificazione e gestione del verde. Certo non è così in tutte le città italiane e certo negli ultimi 10-15 anni c’è stato un intensificarsi di pubblicazioni, studi, progetti (molto meno di realizzazioni) che hanno in qualche modo coinvolto anche le pubbliche amministrazioni. Resta il fatto che le iniziative che da esse promanano sono spesso più il risultato dell’attività di qualche tenace e appassionato tecnico o amministratore o gruppo ambientalista che non l’espressione di una linea politica duratura. Da ciò discende il fatto che nelle città italiane non è stata prodotta negli ultimi 30-40 anni quasi nessuna sistemazione verde che abbia una reale dignità urbana.


A Roma, dopo il complesso di interventi di Raffaele De Vico e di Maria Teresa Parpagliolo, prima e all’epoca delle Olimpiadi del 1960, c’è una grande vuoto: e un avvenimento quale quello dei Giochi Mondiali di Calcio del 1990 – che normalmente diventa l’occasione per grandi sistemazioni a verde nelle città – ha portato solo a qualche alberatura di piazze e, per contro, all’occultamento del profilo delle colline di M. Mario con la contestatissima sovrastruttura dello stadio Olimpico. Negli ultimi otto anni, con la nuova amministrazione e la creazione di un Dipartimento per le politiche Ambientali, e grazie anche ai fondi cospicui destinati ai programmi di Roma Capitale e del Giubileo 2000, sono state realizzate numerose opere di creazione e riqualificazione del verde. Molte riguardano la risistemazione e il restauro di ville e giardini storici, come Villa Borghese, Villa Torlonia, Villa Ada. Tra le grandi operazioni di acquisizione alla proprietà e all’uso pubblico e sistemazione paesistica e archeologica è quella relativa alla Valle della Caffarella, nell’ambito del Parco dell’Appia Antica. Tra le operazioni di sistemazione a verde urbano sono quelle relative alle piazze-giardino e ai nuovi giardini soprattutto nella periferia. Il limite di un programma per molti aspetti importante è la mancanza di un suo inserimento in un progetto di sistema degli spazi liberi esteso ad un ambito comunale e sovracomunale coerente sotto il profilo storico-ambientale e paesistico. Quantità e qualità Spesso si attribuisce al periodo razionalista la responsabilità di avere indebolito la capacità progettuale nel settore del verde, così come nel settore dei quartieri e delle città, orientando gli interessi dei committenti e dei tecnici più verso problemi di funzionalità e di standards quantitativi che verso i problemi della qualità e della identità formale. Questa tesi sembra piuttosto semplicistica se si confronta con gli scritti dei teorici del razionalismo e con le vicende di altri paesi europei più o meno toccati dalla cultura razionalista. In un testo curato nel 1942 da L. Sert, che riassume il pensiero e i dettami di cinque congressi e dieci incontri del C.I.A.M., mentre si indicano in modo preciso e articolato la quantità e i tipi di spazi liberi e di attrezzature necessari a soddisfare le esigenze ricreative delle diverse componenti di una collettività, si sottolinea come sia impossibile misurare i bisogni di spazio libero soltanto in ettari e dare formule generalmente valide: lo vietano la varietà delle situazioni geografiche, ambientali sociali. E si propone l’idea di un sistema di spazi verdi, interni alle città, variati e collegati tra loro e ai grandi parchi periurbani ed esterni da reti di strade-parco.

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Giardini, filari d’alberi, vigne, orti a Villa Montalto all’Esquilino, nella “Grande Pianta di Roma” di G.B. Nolli, del 1748.

L’idea della park-way aveva già affascinato Le Corbusier come strumento di liberazione dal caos del traffico, capace di introdurre lunghi nastri di natura nella città. D’altra parte, a testimoniare che probabilmente i cattivi influssi del razionalismo – che indubbiamente in alcuni campi ci sono stati – hanno penalizzato soprattutto i paesi dove questo periodo è stato più marginalmente e tardivamente vissuto, sta il fatto che i paesi in cui le esperienze sono state portate più a fondo (Germania, Olanda) sono anche quelli dove la nuova cultura del verde ha raggiunto una maturazione più completa. Ovvero questo è accaduto nei paesi – come l’Inghilterra – dove nel dopoguerra si riscopre una sostanziale continuità tra la cultura paesistica elaborata nei due secoli precedenti e la sua reinterpretazione e innovazione nella progettazione del sistema degli spazi liberi delle grandi e piccole, vecchie e nuove città. Il Greater London Plan di Patrick Abercrombie – elaborato durante la guerra e pubblicato nel 1945, subito dopo il libro citato di L. Sert – prefigura per Londra una struttura degli spazi liberi naturali di eccezionale ricchezza: vi sono presenti le “grandi bellezze sceniche” e i paesaggi agrari delle “enclosures”, i parchi storici, i paesaggi dei corsi d’acqua, delle zone umide, delle foreste e praterie, così come i “greens” per giochi liberi, i play-grounds per bambini e i terreni sportivi, i giardini di risposo e le “squares” alberate, come pause nel tessuto costruito; e poi le interconnessioni delle stradeparco e dei percorsi per pedoni, biciclette, cavalli. Già nel piano di Abercrombie si prevede la reintegrazione nel sistema naturalistico-paesistico-ricreativo di grandi aree di potenziale qualità, ma fortemente degradate, quali la vallata del Fiume Lee. “Di tutti questi elementi – dice Abercrombie dopo aver ricordato che comunque il primo fattore nella pianificazione degli spazi liberi è l’adeguatezza della superficie in rapporto alla popolazione e agli usi – deve tenere conto il pianificatore sistematico


del sistema dei parchi”... In questo sistema “il Fiume Tamigi è il grande impositore della curva di bellezza della natura”. Altra vicenda è quella di Barcellona molto nota, molto studiata, recente ed eccezionalmente unitaria, in quanto sviluppatasi nell’arco di un decennio. Qui, dopo i progetti per l’organizzazione funzionale degli spazi liberi del “Gruppo di Artisti e Tecnici Catalani” proposti con la collaborazione di Le Corbusier negli anni ’30, e dopo il vuoto del periodo franchista, il tema della qualità degli spazi liberi è al centro dei programmi di riqualificazione urbana degli anni ’80. Nei grandi parchi (versante da Ponente di Montjuic) come nei parchi lineari (Fronte marittimo), nei reintegrati assi civici (Avenida M. Cristina) e nelle sistemazioni delle piazze, la riconquista dei paesaggi naturali ai margini della città, il recupero dei vuoti in un tessuto estremamente denso, la selezione e composizione dell’elemento vegetale e delle acque diventano fattori primari del progetto urbano. I casi citati vengono proposti come esempi – tra i molti altri possibili – di esiti perseguiti per la conservazione e costruzione di un sistema verde, in diverse condizioni ambientali, culturali e urbane e secondo diversi modi di operare: in essi credo sia stato ottenuto, più o meno compiutamente, quello che viene di seguito indicato come ordine arboreo. Ordine arboreo come principio di ordine urbano L’ordine arboreo, nella definizione che qui ne viene data, è il risultato percepibile e attivamente operante della interpretazione del rapporto tra struttura ambientale e struttura storica, secondo alcuni principi e finalità. Il termine ordine include sia il concetto di risultato raggiunto che quello di capacità ordinatrice, quindi di intento progettuale. Il termine arboreo viene prescelto rispetto ad altri possibili termini più generali – quale ad esempio “naturale” – non solo come parte per il tutto ma anche come sintesi di ciò che delle manifestazioni del sistema ambientale nelle città viene colto con più immediatezza da gran parte dei cittadini e tende ad assumere valore di simbolo. In realtà l’ordine arboreo, così inteso, coinvolge l’intero contesto vegetale, fino ai suoi elementi più minuti e meno appariscenti; né è possibile prescindere dal complesso di correlazioni esistenti tra vegetazione, acque, suolo, clima. Né si può separare ciò che, nelle presenze vegetali in una città, esiste ancora di spontaneo e naturale da quanto è progettato, impiantato e fatto crescere dall’uomo. La comprensione dei principi e delle regole dell’ordine arboreo e dell’ordine naturale è indispensabile sia per operare nel campo specifico delle sistemazioni a verde che per acquisire degli strumenti utili al progetto del sistema degli spazi liberi,

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nella ipotesi che questo possa essere assunto come elemento primario di organizzazione della città e del suo territorio. Questo intento comporta necessariamente la messa a punto di criteri e categorie di giudizio finalizzati alla progettazione oltre che alla valutazione. E si sperimenta in tal caso come il ricercare i principi ordinatori di un sistema naturale – o parzialmente naturale – sia insieme più semplice e più complesso del ricercare i principi ordinatori di un sistema artificiale costruito. Appare più semplice in quanto ogni elemento fisico-naturalistico ha in sé alcune leggi di organizzazione interna, cui corrisponde un ordine formale; è più complesso, e anche più rischioso, in quanto è più forte la tentazione di trovare nell’equilibrio ecologico di un insieme o nella bellezza intrinseca di singoli oggetti (albero, foglia o roccia) le motivazioni di un giudizio estetico positivo: è sempre immanente l’assioma “utile uguale bello”. La correlazione tra equilibrio e armonia di tipo ecologico ed equilibrio e armonia della forma e dell’immagine spesso si verifica: ma il passaggio non è immediato né garantito, né soprattutto dà di per sé gli strumenti di progettazione. Sistema storico-ambientale e progetto del sistema per spazi liberi dell’area romana Su questi temi stiamo lavorando da anni in una ricerca universitaria recentemente pubblicata con il titolo: “Storia e natura come sistema: un progetto per il territorio libero dell’area Romana” riguardante le risorse storico-ambientali e il progetto del sistema degli spazi liberi di Roma e del suo territorio. L’ipotesi di fondo da cui muoviamo è appunto che le risorse di carattere fisico-naturalistico e le risorse ed i caratteri storici, considerati come sistemi e nella loro reciproca interrelazione, siano da assumere come elemento primario, prioritario ed ordinatore nella riorganizzazione fisica, funzionale e formale del territorio antropizzato. Questa ipotesi – nel suo riferimento a Roma – cade in una fase della storia urbanistica della città in cui,

