Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio 1964-2014

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CARLO SCARPA AL MUSEO DI CASTELVECCHIO 1964-2014


CARLO SCARPA AL MUSEO DI CASTELVECCHIO 1964-2014

Alba Di Lieto e Alberto Vignolo cura e redazione Ketty Bertolaso ricerca iconografica Giulia Pellegrini_Micropress Media MD progetto grafico Mirko Balducci collaborazione grafica Grafiche Aurora stampa Si ringraziano Antonia Pavesi, consigliere delegato alla Cultura, Gabriele Ren, direttore dell’Area Cultura, Paola Marini e il personale della Direzione Musei d’Arte e Monumenti del Comune di Verona ISBN 978-88-97913-27-6

© Comune di Verona Direzione Musei d’Arte e Monumenti

Pubblicazione realizzata con il contributo di


Indice

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Cinquant’anni Paola Marini

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Un museo e il suo architetto Alba Di Lieto e Alberto Vignolo

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Contributi

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Autori

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Apparati


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Il caso del Museo di Castelvecchio, giunto felicemente a festeggiare i cinquant’anni del suo restauro e allestimento da parte di Carlo Scarpa, ci insegna che affidare il recupero di un edificio monumentale a un professionista altamente qualificato o, addirittura, a un maestro dell’architettura, è garanzia di successo e si traduce in un investimento di sicuro vantaggio, anche economico, nel medio e lungo termine. In considerazione del ruolo centrale della figura di Carlo Scarpa (1906-1978) nel panorama dell’architettura italiana, nel 2002 il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, di concerto con la Regione del Veneto, ha avviato un’esperienza innovativa e virtuosa istituendo il Comitato paritetico Carlo Scarpa nel quale le più rappresentative istituzioni del settore sono state coinvolte, e supportate, nell’impegno per uno sforzo congiunto rivolto alla conoscenza e valorizzazione dell’architetto veneto. Nel contempo l’Amministrazione Comunale, con la Direzione Edilizia Monumentale e la Direzione Musei d’Arte e Monumenti, ha provveduto a mantenere efficiente la macchina museale di Castelvecchio recuperando nuovi spazi e arricchendola di nuove funzioni, per esempio con il restauro di tre torri, una delle quali, quella di sud-est, è stata destinata, dal 2013, a sede veronese dell’Archivio Carlo Scarpa. Siamo consapevoli che altre mete ci attendono: dall’impegnativo recupero della torre del Mastio all’inclusione della Palazzina del Comando dell’ex Arsenale nel percorso di un più grande Castelvecchio, con le nuove Gallerie del Seicento e Settecento. Ma intanto buon compleanno Castelvecchio! Flavio Tosi Sindaco di Verona

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Cinquant’anni Paola Marini Direttrice del Museo di Castelvecchio

Nella vita di un edificio cinquant’anni hanno una duplice valenza: da un lato costituiscono un termine assai breve, soprattutto per quanti, essendoci cresciuti dentro, tendono a percepirlo come sempre esistito; dall’altro rappresentano un orizzonte eccezionalmente lungo, dal momento che, diversamente dal luogo comune, la durata di un allestimento museale non supera in media i trent’anni. Quello che Marisa Dalai chiama qui lo “scandalo della conservazione integrale” di Castelvecchio rappresenta una situazione particolare nella sua rarità, oggi più che mai controcorrente, ed è la naturale conseguenza della qualità architettonica dell’intervento di Carlo Scarpa e della precoce consapevolezza del valore dello stesso, coltivata da Licisco Magagnato in tutti noi. Possiamo immaginare le trepidazioni di chi quell’intervento promosse e inaugurò il 20 dicembre 1964, in un’Italia piena dell’energia del dopoguerra che aveva da poco portato a termine l’autostrada del Sole e lanciato la Nutella. Ma va ancora una volta misurata l’audacia di chi osò eliminare con intransigenza l’immagine fantastica del castello scaligero mentre, con molto dissonante linguaggio, sulle colline di Verona i forti austriaci si trasformavano in santuari. Al di là dell’iniziale impatto, anche parecchi contributi in questo volumetto ci confermano che richiese più di un decennio la ricezione e l’assimilazione profonda di un approccio così radicale, capace di rendere ancor oggi coinvolgente, rivelatoria e indimenticabile la visita. Il fatto che Castelvecchio sia una summa esemplare dell’esperienza museografica italiana e la sua identità di opera chiusa non ci sembra abbiano impedito o rallentato l’attività del piccolo e coeso gruppo di lavoro che, operandovi, è chiamato ad una continua reinterpretazione del monumento e delle collezioni che esso presenta.

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Con crescente determinazione, mentre all’interno si attendeva con la maggior cura possibile allo studio e alla conservazione dell’edificio, degli allestimenti e delle opere, si agiva per così dire dall’esterno, lavorando sui bordi del “non finito” scarpiano per accompagnarne il percorso con il recupero di nuovi spazi come le tre torri di nord est, dell’orologio e di sud est e di un ampio tratto dei camminamenti di ronda1. In parallelo si sviluppava un’articolata proposta di mostre temporanee nella Sala Boggian, alla Gran Guardia, nell’Arsenale Austriaco2. In un proficuo scambio tra esterno e interno, esposizioni appositamente concepite di artisti contemporanei guidavano la nostra rilettura, talvolta anche sconvolgendone la percezione tradizionale, come nel caso del “giardino” di Peter Eisenman. Castelvecchio sviluppava intanto crescente attenzione nei confronti dell’intero sistema civico di musei e monumenti, si apriva a nuovi pubblici, divenendo sempre più un luogo di incontro e di comprensione, intrecciava solidi rapporti locali e internazionali, misurava i suoi risultati e continuava, nel mutare dei tempi e delle attese, a rappresentare un, crediamo, degno esempio di istituto museale impegnato, tramite la ricerca, nella conservazione, nella messa a disposizione del patrimonio al pubblico, nella sua valorizzazione. Alla conservazione integrale dell’intervento di Magagnato e Scarpa ha corrisposto una trasformazione altrettanto completa del modo di intendere e fare museo, fondata peraltro sul proprio prezioso patrimonio genetico. La cinquantina di colleghi e amici che hanno accolto il nostro invito stanno a rappresentare tanti diversi aspetti delle relazioni che accompagnano il nostro cammino con progetti, stimoli, critiche, letture. Castelvecchio sottotraccia, a cura di P. Marini e A. Di Lieto, allegato di «architettiverona», 94, anno XXI, 2013, 2, maggio-agosto. 2 A. Di Lieto, F. Bricolo, Allestire nel museo. Trenta mostre a Castelvecchio, Venezia, Marsilio, 2010. 1

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Della loro vicinanza intellettuale e del loro affetto siamo profondamente bisognosi e grati, mentre il pensiero non può non andare anche oggi a quanti hanno seguito Magagnato e Scarpa nei campi elisi dell’architettura: Arrigo Rudi, Fulvio Don, Pino Tommasi, Maxime Ketoff… Da tutti loro, oltre che dalla soddisfazione di godere di un tanto grande privilegio, traiamo energia per le prossime mete.

Il sindaco di Verona Giorgio Zanotto e le autorità nella Galleria delle Sculture durante la benedizione del Museo e il taglio del nastro (20 dicembre 1964)

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Lo schieramento compatto del pubblico durante i discorsi di rito nei momenti dell’inaugurazione del museo


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Un museo e il suo architetto Alba Di Lieto e Alberto Vignolo

Riannodare i fili della memoria, mettere assieme i tasselli di esperienze anche lontane nel tempo ma ancora vivide e mai sopite; collegare nomi e luoghi, volti e figure, date e ricorrenze. Pur nella apparente banalità della convenzione temporale, un compleanno a questo serve: che sia di una persona amata o, come nel nostro caso, di un luogo amato. All’origine di questa ricorrenza si pone Castelvecchio, con la sua mole di castello trecentesco che si staglia sul profilo urbano della città. Costruito come fortilizio, trasformato da caserma in museo da Antonio Avena con Ferdinando Forlati e inaugurato una prima volta il 25 aprile 1926, era stato concepito come immagine vivente della storia cittadina con le antiche raccolte immerse in una scenografica atmosfera da medioevo scaligero. Del principale museo d’arte antica della città, molteplici sono le letture che ancora oggi si possono fare: castello delle favole, testimonianza dell’architettura militare, museo-racconto della storia dell’arte veronese. Il successivo intervento museografico e di restauro di Carlo Scarpa, con la guida ferma e sicura del direttore Licisco Magagnato, ha conferito al museo un decisivo valore aggiunto. Da allora il rinnovato Museo di Castelvecchio rappresenta un modello, entrato a pieno titolo nei manuali di architettura grazie al limpido intervento del maestro veneziano che lo ha restituito alla città. I cinquant’anni dall’inaugurazione ufficiale – avvenuta il 20 dicembre 1964 – richiedono un’attenzione singolare per un numero così tondo e cartesiano, e di conseguenza un ricordo speciale. Il mezzo secolo infatti è la canonica ricorrenza delle nozze d’oro: ma pur risplendendo dei bagliori del metallo più prezioso, questo “tondo” cinquanta non sarebbe forse piaciuto all’artefice del festeggiato

