architetti napoletani 7 - novembre 2002

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novembre 2002

architettinapoletani

rivista bimestrale dell’ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di napoli e provincia


a proposito di interni a cura di Giuseppe Albanese, Giancarlo Artese, Imma Forino e Titti Rinaldi

A proposito di interni pone l’accento su uno dei più vasti campi d’applicazione della professione, spesso primo approccio sperimentale e linguistico del giovane architetto, in Italia talvolta sua unica occasione progettuale. Argomento complesso, contiene in sé molte altre problematiche, di tipo culturale, politico, economico, tecnico; una ricchezza poliedrica che si è cercato qui di valorizzare insieme alla vitalità di un settore in continua evoluzione, che è intimamente connessa alla società e legata alle più significative interazioni, fisiche, percettive, d’uso e psicologiche, fra l’uomo e l’ambiente costruito, di cui l’abitazione è forse l’espressione più rilevante. Così, il progetto architettonico di uno spazio interno e la sua realizzazione stimolano un nuovo senso dell’abitare come espressione di una cultura fatta di contaminazioni con l’immaginario dei media, l’arte e i valori del nuovo ambientalismo; sull’abitare come specchio delle differenze sociali ed economiche del nostro paese o, ancora, in relazione alle sue possibili evoluzioni favorite dalla tecnologia e dall’uso dei nuovi materiali. Infine, un accenno dai risvolti politici è dedicato a una normativa da cui dipende lo sviluppo di un mercato così importante. Su tutto, la consapevolezza, confermata da un maestro come Umberto Riva, dell’impossibilità di fare separazioni: di qui “l’architettura degli interni”, di là tutto il resto, come se la prima costituisse un genere o, peggio, una sottoclasse. Sperimentare intensamente lo spazio non ammette confini.

Lot/ek, Interno a New York


architettinapoletani rivista bimestrale dell’ordine degli architetti di napoli e provincia numero 7 · novembre 2002

editore Consiglio dell’Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia Paolo Pisciotta Ermelinda Di Porzio Antonella Palmieri

presidente vice presidenti

Gennaro Polichetti

segretario

Gerardo Cennamo

tesoriere

Francesco Bocchino Francesco Cassano Vincenzo Corvino Pio Crispino Giancarlo Graziani Beatrice Melis Gennaro Napolitano Fulvio Ricci Onorato Visone Antonio Zehender

consiglieri

direttore responsabile Paolo Pisciotta direttore editoriale Vincenzo Corvino

in questo numero:

a proposito di interni

giuseppe albanese, giancarlo artese, imma forino e titti rinaldi

responsabile di redazione Giancarlo Graziani comitato editoriale Massimo Calenda Pasquale De Masi Ermelinda Di Porzio Fabrizio Mangoni di S. Stefano Antonella Palmieri

editoriale interno come esperienza

conversazione con umberto riva

guido d’angelo

direzione e redazione Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia via Medina, 63 tel. 081.552.45.50 · 552.46.09 fax 081.551.94.86 http://www.na.archiworld.it e-mail: infonapoli@archiworld.it

a cura di alba cappellieri

super D.I.A.

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case del nord e case del sud

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il nuovo progetto dell’abitare: lo sguardo di Lot/ek

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dalla materia al materiale: nuovi scenari

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lavorare con i materiali riciclati

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pratica come conquista

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in rete

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recensioni

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gerardo ragone

paolo netti e carla langella

maria antonietta sbordone

stampa Grafiche Somma Gragnano, Napoli

francesco felice buonfantino

progetto grafico Anna Della Monica

a cura di salvatore gatti

Il numero è illustrato dalle opere degli artisti Francesco Cappiello, fotografo, Violazioni di domicilio, e Alessandro Papari, pittore.

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argomenti

redazione Antonio Acierno, Giuseppe Albanese, Antonio Ariano, Clotilde Bavaro, Enzo Capone, Alba Cappellieri, Raffaella Celone, Giovanna di Dio Cerchia, Claudio Correale, Marco De Angelis, Carmen Del Grosso, Giovanni Francesco Frascino, Vincenzo Franzese, Salvatore Gatti, Luca Lanini, Aldo Micillo, Giulia Morrica, Mariarosaria Pireneo, Marcello Pisani, Adelaide Pugliese,Francesco Scardaccione, Carlotta Senes, Roberto Vanacore

servizio editoriale e pubblicità Nicola Longobardi Editore via Napoli, 201 Castellammare di Stabia, Napoli tel./fax 081 8721910 e mail: eidosedizioni@libero.it

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Registrazione Trib. di Napoli n°5129 del 28/04/2000 distribuzione gratuita agli architetti iscritti all’albo di Napoli e Provincia, ai Consigli degli Ordini Provinciali degli Architetti e degli Ingegneri d’Italia, ai Consigli Nazionali degli Architetti e degli Ingegneri, agli Enti e Amministrazioni interessate spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96-filiale di Napoli Gli articoli pubblicati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano il Consiglio dell’Ordine né la redazione della Rivista. Di questo numero sono state stampate n° 7.000 copie

in copertina Chiuso in tipografia il 10/11/2002

Lot/ek, Interno a New York


interno come esperienza conversazione con Umberto Riva

Giancarlo Artese: Mi sembra che lo spazio interno venga inteso da lei in maniera particolare, come uno spazio costruito e non organizzato, concepito come una sorta di sottoinsieme, una categoria inclusa in altre. Umberto Riva: Non voglio suddividere l’architettura in generi o classi: ci sono degli arredatori di fronte ai quali c’è da levarsi tanto di cappello ma, tranne Scarpa, tutti hanno visto gli interni come una specie di conseguenza, il risultato di una rappresentazione plastica. Io non sono riuscito mai a distinguere dove iniziava l’una e finiva l’altro, in questo senso direi di aver appreso una lezione organica… penso che le scale siano differenti tra esterno e interno, ma in qualche modo l’esperienza spaziale è sempre riportata all’esperienza di uno spazio interno. Di conseguenza quando bisogna scegliere un’apertura c’è la verifica di questo passaggio, affinché ognuno esalti l’altro e non si danneggino a vicenda. Il tema dell’architettura è il tema della luce, dove meglio la luce può avere una risonanza, un suo riverbero. ga: L’architettura viene disposta, strutturata in base al rapporto con la luce, alla mediazione che si vuole ottenere. C’è qualche caso in cui il rapporto con la luce è stato ancora più determinante? ur: Direi che in tutta l’architettura fatta al sud la luce gioca un ruolo determinante. Qui al nord si fa tanta fatica…

Umberto Riva Nato a Milano nel 1928, si laurea a Venezia nel 1953 e nel 1960 inizia l’attività professionale a Milano. Tra le opere architettoniche si ricordano: la casa per vacanze a Stintino (1960), le case a schiera in Sardegna (1972), una scuola a Faedis (1977-78), casa Miggiano a Otranto (1990-96). Come architetture di interni: l’appartamento per un collezionista (1974), un bar a Milano (1975-76), casa Frea (1983-84), Casa Insinga a Milano (1985), il caffè Pedrocchi a Padova (1994-98). Ha disegnato mobili e lampade per Acerno, Barovier e Toso, Driade, Fontena Arte. Ha insegnato a Palermo, a Venezia e attualmente è docente di Architettura degli Interni a Roma.

ga: Pensavo a casa Miggiano in cui c’è una sorta di smorzamento, di rifrazione continua, e poi a un altro esempio, il negozio a Padova, dove c’è un sistema di aperture in cui la luce naturale viene a fondersi e a mimetizzare quella artificiale… ur: Lì c’è il tema della ridotta potenzialità luminosa che veniva dalla strada stretta, di conseguenza c’era il bisogno di usare un artificio per rafforzare la luce naturale mediante quella artificiale con i pannelli rotanti. ga: Normalmente nel progettare si procede da un elemento “più grande” (la distribuzione delle funzioni), per arrivare attraverso passaggi successivi all’elemento finale, non necessariamente decorativo, ma comunque un dettaglio. Nel suo lavoro sembra esserci piuttosto un percorso in linea, dove il dettaglio non è un punto finale, un’unità minima, ma semmai un punto di rinvio, un rimando ad altro. ur: In effetti spesso mi tirano in ballo la storia del “cultore del dettaglio” e della relativa poetica: il dettaglio è soltanto il rafforzamento di un’idea di cui non è che il commento, il virtuosismo artigianale non è mai fine a se stesso. Solo che sovente per arrivare a una semplificazione più efficace, anche formale, bisogna avere una messa a fuoco di quegli elementi che la possono in qualche modo rafforzare. Per esempio una cerniera, fa che la porta non sia più una porta, ma “un muro” che si

muove: allora ecco che il dettaglio acquista una sua necessità, una sua forza, senza considerare i casi in cui la soluzione particolare trasforma in “qualità” una difficoltà di progetto. ga: A proposito di artigianato, il rapporto con gli artigiani è forse una delle componenti più interessanti del mestiere di architetto… ur: Il punto è che oggi siamo costretti a portare il progetto a un grado di definizione altissimo e, mentre prima la continua verifica era lasciata al cantiere, adesso tutto questo non è più permesso. Così ti chiedono un approfondimento sempre più pertinente alla complessità di quello che si affronta, riducendo via via la possibilità delle verifiche sul campo. Alcuni artigiani a cui mi rivolgo sono ormai come collaboratori: si ha sempre bisogno del conforto di chi ha la consuetudine con i materiali, con una tecnica. Io sono molto “visivo”, illogico, posso anche intuire a volte nella giusta approssimazione un’idea, però mi manca sempre qualcosa, ho sempre bisogno di una conferma. Appartengo alla categoria dei sensitivi, di persone sensibili educate attraverso una consuetudine quotidiana al disegno, per cui certi segni sono sempre carichi di necessità, d’informazione o hanno in nuce certe potenzialità: la forma, nata da una questione puramente visiva, viene a precisarsi secondo approssimazioni successive. Anche nel mestiere di architetto la sperimentazione può non essere scientifica, tecnica ma puramente visiva, per poi trovare nel fare, nel realizzarsi, una sua legittimità. Questo mi conforta, altrimenti sarebbe stato un mestiere che non avrei potuto affrontare… infatti per un anno o due ho fatto il pittore! ga: Cosa ne pensa dell’uso del computer nella progettazione, di questa tecnologia forse non usata come si potrebbe, a disposizione soprattutto dei giovani architetti? ur: Insidioso… è un modo di comunicare estremamente in-eloquente che fa fraintendere i segni, rendendo plausibile ciò che non lo è: il computer dà risoluzioni, ma non delle ipotesi. Io progetto sempre a matita, poi segue una seconda fase al computer; quando qualcuno ha voluto abbreviare il primo passaggio, il risultato è sempre stato riduttivo. È in atto una trasformazione del progetto di architettura e del modo di affrontarlo, sempre di più l’elaborazione è lo studio di un team in cui ormai si lavora per competenze, in cui tutto è fatto per settori. ga: C’è modo di sottrarsi a ciò, secondo lei? ur: Questo non lo so, mi sembra che tutto stia naturalmente cambiando. Gli architetti diventano sempre più degli stilisti, lasciando poi la competenza della sostanza del progetto a tecnici molto più avveduti. L’architettura evidenzia una precarietà: pensi all’opera di Koolhas, di Gehry, architetture destinate a non sopravvivere molto, messaggio diverso rispetto all’architettura tradizionale, intesa come qualcosa che