Masse arboree sempreverdi e architetture a Monte Mario.


per dare una risposta alla precisa richiesta della legge n. 142/1990 sulle Autonomie locali, si sono rinnovate le proposte tendenti a risolvere l’annosa questione dell’area metropolitana romana e dei suoi limiti. Parallelamente l’Amministrazione Comunale di Roma sta sviluppando il nuovo Piano Regolatore Generale, con l’impegno di assumere come tema di fondo quello delle risorse ambientali e storiche. Il nostro studio tende quindi anche a verificare in che misura, nel caso di Roma, la struttura storico-ambientale possa essere assunta come criterio-guida per la delimitazione di un ambito coerente e come principio per il suo piano direttore e sistema verde. Una particolare attenzione viene data, nello studio, all’elemento acqua in quanto si riconosce come quasi ogni manifestazione vitale, ogni attività e forma sia in modo più o meno diretto condizionata dal sistema delle acque, meteoriche, correnti, sorgive. Per Roma in particolare la ricchezza delle acque che discendono dalla corona dei rilievi che circondano la città, scorrono lungo la valle del Tevere, emergono dalle molte sorgenti, è stata una delle ragioni dello sviluppo della città e della sua grandiosità architettonica e urbana: acquedotti e terme; piazze e corti con fontane; ville e parchi con bacini, cascate, catene d’acqua. Il sistema dell’acqua è stato il filo conduttore più costante del nostro studio. Ha innanzi tutto guidato la perimetrazione dell’ambito assunto come “area romana”: esso corrisponde alla parte di bacino idro-orografico del Tevere, definito dai crinali dei rilievi che circondano la piana di Roma, dalla “porta” che essi determinano sulla valle del Tevere e della linea di costa. Verso il mare il limite fisico del bacino coincide con il terrazzamento dell’antica linea costiera; e tuttavia la fascia tra questa e l’acqua non può non essere considerata come parte integrante del territorio romano ed è perciò inclusa nell’area di studio. Per l’ambito così definito – che costituisce il bacino idro-orografico di Roma – si è sviluppata una ricerca e una proposta in cui terre, acque, boschi, campagne, parchi, costruzioni e luoghi storici, percorsi, tendono ad essere visti nella loro interrelazione e integrazione come parti di un’unica struttura e di un progetto unitario: tale concetto vale sia per il progetto di conservazione del paesaggio storico che per il progetto di creazione di nuovi paesaggi. Questo obiettivo è strettamente connesso a quello di definire parametri utili a progettare un sistema di spazi liberi efficiente sotto il profilo ambientale, soddisfacente come risposta alle richieste degli abitanti e come qualità e identità degli spazi.

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Lo studio si articola su due livelli: - quello relativo all’area romana nel suo insieme, delimitata come bacino idro-orografico di Roma; - quello relativo alle parti di territorio caratterizzate dall’intreccio di particolari caratteri fisiconaturalistici e storico-paesistici come luoghi identificabili e come temi di progettazione ricorrenti. Per il primo livello valgono come criteri –guida soprattutto i grandi principi strutturali legati alla storia geologica e naturale del territorio: pensiamo, nel caso di Roma, alle connotazioni derivanti dalla struttura vulcanica e dalle sue potenzialità di creare suoli fertili e boscati, o al reticolo idrografico del Tevere, dell’Aniene e dei loro pur modesti affluenti: con la diversa forma e copertura vegetale delle valli aperte e dei canaloni incisi nel suolo. Il sistema delle acque imprime ovunque diversi caratteri paesistici e crea diverse potenzialità nella cintura di spazi liberi che ancora può costituire l’anello e la penetrazione verde intorno e dentro la città. Ai grandi principi fisico-naturalistici si intrecciano i grandi lineamenti storici, come ad esempio quelli creati in ogni epoca e società dal rapporto tra la collocazione e forma del reticolo stradale, la topografia e la natura del suolo, gli accessi, le visuali. Per il secondo livello occorre ricercare e creare delle regole più minute: queste in parte discendono dai principi generali del primo livello, ma richiedono anche la elaborazione di una sintassi, costruita attraverso l’identificazione dell’incrocio tra le singolarità e le ricorrenze, che possa diventare guida nella elaborazione progettuale. Tra i temi emersi nello studio è ad esempio quello delle emergenze morfologiche, che sono state nella storia di Roma sedi di insediamenti, di opere di architettura e di sistemazioni paesistiche particolari – Monte Mario o il Gianicolo ne sono esempi – e che costituiscono oggi importanti riferimenti e luoghi da recuperare ristabilendo affacci e connessioni da e verso la città. Altro tema è quello delle grandi direttrici storiche e archeologiche – le vie Consolari in primo luogo e i complessi archeologici dell’Appia Antica, di Veio, di Ostia Antica. Ovvero quello del rapporto tra gli spazi liberi interni ai quartieri delle nuove periferie e le zone marginali al loro esterno, che sono a volte tratti di campagna ancora quasi integri. In questo contesto anche l’ordine arboreo, nel suo significato più specifico e percepibile di selezione, associazione, organizzazione del mondo vegetale nella città, può essere regolato e sollecitato da criteri più certi. Può includere una gamma più numerosa, ma al contempo meno casuale di essenze: può divenire l’immagine del buon rapporto tra città e natura.


alta velocità: una “sistemazione a verde” nel Mugello Sonia Bruno*

Dalla metà degli anni Ottanta si è cominciato a parlare, in termini di fattibilità, del “Sistema Italiano Alta Velocità” specializzato per gli Etr 500, mentre erano in corso di completamento i lavori della ferrovia direttissima RomaFirenze iniziati negli anni ’70, prima iniziativa nelle linee europee ad Alta Velocità. Contemporaneamente in Europa la rete ferroviaria ad Alta Velocità era operativa in Francia con il TGV, allora esteso solo alla tratta Lione-Parigi, ed in Germania erano in cantiere le NBS, poi integrate da linee per treni ancora più veloci (ICE), attualmente in funzione. Nei primi anni Novanta, in Italia, il tracciato della rete dell’Alta Velocità era definito, a livello di progetto esecutivo, lungo le tratte interessate: l’Asse Milano-Napoli sulla dorsale centrale e quello trasversale Torino-Venezia, nell’ottica di un complessivo riammodernamento della rete ferroviaria, della riqualificazione delle stazioni esistenti, dove concentrare nodi intermodali e la maggiore domanda di mobilità. In quegli stessi anni l’Unione Europea ormai indicava la strategia delle reti “transeuropee”, che coniugasse massima rapidità nei trasferimenti delle persone e delle merci con la riduzione ed il contenimento dell’impatto ambientale nella massima sicurezza. In merito al “Sistema Italiano Alta Velocità” va osservato che l’intero progetto andava alla verifica dell’impatto ambientale ed era sottoposto all’osservanza del Ministero dell’Ambiente, che doveva vigilare sul rispetto delle condizioni iniziali imposte dall’impatto ambientale, sia in fase costruttiva sia in fase di regime. Le problematiche di ordine ecologico ed ambientale che le linee ad Alta Velocità pongono sono enormi, quali l’inquinamento acustico e la “rigidità” del tracciato in termini planimetrici ed altimetrici. Tale “rigidità” su un territorio, come quello italiano, con una

movimentata orografia può imporre «altissimi rilevati e lunghi ed intrusivi viadotti, oppure profonde trincee, oltre all’inevitabile abbattimento di ogni preesistenza che coinvolga il ‘‘rettilineo’’», con ovvie conseguenze in ambiti fortemente conurbati e ricchi di preesistenze archeologiche e manufatti storici. Lascio ora a esperti e a voci più autorevoli il compito di proseguire questo dibattito, fino alla metà degli anni Novanta molto seguito da riviste come Casabella, per accennare, viceversa, ad un piccolo progetto che, seppure marginalmente, interessa l’Alta Velocità. Il progetto, elaborato di recente (dal Professore Agronomo Carmine Guarino, dall’Architetto Antonella Ciotola e dalla sottoscritta), è stato redatto su incarico di una ditta, specializzata in interventi di opere a verde, che ha vinto una gara d’appalto, con fornitura di prestazioni di progettazione, indetta dal Consorzio Cavet. L’intervento, ormai ultimato, prevedeva la realizzazione di alcune ‘sistemazioni a verde’ per opere di connettivo stradale di supporto ed integrazione all’Alta Velocità, sulla linea Milano-Napoli tratta Firenze-Bologna, e in particolare per infrastrutture viarie eseguite in alcuni comuni della Comunità Montana MugelloAlto Mugello-Val di Sieve (Borgo San Lorenzo, San Piero a Sieve, Scaperia). Mi soffermo su queste coordinate geografiche perché la Toscana evoca, immediatamente e più di altri luoghi, una forma ed un’idea di paesaggio nella nostra mente esente da quel processo di degrado e alterazione che, in modo eclatante o supino e diffuso, ha aggredito il territorio italiano. È un paesaggio connotato da una grammatica variegata e complessa, frutto di un sapiente e secolare incontro tra l’uomo e le componenti naturali (geosfera, biosfera) e storiche del luogo: l’insediamento sulla cima o sulla