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museo. È noto infatti come all’interno della numerologia scarpiana, eccentrica e atipica come il suo autore, i moduli fossero cadenzati in cifra undici, siglando attraverso il numero esatto delle lettere componenti il proprio nome e cognome ogni più sottile e nascosta ricorrenza. È così che i più raffinati tra gli esegeti possono rintracciare matematiche corrispondenze tra quote, scarti e passi nelle opere del maestro veneziano. Dunque seguendo questo ragionamento sarebbe forse parso più opportuno festeggiare l’undecimo compleanno, o lo sarà forse l’ennesimo alla undicesima potenza; o forse ancora, ricorrendo al misterioso nombre d’or del rapporto aureo, si potrà trovare nel bel mezzo di un anno apparentemente qualunque il momento più carico di valenze simboliche. Aggiungiamo qualche centenario riferito al personaggio simbolo del museo, il condottiero Cangrande I della Scala, e le potenziali date e avvenimenti da celebrare si rincorrono ancora di più... Uscendo da queste preoccupazioni tra l’enigmistico e l’esoterico, il cinquanta appare comunque rassicurante e congruo. Tanti sono dunque i sintetici omaggi affidati agli occhi e alle parole di una cinquantina di amici, artisti, architetti, fotografi, storici, direttori di musei, conoscenti, studiosi, frequentatori occasionali o fedeli. Ne è nato un racconto a più voci, che rivela il complesso intreccio di relazioni umane e professionali che ruotano intorno al museo e al suo architetto. Con un ordine rigorosamente alfabetico, da questo piccolo libro dei ricordi affiorano le politiche culturali avviate con Paola Marini in questi ultimi vent’anni, che hanno incentivato il ruolo del museo come polo attrattore di un nuovo pubblico interessato non solo all’arte ma anche all’architettura, con una valenza culturale che appartiene alla vita reale. Quindi non solo istituto di conservazione di opere di artisti

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del passato (tra cui i disegni di Carlo Scarpa per Castelvecchio), o icona dell’architettura, ma luogo di incontro, di crescita, crocevia di relazioni umane e professionali, dove brani di vita si sono intrecciati e si intrecciano. Una mostra, un’amicizia, un incontro hanno lasciato una vivida traccia nel ricordo di chi ha lavorato, collaborato o solo visitato per un fugace ma incisivo momento il Museo di Castelvecchio allestito da Carlo Scarpa. Contiamo che la storia da raccontare sia ancora lunga e intensa, negli anni a venire.

Da sinistra, Licisco Magagnato, Direttore del Museo di Castelvecchio, Alberto De Mori, Assessore alla Cultura, e Giorgio Zanotto, Sindaco del Comune di Verona

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Un cicerone d’eccezione: Carlo Scarpa, alle spalle del polittico di Paolo Morando detto il Cavazzola, illustra il nuovo museo 21


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Gli ultimi ritocchi al sostegno del Cangrande nella giornata dell’inaugurazione 23


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Il pubblico durante l’inaugurazione indica dalla passerella la statua equestre di Cangrande I della Scala 25


Il cortile d’onore durante i lavori di completamento del giardino scarpiano 26


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CONTRIBUTI



GIOVANNI AGOSTI

Molto spesso, troppo spesso gli interventi dei grandi architetti del passato prossimo diventano alibi per sciatterie e mala conduzione dei musei. I memorabili interventi di Scarpa nascono da equilibri ne varietur tra opere d’arte (quelle opere d’arte), luci, tende, schermi, pavimenti: basta un segnale che indica una via di fuga o un maniglione antipanico, una luce d’emergenza invasiva o un cartellino più largo del previsto e la magia della sala comincia a evaporare... Castelvecchio è uno dei pochi luoghi in cui si ha l’impressione invece che l’incanto resista e quella stagione si possa comprendere nelle sue certezze e nelle sue inflessibilità. A noi non è toccata la fortuna di vedere nascere quei capolavori, ma di assistere al difficile compito di trasmetterli a chi verrà dopo: ma in che forma? Se ne potrebbe parlare per ore sui bordi della vasca nel cortile del castello o tra le rampe, osservando il riso di Cangrande.

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SANDRO BAGNOLI

Due incontri, due colloqui che possono riassumere, il primo in maniera provocatoria, il secondo come rivelazione, l’identità di due diversi linguaggi artistici nell’indispensabile rapporto con la conoscenza profonda della realtà e, in essa, dei sentimenti umani.

1970

Dino Gavina, l’imprenditore bolognese d’avanguardia, dal fiuto infallibile per l’arte, rivolto ad un giovane studente di architettura: — Conosci il Museo di Castelvecchio? Il giovane studente: — Si, l’ho visitato. D.G. — Dimmi, cosa c’è secondo te a Castelvecchio di straordinario? G.S. — Bè... mi ha colpito un quadro! Una Madonna col bambino, di Andrea Mantegna! D.G. — C’è qualcosa di più grande, c’è Carlo Scarpa!

1975

Carlo Scarpa durante una visita a Castelvecchio, in compagnia di un giovane architetto: — Guarda questa Madonna di Mantegna, come sono rese le sue mani, la loro morbidezza, la loro premurosità; guarda il fine cesello della capigliatura arricciolata e del panneggio, quel sottilissimo lembo bianco che occhieggia dalla manica della veste rosso oro e che allude alla mussola di una sottoveste: credo che un artista, se grande e qualunque sia il suo linguaggio, per giungere alla completezza espressiva, non trascura di riflettere neppure sul più piccolo dettaglio della realtà.

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JUAN NAVARRO BALDEWEG

Os envío un breve texto, un extracto de mi prólogo al libro de Francisco del Corral, Agua, esencia del espacio en la obra de Carlo Scarpa. Espero que pueda servir como una pequeña contribución en el 50º aniversario del maravilloso Museo de Castelvecchio. Juan

“Venecia es un buen modelo para hacer evidentes los procesos de creación de Carlo Scarpa. La ciudad emergió entre corrientes marinas y desembocaduras de ríos y toda esa vida conjunta y espontánea de materia y agua creó un paisaje único que inspiró a Carlo Scarpa. Su consolidación se identifica con su original manera de pensar, su modo de concebir y de marcarse objetivos al ir haciéndose la arquitectura en el tiempo […] La ciudad nacida y envuelta en el agua es el hábitat ideal para la experiencia de la luz, los reflejos, el sonido, para alentar una rica sensualidad emanada de las circunstancias físicas. Todos esos estímulos se incorporan en la obra de Scarpa. Su arquitectura se desprende de la ciudad y converge en ella: es un microcosmos que refleja un singularísimo ambiente mayor, un macrocosmos […] Las calles de la ciudad son de agua, sus itinerarios son laberintos de espejo y transparencia. Venecia es también vidrio. Nada tiene de extraño que la obra temprana del arquitecto se plasme en este material […] Esas obras parecen surgir de la nada para adquirir luego consistencia poco a poco y acabar en un despliegue tridimensional. Se pasa de lo blando y lo amorfo a una forma dura, precisa y frágil. La magia de este tipo de labor también vale para caracterizar, en todo momento, los procesos cambiantes que nacen del pensamiento y la mano del arquitecto”.*

*Dal prologo al libro: Francisco del Corral, Agua, esencia del espacio en la obra de Carlo Scarpa, General de Ediciones de Arquitectura, Valencia 2013

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GIOACCHINO BARBERA

PER CASTELVECCHIO

Le mie prime visite a Castelvecchio risalgono alla metà degli anni settanta del Novecento, da studente, ospite di parenti siciliani che vivevano a Verona; l’ultima si data nel dicembre scorso, di passaggio verso Rovereto per la mostra di Antonello. In quasi quaranta anni di frequentazione del Museo (e dei suoi direttori e funzionari, con i quali sono nate poi solide amicizie), ogni volta si rinnovano la gioia e la meraviglia nel ripercorrerne le sale ricche di capolavori e gli spazi esterni, scoprendo dettagli e punti di vista inediti nell’allestimento di Scarpa. Ora che da pochi mesi dirigo a Palermo la Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis – che proprio quest’anno festeggia i sessanta anni dall’inaugurazione – sento ancora più forte questo mio legame speciale con Castelvecchio, ma al tempo stesso sono consapevole della grande responsabilità di tutelare al meglio uno dei più celebrati “santuari” scarpiani per trasmetterlo integro, per quanto è possibile, alle generazioni future. Lunga vita, dunque, a Castelvecchio e ovviamente anche a Palazzo Abatellis.

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MARIO BOTTA

È una delle più forti emozioni quel camminamento processionale al piano terra del museo, lungo la teoria delle sale che si rincorrono come perle di un’unica collana. Le sculture e i rilievi esposti si configurano come veri e propri personaggi che, dalle piattaforme dei loro supporti, incrociano gli sguardi ammirati e sorpresi dei nuovi “pellegrini”. La scoperta di quella loro particolare collocazione immerge l’osservatore in un’inusuale spazialità; quasi che lo scorrere dei secoli abbia donato alle figure scolpite nuova linfa dentro il vivere del nostro tempo. L’effetto coinvolgente non concede pause e i tradizionali canoni espositivi risultano sovvertiti allorché la contemporaneità di un tempo e di uno spazio diventa evento unico. La magia di Scarpa, al di là della bellezza di ogni singolo apparato espositivo, risiede nella disposizione delle parti in scena, che evocano un’atmosfera straordinaria nella quale lo spettatore assume un ruolo da protagonista, in dialogo continuo con le figure monocrome circostanti.

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FILIPPO BRICOLO

1964-2014 la continuitĂ di una ricerca

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RICHARD BRYANT

Foto di Richard Bryant/arcaidimages.com 2014

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LUIGI CALCAGNI E LUCIANO CENNA

SCHIZZO VERBALE

È stato in uno dei giorni che dedicava al cantiere di Castelvecchio: c’eravamo noi due con Magagnato, e c’era Scarpa che scambiava parole con gli operai; come sempre gli pendevano dal collo i lembi di una lunga sciarpa rossa. Più tardi, seduti in trattoria con altri amici, descrivendo il suo ultimo viaggio in Turchia, favoleggiava le delizie della marmellata di rose.