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ga: Mi piacerebbe parlare del rapporto con il committente e capire da cosa parte nella progettazione: c’è sempre molto ascolto di quelle che sono le sue necessità, la ricerca di una sintonia… poi parliamo della differenza tra committenza privata e pubblica.

ur: Malgrado tutto, preferisco il pubblico al privato, le esperienze con il privato sono sempre state fallimentari, anche dal punto di vista economico. Con il privato si crea un rapporto cordiale, di amicizia, un po’ perché devi fare meno violenza possibile, un po’ perché il mio studio è talmente piccolo che non riesco mai a creare dei filtri tra me e il committente. Poi intervengono desideri legittimi, ma che non hanno niente a che fare con l’architettura, che corrispondono ai loro modelli di comportamento, di qualità spaziale. Quando si è giovani si è condizionati dall’urgenza della realizzazione come grande momento, i progetti devono essere costruiti altrimenti manca la parte uditiva, fisica. Casa Miggiano, ma anche casa Frea, sono state realizzate in condizioni difficili, speciali. Intanto non c’erano soldi, folle lui a darmi il lavoro, folle io ad accettare, non che non sia stato contento ma sono stato costretto a dei rischi, anche se poi tutto è andato bene. L’impresa lì non esiste, ci sono piccoli gruppi di artigiani, un capo operaio, la lettura dei disegni è inesistente, ma c’è la disponibilità a discutere, perché le difficoltà dovute a inesperienze e fattori economici precisi hanno obbligato a ridurre il ventaglio di possibilità e di errore, non si poteva sbagliare. Da parte mia, un po’ perché andavo al sud, un po’ perché da dieci anni non vedevo un cantiere, ero contento di poterlo fare anche gratuitamente. Riguardo alle scelte, le dirò che gli elementi principali sono il sito, poi il “tema”, infine quello che mi viene richiesto. Questi elementi vengono poi elaborati, anche se spesso sento dirmi che ogni mia architettura è diversa dall’altra. Penso che l’architettura sia un opera di paesaggio, di conseguenza c’è da fare tesoro di quelle situazioni ambientali, economiche o di destinazione che alla fine risultano dei veri elementi formativi. Su tutto, poi, c’è sempre il tema della luce, di una esperienza spaziale che non trovi mai una sua risoluzione ma che sia come un

Alessandro Papari, Tavolo 1, 2001

Alessandro Papari, Tavolo 2, 2001

il tempo doveva arricchire nei materiali, nella luce. Adesso è il contrario: penso a edifici che nascono già come rovine, come un mucchio di rottami o come macchine, veicoli che dallo splendore iniziale sono portati rapidamente a deteriorarsi a causa dell’aggressività del tempo e dell’uso. Anche l’uso dell’architettura è completamente cambiato, la gente non vuole più fare un’esperienza, mentre il problema del degrado rapido, del vandalismo sono tutte nuove componenti del progetto di architettura, così l’artigiano è sempre più destinato a diventare un tecnico… bisogna essere preparati a ciò. ga: Un altro degli elementi che stanno cambiando è il tempo, quello necessario a progettare e costruire. Come si è adattato il suo metodo di lavoro, fatto di verifiche, di avvicinamenti successivi, a tutto ciò? ur: Molto aiuta anche l’esperienza e poi la mia formazione, che è stata singolare. Sono sempre stato abbastanza marginale, dopo un inizio brillante, come possibilità. Tra gli anni ’60 e ’70, lavoravo da solo, facevo tutto io: i lavori erano pochi ma mi permettevano di sopravvivere, ero ambizioso solo nella misura in cui mi interessava il progetto e la sua possibilità di riuscita, non professionalmente… sono sempre stato uno ai margini. ga: Questa, alla fine, è stata una forza. ur: Sì, come quando per fare una casa ci ho impiegato quasi due anni, oggi non sarebbe pensabile… oggi uscirebbe un progetto già completamente elaborato, dove tutte le verifiche sono già state affrontate in studio: sì, è diventata una forza nella misura in cui c’è stata una continuità tra vita e lavoro.

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continuum. È difficile che io faccia una forma quadrata in cui ci si pone in mezzo, c’è sempre qualcosa che si scopre solo in un’ esperienza temporale, cioè spazio-temporale, attraverso un percorso. ga: Qualcosa che lasci un margine di incompiutezza, di apertura… ur: …di non finito, il privilegiare angoli acuti e ottusi per la loro potenzialità, questi gli elementi che interagiscono con la parte legata ai materiali, ai costi. Con il privato questo discorso è più difficile, con il pubblico, se si osservano le richieste e se non si viene meno al budget, alla destinazione, alla fine si viene accettati. ga: Un momento importante è quello della prima verifica in cui si alzano i muri e si inizia a percepire questo involucro e si vede se funziona o no, se è quello che ci si aspettava che fosse. ur: Chi ha la capacità riesce già dal disegno, anche solo da una pianta, a controllare il dimensionamento, la proporzione, la qualità spaziale. Io lavoro per piante e sezioni in cui la qualità formale, visiva, del disegno nel suo continuo è una garanzia. Trovo che un progetto in cui c’è una brutta pianta, una brutta sezione, al 90% è anche un brutto progetto. Non lavoro quasi mai in prospettiva, adesso lavoro con i plastici ma non ho nessuna capacità manuale. Un buon progetto ha di solito anche dei bei disegni, in cui i segni vanno a un certo punto al di là della loro espressione informativa, per diventare elemento autonomo puramente visivo: il segno finisce per rappresentare il condizionamento della fisicità del materiale supposto o esistente.

ga: Il disegno dà anche la possibilità di maturare quello che si sta facendo, quello che viene fatto in cantiere può essere anticipato nel disegno. ur: Necessario. Io sono sempre “fuori tempo”, però so che c’è un tempo di meditazione che proprio non può essere abbreviato se si vuole che certe scelte abbiano possibilità di essere verificate. ga: Questo discorso del tempo, di difficoltà legate alla sua esperienza, ci porta a un altro problema che è quello del delegare. ur: Il problema è che a delegare si fa una fatica bestiale, tu fai un approfondimento e poi lo interrompi, poi vai avanti, poi lo riprendi: quando lo faccio da solo, il processo è più continuo perché un segno implica sempre delle potenzialità di altri segni, per associazione, per contrasto… non delego mai. Da me infatti i collaboratori vengono, imparano, poi a un certo punto se ne vanno, giustamente: per loro sarebbe mortificante rimanere sempre in un ruolo subalterno e per me sarebbe punitivo rinunciare a questo tipo di piacere che mi fa stare bene. ga: C’è un delegare diverso che non è quello del lasciar progettare, ma che è legato alla scelta dell’arredo… ur: Casa Frea l’ho fatta venti anni fa, venivo da un momento in cui ero stato anni senza lavorare… finisce che, poveri privati, l’architetto dà all’esperienza professionale un investimento legittimo, si vuole arrivare fino al colore del tappeto, però io cerco nella ristrutturazione di intervenire in parti sostanziali che danno carattere formativo allo spazio, e poi l’arredamento è una conseguenza ma non così influente… poi uno la casa deve farsela a sua immagine e somiglianza.

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super D.I.A. Guido D’Angelo*

La recente legge regionale sulle procedure edilizie ha comportato qualche modifica e varie conferme della legislazione statale vigente in materia. Si pone quindi un primo quesito: nel caso di norme non compatibili tra loro, si deve applicare la norma statale o quella regionale? A mio avviso, per quanto riguarda le norme in questione, prevale la normativa regionale perché non si tratta di differenze coinvolgenti princìpi fondamentali della legge statale (anche se questi, purtroppo, si devono desumere, in quanto non sono stati indicati dalla legislazione statale). Alcune differenze si trovano nella disciplina delle procedure per il rilascio delle concessioni edilizie, che riproduce sostanzialmente la normativa di cui alla legge 662 del 1996. In proposito, la nuova legge regionale ha introdotto le seguenti modifiche: 1) è stato eliminato il raddoppio dei termini per i Comuni con più di 100.000 abitanti; 2) la nomina del Commissario, in sostituzione del Comune inadempiente, è affidata al Presidente della Provincia o della Comunità montana (e non della Regione); 3) il Commissario, ove non riceva entro 10 giorni il parere degli organi comunali, può rivolgersi a professionisti esterni. Una novità importante consiste nell’eliminazione della necessità della previa approvazione dei programmi pluriennali di attuazione ai fini dell’approvazione dei piani urbanistici esecutivi (lottizzazioni comprese). La legge regionale ha anche recepito la parte della cosiddetta legge obiettivo, riguardante l’estensione dei casi in cui si può costruire previa semplice denunzia di inizio attività. Anzitutto, si consente la d.i.a. per le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e ricostruzione “con lo stesso ingombro volumetrico”. La formulazione della legge statale sembra più restrittiva, in quanto richiede che il nuovo fabbricato riproduca anche la sagoma dell’edificio demolito. L’indicata norma regionale determinerà contrasti interpretativi, in quanto la possibilità di modificare la sagoma, sia pure a parità di volume complessivo, potrebbe consentire progetti non