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cresta del poggio, il cipresso isolato o a gruppi a segnalare punti o percorsi, zone boscose con prevalenza di leccio alternate o opposte alle aree a vigneto, ad uliveto, a frutteto che disegnano reticoli e maglie al pari delle zone a coltivo, ad orto o a seminativo, con il loro minuto ordito di trame, e che insieme con altri manufatti artificiali conformano il lessico delle sistemazioni agrarie delle pendici o delle valli o delle piane. È perciò lecito perlomeno chiedersi perché in questo lembo della Toscana, per molti di noi ancora “Toscana felix”, il progetto paesaggistico per alcune infrastrutture stradali extraurbane si riduce alla sola e semplice voce: ‘sistemazione a verde’ o meglio impianto di piantumazione? Uso la parola “verde” in quell’accezione negativa che unita al sostantivo “spazio” gli attribuisce Rosario Assunto, “spazio verde” inteso come superficie quantitativamente misurabile dello spazio, in cui la qualità verde diviene semplice attributo e surrogato della componente quantità. Senza giungere alla contrapposizione dell’autore, tra la categoria dell’utile e quella del bello, vorrei rimarcare che se una ‘sistemazione a verde’ interviene laddove le scelte progettali sono già tutte ormai definite o in avanzato stadio di definizione e la trasformazione del territorio è affidata solo alle cosiddette “grandi opere di ingegneria”, ne consegue che la componente quantitativa diviene unico parametro valutativo. La ‘sistemazione a verde’, nel migliore dei casi, si esaurisce in un’operazione di ‘maquillage’, di decoro, di quinta che serve a mitigare l’impatto che la nuova infrastruttura, in questo caso stradale, con i suoi viadotti, gallerie, cavalcavia, snodi a raso, genera sull’ambiente, senza risolvere o costruire un rapporto dialettico tra l’universo della strada e i paesaggi attraversati.


Il manufatto stradale non è una semplice struttura fisica atta a collegare due punti dello spazio, non è un espediente tecnico assoggettato alle funzioni di transito per ottenere il massimo di veicoli/ora, è anche e soprattutto “un luogo” che consente “di vedere” e svelare aspetti e qualità dei territori attraversati e “da vedere” perché diviene esso stesso, con la sua architettura, “componente strutturale del paesaggio urbano e territoriale”. Il progetto di ‘sistemazione a verde’ è stato dunque elaborato nella consapevolezza che gli obiettivi perseguibili fossero di ‘minima’, anche per i forti condizionamenti e ‘limiti’ progettuali imposti. Gli spazi residuali di opere di infrastrutturazione viaria, su cui si attesta l’intervento, sono connotati da una morfologia spesso molto accidentata e da suoli con spiccate restrizioni agronomiche, essendo privi di struttura fisico-chimica idonea alle piantumazioni.

Si sono quindi previste, come riportato nelle relazioni di progetto, operazioni di preimpianto (lavori di dissodamento, interventi migliorativi della composizione del suolo, preparazione degli strati superficiali) ed è stata svolta un’accurata analisi fito-sociologica dei luoghi per selezionare le specie vegetali. Queste, contestuali al territorio, in cui predomina il bosco mesofilo di tipo mediterraneo - sebbene con forme ed elementi antropici tipici del paesaggio toscano -, dovevano presentare caratteristiche biologiche, agronomiche, climatiche idonee a rispondere ad alcuni criteri: adattabilità e resistenza a fonti inquinanti, grande capacità di attecchimento anche su terreni piuttosto acclivi e argillosi, soddisfacente velocità di crescita, per assicurare una copertura del suolo in tempi brevi ed un grado di schermatura costante in tutte le stagioni. Per ridurre l’impatto visivo delle opere infrastrutturali (imbocchi di gallerie o cavalcavia), si sono adottati esemplari arborei che in

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natura assumessero notevoli dimensioni (pioppo cipressino, cipresso ecc.) e non generassero problemi di spalcatura. Sui rilevati di gallerie e laddove era consigliabile l’impianto di specie arboree, si sono utilizzati gruppi di alberi con leccio, sempre dominante, in consociazione all’orniello, alla roverella, al carpinello, al sorbo selvatico ecc. e talvolta esemplari di tiglio riccio, di acero e di cerro. Sui pendii più ripidi, per la formazione di barriere di sicurezza o per contenere il pericolo di frane, si sono scelte specie arbustive, tipiche della macchia mediterranea, che attecchissero bene in condizioni orografiche sfavorevoli e garantissero una copertura invernale e pregevoli qualità decorative soprattutto in primavera (ginestrone, ginestra dei carbonai, alloro, agazzino, ginestra, ligustro), oppure piccole e rustiche alberature di facile radicazione, con prevalenza di salice e di sorbo insieme con pruno selvatico, pioppo bianco e ciliegio selvatico.


In prossimità delle arterie stradali, sia per salvaguardare l’incolumità della circolazione sia per offrire, a distanza ravvicinata, una gradevole percezione visiva, si è prevista la messa a dimora di basse specie arbustive, a forte valenza cromatica e ornamentale, con dominanza di biancospino e corniolo. Per consolidare e mitigare l’impatto di un preesistente argine artificiale è stato, inoltre, proposto un piccolo intervento di Ingegneria naturalistica. Il rilevato, costituito da terreno da riporto e realizzato contro possibili straripamenti del torrente Bagnone, è stato rinverdito con talee del genere Salix - previo miglioramento del suolo e messa in opera di biostuoia in cocco – e schermato da un filare di salice caprino, piccolo arbusto con belle fioriture, idoneo per zone con ristagno idrico. Nel progetto, la materia vegetale è stata utilizzata sfruttando al massimo le qualità espressive, sensibili, morfologiche di ogni singola specie, prediligendo, secondo i casi e il luogo, l’uso del filare, del gruppo arboreo, del singolo esemplare ed ancora della macchia arboreo-arbustiva, del cespuglio, della siepe e del prato. Concludo qui la descrizione dell’intervento per ritornare all’assunto iniziale e, parafrasando un’espressione di Ippolito Pizzetti “Un parco è un parco”, direi una ‘sistemazione a verde è una sistemazione a verde’ e non può ovviare ad un’assenza a priori di sensibilità paesaggistica, né svilirsi per ‘mascherare l’intruso’. Potrà al più essere un intervento corretto secondo dei parametri ecologici o le metodologie dell’Ingegneria naturalistica, in quanto rispettoso del paesaggio vegetale circostante, perché innesca processi di “rinaturazione” o “ricuce” fratture dell’ecosistema ecc. Ogni qualvolta un intervento implica l’inserimento di una gran-

de ‘presenza’ architettonica nel paesaggio, sia esso urbano o territoriale, come nel caso delle “opere d’ingegneria”, la questione da risolvere a monte è la sua sostenibilità ambientale. Richiede l’avvio di procedure normate, trasparenti e partecipate (Via, studi d’Impatto ecc.), che valutino realmente opzioni alternative e non siano supporti, pretestuosamente ‘oggettivi’, di processi decisionali in cui già tutto è stabilito. Un’azione sul paesaggio, risorsa e componente strutturale dell’ambiente, esige sempre un processo progettuale ‘complesso’ e di ‘scala’ opportuna in cui siano allo stesso modo ponderati sito, natura, costruzione umana, memoria storica e, quindi, le diverse discipline coinvolte nell’analisi procedano, dai primi passi, in stretto rapporto, per valutare qualità e vulnerabilità di un luo-

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go rispetto ad azioni antropiche e per stimare possibili processi di evoluzione. Affrontare tali questioni è un’esigenza ormai improrogabile per l’ormai troppo compromesso paesaggio italiano. Urgono progetti ed interventi di alta qualità, che solo una corretta procedura concorsuale può perseguire, capaci, nel tentativo difficile di compenetrare vecchie e nuove esigenze e di comporre attività e luoghi spesso conflittuali, di operare sul territorio una tutela, non vincolistica, ma attiva ed efficace. Occorre una programmata azione progettuale in grado anche di ridisegnare, restaurare, demolire, laddove occorre, per restituirci un paesaggio, che seppure ‘rinnovato’, conservi memoria e qualità figurale tale da poter essere ancora “contemplato”, “goduto” e soprattutto tramandato. * architetto


recupero ambientale delle cave in Campania Lucio Morrica*

La qualità del paesaggio può considerarsi ormai la più importante infrastruttura di sviluppo del territorio. Un paesaggio di qualità può divenire infatti elemento di attrazione - richiamo per investimenti futuri, luogo di localizzazione di attività collegate con la domanda crescente di tempo libero e può entrare nella produzione di molte attività economiche (ricreative/turistico-alberghiere/ commerciali/artigianali). Un paesaggio di qualità, insomma, “sostiene” lo sviluppo delle attività economiche. Un paesaggio di qualità non possiede solo un valore d’uso per il singolo soggetto (collegato ai benefici psicologici, culturali, estetici, etc.) ed un valore d’uso sociale per la comunità (in quanto fonte di riconoscimento di comune appartenenza, identità, valori, etc.). Un paesaggio di qualità possiede anche un “valore d’uso produttivo”, nel senso che possiede anche un valore strumentale. Il paesaggio è in Campania sempre più oggetto di aggressioni e di degrado, a causa delle attività economiche connesse al soddisfacimento dei vari bisogni umani: in conseguenza il paesaggio di qualità sta diventando una risorsa sempre più scarsa. Un obiettivo fondamen-

tale, dunque, dello sviluppo della Regione Campania è quello della “tutela nonché della ricostruzione e restauro del paesaggio”. Il paesaggio è il risultato interattivo e dinamico del lavoro della natura e del lavoro dell’uomo. Ciascuno di questi sistemi possiede una sua razionalità che determina traiettorie evolutive autonome. L’economia privata (l’industria estrattiva, metallurgica, turistica, etc.) troppo spesso ha degradato l’economia della natura, talvolta fino a livelli irreversibili. Il paesaggio è il risultato visivo/ percettivo, cioè il risultato “visibile” dell’attività di questi sistemi. Il tipo di interdipendenza tra i sistemi dipende dalle istituzioni che sono le regole che disciplinano lo scambio economico, politico ed ecologico. L’ambiente riflette la cultura di una comunità, rappresenta la sua costruzione culturale. Ogni area possiede il “suo “ paesaggio che gli conferisce la particolare identità, in quanto è il risultato di un processo culturale specifico (che riflette usi, costumi, norme, leggi, regolamenti, etc.) Il paesaggio incorpora, pertanto, una serie di valori culturali oltre che economici. In questo quadro va considerato il problema delle cave.