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PINO CASTAGNA

Sculture di Pino Castagna, Museo di Castelvecchio, allestimento di Arrigo Rudi, 1975

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LIBERO CECCHINI

La mia frequentazione di Castelvecchio ha avuto inizio fin dal primo dopoguerra, a fianco di Piero Gazzola per la ricostruzione del ponte scaligero, terminata nel 1951. In seguito ebbi dal Comune di Verona un incarico per la supervisione dei lavori dell’ala Boggian, un progetto dell’architetto Alberto Avesani: ma la grande volta a losanghe e gli affreschi a parete di Pino Casarini non piacquero poi a Licisco Magagnato, tant’è che negli anni successivi feci assieme all’ingegnere Silvano Zorzi un progetto per un solaio intermedio in pietra precompressa per suddividere la sala, che rimase sulla carta. Nel periodo in cui Scarpa stava lavorando al museo, ero invece molto impegnato con la ricostruzione di Ponte Pietra e del paese di Volargne, per cui le occasioni di incontro furono rare: ricordo di aver accompagnato a visitare il suo cantiere Daniele Calabi, che stava lavorando al progetto per l’ospedale di Marzana. Andando a ritirare il Premio In-Arch TriVeneto per il Villaggio San Donà di Trento, incontrai di nuovo Carlo Scarpa a Roma, dove venne premiato proprio per Castelvecchio. Era presente in quella circostanza anche Licisco Magagnato, la cui impostazione del museo fu determinante per la concezione razionalista tutta finalizzata a valorizzare l’opera d’arte. Un’altra figura fondamentale per la genesi di Castelvecchio è stato Renzo Zorzi, veronese, che, come responsabile delle Edizioni di Comunità, aveva fatto avere a Scarpa il Premio Olivetti per l’architettura nel ’56, premessa per la realizzazione del negozio in piazza San Marco e del successivo incarico per Castelvecchio.

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ALDO CIBIC

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MAURIZIO COSSATO

Inaugurazione del Museo “G.B. Cavalcaselle” alla Tomba di Giulietta, 1973

Dall’album dei ricordi, un’altra inaugurazione con Carlo Scarpa (di profilo al centro), in conversazione con Sandro Bettagno. Quello alto magro sullo sfondo, vicino a Luciana Sganzerla e Anna Coltri Melotti, sono io

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MARISA DALAI EMILIANI

PER IL MUSEO DI CASTELVECCHIO NEL SUO CINQUANTESIMO COMPLEANNO A cinquant’anni di distanza dalla conclusione dei lavori non smettiamo di stupirci, con il fiato sospeso, per quella che definirei l’unicità del destino del museo di Castelvecchio: dallo scandalo della sua modernità, nel 1964, allo scandalo della sua conservazione integrale nel 2014. Il segreto: il progetto di Carlo Scarpa, la sua esemplare “distruttività creativa” – per dirlo con Nietzsche – nel cancellare, intervenendo su una realtà stratificata per secoli, ogni traccia di falsificazione della storia e, viceversa, nel rimettere a nudo e in valore ogni segno originario, contro qualsiasi forma di contaminazione. Oggi sorprendentemente quel metodo non è scomparso a Castelvecchio, viene riproposto senza fraintendimenti. E l’architetto accusato di non credere alla funzione sociale dell’arte può così continuare, imperterrito e divertito, a insegnarci a “vedere”.

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MARIA GRAZIA ECCHELI

CARLO SCARPA

Nel 1975, pochi mesi dopo la mia laurea, su invito di un giovane storico partecipai – come manovalanza e per la durata di un pugno di giorni – alla messa in scena della mostra di Giuseppe Samonà. In un Palazzo Grassi ancora délabré, seguivo e spiavo il percorso verso “l’idea” di un maestro: Scarpa, il curatore della mostra, accompagnava ad alta voce sia i propri schizzi – di un pannello, di un dettaglio, di una disposizione generale – ma anche le sue leonardesche caricature dell’eroe eponimo della mostra: la silhouette di Samonà che (piccola e grassottella) diveniva un’ironica alternativa al suo mitizzato modulor lecorbusierano… Gli infiniti schizzi di Scarpa andavano sovrapponendosi, quasi sinopie ostinatamente reinterpretate, su grandi fogli di cartoncino … Ma la scelta definitiva era affidata al “campo”: così che Scarpa alternava il lavoro al tavolo da disegno (nella “stanza degli archivi”) al controllo dell’operato dei carpentieri che, in pochissimo tempo, avrebbero dovuto tagliare e assemblare i pannelli; a quello dei pittori a cui spettava la successiva dipintura. A smorzare la luce del lucernaio sulla balconata del piano nobile di Palazzo Grassi, vennero fissati i teli di “cencio della nonna”, stesi secondo la geometria di trama e ordito: una cifra, questa, che Carlo Scarpa avrebbe declinato in diverse installazioni secondo variazioni decisive per evocazione. Nel caso di Palazzo Grassi, il velario restituiva magicamente uno spazio inaspettato, un cortile colonnato di sapore orientale: bianche quinte in legno disegnavano una astratta stanza, mentre le colonne settecentesche apparivano e scomparivano tra assenza e nuove presenze. Successivamente, i bianchi pannelli furono impreziositi da lastre di xilitex che Scarpa volle, finalmente, di porpora dorata; a questi sarebbero stati fissati i disegni originali di Samonà, con semplici graffette metalliche…

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Avevo assistito al lavoro di uno Scarpa inedito che, in pochissimi giorni, aveva compiuto un miracolo! Da allora avrei ammirato lo “Scarpa con pochi mezzi a disposizione”, trovando di maestria insuperabile “lo Scarpa che toglie”, che procede per scavo: lo Scarpa che, alle prese con gli enigmi e le contraddizioni dell’archeologia, sa riconoscere – ripagato dalla fortuna – la genuina storia del Castelvecchio nel suo legame con la città di appartenenza. Lo “Scarpa che sa ascoltare”, l’edificio certo, ma anche l’intellettuale Magagnato… Immagino i tormentoni a fronte di quella facciata “completamente falsa”: gli infiniti schizzi, quasi aniconici, stanno a testimoniare tutte le inquietudini di Scarpa nell’accettazione di quella in-comprensibile teatralità: un muro di una ottocentesca caserma a cui erano stati incastonati gli elementi lapidei dei ricchi palazzi sull’Adige, distrutti per la costruzione degli argini… Di qui quel sapiente procedimento verso l’astrazione che rende la facciata una “filigrana”: tagli e distacchi alla ricerca di una verità decisiva. Al riparo di un cortile scaligero avvenne una critica totale sia al museo aveniano che, più generale, ad un “sistema” di restauro… Per questi motivi si tratta, a mio parere, del più bel testo di Carlo Scarpa: una lezione che ripetutamente percorro con amici e studenti: per il suo valore gnoseologico ma che s’invera tra quei personaggi di pietra che il mutare della luce sembra animare, tra pietre recuperate, pietre disvelate e pietre nuove, tra stucchi e cemento e acqua. Traditio e inventio. Un’opera senza tempo, un exemplum della forza costruttiva dell’architettura nel suo trasfigurare le pietre fino alla risonanza segreta dell’Umano. Sarà questo il perché della celebrazione scarpiana, così strana a tutta prima, del sorriso di Cangrande?

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PETER EISENMAN

Peter Eisenman, Il giardino dei passi perduti. Una installazione al Museo di Castelvecchio, 2004-2005 Foto di Pablo Lorenzo-Eiroa

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ALBERTO ERSEGHE

Cangrande della Scala. La morte e il corredo di un principe nel medioevo europeo, sala Boggian, Museo di Castelvecchio, 2004. Allestimento di Alberto Erseghe, ipotesi compositiva dell’impianto planimetrico, sezione della struttura di spina del sistema espositivo e schema con l’inserimento di teche

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TONI FOLLINA

Nei primissimi anni ’50 a Venezia l’Istituto Veneto per il Lavoro istituisce il pioneristico “Corso di Progettazione” per Disegnatori Industriali e per Artigiani rivolto alla specifica preparazione nella progettazione di oggetti d’uso destinati alla produzione industriale. L’Istituto diretto da Giulio Carlo Argan chiama a insegnare, per ognuna delle tre sezioni costituenti il corso, rispettivamente: Franco Albini per il legno, Carlo Scarpa per i metalli e Vinicio Vianello per il vetro. In omaggio al legame tra Carlo Scarpa e Vinicio Vianello nasce l’idea del riutilizzo, per la mostra di Vinicio, delle vetrine in dotazione stabile ai Musei Civici di Verona disegnate dal maestro Carlo Scarpa per l’allestimento della mostra Vetri di Murano 18601960 alla Gran Guardia, curata dallo stesso. Le vetrine restaurate ritmano il percorso espositivo di Sala Boggian: all’interno sono esposti su un velo di sabbia silicea i vasi, le sculture astratte e gli oggetti d’uso corrente che nelle loro forme plastiche, esaltano la magia del vetro. Opere che testimoniano e proseguono il rinnovamento, iniziato negli anni ’30 da Carlo Scarpa, dell’arte vetraria muranese. A distanza di cinquantaquattro anni dalla epica mostra alla Gran Guardia si è rinnovato così il messaggio d’amore per il vetro, la materia più multiforme che il mondo antico abbia creato. Vinicio, artista spaziale, pittore di formazione e sperimentatore, si cimenta in nuove forme e diverse discipline occupandosi di ceramiche, vetri, apparecchi di illuminazione, oggetti di design, interventi nell’architettura, sino alla ricerca nel campo delle energie solari e alternative. La mostra curata da Paola Marini, Alberto Bassi e Alba Di Lieto, è stata allestita da Toni Follina con il progetto grafico di Sergio Brugiolo.

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Vinicio Vianello. Il design del vetro sala Boggian, Museo di Castelvecchio, 2007-2008

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CARLO FRATTA PASINI

Godo da tempo del raro privilegio di lavorare all’interno di un’opera di Carlo Scarpa. È un continuo dialogare di linee, articolari, dettagli, capaci di coinvolgere e di avvolgere in una singolare bellezza, senza tempo, intima e razionale ad un tempo.

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HÉLÈNE DE FRANCHIS

Ogni volta che varco la soglia del Museo di Castelvecchio mi accompagna un ricordo del 1976. Licisco Magagnato mi aveva cercato in occasione della preparazione della mostra di Giacomo Balla. “Ecco – pensai – questo luogo è un prodigio fiorito sulle macerie della guerra, grazie al pensiero intelligente e illuminato di un direttore e di un architetto”. Il prodigio non consisteva solo nello straordinario restauro e riallestimento del Museo, ma nella lungimiranza culturale dell’impostazione di quell’intervento che, coniugando antico e moderno, ne definì il tratto distintivo. Quel tratto ha poi affascinato molti artisti contemporanei invitati a progettare interventi site specific o a esporre opere in relazione con i diversi contesti presenti. Penso all’installazione di Herbert Hamak che ha incastonato tra i merli dei camminamenti di ronda, riaperti al pubblico dopo molti anni, “lance” color cobalto, o al turbinio luminoso di Arthur Duff che con il messaggio from a good emitter to a good absorber ha sintetizzato la forza osmotica del luogo. Oggi come ieri il Museo è aperto alle idee, alla sperimentazione: è uno spazio dove passato e presente continuano a interagire senza prevaricazione. Il prodigio continua.