riconducibili al concetto di ristrutturazione edilizia (come definito dall’art. 31 legge 457/1978 e ora dall’art. 3 del nuovo testo unico per l’edilizia). La possibilità della d.i.a. è prevista in altri casi, indicati con la medesima formulazione nella richiamata legge statale, nota con lo slogan “padroni in casa propria”. Si tratta di norme di difficile applicazione e infelicemente formulate. Per esempio, la d.i.a. sarebbe possibile qualora il progetto (anche di nuovi edifici) fosse conforme alle norme di un piano urbanistico attuativo, consistenti – secondo un’esplicita dichiarazione del Consiglio comunale – in “precise disposizioni planovolumetriche, tipologiche, formali e costruttive”. È strano poi che questa d.i.a., anche per nuove edificazioni, potrebbe essere sufficiente qualora le dette disposizioni fossero in piani urbanistici non attuativi (e, in questo caso, senza bisogno della detta dichiarazione del Consiglio comunale: gli avvocati ringraziano!). Invece – e questa è una delle strane aggiunte della legge regionale – anche una piccola modifica della sagoma del fabbricato esistente è sempre soggetta a concessione edilizia, ove comporti una modifica della destinazione d’uso. Di fatto, la novità più importante introdotta dalla legge regionale riguarda la materia dei parcheggi pertinenziali. La nuova legge consente anche alle imprese edili di realizzare parcheggi interrati in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, pure in aree libere non di pertinenza di lotto già edificato. In questi casi le imprese hanno tre anni di tempo per costruire i parcheggi e altri tre anni per venderli in regime di pertinenzialità a proprietari di unità immobiliari esistenti. Trascorsi i detti sei anni, i posti auto non venduti saranno confiscati dall’Amministrazione comunale. Agli avversari dei parcheggi io direi: “preoccupiamoci, invece, che sia garantita la conservazione della destinazione a parcheggio”. * Professore ordinario di Diritto Urbanistico Università di Napoli “Federico II”

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case del nord e case del sud Gerardo Ragone*

Chiunque abbia osservato con un po’ di attenzione e con un minimo di competenza gli interni delle abitazioni del nord e del sud dell’Italia avrà sicuramente ricevuto l’impressione che, almeno per quanto riguarda le abitazioni del ceto medio, nel sud questi interni sono, in linea generale, peggiori che nel nord del paese. Peggiori sia nel senso di minor pregio degli arredi, sia nel senso di minore coerenza formale tra il tipo di abitazione e il tipo di arredamento. A Napoli, ad esempio, sorprende non poco che in molte abitazioni delle zone ricche, quelle abitate dalla borghesia benestante, si incontrino molto spesso arredamenti di gusto assai discutibile. Sorprende, in altri termini, la contraddizione tra il valore dell’immobile, che in queste zone oscilla all’incirca tra i sette e i dieci milioni al metro quadro, e il valore dell’assortimento di mobili e oggetti in essi contenuti. Naturalmente brutti interni si vedono dovunque, a Napoli come a Milano o a Genova, ma è diffusa la sensazione che, in questa particolare fascia della stratificazione sociale, i meridionali commettano più errori dei settentrionali nell’arredare le loro case. Se questo è vero, se cioè quest’impressione, colta magari anche al livello epidermico, fosse esatta, può essere interessante chiedersi da che cosa dipenda questa differenza di gusto. Si sarebbe subito portati a rispondere che la questione è soprattutto di natura economica, poiché, essendo il sud più povero – o, se si vuole, meno ricco – del nord, è del tutto normale che la spesa per arredamento sia più bassa e che, quindi, alla fine, gli arredamenti delle abitazioni di Napoli o di Salerno o di Catania risultino perdenti nel confronto con quelli delle abitazioni di pari status di Genova, Torino o Bologna. Il che è certamente vero, solo però se si fa riferimento alle fasce medio basse e basse della popolazione, solo, cioè, dove il costo complessivo di un arredamento incide notevolmente sul reddito disponibile della famiglia. Nelle fasce medie e medio alte di popolazione, che sono invece quelle che qui ci interessano, poiché l’incidenza di questa spesa sul reddito è minima tanto a Napoli quanto a Milano, le ragioni del divario nel gusto vanno individuate da qualche altra parte e, in particolare, in differenze di natura sociale e culturale. Vediamo di che cosa si tratta. Comincerei intanto con l’osservare che, in generale, il consumatore delle aree settentrionali del paese, oltre a disporre generalmente di maggior reddito discrezionale (quella parte di reddito, cioè, che può essere spesa senza compromettere i bisogni essenziali di un soggetto o di una famiglia) presenta anche un grado di mobilità territoriale maggiore rispetto al consumatore meridionale; è infatti un soggetto che, per ragioni di lavoro, ha cambiato spesso residenza e che, molto frequentemente, proviene da altre regioni fra cui, soprattutto quelle del Mezzogiorno. Ciò significa che questo consumatore non ha più forti radici culturali, e questa sua particolare caratteristica lo rende sicuramente più disponibile a seguire i suggerimenti

Francesco Cappiello, Interno, Napoli 2000.

della pubblicità e dei mass media in generale. Voglio dire, in particolare, che egli apprende stile di vita e modelli di consumo non tanto dalla tradizione della comunità di appartenenza, dalla quale si è ormai decisamente separato, quanto da fonti di informazione esterne, più universali e legate soprattutto al mercato, quali sono, appunto i mezzi di comunicazione di massa. Se tutto ciò ha sicuramente effetto sulle sue preferenze riguardo ai consumi in generale, lo ha in misura maggiore riguardo all’arredamento, che, come è noto, fra tutti i tipi di acquisti è quello più delicato e impegnativo, se non altro perché definisce rigorosamente lo status sociale. È evidente, inoltre, che se questo soggetto dispone anche di reddito discrezionale, cosa peraltro abbastanza normale nel ceto medio, non è improbabile che sarà anche disposto a lasciarsi guidare da un esperto in questa difficile operazione che è l’arredamento di una casa. Caratteri un po’ diversi presenta invece il profilo del consumatore meridionale. Dispone, infatti, di minor reddito discrezionale, il suo grado di mobilità territoriale è più basso e, per conseguenza, ha più profonde radici nelle tradizioni della comunità d’origine. Diversamente, quindi, dal consumatore settentrionale, quest’altro tipo di consumatore è relativamente

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meno sensibile all’influenza dei media e si lascia più facilmente guidare dalla tradizione nella scelta dei beni, soprattutto per quelli di più alto costo. È quindi improbabile che per le decisioni di acquisto riguardanti l’arredamento egli decida di ricorrere a un esperto, anche perché è la sua stessa tradizione culturale a fornirgli il modello di orientamento necessario, modello rappresentato spesso dalla classe superiore con cui è in contatto. In altri termini, se limitiamo queste considerazioni alle sole fasce di reddito che, tanto al nord quanto al sud, possono sostenere il costo di un consulente per l’arredamento degli interni, vediamo che, in linea molto generale naturalmente, la famiglia settentrionale si rivolgerà senza difficoltà a questa particolare figura professionale, mentre quella del sud tenterà di imitare stili e gusti delle classi sociali superiori, scavalcando quindi i suggerimenti dell’esperto. Il punto da sottolineare, però, è che poiché questo tipo di imitazione non è affatto semplice e poiché, inoltre, la suggestione esercitata dai nuovi prodotti e dai nuovi stili di interni è, comunque, molto forte, il risultato consisterà il più delle volte in un discutibile compromesso tra vecchio e nuovo, tra tradizione e innovazione, tra i rigidi canoni del gusto aristocratica e le fluide solu-

zioni della produzione industriale. Ecco perché, come si diceva precedentemente, in molte case ricche di una città come Napoli si incontrano spesso arredamenti deludenti. Sicuro, infatti, di poter copiare i modelli di arredo privilegiati e convinto, per questo motivo, di poter fare a meno della consulenza di un esperto, il consumatore benestante della società meridionale finisce spesso per commettere un gran numero di errori nell’assortire mobili, oggetti, quadri e tappezzerie, compromettendo anche, in questo modo, le sue aspirazioni di status. Al posto del “salotto buono” si ritrova così, senza volerlo, con un vero e proprio “salotto cattivo”. Per quanto riguarda invece il consumatore con minore disponibilità di reddito, credo che sia quello del sud che quello del nord non possano sostenere il costo di una consulenza, anche perché si tratta di un costo generalmente piuttosto elevato. In questi casi, però, ciò che ha un ruolo determinante è piuttosto la qualità dell’offerta commerciale, che sicuramente nelle aree settentrionali è di gran lunga superiore a quella delle aree meridionali. Nei grandi supermercati di arredamento, presenti su quasi tutto il territorio settentrionale, si trova infatti un’offerta di buon livello estetico e funzionale e anche a prezzi ragionevolmente accessibili. Questo tipo di distribuzione è invece meno presente nel Mezzogiorno, cosa che obbliga il consumatore di questa parte del paese ad accontentarsi generalmente di ciò che offre il dettaglio tradizionale, un’offerta, come è noto, spesso meno qualificata e anche più costosa. Né meglio vanno le cose in questa parte del paese quando a offrire consulenza sono gli stessi rivenditori, i cui suggerimenti si limitano generalmente a questioni tecniche riguardanti per lo più il dimensionamento degli arredi rispetto alle quadrature dell’ambiente. Credo, pertanto, che si possano concludere queste brevi note ribadendo che le differenze che si incontrano oggi tra il nord e il sud del paese riguardo alla qualità degli interni delle abitazioni private derivino sia da fattori di natura economica, che da fattori di natura sociale e culturale. Considerando però che il divario tra queste due parti dell’Italia non sembra destinato a ridursi, almeno nel breve periodo, bisognerà rassegnarsi a riconoscere nei prossimi anni la persistenza di un notevole scarto tra la qualità media degli interni della casa settentrionale e quella della casa meridionale.

* Professore ordinario di Sociologia Università di Napoli “Federico II”

Francesco Cappiello, Interno, Napoli 1999.