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Il piano delle attività estrattive è pertanto uno strumento fondamentale per consentire questa “ricostruzione del paesaggio” nel contesto della promozione dello sviluppo sostenibile della Regione, cioè di uno sviluppo non solo economico, ma anche sociale ed ecologico. Tale sviluppo dovrebbe identificare criteri per affrontare il conflitto tra lo sviluppo economico e la conservazione di un ambiente/paesaggio di qualità. Il piano che disciplina le attività estrattive deve affrontare quindi il dilemma dei valori di cui sopra, che sono tutti rilevanti, ma spesso in conflitto tra loro. Deve individuare criteri per cercare di risolvere tale conflitto tra tanti “beni” o valori diversi, che trovano un loro riconoscimento e tutela anche nella Carta Costituzionale (l’art.9 della Costituzione tutela il paesaggio e l’art.4 tutela le attività economiche). Quindi una strategia della Regione che dovrebbe garantire non solo la compensazione tra i danni che una attività economica comporta al paesaggio, ma anche un plusvalore ambientale. In altri termini, come ha scritto di recente L. Fusco Girard “ogni trasformazione del territorio dovrebbe essere tale da generare insieme un plusvalore economico (a beneficio dei singoli soggetti economici) ed anche un plusvalore ecologico/ambientale (a beneficio della comunità)”. L’art. 2 della L.R. 54/85 ed il successivo art.1 della L.R. 17/95 prevedono che la Regione Campania deve redigere “Il piano regionale del settore estrattivo (omissis) per attuare una politi-


ca organica di approvvigionamento e di razionale utilizzazione delle materie di cava”. La Regione Campania affidava operativamente dal 1998 all’Università di Napoli Federico II, ed in particolare al Dipartimento di Conservazione dei Beni Architettonici ed Ambientali, al Dipartimento di Scienza della Terra e al Dipartimento di Teoria e Storia dell’Economia pubblica, con apposita convenzione, gli studi per la redazione di una proposta di piano delle attività estrattive regionali. I contenuti degli studi effettuati dal Dipartimento di Conservazione dei Beni Architettonici ed Ambientali della Università Federico II di Napoli sono stati: a) individuazione dei vincoli paesistici e urbanistici esistenti; b) individuazione di aree critiche per incrocio tra potenzialità e vincolo, per disponibilità o mancanza delle infrastrutture d’appoggio e formulazioni di indirizzi per i piani di dettaglio relativi a dette aree; c) formulazione di criteri e indirizzi per la individuazione di priorità e modalità di ricomposizione ambientale. Inoltre, in relazione agli studi sopra citati è stato redatto dall’insieme dei Dipartimenti uno studio per il Piano delle attività estrattive e la relativa normativa quadro. L’indagine effettuata per la redazione del Piano Cave, ha avuto per oggetto l’intero territorio della Regione. Il lavoro è stato svolto in stretta collaborazione con i gruppi di lavoro del Dipartimento di Scienza della Terra della Facoltà di Geologia e in collabo-

razione con l’ufficio Cave regionale dell’Assessorato all’Industria regionale diretto dal dott. Vitale, al fine di avere un quadro generale omogeneo dei dati riguardanti le cave presenti nel territorio regionale. L’indagine, effettuata dal Dipartimento di Conservazione, attraverso una sistematica schedatura di tutte le cave in aree vincolate (circa un migliaio di schede suddivise per provincia), si è sviluppata con le seguenti modalità: — Individuare le Cave ricadenti in aree soggette a vincoli presenti nella Regione Campania: - Legge 1497/39, sulle “Bellezze Naturali”; - Legge 431/85, Legge Galasso; - Piani Territoriali Paesistici di singole aree; - Zone Site lungo i corsi d’acqua e comprese nei Piani di Difesa dalle alluvioni, individuati dalle Autorità di Bacino; - Vincoli idrogeologici, Legge 3267/23; - L.R. 33/91 e L. 349/91 “Legge Quadro sulle aree protette “e” Parchi Nazionali”; - Zone soggette a vincolo Bio Italy. — Individuare il rapporto e l’impatto ambientale delle cave e le aree critiche; — Proporre, per quanto possibile, elementi per i progetti di ricomposizione ambientale. L’indagine ha consentito una lettura delle diverse problematiche relative all’attività estrattiva a seconda di ogni specifica area: in quelle nelle quali si concentra un maggior numero di cave attive è forte il conflitto tra la stessa

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attività, legata evidentemente a notevole richiesta di mercato, e la legislazione vigente per la tutela dell’ambiente; quelle aree, invece, nelle quali è prevalente il numero di cave in abbandono e che richiedono studi per l’individuazione di un riuso compatibile con il contesto ambientale e paesaggistico ovvero per un loro ripristino ambientale, anche al fine di evitare il proliferare, proprio nella cave abbandonate, di attività improprie quali discariche abusive di materiali non controllabili spesso nei territori vicini ai centri urbani. Inoltre, sono state rilevate aree di cava, sempre in abbandono, per le quali, paradossalmente, sono da individuare strumenti che garantiscano la conservazione dallo status quo ed altre aree per le quali le stesse cave abbandonate offrono spunti e potenzialità per il loro recupero. Queste ultime due categorie di aree sono quelle in cui le cave in abbandono fanno ormai parte di un contesto ambientale significativo: per la morfologia della cava, per il processo di antropizzazione avvenuto nel tempo, perché esempio di spazio ottenuto per sottrazione, spesso di straordinaria qualità espressiva. Per ciascuna zona di studio, a seguito dei rilevamenti effettuati sono state individuate alcune aree critiche, da approfondire attraverso progetti di dettaglio, in cui la presenza di cave costituisce un elemento di grave impatto negativo per l’ambiente in cui sono inserite. La provincia di Caserta, per esempio, presenta numerose aree critiche omogenee con cave dislocate a distanza ravvicinata che sono raggruppate in 7 aree. Dall’indagine effettuata sono risultate nella Provincia di Caserta circa n. 220 cave. È stata individuata, ad esempio, un’area di crisi nella zona montuosa che delimita la pianura casertana da Capua fino


a Maddaloni; quasi tutte le cave sono visibili da grande distanza (perfino da Napoli) per la loro notevole estensione ed espansione. Questa area comprende n° 34 cave attive risultando ad alto rischio per gli effetti diretti ed indiretti dell’attività estrattiva per vari motivi come: - la vicinanza di centri abitati consistenti; - le interferenze con infrastrutture; - il notevole impatto paesaggistico; - l’emergenza sanitaria determinata da inquinamento acustico, veicolare e patologie derivanti dalle polveri di lavorazione. In quest’area le scelte contraddittorie tra i diversi livelli di programmazione urbanistica consentono ancora oggi la frammistione tra attività estrattive inquinanti ed attrezzature di interesse generale quali ospedali, scuole ed in prospettiva il nuovo Policlinico della II Università di Napoli, ubicato a ridosso delle grandi cave nel tratto da Caserta a Maddaloni. Altro esempio: l’area dei Campi Flegrei - Area eterogenea per la presenza sia di attività estrattiva che di cave abbandonate. Si estrae prevalentemente tufo giallo e pozzolana, materiali impiegati per l’edilizia ed in particolare per il recupero delle costruzioni nei centri storici. In questa area l’attività estrattiva avviene spesso al margine di aree sottoposte a vincolo ed in alcuni casi la stessa area di cava, rientra in area di interesse archeologico. Nei Campi Flegrei sono numerose le cave abbandonate, spesso all’interno di aree ora densamente abitate. Si ritiene che alcune cave, di ridotta dimensione e regolamentate per i tempi, le modalità estrattive, e gli obblighi di ripristino ambientale, debbano essere consentite, in particolare per alcune qualità di tufo giallo, indi-

spensabile ad interventi di restauro edilizio. Il paesaggio dei Campi Flegrei è segnato, ormai storicamente, da tale “estrazione”, partecipe quindi della trasformazione e dello stesso principio generativo. Molto più grave appaiono alcune degenerazioni del paesaggio dovute ad una antropizzazione selvaggia e da “periferia”. Dall’esame delle singole aree esaminata si segnalano come aree critiche, per estensione per incrocio tra vincoli e caratteri paesaggistici - ambientali e rilevanza, per aspetti qualitativi, dei materiali da estrarre, anche quella dei Comuni Vesuviani. - L’area “Vesuviana” vede in contemporanea la presenza di una forte attività estrattiva ed il vincolo imposto dall’istituzione del Parco. Da non trascurare, ad esempio, l’importanza che assume il basalto per il recupero dei centri storici, per delicati interventi di restauro e per la sua lavorazione artigianale. Nondimeno è evidente la necessità di regolamentare l’attività estrattiva al fine di ridurre “danni”, in particolare quelli legati alle estrazioni abusive, e salvaguardare l’ambiente. Infine, oltre ai casi critici sopra esaminati, in particolare in relazione al loro impatto ambientale, è stato esaminato il problema di numerose cave abbandonate diffuse in tutto il territorio regionale. Per gran parte di esse necessita un progetto di ripristino ambientale, soprattutto al fine di sottrarre questi spazi, a volte anche stimolanti e affascinanti, ad usi impropri, più preoccupanti della ferita già provocata, della traccia lasciata ed ora “parte” del paesaggio trasformato. Altre volte è invece necessario intervenire per colmare vuoti all’interno di aree densamente abitate oltre che per sanare ferite inflitte al paesaggio e per ristabilire condizioni di sicurezza e igiene. Sul piano progettuale, in partico-