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ISABELLA GAETANI DI CANOSSA

OMAGGIO A CASTELVECCHIO

Due ringraziamenti. Il primo è ufficiale e va al grande Carlo Scarpa ma anche a chi ha proseguito la sua opera, a chi ha restaurato, ha amato e continua a farlo il museo di Castelvecchio. Un pensiero a Giacomo Galtarossa, grande mecenate, che come presidente degli Amici dei Musei ha finanziato il restauro della Torre di Nord Est, dando il via al recupero delle torri. Il secondo grazie è personale e va a quel luogo magico che è il cortile di Castelvecchio. Il mio hortus conclusus, parte integrante della vita della città ma anche del mio privato. Un punto fermo della mia vita. Vi passo accanto tutti i giorni e qualsiasi possa essere il mio stato d’animo so che dietro a quelle mura vi è un luogo protetto, un luogo di conforto, dove la bellezza e l’armonia prevalgono e tutto inglobano, una altissima dimostrazione di eleganza e di cultura.

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DONATA GALLO

DIARIO

Estate 2008

Le mie sorelle sono ripartite, l’ipotesi di smontare

Palazzo del Grillo, la casa romana dei nostri genitori è naufragata Roma sul nascere. Felici di ritrovarci, abbiamo avviato un

amarcord senza fine sulla nostra famiglia: abbiamo riso, pianto, cantato le canzoni della nostra infanzia, ritrovato i vinili 78 e 33 giri, le foto delle vacanze al Lido di Venezia, le lettere di Natale con i lustrini, i quaderni di scuola con la copertina nera, insomma tutto il repertorio degno di una seduta di psicoanalisi formato famiglia. Come rimpatriata è andata benone perché nonostante gli intenti avevamo bisogno di far rivivere i ricordi in libertà, senza pensare di portarceli subito a casa. Oggi è arrivato mio fratello Alberto da Torino, lui ha il compito più gravoso: affrontare la biblioteca di papà. Vogliamo donare all’Istituto Storico della Resistenza di Vicenza molti libri, pubblicazioni del babbo, documenti storici e anche il fondo per un premio intitolato a lui, Ettore Gallo. Nei fascicoli, ben catalogati da papà, ce n’è uno che Alberto mi passa, c’è scritto “Palazzo S. Croce restauro Carlo Scarpa”, me lo porto a casa, ma quando apro quella cartella mi sembra di sollevare il coperchio di un vecchio carillon. Quei disegni, in modo misterioso, mi riconsegnavano la voce tuonante del grande maestro, un tono un po’ burbero e asciutto, in netto contrasto con la voce della mamma che pregava Carlo Scarpa di essere più presente, di non lasciarla sola a sovrintendere il lavoro, anche se il restauro di Castelvecchio era più impegnativo. “…son su muger di Carlo Scarpa” quando la Nini telefonava a casa si presentava così e questa frase, così devota e schietta rimase nel nostro lessico familiare. Doveva essere il ’62, il restauro di Palazzo Brusarosco a Vicenza durò tre lunghi anni. Nel suo tavolo da lavoro, la mamma stava ore china su quei disegni del maestro a studiare le smussature degli infissi, le putrelle di

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sostegno, l’uso dei materiali. Poi incominciò a disegnare a sua volta, prima un mobile laminato e basso che si apriva sia davanti che dietro, poi un grande tavolo, poi un carrello portavivande, poi due sportelli che si aprivano nell’anti cucina con una particolare chiusura di chiara influenza scarpiana. Insomma, aveva capito che la lezione di Scarpa sul dettaglio non era affatto un dettaglio, ma dava corpo alla forma stessa dell’oggetto. Papà e Licisco Magagnato, che a quel tempo era già direttore del Museo di Castelvecchio, si telefonavano quasi tutti i giorni e dalle risate fragorose e soddisfatte si capiva che erano legati da un forte sentimento di affetto e condivisione. Alcune volte però la consueta telefonata diventava accesa e risentita: papà (senza successo) voleva responsabilizzare Licisco sul ritardo di Scarpa nel restauro della nostra casa, adducendo il buon motivo che era stato lui a presentargli il grande maestro. Avevano condiviso gli scenari politici del dopoguerra, la resistenza, il partito d’Azione, il matrimonio con due amiche inseparabili e avevano dato lo stesso nome al loro figlio maschio: Alberto. Licisco aveva “educato” Ettore all’arte contemporanea, sotto il suo consiglio papà acquistò molte opere, sempre più importanti, fino a poter contare una prestigiosa collezione.

2009

Ho chiamato Pino Tommasi per raccontargli del ritrovamento della cartella sul restauro di Scarpa, era entusiasta, mi consiglia di rivolgermi a Castelvecchio dove le opere di Scarpa vengono catalogate, restaurate e rese disponibili al pubblico. Mi sembra un’idea fantastica, papà sarebbe soddisfatto, il cerchio si richiude, tutto torna da dove è partito. Castelvecchio per me diventa il simbolo di quelle vite che si ritrovano, che trovano pace nella memoria di un luogo simbolico per tutti.

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ANNA GALTAROSSA

Il mostro di Castelvecchio, installazione di Anna Galtarossa per ArtVerona, 2008

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VITTORIO GREGOTTI

PER CARLO SCARPA. NEL 50° ANNIVERSARIO DI CASTELVECCHIO

Ho conosciuto come redattore di “Casabella” Carlo Scarpa negli anni ’50, in occasione di una sua pubblicazione sulla nostra rivista. Poi, anche per merito proprio del suo straordinario estimatore Liscisco Magagnato, siamo diventati amici. Un’amicizia che si è consolidata quando sono diventato nel 1974 responsabile del settore arti visive della Biennale, con lunghe spiegazioni che Carlo mi ha dato sui complicati meccanismi di quell’istituzione che conosceava molto bene. Ricordo anche che nel 1957, avevo parlato con Roberto Olivetti del negozio che Scarpa stava facendo per loro in piazza S. Marco. “Peccato – mi osservò Roberto Olivetti – che non finisca mai”. Qualche settimana dopo andai con Scarpa a vedere il cantiere del negozio quasi terminato. Ai miei complimenti Scarpa con bastone (e mantello) mi disse: “Si tutto bene, ma guarda il secondo e terzo gradino in marmo della scala: pessima lucidatura! Ma cosa vuoi, far le cose in fretta è un disastro”. Paradossale, ma aveva ragione lui.

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MARGHERITA GUCCIONE

Nel cuore del MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, c’è una sala espositiva dedicata a Carlo Scarpa, autore che tanto ha dato alla museografia e all’architettura italiana, diventando un punto di riferimento per tutti coloro che si occupano di architettura e della sua narrazione attraverso il lavoro sulle vicende del passato e l’interpretazione dello scenario presente e delle visioni per il futuro. Come emerge con evidenza cristallina aggirandosi tra le mura, nel cortile, nelle sale di Castelvecchio, l’azione progettuale di Carlo Scarpa si fonda in primo luogo su un lavoro di meditazione sulla storia: sul manufatto in sé e sulla sua presenza nella trama urbana, sulla collezione del museo, sul carattere e sulle modalità con cui le opere d’arte vi sono esposte. Ma tale lezione, essendo in grado di tradurre i molteplici linguaggi della storia “narrata” in un sistema comprensibile per l’osservatore attuale, è tutt’altro che limitata a quello specifico contesto e l’eco di questo esempio tanto significativo risuona ancora oggi negli spazi del MAXXI Architettura e accompagna il nostro lavoro quotidiano.

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FULVIO IRACE

“Ci si mette molto tempo per diventare giovani”, disse una volta Picasso e forse per questo Castelvecchio di Carlo Scarpa ci sembra un’opera eternamente giovane, cui il tempo sottrae anziché aggiungere anni. La sua grandezza si misura anche dalla sua freschezza. Dalla capacità di emettere messaggi che continuano ad impegnarci per essere decifrati, intellettualmente ed emotivamente. Labirinto e palinsesto: fatto di stanze e di strati. Ma soprattutto di percorsi che danno allo spazio una consistenza fluida, come un fiume d’aria dove i resti del passato galleggiano ad arte, rendendone unica la percezione. È la declinazione italiana della promenade architecturale: un viaggio tra le pieghe del tempo e dello spazio, accompagnati dai pesanti fantasmi di pietra che scorrono senza peso sul lungo tappeto della Galleria, traguardi scultorei lungo una speciale via sacra del museo. Castelvecchio è la quintessenza del progetto italiano: un minuzioso artigianato che rende alla materia il suo valore di spazio, tattile ed ottico insieme. Una visione possente, ma non univoca: che non si consuma nel flash di un istante, ma ha bisogno del tempo per essere apprezzata nella sua complessa e inesauribile sorpresa.

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MAXIME KETOFF

L’emozione di ritrovare questo luogo vent’anni dopo averlo visitato da studente. La più grande lezione di Scarpa è soprattutto non imitarla! Quanto è stato bello lavorare nelle sale di Castelvecchio. Camminare senza scarpe per godersi i rivestimenti. Sdraiarsi per terra per apprezzare le prospettive e i soffitti! Incontrare gli artigiani dell’epoca e lavorare di nuovo con loro. Ricevere l’accoglienza chaleureuse ad ogni arrivo di tutta l’équipe.