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il nuovo progetto dell’abitare: lo sguardo di Lot/ek a cura di Alba Cappellieri* Betoniere metalliche trasformate in eremi casalinghi di tecnologia, contenitori per detersivo che si accendono in caleidoscopiche luci da tavola, serbatoi per combustibile che arredano eleganti loft metropolitani, containers convertiti in ristoranti e lavelli in librerie, colorate piste da pattinaggio impiantate in cisterne dell’acqua e padiglioni universitari in carlinghe d’aereo. È solo una parte della produzione di Lot/ek, il gruppo fondato dai napoletani Ada Tolla e Giuseppe Lignano che figura, con Diller+Scofidio, gli Shop o gli Asymptote tra i principali esponenti dell’avanguardia architettonica newyorchese, quella riconosciuta e consolidata dall’establishment del MoMA che ne ha presentato alcuni lavori alla mostra delle Workspheres e in numerosi altri eventi. Lot/ek è l’acronimo di Low Technology, un apparente ossimoro dove il low viene dall’uso di oggetti industriali privi di qualsiasi appeal artistico che vengono poi recuperati, contaminati e trasformati in singolari pièce unique. Il tech rappresenta l’attenzione alle tecnologie in relazione alla loro capacità di coinvolgere, plasmare e dematerializzare lo spazio. È la forma stessa dell’oggetto a evocare ai Lot/ek nuove funzioni e destinazioni d’uso. Una volta decontestualizzati betoniere, vagoni, contenitori di detersivi si fondono nello spazio architettonico come sculture originali e innovative che rimandano alle sperimentazioni di Duchamp e dei suoi ready made, ai materiali di scarto dei Nouveax Réalistes o alla spettacolarizzazione dell’oggetto negli happening di Naumann, Kaprow o Vito Acconci. Ma anche al recupero dell’esperienza urbana di una metropoli come New

York ed è a tal proposito meritoria la rinuncia dei Lot/ ek al côté ecologico conferito dalla riciclabilità degli oggetti, che seppure depositario di un intrinseco plusvalore etico e politico, contaminerebbe, indebolendole, la volontà creativo-progettuale e la capacità rappresentativa dell’oggetto. Alba Cappellieri: Come sono nati i Lot/ek? Ada Tolla: Dopo un lungo viaggio per gli Stati Uniti che Giuseppe e io abbiamo fatto immediatamente dopo la nostra laurea napoletana e dopo la borsa di studio del CNR che ci ha permesso di studiare qui a New York per un anno. L’ispirazione fondamentale in questa realtà americana è legata – tuttora – all’osservazione di quello che nel tempo abbiamo definito come “Artificial Nature”, ossia tutto ciò che è prodotto e pensato dall’uomo e che si sviluppa, al livello urbano e suburbano, indipendentemente dal controllo di designer, architetti, urbanisti, ma che risponde ad altri tipi di esigenze, funzionali, legali, economiche. Pensiamo a tutto quello che in una città si sviluppa e cresce sull’architettura, tra l’architettura, in maniera indipendente, a volte violenta e quasi sempre parassitaria, pensiamo alle arie condizionate e i tubi che emergono da facciate di palazzi, alle scale di ferro antincendio attaccate addirittura a facciate dell’inizio del secolo scorso (per esempio quelle di Soho), ai cartelloni pubblicitari o agli schermi digitali che si infiltrano nelle prospettive urbane. Tutto ciò che non è considerato “architettura” canonicamente, ma che fa sicuramente parte del panorama architettonico urbano e suburbano.

Lot/ek gruppo di architetti fondato dai napoletani Ada Tolla e Giuseppe Lignano. Lo studio, con sede a New York, opera principalmente nel campo degli interni e figura tra i principali esponenti dell’avanguardia architettonica newyorchese.

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A partire da ciò, abbiamo iniziato a lavorare con “oggetti” già esistenti, oggetti industriali che appartengono al nostro presente, importandoli nel mondo dell’architettura, e trasformandoli per rispondere a specifici programmi di progetto. Siamo subito stati interessati al dialogo che si stabilisce a livello creativo con questi oggetti, con la loro dimensione, struttura, colore, spazio, con la loro storia precedente. E poi al dialogo con le tecnologie. Tecnologie che esprimono anche esse la nostra condizione presente, soprattutto in forma di desiderio. ac: Quali tra i vostri lavori considerate più rappresentativi e perchè? at: Non facciamo differenza tra un lavoro e l’altro. Lavoriamo a livello commerciale con committenti di diverso tipo e anche in campo artistico, con musei e galleristi. In entrambi i casi la metodologia è la stessa. Affrontiamo i progetti in maniera concettuale e al tempo stesso reale. Questo a prescindere dalla differenza di scala o di destinazione. ac: Nelle vostre opere di architettura gli interni sono caratterizzati dal recupero di oggetti industriali inizialmente destinati a usi completamente diversi, come l’auto cisterna nel Morton Loft e il container della Guzman Penthouse. Qual è la vostra concezione di spazio interno e a quali parametri deve rispondere? at: L’approccio che abbiamo nei confronti dei progetti di spazi interni è di partire dalla “pulizia” dello spazio dato. Cercare di riportare in luce l’architettura esistente, aprirla il più possibile e trattarla in maniera molto semplice. L’introduzione degli oggetti industriali è la risposta al programma. Gli oggetti sono scelti e usati per le loro qualità spaziali e per la loro potenzialità funzionale. Il programma si sviluppa

attorno alla loro presenza. L’oggetto infiltra lo spazio, essendo chiaramente riconoscibile come un’entità diversa dall’involucro dell’esistente. E poi si muove e trasforma per rispondere alle varie esigenze programmatiche. Il desiderio è, specialmente lavorando in spazi industriali tipo loft, di creare spazi aperti, che però permettano, al tempo stesso la salvaguardia della “privacy” all’interno di queste enclosures. Il caso del loft di Morton è alquanto esemplare: lo spazio è completamente libero, i volumi chiusi sono solo i due pezzi della cisterna di benzina, quello verticale che contiene i due bagni, e quello orizzontale che contiene le due camere da letto. ac: In alcuni vostri lavori, penso al Jones studio, la separazione funzionale viene definita attraverso materiali diversi. Che ruolo hanno i materiali nei vostri progetti? at: Ci interessa lavorare con materiali diversi. Con materiali nuovi – almeno per l’architettura –. Ci interessa capirne le potenzialità tettoniche e sperimentarne le potenzialità. In progetti più recenti abbiamo lavorato molto con cast di gomma o di resina. Adottando lo stesso tipo di metodologia. Generalmente utilizzando come forme degli oggetti già esistenti, e così condizionando i nuovi volumi di materiali altrimenti fluidi e informi. Mi riferisco ad esempio a una nuova collezione di lampade che abbiamo realizzato colando gomma all’interno di forme di plastica di pacchi nei quali sono stati inseriti dei tubi di neon, la forma che contiene i vari componenti di un nuovo telefono cellulare, o di parti del computer... insomma, quelle strane vasche e vaschette di plastica sottile che vengono fuori dai vari scatoli di prodotti vari. Queste lampade si chiamano Lite-Scapes, con riferimento alla complessità delle forme stesse e al forte referente a blocchi di città.

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ac: Al di là della chiara provocazione che scelte del genere comportano è evidente che sta cambiando l’idea dell’abitare. L’adozione di elementi industriali in ambienti domestici implica anche una rivisitazione di alcune funzioni tradizionali dell’abitare, come quello della camera da letto, ad esempio. Come ha reagito il cliente all’idea di dormire in una cisterna da benzina? at: Ne è entusiasta! In qualche modo credo che si tratti solo di una “poetica” diversa, più corrente, più contemporanea. È una poetica che parte dal mondo presente, che appropria e trasforma un oggetto assolutamente banale, stabilendo una sorpresa oltre che una provocazione, e permettendo la rivisitazione dell’oggetto stesso e del suo valore sociale, qualitativo, pop.

at: Posso solo rispondere al livello molto personale. Credo che questo mondo – gli Stati Uniti – sia estremamente aperto e ricettivo a soluzioni sperimentali nonchè provocatorie. L’Italia è un paese con troppa storia. È un fardello troppo meraviglioso e troppo grande da spiazzare, non credo ci sia molto spazio per interventi moderni. Non credo ci sia ancora sensibilità per il moderno. Le città sono trattate purtroppo sempre più come musei – intoccabili – e sembra che si neghi l’essenza stessa della loro forza e bellezza, cioè la stratificazione storica. Chissà perchè dopo secoli in cui si è costruito e ri-costruito sugli stessi territori urbani, conservandoli, alterandoli e violentandoli anche, a questo nostro momento non è data la possibilità di dire la propria, adesso bisogna solo proteggere, sembra proprio che del moderno non ci si fidi!

ac: Quali sono le principali differenze nel fare architettura negli Stati Uniti rispetto all’Italia?