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lare sul tema del recupero ambientale e funzionale delle cave dismesse, vale la pena far riferimento, come esempio da imitare, alla città di Barcellona. In questa città infatti, nell’ambito del piano urbanistico generale, le cave abbandonate sono state riprogettate e riqualificate attraverso concorsi di progettazione e utilizzate per usi pubblici; tra queste vale la pena ricordare: i parchi, le attrezzature sportive e grandi piscine all’aperto come il Parco de la Creuta del Cool (caratterizzato dalla scultura di Chillida 1981-1987); i cimiteri come il Fossar de la Pedrera per i morti della Catalogna (1983-1986) e il Cimitero nuovo di Igualada, (1991). Queste realizzazioni, di notevole interesse architettonico e sociale e coscienti del ruolo del progetto di architettura, riflettono il livello culturale degli abitanti di Barcellona. Una utile indicazione per i nostri problemi. * docente della Facoltà di Architettura di Napoli


“sostegni per l’ambiente” Fulvia Fazio*

La particolare storia e conformazione dell’Italia, la sua straordinaria e stratificata ricchezza di monumenti, beni artistici e di aree ad alto valore naturalistico costituiscono un patrimonio di luoghi e di valori unico. L’Italia è anche tra i primi paesi industrializzati al mondo e le infrastrutture sono un elemento decisivo per il suo sviluppo economico e sociale. La loro interazione con il paesaggio è la sfida che ogni azienda italiana oggi deve saper affrontare con una nuova sensibilità e con nuovi strumenti progettuali, impiantistici e di relazione con chi vive sul territorio o lo amministra. Il coordinamento tra autorità centrali e locali, come anche la collaborazione fattiva tra amministrazioni locali, operatori industriali e cittadini per una tutela condivisa del territorio è un’esigenza particolarmente sentita oggi, in presenza di un sistema energetico che viene progressivamente liberalizzato a livello europeo. Considerando positivamente le iniziative volte a rendere più trasparente, efficace e diretto il processo di autorizzazione riguardante le infrastrutture, proprio ai fini di uno sviluppo compatibile, che sappia coniugare con rigore, efficienza e rapidità le ragioni dell’ambiente con quelle dell’economia, Enel ha aderito attivamente alla Conferenza del Paesaggio, mettendo a disposizione del dibattito il proprio bagaglio d’esperienze, di analisi e di proposte. A questo scopo Enel ha sviluppato il progetto “Sostegni per l’ambiente”: un concorso internazionale di architettura, che ha trovato la sua conclusione naturale con la premiazione del vincitore proprio in occasione della Prima Conferenza Internazionale del Paesaggio. I sostegni delle linee elettriche ad altissima tensione utilizzati dalle aziende elettriche sono generalmente progettati dalle stesse aziende elettriche in funzione delle specifiche esigenze di servizio, suscitando talvolta problematiche di compatibilità ambientale che aumentano parallelamente all’accrescersi della sensibilità nei confronti del paesaggio. Enel già da qualche anno sta rivedendo i criteri progettuali delle proprie linee sulla base della loro interazione con l’ambiente. Al fine di ricercare strutture in linea con gli arredi urbani e meno intrusive in ambiente naturale, Enel ha affidato a grandi architetti l’ideazione e la progettazione di tralicci che non siano percepiti unicamente come manufatto industriale, ma siano rivisitati in chiave di design artistico sottraendoli alla condanna della mera funzionalità e della banalità estetica. Al concorso hanno partecipato: Aldo Aymonino, Achille Castiglioni, Michele De Lucchi, Norman Foster, Giorgetto Giugiaro, Corrado Terzi, Jean-Michel Wilmotte. Il pregio estetico e l’interazione con l’ambiente rurale e con le aree suburbane è stato giudicato da una Giuria di esperti nominati dai Mini-

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steri dell’Ambiente, dei Lavori Pubblici, per i Beni e le Attività Culturali insieme ad esponenti del mondo della cultura e di Enel. La Giuria era composta da: Chicco Testa (Presidente Enel), Mario Dal Co (Direttore Immagine e Comunicazione Enel), Sergio Mobili (Amministratore Delegato di Terna), Costanza Pera (Direttore Generale Ministero LLPP), Maria Rosa Vittadini (Direttore Generale Ministero dell’Ambiente), Augusto Mario Lolli Ghetti (Sovrintendente BBAA per le provincie di Firenze, Pistoia e Prato), Luigi Paris (Prof. di Sistemi elettrici per l’energia presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Pisa), Andrea Emiliani (Presidente Accademia Belle Arti di Bologna), Renato Mannhaimer (Presidente ISPO). Nella complessiva positiva valutazione dei progetti in gara, sono risultati vincitori a pari merito il progetto degli Studi Castiglioni/De Lucchi e dello Studio Foster and Partners. E’ anche stata effettuata una indagine qualitativa, basata sulla tecnica dei focus group,con l’obiettivo di valutare la percezione estetico-paesaggistica dei progetti in gara da parte dei cittadini. E’ interessante osservare che l’indagine (condotta dall’ISPO, Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione) ha dato risultati sostanzialmente in linea con le valutazioni della Giuria del Concorso. Il progetto “Sostegni per l’ambiente” ha poi avuto due ulteriori sviluppi, nella fattispecie l’allestimento di una mostra itinerante per l’Italia ospitata presso i più importanti Musei di Arte Contemporanea quali la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il Museo Pecci di Prato, la Triennale di Milano e lo studio del processo di ingegnerizzazione volto a rendere questi modelli progettuali una realtà concreta sul territorio. * Responsabile identità e immagine Enel

Norman Foster and partners

Castiglioni-De Lucchi


lungo la Strada degli Americani Fabrizia Ippolito*

Tra il 1955 e il 1970 la Provincia di Napoli costruisce nell’area compresa tra Napoli e Lago Patria la Circumvallazione esterna-Strada Provinciale n° 1, che collega Napoli con il mare attraverso la prima cinta di comuni esterna alla città. La strada è nota come “Strada degli Americani” o come “Doppio senso”. Era la “Strada degli Americani” prima ancora di nascere, perché sorgeva su un sentiero aperto nel dopoguerra dagli alleati, ma lo è diventata sempre di più negli anni, quando i grandi contenitori e le pubblicità, i capannoni e le villette unifamiliari l’hanno trasformata in una versione nostrana del paesaggio dei sobborghi americani. E’ stata il “Doppio senso” da subito, per il suo percorso di andata e ritorno -una novità per quell’epoca-, nell’immaginario popolare “come le strade che si vedevano nei film”. La strada è l’unico legame tra oggetti diversi disseminati lungo i suoi bordi, è la causa e lo specchio di molti cambiamenti di questo territorio. Provare a descriverla può essere un’occasione per confrontarsi con questi cambiamenti, e per ricondurli al dibattito più generale sulla città contemporanea e sul rinnovamento della nozione di paesaggio. Le questioni a grandi linee sono note, perfino usurate dal dibattito recente. Città e campagna non si riconoscono più, centro e periferia sembrano aver perso il loro significato, l’edificazione si diffonde indifferentemente sul territorio saldando tra loro i nuclei urbani e appoggiandosi agli assi a scorrimento veloce. Il paesaggio diventa tutto paesaggio urbano, di un’urbanità diversa da quella tradizionale, diffusa, frammentata, che trae le sue regole dall’innesto con la campagna e con i segni della geografia. La scala di riferimento si amplia fino a perdere di vista il carattere locale, si accelerano i tempi di percorrenza e cambiano le modalità d’uso, esigenze e consuetudini omologate tendono a rendere simili luoghi in origine molto diversi e a classificarli senza distinzioni nella categoria dei “nuovi paesaggi urbani”. A ben guardare però, qui come altrove, le differenze emergono e si scopre un territorio costruito sul compromesso: tra permanenza e trasformazione, tra locale e globale, tra specificità e omologazione; un’”architettura senza architetti” che, riproponendo con insistenza le stesse risposte spontaneee a bisogni ricorrenti, trasforma radicalmente gli scenari della vita urbana. Lungo la Strada degli Americani l’originario paesaggio delle distese agricole intervallate da piccoli centri abitati è diventato un paesaggio ibrido e complesso, una sequenza di paesaggi: agricolo, industriale, residenziale e commerciale. Nonostante la continuità del segno, il percorso ha perso il suo carattere unitario, è frammentato in tratti -il tratto extraurbano di Giugliano, quello urbano di Villaricca, quello industriale di Casoria-, come tante strade diverse quasi casualmente collocate sulla stessa sede.