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MICHEL LACLOTTE

Plus qu’un hommage théorique, j’aimerais apporter ici la preuve visible de notre admiration pour Carlo Scarpa: le musée du Petit Palais d’Avignon, ouvert en 1976. On sait que ce bâtiment du XIVème siècle, modernisé à la fin du XVème siècle, avait été dévolu à la présentation des tableaux du Trecento et du Quattrocento regroupés de la collection Campana dispersée au XIXème siècle, ainsi que des peintures et des sculptures médiévales des musées de la ville. J’avais été vivement frappé par les créations muséographiques de Scarpa à Palerme, à Venise, et bien sûr, à Vérone. Ce qu’il proposait était alors vraiment neuf. C’est ce modèle, qu’avec l’architectedesigner, Alain Richard, nous avons suivi à Avignon, comme le démontre l’image de salles du Petit-Palais: de sobres panneaux d’accrochage dans l’espace et au mur, des socles et des supports métalliques linéaires, disposés dans un volume intérieur clair et dépouillé, des tableaux libérés de leurs bordures factices du XIXème siècle lorsqu’il s’agissait d’éléments de polyptyques. Bref un refus de tout esprit de pastiche, de reconstitutions d’époque, de period-rooms, mais la volonté d’attirer le regard sur l’œuvre elle-même. L’architecture des salles du Palais, les vues ouvertes par les fenêtres d’un côté sur le Rhône et de l’autre sur le Palais des Papes, tout celà offrait le plus éloquent des cadres historiques, comme c’était le cas dans les palais-musées revisités par Scarpa.

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MusĂŠe du Petit Palais, Avignon, 1976

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ORIETTA LANZARINI

CASTELVECCHIO, UNA LEZIONE VIVENTE

Da diversi anni, ormai, accompagno gli studenti dei miei corsi di Storia dell’architettura a visitare il Museo di Castelvecchio. E ogni volta accade qualcosa di particolare. A mano a mano che procedo nello spiegare le dinamiche seguite da Carlo Scarpa nella redazione di questo luogo straordinario, mi rendo conto che è il Museo stesso a mostrare, come una lezione vivente − coerentemente con gli scopi per cui è stato creato, ovvero educare coloro che ne percorrono gli spazi all’arte e alla bellezza −, il pensiero progettuale scarpiano. Me ne accorgo soprattutto dalle reazioni degli studenti: alla fine della visita, molti hanno compreso e si sono appropriati in qualche modo di quel pensiero, destinato a diventare, per alcuni, una fonte d’ispirazione per la loro professione futura. Io stessa, nonostante la mia confidenza con Scarpa, maturata in diversi anni di studio, sento di imparare ogni volta qualcosa di nuovo, che arricchisce non solo la mia cultura, ma il mio spirito. Per questo, sono grata a chi, con un impegno quotidiano e contro mille difficoltà, mantiene integro e vivo il Museo di Castelvecchio in modo tale che possa continuare generosamente a insegnare, a chiunque lo visiti, il valore insostituibile dell’arte per la vita civile e democratica di un Paese.

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SERGIO LOS

Venivo a Castelvecchio negli anni ’50, in moto con un amico artista, Gigi Carron, a ricercare quadri e sculture, a vedere gli interventi del mio professore, Carlo Scarpa. Quelle prime riflessioni sul pensare per figure, sul linguaggio delle immagini, che consentivano di intravvedere nell’arte una forma di conoscenza, si esercitavano su Altichiero, Pisanello, Mantegna, ma anche, naturalmente, sull’architettura: mio interesse primario. Divenni amico di Magagnato durante gli anni di Scarpa con il quale, di ritorno da Genova nell’autunno 1964, mi sono fermato a Verona per gli ultimi lavori di Castelvecchio fino all’inaugurazione. Nel 1971 ho collaborato con Enzo Mari alla mostra sul suo importante lavoro a Castelvecchio. Tante volte ho poi accompagnato visite di gruppi, speculando sui vari interventi di Scarpa. Quelle più recenti riguardano la mostra su Arrigo Rudi, che ho curato con Valeriano Pastor, Umberto Tubini e Barnaba Rudi. Di Castelvecchio, che resta uno dei luoghi centrali della mia formazione, ho poi scritto e parlato in varie occasioni. Grazie.

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SERGIO MARINELLI

CASTELVECCHIO A VERONA

Dietro le mura chiuse un tempo era la guerra Poi fu la luce Un varco nella storia della luce prigioniera Sopra la guerra

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ANDREA MASCIANTONIO

La scogliera di FĂŠcamp, una risalita impervia come la catalogazione dei disegni del Maestro

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LUCIANA MIOTTO

UN RICORDO DI CARLO SCARPA

In compagnia degli amici Rovetta, che l’avevano accompagnato a Parigi per la mostra del 1975, Scarpa era venuto a cena da noi a Meudon, in una fresca sera di maggio. Era stata una cena un po’ improvvisata poiché all’ultimo momento si erano aggiunti altri ospiti, così per accogliere tutti avevamo allestito nel soggiorno un’unica grande tavolata, composta in buona parte dalle nostre planches da disegno, coi relativi cavalletti. Tra gli amici di quella serata c’era anche Claude Parent, la cui presenza aveva un po’ intrigato o piuttosto incuriosito il professore, a causa della sua teoria della “architecture oblique”. Con un gesto pieno di allegria (avevamo tutti un po’ bevuto!), Scarpa gli aveva fatto notare come fosse difficile riempire di buon vino rosso un bicchiere tenuto obliquo. Quel gesto di sottile ironia critica a Parent mi aveva fatto subito pensare al profondo senso che Scarpa dava, nei suoi progetti, alla ricerca di quella sorta di punto d’appoggio e di riferimento che era invece la linea d’orizzonte, l’orizzontalità, e particolarmente nel progetto di Castelvecchio.

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L.M. In contemplazione della scultura di Santa Cecilia, 1983

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MARIA MORGANTI

La mostra L’unità di misura è il colore del 2010 nasceva in rapporto agli spazi architettonici del Museo di Castelvecchio, all’intervento di Carlo Scarpa e alla collezione del Museo: il primo luogo dell’arte che ho conosciuto e frequentato da bambina. L’idea è stata quella di rispettare un’intuizione di Carlo Scarpa. L’architetto spesso ci mostra il retro come fosse il fronte, ci fa vedere quello che di solito non vediamo. Ci porta di fronte passando dal retro. Il dietro diventa il davanti. Ho interpretato questa sensazione dello spazio e ci sono entrata con il mio gesto pittorico. Ho pensato alla mostra come fosse un attraversamento, una durata, un tragitto, una passeggiata nello spazio entro il quale ogni tanto si apre una relazione tra le mie opere e quelle del Museo. Disseminare. Indicare. Infilandosi piano piano negli spazi che il museo accoglie, nelle parti che il museo lascia liberi. Mettendomi spesso dietro alle cose, negli spazi che rimangono vuoti. Avvicinandosi alle opere, ascoltando, immettendosi nei vuoti, nelle pause, negli interstizi, nelle fessure, nel retro delle opere, dietro e ai margini. Sparpagliandosi, accumulando e spargendo. La sedimentazione, l’esperienza che produce materia, il lavoro accumulato nel tempo dentro lo studio si sparge nel museo e prende posto.

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Maria Morganti. L’unità di misura è il colore, Museo di Castelvecchio, 2010-2011 Foto di Francesco Allegretto

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CLETO MUNARI

Ho vissuto l’esperienza di Castelvecchio a posteriori, grazie alla conoscenza e alla frequentazione dei protagonisti della vicenda. Sono stato amico di Licisco Magagnato, vicentino come me, che ha avuto un grande ruolo in qualità di committente intelligente, avveduto, capace e ambizioso: qualità che gli conferivano un rilevante peso decisionale, e grazie alle quali poté imporre Carlo Scarpa. A partire dal ’72, quando si trasferì a Vicenza nelle scuderie di Villa Valmarana ai Nani, fino al fatale ’78, ebbi la fortuna di frequentare intensamente Scarpa. Fin dal mattino la sua casa era sempre aperta agli ospiti; stavo ad assistere mentre lavorava o lo accompagnavo in macchina nei cantieri, da Villa Ottolenghi alla Banca Popolare di Verona alla Tomba Brion. Avevo già iniziato a interessarmi al mondo del design milanese, e l’incontro con Scarpa è stato decisivo nell’avviare la realizzazione di oggetti in argento: a partire dalla richiesta che gli feci, nel ’72 di progettare un servizio di posate. Il disegno arrivò il 6 novembre 1977, le posate sono entrate in produzione e sono presenti ora in molti musei. Quelli assieme a Scarpa sono stati sei anni di grande gioco e di grande divertimento, nelle occasioni conviviali, nelle quali era scoppiettante. Teneva molto alle scarpe (nomen omen), e assieme ne facemmo realizzare un paio “da caffè”, in pelle lucida bianca e nera, da un artigiano di Bologna. Ogni volta che torno a visitare il Museo, il suo incedere elegante risuona nei miei ricordi.

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RICHARD MURPHY

1982

My first journey to Italy. Scarpa? Only a vague memory of a name once mentioned in a University studio conversation; nothing in the library as there were no books on him at that time. A chance visit to Verona and then to the Castlevecchio and, by huge good luck, Magagnato’s exhibition of these strange architectural drawings, drawings like no others I had ever seen. I bought the catalogue and spent an extraordinary day oscillating between museum and exhibition. A day of revelations, but why was this building, and this architect, so little known? A return visit in 1985, this time a conversation with Magagnato that planted a seed which turned into a full measured survey of the building, from overall plans and elevations etc. right down to those beloved details. “Uno projetto titanico” said architetto Tommasi! And then many more visits and research and an analytical book on the drawings and the building published in English and then Italian, three exhibitions in Edinburgh, London and Verona itself, a second book on the Querini Stampalia, a one hour TV documentary on Channel 4 and invitations to lecture all over the world. And today? Of course in my practice in Edinburgh, Scarpa’s hidden hand has been at work in many buildings here. That chance visit in 1982 changed my life and my architecture and perhaps in a small way may have changed architecture in Edinburgh too. His collaborator, Bepi Davanzo once told me that there were those who learnt and those who copied from the master: scarpiani e scarpisti. Although I never met him I hope I’m a scarpiano.