ac: Nei vostri progetti esiste traccia delle precedenti memorie napoletane o siete seguaci della tabula rasa? at: Se penso allo spazio interno istintivamente penso a spazi come le cave di tufo napoletane; sei mai stata nella grotta che portava alla spiaggia di Trentaremi? Uno spazio assolutamente buio, enorme eppure quasi impercettibile, illuminato da violente fessure nella roccia e dalle loro rispettive lame di luce, uno spazio a cui ho reagito quasi visceralmente, apprezzandone la forza astratta. ac: Quali sono i vostri progetti attualmente in corso? at: Stiamo per iniziare la costruzione di un centro d’arte, la Bohen Foundation. Un centro che funziona in maniera particolare, quasi un anello tra artista e museo. La fondazione sponsorizza ed espone opere e installazioni di giovani artisti, generalmente di una scala più grande e più complessa di quella che potrebbe essere realizzata attraverso una galleria d’arte o dall’artista stesso. E infine dona le opere a diversi musei di arte contemporanea. La fondazione ha comprato uno spazio su due livelli in un vecchio edificio industriale a Manhattan. Il nostro lavoro è stato di sviluppare un progetto che permettesse estrema flessibilità spaziale e quindi di programmazione (per l’esposizione di lavori più convenzionali – quadri, disegni, sculture – o di istallazioni multimediali, ecc.). Il progetto è nato dalla volontà di creare uno spazio simile a quello di un studio televisivo o cinematografico, in cui un infinito numero di configurazioni permette allo spazio espositivo di trasformarsi continuamente. Shipping containers contengono le funzioni di ufficio e amministrative della fondazione, muovendosi anche essi in posizioni diverse a secondo delle varie configurazioni. E poi stiamo lavorando assieme a due musei alla costruzione di un prototipo del MDU (Mobile Dwelling Unit), costruito a partire da uno shipping container, trasportabile attorno al mondo e inseribile in strutture verticali (funzionalmente simili a un porto) da collocare nelle maggiori aree metropolitane del mondo. * Critico di architettura


dalla materia al materiale: nuovi scenari Paolo Netti* e Carla Langella L’innovazione dei materiali costituisce un nodo di complessità attorno al quale gravitano esperienze costruttive, idealismi estetico-culturali, problematiche tecnologiche, tradizioni, dinamiche politico-economiche e valori sociali. I materiali innovativi hanno da sempre attirato l’attenzione dell’architettura e in particolare del design. Negli anni sessanta, per esempio, a meno di un decennio dalla scoperta delle nuove plastiche sintetiche che avrebbero rivoluzionato il vivere quotidiano, si è avuta una vivacizzazione del settore del design proprio per l’applicazione di questi nuovi materiali. L’interazione tra architettura e materiale è destinata a essere più complessa e profonda con l’avvento dei nuovi materiali che presentano grandi potenzialità sia da un punto di vista tecnico che espressivo. L’utilizzo dei nuovi materiali però richiede di modificare radicalmente l’approccio al materiale e al progetto, con l’adozione di un nuovo paradigma progettuale. Progettare con i materiali tradizionali come legno, pietra e ferro, così come si trovano in natura significa, oggi come in passato, lavorare con sistemi perfettamente riconoscibili caratterizzati da proprietà estetiche, prestazionali e di lavorabilità ben note che li differenziano l’uno dall’altro. Oggi i nuovi materiali possono essere progettati su misura (tailored) per soddisfare richieste molto specifiche da coloro che Manfred Eigen ha definito gli “architetti delle molecole”. I progettisti dei materiali sono, infatti, in grado di definire o modificare le prestazioni di un materiale, a seconda delle esigenze, intervenendo sulla loro funzionalità, processabilità, sull’aspetto e perfino sul contenuto di informazione incorporata. La possibilità di manipolare le strutture atomiche, molecolari e macromolecolari ha permesso di inventare infiniti nuovi materiali con prestazioni sempre più specifiche. La flessibilità apportata da tale rivoluzione apre possibilità completamente nuove ai designer che non sono più tenuti ad adeguarsi ai limiti imposti dalle proprietà dei materiali, ma a definirne le funzioni a priori. Oggi l’industria offre ai progettisti nuovi materiali che consentono di sperimentare infinite soluzioni tecniche e formali. Raramente, però, accade che tali potenzialità vengano realmente sfruttate a pieno. Sul mercato esistono già materiali a elevate prestazioni come: superpolimeri, compositi avanzati, leghe speciali, ecc., nati per altre applicazioni che, trasferiti ai settori del design e dell’architettura, permetterebbero ai progettisti di ottenere l’unione perfetta tra struttura, disegno e funzione. Le potenzialità dei materiali innovativi consentono non solo di ottenere un’efficienza funzionale, in passato impensabile per un unico materiale, ma anche di ricavare nuovi stimoli formali ed estetici e nuovi strumenti simbolici. D’altra parte l’innovazione tecnologica non sempre riesce a tradursi in innovazione di progetto; ciò si verifica, infatti, solo in quei casi in cui l’abilità del progettista consente di ottenere dall’introduzione di un nuovo materiale una rivoluzione non solo di tipo funzionale ma anche

culturale ed espressiva. L’innovazione tecnologica si fa, dunque, tramite o strumento di quei cambiamenti di gusto e di linguaggio che spesso emergono proprio nei settori del design e dell’architettura e che in qualche modo finiscono con l’influenzarli. Un tale approccio è perseguibile, però, soltanto quando l’innovazione proviene da un fitto dialogo tra ricerca, fabbrica e laboratorio artigianale e dunque tra qualità e flessibilità Progettabilità totale. Lavorare con i materiali progettabili vuol dire poter controllare l’intervento progettuale a tutte le scale, da quella dell’inserimento urbanistico a quella dell’edificio, fino a giungere alla scala del dettaglio. Questo concetto richiama il principio ologrammatico della complessità sul quale si basano gli organismi viventi: ogni cellula, anche la più modesta, nel suo insieme contiene l’informazione genetica di tutto l’organismo. Analogamente agli organismi viventi l’edificio può essere interpretato come un sistema in cui tutte le parti collaborano, in maniera integrata a una stessa strategia globale estesa agli infiniti livelli che vanno dal micro al macro. Come se ogni elemento, anche il più piccolo dettaglio, invece di costituire solo un frammento dell’insieme globale, ne riflettesse specularmente l’intera immagine.

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Chiesa di Notre Dame de l’Arche d’Alliance a Parigi


Intelli-GelTM messo a punto dalla EdiZONE.

Plurisensorialità. A dispetto di una maggiore conoscenza, il nostro rapporto con la materialità, con la tattilità e con la consistenza appare sempre più distaccato e trascurato. Tra i cinque sensi la società moderna tende, prevalentemente, a privilegiare la vista. Tra i sensi la vista, infatti, è quello più freddo e razionale. Insieme all’udito, costituisce la sfera più incorporea del sentire che si contrappone a quella più fisica e carnale della percezione relativa al tatto, all’olfatto e al gusto che richiedono un contatto concreto e corporeo. L’olfatto e il tatto sono, infatti, i sensi dell’intimo, delle emozioni più carnali. Un progetto che sia attento al rapporto con i materiali deve tenere conto del fatto che il relazionarsi dell’uomo con i materiali avviene attraverso tutti i sensi. Leggerezza. Sia nel design che nell’architettura la leggerezza diventa un requisito sempre più importante. Adrian Beuers ed Ed van Hinte sottolineano che la più antica, ma anche la migliore strategia progettuale per ottenere strutture leggere consiste nel differenziare e separare le funzioni delle parti costituenti. La leggerezza non dipende soltanto dalla scelta di materiali leggeri ma deve essere coordinata a precise strategie strutturali. In architettura uno dei più grandi maestri della leggerezza è stato Buckminster Fuller che ha dedicato la sua vita alla ricerca su questo tema, inventando persino un vocabolario ad hoc, che comprendeva termini come tensegrity e dymaxion per esprimere quelli che riteneva i principi ideali del costruire. Su questi principi si basano le strutture a tenda e a membrana, di origine antichissima su cui si ispirano i principi progettuali utilizzati per il Millenium Dome di Greenwich progettato da Richard Rogers. Tra i materiali innovativi destinati ai settori del design e dell’architettura i materiali compositi offrono le maggiori potenzialità. La caratteristica principale dei compositi è l’anisotropia, che consente di ottimizzare l’impiego dei materiali, posizionando le fibre di rinforzo in determinate direzioni consentendo una progettazione integrata del sistema. I compositi sono progettabili mediante la combinazione di diverse matrici e rinforzi fibrosi, ma anche mediante la definizione di molteplici parametri come caratteristiche e concentrazione delle fibre, scelta delle tecnologie di produzione, aspetti morfologici. È necessario che i progettisti intenzionati ad adottare questo tipo di soluzioni si approprino delle relazioni che intercorrono tra tali variabili e le prestazioni risultanti. L’introduzione di un’innovazione coinvolge inevitabilmente il linguaggio formale e determina la nascita di nuovi strumenti espressivi. Generalmente questo fenomeno avviene in maniera graduale: le nuove opportunità vengono applicate in maniera innovativa soltanto dopo un iniziale periodo nel quale i nuovi materiali vengono utilizzati in sostituzione di altri materiali con soluzioni linguistiche mutuate da essi. La sostituzione di materiali esistenti con i nuovi però non deve mutuare pedissequamente le

logiche progettuali. Per sfruttare a pieno le potenzialità offerte dai nuovi materiali, quali ad esempio flessibilità, libertà espressiva, leggerezza, facilità e rapidità di messa in opera, è necessario adottare una nuova filosofia progettuale. Un esempio caratterizzato da un uso anche “figurativo” dei materiali compositi è costituito dalla chiesa di Notre Dame de l’Arche d’Alliance a Parigi, progettato da Architecture Studio. I progettisti in questo caso hanno scelto di utilizzare un materiale e un trattamento di finitura inconsueti in architettura ma figurativamente molto autonomi e riconoscibili. Interattività. Spesso gli edifici, da contenitori limitati da muri, divengono luogo delle interrelazioni tra l’uomo e l’ambiente, dove il costruito non è più sordo e inerte ma diviene un’entità vibrante e reattiva. Gli edifici assomigliano sempre più a un organismo dotato di un complesso sistema nervoso, costituito da elementi sensibili con i quali l’uomo può interagire, capaci di adattarsi ai suoi modi di vivere. I muri, ad esempio, possono smaterializzarsi fino a divenire membrane sottili ma sensibili come la pelle. Peso e massa sembrano lasciare spazio a una nuova proprietà: l’intelligenza. Il “sistema nervoso” degli edifici può essere costituito da sensori e attuatori che gli conferiscono la capacità di percepire luci, suoni, odori, oltre che sollecitazioni termiche o meccaniche. Viene così rivoluzionato uno dei postulati estetici posti alla base della cultura occidentale che vede l’edificio come oggetto in opposizione alla provvisorietà del divenire. L’oggetto viene inglobato nell’incertezza, nella mutevolezza nella fugacità del vivere umano. Su queste tematiche, architetti e designer si confrontano ormai da diversi decenni, a partire dalla ricerca degli Archigram in Inghilterra, dei Metabolisti in Giappone, dei Situazionisti in Francia e di Archizoom e Superstudio in Italia. Un esempio di edificio dotato di interattività è la mediateca progettata da Koolhaas e Karlsruhe che consiste in una sorta di arena darwiniana nella quale le immagini si incontrano scomponendosi e ricomponendosi come organismi viventi. Notissimo è l’esempio della facciata progettata da Jean Nouvel per l’edificio per il mondo arabo che muta aspetto al variare della radiazione luminosa incidente. Appartengono alla categoria dei materiali interattivi i materiali definiti “a memoria di forma” o i “vetri intelligenti”, in grado di rispondere, con specifici comportamenti a stimoli esterni. Un esempio di applicazione in questo senso è costituito dalla lampada Spring progettata da Chiara Albano, Hervè Cantono e Maria Teresa Fustaci. La struttura della lampada è costituita da molle in SMA che sotto l’effetto del calore della lampadina accesa si rilassano provocando l’apertura della struttura, in un seducente gioco di colori e trasparenze. Quando la lampada viene spenta la temperatura si abbassa e le molle si contraggono ritornando alla configurazione originaria caratterizzata da un volume minore, dunque da un minore ingombro.