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I paesaggi si susseguono e si incrociano, si sovrappongono in più punti; il paragone ormai scontato con il montaggio cinematografico suggerisce qui tempi alterati, dissolvenze e sovraimpressioni. A Melito in pochi metri quadri un edificio commerciale -MILLEPIEDI-, palazzine e palazzoni residenziali, un traliccio dell’elettricità, alcuni vivai -VIVAI CHIANESE, VIVAI MAISTO- e un certo numero di insegne si contendono la visibilità dalla strada; poi per lunghi tratti c’è solo campagna; più avanti gli stessi oggetti ricompaiono con logiche diverse di combinazione; di tanto in tanto una rotonda o un grande centro commerciale funzionano da punti di riferimento. La ripetizione, la bassa densità, la grande dimensione, soprattutto l’allineamento lungo la strada, sono le nuove regole in base alle quali si costruisce questo paesaggio; ma le vecchie regole sopravvivono ancora attraverso la maglia centuriale o gli assi fondativi dei nuclei urbani, ed è dallo scontro di vecchie e nuove regole che derivano i conflitti. E’ come se due trame totalmente autonome venissero a sovrapporsi, quella più fitta del preesistente e quella più larga del sistema-strada con le sue appendici di recinti e contenitori. C’è un salto di scala, da quella minuta, locale, di tutto ciò che si costruisce per contiguità a quella grande, territoriale, delle relazioni a distanza tra episodi dislocati secondo logiche estranee ai luoghi. L’esempio più tipico è quello degli ipermercati, solo tre in zona, l’EUROMERCATO di Casoria, CITTÀMERCATO di Mugnano e l’IPERCOOP di Afragola che si dividono un territorio ridotto a terreno di competizione commerciale -bacini d’utenza di prima, seconda o terza fascia-, mentre si attende l’apertura di un quarto ipermercato a Giugliano. Con il salto di scala emergono ancora due paesaggi, che corrispondono ai due tempi della nuova città estesa: il tempo veloce dell’automobile, che mette a fuoco solo alcuni oggetti relegando tutto il resto in uno sfondo confuso, e il tempo lento del pedone, che misura gli intervalli tra le cose e raccoglie le tracce anche impercettibili che disegnano gli spazi. Il primo è un paesaggio fondato sull’impatto e sulla comunicazione immediata, come quello della Las Vegas di Venturi, il paesaggio delle insegne e delle facciate pubblicitarie, delle costruzioni isolate e della grande dimensione, di CITTAMERCATO, dell’AMERICAN SUPERMARKET, dell’hotel LA LANTERNA e del MY TOY. Il secondo è il paesaggio della continuità, dei tracciati storici e delle cortine edilizie, dei lotti agricoli e degli isolati residenziali, delle relazioni bruscamente interrotte dal passaggio della strada. E’ il paesaggio che l’ultimo film di Linch rende visibile con un artificio: la lentezza di un trattore su una strada dove tutti corrono, lo sguardo di un vecchio su un mondo mostrato di solito attraverso gli occhi dei giovani.


Tra questi, i moltissimi paesaggi dell’ibridazione che combinano le logiche insediative e confondono i riferimenti architettonici. Sono i paesaggi dell’auto-organizzazione, quelli che non rispondono a modelli prestabiliti e che sono di conseguenza più difficili da decifrare. Si sviluppano nell’intersezione tra le varie scale, negli spazi tra il sistema della strada e quello delle preesistenze, utilizzano architetture dismesse e riadattano gli edifici a nuove destinazioni. Si manifestano con usi non codificati degli spazi, con attività che nascono come provvisorie e poi si radicano nei luoghi. Sono i paesaggi del caos e dell’assenza di regole, quelli in cui si annidano il degrado e l’illegalità, ma anche quelli in cui è più forte la vitalità e lo spirito di adattamento di un territorio capace di metabolizzare qualsiasi trasformazione e di un’architettura capace di servirsi di ciò che ha a disposizione per rispondere alle necessità. Sono paesaggi che creano inconsapevolmente nuovi modelli nella ripetizione spontanea delle soluzioni, paesaggi che se non altro rivelano nuovi bisogni. Il geografo J. B. Jackson in America li ha definiti vernacolari, utilizzando un termine solitamente riferito all’architettura spontanea lontana nel tempo e specificamente legata ad un luogo. Oggi il vernacolo è un altro, e include anche quel tanto di omologazione inevitabile in un contesto allargato come quello contemporaneo; per J. B. Jackson è vernacolo l’edificazione spontanea dei bordi delle autostrade come la trasformazione della casa per l’inclusione del garage. Da queste parti il catalogo può comprendere l’occupazione degli spazi sottostanti il viadotto o l’architettura provvisoria di vivai e chioschi nella fascia di rispetto della strada; l’aggregazione delle villette unifamiliari in parchi e le loro costanti tipologiche e formali; l’architettura del commercio,

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dai contenitori alle palazzine trasformate in centri commerciali; infine insegne e pubblicità, che ricoprono ogni superficie disponibile per indicare, con una sovrabbondanza d’informazioni, ciò che altrimenti il disordine renderebbe invisibile e per spiegare, come didascalie, quello che non sarebbe riconoscibile per l’assenza di modelli noti. Qui una casa è uguale ad un centro commerciale, che è uguale a una discoteca, che è uguale ad un hotel, a meno degli elementi aggiunti, e tutti ricalcano il modello della palazzina, mentre nascono spontaneamente nuovi tipi di architetture, la casa-officina, la casa-centro commerciale, il centro commerciale-fabbrica, invenzioni recenti ottenute da combinazioni inedite di elementi comuni: una tettoia addossata ad una casa rurale, insegne al neon sui balconi di un edificio residenziale, una vetrina aggiunta ad un capannone industriale provocano inconsapevoli effetti di “straniamento”, come la recinzione di un bowling che diventa la vetrina di un negozio di biancheria, o la facciata di un hotel ricoperta da un enorme affresco, o il recinto di una villa fuori scala -GLORIA- che racchiude a sua volta altri recinti e piscine e case e casette di tutte le misure in vendita per le ville vere. Recinti grandi, recinti più piccoli, recinti che contengono recinti sono il tema ricorrente di questo paesaggio. Emblemi di separazione funzionale e sociale, dalla sicurezza di uno stabilimento produttivo alla privacy di un parco residenziale fino all’emarginazione del campo nomadi, alle spalle del carcere di Secondigliano, sono le declinazioni che un antico rito di appropriazione dello spazio assume all’interno di questa nuova forma di città, pulviscolare, individualista, non pianificata; sono le tracce che riconducono la grandissima alla piccolissima scala. * architetto


la nuova cultura della sottrazione Mario Fazio

Mario Fazio vive ad Alassio dove è nato nel 1924. Scrive su “La Stampa” di Torino dal 1957, occupandosi di ambiente, architettura, urbanistica. E’ stato presidente nazionale di “Italia Nostra” dal 1986 al 1990. Tra le sue opere “I Centri Storici Italiani”, “L’inganno nucleare”, “Antico è bello” (in collaborazione con Renzo Piano, ed. Laterza). Nel febbraio di quest’anno la Einaudi ha pubblicato il suo libro “Passato e futuro delle città, processo all’architettura contemporanea”, presentato a Roma, a Genova, a Torino (Facoltà di Architettura) e in altre città. Su “Repubblica” è stato recensito da Gregotti, su “La Stampa” (16/5) Renzo Piano ha firmato il suo “omaggio a Mario Fazio”.

Da qualche tempo vengono alle ribalta episodi di demolizioni spettacolari, vedi il “Mostro del Fuenti”, le Vele di Secondigliano, alcune costruzioni abusive nella Valle dei Templi di Agrigento, abitazioni ancora abusive nelle periferie di Roma. Si tratta forzatamente di episodi, carichi di valore simbolico, salutati come segnali della volontà di rimettere ordine sul territorio dopo troppi anni di scempio urbanistico e di incapacità nel far rispettare le leggi, se non di mancata volontà. Il ricorso alla dinamite non mi sembra, però, il rimedio universale. Vale nei casi di abusi edilizi conclamati e, di deturpazioni irrimediabili del paesaggio, come le Torri del Villaggio Coppola a Pinetamare. Ma non tutti i “mostri” sono abusivi; esistono nel centro delle città quelli regolarmente autorizzati, al pari di quelli che abbondano lungo le coste delle Penisola e delle Isole Maggiori. Dai singoli edifici dissonanti e fuori scala lungo la Riviera Ligure (alcuni con Firma di Maestri famosi) all’albergo sorto sulla Punta Falcone; una delle meraviglie della Sardegna costiera compromessa da insediamenti turistici in gran parte autorizzati benché in contrasto con le esigenze di tutela del paesaggio. Va dunque sfatata l’idea diffusa dell’equazione “Mostro=abusivismo”. Se il 46,14 per cento del territorio nazionale è sottoposto a vincoli di tutela, come spiegare migliaia di mostri tutt’altro che nascosti, addirittura esibiti? La quantità di edifici da abbattere è tale che non basterebbe la dinamite, né basterebbero i quattrini per compiere interamente le operazioni fino allo smaltimento dei detriti e alla sistemazione degli spazi rimasti vuoti. Nessuno ha mai fatto la stima, ma è evidente che i volumi da abbattere arriverebbero a milioni e milioni di metri cubi con una spesa non quantificabile. A Lione l’abbattimento con la dinamite

controllata della prima di dieci torri nel quartiere Democratie (10 ottobre 1994) costò l’equivalente di 4 miliardi e mezzo, più un miliardo e mezzo per dare pubblicità alla operazione. E’ dunque necessario chiarire quali sono i casi con forte valore esemplare, quali sono necessari e realizzabili, che cosa si deve e si può fare dopo per restituire qualità e dignità all’ambiente ripulito. Le difficoltà maggiori nell’applicare la cultura della sottrazione si incontrano nelle città dove sono sorti edifici (regolarmente autorizzati o in qualche misura fuori legge ma tollerati) di cui a gran voce si chiede la demolizione benché i giudizi siano controversi. Faccio alcuni esempi. A Napoli sono sotto tiro la torre costruita ai tempi di Lauro nel chiostro di un Convento, il Palazzaccio di Piazza Cavour, diverse emergenze del Vomero. A Torino vorrebbero demolire il palazzo per uffici di Piazza San Giovanni, di fronte al Duomo e a lato della Porta Palatina, progettato molti anni fa in un momento infelice da un pur bravo architetto. Qualcuno vorrebbe buttar giù anche la torre littoria che stride sullo scenario del Centro Storico. A Genova ecco l’orrendo inserimento pseudomoderno nella Palazzata medievale di Sottoripa, e ancora nel Centro Storico il pasticciato palazzo della Cassa di Risparmio. Quanto al “Torracchione” aggiunto da Aldo Rossi al teatro “Carlo Felice” i pareri prevalenti sono quelli orientati alla rassegnata accettazione. A Roma sarebbero da buttar giù gli obelischi di via della Conciliazione, almeno quelli (operazione di costo limitato ma culturalmente significativa) A Venezia dovremmo far sparire l’isola artificiale del Tronchetto. E nelle città di minori dimensioni non possiamo dimenticare lo strambo Palazzo di Giustizie di Savona, i grattacielini di Noto e di Gallipoli, le torri sulle spiagge della Riviera Romagnola. La