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Richard Murphy, rilievo della sezione trasversale dell’area espositiva della statua equestre di Cangrande, 1986-1987

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FRANCO ORIGONI

Ricordo della mostra Giovanni Mardersteig stampatore, editore, umanista sala Boggian, Museo di Castelvecchio, 1989

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ALBERTO OTTOLENGHI

La mia conoscenza reale dell’artista risale a metà degli anni ’70, quando mio padre Carlo Ottolenghi, su consiglio dell’amico e storico dell’arte Giuseppe Mazzariol, ritenne di dover affidare al professor Carlo Scarpa la realizzazione di Villa Ottolenghi a Bardolino, sul lago di Garda. Lo scopo era quello di costruire una piccola Venezia moderna in miniatura; una Venezia in cui i giovanissimi nipoti Michele e Chris, pur vivendo in campagna – nel veronese –, potessero fruire degli stimoli culturali di cui avevano goduto i figli Alberto ed Elisabetta abitando a Venezia. Non è interessante sottolineare quanto fosse autoritario con i collaboratori e dolcissimo con i miei bambini; cui era solito mostrare i denti incisivi dicendo, sorridendo, che erano i denti di un coniglio! Carlo Scarpa ha voluto – preliminarmente e in itinere – conoscere e assecondare i desideri di coloro che avrebbero abitato nella “sua” casa. Ha di fatto costruito: a) una casa che doveva inserirsi/mimetizzarsi nella natura circostante, a mo’ di castello diroccato (e con l’estremità sud proiettata nel vigneto); b) una casa in parte circondata dall’acqua; da cui la costruzione di vasche interconnesse fra loro; c) una casa “trasparente”, in cui l’estensione e la disposizione della parte delimitata da vetri avrebbe consentito di vedere il tramonto della luna piena sul lago – in tarda nottata – anche dal lato est.

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ORHAN PAMUK

“Quando salii la scalinata del Museo di Castelvecchio a Verona e vidi la luce setosa con cui l’architetto Carlo Scarpa ha illuminato le statue, mi fu chiaro per la prima volta che la felicità che donano i musei non riguarda solo la collezione, ma anche l’armonia nella disposizione di oggetti e dipinti”.*

* Da Il museo dell’innocenza, Einaudi 2009 (traduzione di Barbara La Rosa Salim)

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VALERIANO PASTOR

CARLO SCARPA E GIOVANNI BELLINI. UN RICORDO

Era l’alba. Dopo una giornata e una notte di lavoro a sistemare la mostra Ritratto di Venezia – un allestimento affrettato, agosto ’73 nel Museo Correr e Salone dell’Ala Napoleonica – lo sguardo di riposo su piazza San Marco ci rivelò il puro dialogo tra i suoi monumenti mentre il cielo si colorava. Spuntava l’azzurro di berillio: “come i cieli di Giovanni Bellini” disse Scarpa. Bellini era l’artista più amato, un referente nei problemi più ardui. Nel fondo delle ragioni considero sia un tratto essenziale nella sua pittura l’aver conferito sacralità al paesaggio veneto, tale da accogliere come “vero” il luogo per le rappresentazioni della sacralità religiosa. Il richiamo di Bellini, spontaneo nei fatti, si congiungeva al senso della mostra su cui stavamo lavorando da alcune settimane, toccava il senso intimo del Ritratto di Venezia: la sua “sacralità civile”. Tale marca del sacro vedo richiamata dall’ultimo Ruskin in St. Mark’s Rest, 1884, quale forza della vita civile di Venezia, presente al mondo nei primi secoli della sua formazione – oggi impallidita.

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DA ESPERIENZE E DA CARLO SCARPA & CASTELVECCHIO DI R. MURPHY Il lavoro di Scarpa non seguiva il tempo del comune procedere: la conoscenza del problema posto in un certo contesto aveva continui ritorni e durava il tempo del progetto, che a sua volta non seguiva l’ordinario discendere da idee generali per definire dettagli esecutivi. Spunti generali costruiti sulla conoscenza del luogo-problema incontravano idee di dettaglio che aprivano serie d’itinerari la cui esplorazione mutava ciò che negli abbozzi più precisi appariva acquisito. Taxis ataktos* può essere la definizione del modo, ma non nel senso primo dell’ossimoro dato dalla traduzione: la ricerca progettuale mirava al raggiungimento di un sistema della forma appropriato a caratterizzare l’opera nel suo senso destinale, come a disvelare l’estetica quale processo tanto di conoscenza – stare presso le cose nell’intreccio di altri procedimenti tecnici e di sapienza – concedendo contemplazione critica aperta all’artisticità, alla produzione pertinente, “vera”. Meta ultima forse non raggiungibile, ma che doveva essere stretta d’un assedio la cui strategia si rispecchiava nell’esito della forma: taxis ataktos.

* Taxis: ordine, disposizione, ordinamento (in senso 1. militare, 2. discorsivo e tecnico scientifico, 3. sociologico) Ataktos: disordinato, confuso (nelle tre accezioni)

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VINCENZO PAVAN

DUE RELIQUIE

Inverno 1962

Sotto lo sguardo vigile di Licisco Magagnato hanno inizio gli scavi del vallo scaligero nel cortile di Castelvecchio. Ruspa e piccone sveleranno presto l’ampia foderatura protettiva delle lastre di Pietra di Prun nelle spesse murature medievali.

Estate 1967

Carlo Scarpa annota alcune riflessioni in forma di schizzi sul margine di una tavola di esercitazione allo IUAV, durante una revisione del mio titubante progetto di museo a Caorle. Per cingere l’area perimetrale dell’edificio, il Maestro suggerisce di usare grandi lastre di Pietra di Prun posate diagonalmente su una canalina di cemento, rette solo da due punti d’appoggio senza necessità di ancorarle al calcestruzzo. Una soluzione pratica, leggera ed elegante. Elementare, Watson! 88


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GUIDO PIETROPOLI

A Verona le mattine d’estate conservano la frescura e le pietre hanno la lucentezza abbagliante dei selciati appena lavati; grandi lastre di Prun mandano riflessi rosa giallo che contrastano con la grana degli intonaci e le decorazioni di portali in Orsera. Entrai a Castelvecchio cinquant’anni fa una mattina d’estate con il cortile in ombra e il sole da est. Solo ora riconosco il legame che tiene Castelvecchio e l’Alhambra: il patio dei mirti e la lunga siepe di bosso, il Quarto Dorado, le vasche d’acqua e le pietre luminose. Licisco Magagnato mi disse “è molto preso dall’architettura islamica” e parlava di Carlo Scarpa che stava lavorando per lui. Ma io non capivo, perché cercavo le forme e non lo spirito del luogo; non avevo contezza dell’origine del gotico: delle finestre che si aprono come tende, del miracolo dell’acqua, della luce ipetrale, dell’ombra, della decorazione geometrica che coglie l’essenza della forma... eppure era tutto lì davanti a me. Quanti doni fino dall’inizio: la corsia d’ingresso, calma, maestosa, accompagnata dalle fontane e dal ricco broccato del sacello sul fondo, il corno d’oro del torello e la frescura dei muschi sulla parete ad est, la vasca nella vasca e, nel profondo, i pesci rossi di Paul Klee. Come resistere ad una bellezza così serena?

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ANTONIO PIVA

PER IL MUSEO DI CASTELVECCHIO A VERONA

Una riflessione sul valore della continuità dell’opera di Licisco Magagnato e Carlo Scarpa, coautori di uno dei musei più interessanti del ’900, dal punto di vista della museologia e della museografia, mi pare necessaria, ora più che mai, in occasione del cinquantenario dalla sua realizzazione. Per continuità intendo il miracolo d’essere giunto, il museo, ai giorni nostri, senza modifiche ma con ineccepibile coscienza che l’essere museo concluso sia una ricchezza che proietta l’istituzione nella storia quale documento unico inalienabile. I meriti di questo miracolo vanno attribuiti alle direzioni che si sono succedute a Licisco Magagnato che ha formato una scuola di pensiero cui hanno potuto attingere i direttori venuti dopo di lui. La conservazione, in questo caso, di principi e contenuti rappresenta il lavoro di tutti coloro che hanno creduto nella forza di una istituzione che la stessa città di Verona ha assunto come simbolo della sua storia culturale recente. Ho in diverse occasioni ricordato questo singolare esempio di coerenza culturale a proposito del progetto di modifica del museo del Castello Sforzesco di Milano. Nato quest’ultimo negli stessi anni di Castelvecchio sta per essere, sala dopo sala, smontato e privato della sua opera più nota, la Pietà Rondanini di Michelangelo, che dovrà essere trasferita in altra sede

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per renderla meglio visibile. L’attuale amministrazione milanese lamenta una scarsa flessibilità del museo di cui stiamo parlando dimenticando i principi e gli orientamenti manifestati dall’ordinatore Costantino Baroni e dai progettisti Belgiojoso, Peressuti, Rogers nel momento della sua apertura. Museo pure questo concluso, ha rappresentato sino ad oggi il risultato di un pensiero museologico e museografico della scuola milanese riconosciuta universalmente. Due storie attuali diverse incentrate la prima sul tema della continuità e sui valori della storia, la seconda sulla lenta cancellazione, sull’interruzione di principi e linguaggi che avranno poco a che fare con il passato scompaginato da opportunità effimere e devastanti. Ero ancora un ragazzo quando lessi negli anni ’50 un piccolo saggio di Licisco Magagnato su “Comunità” di Adriano Olivetti, in cui chiariva ruoli e prospettive della museologia e della museografia proiettati nel futuro. Pagine indimenticabili che uniscono nella comprensione chi le ha lette. Da quelle pagine si è aperta una finestra verso il mondo che ha distrutto i complessi di inferiorità verso altri paesi più ricchi e aggiornati. Da quelle pagine sono scaturite energie, idee non superate dal tempo, un senso della storia costruttivo. La storia è vita, fonte indistruttibile delle nostre risorse.