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Lampada Spring con struttura in lega a memoria di forma.

Flessibilità. Negli ultimi anni il requisito della flessibilità in architettura ha assunto un’importanza primaria. La necessità di modificare gli ambienti al variare delle esigenze dell’utenza, sempre più mutevoli, si ripercuote anche sulla scelta dei materiali con cui vengono realizzati elementi e componenti edilizi, che devono essere leggeri e configurati in maniera da essere facilmente assemblabili e disassemblabili, in caso di sostituzione. Anche nel design la flessibilità assume un valore importantissimo, soprattutto quando si tratta di oggetti che devono adeguarsi alle caratteristiche degli esseri umani (ergonomici). L’azienda statunitense EdiZONE ha messo a punto Intelli-GelTM che si basa sulla sinergia tra la struttura morfologica e l’uso di un materiale a elevate prestazioni. Resistenza per forma e resistenza del materiale consentono di sopportare carichi abbastanza elevati mantenendo una certa elasticità fino a quando non si verifica il collasso della struttura, che si manifesta attraverso una deformazione delle colonne. Quando tale deformazione avviene la massa del materiale rientra nel vuoto delle colonne, senza che si verifichi nessun aumento della pressione di carico.

produce una pellicola fotovoltaica che assorbendo energia solare restituisce energia elettrica. In presenza di luce solare intensa produce mediamente 5 watt per 0,94 m2. Un’interessante applicazione sperimentale che coinvolge l’uso del film prodotto dalla Iowa Thin Films è prevista a New York in un padiglione progettato da Nicholas Goldsmith e Todd Dalland in collaborazione con gli architetti Kiss e Cathcart esperti in tecnologie fotovoltaiche che verrà installato nel Cooper-Hewitt’s garden. Un altro esempio di sperimentazione nell’ambito dei film fotovoltaici è il secondo padiglione progettato ancora da Goldsmith, Dalland, Kiss e Cathcart. Il padiglione è stato realizzato con pannelli di vetro sui quali è stato laminato il film sottile fotovoltaico Apollo prodotto dalla BP Solar, Fairfield, CA, con un effetto estetico molto seducente. L’effetto visivo è quello di un involucro traslucente caratterizzato da una tessitura che alterna trasparenza e opacità filtrando e modulando la luce e contemporaneamente producendo l’elettricità necessaria per alimentare il sistema di aria condizionata che climatizza l’ambiente interno. Si tratta di un interessante esempio di struttura urbana energicamente autonoma e ben integrata nel suo contesto. In conclusione, le tendenze evolutive nell’ambito dei nuovi materiali si rivelano molto interessanti per i settori del design e dell’architettura, dove gran parte delle ricerche e delle sperimentazioni in corso mirano alla definizione di strategie progettuali che permettano di aumentare l’intensità prestazionale di componenti e prodotti, riducendo la quantità di materie prime, di energia utilizzate, il peso e aumentando il contenuto di informazione incorporata. Le potenzialità offerte dai nuovi materiali non sono solo di natura tecnico-funzionale ma anche di tipo linguistico ed espressivo.

Eco-efficienza. La leggerezza è una strategia progettuale di primaria importanza nell’ambito del design eco-sostenibile, poiché consente di risparmiare materia ed energia. La crescente domanda di oggetti ecoefficienti valorizza, come mai prima d’ora, il ruolo dei nuovi materiali leggeri e spesso riciclabili. Affrontare la sfida dell’eco-efficienza adottando questi materiali è possibile purché il progetto sia condotto in maniera da sfruttare al meglio le opportunità offerte. Esistono, ad esempio, materiali fortemente innovativi ma realizzati prevalentemente con materie prime di origine naturale come i biopolimeri o alcuni compositi a base di fibre vegetali. È il caso del Fiber-Thermoplastic Composite System, prodotto dalla azienda americana Global Resource Technologies LLC, costituito da una matrice termoplastica che incorpora scarti di fibre naturali o riciclate come juta, kenaf, sisal, e addirittura anche jeans e banconote sminuzzate. La Iowa Thin Films

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* Professore associato di Tecnologia dei polimeri Università di Napoli “Federico II”

Fiber-Thermoplastic Composite System.


lavorare con i materiali riciclati Maria Antonietta Sbordone

Concetti quali: capacità di carico (carrying capacity), sovraccarico (overshoot), capitale e reddito naturale (natural capital and income), stock naturali (natural stocks), costituiscono il substrato cumulativo per la teoria dell’Impronta Ecologica. Essa è definita come un indicatore di sostenibilità e sebbene rifletta la complessità del sistema ambiente-uomo, si rifà a un approccio teorico e metodologico molto intuitivo. William Rees ha ridefinito, recentemente, il concetto di Impronta Ecologica come “l’area totale di ecosistemi terrestri e acquatici, richiesta per produrre le risorse che la popolazione umana consuma e per assimilare i rifiuti che essa stessa produce”. Un metodo di bilancio che rappresenta la parte fisica, in termini di misura di stock, dell’estensione e utilizzo umano delle risorse e dell’assimilazione di rifiuti presenti su un territorio vasto. In altri termini, lasciando poco spazio all’immaginazione, rende visibile e quindi facilmente comunicabile la superficie di cui ha bisogno,

ad esempio, una città come Londra per continuare a mantenere in vita la sua attuale configurazione (materiale e immateriale), ovvero la sua impronta ecologica che equivale a 120 volte la superficie attuale (IIED, Ministero per l’Ambiente e lo Sviluppo britannico, 1995). Superficie costituita da un capitale naturale, stock dal quale sia possibile ricavare un flusso di beni (p.e. una foresta, uno stock ittico, una falda acquifera, ecc.) e servizi ecologici (quali l’assimilazione dei rifiuti) e da un capitale artificiale, beni e servizi prodotti dall’uomo. Tra gli stock di capitale naturale distinguiamo quelli rinnovabili (specie viventi, ecosistemi) e ricostituibili (sorgenti idriche, fascia d’ozono) da quelli non rinnovabili, come i combustibili fossili e i minerali. Appare evidente che alcuni di essi sono insostituibili, e per garantire un “ambiente vivibile”, bisogna evitare che il capitale naturale sia considerato genericamente come un “magazzino di risorse industriali”. Secondo la teoria della “sostenibilità debole”, le perdite di capitale naturale sono compensate da quantità equivalenti di capitale prodotto dall’uomo: alla dotazione naturale in esaurimento, ne sostituiamo una artificiale. Ciò vale anche per quei servizi ecologici che viceversa, sono il nodo centrale della “sostenibilità forte”, per la quale essi sono insostituibili. Tra gli altri, l’assimilazione dei rifiuti (nei sistemi naturali), rappresenta uno dei servizi ecologici che la “sostenibilità debole” è riuscita a sostituire, grazie al riciclaggio e alla conseguente reimmissione di materiali di scarto nei cicli di lavorazione (valorizzazione materiali) per la riconfigurazione di nuovi materiali. A questo punto il collegamento con i sostenitori della “sostenibilità forte” è quasi automatico, visto che per loro, oltre che gli stock naturali, anche quelli di capitale artificiale “andrebbero mantenuti costanti, affinché non vi sia nessun tipo di deprezzamento del capitale”. Quale migliore occasione per ridurre i rifiuti da smaltire (servizio ecologico), per il recupero di materie prime (economia nell’utilizzo di risorse non rinnovabili, conservazione del capitale naturale), allo scopo di riconfigurare nuovi prodotti industriali (valorizzazione materiali e rivalutazione del capitale artificiale). I materiali riciclati, nella casa pilota del CSTC (Centre Scientifique et Technique de la Construction, Limelette, BE), sono entrati proprio come “capitale artificiale rivalutato”. Nel 1993 fu proprio

Dispositivi didattici che permettono di vedere i materiali utilizzati. Bottiglie di plastica compresse e rifiuti di polietilene.

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Muri interni in blocchi di cemento nei quali i granulati sono stati rimpiazzati da resti di demolizioni e miscelati a cemento bianco.

il Gouvernement wallon il primo ad accorgersi che in discarica (i CET Centre d’enfuissement technique) finivano, – a parte le enormi quantità –, materiali inerti rifiuti di costruzioni e di demolizioni, che per le loro caratteristiche, furono definiti di “qualità interessante”. Il Governo, nel 1995, dopo una serie di accordi (p.e. con la Confédération de la Construction Wallonne) e azioni preliminari, predispose un Capitolato d’Appalto Tipo e uno Speciale, nei quali si prevedeva l’utilizzazione dei prodotti riciclati nel quadro dei Lavori Pubblici nella regione. Il passaggio dalla fase della promozione e quella della dimostrazione, fu affidato al CSTC, con il suo centro ricerche e laboratori in piena campagna, nei dintorni di Bruxelles, grazie ai fondi CE, partecipò, con il progetto “La casa pilota con materiali riciclati”, al programma LIFE. Tre passaggi principali caratterizzarono il programma: la realizzazione di una costruzione pilota che integrava in gran parte nuovi materiali, provenienti dal riciclaggio di resti di demolizioni e di costruzioni, ma anche dalla valorizzazione di rifiuti e sotto-prodotti derivanti da altri settori industriali; la dimostrazione che l’utilizzazione massiva di materiali riciclati era possibile e che questi aderivano completamente alle loro funzioni senza influenzare negativamente le prestazioni del manufatto e i costi; la definizione del concetto di riciclaggio ritenuto, che orientò la scelta verso quei materiali fabbricati a partire da prodotti che avevano già subito una “prima utilizzazione” e che contenevano percentuali variabili di rifiuti, quando questo non era possibile, che utilizzavano cascami di produzione. La costruzione ha seguito tutte le fasi di un progetto convenzionale, sarà possibile visitarla all’inizio del 2002, vi sono all’interno dispositivi

didattici che permettono di individuare i materiali utilizzati. Ogni prodotto utilizzato ha un numero di riferimento al quale corrisponde una scheda tecnica. Sono stati impiegati circa 200 materiali scelti su una gamma di 1000, difatti il progetto iniziale è stato modificato per usufruire di maggiori superfici per la messa in opera di materiali differentii per un’unica applicazione. Alla dimostrazione seguirà la fase di osservazione scientifica sul comportamento dei materiali relativamente alla degradazione sul lungo periodo, con la successiva valutazione dei costi di manutenzione e di eventuali riparazioni.