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caccia agli orrori, presunti o veramente tali, rischia però di diventare un gioco da salotto. Molto più serio, e a volte angoscioso, il problema delle abitazioni abusive non condonate o sorte dopo l’ultimo condono, cominciando da quelle sulle pendici del Vesuvio e nelle periferie di Roma. Quando si tratta di costruzioni dovute a chiari intenti speculativi il ricorso alle ruspe appare doveroso. Quando le ruspe abbattono modeste casette abitate da famiglie a basso reddito, certamente colpevoli di illegalità ma compiuta senza alcun intervento repressivo quando il cantiere era all’inizio, il dramma umano è sconvolgente. Abbiamo assistito in TV alle scene di disperazione degli abitanti di povere case demolite dalle ruspe distruggendo mobili, arredi, letti e cucine, mentre la polizia teneva lontani i proprietari. In questi casi, oltre ai preavvisi formali, sarebbe opportuna la ricerca di alternative intervenendo dopo aver trovato soluzioni convenienti e senza fare a pezzi tutto quanto è contenuto nelle abitazioni, compresi i ritrattini di famiglia, il televisore e gli elettrodomestici acquistati a rate. Contrasta, con queste manifestazioni di violento ripristino della legalità, la tolleranza verso tanti abusi che ancora si stanno compiendo apertamente o in modo mascherato in zone vincolate, vedi il rustico che diventa villa con piscina. E poi che fare delle migliaia di abitazioni, condonate o no, in zone di grave pericolo per frane, dissesti in atto, rischio sismico? C’è da rabbrividire pensando alle pendici del Vesuvio. Un capitolo a parte è quello dei megaedifici nei quartieri di tipo economico-popolare e del naufragio di altri quartieri dello stesso tipo progettati con nobili intenzioni ma realizzati male, rimasti incompiuti, abbandonati al degrado per mancanza di servizi e di manutenzione, per occupazio-


ni abusive. Lo “Zen” di Palermo è stato definito “uno degli episodi più tristi dell’edilizia sovvenzionata in Italia” dal suo stesso autore, Vittorio Gregotti. Alla categoria dei megaedifici appartengono le sette Vele di Scampia, il Corviale di Roma, e Lavatrici di Genova, per fare gli esempi più clamorosi e certamente ben conosciuti da chi legge questa rivista, anche se nelle Facoltà di Architettura se ne è parlato poco, preferendo limitarsi alla qualità dei progetti e sorvolando sui problemi sociali causati da “mostri” ritenuti magari “capolavori” come il Corviale, addossando ogni colpa dei fallimenti al comportamento degli assegnatari, alla inadeguatezza dei servizi ecc. A Scampia tre Vele sono state abbattute, ne rimangono quattro ed una di queste viene convertita per uffici pubblici. Si impone con urgenza il problema di nuovi alloggi per gli occupanti delle Vele demolite o destinate ad altri usi. A questo punto emerge la necessità di cambiare metodo nella progettazione, non più immaginando a tavolino aspirazioni ed esigenze degli abitanti, non più immaginando nello studio dell’architetto le tipologie più idonee, ma cercando anzitutto di capire i motivi del disagio per rimuoverli concretamente senza ripetere gli errori del passato. La consultazione degli abitanti è indubbiamente difficile. La maggioranza aspira quasi ovunque alla casetta individuale con un pezzo di orto-giardino. Ma la via di mezzo, case di abitazione a non più di 4 o 5 piani, sembra da studiare con attenzione. E’ la strada già indicata a suo tempo da Alvar Aalto, il quale aveva tratto dall’esperienza la convinzione della pericolosità sociale delle case a torre. Altra svolta determinante: lo studio preventivo del microclima, della natura del suolo, delle tecniche costruttive più idonee per garantire condizioni di vita confortevoli (l’uso dei prefabbricati con pareti divisorie in

Demolizione delle “Vele” a Scampia, Napoli

cartongesso nega qualsiasi intimità). Non pretendere di imporre il pezzo di bravura ma tener conto dei minuti problemi dell’abitare, dal ripostiglio allo stenditoio, allo spazio protetto per far giocare i bambini quando piove. Ottimi esempi si hanno nei sobborghi di città scandinave, vedi Farsta a Stoccolma,e nelle New Towns dell’ultima generazione. Diversi accademici e critici nostrani continuano a ignorarle o a considerarle con sufficienza, ma avremmo molto da imparare. Rimando, per brevità al capitolo del mio libro “Passato e futuro delle città, processo all’architettura contemporanea” uscito nei mesi scorsi da Einaudi. Ho seguito l’evoluzione delle New Towns dagli anni Sessanta ad oggi. Le esperienze di altri Paesi sono interessanti in materia dì demolizioni e dimostrano che la dinamite non baste per risolvere i problemi. Il precedente più lontano risale al 15 luglio 1972: a St.Louis la dinamite controllata distrusse le torri di 14 piani progettate da Minoru Yamasaki (celebre per i gemelli di Manhattan) e divenute inabitabili. In Francia fa testo il caso di Lione-Venissicux dove le demolizioni non hanno risolto i problemi sociali gravissimi. Ma il fiasco probabilmente più ricco di insegnamenti è quello di Bijlmermeer, quartiere di iniziativa pubblica nei dintorni di Amsterdam, costruito a partire dal 1966 e divenuto un mito nelle scuole di architettura: lunghi blocchi di undici piani, gallerie interne, percorsi pedonali separati, autorimesse sotterranee, ballatoi, servizi fortemente accor-

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pati, abbondanza di verde. Una “perfetta” macchina per abitare, divenuta in pochi anni teatro di violenza e di abbandono. Alle proposte di demolizione fu preferita quella della riconversione: tagli e alleggerimento dei blocchi, eliminazione delle gallerie, frazionamento degli spazi e dei servizi. Anche a Liverpool sessanta torri “popolari” di 15-20 piani furono parzialmente smontate negli anni Ottanta, per trasferire gli abitanti in case a tre-quattro piani. Per la riqualificazione delle periferie più delle demolizioni valgono gli interventi minuti e umili di chirurgia plastica, dopo estese consultazioni degli abitanti. Certamente gli architetti vanno scelti attraverso concorsi, ma si deve tener conto della molteplicità delle discipline in gioco e della loro interazione. Dall’architettura del paesaggio alla bioarchitettura, all’ecologia urbana, alla bioclimatica. Si stanno moltiplicando i corsi su queste materie in diverse Facoltà italiane. Segnalo i laboratori di Torino, cominciando da quelli di Gabetti e Isola dove si discute finalmente del come ridisegnare paesaggi costruiti, non mimetizzando con un po’ di verde quelli casuali e malvissuti ma cercando di rispondere a esigenze non soltanto estetiche. Soprattutto si deve evitare la ripetizione di modelli formali e di metodi che attribuiscano al singolo architetto la capacità e facoltà di tutto prevedere. Cito ancora una volta Alvar Aalto: “La vera architettura esiste soltanto quando pone l’uomo al centro del progetto”.


trasformare le necessità in desideri Sandro Raffone*

Va dato merito al CNA per la battaglia, nobile e necessaria, che rivendica con forza “l’architettura di qualità”. Tuttavia ritengo che l’aggettivo sia improprio perché già nel termine architettura - da archè, il primo, l’ottimo, l’eccellente e tekton, il fare - è contenuto un attributo positivo. Sarebbe più appropriato parlare di “edilizia di qualità”, quella che ha conformato il paesaggio urbano ed ha dato valore a quello agricolo. Monti, boschi, deserti, campagne, strade, ponti, recinti, muri, castelli, fabbriche, «laghi con la casa del contadino che sembra fatta da Dio» fino al più straordinario scenario prodotto dall’uomo, la città che ha generato il termine civiltà, tutto questo è paesaggio. Già fortunato genere pittorico, protagonista o fondale per illustrare accadimenti storici e mitologici, il paesaggio è oggi un soggetto fotografico di successo, privilegiato per catturare turisti oppure come sfondo di spot pubblicitari per auto a sedici valvole. Il mercato del paesaggio-immagine non disdegna alcun soggetto ed un obiettivo ben puntato nobilita perfino il peggior degrado di periferia. Tuttavia il paesaggio urbano, divenuto tale per necessità, prima che per l’immagine interessa tutti gli uomini perché è un fattore per la qualità della vita. Oggi siamo consapevoli di quanto tempo è stato necessario per conformare la bellezza del territorio e in quanto poco si può alterarla. Sappiamo anche che la città è un corpo vivo che se imbalsamato perderebbe proprio quei valori che si vogliono preservare. Sappiamo infine che è necessario adeguare le metropoli alle nuove necessità con il solo mezzo che le ha valorizzate, l’architettura, come sta avvenendo in tutte le città d’Europa. In Italia, persa quell’arte di costruire che per secoli è stato un riferimento, in questo periodo di rinnovamento restiamo custodi, non sempre all’altezza, di gloriosi paesaggi che invecchiano. Invece il ritardo accumulato nel cambiamento in atto ci ha escluso dal confronto internazionale dove abbiamo perso anche quel minimo di credito teorico che in anni recenti ha goduto di qualche attenzione. Forse è stato proprio l’eccesso di riflessione, in cui sono transitati i surrogati dell’architettura parlata, disegnata, teorizzata, di ricerca, urbana, e quant’altro a compensare il disinteresse progressivo che dal dopoguerra - prima i politici e di riflesso l’intera società - ha allontanato l’architettura dalla cultura italiana. E’ probabile, come sostiene qualcuno, che la rimozione dell’architettura sia iniziata in opposizione alle forti vocazioni costruttive del fascismo. Nell’Italia partitocratica raramente le grandi opere sono divenute architettura mentre in genere sono state una buona merce di scambio politico e per l’arricchimento di imprese e professionisti senza scrupoli. Ma quello che soprattutto è mancato, in modo graduale e progressivo, è la qualità comune del costruire.