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KRZYSZTOF POMIAN

Le musée de Castelvecchio reste associé pour moi à la personne de Licisco Magagnato que j’ai rencontré au début des années 1980 à l’occasion de mes recherches sur les collectionneurs vénètes. Nous avons immédiatement sympathisé. Au cours de nos rencontres, nous avons beaucoup parlé de la Pologne qui l’intéressait vivement; il m’a offert une photocopie de Lettere slave de Mazzini que je garde toujours dans mes papiers. Et nous parlions aussi, évidemment, des collections vénitiennes et vénètes. Je ne crois pas qu’il ait jamais évoqué son passé de résistant. Mais son attitude pro-européenne et antifasciste transparaissait au hasard des conversations. C’est encore lui qui m’a parlé le premier de Carlo Scarpa dont à l’époque je ne connaissais même pas le nom. Et c’est lui, je crois, qui a attiré mon attention, parmi les réalisations de Scarpa, sur le tombeau des époux Brion à Asolo, qui m’a profondément impressionné. C’est seulement après sa mort que j’ai pris connaissance de sa biographie. Son souvenir vit dans ma mémoire comme celui d’un homme généreux et droit, un exemple de ces intellectuels à la fois italiens et européens qui savaient unir une compétence pointilleuse de leurs sujets professionnels à une exceptionnelle largeur des horizons culturels.

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PIERRE ROSENBERG

Un architecte, aujourd’hui, ne peut prétendre au rang de grand architecte s’il n’a pas construit ou au moins rénové ou réhabilité un musée. Carlo Scarpa a dans ce domaine eu un rôle pionnier. Il a compris parmi les premiers qu’il y avait symbiose entre l’architecte et le musée. J’ai, en outre, pour Carlo Scarpa une tendresse particulière car il a cru et magnifiquement défendu le verre de Murano.

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VALTER ROSSETTO

L’immagine della statua equestre di Cangrande della Scala vista dall’esterno del muro di cinta di Castelvecchio attraverso una apertura rappresenta sinteticamente e in modo emblematico il lavoro di Carlo Scarpa. Per posizionare la scultura sull’alto basamento di calcestruzzo il professore si era infatti servito anche di questo insolito ed inatteso cono visivo con il punto di vista ubicato all’esterno del museo. Il suo modo di leggere ed interpretare l’opera d’arte, di dialogare con le preesistenze storiche, i materiali e i colori della città, di dare contenuti alle funzioni espositive, trova nel collocamento di Cangrande all’interno di Castelvecchio una spettacolare risposta che inizia a coinvolgere la persona fin dall’esterno del museo e lo accompagnerà per tutta la visita. I risultati raggiunti in questo lavoro non sono mai semplicistici o scontati ma esprimono molteplici contenuti composti con una naturalezza, un linguaggio formale e una sapienza costruttiva ineguagliati.

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Foto di Valter Rossetto

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ALESSANDRO SCANDURRA

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TOBIA SCARPA

“Fai in fretta a togliermi questo peso che non ce la faccio più a portarlo!” Tobia

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FRANCA SEMI

La statua che rappresenta Cecilia, del XIV secolo, e quindi contemporanea a quella di Cangrande, ha avuto da Carlo Scarpa una collocazione singolare per più aspetti, voluti o meno ma tutti intriganti. È certamente voluto l’aspetto di Cecilia, che oppone al visitatore le spalle: sembra che voglia ricordarci la sua verginale notte di nozze, con un lungo e pudico abito e i capelli sciolti in un’acconciatura notturna con due lunghe trecce. Scarpa notava di aver scelto di porre di spalle la statua riconoscendo nel retro della statua la parte più riuscita: “tanto ad osservarla di faccia ci si arriva per forza!”. Intriga anche Cangrande volto verso la Galleria delle Sculture: come volesse offrire anche a Cecilia, a lui rivolta, quel “benigno riguardo” che egli offrì a Dante. Infine: Cecilia posta vicina alle finestre. Potrebbe essere suggestivo vederla a luci spente, in una notte di luna piena riflessa all’esterno nell’acqua “un po’ come la luna di Venezia”, lievitare piano piano nel silenzio.

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CARLA SONEGO

Prendersi cura del monumento, dell’architettura, delle opere d’arte e “porgerle” al visitatore sono due modalità del lavoro di Scarpa che trovano una possibile compiutezza nel museo di Castelvecchio. In un sapiente equilibrio tra conservazione e soluzioni ardite, tra ricuciture e “scarti” inediti, vuole essere un luogo d’arte, di bellezza e di memoria inserito nel fluire del tempo con le problematiche ad esso connaturate. Opera fondamentale della museografia italiana, e non solo, ha suscitato apprezzamenti e pareri discordi ed è in grado anche oggi, con i suoi “50 anni” di porre questioni sostanziali che vanno ascoltate e approfondite.

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KALI TZORTZI

CREATING SPACES THROUGH OBJECTS

Analysing space in the Castelvecchio Museum, it is striking how the arrangement of objects in the layout consistently discourages a static point of view and creates spaces that visitors explore. In the Pisanello room, for example, Carlo Scarpa first invites the viewer to enter, guiding his view to the back of an easel, (fig. 1, point 1), and then offers him a series of visual experiences that unfold like shots in a montage sequence: from point 3 the eye is directed towards the visual composition of the paintings hung on the wall; from point 4, the paintings already seen recede to the background to allow the paintings on easels, out of sight until then, to come to the fore. This unfolding of the display creates a slowly-paced rhythm of perception, which is reflected in how visitors are observed to explore the space and view the exhibits (fig. 2), changing directions and viewpoints, and shaping locally encircling orbits of movement that fill the space.

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GIORGIO VIGNA

Da ragazzo frequentavo spesso il Museo di Castelvecchio. Ne ricevevo in dono una grande pace, sia dalle opere esposte sia dall’intervento di Carlo Scarpa. Amavo sedermi vicino alla fontana nel cortile delle Armi: in quell’acqua mobile si rifletteva la mia irrequietezza che dialogava con il guizzo dei pesci rossi. Un’immagine indelebile di colore e movimento. Tornatoci da adulto, ho trovato un vuoto. L’acqua era immobile e i pesci voluti da Scarpa spariti. Mi è sembrato naturale marcare quell’assenza quando mi è stata proposta, da Paola Marini, la mostra Stati Naturali. È nata così Acquaria, con l’umiltà di chi riannoda un filo con il progetto del Maestro: sassi-bolla animano la fontana silenziosa, l’incandescenza del vetro in lavorazione evoca il guizzo dei pesci che si sono dileguati nel tempo lasciando una piccola traccia trasparente.

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Acquaria (particolare) Giorgio Vigna. Stati Naturali Museo di Castelvecchio, 2013-2014 Foto di Francesca Moscheni

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VITALE ZANCHETTIN E MADDALENA SCIMEMI

La storia di Castelvecchio è lunga, e per questo ci piace. Il mondo di Castelvecchio è aperto, e per questo ci entriamo. I colori di Castelvecchio sono forti, e per questo li riconosciamo. La vita di Castelvecchio è come la nostra: senza paura, con tanta energia.

Clementina e Isabella Zanchettin

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AUTORI

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Giovanni Agosti storico dell’arte, Milano

Peter Eisenman architetto, New York

Sandro Bagnoli architetto, Firenze

Alberto Erseghe architetto, Vicenza

Juan Navarro Baldeweg architetto, Madrid

Toni Follina architetto, Treviso

Gioacchino Barbera direttore della Galleria Regionale della Sicilia, Palermo

Carlo Fratta Pasini presidente Banco Popolare, Verona

Mario Botta architetto, Mendrisio

Hélène de Franchis gallerista, Verona

Filippo Bricolo architetto, Sommacampagna (VR)

Isabella Gaetani di Canossa presidente Amici dei Civici Musei d’Arte di Verona

Richard Bryant fotografo, Londra Luigi Calcagni e Luciano Cenna architetti, Verona Pino Castagna artista, Costermano (VR) Libero Cecchini architetto, Verona Aldo Cibic designer, Vicenza e Milano Maurizio Cossato ingegnere, Verona Marisa Dalai Emiliani storica dell’arte, Roma Maria Grazia Eccheli architetto, Verona

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Donata Gallo regista, Roma Anna Galtarossa artista, San Pietro in Cariano (VR) e New York Vittorio Gregotti architetto, Milano Margherita Guccione direttore MAXXI Architettura, Roma Fulvio Irace storico dell’architettura, Milano Maxime Ketoff* architetto, Parigi Michel Laclotte storico dell’arte, già direttore del Musée du Louvre, Parigi


Orietta Lanzarini storica dell’architettura, Udine

Guido Pietropoli architetto, Rovigo

Sergio Los architetto, Bassano del Grappa (VI)

Antonio Piva architetto, Milano

Sergio Marinelli storico dell’arte, già direttore dei Civici Musei d’Arte e Monumenti di Verona Andrea Masciantonio architetto, Verona Luciana Miotto architetto, Parigi Maria Morganti artista, Venezia Cleto Munari designer, Vicenza Richard Murphy architetto, Edimburgo Franco Origoni architetto, Milano Alberto Ottolenghi medico, Bardolino (VR) Orhan Pamuk scrittore, Istanbul Valeriano Pastor architetto, Venezia Vincenzo Pavan architetto, Verona

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Krzysztof Pomian storico e filosofo, Parigi Pierre Rosenberg storico dell’arte, già direttore del Musée du Louvre, Parigi Valter Rossetto architetto, Verona Alessandro Scandurra architetto, Milano Tobia Scarpa architetto, Mogliano Veneto (TV) Franca Semi architetto, Venezia Carla Sonego storica dell’architettura, Venezia Kali Tzortzi museologa, Atene Giorgio Vigna artista, Milano Vitale Zanchettin e Maddalena Scimemi storici dell’architettura, Venezia

* Il contributo di Maxime Ketoff è stato ritrovato dopo la sua scomparsa sul suo tavolo di lavoro da Marie Petit


APPARATI

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TRADUZIONI

JUAN NAVARRO BALDEWEG Vi invio un breve testo, un estratto della mia prefazione al libro di Francisco del Corral, Agua, esencia del espacio en la obra de Carlo Scarpa. Spero vi possiate servire di questo piccolo contributo per il cinquantesimo anniversario del meraviglioso Museo di Castelvecchio. Juan “Venezia è un buon punto di riferimento quando si tratta di far luce sui processi creativi di Carlo Scarpa. La città è affiorata tra correnti marine e foci di fiumi: nella laguna la comunione vitale e spontanea di materia e acqua ha plasmato un paesaggio unico che ha ispirato l’architetto. Il processo di solidificazione da cui è nata Venezia si rispecchia nell’originale maniera di pensare di Scarpa, nel suo modo di concepire l’architettura e i propri obiettivi come espressione di un’evoluzione temporale [...] La città scaturita e avviluppata dall’acqua è il luogo ideale per entrare in confidenza con la luce, i riflessi, il suono e lasciarsi conquistare dall’esuberante sensualità emanata dalle circostanze fisiche. Tutti questi stimoli si fondono nell’opera di Scarpa. La sua architettura si distacca dalla città e confluisce in essa: è un microcosmo che rimanda a qualcosa di assai più singolare e vasto, a un macrocosmo [...] Le strade di Venezia sono d’acqua, sono labirinti di specchi e trasparenze. Venezia è anche vetro. Non c’è da stupirsi che le sue prime opere siano state plasmate in questo materiale [...] Sono pezzi che sembrano sorgere dal nulla e acquisire consistenza poco a poco, per ostentare infine la raggiunta tridimensionalità. La morbidezza amorfa si tramuta in forma solida, perfetta e fragile. La magia dei lavori di questo tipo deriva dagli stessi processi metamorfici che hanno sempre contraddistinto il pensiero e la mano dell’architetto”.