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pratica come conquista Francesco Felice Buonfantino

Chi comincia la professione e non è dipendente di un grande studio si trova a operare quasi sempre nell’ambito degli interni: ristruttura l’appartamento del parente, il negozietto dell’amico… È questa un’ottima palestra che ha messo alcuni di noi di fronte al fatto che quel poco o molto che ha imparato all’università non serve affatto alla pratica dell’architettura. Ci si accorge così di non sapere nulla, o quasi, di impianti di riscaldamento, di non conoscere la differenza fra un deviatore e un interruttore, cominciando così a balbettare risposte inconcludenti quando il mastro di turno ci chiede “architetto, il pavimento lo posiamo a colla o a sabbione?” Allora si ricomincia daccapo, ogni giornata in cantiere diventa una lezione sul campo dove il capocantiere, quando è bravo, ti trasmette un po’ del suo sapere: da lui si può apprendere, senza rinunciare completamente al controllo del lavoro, mentre al cliente non si deve far comprende che ne sappiamo quanto lui in merito alla direzione dei lavori. Veniamo ora alla questione degli artigiani. In generale, nei nostro territori, si trovano delle ottime professionalità che sono quasi sempre disponibili a condividere le loro competenze. Spesso, però, si riscontrano due tipi di “difetti” (purtroppo non si è in grado di comprenderlo all’inizio della professione): il primo è la presunzione che li porta a ritenere che quanto conoscono sia il massimo dello scibile in materia. Non sono quindi disposti a accettare nessuna novità che l’evoluzione della tecnologia propone. Rimangono tenacemente legati alle tradizioni proponendo sempre lo stesso modello realizzativo (e c’è da tener presente che le loro tradizioni sono quelle del cemento armato e del movimento moderno, ovvero delle tradizioni recenti fondate quasi sempre sul principio della transitorietà e della caducità). Il secondo difetto è l’indisponibilità a inserire nel proprio lavoro artigianale un’attività affine. L’esempio classico è il falegname che rifiuta di utilizzare

Alessandro Papari, Doppio interno, 2001.

i tranciati di nuova generazione o che non vuole realizzare inserti in rame o in ottone, così come quei fabbri che non vogliono lavorare l’acciaio inox o i metalli non ferrosi. C’è da dire che purtroppo i migliori artigiani, privi dei difetti di cui sopra, spesso sono migrati al nord: resta al giovane professionista l’onere di ricercare il giusto maestro con il quale dialogare e crescere. Chi si trova all’inizio della professione deve quindi confrontarsi con queste problematiche, cercando di comprendere se quello che si è disegnato è realizzabile e a che costi. Veniamo poi a una seconda questione. All’università quasi tutti abbiamo progettato un centro polifunzionale, un quartiere, una città, fermandoci, in termini di dettagli, quasi sempre alla scala dimensionale 1:50, e di fronte alla necessità di disegnare una semplice porta, necessariamente 1:5, molti sono disorientati, non sanno proprio da dove cominciare. Qui gli artigiani non sono d’aiuto perché non abituati al disegno, preferendo lo schizzo, che lascia loro la libertà d’interpretare la volontà del progettista. I giovani progettisti più attenti si organizzano, chiedono suggerimenti ai colleghi più anziani (posto che questi abbiano elaborato una cultura del disegno di dettaglio), armati di metro studiano ciò che li circonda, cercano su internet, così da produrre, se pure a fatica, quei grafici che sono garanzia della qualità dell’architettura proposta. Per alcuni progettisti però vale la scelta della rinuncia al disegno, al controllo del dettaglio; preferiscono usare il matitone in cantiere, lasciando nelle mani degli artigiani la qualità della propria architettura. Quando si è maturata una certa esperienza ci si rende conto che gli anni passati a far pratica di interni sono stati fondamentali, che hanno formato il nostro lessico architettonico. Se non si è rinunciato al disegno di dettaglio quale strumento di controllo della propria architettura, si è maturato quel bagaglio di informazioni che ci consente di produrre architettura di qualità. Ci si rende conto così che le grandi architetture sono costruite anche attraverso il dettaglio. Dettaglio che costituisce il fonema, la sillaba del discorso complessivo dell’architettura che si sta realizzando. Nella cultura anglosassone questo principio è assolutamente chiaro, tanto è vero che già dal primo anno della facoltà di architettura, alla fine del corso, si organizzano campus nei quali gli studenti realizzano una abitazione verificando nella pratica quanto studiato durante i corsi. Le nostre facoltà sono invece per lo più strutturate su altri ordinamenti e sono pochi quei docenti che possiedono la cultura del dettaglio e la “pratica del fare” che dovrebbero costituire la base di qualunque architettura. Non ci resta quindi, una volta completati gli studi, che ricominciare daccapo affidando alla pratica degli interni la costruzione del lessico della nostra architettura.

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in rete a cura di Salvatore Gatti

Il passaggio effettuato in rete nel mondo virtuale degli “Interni”, si traduce in una sorta di appunti di viaggio sullo sterminato panorama di siti web, tra l’architettura e il design. Alcuni di essi sono veri portali di informazione tematica, aggiornati e attenti a ciò che accade nel panorama internazionale, molti invece non hanno avuto continuità rimanendo soltanto buoni spunti o flebili iniziative. La struttura del “Magazine” è la più ricorrente e spesso offre molteplici possibilità di interazione. È il caso di Idea, sito di industrial design, con la possibilità di inviare i propri progetti, e di Archimagazine, che aggiorna costantemente gli utenti via e-mail; Contract Design e Design Architecture offrono tra l’altro interessanti proposte di mercato, opportunità dal mondo delle industrie e cerca-lavoro on-line. Da visitare anche l’ottimo sito spagnolo Design Meeting Point e Made Magazine, con i links dei siti di design più diffusi e la possibilità di scrivere articoli ed esporre opere gratuitamente. Tra i siti che dedicano ampio spazio al design: Design Meeting Point (Spagna): www.designmp.com Contract Design (USA): www.contractdesign.com Design boom (Italia): www.designboom.com Idea (Italia): www.x-idea.com Arredamento (Italia): www.arredamento.it Made Magazine (Italia): www.fionline.it/made Archimagazine (Italia): www.archimagazine.it Arquitectura e Design (Brasile): www.nav.be/Archiguide Design Architecture (USA): www.cornishproductions.com Lisa Magazine (Olanda): www.calibre.bwk.tue.nl/lava/lisa House of Design (Olanda): www.House-of-design.nl Design Italia (Italia): www.designitalia.it

Numerosi sono anche i Magazine con la possibilità di accedere ai più svariati links e database della rete, come lo spagnolo IAZonarquitectura con collegamenti ai maggiori siti internazionali di architettura e ai calendari dei concorsi, nonchè il britannico Great Building, corredato di un’ampia galleria fotografica di architetture selezionate; presenti anche servizi di shopping on-line e chat come su Volume5 hp e Arqa.

Alessandro Papari, Il frigorifero, 2001.

Il linguaggio architettonico autoctono e la promozione della progettazione locale sono i fili conduttori di molti “etnositi” presenti in rete: Periferia (Caraibi): www.periferia.org Archeire (Irlanda): www.archeire.com Zone Architecture (Quebec): www.z-1.org Architecture Asia (Tailandia): www.architectureasia.com Arch’India Online (India): www.archindia.com

Archined (Olanda): www.archined.nl/endex.html Archinet (Regno Unito): www.archinet.co.uk Next room (Austria): www.nextroom.at Death by Architecture (USA): www.deathbyarch.com Archrecord (USA): www.archrecord.com Volume5 hp (USA): www.volume5.com Australian Architects (Australia): www.archioz.com.au Arqa (Argentina): www.arqa.com Arquitectura en Linea (Argentina): www.arquitectura.com Wam (Spagna): web.arch-mag.com Great Building (Regno Unito): www.greatbuilding.com Iazonarquitectura (Spagna): www.iaz.com Architettura.it (italia): www.architettura.it Aleph Kubos (Francia): www.Kubos.org Archiv (Germania): www.workshop-archiv.de Deutsche Bauzeitung (Germania): db.bauzeitung.de Telescoweb (Giappone): www.telescoweb.com Architectenwerk (Olanda): www.architectenwerk.nl Arquicol (Colombia): www.arquicol.com Archinet (Germania): www.archinet.de Architecture Magazine (USA): www.architecturemag.com

Approfondimenti tecnici e informazioni per operatori del settore delle costruzioni sono presenti nel web, come la piattaforma tedesca Baunet, che offre notizie generali sulle tecnologie e i materiali sia per le imprese che per i progettisti, oppure il sito italiano della Federlegno, la filiera industriale dalla lavorazione della materia prima alla produzione di elementi finiti per le tecnologie e l’arredamento. Baunet (Germania): www.baunet.de/index.html Dds (Germania): www.dds-online.de Canal Construnet (Spagna): www.construnet.net Federlegno (Italia): www.federlegno.it a-node (USA): www.a-node.net Baunetz (Danimarca): www.baunetz.de

Tra i portali dedicati esclusivamente ai calendari dei concorsi internazionali per l’architettura e il design: Arch’it (Italia): www.arch.it BYGGEinfo (Danimarca): www.byggeinfo.dk Zone Arch (Canada): www.org/comp/icnlogo