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Gli effetti dovuti all’assenza della “committenza”, cioè della matrice consapevole del valore “architettura”, sono stati la frammentazione dei ruoli, la dispersione delle responsabilità e l’inadeguamento dell’insegnamento. L’Università italiana - che a fronte del duro impegno richiesto agli studenti mal prepara a progettare e peggio a costruire - ha immesso sul mercato la più inutile concentrazione di laureati architetti d’Europa che dovrebbe produrre architettura per una committenza che non sa esigerla. In questo scenario l’architetto italiano è stato talvolta complice ma non sempre è colpevole. Se mediamente non ha prodotto beni architettonici è perché nessuno li ha richiesti: chi si confronta con le aspettative dei privati deve spesso scontrarsi con lo stesso committente per fare il suo interesse; nei lavori pubblici, al contrario, l’indifferenza per i valori architettonici è bilanciata dalle energie assorbite dagli iter burocratici che talvolta sono superiori a quelli del progetto mentre i tempi di realizzazione sono biblici; nei rari concorsi non sempre chi giudica è all’altezza di valutare (quando l’esito non è scontato e prevedibile) ed infine - confermando l’incapacità delle Istituzioni di scegliere - il paradosso delle gare su curriculum economico o le garanzie cercate dalle grandi firme. La nostra realtà è che in questi anni chi ha prodotto architettura lo ha fatto malgrado la committenza. Intanto il mestiere, che dovrebbe alimentarsi della prassi, appassisce. Nelle nostre belle riviste (comprese quelle del CNA), dove non abbiamo più nulla da mostrare, ammiriamo le nuove espressioni della tecnologia in vetro, acciaio, rame, alluminio e titanio, il minimalismo, le lamelle orizzontali che ridanno ruolo all’involucro, le linee sghembe, curve ed ellittiche ottenute coi frattali e sostenute da qualche teoria del caos. Non credo che abbiamo i mezzi materiali e soprattutto mentali per adeguarci a tale situazione (francamente l’affrettato aggiornamento rivistaiolo non è decente) e probabilmente quell’architettura, che è divenuta una sorta di spettacolarizzazione, non ci appartiene. Da questo rinnovamento possiamo però filtrare alcuni comportamenti, opposti alla teatralizzazione dell’architettura-immagine, di matrice costruttiva e strutturale scaturiti dall’uso e dal luogo. Sono modi che si riallacciano ad una tradizione che in Italia ha solide radici, una tradizione che è stata interrotta ed emarginata ma non è morta. Credo che Napoli possa offrire le condizioni ideali per ritrovare nel moderno i fili della nostra consuetudine costruttiva. La città è satura ed il processo di costruzione è virtualmente concluso tuttavia, mai come in questo momento, Napoli ha un disperato bisogno di rinnovamento architettonico nelle infrastrutture, nella periferia e nel centro. Come altrove, anche a Napoli non è stata l’architettura moderna ad aver fallito: si è costruito talmente male


Ripristino del vecchio ingresso delle catacombe di S. Gennaro con strutture museali e di servizio Lab. Progettazione 2 - Allievo Giuseppe Basso

che proprio le espansioni - dove si sarebbero potute espletare le potenzialità dell’architettura contemporanea - sono gli ambiti che necessitano di azioni di riqualificazione urbana ed ambientale. Il centro invece con i suoi duemila e più anni di storia è già qualificato. Tuttavia ritengo che, a parte le cure per la conservazione (manutenzione ordinaria, straordinaria e restauro), il tessuto antico ha urgenti necessità d’interventi di modificazione, che chiamerei di chirurgia, in edifici o ambiti particolari in abbandono, difficili da restaurare e che sarebbe conveniente restituire all’uso. Il patrimonio storico non è riproducibile, pertanto è imperativo che gli interventi non diano luogo a pentimenti anche se il carattere della città è talmente forte che può perfino digerire l’arte applicata come negli chalet della villa comunale. Eppure per rilanciare l’architettura sono indispensabili esempi d’autentica architettura contemporanea mentre i nuovi padiglioni, (che paradossalmente hanno una matrice neoclassica quindi consona alla villa), hanno rinforzato il fronte dei conservatori che nel moderno individuano un pericolo per il paesaggio urbano. L’educazione alla buona edilizia si alimenta con l’Architettura ma questa deve uscire dal circuito degli architetti ed entrare nell’interesse della gente. Se sollecitata da modelli comprensibili ed appropriati, la domanda di qualità urbana potrebbe partire dal cittadino, essere accolta dagli amministratori e finalmente ritornare agli architetti. Con alcune garanzie che si possono trovare nei modi e nelle condizioni d’intervento. Napoli non ha risolto alcuni problemi primari, così l’architettura può essere ancora cercata nella risposta alle necessità ed all’economia limitando l’autogratificazione del progettista. Inoltre forse proprio il nostro ritardo nell’aggiornamento può fornire gli anticorpi per non imitare passivamente la progettazione alla moda. Altre semplici condizioni per circoscrivere modalità

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non invasive possono essere: costruire non dove è possibile ma dove è necessario farlo; comporre con le cose e non sulle cose; cercare l’espressione del tema e non quella dell’architetto; servirsi dei mezzi disponibili ed infine, oggi che a tutti è concesso di fare tutto, selezionare le competenze e ridefinire i ruoli con le specifiche assunzioni di responsabilità. Da qualche tempo il processo di modernizzazione è già in atto alla radice dove il rinnovamento di locali pubblici e negozi, ridà smalto anche ai palazzi. La città può auspicare di estendere le modificazioni, e quindi l’arricchimento del paesaggio urbano, sulla traccia dalla mostra “Additions d’Architetcture” esposta lo scorso anno all’Istitute Francais de Naples che, con la formula “1+1=1”, ha illustrato gli interventi - orizzontali, verticali e sotterranei - nel tessuto di Parigi. Per farlo, è necessario che gli amministratori promuovano l’architettura e, come avviene in Europa, che questa diventi argomento di discussione fra i cittadini per non subirla a cose mal fatte. Nei lavori pubblici ben vengano i concorsi se saranno credibili, ben istruiti e soprattutto correttamente giudicati. Tuttavia per valorizzare il paesaggio urbano, la qualità del cambiamento non dovrà costituire l’eccezione ma permeare la normalità del quotidiano. “Il cambiamento è una condizione della vita - ha detto Hassan Fathy - ma dobbiamo anche riconoscere che il cambiamento da un punto di vista etico è neutrale. Un cambiamento che non sia per il meglio, è per il peggio, e dobbiamo giudicarlo in questo senso”. Lo slogan dell’ultima Biennale di Venezia raccomanda, non senza qualche contraddizione, “Più etica e meno estetica” ma l’esortazione deve essere perseguita con tenacia per pretendere dagli architetti napoletani, quando per conservare la città si tornerà a richiedere “architettura”, di trasformare le necessità in desideri. * docente della Facoltà di Architettura di Napoli


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• Gronegger’s Workshop Body and constr. • Viviencias/Life-Experience • Chazelle et Renaud • Herbert Bayern zum 100 Geburstag • Bauhaus: Dessau, Chicago, New York • Herzog & de Meuron • Light Art, technology and society … • Architecture without shadows

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info: +39 0546 21240 info: +39 081 5808111 info: +39 081 5808111 info: +39 0522 456477 info: +39 0119581547

Helsinki - Museum of Art and Design Parigi - Centre Pompidou Parigi - Musée de la Publicité Humlebaek - Louisiana MoMA Berlino - Bauhaus-Archiv Londra - Hayward Gallery Londra - Design Museum

• Tapio Wirkkala: eye,hand and thought • La donation Kartell.DeColombo a Arad • Citroen, une saga publicitaire • Vision and Reality • Herbert Bayer • Spectacular Bodies • Isambard Kingdom Brunei

fino al 14 gennaio fino al 4 dicembre fino al 28 gennaio fino al 14 gennaio fino al 28 novembre fino al 14 gennaio fino al 25 febbraio

www;designmuseum.fi info: +33 1 44784069 info: +33 1 44555750 www.louisiana.dk/ www.bauhaus.de info: +44 20 79283144 info: +44 20 74036933

Chicago - The Art Institute Los Angeles - County Museum of Art New York - Solomon R. Guggenheim

• Optical Delusion • Made in California • Amazons of the Avant-Garde • Giorgio Armani • 100 Masterpieces from the Vitra Museum • American Modern.Design for a New Age • American Studio Jawelry, 1940-1960

fino al 15 gennaio fino al 25 febbraio fino al 7 gennaio fino al 17 gennaio fino al 4 marzo fino al 7 gennaio fino al 2 gennaio

www.artic.edu www.lacma.org info: +1- 212 4233840 info: +1- 212 4233840 www.si.edu/ndm/ info: +1 212 57003951 www.sfmoma.org/

Europa Austria Francia Germania Gran Bretagna Olanda Spagna

Stati Uniti

Los Angeles - UCLA Hammer Museum New York - Metropolitan Museum New York - Museum of Modern Art San Francisco - MoMA

mostredesign Italia

Europa Finlandia Francia Danimarca Germania Gran Bretagna

Stati Uniti

New York - Cooper Hewitt New York - The Metropolitan Museum of Art San Francisco - MoMA

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