MICHEL LACLOTTE Più che dilungarmi in un omaggio astratto vorrei citare qui la prova visibile della nostra ammirazione per Carlo Scarpa: il museo del Petit Palais di Avignone, inaugurato nel 1976. Questo edificio trecentesco, rinnovato alla fine del Quattrocento, era destinato a ospitare i dipinti coevi appartenuti alla collezione Campana dispersa nell’Ottocento,

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nonché tavole e sculture medievali provenienti da altri musei cittadini. Ero stato profondamente colpito dalle creazioni museografiche di Scarpa a Palermo, Venezia, e, naturalmente, a Verona. Ciò che l’architetto italiano proponeva era allora davvero nuovo. Ad Avignone, insieme all’architetto-designer Alain Richard, decidemmo di seguire il suo esempio, lo testimonia questa immagine delle sale del Petit Palais: sobri pannelli nello spazio e a muro, basi e supporti metallici lineari collocati all’interno di un volume terso e spoglio, opere liberate dalle cornici ottocentesche, del tutto posticce giacché racchiudevano tavole appartenenti a vari polittici. In breve, in quell’intervento rigettavamo ogni tentazione di pastiche, di ricostruzioni d’epoca, di period-rooms, e rimarcavamo la volontà di attirare lo sguardo sull’opera in sé. L’architettura delle sale, gli scorci sul Rodano da un lato e sul Palazzo dei Papi dall’altro costituivano da soli – proprio come avveniva nei palazzi-museo rivisitati da Scarpa – il più eloquente degli inquadramenti storici.

RICHARD MURPHY 1982. Il mio primo viaggio in Italia. Scarpa? Solo il vago ricordo di un nome citato durante una conversazione accademica; nessuna traccia di lui in biblioteca perché non esistevano libri su Scarpa all’epoca. Una visita occasionale a Verona mi porta al Castelvecchio, dove ho l’enorme fortuna di imbattermi nella mostra di Magagnato su questi strani disegni architettonici, disegni come non ne avevo mai visti. Compro il catalogo e trascorro una giornata straordinaria, tra la mostra e il museo. Una giornata rivelatrice. Ma perché quell’edificio e l’architetto che lo aveva creato erano così poco noti? Torno in Italia nel 1985 e questa volta ho una conversazione con Magagnato perché nel frattempo il seme da lui piantato era cresciuto in me fino a trasformarsi in un rilievo meticoloso dell’edificio, dal progetto generale ai prospetti, fino ai dettagli che tanto amavo. “Un progetto titanico”, esclamò l’architetto Tommasi! E poi molte altre visite e ricerche; un libro sui disegni e l’edificio pubblicato in inglese e in italiano, tre mostre – a Edimburgo, a Londra e nella stessa Verona –, un altro libro

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sulla Querini Stampalia, un documentario televisivo di un’ora per Channel 4 e vari inviti a tenere conferenze in tutto il mondo. E oggi? Naturalmente l’esempio di Scarpa è stato importante nella mia pratica professionale qui a Edimburgo e ha improntato molti dei miei progetti. Quel viaggio del 1982 ha cambiato la mia vita e la mia architettura e forse in piccola parte anche l’architettura di Edimburgo. Il collaboratore di Scarpa Bepi Davanzo una volta mi disse che c’erano quelli che imparavano e quelli che copiavano dal maestro: gli scarpiani e gli scarpisti. Anche se non l’ho mai incontrato di persona, spero di essere uno scarpiano.

KRZYSZTOF POMIAN Il Museo di Castelvecchio è legato per me alla figura di Licisco Magagnato che ho conosciuto nei primi anni Ottanta, durante le mie ricerche sui collezionisti veneti. Abbiamo subito simpatizzato. Nel corso dei nostri incontri discutevamo spesso della Polonia, un argomento che lo appassionava; mi dette una fotocopia delle Lettere slave di Mazzini che conservo ancora tra le mie carte. Parlavamo anche, ovviamente, delle collezioni veneziane e venete. Non mi pare che con me abbia mai accennato al suo passato nella resistenza. Ma nel conversare non faceva certo mistero delle proprie convinzioni filoeuropee e antifasciste. È stato proprio lui a parlarmi per primo di Carlo Scarpa, un architetto di cui all’epoca non conoscevo neppure il nome. Ed è stato sempre lui, mi pare, a indirizzare la mia attenzione – fra gli altri progetti di Scarpa – sulla Tomba Brion ad Asolo, un’opera che mi ha profondamente impressionato. Solo dopo la sua morte ho saputo delle sue vicende biografiche. Conservo di lui il vivo ricordo di un uomo generoso e retto, un perfetto rappresentante di quegli intellettuali – italiani ed europei a un tempo – che sapevano unire alla competenza puntigliosa nel rispettivo ambito professionale l’eccezionale ampiezza dei propri orizzonti culturali.

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PIERRE ROSENBERG Oggi un architetto non può assurgere al rango di grande maestro se non ha costruito o almeno rinnovato o ammodernato un museo. Carlo Scarpa ha svolto in questo campo un ruolo pionieristico. È stato tra i primi a rilevare il rapporto simbiotico che esiste tra l’architetto e il museo. Provo per Carlo Scarpa un particolare affetto anche perché ha sempre amato e magnificamente sostenuto il vetro di Murano.

KALI TZORTZI Creare spazi attraverso gli oggetti Analizzando il Museo di Castelvecchio, si rimane sorpresi dalla mancanza di un punto di vista statico nell’organizzazione degli spazi, che sembrano creati apposta per essere esplorati. Nella Sala del Pisanello ad esempio, Scarpa invita il visitatore a entrare, guidando il suo sguardo sul retro di un cavalletto (fig.1, punto 1), per poi offrirgli una serie di esperienze visive che si succedono come inquadrature in una sequenza cinematografica: dal punto 3 l’occhio è condotto verso la composizione visiva dei dipinti appesi alla parete; dal punto 4, i dipinti già osservati recedono in secondo piano lasciando il posto ai quadri collocati sui cavalletti, fino a quel momento fuori dalla percezione visiva. Questo svolgimento crea un ritmo lento a livello percettivo che si riflette nel modo in cui i visitatori esplorano lo spazio e osservano gli oggetti esposti (fig. 2), cambiando direzione e punti di vista, e disegnando intorno ad essi percorsi circolari che riempiono lo spazio.

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ARCHIVIO CARLO SCARPA

I disegni di Carlo Scarpa e la documentazione fotografica sono conservati all’Archivio Carlo Scarpa del Museo di Castelvecchio Responsabile: Alba Di Lieto con Ketty Bertolaso www.archiviocarloscarpa.it

II-III di copertina Particolare del prospetto frontale per il rivestimento esterno del Sacello, 1962-64 (inv. 31682) pagg. 26-27 Particolare della sezione trasversale della sala d’entratauscita del museo in corrispondenza della scala d’uscita, 1961-64 (inv. 31597) pag. 31 Prospetto e sezione del supporto della statua di Cangrande, 1964 (inv. 31586) pag. 33 Studio per il supporto della scultura Madonna con il Bambino nella sala 3 della Galleria delle Sculture,1962-64 (inv. 31691) pag. 39 Planimetria generale della sistemazione del giardino, 1962-64 (inv. 31608r) pag. 43 Schizzo assonometrico per il supporto della statua di Cangrande con la texture del calcestruzzo e i profili metallici,1962-64 (inv. 31535)

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pag. 49

pag. 83

Schizzo prospettico della facciata nord dell’ala della Galleria e del cortile, 1959-62 (inv. 32140)

Studio in assonometria per il passaggio tra la sala di lettura della biblioteca e l’ufficio al piano terra della torre nord-est, 1965-69 (inv. 32055)

pag. 51 Varie ipotesi per il basamento della statua di Cangrande, 1961-64 (inv. 31642) pag. 55 Studio per il supporto della statua di Cangrande,1961-64 (inv. 31584) pag. 65 Schizzo prospettico per la collocazione del Polittico della Passione di Paolo Morando detto il Cavazzola nella sala 20 al primo piano della Galleria dei Dipinti,1962-64 (inv. 31731) pag. 77 Prospetto frontale e studi per i supporti espositivi del gruppo della Crocifissione nella sala 4 della Galleria delle Sculture, 1962-64 (inv. 31700)

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pag. 89 Prospetto frontale e studi per il rivestimento esterno del Sacello, 1962-64 (inv. 31681) pagg. 106-107 Prospetto interno del serramento e dei pannelli per la loggia gotica della Galleria delle Sculture, 1960-64 (inv. 31920) pagg. 110-111 Appunti di Carlo Scarpa su un disegno per la Galleria delle Sculture, 1960-64 (inv. 31595)


Finito di stampare nel mese di dicembre 2014


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