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recensioni Pierluigi Giordani, La sofferenza della ragione. Utopia e progetto nella città moderna, Maggioli editore, Rimini 2001

Un paesaggio avvolto nella nebbia lascia emergere grappoli di rocce mentre nello sfondo, appena percepibili, si profilano evanescenti cime di una anonima catena montuosa. In primo piano si staglia di tergo la figura dell’uomo: lo studioso, lo scienziato, l’artista, il poeta che guarda, indaga, contempla, immagina, sogna… o forse cerca semplicemente di vincere lo stato confusionale in cui lo pongono i suoi interrogativi, i suoi come, dove, quando e perchè. È il frontespizio che Pierluigi Giordani prende in prestito da Caspar David Friedrich per compendiare la metafora del ricercatore indagante sulle coordinate che strutturano la storia del pensare e del fare urbanistica, nel passato come nel presente, non tralasciando di affacciarsi a curiosare sulle possibili future evoluzioni in un contesto ben pió ampio di quello circostanzialmente disciplinare. Sono in molti a indagare sulle “Ragioni della sofferenza”, sulle cause che producono povertà, miseria, dolore, disperazione, paure e, conseguentemente, rancore, inimicizia, violenza, odio ed eversioni. Pochi sono invece quelli che, non semplicemente invertendo l’ordine delle parole, si soffermano ad analizzare “La sofferenza della ragione” (che è ben altra cosa della “ragione della sofferenza” anche se le radici e le ricadute sociali convergono a definire un medesimo universo) e ponendo attenzione alla pressochè cronica crisi del “pensare libero”, aprono spiragli di luce sulla miriadi di condizionamenti che lo insidiano sia per... forza-violenza di legge (ambiguità delle norme erette a garanzia delle “idee ricevute”) sia per il reiterarsi degli atteggiamenti ispirati a un sempre meno astratto “patriottismo ideologico” che informa di sé la logica delle scelte e decisioni politiche, del governo della “res publica” e dei comportamenti sociali, economici e culturali. Il volume di Pierluigi Giordani costituisce una stazione intermedia di un lungo itinerario di ricerca, iniziato circa mezzo secolo addietro con la traduzione (e divulgazione nel nostro Paese) degli studi di Lewis Mumford sulla storia dell’Utopia. L’Utopia rapportata all’organizzazione della città e del territorio ha informato i suoi due volumi monografici: “Il futuro dell’Utopia” (Ed. Calderini, Bologna 1969) e “L’idea della città giardino” (ed. Calderini, Bologna 1972) nei quali l’esplorazione critica penetra nei cenacoli del pensiero filosofico, artistico e letterario per ricercare, non solo in termini di coerenza

culturale, le matrici di comuni esigenze di accelerare i tempi della storia e di rinnovare profondamente, ovvero di rivoluzionare, il volto, la struttura e la logica organizzativa della città e del territorio e le condizioni del vivere al loro interno. Proseguendo lungo tale itinerario il discorso si arricchisce nella documentazione e nella riflessione, guardando agli effetti positivi e negativi esercitati dal pensiero utopico sia nelle sue (rare) traduzioni in progetti (sperimentazioni) sia nel suo configurarsi come matrice ideologica ispirante il rivoluzionamento dei regimi di governo. In tale direzione si muovono i saggi “Utopia e distupia nell’attuale organizzazione del territorio” pubblicato in AA.VV. “Per una definizione dell’Utopia” (Longo editore, Ravenna 1992) e “Sentieri in utopia: dall’hic sunt leones all’hic et nunc” pubblicato in AA.VV. “Viaggi in Utopia” (Longo editori, Ravenna 1996) e i due suoi volumi: “La speranza dell’antiutopia” (Maggioli Editore, Rimini 1996) e “Presenze utopiche nell’organizzazione del territorio in Italia” (Longo Editore, Ravenna 1996). L’itinerario prosegue con il volume monografico “Il palinsesto urbanistico, note sulla norma tecnico-giuridica in Italia, nel dopoguerra” (Maggioli Editore, Rimini 1999), nel quale opera una lettura mordacemente satirica dell’ordinamento urbanistico italiano rapportandolo alle matrici ideologiche che l’hanno ispirato ed alle circostanze politico amministrative che, aperte all’utopia regressiva, ne hanno provocato un crescente precipitare verso la crisi. Il volume “La sofferenza della ragione”, non vuole essere la stazione di arrivo dell’itinerario intellettuale di Pierluigi Giordani, come lui stesso ci tiene a precisare; a tutti gli effetti si configura come una stazione di sosta nella quale ambientare una pausa di riflessione sulle circostanze epocali che informano i mutamenti in corso, al varco della soglia del terzo millennio, nelle relazioni sociali, economiche, culturali e politiche condizionanti i comportamenti di governo della città e del territorio. Il bilancio che l’autore ci propone non ha soltanto un carattere di consuntivo, ma trova più rilevante significato proprio nella definizione degli indirizzi preventivi; un guardare in avanti costellato da una selva di interrogativi indirizzati prioritariamente a se stessi, una tabella di marcia propria dello studioso ricercatore; per cui ogni discorso evidenzia la sua natura interlocutoria e lascia ampio margine ad approfondimenti e verifiche,

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una volta sgombrato il campo da quegli equivoci che impediscono, come la nebbia di C.D. Friedrich, di guardare al futuro con chiarezza (piuttosto che con la sfera della chiaroveggenza). Il libro spazia nel teatro della città moderna sul cui palcoscenico la vita associata è dinamicizzata dal succedersi degli stadi dei “percorsi mentali”, scanditi dal pressochè rituale incontro-scontro-confronto tra “progetto e utopia”, viaggianti in tracciati intellettuali che, superato il limite scientifico del loro parallelismo, erogano flussi di reciproca attrazione determinando quei campi di inesplorato magnetismo nei quali trova ambientamento la contaminatio, causa prima della “sofferenza della ragione”, popolata dalla selva di “discipline” che spesso sembrano moltiplicare gli interrogativi anzichè risolverli, per conferirsi una… ragione di essere. A modo suo il libro ci propone un racconto dialogante tra due storie: quella del progetto e quella dell’utopia, utilizzando prevalentemente “testi ed immagini nell’immanenza di ‘categorie’ (la politica, l’estetica ecc...) ineludibili nell’interpretazione della processualità”. La narrazione è articolata in tre parti. La prima parte, incentrata sul dialogo tra utopia e progetto, ne esplora gli assunti teorico filologici rivisitando i quadri definitori e proponendo una rilettura critica dei rapporti con la processualità storica e politica concludendo con approfondite considerazioni sul caso italiano. La seconda parte propone una rivisitazione spietatamente critica della storia del pensiero-progetto urbanistico nell’ultimo mezzo millennio, dalla concezione dispotica generatrice della città ideale del rinascimento ai paradigmi anacronistici del postmodernismo. La terza parte, provocatoriamente intitolata “vaniloquio ucronico” (monologo per lamentata assenza di interlocutori) costituisce il proseguimento ideale del viaggio nel tempo e nello spazio dell’immaginario, dove la deduzione cede il posto alla intuizione e la analisi documentaria all’interpretazione segnica. La conclusione è ben lontana dall’assumere i toni profetici di chi è avvezzo a indugiare su apocalittiche profetizzazioni; c’è troppa saggezza nella mordace ironia che accompagna la rassegna delle circostanze che hanno informato la storia del pensiero mirato all’organizzazione della città, per lasciar presupporre che i “gusci vuoti” della politica e della cultura non possano essere riempiti da nuovi apporti dell’immaginario individuale atti a sostituire, ove ancora dovessero permanerne scorie residuali, le vecchie rovinose radici ideologiche con idee e progetti predisposti a svilupparsi in contesti di riconquistata libertà nei

quali la ragione possa nutrire la speranza di trovare un farmaco idoneo a lenire il suo attuale stato di sofferenza. Il libro di Pierluigi Giordani non è un racconto, e non può essere raccontato; non è una raccolta di documentazioni rigorosamente correlate da un sapere scientifico finalizzato ad una spersonalizzata sistematizzazione delle conoscenze, e pertanto non presume di arricchire il bagaglio nozionistico-culturale del lettore configurandosi come fonte di acclarate, indiscutibili, verità; non è un saggio letterario sfoggiante esibizioni intellettuali compiaciute dalla straordinaria ricchezza delle citazioni viaggianti tra la sottile ironia e la mordace satira, ma povero di contenuti di specifici interessi e di dichiarate finalità; non è un diario evidenziante protagonistiche elaborazioni teorico-critiche ed esperienze progettuali preselezionate per lasciare una più marcata impronta di sé nella storia dell’urbanistica, della letteratura e della cultura contemporanea; non è un costrutto teorico, una tesi argomentativa e dimostrativa del “buon governo” delle istituzioni, del territorio e della popolazione; non è un “libro bianco” scritto per contestare i viziosi comportamenti dei governanti politicamente orientati al sostegno di massimalismi strumentali; non è un sermone né una omelia che all’insegna di nuovi valori fomenta conflitti ideologici asservendoli a strategie di potere mirate alla conservazione dei vecchi. In definitiva il libro di Pierluigi Giordani è un invito al ragionamento non sugli accadimenti che hanno caratterizzato le ultime stagioni della storia della città moderna, ma su quelle istanze intellettuali e quelle esperienze progettuali che hanno dato ispirazione, organizzazione, forma, vita e soprattutto condizionamenti ai comportamenti di crescita della città contemporanea mettendo ipoteche anche sulla sua possibile futura evoluzione. Il libro scritto dal nostro maggiore teorico dell’utopia, non può non concludersi con un messaggio di speranza, che sembra far luce proprio là dove le tenebre si prospettano pió oscure, in quel regime di libertà che l’incombente “globalizzazione” sembra definitivamente soffocare, ma che invece una buona politica, chiusa ai pregiudizi di consumate ideologie, ed aperta a stimoli di nuovi immancabili contributi del pensiero utopico individuale, può contribuire a esaltare abbattendo i tantissimi recinti che la paura ha eretto a difesa della sopravvivenza e che fungono da principale ostacolano al buon governo.

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Mario Coletta

Professore Ordinario di Urbanistica Università degli Studi di Napoli “Federico II”


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